giovedì 8 marzo 2007


l'Unità 11 marzo 1991
Un intervento polemico sul film di Bellocchio "La condanna"
Macché fantasia così si giustifica lo stupro
di Carol Beebe Tarantelli


Nel suo nuovo film, La condanna, Bellocchio mette in scena la fantasia maschile della seduzione violenta. Un uomo e una donna sono chiusi di notte a Villa Farnese. Lui si impossessa di lei con la forza; lei resiste ma, accesa dal desiderio di lui, si abbandona al rapporto. In un secondo momento lo accusa di averla violentata: lui viene processato e (contro ogni canone del realismo) condannato.
Per il tema che tratta, questo film è destinato a suscitare disagio nelle donne. Non perché insceni, approvandolo, uno stupro (la donna acconsente); ma perché questa fantasia sessuale maschile è lo scenario attraverso il quale la nostra cultura “legge” la terribile realtà dello stupro. È immaginato come l’irruzione di un irrefrenabile desiderio sessuale maschile, un desiderio che, in fondo, la vittima, anche se lacerata e sanguinante, riconosce e corrisponde (come si suol dire, se l’è voluta). Questo modo di vedere lo stupro, lo comprende e implicitamente lo giustifica. Mette un filtro di fantasia tra noi e la realtà dello stupro.
Nella realtà, lo stupro (per quanto si riesce a capirlo, dato che gli studi sugli stupratori sono pochi, anche se molto significativi) non corrisponde affatto a questo scenario. Anzi, lo stupro non deriva dall’eccesso di desiderio sessuale, ma dal desiderio di sopraffazione, di distruzione della femminilità della vittima; è un atto di violenza in cui il pene è usato come arma.
Dato, però, che questa fantasia è così fondante della nostra cultura, forse faremo bene a guardarla più da vicino. Ci sono due fantasie sessuali adolescenziali – una maschile e una femminile – che sono variazioni su questo tema e che sono molto diffuse anche nelle espressioni culturali, tanto da essere parte strutturante del nostro immaginario sessuale. Quella maschile – che è quella rappresentata da Bellocchio – suona così: un uomo ha un desiderio sessuale travolgente per una donna. Lei è indifferente. Lui si impone; lei resiste. Ma poi viene trasportata dalla passione di lui, che risveglia una passione travolgente anche in lei. Questo incontro lo fa rinascere. La fantasia femminile è per certi versi simile e, nella sua versione più elaborata, è familiare nelle infinite variazioni sul tema classico del romanzo rosa. Lui è l’eroe scuro, forte, tenebroso, a volte anche violento. Vede una donna da lontano e, fulminato dalla bellezza della sua anima, attraversa distanze immense per inseguirla. La rapisce ma lei lo aiuta a trasformare la sua forza in protettività, la sua violenza in tenerezza. Duro verso il mondo, con lei è vulnerabile, è eternamente sorpreso e grato per la dolcezza con cui tocca le ferite che gli ha procurato la vita.
Fantasie come queste, di un rapporto imposto, ma poi accettato e anche desiderato (che ho chiamato adolescenziali ma che non sono certo confinate a quell’età anagrafica), sono evolutive per l’adolescente, il cui io è ancora fragile. Gli permettono di sperimentare i rapporti tra i sessi all’interno del proprio immaginario, dove plasma onnipotentemente i comportamenti di entrambi i soggetti del rapporto secondo i propri bisogni. La fantasia può diventare anche per l’adulto un rifugio dalle difficoltà di un rapporto reale: nella fantasia l’altro è finalmente quella persona che voglio che sia e non (come nella realtà) un altro i cui desideri e le cui difficoltà gli impediscono di corrispondere sempre al mio desiderio. Le difficoltà non nascono dalla fantasia in sé. Nascono, invece, dalla pretesa di tradurle meccanicamente in realtà. Questo accade ai soggetti troppo fragili per avere un rapporto con un’altra persona, quando, minacciati dalla diversità dell’altro, gli impongono il proprio immaginario. Quando cioè la fantasia esce dalla propria sfera e diventa pretesa o costrizione. In questo caso diventa stupro o, meglio, la giustificazione collettiva dello stupro.
Forse, però, anche queste fantasie vanno guardate più a fondo, perché sono la rievocazione degradata di uno degli scenari mitici fondanti della nostra cultura, ovvero del mito dello stupro divino. Un grande poeta irlandese, Yeats, ha descritto questa scena nella sua poesia Leda e il cigno: «Come potranno respingere, le dite incerte e in terrore / Quella gloria piumata dalle sue cosce che s’aprono?/ E come un corpo, in quella furia bianca, può / Non sentire quel cuore straneo battere?/ Laggiù dove è riverso?». L’effetto di quello stupro viene anche espresso nella poesia: «Così imprigionata / Padroneggiata dal sangue selvaggia dell’aria / Trasse lei conoscenza da quel suo potere, / Prima che il becco indifferente lasciasse la sua preda?». L’esperienza descritta è quella del contatto devastante della coscienza individuale con un potere immenso, che viene da un universo estraneo alla coscienza. Nella versione cristiana diventa la visitazione della forza divina alla donna umana: una forza, però, non violenta, rispettosa dell’individualità della vergine. Che cosa dobbiamo dire di una visione che situa questo potere in un essere umano, un maschio, che prende su di sé il compito di violare un’altra coscienza, anche se solo sul piano della fantasia? Dovremmo dire, credo, che è inflazionato, che ha illusioni adolescenziali di onnipotenza. In questa prospettiva, il film di Bellocchio non aiuta ad approfondire il contesto simbolico della sessualità, ma si pone come una fotografia della fantasia immatura di molti uomini, inconsapevolmente introiettata da molte donne.

l'Unità 14 marzo 1991
Ma il potere sull’inconscio non è uno stupro
di Massimo Fagioli

Per partecipare all’interessante intervento di Carole Beebe Tarantelli, poche proposizioni, come si conviene ad un articolo di giornale.
1) Bellocchio è un artista e, come tale, racconta nell’ambito della bellezza un fatto o un fenomeno osservato. Pertanto non può essere accusato dei contenuti della rappresentazione.
2) Se, come uomo, condivide pensieri e teorie, esso è fatto separato dalla rappresentazione.
3) Si pone la rappresentazione di una realtà maschile nel suo rapporto con una realtà femminile. E le realtà maschili sono due (architetto e pubblico ministero) e le realtà femminili sono tre.
4) L’architetto superbamente si pone a svelare il latente inconscio di una donna, che è addormentata dalla realtà cosciente quotidiana. Il fatto non è delitto: la seduzione è accettata.
5) Inaccettabile, condannabile è che un uomo abbia le chiavi per aprire e chiudere l’inconscio altrui a suo piacimento. Esso è potere sul desiderio che nessuna convivenza sociale può accettare che sia nelle possibilità di un solo uomo. («l’inferiorità è non avere il coraggio del proprio desiderio»).
6) Bellocchio artista ha colto, visto, rappresentato questo potere. Ha sbagliato? È stata un’illusione? È una fantasticheria astratta del regista o è stata vista una verità? Se è una fantasticheria astratta è ugualmente arte della sua rappresentazione? Se è astratta è violenta, è inganno? E se la verità, il fatto che un uomo abbia le chiavi per accedere all’inconscio e modificarlo, è cosa che l’artista non è tenuto a giudicare («non sarà giusto, non sarà morale, ma non c’è stata nessuna violenza carnale come l’intende il codice penale»).
7) Il discorso artistico non si ferma qui. C’è un’immagine femminile, la contadina, che ha lo stesso fascino, la stessa superbia, la stessa certezza di sé, che si rapporta a un uomo, il pubblico ministero, frustrandolo, cercando si condurlo al desiderio.
8) Il «divino» dono della forza e della bellezza naturale, non cercata e non costruita, è nell’immagine femminile che sorge dalla natura come una pianta spontanea.
9) Ma forse, in effetti, il «divino» femminile ha la sua impotenza nel non riuscire a smuovere il pubblico ministero per portarlo al desiderio.
10) L’architetto ha raggiunta la sua certezza di identità con gli anni, è più umano: volgarmente materiale, si pone nel rapporto concreto anche se si tratta di seduzione psichica. Costringere l’altra all’identità, la bellezza, la gioia, la vita. Altro che non è soltanto una donna, ma è un regista, un paziente, l’analisi collettiva.
11) Forse in questa umanità sta la potenza, «violenza». Nel non astenersi, nel non restare narcisisti, paghi della propria intelligenza, arte, bellezza.
12) Forse, un peccato maschilista o infantile (tutti gli artisti sono un po’ infantili e poco razionali) sta in questo ideale di donna che non ha bisogno di terapie per essere.
13) Forse un peccato psicoanalitico sta in questo soggiacere al fascino di un irrazionale bello, una immagine che non parla, è soltanto una immagine femminile.
14) Forse quanto nell’architetto è superbia disumana di avere il potere sull’inconscio, è dovuto a quanto di artista egli ha, che assorbe dall’immagine femminile, da quella libertà naturale di una donna, assorbe il diritto di non sottostare alle leggi. Un artista deve sottostare alle leggi?

Venerdi di Repubblica 15 marzo 1991
PERSONAGGI
Anti-freudiano al cento per cento, lo psichiatra Massimo Fagioli torna al cinema firmando la sceneggiatura dell'ultimo film di Marco Bellocchio "La condanna"
Freud? E’ un imbecille
di Luca Villoresi

«Veramente non so... sarà il caso di non continuare a parlarne? Tanto poi mi dipingete come vi pare a voi. Il plagiatore, lo stupratore...». Ma no, dottore, su, non si faccia pregare. Ma no e ma sì, vorrei e non vorrei, disponibile e ritroso, alla fine, il co-sceneggiatore eccolo qui. Ancor dubbioso: «Davvero nei titoli non mi mettete assieme a Tinto Brass?». Seppure fermamente sicuro di sé: Freud? «Un imbecille che non ha scoperto nulla». Massimo Fagioli? Uno che «in quindici anni avrò esaminato qualcosa come centomila sogni dando interpretazioni corrette non dico nel cento per cento dei casi, ma almeno nel 99 sì. Certo? Certo che ne sono certo. La mia è una teoria scientifica». Sicuro? «Sicuro, altrimenti non continuerei a fare quello che faccio».
Su cosa faccia il dottor Fagioli i pareri, naturalmente, sono controversi. Psichiatra - «Laureato e specializzato, con tutti i titoli a posto. Mica un selvaggio come qualcuno continua a definirmi» - inventore dell'analisi collettiva, guida spirituale di alcune centinaia di fedelissimi pazienti, Massimo Fagioli, era stato al centro di una violenta polemica nel 1986, quando il produttore Leo Pescarolo lo accusò di esercitare una nefasta influenza sul regista de Il diavolo in corpo: «Bellocchio è plagiato. Di questo film montato da Fagioli non so cosa farmene». Adesso torna sulla scena con La condanna. «Ho firmato con Marco la sceneggiatura. E durante le riprese ho espresso giudizi di cui il regista ha tenuto conto. E allora? Finitela di trattare Marco come un povero cretino. Perché se io sono il cattivo lui deve essere per forza l'imbecille».
L'uscita dell'ultimo film dell'autore de I pugni in tasca, oltre a riproporre dubbi e chiacchiere sul sodalizio artistico‑analitico Bellocchio‑Fagioli, ha scatenato però un ulteriore piccolo putiferio. La condanna, cronistoria psicologica e giudiziaria di un amplesso controverso ‑ Lei ci è stata? Le è piaciuto? E con la prepotenza dell'erezione come la mettiamo? La condanniamo, la assolviamo, o la mettiamo in libertà vigilata? ‑ secondo l'accusa sarebbe una vera e propria apologia dello stupro.
Guru, santone della psicoanalisi, selvaggio, con e senza virgolette... adesso anche ideologo della violenza carnale. Tutto falso, diciamo. O esagerato. Come si spiega, però, tanta acrimonia nei suoi confronti? «Diciamo che posso solo fare delle ipotesi. Una per tutte: la cultura dominante non è freudiana? Ebbene, io sono anti‑freudiano al cento per cento. Ho messo in discussione le basi della psicoanalisi ortodossa, la figura del medico sacerdote, con quel suo studio che sembra la capanna dello stregone. Se io ho ragione tanta gente dovrebbe cambiare mestiere. Potrebbe essere un buon movente per certi articoli pieni di insulti».
Potrebbe essere. Lei, però, dottor Fagioli, con questa sua pretesa di poter interpretare tutti i sogni, ignorando per di più la storia individuale del soggetto che li racconta... non peccherà un po' di presunzione? Davvero è convinto di aver trovato le chiavi di lettura dell'inconscio? «Sì. Al contrario di quanto sosteneva Freud, rivendico la possibilità di comprendere i sogni. Altro che libere associazioni. Prenda nota: io interpreto direttamente quello che chiamo negazione e pulsione di annullamento, facendo riferimento alle tappe fondamentali della vita umana: nascita, allattamento e svezzamento, la grande crisi del bambino che scopre che non siamo tutti uguali, la pubertà, la masturbazione. Tutto il resto, dai ricordi infantili ai traumi subiti andando al mare o in montagna, non mi interessa».
Dalla teoria alla pratica. Lei, attualmente, ha almeno seicento pazienti che riceve, divisi in quattro turni settimanali, in un locale di Trastevere: quattro ore di seminario e all'uscita chi vuole lascia un'offerta. Quanto guadagna dottor Fagioli? «Senta io non conosco il reddito degli analizzati, non chiedo niente a nessuno. E non sopporto di essere accomunato a quel signor Verdiglione che non è medico né analista e si prendeva gli appartamenti dei pazienti». I soldi non la interessano. E il potere? Qualcuno suppone che lei eserciti un fascino eccessivamente carismatico sui suoi "fagiolini". «Da me ognuno è libero di venire o non venire. lo non chiedo nemmeno il nome». Però può cacciare un paziente? «Questo certo che sì. Sono un libero professionista».
Saltiamo le polemiche su II diavolo in corpo e la Visione del Sabba, l'altro film in cui Bellocchio si sarebbe fatto abbindolare dai suoi "deliri psicanalitici". Veniamo a quest'ultimo discusso stupro‑non stupro. «Beh, anche qui gli equivoci si sono sprecati. A partire dai paralleli col caso Saracino. Per finire a queste ultime ridicole accuse. Ma che apologia di stupro! Quella famosa scena, invece, provate a guardarla come una geometria: la tangente dell'appoggio, i quattro amplessi circolari, la raffigurazione finale delle coordinate cartesiane con lui in piedi e lei sdraiata. Ecco, vede cos'è una ricerca».
Luca Villoresi
Repubblica 8.3.07
Esce "L’uomo delle contraddizioni" di Luigi Filippo d’Amico
Il cuore di Pirandello
Le figure femminili della sua vita
di Alessandra Rota


Marta Abba sulla spiaggia di Castiglioncello indossava uno scandaloso due pezzi, addirittura leopardato, mentre tutta l´intellighenzia che allora popolava i bagni si interrogava sulla natura del rapporto tra lei, assai giovane, e il sessantenne Luigi Pirandello dal grande cappello bianco. Non è certo un libro di gossip quello che Luigi Filippo d´Amico ha pubblicato per Sellerio (L'uomo delle contraddizioni, Pirandello visto da vicino, pagg. 175, euro 10). Con grande delicatezza lo sceneggiatore, pittore, regista (Bravissimo, San Pasquale Baylonne, L´arbitro, Amore e ginnastica, l´episodio di Gugliemo il dentone nei Complessi...) racconta tante piccole storie private del drammaturgo siciliano, legate indissolubilmente ai suoi capolavori. D´Amico è stato un osservatore privilegiato: fin da bambino la sua famiglia tramite gli zii Alberto Cecchi, Antonio Baldini, Silvio d´Amico era legata ai Pirandello e lui stesso ha sposato una delle due figlie di Lietta. La suocera era una miniera di particolari, un archivio della memoria importante quanto la passione (e la conoscenza) che Luigi Filippo d´Amico ha per l´opera del nonno di sua moglie. Ed è proprio la passione, il suo pulsare quasi sempre doloroso, che lega gli episodi, spesso inediti, riportati da Luigi Filippo d´Amico e che si ritrova in tutti i romanzi, i drammi, le novelle. Sentimenti forti, carnali, "repressi" da una rigida cortina di pudore che hanno avuto il loro unico sfogo nelle creature inventate. E d´Amico, attraversando la parabola letteraria e personale del premio Nobel - i suoi continui disagi economici, il difficile rapporto con la politica, con il cinema, con i capocomici, i soggiorni all´estero, gli insuccessi prima e poi la gloria internazionale - ripropone tante figure femminili vere o di "carta" che hanno segnato la vita di Pirandello a cominciare dalla consorte, Antonietta, malata di mente che comprometterà per sempre il suo rapporto con le donne ("Una volta accompagnai mia moglie a visitare la nonna ricoverata in casa di salute. Indossava un vestito nero, accurato, con merlettini bianchi alle maniche e un cappello... Pronta - dicevano la monache - ogni giorno nell´attesa che Luigi venisse a riprenderla. In terra, infatti, vidi una valigia"). Ecco le allieve del Magistero dove Pirandello insegnava: «tra le scolare, faceva strage... Ci voleva tutto il riserbo, la serietà dell´uomo, il suo senso di responsabilità, perché quella lezione non si trasformasse in una corte d´amore».
Ecco Marta Abba: «Nell´estate del´32 non avevo ancora otto anni e mi innamorai di lei» scrive d´Amico «Fui sedotto da un odore - così diverso da quello di mia madre e delle mie sorelle - che gli olii solari non annullavano del tutto (è l´odore, pensai, delle vere donne)». Quando la conobbe il Maestro aveva già chiuso da anni i suoi rapporti con l´altro sesso; ne fu travolto ma «quasi fosse un padre, in un testamento olografo istituisce la Abba erede per un sesto, oltre ai diritti delle opere scritte da lei».
In Diana e la Tuda Pirandello - sottolinea d´Amico - inserisce uno scoperto richiamo, anche se probabilmente solo vagheggiato, ai suoi rapporti con la Abba e «in una lettera del 1926 indirizzata alla diva, allude ad una "atroce notte" a lei ben nota (erano a Como per una recita); ancora una volta aveva pensato al suicidio, ma: la coscienza dettava l´ordine imperioso di scrivere». Chissà se il drammaturgo aveva considerato "atroce" l´offrirsi di una giovane donna a un vecchio o, al contrario, quell´atroce poteva riferirsi a lui che aveva insidiato Marta. L´attrice comunque sposò nel 1938 un milionario di Cleveland, chiedendo, e ottenendo, poco dopo un redditizio divorzio.

il Riformista 8.3.07
Sinistra. Un vasto orizzonte da Bertinoro al sindacato
Bertinotti guarda a tutti e sogna la grande ricomposizione


Per ora nel corpo del partito se ne parla poco. Lo strappo è troppo evidente. Ma nell’intervista su Liberazione del 26 febbraio Bertinotti ha riconosciuto la necessità, da parte della sinistra, di raggiungere una «massa critica» che oggi non c’è. Che fare allora? «Ricostruire una cultura politica e una cultura politica di sinistra». «Bisogna sganciarsi da quello che è stato fatto prevalentemente fin qui. Cioè l’ingegneria organizzativa dei partiti». Non scherzava.Il 4 marzo è tornato sull’argomento in un’intervista alla Stampa: «Non penso ai comunisti con i comunisti, i socialisti con i socialisti, i verdi con i verdi, i cattolici democratici con i cattolici democratici. Ma a tutti con tutti». Insomma, ha sparigliato, facendo cadere nell’oblio la sua stessa creatura, Sinistra Europea, che - sembra di capire - rimarrebbe solo come una matrioska del Prc. D’altra parte la costruzione di Sinistra Europea ha dato fino a oggi esiti deludenti, limitandosi all’assemblaggio di qualche associazione e di alcune personalità. Eppure l’operazione Bertinotti ha avuto un risultato immediato: far uscire il partito dall’isolamento dopo la mini-crisi di governo e il caso Turigliatto. Bertinotti si propone di verificare se c’è «un destino comune» a sinistra, e invita alla discussione di «tutti con tutti». Già. Ma tutti chi? Non è interessato all’«unità dei comunisti». Il che ridimensiona la sua stretta di mano con Diliberto. Guarda in primo luogo a Mussi e Salvi che, pur dichiarandosi indisponibili a fare la sinistra del Partito democratico, mantengono un prudente (e comprensibile) riserbo sulle prospettive. Guarda poi a Bertinoro. E guarda, infine, ai variegati spezzoni sociali - con particolare attenzione al sindacato - organizzati e no, cattolici e laici, che nell’attuale nomenclatura politica proprio non si ritrovano, e che aspettano (o lavorano per) una costituente della sinistra unita e rinnovata. A questo punti i cerchi dei vari sassi nello stagno cominciano a intrecciarsi: l’area che fa capo a Rifondazione, la Sinistra Ds, la diaspora socialista, l’arcipelago sociale. D’altra parte qualsiasi riforma elettorale, a cominciare dal sistema tedesco proposto da Bertinotti, obbliga le forze minori a darsi una regolata. Non paga più l’apologia del simbolo, né la coppia esistenza-resistenza su cui i piccoli partiti hanno sacrificato qualsiasi propensione egemonica. E inoltre il modo di formazione del Partito democratico evoca sempre più forze in libera uscita.È dura, dopo la scomparsa della falce e martello, l’ostentazione del cilicio della Binetti. È ancor più dura la scelta di Rutelli per Francois Bayrou contro la povera Ségolène. Per non parlare dell’adesione al Pse:«Non se ne parla nemmeno», ha tagliato corto il “bello guaglione”. Insomma, serpeggia nella sinistra italiana l’idea che forse ci sono le condizioni per cominciare a invertire la tendenza: dalla frantumazione alla ricomposizione. Sullo sfondo si intravede un’operazione da 1892. Leghe, società di mutuo soccorso, fasci operai, aggregazioni politiche, intellettuali. Un crogiuolo. E poi il partito. Per ora Bertinotti ha mosso il cavallo. Si vedranno le mosse degli altri. Purché nessuno faccia l’arrocco. Oggi, nell’accelerazione dei processi politici, sarebbe la mossa perdente.

il Riformista 8.3.07
L'Unità in sciopero
«Non fateci diventare un secondo giornale»
di Fabrizio d'Esposito


«Care lettrici e cari lettori domani, 8 marzo-Festa della donna, non troverete l'Unità in edicola. Un giorno in cui volevamo esserci, non ci saremo». Ieri mattina a pagina quattro, incorniciato da un fascione nero a dire il vero più da necrologio che da comunicato sindacale, i cinquantamila e passa lettori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e finanziato dai parlamentari Ds hanno trovato un drammatico testo sul futuro del loro giornale. A firmarlo «le redattrici e i redattori dell'Unità» che, dopo aver chiarito che «questo è un appello che non avremmo voluto scrivere», annunciano la decisione di scioperare e non essere in edicola oggi. Il motivo è lo stesso che da mesi preoccupa i giornalisti dell'Unità e che a poco a poco ha trascinato la redazione a uno scontro duro con la proprietà, rappresentata da Marialina Marcucci, presidente del consiglio di amministrazione della Nie. Ovvero, il misterioso piano di ristrutturazione che in teoria dovrebbe rilanciare il giornale.
In realtà, l'assemblea di redazione teme che il progetto, da tempo annunciato e mai svelato dalla Marcucci, nasconda una mutazione genetica dell'Unità ritenuta letale: «da primo giornale autorevole così come è oggi» a foglio di analisi e di opinioni che integri la lettura dei quotidiani generalisti. Non solo: una svolta del genere sarebbe accompagnata dal taglio di un giorno settimanale di uscita, in questo caso il lunedì, che influirebbe non poco sul prestigio del quotidiano, oltre che sugli stipendi già non particolarmente lauti dei redattori. Sullo sfondo, infine, un atroce retropensiero: il sospetto che il ridimensionamento spiani la strada, in vista del Partito democratico, a un'eventuale fusione coi giovani cuginetti di Europa, il quotidiano della Margherita. Di qui lo scontro sempre più violento con la Nie (che sta per Nuova iniziativa editoriale) culminato con la decisione di scioperare quando l'assemblea di redazione, al termine di una riunione lunga e accesa, ha chiesto invano alla proprietà di pubblicare a pagamento e a tutta pagina il testo dell'appello sottoscritto dai giornalisti. La Marcucci, infatti, ha rifiutato l'inserzione e il documento è uscito ieri con la dicitura comunicato sindacale.
La decisione di scioperare ha però fatto arrabbiare e di molto anche, tanto è vero che il verbo usato è «incazzare», i vertici della Quercia, che in questa battaglia, anche se non lo dicono apertamente, propendono per Marcucci, di cui tra l'altro ieri sarebbe dovuta uscire una lettera di chiarimento bloccata però all'ultimo momento dal cda della Nie. Perché? Sarebbe stato proprio il mistero sui motivi del blocco a far precipitare la situazione verso lo sciopero. Tornando ai ds, la rabbia riguarda innanzitutto il giorno scelto, l'8 marzo, una data in cui grazie alla diffusione militante il numero di copie vendute aumenta vertiginosamente. In pratica, dicono, uno schiaffo simbolico anche agli sforzi del partito che proprio recentemente ha sottoscritto seimila abbonamenti per altrettanti segretari di sezione. Poi c'è la questione dell'appello. Questa, allora, la versione che trapela dal Botteghino: «Quello che è successo è incomprensibile. Non si è mai visto uno sciopero basato solo su voci e nulla di certo. Nella redazione dell'Unità si è innescata una bizzarra dinamica che ha condotto a un'inutile fuga in avanti. In realtà, la stessa Marcucci ha chiarito col cdr che non c'è alcuna volontà di ridimensionare il giornale. Il piano industriale che è allo studio di una società di valutazione prevede un rilancio dell'Unità, non altro. Il resto sono solo equivoci».
E che tutto sia scaturito da «equivoci e fraintendimenti» tra redazione e proprietà lo dice anche il direttore Antonio Padellaro, che dopo i fasti del colombismo ha raddrizzato la linea politica del quotidiano, se non altro indirizzandola verso i lidi del Partito democratico. Ieri Padellaro era da solo in redazione a fare il suo lavoro, anche se oggi il giornale non è uscito: «Sono qua e faccio il mio lavoro, ma sia chiaro che se bisogna scioperare per il contratto nazionale sono il primo a farlo». Detto questo, «lo sciopero è sempre uno strumento doloroso e in quest'occasione io sono molto amareggiato e addolorato perché è la prima volta in sei anni che i colleghi scioperano per una vertenza aziendale, chiamiamola pure così. Questa scelta mi fa molto male e trovo curiosa l'iniziativa di voler pubblicare a pagamento il comunicato. Quale azienda avrebbe accettato un'inserzione contro se stessa? In ogni caso le cose che ho letto nell'appello mi fanno molto piacere, ma credo che le attuali caratteristiche del giornale, cioè autonomia, autorevolezza e ricchezza di notizie, stiano a cuore a tutti, alla proprietà, alla redazione e ai lettori. Perdipiù, questo è un momento che siamo in risalita. Nella settimana che va da lunedì 19 a domenica 25 febbraio abbiamo avuto una media di 55mila copie. Il picco negativo l'abbiamo avuto il lunedì con 48mila copie, quello positivo la domenica, con oltre 68mila». E allora che cosa è successo? Risposta: «Credo che ci siano stati dei fraintendimenti tra redazione e proprietà. A me risulta che le intenzioni della Nie sono quelle di rafforzare il prodotto tenendo sotto controllo i conti. Mi auguro che dopo la giornata dura dello sciopero si possa superare questa situazione. In questo sono cautamente ottimista». Ultimo dubbio che aleggia: le voci su una fusione con Europa, che tra l'altro al Botteghino vengono liquidate con sarcasmo: «Potremmo mai fare un giornale che si chiamerebbe Unitopa?». Conclude Padellaro: «A me piace molto Europa, ma è un giornale giovane. L'Unità invece appartiene alla storia del giornalismo di questo paese. E' una testata che di per sé ha un fascino particolare. Per questo non è possibile fare una fusione che tolga identità a un marchio così forte».

il manifesto 8.3.07
«L'Unità» in sciopero contro la proprietà
L'editore sta decidendo i destini della testata, la redazione chiede lumi, ma le risposte non arrivano, il futuro è incerto. Il quotidiano oggi non esce
di G. Sba.


L'8 marzo 2006 L'Unità scelse il colore rosa per andare in edicola: la banda dei sommari sotto la testata, l'apostrofo e l'accento per un giorno abbandonarono il rosso per accendersi di pink. Oggi invece l'Unità non esce, è il primo sciopero interno dalla resurrezione del 2001 e le pagine preparate per la festa della donna andranno a ammuffire. Una scelta ponderata quella dei redattori che da mesi lavorano nell'incertezza, «Ma non è una vertenza politica né di categoria - Umberto De Giovannangeli del cdr sgombra il campo da possibili illazioni - è esclusivamente professionale, perché vogliamo che questo resti un primo giornale e non si riduca a un foglio d'opinione». Il quotidiano diessino fondato da Antonio Gramsci perde copie, almeno 6-7mila nell'ultimo anno, ora se ne vendono circa 53-54 mila e lo spettro del 2000, quando l'Unità chiuse perché era «Finito il grande sogno» (così titolava l'ultima pagina nel giorno dell'addio), si aggira per la redazione. Stare al governo è più difficile che fare opposizione, ora come allora. A via Benaglia - la sede di via due Macelli è stata abbandonata a natale - si attendono indicazioni su progetti, investimenti e linea editoriale, ma la proprietà (Nuova iniziativa editoriale) sceglie il dribbling e rimanda di giorno in giorno le risposte. Il recente incontro con Marialina Marcucci, azionista e presidente della testata, non ha soddisfatto nessuno.
Per poter comunicare ai lettori i disagi di questi ultimi tempi i redattori volevano addirittura comprare una pagina di pubblicità del loro giornale. Gli editori, però, hanno detto niet. Ma come, si saranno chiesti, è stata pubblicata persino l'inserzione della lista civica «Pomigliano democratica» che se la prendeva con il senatore di Rifondazione Tommaso Sodano proprio mentre Prodi contava i voti di fiducia a palazzo Madama? Sul numero di ieri c'era invece il comunicato sindacale firmato nome e cognome da tutti i giornalisti, dai vicedirettori ai redattori ordinari: «In queste ore la proprietà dell'Unità sta decidendo i destini della testata. Noi non possiamo dirvi, ora, se questo giornale rimarrà in edicola in futuro sette giorni su sette; non sappiamo se allo stallo degli ultimi sei mesi si sostituirà una fase di rilancio», si legge a pagina 4. Non chiedono la luna i pronipoti di Gramsci, ma «un progetto vero». Riduzione della foliazione, chiusure anticipate, con il rischio di perdere le notizie delle sera tardi, assenza in edicola il lunedì - «dai tempi del vecchio Antonio, crisi del 2000 a parte, siamo sempre usciti 7 volte su 7», dicono dal cdr - incertezze che pesano e fanno prosperare le voci di corridoio: l'indiscrezione pubblicata da Libero di una possibile vendita del giornale a Giovanni Consorte, nessuno alla Nie si è preoccupato di smentirla.
Il piano industriale, 500 pagine elaborate da una società esterna di consulenza, la Value Partners, è già nelle mani del consiglio d'amministrazione dal 21 febbraio, racconta Fabio Luppino del cdr, ma dai piani alti continuano a fare scena muta: «Siamo in una situazione di stallo, mancano chiarezza e trasparenza».

il manifesto 8.3.07
Eutanasia, 2 mila medici fanno outing
«Abbiamo aiutato a morire con dignità». E il tema fa irruzione nella campagna elettorale francese
di Anna Maria Merlo


Parigi. Con un appello ai candidati alle presidenziali, 2134 medici e infermieri si sono auto-denunciati per avere «in coscienza aiutato medicalmente dei pazienti a morire con decenza». E chiedono un dibattito sull'eutanasia. A pochi giorni dall'apertura di un processo contro una dottoressa e un'infermiera accusate di aver prescritto e somministrato del potassio in dosi mortali a una malata terminale che ne aveva fatto richiesta, i firmatari dell'appello chiedono la fine delle procedure giudiziarie e la depenalizzazione dell'eutanasia, a certe condizioni, oltre a maggiore assistenza per i malati in fin di vita. La dottoressa e l'infermiera rischiano fino a 30 anni di carcere, accusate di «avvelenamento».
La socialista Ségolène Royal e l'Ump Nicolas Sarkozy hanno promesso entrambi che se saranno eletti apriranno questo dibattito. Invece per i centristi va bene la legge vigente, votata nell'aprile 2005 sull'onda dell'emozione sollevata dal caso Vincent Humbert, un giovane tetraplegico che la madre e un medico avevano aiutato a morire nel 2003. La legge Léonetti del 2005 non legalizza l'eutanasia, ma stabilisce un diritto a «lasciar morire» in pace, condanna l'accanimento terapeutico e legalizza le cure anti-dolore anche se potrebbero abbreviare la vita del paziente terminale. L'Associazione per il diritto a morire con dignità (Admd), che ha più di 40 mila membri, ha interpellato i candidati su questo tema, inviando loro un libro bianco dal titolo «Fin di vita, una nuova legge è indispensabile».
Nel programma dei socialisti c'è un capitolo dedicato al tema, anche se finora Royal ha detto solo pubblicamente di «essere in pieno accordo con il progetto» del Ps. In una lettera all'Admd, Royal scrive: «L'accompagnamento delle persone in fin di vita è un tema che mi sta a cuore e che è importante regolamentare, rispettando strettamente la volontà del malato. La dignità della persona, malata o no, deve essere assicurata in ogni circostanza». Il programma del Ps è più chiaro e promette, in caso di vittoria, di presentare in parlamento un pdl «sull'assistenza medicalizzata per morire con dignità; questa legge permetterà ai medici, nello stretto rispetto della volontà del paziente, di apportare un aiuto attivo alle persone in fase terminale o in uno stato di dipendenza che ritengono incompatibile con la loro dignità».
Sarkozy si è limitato a promettere una discussione. Ma nell'Ump la deputata Henriette Martinez è iscritta all'Admd. «Ho visto il carattere inumano delle legge attuale quando mio padre, dopo aver sospeso le cure, ha impiegato più di una settimana a morire. Perché allora non avere il coraggio di fare un gesto attivo, visto che il risultato è ineluttabile?». Invece i centristi dell'Udf non vogliono cambiare la legge Léonetti: «Ci pare sufficiente per morire con dignità. Quando le cure palliative sono ben dosate, non c'è necessità di ricorrere all'eutanasia». Favorevoli alla depenalizzazione dell'eutanasia sono i Verdi e i trotzkisti della Lcr. Decisamente contrario il Fronte nazionale. Il Pcf è incerto e al suo interno il dibattito è acceso.

Repubblica 8.3.07
Due mesi fa la legge del Pirellone. I dirigenti sanitari: non sappiamo come procedere. Intanto si stanno riempiendo le celle frigorifere
Sepoltura dei feti, caos negli ospedali a Milano
I medici della Mangiagalli: poca chiarezza. La Regione: proteste strumentali
di Laura Asnaghi


MILANO - Succede in Lombardia. Fatta la legge sulla sepoltura dei feti, mancano ancora le norme precise per tumulare i "prodotti del concepimento" . E così quelli che le madri hanno deciso di lasciare agli ospedali restano in attesa di una sepoltura, chiusi in scatolette conservate nelle celle frigorifere delle sale delle anatomie patologiche degli ospedali. A denunciare il problema sono i direttori sanitari: «Nessuno ci ha dato istruzioni e, in più, manca ancora la circolare applicativa del nuovo regolamento».
Alla fine di gennaio, il Pirellone ha varato una norma che consente la sepoltura dei feti sotto le 20 settimane, feti che prima venivano smaltiti come "rifiuti sanitari". Con la nuova norma, che ha sollevato dure proteste da parte delle donne, i feti hanno acquistato la dignità di "parti anatomiche riconoscibili" e quindi equiparati a una mano o a un braccio amputati per ragioni di salute e destinati ai cimiteri per essere tumulati o cremati. Ma se da un lato il Pirellone è stato rapido e veloce nel varare la nuova norma, non è stato altrettanto solerte nel decidere come e quando vanno sepolti i feti. Tanto che da un mese restano "parcheggiati" nelle celle frigorifere. Ma a far esplodere il problema è stato l´incontro tra i direttori sanitari e i responsabili del servizio cimiteriale del Comune di Milano. Un incontro che è servito a quantificare i costi di tumulazione che si aggirano intorno ai 53 euro per feto: 18 vanno alla Asl e 35 al Comune. Non solo. Ma in vista della sepoltura dei feti milanesi (lo scorso anno sono stati 7 mila sui 25 mila lombardi), Stefano Pillitteri, l´assessore ai servizi civici del comune di Milano, ha avanzato la proposta di creare, al cimitero di Lambrate, un "giardino dei ricordi" ad hoc, in cui disperdere le ceneri dei feti. Una iniziativa destinata a sollevare ulteriori polemiche e che oggi, 8 marzo, festa della donna, non passerà certo inosservata.
Di fronte alle contestazioni dei direttori sanitari che chiedono di sapere se i feti vanno messi in piccole cassette o in un contenitore comune, e di capire chi pagherà le spese di sepoltura o di cremazione, la Regione reagisce parlando di "polemica ideologica e strumentale". «La circolare applicativa uscirà entro la fine della settimana - assicura Carlo Lucchina, il direttore generale dell´assessorato regionale alla Sanità - comunque, i direttori sanitari sanno benissimo come vanno trattati i feti. Basta metterli in un contenitore comune, in modo tale da rispettare la privacy della donna, e avviare le pratiche che sono in vigore da anni "sulle parti anatomiche riconoscibili"». E i costi, chi li sostiene? «Rispetto al passato non ci saranno costi aggiuntivi. Chi sostiene l´inverso dice il falso». Sarà, ma intanto i direttori sanitari sono concordi nel dire che la materia è tutt´altro chiara. «Alla Regione chiediamo tre cose - spiega Basilio Tiso, il direttore sanitario della Mangiagalli - vogliamo sapere, per iscritto, come dobbiamo trattare i feti. Vanno messi in piccoli cassette separate o in contenitori comuni? Chi paga le spese per il loro trasporto e la loro sepoltura? E ancora: i feti vanno sepolti o cremati e le loro ceneri disperse? La normativa è nuova e va definita bene, senza lasciare dubbi»

Repubblica 8.3.07
Napoli, il cardinale Sepe scomunica il "calendario della pace" della Regione: troppe omissioni e forzature laiciste
Agenda senza Epifania, Curia contro Bassolino
di Conchita Sannino


NAPOLI - Natale, c´è. L´Immacolata Concezione, manca. Padre Puglisi e Arafat, sì. Quaresima e Foibe no. C´è anche l´assassinio di Anna Politkovskaja, anche il Ramadan, ma non l´Epifania. L´ultimo scontro sul confine tra politica e religione si radica a Napoli, coinvolge due cardinali insieme con esponenti nazionali della destra e pone nel mirino l´»Agenda della Pace 2007» della Regione Campania.
Oltre mille paginette contrassegnate da ricorrenze che volevano rilanciare «obiettivi di pace disattesi dalla Comunità internazionale». Invece hanno scatenato un frammento nuovo di "guerra" tra fede e potere, e provocato la pacata ma netta bocciatura del cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe. Il vertice della Curia vesuviana stigmatizza infatti quelle «omissioni della cosiddetta Agenda della pace» come «forzature laiciste che speravamo superate». Il suo intervento segue di poche ore la strigliata dell´arcivescovo emerito di Ravenna, Ersilio Tonini. Abbrivio non brillante, insomma, per uno «strumento di apertura e di dialogo al servizio delle scuole e del territorio», come l´aveva definito l´assessore campano di Rifondazione, Corrado Gabriele, già uomo di punta nella mobilitazione civile e antimafia della giunta di Antonio Bassolino. Gabriele non rinnega alcuna scelta. Anche se ammette «una brutta distrazione: quella del massacro delle Foibe, me ne assumo la responsabilità». Poi obietta: «Perché avremmo dovuto inserire la Vergine Maria e non anche altri grandi santi venerati dai cattolici?». Infine l´impegno di pace: «L´anno prossimo saremo pronti a cogliere le riflessioni che la Chiesa vorrà offrirci, nel solco di un franco e rispettoso dialogo». Infine tende la mano a Sepe, «pastore ed uomo di grande spessore, come il suo impegno sociale per Napoli dimostra».
Gli esponenti della destra, da Maurizio Gasparri all´ex ministro Mario Landolfi, avevano già accusato quell´Agenda, pochi giorni fa, di «ideologismo ottusamente regressista». «Si additano ad esempio personaggi discutibili come Arafat, non Madre Teresa o importanti feste cristiane», denuncia Gasparri. Il cardinale Ersilio Tonini, nelle stesse ore, commenta: «Non ci posso credere: è un´iniziativa di un´incoscienza istituzionale impressionante. Mi sorprende molto che ciò avvenga in Campania, territorio in cui la verità incarnata da Cristo è un sentimento profondo». Ieri, ad accrescere il turbamento dei cattolici è arrivata la disapprovazione del cardinale Sepe. Il quale esprime «profondo dispiacere» per quelle «omissioni». E bolla l´assenza di Epifania, Quaresima, Immacolata Concezione, celebrazioni «che affondano le radici nella millenaria eredità culturale e religiosa del popolo» come «forzature laiciste che pensavamo da tempo superate».
Osservazioni alle quali l´assessore replica in maniera differenziata. Sarcasmo per Gasparri e la destra. «Forse non sanno - stigmatizza Gabriele - che l´Agenda della pace non è il calendario di frate Indovino». Dialogo infine per il cardinale Tonini e per il più vicino Sepe: «Questo nostro contributo alla riflessione ha sempre aggiunto nel corso degli anni riferimenti e annotazioni relative al messaggio cristiano e al suo irrinunciabile valore umano. Non a caso nel giorno di Natale abbiamo scritto: "Nascita di Gesù. Il suo messaggio rivoluzionario fu: ama anche i nemici"».

Nogod.it 7.3.07
Restiamo in Afghanistan per la Madonna
di Giulio C.Vallocchia


Oggi si vota sul rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan. Siamo andati lì in accordo con l' ONU, ma a differenza delle altre nazioni che hanno mandato soldati in nome del mantenimento della pace, noi abbiamo mandato laggiù le nostre truppe per diffondere la fede cattolica. Abbiamo scoperto infatti, grazie al Pio Ufficio dell' Esercito, che stiamo costruendo una Chiesa dedicata alla Madonna in un Paese in cui gli islamisti distruggono a cannonate i simboli di qualunque altra religione. Di fatto siamo i nuovi crociati in partibus infidelium al servizio del papa. E quando i talebani, già accecati dall' odio naturale ispirato dal concetto di guerra santa della propria religione, dedicheranno la loro attenzione ai nostri soldati avranno uno stimolo in più per fare a pezzi soldati e Madonna.

7/03/07 - Oggi il papa cambia il direttore dell' orchestra CEI, ma la musica sarà sempre quella della discriminazione verso le persone omosessuali. Il cardinale Bagnasco sostituirà Camillo Ruini a capo della Conferenza Episcopale Italiana, il Governo Ombra del nostro Paese che manovra e guida di fatto tutta la vita politica italiana.

7/03/07 - E mentre i vescovi italiani esercitano un potere assoluto sul nostro governo, qualunque sia la maggioranza in Parlamento, quelli spagnoli "chiedono" e non "impongono". Anche se, a dire il vero, quello che chiedono non è diverso da quello che impongono qui, e cioè la discriminazione delle persone omosessuali. Ma visto che in Spagna c'è al governo un socialista vero, la chiesa spagnola chiede "rispettosamente" di non insegnare la nuova materia di "educazione civica" perché in contrasto con l' incitamento alla discriminazione delle persone omosessuali propagandato dal papa.

Il Foglio 8.3.07
Attacco a Freud
Ha capovolto la psicologia e l’uomo. In alto piedi, genitali, inconscio, in basso testa, coscienza e ragione
di Francesco Agnoli


Accanto alla pseudo-scienza darwinista, la modernità, culturalmente malata di riduzionismo, ha prodotto il pensiero di Freud: fondato sull’idea cioè che l’uomo sia un meccanismo, e come tale interpretabile, anche a livello psichico, come lo è a livello fisico. Effettivamente se Darwin avesse ragione, e con lui materialisti, psicologia e psicoanalisi sarebbero delle scienze “esatte”, capaci di guarire l’uomo dalle sue depressioni, nevrosi, tristezze, esattamente come il chirurgo che, identificato il tumore, lo asporta. Purtroppo, o per fortuna, così non è. Freud parte anche dal materialismo darwiniano per creare la psicoanalisi, cioè l’idea, in soldoni, che la malattia psichica sia semplicemente e pressoché sempre l’effetto di una causa di natura sessuale. La psicologia, che aveva sempre studiato ciò che sta in alto, lo spirituale, diviene “psicologia dal basso”. Freud capovolge l’uomo: in alto i piedi, i genitali, l’inconscio, in basso la testa, la coscienza, la ragione. Si inverte così ogni gerarchia naturale, al fine di negare Dio, l’anima, e, a livello umano, la figura simbolica del Padre. Il viaggio esistenziale non è più una conquista, un percorso, dall’Inferno al Paradiso, ma una discesa verso l’Inferno, il luogo in cui l’uomo si scopre solamente sessualità malata e nevrotica. Da Darwin Freud trae anche la convinzione che l’uomo è solo “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”. Come Marx riconduceva ogni cosa, “scientificamente”, all’economia, struttura di tutto, considerando morale, arte, religione… come semplici sovrastrutture, così Freud prende il sesso, le pulsioni sessuali, egoistiche, aggressive, inconsce, per fondare su di esse la totalità dell’uomo. Oggi per fortuna la psicoanalisi è in crisi: molti ne mettono in luce le deficienze e gli inganni, e più nessuno cerca di spacciarla per una scienza esatta. Eppure, nell’epoca del positivismo, del “male di vivere”, del materialismo darwinista e marxista, molti credettero che il complesso di Edipo, il complesso di Elettra, l’invidia del pene altrui, il complesso di castrazione, ’interpretazione dei sogni, i lapsus, le amnesie e quant’altro fossero nientemeno che scienza, nel senso più alto del termine. Zeno Cosini ha un rapporto negativo col padre: per lo psicoanalista è colpa del suo desiderio infantile di possedere la madre. Umberto Saba, al contrario, ha un pessimo rapporto con la madre: ha un complesso di Edipo rovesciato, in quanto ha introiettato la figura della madre come figura paterna… Un po’ di sesso pruriginoso, un po’ di perversioni, e tutto è spiegato, dal pessimismo di Leopardi, alla noia esistenziale di Marilyn Monroe. L’importante, per il freudismo, simile al fordismo, è nullificare l’uomo, non più re del creato, “luogo” in cui la natura prende coscienza, vertice della creazione, ma impasto di istinti bestiali, pulsioni, desideri inenarrabili, odii, riducibili in fondo, sempre, a qualcosa di inconscio. Libertà, volontà, intelligenza, responsabilità vengono accantonate, escluse, private di dignità scientifica, perché non quantificabili, non misurabili, non riducibili alla pura materialità. “Libertas fundata est in ratione”, scriveva san Tommaso, nel “buio medioevo”: l’uomo di Freud, in cui la ragione perde ogni importanza, ha perso anche la libertà, perché è determinato. Così la psicoanalisi si rivela in fondo nient’altro che un capovolgimento della confessione cattolica: un lettino, per distendersi e rilassarsi, al posto di un inginocchiatoio, per umiliarsi e rialzarsi. Un improbabile esame dell’inconscio al posto del personale e responsabile esame di coscienza. L’uomo post freudiano non deve più fare i conti con la sua coscienza, portatrice di una legge naturale a cui si può o meno obbedire; non tende al dover essere, al bene, al vero, al giusto; al contrario deve solo portare le pulsioni vergognose e inconsce che lo esauriscono a livello conscio, per accettarle, e sacralizzarle. “L’uomo non deve lottare per eliminare i suoi complessi, ma per accordarsi con loro”. Veniamo ai Dico: non sono forse la morte freudiana di ogni senso di responsabilità? Se Freud ha ragione, “un uomo può essererappresentato dai suoi genitali”, che, si sa, sono instabili e capricciosi, come i Dico.

Il Foglio 8.3.07
Bye Bye Dico
Salvi ci spiega che il testo di legge è da rifare, seguendo la Costituzione e ascoltando anche i vescovi


Roma. Interpellato dal Foglio, Cesare Salvi proclama senza versare una lacrima la morte del disegno di legge sui Dico da lui bocciato in commissione Giustizia al Senato: “Una legge sgrammaticata che avrebbe provocato chissà quanti ricorsi sulla registrazione delle coppie tramite raccomandata postale. E avrebbe costretto i giudici a indagare sul reale vincolo affettivo dei conviventi”. Oltretutto per Salvi “il provvedimento non avrebbe mai avuto una maggioranza numerica necessaria per essere approvato”.
Le ministre firmatarie, Barbara Pollastrini e Rosy Bindi, se ne facciano una ragione. Perché il presidente Salvi non ha alcuna intenzione di recuperare quel ddl: “L’ha detto anche Romano Prodi, il governo ha esaurito la propria funzione, ora la parola passa al Parlamento. Che poi è l’unico modo per ottenere ascolto dall’opposizione: anch’io al posto di Gianfranco Fini, pur favorevole ai Dico, avrei risposto di no a un’iniziativa firmata dall’esecutivo”.
In ogni modo le proposte di legge sulla regolarizzazione delle coppie di fatto giacenti in commissione non mancano, sono una decina. Ma vanno dall’idea di sottoporre la pratica alla disciplina dei contratti prevista dal codice civile (Alfredo Biondi di Forza Italia) a quella di assimilare i contratti dei conviventi ai rapporti tra coniugi (Luigi Malabarba di Rifondazione comunista). Su questo punto Salvi si autocostringe a subordinare le ragioni di parte – “sono un socialista libertario, le lascio immaginare in quale direzione mi muoverei” – e si attiene invece al ruolo arbitrale che gli è assegnato dalla Camera alta: “Posto che la mia opinione non rileva, mi aspetto una soluzione parlamentare condivisa per una legge che proceda come tutte le altre”. Cioè senza fretta.
“Avanti con giudizio come per il provvedimento sulle intercettazioni: nella prima stesura gridava vendetta al cospetto di nostro signore, poi è stato responsabilmente approvato con l’avallo di Berlusconi, anche se resta una ciofeca e verrà probabilmente dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale”. Salvi individua un perimetro decisivo nell’articolo 29 della Costituzione. E a modo suo rassicura i cattolici come la Bindi, ma perfino Paola Binetti: “La Carta non dice che non può esserci nessun riconoscimento delle convivenze eppure, come scrivono i costituzionalisti cattolici nel loro documento pubblicato da Avvenire, riconosce uno statuto privilegiato alla famiglia fondata sul matrimonio”.
Conseguenza: “Quand’anche fossi favorevole a un’equiparazione piena, simile a quella vigente in alcuni paesi europei, so che la Consulta direbbe no a ogni forma di similfamiglia”. Il che non invalida la necessità di trovare forme di tutela per le convivenze. Stabilito il metodo, Salvi non rinnega il “giusto tentativo di cercare una soluzione-ponte che tenga conto dei rilievi della chiesa”. Anzi ricorda che “la chiesa ragiona da due millenni su certi temi ed è utile ascoltarla, purché lei sia diposta ad ascoltare noi laici”. Più in generale: “Credo che la ricerca di maggiore libertà sia in sé sempre positiva, ma bisogna tener conto d’una tendenza globale, dell’attuale relativismo che sconfina nel nichilismo e genera risposte religiose di tipo fondamentalista. La cultura laica s’è illusa di poter archiviare tale questione”.
Bella l’idea di Bertinotti, ma con un ma
A questo punto Salvi accetta di scendere dalla presidenza della commissione per ritornare il senatore della sinistra diessina. E si difende, ma con il sorriso, dall’accusa di fare i capricci sui Dico per tenere sotto pressione la maggioranza diessina in vista del congresso primaverile che inaugurerà i lavori del nascituro Partito democratico. Il quotidiano della Margherita, Europa, chiede a Salvi di non fare il cinico. Risposta: “Che sciocchini. Se avessi voluto sfruttare la mia posizione istituzionale, avrei massacrato le leggi giudiziarie dicendo che i girotondini ci urlano: ‘Vergogna! ’. Sai le cose che avrei potuto inventarmi? ”.
E a proposito d’invenzioni, Salvi si dichiara “interessato” alla recentissima offerta bertinottiana di aprire una fase costituente per ragionare sul futuro di una grande sinistra socialista. “Rispetto all’impressionante debolezza del manifesto per il Partito democratico, è un’idea nuova e buona”. Ma non nascerà una Linkspartei italiana. “Preferisco una sinistra alleata con il centro, cioè con il Partito democratico”.

La Stampa 8.3.07
Ma io credo alla scienza

non alla Chiesa
di Piergiorgio Odifreddi


Caro Direttore, spero di non abusare della sua pazienza se, ringraziandola per lo spazio che ha già concesso al dibattito sul mio libro Perché non possiamo essere Cristiani (e meno che mai Cattolici), le chiedo di poter brevemente commentare un paio di punti relativi all’intervista di Mario Baudino (1° marzo), e rispondere ad alcune obiezioni dei lettori (3 marzo) e di padre Bianchi (4 marzo). Due punti hanno generato fraintendimenti nell’intervista. Il primo è l’affermazione che «la resurrezione nei Vangeli non c’è». L’Avvenire del 6 marzo mi accusa addirittura di «falso storico», ed elenca 11 passi dei vangeli sinottici che invece ne parlano. Bella scoperta! Io a Baudino ho detto, e lui ha correttamente riportato, che «i protovangeli, cioè quelli più antichi, non ne parlano affatto».
E per protovangeli non si intendono ovviamente quelli canonici, bensì ad esempio la fonte Q che ha ispirato i sinottici, o la fonte SQ che ha ispirato Giovanni: in nessuno di questi si parla non solo della resurrezione, ma neppure della nascita verginale di Gesù, né egli vi viene mai chiamato il Cristo. Ma neppure in Marco, che è il vangelo più antico dei canonici, si parla di resurrezione: o meglio, se ne parla soltanto nei versetti finali, che come ammette però la stessa edizione Cei «sono un supplemento aggiunto in seguito». Le prime «testimonianze» sul lieto evento si trovano nelle Lettere di Paolo, che per sua ammissione non ha mai incontrato Gesù, e dunque non era un testimone oculare.

Il secondo punto dell’intervista che ha sollevato obiezioni è la mia posizione sullo Stato di Israele, che per forza di cose ha dovuto essere riassunta da Baudino. Preferisco qui citare testualmente il mio libro, nel quale scrivo che «rimane il fatto che l’esistenza stessa di Israele si fonda su una pretesa continuità storica che risale in ultima analisi a una supposta promessa divina»: qualunque cosa si pensi su Israele, non si può negare che sia la commistione fra politica (l’esistenza di uno Stato) e religione (l’assegnazione divina di una terra) ad avvelenare il dibattito sulla Palestina. E ancor più l’avvelena la pretesa di molti, anche a sinistra, di insistere a equiparare antisemitismo e antisionismo: la mia posizione è diversa, e coincide con quella espressa da Chomsky in Terrore infinito (Dedalo, 2002), al quale rimando. In fondo, infatti, il mio libro si interessa di Israele soltanto in maniera strumentale, per il ruolo che il Vecchio Testamento ricopre nella fede cristiana.

Venendo alle lettere dei lettori, il signor Franco Bergamasco obietta alla mia definizione dello stesso Vecchio Testamento come di «un irritante e snervante pasticcio, pieno di sciocchezze e orrori, massacri e contraddizioni», facendomi notare che in esso ci sono anche l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici e il libro di Giobbe. È un’obiezione singolare, come se in un tribunale il difensore di un assassino chiedesse clemenza alla corte perché il suo assistito, oltre ad aver sgozzato una mezza dozzina di vittime, ha però anche delle belle abitudini, come il portare i fiori alla moglie o fare passeggiate in montagna. Che ci siano belle pagine nell’Antico Testamento, non lo nego neppure io: il fatto è che, oltre a non essere quelle su cui si basa la legge mosaica, e dunque la dottrina cristiana che le ha annesse, sono affiancate da una serie di pagine di ben altro tenore, che uno non si aspetterebbe di trovare, o si aspetterebbe di non trovare, in un libro che si proclama divinamente ispirato. Il signor Claudio Silipo ribatte invece in maniera diversa allo stesso problema, delle «sciocchezze e contraddizioni di cui la Bibbia è piena», citando la Prima Lettera ai Corinti. Cioè, dando appunto ragione a me, visto che in essa Paolo di Tarso dice che la fede cristiana è «una follia per i Gentili», e che essa non si rivolge «ai Greci che cercano la sapienza». Io sono perfettamente d’accordo, ma evidentemente il lettore, e con lui molti altri cristiani, no: problema loro, ma non si può avere allo stesso tempo il calice pieno e la perpetua ubriaca, e cioè abbracciare una fede per i beati poveri di spirito, pretendendo poi allo stesso tempo di non esserlo.

Rimane da rispondere a ciò che l’Avvenire descrive dicendo: «all’insulto ha reagito persino gente mitissima come il priore Enzo Bianchi». E cioè, al suo articolo di domenica scorsa, che inizia la sua critica sostenendo che «sbeffeggiare i cristiani può essere molto redditizio» e che «c’è tutto da guadagnarci». Sarei ipocrita se non dicessi che non mi dispiacerebbe affatto che lui avesse ragione, ma sarei un illuso se ci credessi: semmai è vero il contrario, visto che in Italia sono scrittori come Messori o la Tamaro a vendere milioni di copie, e non certo gli atei militanti, di cui non si conoscono neppure i nomi. A meno che padre Bianchi si riferisca a Dan Brown o Augias, che naturalmente non sbeffeggiano affatto il Cristianesimo in sé, e ne propongono invece versioni meno dogmatiche e più popolari (il che spiega in parte il loro successo).

Padre Bianchi non apprezza il mio stile, ed è un suo diritto: in fondo, anche il proverbio avverte che si deve «scherzare coi fanti ma lasciar stare i santi», per non parlare della Sacra Famiglia. Ma non entra affatto nel merito delle critiche che rivolgo in tutto il libro alle verità di fede: si limita a richiedere una comprensione «delle incongruenze presenti in ogni argomentazione». Dunque, ammette che queste incongruenze ci siano, e mi chiede piuttosto di comprendere «l’evolversi del pensiero umano». Si figuri se non sono d’accordo! Dubito però che lo siano i suoi superiori, che invece ritengono che i testi sacri vadano presi letteralmente: Ratzinger, in particolare, del quale nella conclusione del libro riporto un interessante riassunto autentico dei «diversi dogmi cristologici e mariani» che ogni fedele deve accettare, per potersi dire cattolico, e sui quali a mio avviso dovrebbe concentrarsi la discussione di coloro che, a differenza di me, ritengono che essi possano essere sensati e credibili.

In conclusione padre Bianchi dichiara: «Io continuo a credere che anche i non credenti possano avere una vita interiore». Lo ringrazio, a nome loro, della sua generosità, ma non posso accettare il suo ecumenico invito a «riconoscere la ricchezza che a ciascuno può venire dal dialogo tra identità e convinzioni differenti»: in fondo, sono un logico, e credo che la verità stia da una parte o dall’altra, e che quando in una disputa uno ha ragione, l’altro abbia torto. In particolare, credo che la scienza abbia ragione, anche e soprattutto per il suo metodo, che consiste nel basarsi su esperimenti verificabili e dimostrazioni comprensibili. E che la Chiesa abbia invece torto, anche e soprattutto per il suo metodo, che consiste invece nel basarsi su rivelazioni non verificabili e dogmi non comprensibili. Di questo parla il mio libro e di questo mi piacerebbe discutere, entrando nella precisione dei dettagli ed evitando di rimanere nel vago delle generalità.

mercoledì 7 marzo 2007

Repubblica 7.3.07
L’intervista. Il segretario Giordano: bisogna aprire una trattativa per liberare Mastrogiacomo con tutti i mezzi possibili
"Rifondazione non cambia linea ma ora si faccia la conferenza di pace"
di Umberto Rosso


Noi e l’Afghanistan. Al nostro governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento autonomo. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi
Il Prc compatto. Fra di noi esistono differenze che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori del Prc voteranno compatti il sì

ROMA - «Il nostro voto sulla missione non cambia. Cambia, deve cambiare l´intervento diplomatico in Afghanistan: bisogna fare presto con la conferenza internazionale di pace».
Segretario Giordano, Kabul è teatro feroce di guerra.
«Purtroppo i nostri timori erano fondati, e se fosse dipeso soltanto da noi non avremmo mai mandato laggiù i nostri militari. E in queste ore voglio esprimere anche tutta la solidarietà e l´affetto alla famiglia del giornalista Daniele Mastrogiacomo e ai suoi colleghi. Dobbiamo aprire una trattativa per salvare una vita umana, con tutti i mezzi possibili, mettendo in campo tutte le risorse diplomatiche e di intelligence. E´ una strada che Rifondazione, anche con il governo precedente, ha sempre privilegiato: in primo luogo la salvezza degli ostaggi».
L´escalation della violenza in Afghanistan spinge a rimettere in discussione la presenza italiana?
«Dobbiamo investire su un cambio radicale di strategia. La conferenza internazionale di pace - che le destre hanno osteggiato, bocciandola come irrealistica, irrealizzabile - sta diventando l´unico strumento per invertire la rotta, per supplire ad una replica del conflitto bellico. Dobbiamo mettere in campo la diplomazia, coinvolgendo quando più paesi possibile».
Senza la partecipazione dei talebani però rischia di contare poco.
«Ci sono paesi, come il Pakistan, la Siria, l´Iran che vanno coinvolti e con un ruolo di primo piano nella conferenza. Lo stesso presidente Karzai, all´inizio freddo, si è convinto. E il governo italiano, sta perseguendo questa soluzione via via con sempre più forza».
D´Alema chiede di far luce sugli ultimi raid degli Usa sui civili. Una richiesta sufficiente?
«Il bombardamento delle popolazioni civili, le stragi efferate non sono altro che un´istigazione alla guerra come strumento di deterrenza. Non fanno altro che fornire un ulteriore base di massa alle tensioni che già esistono. Non è anti-americanismo, il nostro. E´ il no alla guerra preventiva di Bush. Al governo va dato atto di aver assunto un atteggiamento che si può riassumere in una sola parola: autonomia. Anche quando ha respinto la richiesta della Nato di un ulteriore invio di uomini e mezzi».
Vale anche a futura memoria?
«Certo. Il richiamo all´articolo 11 della Costituzione ci impedisce di accettare certe richieste. E voglio dire che sulle scelte ha molto inciso il movimento pacifista, finito invece ogni volta sotto pressione, come dimostra la lettera scritta dai sei ambasciatori al nostro governo sulla permanenza in Afghanistan».
L´exit strategy da Kabul che fine ha fatto?
«Non mi chiedete una cosa che fa parte del nostro dna, è nelle nostre corde, alla guerra in Afghanistan noi non avremmo mai preso parte».
E quindi, segretario?
«Oggi investiamo sulla conferenza di pace. E anche su altro. Come l´aumento della cooperazione civile, e delle risorse per dare a quel paese la possibilità di affrontare le grandi difficoltà economiche e sociali. Per arrivare ad una stabilizzazione politica. Un passo avanti significativo anche la riconversione dell´oppio a fini sanitari, come ha chiesto la stessa Organizzazione mondiale della sanità».
In Senato l´Unione corre nuovi pericoli, sul decreto?
«Non credo che ci saranno problemi sul voto».
Nessun problema nemmeno all´interno di Rifondazione, dopo l´escalation della guerra?
«Fra di noi esistono differenze, è noto, che abbiamo affrontato e discuteremo ancora. Ma al momento della votazione tutti e 26 i senatori di Rifondazione voteranno in maniera compatta».
Escluso Turigliatto, espulso dal gruppo.
«Naturalmente».
E la tentazione di rispondere al divampare dello scontro con una risposta militare più dura?
«Sarebbe un tragico errore. Che, oltre a determinare ulteriori tensioni, non risolverebbe nulla».
I soldati italiani corrono intanto pericoli ancora più gravi.
«A loro va tutta la nostra solidarietà, agli uomini che rischiano la vita dobbiamo far sentire il nostro calore e il nostro appoggio».

Repubblica 7.3.07
Roma, per i magistrati il medico che interruppe la ventilazione meccanica non commise alcun reato: non fu la sedazione a farlo morire
"Welby, staccare la spina era suo diritto"
La procura: lo dice la Costituzione. "Guarigione impossibile, caso da archiviare"
di Elsa Vinci


ROMA - Nessun reato. «L´interruzione della ventilazione meccanica ha realizzato la volontà di Welby in esplicazione di un diritto che gli spettava». E che trova «fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall´ordinamento italiano e ribadite nel codice di deontologia medica». La procura di Roma chiede l´archiviazione del fascicolo aperto subito dopo la morte assistita di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, immobile da anni, senza più sogni né desideri, se non di smettere di soffrire. Nessun reato: l´anestesista Mario Riccio, che ha sedato il paziente e poi ha staccato il ventilatore polmonare, già assolto dall´ordine dei medici di Cremona, viene adesso prosciolto dal procuratore della Repubblica, Giovanni Ferrara. «Nessun addebito a chi, in presenza di una impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente operato il distacco dal ventilatore. In quanto l´azione ha dato effettività a quel diritto del malato e quindi non può essere ritenuta contra legem».
Il provvedimento ricostruisce la storia che commosso l´Italia, gli ultimi istanti di vita di Piergiorgio Welby. «Non solo cosciente, ma liberamente determinato a non continuare la cura, perché consapevole dell´impossibilità della guarigione o anche solo di un miglioramento o dell´attenuazione della sofferenza». Tanto che alla procura «non sembra nemmeno adeguato parlare di riconoscimento di un incondizionato libero arbitrio». Nella richiesta di archiviazione sulla quale si pronuncerà il gup, si afferma che «si era di fronte a situazione ove le cure erano palesemente inutili». E, dunque, non appare «censurabile il comportamento del medico».
La decisione del pm è arrivata dopo l´esame di una perizia tossicologica affidata a un collegio di consulenti, che hanno concluso: la sedazione non ha ucciso. «Non ha determinato nemmeno un acceleramento dell´evento, che è sopravvenuto per causa naturale». Welby si è spento da solo. «L´irreversibile insufficienza respiratoria che ha condotto al decesso - scrive la procura - è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare». I fatti si sono svolti esattamente come li aveva raccontati alla Digos il dottor Riccio: «Ho provveduto, alla presenza di più persone e in adesione alle richieste di Welby alla sedazione e al contestuale distacco del ventilatore automatico». La morte è arrivata in 45 minuti. Ogni passaggio è stato riportato in un diario clinico firmato dallo stesso medico e da chi era presente in quel momento, la moglie e la sorella di Welby, i radicali Marco Pannella e Marco Cappato.
«Nel caso di specie, può affermarsi che sussistesse il diritto del paziente a non sottoporsi a trattamenti medici indesiderati». Secondo il pm non è sostenibile che «un siffatto diritto costituzionalmente tutelato troverebbe limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana che nel nostro ordinamento costituisce un diritto inviolabile». Dunque, si conclude: «Deve ritenersi che il diritto fondamentale a rifiutare il trattamento medico vale di regola senza esclusioni e quindi anche con riferimento a terapie di cosiddetto sostegno vitale, che non potranno essere imposte con la forza a un soggetto dissenziente e nemmeno proseguite contro la sua volontà».

Repubblica 7.3.07
Mario Riccio, l´anestesista: ho avuto paura ma sapevo di essere nel giusto
"Mai pensato di violare la legge ora altri non soffriranno come lui"


Norme. Non amo infrangere le norme, mi batto per cambiarle
Verità. È un bene che i pm abbiano indagato e chiarito tutto

ROMA - «Ho avuto molti timori anche se ero convinto di essere nel giusto, di aver agito all´interno della legalità», dice Mario Riccio, il medico anestesista per il quale è stata chiesta l´archiviazione.
Se la richiesta della procura sarà accolta, dopo il proscioglimento dell´ordine dei medici, arriverà anche quello della giustizia ordinaria.
«Mentre sedavo Piero, mentre gli staccavo il respiratore ero sicuro di fare qualcosa di permesso dalla legge ma esserne convinto e avere la certezza di non finire sott´accusa è tutta un´altra cosa. Io sono infatti contrario ad infrangere le leggi, le norme casomai vanno cambiate».
E Welby?
«Sono felice soprattutto per Piero che era una persona molto forte. È lui oggi l´eroe, quello che trova risposta dai magistrati. Non è morto inutilmente, ma si è sacrificato con la sua lotta perché altri non soffrissero come lui, per stabilire un diritto che alcuni parevano aver dimenticato».
Principi già esistenti per legge, ha sottolineato la procura.
«Sì, la notizia, per assurdo, è che in realtà non c´è notizia. La procura ha stabilito il diritto di rifiutare le cure, tutte le cure, anche quelle salvavita. Ha stabilito la possibilità di revocare il consenso. Tutti principi secondo me previsti nella Costituzione, nella Convenzione di Oviedo e nel codice deontologico dei medici».
Ora?
«Sono contento che i magistrati abbiano aperto una fascicolo perché altrimenti qualcuno avrebbe sempre potuto dire è stato un assassini o eutanasia. In questo paese c´è una lunga confusione voluta tra eutanasia e diritto a rifiutare le cure perché l´Italia è secondo me un paese arretrato dal punto si vista del dibattito etico».
(c.p.)

Repubblica 7.3.07
Il nuovo libro di Emilio Gentile sul dopo 11 settembre
Gli Stati Uniti sotto le ali di Dio
Come Bush assurto al ruolo di "pontifex et imperator" ha organizzato la sua strategia
di Massimo L. Salvadori


Dove va l´America? E´ un interrogativo che gli europei e non solo gli europei hanno sollevato ad ogni grande svolta della storia degli Stati Uniti che ha cambiato il rapporto tra questi e il resto del mondo. Tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale la progressiva ascesa dell´America fu bensì un dato di enorme portata, ma essa si accompagnò alla dottrina e alla pratica dell´isolazionismo. Per tutto quel periodo fu come se l´America - animata dalla convinzione che il suo grandioso esperimento politico e civile godesse della protezione privilegiata della divina Provvidenza e che esso andasse difeso dalle influenze negative che provenivano anzitutto dall´Europa segnata da instabilità istituzionale e politica, rivalità interne, conflitti ideologici e sociali, inesauste ambizioni imperialistiche - si ponesse «di fronte» agli altri paesi. Poi la prima guerra mondiale cambiò radicalmente la scena. L´America entrò nel conflitto con il proposito di affermare pienamente la propria immensa forza materiale e il presidente Wilson, animato da un esplicito messianesimo politico, indicò al suo paese il compito di assumere nelle sue mani la guida di un mondo lacerato incapace di governarsi civilmente. Sennonché, finito il conflitto, fu l´America stessa a respingere il piano wilsoniano.
E´ con l´ingresso in guerra nel 1941 che si determina la svolta che ha aperto l´era nella quale ancora ci troviamo: gli Stati Uniti si sono candidati ad essere non solo un modello, ma un modello da far valere attivamente nelle vesti di potenza maggiore del mondo, la più forte e la migliore. Oggi l´America vive soggettivamente ancora in pieno nella scia di questa svolta. Vinta la grande battaglia di mezzo secolo con l´Unione Sovietica, dopo il 1989 ha creduto di poter inaugurare una nuova fase della storia restando in questa condizione di incontrastato primato. Ma ecco la novità dell´impetuoso emergere di nuove grandi potenze a partire dalla Cina e dall´India. Ed ecco anche la novità della sfida lanciata dal terrorismo islamico che è riuscito con l´attacco dell´11 settembre 2001 a colpire al cuore l´America: un evento senza precedenti per un paese che dopo la guerra con gli inglesi del 1812-14 non aveva più subito un attacco al proprio territorio proveniente dall´esterno.
Tra le varie e numerose riflessioni sull´11 settembre e sulla risposta degli americani si presenta assai interessante quella di Emilio Gentile nel suo libro La democrazia di Dio. La religione americana nell´era dell´impero e del terrore, pubblicato da Laterza (pagg. 266, euro 16). Il titolo fa capire di primo acchito in quale direzione si svolga la ricerca dell´autore: l´intreccio tra religione e politica, un approccio alla politica, massimamente interpretato dal presidente Bush, fondato sull´idea che la democrazia americana, messa sotto tiro dai terroristi, debba fare appello a tutte le proprie risorse mediante un agire sorretto dalla persuasione che a condurre l´America nella giusta battaglia sia in primo luogo Dio, alla cui guida occorre anzitutto rivolgersi nell´ora del pericolo: da ciò il significato dell´espressione «democrazia di Dio» e del riferimento alla «religione americana» in quanto religione civile che risponde alle finalità della politica, si nutre di teologia ed è sorretta dalla convinzione - propria del presidente, dei settori del partito repubblicano che più lo sostengono e della destra religiosa - di possedere «il monopolio delle definizione del bene e del male» e di avere una missione universalistica volta ad espandere nel mondo mercato e democrazia. Ad indagare sui nessi tra religione e politica nell´America odierna, Gentile, che si è distinto nel nostro panorama storiografico per intelligenti e originali studi sul fascismo, ha certo buoni titoli come mostra in particolare il saggio del 2001, da lui stesso ricordato, su Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi.
Gentile non si limita a ragionare sull´America attuale. Nel farlo cerca le radici della concezione di Bush e dei suoi sostenitori nelle origini stesse e negli sviluppi nel corso di oltre due secoli dell´ideologia del primato morale e politico dell´America posto sotto le ali di Dio. Il che conferisce al saggio un ampio respiro, il quale consente di capire quali motivazioni abbia l´impegnativa affermazione, in riferimento certo a Bush ma anche ai suoi predecessori, secondo cui «il presidente americano non è solo il capo politico della nazione, ma è anche il pontefice della sua religione civile». Orbene il libro di Gentile è un´indagine su come Bush, assurto al ruolo di pontifex et imperator, abbia interpretato un tale ruolo nelle condizioni specifiche create dal trauma generato dall´11 settembre e abbia organizzato e diretto la strategia che ha trovato le sue manifestazioni nella mobilitazione interna dell´America e nella seconda guerra irakena, nel quadro di una parabola che lo ha però visto passare da un iniziale enorme consenso patriottico intorno alla sua leadership ad una crisi via via crescente di questo.
L´autore, che non manca di mettere opportunamente in evidenza quali resistenze e opposizioni la «democrazia di Dio» di Bush abbia incontrato anche in importanti correnti del cristianesimo americano e per parte sua inclina a ritenere che non esista il pericolo che abbia a prevalere in America una religione politica nutrita di impulsi autoritari, osserva nondimeno che «quando religione e politica congiungono le loro forze nell´esercizio del potere» allora «si annuncia una stagione incerta e insicura». Tra le voci, citate da Gentile, che si sono levate in opposizione all´integralismo che fonde religione e politica, vi è stata anche quella di Alan Wolfe.
Di lui è uscito presso la Utet il saggio Ritorno alla grandezza. Come l´America ha perso la consapevolezza dei propri fini e come può ritrovarla (pagg. 191, euro 18). Ed è indicativo che il tema del rapporto tra religione e politica occupi un posto centrale anche nelle osservazioni conclusive di questo autore; il quale, dopo aver annotato che con la rielezione di Bush nel 2004 gli americani «hanno scelto di continuare a credere d´essere un popolo speciale benedetto da Dio e destinato a grandi cose, poco importa se il resto del mondo li considera prigionieri della loro stessa innocenza», esce a dire senza mezzi termini che gli americani con le scelte compiute «hanno tradito le aspettative del mondo» e si domanda se e quando gli stessi americani «finiranno per comprendere che anche le loro aspettative sono state tradite».

l’Unità Roma 7.3.07
Bach, Mullova e un clavicembolo
La violinista russa, accompagnata da Ottavio Dantone, reinterpreta in chiave d’epoca il compositore affrontato fin dagli esordi della carriera
di Giovanni Fratello


DOPO AVER APERTO la stagione scorsa della Filarmonica Romana, la violinista Viktoria Mullova torna al Teatro Olimpico accompagnata da Ottavio Dantone al clavicembalo per un concerto dedicato a Bach che si terrà domani con inizio alle 21.15. La pregevole tecnica violinistica russa s’incontra in Mullova con un temperamento dalla musicalità forte e nervosa, che negli anni le ha permesso di affrontare con risultati notevoli sia il repertorio classico romantico - in particolare Schubert, Mendelssohn e Brahms - , sia quello russo - soprattutto Stravinskij e Sciostakovic. Più recentemente la violinista ha ulteriormente allargato il suo raggio d’azione verso la musica barocca, dedicandosi allo studio della prassi musicale d’epoca, utilizzando anche in concerto l’archetto più ricurvo nonché montando sul violino una muta di corde di budello, com’era in uso nel Settecento.
Il risultato raggiunto è molto personale e per certi versi sorprendente: infatti vi convivono la scuola del virtuosismo trascendentale - di cui Mullova è figlia - estraneo però alla musica antecedente a Paganini, e lo stile morbido ed estroso del Barocco, in particolare negli abbellimenti. Nel suo concerto monografico eseguirà insieme a Dantone le Sonate per violino e clavicembalo n. 2 BWV 1015 e n. 5 BWV 1018, e come solista la Partita per violino solo n. 3 BWV 1006 e la celeberrima Ciaccona dalla Partita n. 2 per violino solo BWV 1004: in Bach Mullova ritrova uno dei compositori affrontati da lei fin dagli esordi della sua carriera, ma reinterpretato in chiave d’epoca, come dimostra la presenza del clavicembalo suonato da Dantone, uno dei più apprezzati esecutori italiani della prassi musicale antica.
06.3201752, www.filarmonicaromana.org 06.326599

l’Unità Roma 7.3.07
L’8 marzo con «Processo per stupro»
E poi spettacoli teatrali, letture e dibattiti


Trent’anni dopo torna sugli schermi il primo film documentario girato in un’aula di tribunale. Si tratta di “Processo per stupro” la pellicola diretta da Loredana Rotondo che nel 1979 scosse le coscienze mostrando il volto di un’Italia maschilista. Il documentario Rai domani sarà al centro delle manifestazioni per l’8 marzo dal titolo “La memoria ha futuro”, organizzate dal Comune di Roma nei quattro municipi presieduti da donne. Dalle 17 alle 20 proiezione e dibattito rispettivamente nel centro cittadino per le migrazioni (IX municipio), nella sala consigliare di via Ignazio Silone (XII), nella scuola media Caetani di piazza Mazzini (XVII) e all’auditorium delle Fornaci (XVIII). A fare la parte del leone il XVII municipio, quello dei tribunali, dove il presidente Antonella De Giusti, ospiterà il sindaco e l’avvocato Lagostena Bassi che difese Donatella Colasanti. «Dal 2001 la giunta è composta per metà da donne - ha detto il sindaco Walter Veltroni - Abbiamo 4 presidenti donne nei municipi e abbiamo triplicato le donne nei Cda delle nostre aziende e il nostro obiettivo è di raggiungere il 50 per cento. Le donne, lo vedo in consiglio comunale, dimostrano una grande concretezza e una fortissima motivazione». «Contro la violenza sessuale il nostro non è l’impegno di un giorno» ha sottolineato l’assessore alle pari opportunità Gramaglia, ricordando che il comune di Roma è stato il primo a costituirsi parte civile in un processo per stupro, e i corsi di addestramento alla prevenzione della violenza rivolti ai lavoratori che fanno turni di notte. Anche la commissione delle elette presieduta dalla consigliera Adriana Spera, per l’8 marzo ha organizzato una serie di iniziative: “La giornata internazionale della donna”. Tra queste un dibattito di solidarietà per le mogli dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti, alle 17 alla Villetta in via degli Armatori, e alle 21 lo spettacolo teatrale Un pesciolino di Pier Paolo Pasolini al teatro Colosseo. Anche al teatro Belli un debutto a tema: Donne di Adriana Martino, in replica fino al 19 marzo. Al teatro di Tor Bella Monaca, invece, alle ore 21 va in scena Tango-la donna vestita di sole, ingresso libero. Per chi volesse tirare tardi c’è “La notte delle donne” organizzata dalla Regione Lazio: in replica alle 20, alle 21.30 e alle 23 al museo di Roma Palazzo Braschi di piazza San Pantaleo, letture da testi di Amelia Rosselli, Mariangela Gualtieri, Elsa Morante e Margherita Sarfatti. Gioia Salvatori

Il Giornale 7.3.07
La sterzata radical dei comunisti
di Alessandro Gnocchi


Sarà che il cachemire logora chi ce l'ha, sarà che il toscano adesso si fuma nei salotti, fatto sta che il compagno Presidente della Camera Fausto Bertinotti ha sterzato decisamente sul versante «radical». Visto che «chic» lo era già, come resistere alla tentazione di mettere insieme le due cose? E infatti non ha resistito.
Al diavolo le volgari rivendicazioni salariali, al diavolo le nuove povertà e al diavolo anche le vecchie. È arrivato il momento di radicaleggiare. E così, ecco che la Terza Carica dello Stato alza il tiro perché serve «una grande battaglia politica e culturale in Parlamento e nel Paese sui Dico e sui diritti civili. Come ai tempi del divorzio». E per farlo bisogna mettere insieme «sinistra radicale e riformista, laici e liberali».
Non sfuggirà che la Terza Carica dello Stato, fiore all'occhiello di un partito che si chiama Rifondazione comunista, non parla di «comunisti» ma di sinistra radicale riferendosi al suo schieramento. Tale terminologia manderà magari in fibrillazione il direttore di Radio Radicale, che ogni volta spiega che i veri radicali sono, scusate il gioco di parole, i radicali e non la sinistra radicale. Però spiega un fenomeno del quale bisogna prendere atto: quel che resta del vecchio Pci, nei diversi tronconi che vanno da Fassino a Bertinotti e Diliberto, si è trasformato in una sorta di partito radicale di massa: più agguerrito, più numeroso e persino, se mai fosse possibile, più cinico del plotoncino pannelliano.
Basta fare un prova. Prendete un operaio comunista sui sessant'anni, bendategli gli occhi e calatelo in una manifestazione per i cosiddetti diritti civili. Poi toglietegli la benda: tempo dieci secondi e se ne uscirebbe con una gragnuola di enormità così politicamente scorrette che lo prenderebbero per un provocatore fascio-clerico-leghista. Invece, il poveretto è solo rimasto al Pci che faceva il Pci. Al partito che, come ricorda Massimo Caprara che ne fu il braccio destro, ebbe in Palmiro Togliatti un deciso avversario dell'aborto. Al partito che, con l'inserimento della norma sui corpi sociali nella Costituzione, non pensava certo di dare il via libera al matrimonio degli omosessuali. Al partito che espulse per indegnità morale Pier Paolo Pasolini.
Se tornassero in servizio oggi, Marx ed Engels dovrebbero cambiare una parola del celebre incipit del loro Manifesto. Là dove scrivevano «Uno spettro s'aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo» dovrebbero sostituire «comunismo» con «laicismo». E non dovrebbero fare neanche tanta fatica, perché il laicismo non è altro che il cadavere putrescente del comunismo. La promessa radiosa del «tutto qui e subito» si è rovesciata nel «nulla ora e per sempre». Dall'utopia totalitaria si è passati a quella nichilista attraverso il semplice cambiamento d'uso delle medesime parole d'ordine: alienazione, coscienza, progresso, liberazione, uguaglianza, diritti civili e via delirando.
Con ciò, non si vuole rimpiangere Togliatti e il suo Pci. Ma solo mettere in guardia i gonzi che pensano di poter trattare impunemente con gli eredi di quella storia e di quei metodi. La piazza evocata da Bertinotti non è altro che un immenso Hotel Lux, l'albergo al civico 10 di via Gorkij a Mosca in cui ai tempi del Komintern dimoravano gli alti funzionari del Partito e i capi dei partiti comunisti stranieri. Ruth Fischer von Mayenburg, lo ricorda così: «Qui si discuteva, si cospirava e a volte si taceva in preda a un'angoscia di morte. Qui c'erano lacrime, sogni, tragedie».
Attenzione a quella piazza. E al compagno Bertinotti, subcomandante della sinistra ton sur ton, che la guarderà dall'alto. Magari in vestaglia come il Berlinguer della famosa vignetta di Forattini.
Mario Palmaro

Repubblica.it 7.3.07
Biografia del nuovo presidente della Cei, successore di Ruini ma soprattutto erede di Siri
Una vita tra Genova e le missioni militari in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano
Bagnasco, l'arcivescovo con le stellette difensore del ruolo dei cattolici nella società


ROMA - Angelo Bagnasco, 63 anni, attuale arcivescovo di Genova e generale di corpo d'armata collocato a riposo dopo aver accompagnato i contingenti italiani in Bosnia, Iraq, Afghanistan e Libano, è nato da genitori genovesi a Pontevico in provincia di Brescia, dove la famiglia era sfollata per la guerra.
Il padre era pasticcere, la madre casalinga. Ha studiato nel seminario di Genova ed è stato ordinato prete nel '66 da Giuseppe Siri, l'allora arcivescovo del capoluogo ligure che lo ha preceduto anche alla guida della Cei. Laureato in filosofia, docente di Metafisica e ateismo contemporaneo presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, è stato per 25 anni vicino agli scout e per 15 assistente della Fuci.
Dal 1986 al 1994 Bagnasco è stato preside e docente dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova, con competenza per tutta la Regione Ecclesiastica Ligure. Dal '95 al '98 ha diretto il seminario di Genova, è diventato poi vescovo di Pesaro, nel 2003 ordinario militare, fino alla nomina a Genova, successore di Tarcisio Bertone, dove si è insediato lo scorso 24 settembre.
E' presidente del consiglio di amministrazione del quotidiano della Cei, Avvenire, e dal 2002 al 2005 è stato anche segretario della Commissione Episcopale per l'Educazione, la Scuola e l'Università.
Bagnasco è considerato soprattutto l'erede del cardinale Siri, che lo ha guidato nella sua maturazione spirituale e culturale. Sulla sua posizione nel dibattito attuale sulla posizione della Chiesa all'interno dei vari Stati si è pronunciato recentemente, anche in un'intervista a Repubblica: "Cercano spesso di farci passare per degli intolleranti. Non è così. Il problema è quello dell'identità culturale, in Italia come in Francia. In Europa siamo il cuore del mondo, ma fatichiamo a definire la nostra identità", ha detto nei giorni scorsi.
Secondo Bagnasco, "i cattolici devono difendere la famiglia e la Chiesa cattolica deve richiamarli a questo compito". "Non si vogliono fare guerre sante: i nostri valori - ha affermato Bagnasco - vanno difesi con serenità, moderazione, ma anche con fermezza di fronte allo Stato che fa le sue leggi".

Repubblica 7.3.07
Esce venerdì "In memoria di me" il film-scandalo del cineasta romano
Costanzo: "Il silenzio un valore da scoprire"
"Bellocchio è il maestro a cui devo tanto"
di Maria Pia Fusco


Il dialogo. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo
Vivere in convento. Non ci sono indicazioni, non c´è l´apologia del vivere in convento o all´esterno

ROMA - «Non ho voluto fare un film sulla religione né mi interessa la polemica pruriginosa. Ma se il film non piacerà al cardinal Ruini non mi stupirò, ne sarò perfino orgoglioso: significa che sarò riuscito ad innescare una riflessione». È la risposta di Saverio Costanzo alle critiche del gesuita Federico Lombardi sul suo film In memoria di me che, dopo la positiva accoglienza al festival di Berlino, esce venerdì in Italia con 80 copie. «Non credo che, come dice Lombardi, senza fede non si possa parlare di fede. Non mi piace il muro contro muro, credo nell´apertura e nel dialogo, credo che l´argomento religioso, inserito in un contesto cattolico perché questa è la nostra cultura, possa essere affrontato anche da un punto di vista laico».
Andrea, il protagonista del film, cerca le risposte ai dubbi e alle domande sulle ragioni del vivere chiudendosi tra le mura di un convento, dove il silenzio e i ritmi lenti del vivere quotidiano inducono al dialogo interiore, alla ricerca dell´assoluto. È il bacio di un giovane sulle labbra di un istruttore prima di uscire nel mondo esterno che potrebbe accendere la polemica. Costanzo rifiuta ogni confronto con la "mala educacion": «L´omosessualità, più presente nel libro di Furio Monicelli a cui il film è liberamente ispirato, non è il tema centrale. Il bacio è un invito a lasciarsi andare all´amore, non quello fisico, ma l´amore per l´altro, per gli altri, di cui parla il Vangelo, l´opposto del bacio di Giuda. Il tema è quello delle domande "impossibili" che tutti, laici o religiosi, ci poniamo da sempre».
Le letture alla base del film «sono state varie, da Ignazio da Loyola alle meditazioni nel deserto ai teologi francesi. Non è un film di parte, volevamo la libertà di un´apertura totale. Non ci sono indicazioni per una scelta precisa, non c´è nessuna apologia del vivere in convento o all´esterno. Abbiamo girato in un´isola di fronte a Venezia, riconoscibile per gli italiani, ma un´isola è comunque un luogo astratto, internazionale. La vita di Andrea e dei novizi si svolge nel chiuso dell´interno, ma il mondo esterno continua i suoi ritmi, c´è e si vede », dice Costanzo che, prima delle riprese, è stato per giorni in un convento insieme agli attori - Christo Jivkov, Marco Baliani, Filippo Timi, ecc. - «ed è stata una preparazione perfetta. Abbiamo scoperto che durante i pasti i religiosi non ascoltano canti sacri ma musica varia, dalla polka al valzer, ci ha aiutato per il film. E abbiamo scoperto l´importanza del silenzio. Che per molte persone è diventata un´esigenza, negli ultimi anni in occasione di certe festività i conventi si riempiono di ospiti».
Nel film si ringrazia Marco Bellocchio, «il cineasta verso il quale mi sento più in debito, un maestro che, grazie alla moglie Francesca che è la montatrice del film, abbiamo avuto la fortuna di interpellare. E ci ha spinto a tagliare e tagliare, ci ha insegnato ad essere essenziali». In memoria di me è il secondo titolo di Costanzo dopo Private, due film lontani - l´unica similitudine è nei personaggi costretti in un luogo delimitato - due storie "adulte", sorprendenti per un autore giovane. «Non so perché ho scelto questi temi, è vero sono due film "anziani": forse la giovinezza con me ha saltato un giro».

La Stampa 7.3.07
Non è una deriva questo è un sogno
Intervista ad Oreste Scalzone
Il leader di Potere Operaio venerdì all’Askatasuna
“Le armi? Tutti le avevamo. Un altro ’77 è possibile”
di Lodovico Poletto


Torino. Noi eravamo contro il socialismo reale o capitalismo di Stato. E contro l’egualitarismo, inteso come quello al ribasso, che livella. Noi eravamo rivoluzionari. Ci attaccava il Pci perché eravamo con gli operai della Polonia. Noi dicevamo che l’odio di classe partiva dall’odio dell’operaio verso la sua indigenza e alienazione: noi eravamo operaisti». Parla Oreste Scalzone, anima e fondatore di Potere operaio, rientrato ufficialmente in Italia soltanto da pochi mesi. Parla e spiega il suo mondo, quello degli Anni 70, il Movimento del ‘77. Racconta la sua esperienza, e anticipa ciò che dirà agli autonomi di Askatasuna che lo hanno invitato a Torino a parlare di quegli anni. «Sui muri di Bologna, nel ‘77, comparve una scritta che diceva “Siamo il ‘77 e non il ‘68” con riferimenti all’operaismo e al movimento studentesco. Oggi la questione della precarizzazione non si può arrestare e non si può tornare agli operai. Oggi il terreno dello scontro è questo: la precarizzazione, la globalizzazione, Internet. Questo è 2007 non il 1977».
Insomma siamo a un deja vù, un salto indietro nel tempo?
«In fondo sì, mi sembra un po’ una ripetizione di ciò che accadde allora».
Secondo lei c’è il rischio di una deriva armata oggi?
«Io non la chiamerei deriva, ma sogno o delirio. Comunque se oggi ci fosse questa deriva, e la dico come direbbe Leo Valiani, si spazzerebbe via l’ordine costituito».
Però forse, allora, eravate molti di più?
«Eravamo 150 mila, non di più, anche se qualcuno dice che si era oltre 600 mila. Eravamo questi, anche se, forse, almeno un milione di persone era in qualche modo vicino a noi».
Ha senso, oggi, ripercorrere i fatti del ‘77 e di tutti gli anni che sono seguiti?
«Io vengo a parlare del ‘77 che potrebbe arrivare domani. O meglio, che a mio parere potrebbe arrivare. Oggi è inattuale, assolutamente: ma è lì. E io e sono disposto a raccontare pezzi della mia memoria: dagli Anni 60 in poi».
Viene ad anticipare i tempi?
«Assolutamente no. Questo incontro serve per tentare di capire quello che è stato».
Si sente nostalgico?
«No, non parlo per compiacermi. Non sono per nulla nostalgico. Mi dicono che vivo come allora, e se è vero che vivo così, non mi mancano certamente quelle sensazioni».
Si sente un cattivo maestro?
«Per quelli che mi dicono queste cose, in punto di morte, mi rammaricherò di non esserlo stato abbastanza. E se, per qualcuno, sarò stato un buon maestro, gli risponderò come diceva Gesù: “Tu l’hai detto”. Comunque, il mio vero pensiero è questo: beata la gente che non ha bisogno di maestri. Buoni o cattivi che siano».
Eppure lei, nella sua esperienza, ha impugnato le armi. Non è vero?
«Le armi, a me, sono passate per le mani: lo ammetto. A me come a molti altri».
A tutti quelli che hanno partecipato al movimento del ‘77?
«Guardi, provocatoriamente mi verrebbe da dire di sì. Se si va a spulciare le sentenze di processi vedrà che ci sono pacchi di condanne per reati dalla rapina in su. Insomma: ogni organizzazione ha avuto militanti passati nei gruppi armati. E si sarebbe disonesti nel dire che la questione delle armi, in quegli anni, riguardò soltanto Potere Operaio».