domenica 11 marzo 2007

Repubblica 11.3.07
La chiesa di Pascal che piace a noi laici
di Eugenio Scalfari

LA QUESTIONE è diventata talmente chiara che la stessa Chiesa italiana ha smesso di negarne l´esistenza: esiste uno scontro aperto tra la Conferenza episcopale (cioè il maggior organo pastorale e politico dei cattolici) e lo Stato italiano, la rappresentanza parlamentare, i vari partiti e associazioni democratiche.
Due concezioni si contrastano, due culture ciascuna delle quali deve moltissimo all´altra, si contrappongono e non soltanto sui modi per raggiungere un obiettivo comune, ma sulle finalità stesse che vengono proposte. Gli ultimi due papi scavalcando a piedi pari gran parte delle conclusioni e dello spirito del Vaticano II e di fatto cancellando i due pontificati precedenti, quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI, hanno fatto dell´accusa di liberalismo e di relativismo un tema centrale e l´hanno usato sistematicamente per sconfessare di fatto l´intero valore della modernità, dal Rinascimento alla libera ricerca, dalla scienza sperimentale allo stoicismo di Montaigne, al "Discorso sul metodo" di Cartesio, all´ "Etica" di Spinoza, all´Illuminismo, alla "Critica della ragion pura" di Kant e infine ai più recenti svolgimenti del pensiero filosofico derivanti da Schopenhauer e da Nietzsche e agli esiti scientifici di Freud, di Einstein e della fisica quantistica.
Tutto questo immenso deposito di pensiero e di sapere è impregnato di relativismo nelle sue diverse varianti metodiche conoscitive ed etiche e tutto, preso nel suo insieme, si è proposto di spodestare la metafisica dal vertice del pensiero filosofico dove si era insediata a partire da Platone. Se dunque Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur dotati di diversa portanza e di diverso linguaggio, hanno deciso di eleggere come nemico numero uno della cattolicità il relativismo e l´Illuminismo e lo hanno ripetuto in gran parte delle loro pubbliche allocuzioni e delle più solenni encicliche; e se Ratzinger appena insediato sulla cattedra petrina, nella sua prolusione all´università di Ratisbona ebbe nei confronti del fondamentalismo islamico accenti addirittura meno severi di quelli riservati al pensiero moderno dell´Occidente, non è purtroppo lontano dal vero parlare oggi d´uno scontro in atto tra cattolicesimo e modernità. La Chiesa lo nega tenacemente.
E come potrebbe ammetterlo, visto che la sua missione è quella di stare tra la gente, ascoltarne i dolori e le richieste, darle un progetto di sicurezza e di salvezza senza mai separarsi dai diversi e dai peccatori? La Chiesa tiene ben ferma questa sua missione perché essa costituisce il fondamento del messaggio evangelico e della predicazione del Cristo e dei suoi apostoli. Ma la contraddice tutte le volte in cui fa passare questa missione in seconda fila di fronte ad altre incombenze che ritiene più urgenti per l´affermazione del suo potere.
In realtà nella Chiesa cattolica ci sono due anime. Una è quella dell´Evangelo, dell´amore, della misericordia, della povertà; l´altra è quello del potere, della politica, dell´ "imperium". La prima spesso è perseguitata, sofferente e tuttavia portatrice di salvezza nel regno futuro delle Beatitudini; la seconda si sente forte e fonte unica e legittima d´investitura: investitura di verità e insieme di potere terreno.
Nella Chiesa cattolica questa divisione tra le due anime è stata particolarmente visibile per la struttura stessa della sua organizzazione centrata su un unico personaggio che la rappresenta interamente per il fatto stesso di rappresentare il Cristo incarnato e portare con ciò la presenza del Redentore. Nelle altre chiese cristiane questa unità di comando non esiste e neppure esiste nelle altre religioni monoteistiche: nell´Islam e nell´ebraismo. Probabilmente questa duplicità del cattolicesimo questa sua doppia anima riunificata in una persona è stato uno degli elementi che ne ha esaltato la dinamica e la capacità di comprendere e di aderire ai mutamenti della società. Per capire a fondo le persone, individui e comunità, bisogna avere l´attitudine e l´attrezzatura psicologica per commerciare anche con gli interessi oltre che con i principi le convinzioni e i dogmi. La Chiesa cattolica è stata la sola ad avere questa vocazione e i frutti positivi ne sono stati copiosi per lei e per le popolazioni che ne hanno seguito il messaggio e gli incitamenti.
Ma non è certo un caso se in anni più recenti la sua influenza si è ristretta nel mondo occidentale ed è diventata assai più ampia in Africa e in America Latina. Questo movimento di sgonfiamento e rigonfiamento ha proceduto di pari passo con la secolarizzazione della società moderna l´affermarsi del concetto di laicità nelle nazioni dell´Europa e del nord America. La vocazione missionaria nel senso più ampio del termine della Chiesa cattolica ha finalmente sfondato in quei paesi ancora immersi nella povertà e in mitologie tribali che la Chiesa ha avuto la capacità di trasferire nel messaggio cristiano come del resto già aveva fatto nel momento della evangelizzazione dei popoli germanici alla caduta dell´Impero Romano.
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Il nemico è insomma il relativismo, la rivendicazione dell´autonomia di ciascuno, la ricerca sperimentale della verità che non esclude neppure l´inesistenza di un´unica verità assoluta. E di conseguenza l´abbandono della trascendenza, antico rifugio contro l´insicurezza del vivere e ultima istanza del giudizio finale tra buoni e cattivi, tra bene e male.
Il pensiero laico è stato lungamente silente su questa diabolizzazione cui la Chiesa l´ha sottoposto. Parlo del pensiero laico e non di quello anticlericale che ne rappresenta una caricatura.
Il pensiero laico non ha mai escluso (e come potrebbe?) il mistero, l´Increato, la necessità di dare un senso al nostro vivere. Si è sempre posto con estrema serietà i problemi della vita e della morte. Non ha mai confuso il complesso delle sue idee e delle sue convinzioni con la secolarizzazione consumista che è fenomeno diverso e per molti aspetti deteriore. Per di più il pensiero laico, anzi il mondo laico, non ha una struttura di potere, non ha associazioni proprie che lo rappresentino, non parla "ex cathedra". Predica libertà, democrazia, tolleranza. Perciò non ha alcuna responsabilità nello scontro che si è determinato con la Chiesa se non per il fatto di opporsi alle pretese ecclesiastiche di voler imporre ad una comunità dove convivono pacificamente cattolici, laici e fedeli di altre religioni, istituti che vietino l´esercizio e il riconoscimento dei diritti. Diritti di minoranze, certo, e proprio per questo ancor più sacri e degni di riconoscimento e tutela.
Ieri si è svolta a Roma una manifestazione in favore del progetto di legge sulle convivenze di fatto, sia eterosessuali sia omosessuali sia affettive tra amici e parenti lontani. Come tutte le proposte, anche queste possono essere migliorate ma non certo abolite. Questa sarebbe infatti una prevaricazione contro una minoranza del tutto inaccettabile per ogni democratico responsabile. Proprio per questo il documento dei sessanta parlamentari cattolici della Margherita in difesa della propria autonomia rispetto alle ingiunzioni dei Vescovi sul voto per le convivenze di fatto ha rappresentato un evento positivo e – senza esagerazione – storico. Non accadeva da mezzo secolo che il laicato cattolico politicamente impegnato prendesse una posizione di questo genere. L´episodio di De Gasperi, quando bocciò la lista clerico-fascista nelle elezioni comunali di Roma, proposta da Sturzo e caldeggiata da papa Pacelli, fu un atto di grande importanza che aveva però come autore un presidente del Consiglio capo e fondatore della Dc. Nel caso dei "sessanta" si è trattato di deputati e senatori per lo più sconosciuti e tuttavia fieri dell´autonomia del loro rango costituzionale e del loro impegno politico.
Gli avversari dei patti sulle convivenze di fatto cercano di dimostrare che quei diritti sono in gran parte già riconosciuti dal codice civile e che quindi una legge in proposito è del tutto inutile. Se la si vuole, la si vuole per dare riconoscimento pubblico a quei diritti e a quelle coppie. L´obiezione è in parte inesistente e in parte sbagliata. Inesistente perché la quasi totalità dei diritti in questione deve essere affermata "erga omnes" cioè nei confronti dei terzi, senza di che quel diritto è di fatto inesistente. Sbagliata perché il riconoscimento pubblico di una situazione è un atto fondamentale che attiene alla dignità delle persone ed alla loro riconoscibilità.
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Qualche giorno fa si è svolto nel salotto televisivo di Giuliano Ferrara un dibattito di spessore su questo tema. L´ho seguito con interesse; ho apprezzato la prudenza e anche il garbo con il quale ha sostenuto le ragioni della Chiesa il cardinale Barragan, le efficaci stimolazioni del conduttore il quale, per antica vocazione, vorrebbe che i suoi invitati preferiti facessero a pezzi gli avversari e che il suo manicheismo fosse fatto proprio da tutti i partecipanti non concependo lui, nella vita pubblica, altra modalità per regolare i conti tra opposte convinzioni, interessi, poteri. Ma ho soprattutto apprezzato l´intervento finale di Rosy Bindi, coautrice con il ministro Barbara Pollastrini del disegno di legge sulle convivenze di fatto ormai da tempo presentato in Parlamento.
Sul tema specifico si era già detto tutto e del resto esiste un testo legislativo che non abbisogna di ulteriori spiegazioni. Di che cosa dunque doveva parlare la Bindi a chiusura di quel dibattito? Ha parlato di cristianesimo. Ha detto tre cose che mi hanno molto colpito e che voglio qui riportare con la massima chiarezza così come mi sono arrivate.
Vorrei che la religione si occupasse soprattutto di Dio e di Cristo.
Vorrei una Chiesa pastorale che non solo vivesse tra la gente ma tra i diversi, tra quelli che non la pensano come noi, che noi consideriamo peccatori, ma che sono pur sempre uomini e donne come noi. In loro dobbiamo percepire esaltare aiutare la scintilla divina che anch´essi possiedono al pari di noi. Che cos´altro il Cristo ci esorta a fare? Ma è questo che stiamo facendo?
Tanti uccelli si posano la notte sui rami degli alberi e ne ripartono al mattino. A volte ritornano, altre volte non più. Ma l´albero che li ha ospitati ha comunque dato e ricevuto da ciascuno di essi qualche cosa, qualche insegnamento e comunque la presenza di una vita.
Non so se questa conclusione d´un dibattito che si annunciava ed è stato polemico sia piaciuta al suo turgido conduttore. A me, laico non credente, è piaciuta molto. A me piace la Chiesa di Francesco e anche quella di Agostino, quella di Bernardo, quella di Duns Scoto. Mi piace quella di Pascal e quella di Maritain. Mi piace quella del cardinale Martini. Mentirei se dicessi che mi piace quella di Camillo Ruini. Politicamente sarebbe forse stato un papa migliore di Ratzinger. Ma la Chiesa ha bisogno di un politico sulla sedia di Pietro?
Se è questo di cui ha bisogno, allora è perduta.

l'Unità 11.3.07
L’embrione e i piccoli inquisitori
di Carlo Flamigni


Gli studenti milanesi di Comunione e Liberazione non possono essere troppo biasimati per non essere stati capaci di gestire l’improvvisa popolarità che li ha colpiti e per non saper distinguere tra dialettica e maleducazione. Il cartellone esposto davanti alla Cattolica (la cui fotografia è stata pubblicata da l’Unità del 6 marzo) intitolato «Auschwitz o Università Statale?» ne è solo un esempio. In realtà, chi esce con le ossa rotte da questo increscioso episodio è l’Università che ancora una volta si dimostra incapace di educare; e chi ne esce ancor peggio è colui che a quei ragazzi ha fatto da padre spirituale e che ha saputo solo trasformarli in piccoli censori morali. Almeno, nei tempi passati, il mestiere di Inquisitore era cosa da adulti, non lo si affidava alle mani innocenti dei ragazzini. Provo comunque a ignorare, come mera espressione di buona volontà, l’irrefrenabile voglia di goliardia dei bravi ragazzi milanesi, non tengo conto dei loro eccessi e rispondo a quella che, almeno all’inizio, sembrava una proposta di dialogo. Chiedendo però di accettare almeno una regola: che il dialogo sia laico e che ognuno di noi inizi sempre le sue riflessioni dicendo «secondo me»: al primo non possumus, alla prima presentazione di valori sui quali non è possibile negoziare, chiudo il computer e torno alle mie faccende, ho molte cose arretrate.
Prima questione: quando si vuole essere ascoltati dalla istituzioni - in questo caso dal Comitato Nazionale per la Bioetica - non si scrivono bugie. Nella lettera al Cnb gli studenti Cl hanno scritto che il professor Emilio Dolcini, nel convegno organizzato dalla professoressa Cattaneo, «ha illustrato come in Italia sia consentito lavorare su cellule staminali embrionali importate dall’estero per un buco legislativo della legge 40/2004». In realtà il professor Dolcini ha detto che nella legislazione penale italiana non esiste alcun divieto di ricerca sulla cellule staminali embrionali; poi, rispondendo a chi aveva prospettato l’esistenza di un divieto implicito ha ricordato che nel diritto penale vige il principio della legalità dei reati e delle pene con la conseguenza che eventuali lacune nella legge possono essere colmate solo dal legislatore, non dall’interprete.
Questa storia del divieto implicito merita un ulteriore commento. Una parlamentare cattolica si era espressa molto duramente contro quei ricercatori che avessero osato ignorare lo spirito della legge e aveva dichiarato come fosse fin troppo evidente che ricerca sulla cellule staminali di origine embrionale non se ne poteva fare, in Italia, neppure importando le colture dall’estero. Sconfessata, invece di chiedere scusa, come avrebbe dovuto, aveva minacciato di presentare una legge che colmasse questa terribile lacuna. Ho cercato a lungo di capire le ragioni di questo accanimento e sono stato finalmente illuminato durante una discussione con un noto bioeticista cattolico che mi ha spiegato che ogni cellula staminale embrionale è in realtà un embrione (e quindi una persona potenziale) e che perciò la non liceità di questi esperimenti è sin troppo evidente. Sono certo che gli studenti milanesi sono (anche) biologi raffinati e non cadono in queste trappole, ma per chi non avesse le idee chiare espongo i motivi per i quali si deve ritenere errata la convinzione del bioeticista cattolico (e di molte altre persone, illustri parlamentari compresi): le cellule embrionali sono totipotenti fino alla formazione della blastocisti, quando si separa il trofoblasto dalla massa cellulare interna. A questo punto, parte di questa totipotenza viene perduta e le cellule della massa cellulare interna, quelle che vengono prelevate per gli studi sulle cellule staminali, non sono più in grado di fare placenta e annessi fetali: queste cellule, dunque, anche con la migliore buona volontà, non sono “uno di noi”.
Passo ora a esaminare la dichiarazione più forte contenuta nella lettera alla professoressa Cattaneo: «Non abbiamo bisogno di attendere ulteriori progressi della ricerca scientifica per stabilire che se un embrione non viene soppresso si mostrerà come quell’individuo umano che è fin dall’inizio». Accidenti, siamo proprio in piena “dittatura dell’embrione”: ai ragazzi è apparso in sogno monsignor Sgreccia e ogni mistero è stato loro svelato! Vediamo invece come stanno le cose, almeno secondo me.
Secondo me sull’inizio della vita individuale nessuno può avere certezze, a meno che non si tratti di certezze di fede, che hanno certamente un grande peso, ma solo un peso personale. Il Magistero Cattolico ha sostenuto per molto tempo (anche con le parole e gli scritti dell’attuale Pontefice) che l’inizio della vita personale era post-zigotico, e lo zigote è la cellula che si forma dopo l’anfimissi, cioè dopo la scomparsa dei due pronuclei nell’ootide (chi non crede a questa definizione deve sapere che l’ha scritta Bompiani, bioeticista cattolico di fede provata): oggi l’inizio della vita personale è stato anticipato all’attivazione dell’oocita, cioè di 24 ore, e speriamo che ci si fermi lì, o gli scenari diventeranno veramente misteriosi. Ma quello che gli studenti milanesi debbono sapere, per molcire un po’ le loro fastidiose certezze, è che bioeticisti e filosofi cattolici di queste teorie ne hanno partorite molte altre e che tutte queste ipotesi sono ancora lì sul tappeto, nessuno le ha condannate, nessuno le ha ritirate. Per la bibliografia rimando al mio sito: www.carloflamigni.it. Elenco dunque soltanto le ipotesi più rilevanti, tutte, ripeto, elaborate all’interno della cultura cattolica, tutte vive e vitali: 1) l’ipotesi post- zigotica; quella blastocistica, che attende la scomparsa della totipotenza; 2) quella dell’attivazione del genoma embrionale; 3) quella della scomparsa della capacità di formare gemelli omozigoti; 4) quella dell’inizio dell’impianto; 5) quella della comparsa della linea embrionaria primitiva; 6) quella della comparsa delle prime cellule nervose; 7) la teoria ilomorfica. L’elenco dei filosofi cattolici che le sostengono è lungo, anche per questo rinvio al mio sito.
Quanto ho detto vale per il mondo cattolico, non è neppur necessario ricordare che altre religioni propongono ipotesi ancora diverse. Che facciamo, neghiamo loro serietà e coerenza? Ammettiamo che la verità stia tutta dalla parte degli studenti cattolici e che gli altri, che so, siano tutti fratelli che sbagliano ( o fanatici pericolosi)?
Credo che questi ragazzi abbiano perso una buona occasione, che per fortuna certamente si ripresenterà in avvenire: se fossero intervenuti nel dibattito avrebbero potuto aprire un dialogo con Demetrio Neri, che non è solo un grande filosofo, è anche un grande maestro e sa dialogare e convincere. Avendo scelto un gesto goliardico, si sono invece esposti a un grande rischio: diventare un simbolo politicamente molto utile per tutti i cattivi maestri, i mestatori di fango. Cattiva scelta, brutto destino.
Ultima cosa: è necessario un po’ più di rispetto per la scienza e per i ricercatori. Di scienza ci sarà ancora modo di parlare in avvenire; per quanto riguarda i ricercatori, leggo ogni tanto allusioni e riferimenti misteriosi a non so quali interessi che indurrebbero alcuni scienziati a privilegiare la ricerca sulle staminali embrionali: non è solo una menzogna, è maldicenza della più bell’acqua. Se ci pensate, se considerate i finanziamenti dello Stato e i privilegi che vengono offerti in cambio del piatto di lenticchie della propria coscienza, dovete ammettere che, semmai, è vero il contrario.

l'Unità 11.3.07
Libero cilicio in libero Stato
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

Ce ne aveva offerto un vivido racconto Dan Brown, nel suo «Codice da Vinci» e una rappresentazione, ancor più cruda, il regista Ron Howard, nella sua trasposizione cinematografica. Dal dizionario si apprende che si tratta di un «panno ruvido e grossolano di pelo di capra, usato dai Romani»; e che, dalle sue origini classiche in avanti, è divenuto una «cintura molto ruvida di setole annodate, portata sulla pelle nuda per penitenza». Il concetto di espiazione della colpa è tanto connaturato a questo oggetto che l’uso figurato del nome che lo designa, nella nostra lingua, può stare per “tortura”, “tormento fisico”, “supplizio morale”. Gli anacoreti cristiani erano soliti «indossarlo sulla nuda pelle per mortificare la carne» (Wikipedia). È evidente di cosa stiamo parlando. La senatrice Paola Binetti, esponente di punta di un cattolicesimo assai “intenso” e sempre più attivo all’interno del centrosinistra, ha offerto al sistema dell’informazione la sua testimonianza di credente che fa ricorso a pratiche di mortificazione del proprio corpo. E, così, ha fatto irruzione, nello spazio pubblico, il cilicio. Sia chiaro: non intendiamo certo avallare quegli argomenti, così diffusi, che stabiliscono un’equiparazione tra l’arcaicità di talune pratiche e il loro (presunto) carattere primitivo e oscurantista. E, d’altra parte, sono assai diffuse - nelle nostre società - forme di manipolazione del corpo (attraverso interventi dietetici, igienici, estetici, chirurgici, sanitari, agonistici...) altrettanto, se non più, afflittivi.
Insomma, è pacifico che per noi Paola Binetti può fare, del suo corpo, ciò che meglio crede: libero cilicio in libero stato. E sarebbe interessante, come esercizio intellettuale, cercare di comprendere il senso della partecipazione corporea del cattolico alla sofferenza di Cristo; tornare a riflettere - da laici - sul valore mistico e ascetico della mortificazione; interpretare l’accettazione del dolore e l’esercizio della sopportazione alla luce delle trasformazioni che interessano il rapporto tra corpo e cultura e tra corpo e società. Perché il dato materiale, sensuale e corporeo della nostra esistenza si va facendo sempre più centrale in molte delle questioni del nostro tempo. Non a caso la bioetica rappresenta l’orizzonte sul quale si addensano le maggiori ansie e attorno al quale ruotano le più accese passioni che percorrono la società; e le relazioni tra stato, legge, dimensione collettiva e pubblica - da un lato - e corpo, persona, individuo - dall’altro - è in via di costante ridefinizione. E costituisce il terreno di confronto (e scontro) per molte delle forze oggi in campo.
Insomma, siamo con Paola Binetti. E per quale motivo dovrebbero apparirci socialmente accettabili le diete più estenuanti e i patimenti della chirurgia estetica e non le pratiche (fisicamente forse meno mortificanti) di taluni credenti?
Tuttavia, ci sono un paio di domande che vorremmo porre alla senatrice Paola Binetti: non crede che in molti, moltissimi casi (come in quello di Piergiorgio Welby) la volontà di fuggire il dolore abbia la stessa dignità morale della sua volontà di accettarlo? Non crede che se è lecito per un credente sottoporre il proprio corpo a sofferenze “gratuite”, debba essere lecito, per chiunque altro, rifiutare altre - parimenti gratuite - sofferenze? Ecco, allora, che la critica ai rigori di certe pratiche religiose solleva (giuste e sacrosante) repliche: «Chi siete voi per giudicare? Se in quest’epoca ognuno fa del proprio corpo ciò che vuole, perché tale diritto deve essere negato proprio a noi credenti?». Tuttavia, una contraddizione appare stridente: i credenti si appellano a quel principio di sovranità sul proprio corpo per rivendicare un loro diritto e una loro libertà; si appellano a un principio che, fatta salva questa circostanza, combattono ogni giorno in materia di libertà di cura, di maternità consapevole, di politica sulle droghe, di riconoscimento del valore delle scelte sessuali e relazionali della persona.
Beh, per quanto ci riguarda non avranno mai di che preoccuparsi: il loro cilicio non ci interessa e la pensiamo un po’ come Vittorio Messori: «vivremmo tutti meglio se ciascuno si facesse i cilici suoi». Pure, diamo a quei credenti un modesto consiglio: attenti, se la battaglia (che per alcuni di voi appare proprio una “guerra”) che avete avviato contro molte libertà personali conducesse davvero a un controllo della sfera pubblica sulle libertà individuali, un giorno qualcuno, per una strana eterogenesi dei fini, potrebbe contestarvi l’uso di qualsivoglia ruvida corda di peli di capra, cinta sulla coscia o dove più vi pare. E, allora, dovrete augurarvi che qualche radicale senza Dio, qualche liberale illuminato, qualche sincero democratico corra in vostro aiuto, a difendere la vostra libertà di credenti.

l'Unità 11.3.07
Ma fare il Pd non vuol dire uscire tutti dai Ds?
di Fulvia Bandoli

Sarebbe tempo di dire finalmente le cose come stanno invece di menare scandalo per alcune affermazioni fatte da esponenti della sinistra ds nei giorni scorsi, che non annunciavano un bel nulla ma chiamavano semplicemente le cose con il loro nome.
Se, come dice Fassino, il Pd deve nascere al più presto è chiaro che i Ds si sciolgono al più presto. Magari non ad aprile, ma qualche mese dopo sicuramente. E che la fase costituente sarà brevissima. Questo è dunque l’ultimo congresso dei Ds. Con il voto alla mozione di Fassino si autorizza il gruppo dirigente a fare un altro partito e a sciogliere questo partito che ci vede insieme.
Ciò che accadrà da qui a pochi mesi, quindi, sarà che “usciremo tutti dai Ds” semplicemente perchè questo partito non esisterà più e ne nascerà un altro, nuovo di zecca.
Esagero? Si può forse dire che i Ds si trasferiranno così come sono nel Pd, con le loro sezioni, la loro organizzazione? Non si può dire perché così non sarà. Perchè se così fosse il Pd sarebbe una Federazione e invece si è detto in tutti i modi che non lo è, che sarà un partito nuovo e non la somma di due o più partiti, e che l’adesione sarà individuale. La verità sul processo in corso è la prima condizione per una scelta consapevole da parte degli iscritti, e un gruppo dirigente deve prendersi per primo, e in tutte le sue componenti, la responsabilità dei percorsi che propone. Non può esistere a lungo il partito democratico secondo Fassino, quello secondo Rutelli, quello secondo D’Alema. Ad un certo punto tutte le “letture personali” dovranno lasciare il posto ad una proposta unitaria. E non è forse legittimo che ognuno di noi prima di entrare in un partito che presenta tante incognite, tante incertezze e alcune inquietanti certezze ci voglia pensare su?
Proviamo ad analizzare più a fondo alcuni di questi punti: è assai improbabile che il Partito Democratico entri a far parte del Pse, io credo ai dirigenti della Margherita che escludono a priori questa ipotesi e penso che alla fine di questo braccio di ferro a cedere saranno i Ds. Non è un caso che il «manifesto dei saggi» abbia già sancito che si “collabora” con il socialismo europeo e basta. E allora, se questa è la strada, chi si separa dal socialismo europeo? Quelli che la pensano come noi oppure quelli che dicono che il Pd va bene comunque anche se sarà fuori dal socialismo europeo?
Ho fatto questo esempio per dire che parlare di scissioni e di separazioni non aiuta, avvelena il clima, e applica categorie improprie e datate a scelte che invece sono inedite per tutti.
La storia della sinistra ds parla per noi, abbiamo sempre seguito il percorso di questo partito e le sue molte trasformazioni (alcune condivise e altre meno), non ci siamo mai sognati di andare da qualche altra parte. Ma la proposta del Pd non è l’ennesima trasformazione del più grande partito della sinistra: presentare così il partito democratico significa sminuirne la portata da parte degli stessi proponenti. Io non condivido in radice questa proposta (io sostengo la proposta contenuta nella mozione Mussi, che nell’Ulivo ci sia una sinistra autonoma organizzata attorno ai Ds e un centro democratico attorno alla Margherita, alleati, ma non fusi insieme in un partito unico) ma se si vuole far camminare almeno un po’ l’idea del partito democratico bisognerebbe evidenziarne le parti innovative e non quelle conservative. Questa volta non si trasforma la sinistra italiana, questa volta si prende una strada diversa, io direi una strada traversa.
E infatti il documento scritto dei saggi nominati da Fassino, Prodi e Rutelli, per ora l’unico documento unitario Ds-Margherita, dice chiaramente quanto sia diversa la strada che si prende. Anche se nei congressi Fassino mette ai voti la sua mozione, in realtà il documento dei Saggi supera la mozione Fassino e scioglie diversi nodi che la mozione del segretario non scioglie.
Cito solo i principali: il partito democratico sarà fuori dal Pse perchè le tradizionali famiglie europee sono oramai incapaci di capire i mutamenti e vanno rinnovate, il Pd costituisce questo rinnovamento. E dunque il nuovo partito collaborerà con il Pse e con altri gruppi ma non ne farà parte, sarà autonomo. Posizione chiarissima, che bene riassume ciò che Rutelli viene da sempre dicendo: «l’approdo del Pd è il gruppo liberaldemocratico diretto da Bayrou». Il concetto di laicità viene definito in rapporto ai credenti, e solo essi sembrano portatori di valori etici e morali. Dei non credenti nessuna traccia e si saluta così il valore della laicità come terreno comune di credenti e non credenti definito così bene nel carteggio di tanti anni fa tra Enrico Berlinguer e Monsignor Bettazzi. Il quel Manifesto non si incontra mai la parola giustizia sociale, principio fondante del socialismo, e neppure i lavoratori e le lavoratrici vengono menzionati, così come si legge con chiarezza una certa equidistanza tra i sindacati e la confindustria. Si trova spazio per dedicare diverse righe al cinema e una sola parola per una delle più grandi contraddizioni dello sviluppo. Sull’energia e sulla rivoluzione che servirebbe fare urgentemente in questo settore cè solo uno stanco e rituale richiamo al sempre più inapplicato protocollo di Kyoto.
Nessun esponente della maggioranza ha preso le distanze da questo «manifesto dei saggi» e dunque devo dedurre che lo si condivide, che si condividono quelle omissioni, quei pesanti giudizi sul socialismo europeo, quella visione inquietante della laicità.
Noi speriamo che l’esito del congresso sia tale da consentire un ripensamento alla maggioranza, noi lavoriamo e ci battiamo prima di tutto per questo obiettivo. Ma se nessun ripensamento vi fosse, se si decidesse di procedere nonostante tutti i nodi non sciolti, allora sì, ci troveremmo davanti a una scelta.
Ma prima bisogna concludere i congressi di sezione, nei quali mettere in discussione le varie proposte che si confrontano. Non si tratta di scegliere tra una ragione e un torto: si tratta di scegliere la proposta che convince di più. Noi siamo interessati a portare i nostri argomenti in tutte le sezioni e non solo e non tanto a contare i voti alla fine. Ci interessa il dibattito, poco o tanto che sia, ci interessa spiegare la nostra proposta e soprattutto ascoltare i dubbi che ci sembrano tantissimi.
So bene che, abituati come siamo ad apprendere le decisioni importanti sul destino del nostro partito dai giornali o a «Porta a Porta», il nostro percorso sembrerà ad alcuni curioso e anche un po’ lento. Ma la democrazia ha i suoi tempi per svolgersi e la partecipazione pure. Noi decideremo in modo democratico e collegiale, consulteremo chi voterà in tutte le città la nostra Mozione e insieme cercheremo di scegliere tra le ipotesi che abbiamo davanti. Fare la sinistra nel Pd oppure vedere cosa accade anche in altre parti della coalizione.
E voglio dire due cose su queste opzioni: la prima è difficile, perché la sinistra del pd c’è già e saranno gli ex ds; la seconda strada è altrettanto difficile perché nella sinistra della coalizione si muovono diverse cose ma nessuna di esse sembra all’altezza del sommovimento che si crea con la scomparsa del più grande partito della sinistra italiana.
È del resto ovvio che un terremoto quale sarà la costruzione di una partito nuovo che scioglie e unifica Ds e Margherita non lascerà intatto il territorio circostante... pensarlo significa pensarsi soli al centro del mondo e questo è il solito difetto autoreferenziale della politica italiana. I grandi mutamenti, giusti o sbagliati che siano, determinano altri cambiamenti, e quando si crea un vuoto in politica in genere qualcuno prova a riempirlo.

il manifesto 11.3.07
Dacci oggi il nostro cilicio quotidiano
di Alessandro Robecchi

So per certo che il geometra del terzo piano ama farsi frustare le piante dei piedi dalla moglie fasciata di latex. Sono piuttosto liberale in queste faccende, e abbastanza uomo di mondo (interista-marxista) per sapere che tra piacere e dolore il confine è sottile. Figurarsi dunque se mi scandalizzo per il cilicio dell'onorevole Binetti. E anzi mi schiero fieramente, pur da laico, con il cattolicissimo Vittorio Messori: «Ognuno si faccia i cilici suoi». Meglio non si poteva dire. E però, siccome la faccenda del cilicio l'onorevole Binetti è andata a dirla in tivù, capirete che la faccenda diventa pubblica, rivendicata, e aggiunge una coordinata sulle nostre mappe. E forse per la sua esternazione sul cilicio, la Binetti andrebbe ringraziata: ora non ci sembreranno più tanto strani e selvaggi (come con gran gusto ce li mostrano i tg) gli sciiti che si flagellano grondando sangue durante l'Ashura. Un contributo alla comprensione culturale delle religioni.
Intervenendo nell'inevitabile dibattito (perché niente ci viene risparmiato), Antonio Socci sposta furbescamente l'asse della discussione, sacrificio, penitenza eccetera eccetera: se tuo figlio avesse bisogno, non andresti a donare il sangue? Uno spostamento dialettico bizzarro che già aveva tentato la Binetti in tivù: «il cilicio ci costringe a riflettere sulle fatiche del vivere, è il sacrificio della mamma che si sveglia di notte perché il bimbo piange». Interessante trucchetto semantico: si era partiti dal cilicio, privata pratica mistico-sado-maso, e si arriva al donare sangue e allo svegliarsi di notte per il bambino. Tutte cose civili e normalissime che fanno anche i laici, gli atei, i miscredenti di varia specie, e persino i gay, almeno quelli con figli piccoli. In questa accezione allargata del termine, insomma, il cilicio è sofferenza e costrizione, esattamente come un lavoro a tempo indeterminato, un contratto precario, l'instabilità economica o l'assenza di diritti certi della coppia. E tutti i cilici che portiamo tutti i giorni, con intorno chi, come la Binetti, ci impedisce di toglierceli.

il manifesto 11.3.07
Giustiniano. Le scelte impolitiche di un imperatore
Nel suo ponderoso saggio su Giustiniano, lo storico francese Georges Tate individua nelle persecuzioni sistematiche degli eretici e nelle campagne militari le cause della fragilità del suo regno
di Marina Montesano

Nel 532 a Costantinopoli scoppiò una rivolta che avrebbe poi preso nome dal grido di battaglia degli insorti, Nika! («Vinci!»). L'insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori delle due fazioni nelle gare circensi, i «verdi» favoriti dalla plebe e gli «azzurri» considerati la squadra degli aristocratici. In realtà sembra però che il tumulto fosse fomentato dall'interno della corte e da una parte dell'aristocrazia. In quell'occasione, Giustiniano fu sul punto di fuggire dalla capitale: secondo la tradizione, a trattenerlo e a salvargli il trono fu la presenza di spirito della moglie Teodora, una donna dalle oscure origini - il malevolo storico di corte, Procopio di Cesarea, sostiene che era stata «mima» (attrice di basso livello: un eufemismo per dire che aveva fatto la prostituta) - che dopo una profonda crisi religiosa aveva attratto Giustiniano il quale l'aveva sposata nel 525, due anni prima di ascendere al trono. La rivolta venne repressa nel sangue: è uno degli episodi più cupi della vita di un grande imperatore, che, pur chiudendo per certi versi la parabola del mondo antico, lasciò al contempo un'eredità fondante per il mondo moderno.
Gli ha dedicato ora un ponderoso studio lo storico francese Georges Tate (Giustiniano. Il tentativo di rifondazione dell'impero, Salerno Editrice, pp. 1024, euro 78), che prende avvio dagli assetti istituzionali e dal quadro delle riforme - religiose, politiche, militari - dei predecessori per introdurre il personaggio centrale. Rispetto ai grandi quadri amministrativi e politici, il Giustiniano legislatore passa qui forse in secondo piano. La codifica e la riforma del diritto, ossia il suo lascito principale alla storia europea, occupano infatti solo un capitolo: non molto, in un'opera che si aggira sulle mille pagine (e che avrebbe avuto bisogno di un editing più attento nella versione italiana, punteggiata da numerosi errori di traduzione). Probabilmente, come scrive Tate, «nessuno contesta l'importanza dell'opera di Giustiniano, ma generalmente si esprimono serie riserve sulla pertinenza della sue scelte politiche», soprattutto in merito alle scelte in campo religioso e alle campagne militari.
A ragione Tate sottolinea che non in tutti i campi Giustiniano fu un innovatore, ma seguì una strada già tracciata nei due secoli precedenti. In particolare, proprio la persecuzione sistematica degli eretici e degli oppositori - capitolo in cui si inscrive la rivolta della Nika - costituiva l'esito di un processo evolutivo avviato con Diocleziano. Ma era una strada necessaria? Tate non indugia in tentazioni ucroniche, ma dalle pagine finali sembra emergere la consapevolezza che un'inversione di tendenza in favore di una maggiore tolleranza delle dottrine teologiche contrapposte nella Chiesa d'Oriente avrebbe contribuito sulla lunga durata a rafforzare l'impero e avrebbe evitato - si può aggiungere con il proverbiale senno di poi - che gli eretici perseguitati accogliessero come liberatori gli arabi un secolo più tardi.
Una questione altrettanto dibattuta dalla storiografia, che Tate affronta con spregiudicatezza, riguarda le campagne militari che miravano a riprendere il Mediterraneo occidentale, troppo spesso liquidate come un fallimento, dal momento che l'avanzata araba avrebbe conquistato di lì a poco l'Africa settentrionale (che Giustiniano aveva sottratto ai vandali) e la penisola iberica (contesa ai visigoti), mentre dal 568 in Italia avrebbero fatto irruzione i longobardi. A ragione lo storico sottolinea che non si trattava di un miraggio: a seguito delle riforme dello stesso Giustiniano e di quanti lo avevano preceduto, Bisanzio era un impero florido e potente; l'impresa era dunque alla sua portata, e non se ne possono tacere i frutti più duraturi, quali lo stretto legame che d'allora in poi si sarebbe creato con l'Italia, un legame che si sarebbe interrotto solo nell'XI secolo con l'avvento dei normanni. Naturalmente, resta aperta la discussione sulla sua scelta di voler guardare a un Occidente impoverito e soggetto al predominio germanico; cosa sarebbe accaduto se l'imperatore si fosse volto al più ricco Oriente, all'Asia più che all'Europa? La risposta ovviamente non è facile, ma la domanda è legittima.

il Mattino 10.3.07
Bertinotti: la sinistra riscopra il dialogo

Berlino. La sinistra deve «tornare a discutere insieme dopo tanti anni», «riscoprire il dialogo » per affrontare le sfide di una società caratterizzata «da un vuoto della politica» e dal «precariato, che è la cifra del nuovo capitalismo». È l’analisi del presidente della Camera Fausto Bertinotti che, al Bundestag di Berlino, fa una riflessione su quella che dovrebbe essere la nuova Costituzione europea dopo il no al Trattato di Francia e Olanda. E invita la sinistra a un «grande dibattito» su ciò che la unisce, anche se - sottolinea - quello della unificazione della sinistra italiana «non è nè il tema nè il problema». Il presidente di Montecitorio interviene alla conferenza internazionale di Die Linke su «La sinistra ed il futuro dell’Europa». Accanto a lui siedono, in una sala circolare a vetri dell'avveniristica sede del Parlamento tedesco lungo la Sprea, il leader dell’estrema sinistra in Germania, Oskar Lafontaine, e la presidente del Partito Comunista francese Marie-George Buffet, impegnata nella corsa per l’Eliseo. È lì che Bertinottio lancia un monito: «La presenza al governo di forze della sinistra alternativa è una opportunità, ma se le si attribuisce un carattere salvifico si compie un errore strategico; perchè quella presenza non è e non può essere risolutiva». La prospettiva, insomma, è quella di un cantiere senza preclusioni, perchè «di sinistra sono tutti quelli che si dicono così e non ho un magistero che mi consente di dire ”tu sì, tu no”».

Apcom 11.3.07
SINISTRE/ DILIBERTO:FINALMENTE BERTINOTTI APRE, SIAMO PRONTISSIMI
A Congresso proporrò Confederazione. Con Pd si liberano energie

Roma, 10 mar. (Apcom) - Se Bertinotti lancia il cantiere delle sinistre, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto risponde: "Finalmente, noi è da cinque anni che lo proponiamo. Siamo davvero felici che Bertinotti apra a questo tema. Noi ci siamo, siamo prontissimi".

Conversando con i giornalisti a margine del Comitato centrale che dovrà fissare la data del congresso, Diliberto spiega: "Giudico un errore fare il partito democratico, ma stiamo parlando di nostri alleati, quindi faccio tanti auguri. Ma è ovvio che questo aprirà un problema a sinistra".

Il segretario del Pdci osserva che "noi non siamo anti Partito democratico, ci possiamo solo limitare a prenderne atto", ma "se i Ds non ci saranno più la sinistra rischia di scomparire. L'Italia rischia di essere l'unico Paese europeo senza un partito socialista".

In vista del congresso, che si terrà a Rimini dal 27 al 29 aprile ("non a caso - sottolinea - una settimana dopo quelli di Ds e Dl"), Diliberto rilancia il tema della confederazione delle sinistre. "Questa - spiega - è la nostra proposta ma discuteremo modi e forme con gli altri". Il segretario ragiona anche sulle percentuali di consenso che si potrebbero avere. "Già ora - sottolinea - saremmo al 12%. Ma la nascita del Pd può liberare altre energie".

aprileonline.info 10.3.07
Unità a sinistra, forse stavolta è la volta buona


Accade a Sinistra Al Capranichetta di Roma convegno di Uniti a sinistra, Ars e Rossoverdi. Gli eventi corrono e da seminario diventa un'assemblea per un nuovo soggetto politico. Folena: "Un movimento per unire la sinistra". Salvi: "Ci interessa la proposta di Bertinotti". Sì anche da Pdci e Verdi

Contenuto o contenitore? Discutere delle idee di una nuova sinistra - addirittura, ambiziosamente, di un nuovo socialismo - oppure iniziare a costruire un partito (o qualcosa di simile) da Bertinotti a Mussi, passando per Diliberto? Tutte e due le cose, con piu' di un paletto.
E' questo il filo rosso che al teatro Capranichetta di Roma ha percorso il seminario di Uniti a sinistra, Ars e associazione Rossoverde. Anzi, più che un seminario, spiega Folena all'inizio, una assemblea per dare vita ad un movimento per un nuovo soggetto della sinistra.
La "massa critica" richiamata da Bertinotti trova qui una lettura duplice: da un lato la metafora tratta dalla fisica, ovvero la necessità di mettere insieme il maggior numero di atomi possibile della sinistra per raggiungere quelle dimensioni minime per far sentire il proprio peso, la propria gravità; dall'altro la necessità di essere e continuare ad essere 'critici' anche con se stessi e il proprio passato, oltre che con il capitalismo.

"Il lavoro e la trasformazione sociale tornano a fondamento della sinistra" dice Folena davanti ad esponenti di un po' tutte le anime della sinistra, dal correntonista Famiano Crucianelli al verde Paolo Cento al direttore di Aprile Massimo Serafini cui è affidata anche una delle relazioni iniziali, fino a Giampaolo Patta che qui rappresenta un po' anche il Pdci. E il seminario-assemblea chiama in causa, esplicitamente, la battaglia del correntone ds. Perché lì, in vista di decisioni forse "inevitabili" come le ha definite Alfiero Grandi, più di qualcosa già si muove. Insomma, ancora per qualche settimana ognuno fa la sua strada - chi contro il Pd, chi per la Sinistra europea, chi né per l'una né per l'altra - ma poi serve mettersi a camminare insieme. E allora "oggi diamo vita ad un movimento per l'unità della sinistra" propone Folena e "impegnamoci nelle idee e progetti per un nuovo socialismo". Ognuno con la sua storia e la sua identita' "dentro un campo comune aperto, ma che come tutti i campi ha i suoi confini" perché, altrimenti, nessuna massa critica può stare insieme se le spinte centrifughe diventano prevalenti.

A raccogliere l'invito di Folena ci pensa Salvi che esplicitamente ammette di sperare ancora che il Pd non si faccia, ma di ragionare già per il dopo. "La proposta che abbiamo avanzato al congresso dei Ds - spiega il presidente della commissione giustizia del Senato - cioè quella di un soggetto della sinistra socialista oggi si rivolge a tutto campo". E, dicendosi interessato alla proposta bertinottiana di fare "massa critica", Salvi si sbilancia raccontando che ormai una decisione sulla separazione della sinistra della Quercia è questione assodata, visto anche l'andamento del congresso che consegna più o meno le stesse percentuali della precedente assise diossina. "Quello che prima era l'intendimento individuale mio e di Mussi. non fare la sinistra del Pd - scandisce Salvi - ora è divenuto collettivo".
Patta - e un po' si sapeva - anche lui si dice pronto ad una nuova forza a sinistra. Come indipendente di area Pdci è più libero di muoversi e sondare, ma il disgelo tra il Prc e i fratelli separati di Diliberto è cosa nota. La sorpresa, però, arriva da Paolo Cento, perché sinora i verdi avevano rivendicato sempre la propria autonomia. Al sottosegretario ambientalista non va di fare un partito comunista, ma la proposta di Bertinotti, ammette, è altra cosa: "possiamo intraprendere un percorso".

Le conclusioni sono affidate ad Aldo Tortorella. Il cronista quasi scorge l'occhio inumidito dell'anziano leader della sinistra del Pci quando dice che "molti di noi hanno speso gran parte della loro vita per l'obiettivo dell'unità a sinistra". Forse stavolta è la volta buona.
L'ordine del giorno finale accoglie la proposta della relazione di Folena. Uniti a sinistra, Ars e Rossoverde e quanti vorranno aderire sono da oggi un movimento per l'unità della sinistra in un soggetto politico "unitario e molteplice". In programma già tre seminari su ambiente, lavoro e pace per dare un tessuto programmatico al nuovo soggetto, con un occhio sul manifesto di un "nuovo socialismo" e l'altro puntato sugli esiti del congresso della Quercia.

il Messaggero 11.3.07
Venne 90 anni fa, prese uno studio in Via Margutta,
lavorò per i “Ballets russes”, creò due capolavori. Una mostra e un libro lo ricordano
Picasso a Roma con genio
di Massimo Di Forti


VENNE, vide, vinse. Accadde a Roma nel 1917. No, Pablo Picasso non vi giunse da turista e lo mise in chiaro subito, in una lettera datata febbraio e indirizzata all’amico Apollinaire: «Caro Guillaume, stamane ti scrivo mentre sono a letto. Non andrò al Foro. Alloggio in via del Babuino all’Hotel de Russie e ho uno studio in via Margutta dove lavoro». Vi rimase dal 17 febbraio al 2 maggio, giusto il tempo di creare due capolavori (L’Italiana, oggi nella Collezione Buhrle di Zurigo, e Arlecchino e donna con collana, conservato al Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi, Centre Georges Pompidou), di realizzare le scenografie dello spettacolo Parade per i Ballets russes di Sergej Diaghilev e di innamorarsi della ballerina Olga Kokhlova, che sposò poi il 12 luglio a Parigi.
Erano tempi in cui gli Dei delle Arti scendevano sulla Terra per vivere, lavorare, respirare insieme e lasciare impronte indelebili di geniale creatività, Picasso e Jean Cocteau, Diaghilev e Igor Stravinskij, Eric Satie e Léonide Massine, Gino Severini e Giacomo Balla... «Abitiamo nel Paradiso terrestre», faceva sapere il 20 febbraio Cocteau alla madre. «L’albergo ha un giardino che domina Roma. Raccogliamo le arance dalla finestra...».
Che straordinario amarcord, questo evento in tre tempi organizzato da Valentina Moncada per ricordare il novantesimo anniversario del primo soggiorno romano del grande artista spagnolo: la mostra Picasso a Via Margutta (dal 28 febbraio al 30 marzo negli spazi della Galleria Moncada, in via Margutta 54), il libro Picasso a Roma. 1917. Mon atelier de Via Margutta 53B edito da Electa (con documenti inediti raccolti a cura di Francesca Foti) e una targa commemorativa che verrà affissa al numero civico 53B in occasione dell’inaugurazione della mostra.
L’ispirazione è venuta a Valentina Moncada durante una notte insonne, in cui le era tornata alla memoria la storia fitta di leggende e di gloria degli “Studj di Pittura e Scultura” affacciati sui magnifici cortili ai piedi del Pincio. Il suo trisnonno, il marchese Francesco Patrizi, nel 1858 aveva deciso di affittarli agli artisti di passaggio a Roma rafforzando una tradizione avviata già da secoli. E se il marchese ebbe ospiti come Verdi e Wagner, Puccini e Ravel, Liszt e Debussy, il figlio Giuseppe non fu da meno: fu lui ad aprire, a partire dal 1905, quegli spazi ai primi storici incontri dei Futuristi e a sistemare Pablo Picasso nell’atelier del 53B.
«Mi precipitai a Parigi nell’Archivio del Museo Picasso», racconta la bionda gallerista, figlia del fotografo di moda Johnny Moncada e della modella americana Joan Whelan, protagonisti di quell’età d’oro romana che abbraccia gli anni 50 e 60, «alla ricerca di documenti e lì trovai il diario italiano dell’artista spagnolo, dove in prima pagina si legge Mon Atelier de Via Margutta 53/b. Il carnet era ricco di aneddoti, schizzi, notizie sulla vita artistica e mondana di Picasso, Diaghilev, Cocteau, Stravinskij in quei giorni romani che pubblichiamo ed esponiamo per la prima volta in quest’occasione».
Certo, Picasso e Cocteau (che doveva scrivere il libretto di Parade) lavorarono alacremente per lo spettacolo che la compagnia di Diaghilev doveva dare il 9 aprile al Teatro Costanzi (oggi l’Opera). Ma ebbero modo anche di incontrarsi più volte con Gino Severini, Fortunato Depero e altri futuristi al Caffè Greco o, più amabilmente, con leggendarie bellezze come la marchesa Luisa Casati al Grand Hotel... Il dispotico Diaghilev, onnipotente deus ex machina dei Ballets russes (che Cocteau definisce, senza giri di frase, “l’orco” in una lettera alla madre), si era invece insediato in un lussuoso appartamento nel palazzo del marchese Theodoli, all’angolo tra via del Parlamento e il Corso, di fronte al Caffè Aragno, dove ospitò Igor Stravinskij che diresse a Roma due concerti, l’Oiseau de feu il 9 aprile e Feu d’artifices il 12.
Nello studio di via Margutta, Picasso realizzò non solo le scenografie di Parade ma “soprattutto” due capolavori come L’Italiana e Arlecchino e donna con collana. Il primo, coloratissimo e parzialmente ispirato a una composizione di Severini, grazie alla giustapposizione di piani geometrici tipica del Cubismo, rappresenta una figura femminile con indosso un tradizionale costume laziale, il grambiule a fasce variopinte, la tovaglia bianca e una cesta di fiori al braccio. Il secondo fu descritto dallo stesso Severini come «una grande tela fatta in uno spirito molto lineare, forme a due dimensioni, di una limpidezza estrema, trattate quasi in nero e bianco quadro di una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione».
Vi rimase soltanto due mesi e mezzo. Gli bastarono per lasciare un altro segno indimenticabile nella storia dell’arte del Secolo Ventesimo.

SCRIVEVA Jean Cocteau alla madre (24 febbraio): «Picasso lavora in un magnifico studio dietro Villa Medici, gli portano uova e formaggio romano, e rifiuta di uscire quando è preso dalla pittura». No, Picasso non rimase certo “recluso” nello studio e godette dei piaceri della vita romana in mille modi, visitando con l’amico Jean i ristoranti alla moda come “Basilica Ulpia” al Foro Traiano e “La Villetta” in via della Nocetta, presso Villa Pamphilj. Ma la sua vena creativa fu all’altezza della fama che già in quegli anni lo accompagnava costantemente.
L’idea di tributargli una targa in via Margutta per quell’eccezionale soggiorno è stata quanto mai felice e aggiunge un nuovo mitico tassello alla storia di una strada ascesa alla notorietà mondiale soprattutto dopo le indimenticabili avventure della coppia Audrey Hepburn & Gregory Peck in Vacanze romane. Eppure - incredibile ma vero, assicurano alla Galleria Moncada - non sono state poche le difficoltà da superare per ottenere un risultato che spesso si ottiene per molto meno.
L’importante, comunque, è che l’obiettivo sia stato raggiunto. Perché è giusto che via Margutta sia conosciuta per quel che ha rappresentato per generazioni di artisti e Maestri: una fonte continua di ispirazione e una straordinaria Fabbrica di Bellezza.
M.D.F.
Repubblica, Lettere a C. Augias 10.3.07
Ragione e religione, due fedi "nemiche"
di Marco Vannini


Caro Augias, si è discusso su Repubblica sul tema se la fede seguiterà a sopravvivere nonostante tutto. Per la cultura occidentale, io dubito. La fede è oggettivamente in declino e la mia generazione (1943) ha potuto toccare con mano il progressivo svuotamento di chiese, seminari, conventi.E' vero che alla riduzione nel numero, ha fatto da contrappeso la qualità dell'impegno di coloro (almeno tra i giovani) che nella Chiesa hanno trovato ragione di vita ma è anche vero che il bilancio è decisamente negativo.Non è nemmeno vero, come ha scritto Giovanni Filoramo (Repubblica, 1 marzo scorso) che la pubblicistica ateista odierna sia un déjà vu di cose dette da tempo. Dette forse, ma molto di nascosto, tra le righe.La nostra scuola aveva (o ha?) paura persino di nominarla, la parola ateo. Nel corso del mio glorioso Liceo Michelangiolo, con ridicole perifrasi («poeta pessimista»), mi si è sostanzialmente tenuto nascosto che Leopardi, il più grande filosofo italiano degli ultimi 4 secoli, era semplicemente ateo.Si seguita a spacciare per religioso persino Einstein quando invece il noto commento «dio non gioca a dadi» era soltanto un modo di esprimere il suo scetticismo nei riguardi del principio di indeterminazione di Heisenberg. Libri come quello di Odifreddi ('Perché non possiamo essere cristiani') hanno l'enorme merito, liberatorio, di mostrare a tutti, senza perifrasi, che si può non credere in Dio. Anzi, che si dovrebbe non crederci, come non ci credono tante persone note, stimate, sicuramente di grande intelligenza.
Marco Vannini Università di Firenze-vannini-m@dbag.unifi.i

Repubblica 10.3.07
Storia di Eva la grande madre
La nascita del genere umano: dal mito alla scienza Sono una trentina le prime donne vissute in varie parti del mondo
La loro progenitrice ha 150 mila anni ed è africana. A lei ha dedicato un libro Franco Prattico
L´Adamo cromosomico, non quello biblico, è più recente: ha 75 mila anni
Viene ribaltata l'immagine di una donna che avrebbe sempre avuto un ruolo marginale
di Piergiorgio Odifreddi

Il più famoso mito prescientifico occidentale, mutuato dal Genesi mediorientale, narra la nascita dell´umanità in due maniere contradditorie: come ultimo passo di un processo cosmico che parte dalle stelle e arriva all´uomo e alla donna, passando ordinatamente attraverso le piante e gli animali, ma anche come primo passo di un processo terraqueo che pone disordinatamente l´uomo agli inizi e la donna alla fine della creazione, nella quale piante e animali vengono nel mezzo.Nel primo racconto «Dio li creò maschio e femmina e li chiamò Adamo»: un nome che deriva dall´ebraico adam, «terra», così come in latino «homo» deriva analogamente da «humus». Poiché «uomo» significa dunque semplicemente «terrestre», senza connotati di genere, «l´uomo» può venire e viene usato come sinonimo di «umanità», in maniera inclusiva sia dei maschi che delle femmine.Nel secondo racconto, invece, è solo il primo maschio a essere chiamato Adamo, mentre la prima femmina deriva da una sua costola e «si chiamerà donna ishah, perché è stata tolta dall´uomo ish: la subalternità etimologica dell´ebraico rimane in inglese tra man e woman (che significa «moglie dell´uomo»), ma in italiano va perduta, benché ne rimanga comunque una traccia negli appellativi «don» e «donna» (i quali derivano però da dominus e domina, signore e signora).È dal secondo racconto biblico, che rincara la dose addossando alla donna la colpa del cedimento alla tentazione del serpente, che deriva la perenne supposizione della sua subalternità e inferiorità rispetto all´uomo, oltre che la duratura credenza che ella avesse veramente una costola meno di lui: il primo a sostenere il contrario fu il medico Andrea Vasalio nella sua Fabbrica del corpo umano del 1543, sollevando naturalmente un pandemonio e finendo ovviamente sotto le grinfie dell´Inquisizione.Nel Genesi è solo dopo il peccato originale che la prima donna riceve il nome di Eva, da hawwah, «vita», perché «essa fu la madre di tutti i viventi». E questa è finalmente una frase biblica alla quale si possono dare un senso scientifico e un significato veritiero, se si passa dal piano del mito a quello dei mitocondri: tutti gli uomini, maschi e femmine, possiedono infatti nelle loro cellule, e più precisamente nel citoplasma che avvolge il loro nucleo, delle minuscole strutture così chiamate.In realtà, i mitocondri non sono una caratteristica degli umani: si trovano nella maggior parte delle cellule eucariote, e sono le centrali nelle quali si converte il cibo in energia e calore. Essi derivano probabilmente da batteri procarioti che qualche centinaia di milioni di anni fa hanno invaso cellule più evolute, diventandone parassite o simbionti. Ma a noi interessa il fatto singolare che il loro DNA, oltre ad essere molto più corto di quello cellulare, si trasmette negli uomini, così come nella maggior parte degli animali, unicamente per via materna: la storia dei mitocondri, dunque, è la storia dell´umanità vista dal lato delle donne.Per nostra fortuna questa storia si è potuta leggere recentemente, grazie a un paio di circostanze favorevoli. La prima è il fatto che durante la riproduzione cellulare il testo del DNA mitocondriale viene copiato con abbastanza errori, ma non troppi: circa uno ogni cinquanta milioni di lettere. La seconda è il fatto complementare che si è trovata una sequenza di circa cinquecento lettere in cui questi errori sono particolarmente frequenti, benché ininfluenti sul funzionamento della cellula. Questa sequenza costituisce come un orologio cellulare, i cui battiti sono scanditi dagli errori di trascrizione: all´incirca, uno ogni diecimila anni.Nel 1987 Allan Wilson, Rebecca Cann e Mark Stoneking proposero allora di suddividere la popolazione mondiale in gruppi basati sulle differenze del DNA mitocondriale di quella sequenza: ogni gruppo con la stessa sequenza discende da un´unica progenitrice, le progenitrici di gruppi che differiscono per un´unica lettera discendono a loro volta da un´unica progenitrice, e così via all´indietro, fino all´unica progenitrice dell´intera razza umana attuale, che fu subito battezzata Eva Mitocondriale.Un´azione concertata di vari ricercatori ha poi portato in qualche anno alla determinazione di una trentina di gruppi diversi nel mondo (sette nella sola Europa, come raccontato da Bryan Skyes in Le sette figlie di Eva), che risalgono dunque a una trentina di «eve» locali. La loro prima progenitrice comune è vissuta circa 150.000 anni fa in Africa Centrale ed è dunque l´Eva Nera, da cui tutti discendiamo per parte di madre, che dà il titolo all´ultimo libro di Franco Prattico (Codice, pagg. 73, euro 9,90).Naturalmente, non si tratta della prima donna nel senso in cui lo intende il mito biblico, così come non è stato il primo uomo l´Adamo Cromosomico, vissuto circa 75.000 anni fa e determinato in maniera analoga usando il cromosoma maschile Y, che si trasmette unicamente per via paterna e unicamente ai maschi.Meno che mai, poi, si tratta di una prima coppia, visto che i due non sono neppure vissuti nello stesso periodo: piuttosto, l´Eva Mitocondriale e l´Adamo Cromosomico sono soltanto gli esseri più recenti che hanno trasmesso i propri mitocondri e i propri cromosomi a tutti i viventi attuali, mentre i loro contemporanei o erano loro antenati, o hanno avuto una discendenza che prima o poi si è arenata in madri senza figlie (come la povera Eva biblica) o padri senza figli.Ma si tratta comunque di esseri realmente vissuti e Prattico, il bravo decano dei giornalisti scientifici italiani, ne sottolinea la concretezza lasciando che sia l´Eva Nera stessa a raccontarci la sua storia in prima persona. Un´interessante storia ginocentrica, che ribalta quella convenzionale letteralmente antropocentrica, incentrata sull´uomo in tutto, dalle astrazioni delle divinità maschili alle concretezze della trasmissione paterna dei cognomi: mentre l´albero genealogico costruito con questi ultimi ha un significato biologico soltanto per i maschi, però, quello costruito con cognomi trasmessi per via materna coinciderebbe invece con l´albero mitocondriale, e risalirebbe dunque fino all´Eva Nera.La sussurrata storia ufficiosa narrata da quest´ultima ricorda che le donne non sono sempre state marginali, come pretende invece la strombazzata storia ufficiale narrata dagli uomini. Ad esempio, è probabile che il linguaggio sia nato dall´interazione prolungata tra madri e figli e dal bisogno delle prime di interpretare le esigenze e i bisogni dei secondi. Che l´agricoltura sia lo sviluppo di un sistema domestico di alimentazione, volto a sopperire l´aleatorietà della caccia e a integrarne la dieta. Che la casa e la sua organizzazione derivino dal bisogno femminile di una tana per allevare al sicuro una prole nata immatura e bisognosa di un lungo svezzamento. Che la sparizione dell´estro periodico e la conseguente privatizzazione del sesso rappresentino uno stimolo per indurre il maschio alla cooperazione famigliare, e così via.Naturalmente, la mitologia antica ha registrato questa centralità primordiale della donna in una profusione di divinità femminili di fertilità, abbondanza e amore: dalla Gran Madre alla Madre Terra, da Iside a Gaia, da Afrodite a Venere, da Persefone a Proserpina, da Artemide a Diana, da Lakshmi a Parvati, dalle Grazie alle Ninfe. Ad esse gli uomini affiancarono invece altrettante figure femminili di destino, divisione e morte: dalle Moire alle Parche, dalle Erinni alle Furie, da Eris a Discordia, da Kali a Durga, dalla Regina della Notte a Eva, appunto, il cui mito non è altro che una delle innumerevoli variazioni sul tema della subalternità, biologica e morale, della donna rispetto all´uomo.Un tema ripreso ancora nel Novecento da Sigmund Freud, che scrisse ad esempio nel Compendio di Psicanalisi del 1938: «Fin dall´inizio la bambina invidia ai ragazzi il possesso del pene. Si può dire che tutto il suo sviluppo psichico sia condizionato dall´invidia del pene». E invece, con buona pace dello stregone viennese, oggi sappiamo che non sono affatto le donne a essere degli uomini mancati, ma viceversa: il cromosoma Y ha infatti appunto la funzione di impedire lo sviluppo di un corpo femminile, inibendo la formazione delle ovaie e favorendo la crescita dei testicoli e la produzione del testosterone. Alle donne, dunque, non si può certo imputare nessuna inferiorità biologica: al massimo, soltanto un po´ di stupidità logica, visto che nonostante tutte le angherie e le vessazioni che subiscono dagli uomini, continuano a farseli piacere e ad amarli.

Corriere della Sera 10.3.07
Eliade, Heidegger: capriole a sinistra

Nel centenario della nascita, sul manifesto di ieri Emanuele Trevi riconosce «fascino» e «originalità» al pensiero dello storico delle religioni Mircea Eliade. Ma non solo. «Pacifico e dichiarato il suo anticomunismo», le «tracce del fango nazista» e della «marea montante dei fascismi e dei nazismi europei» presenti in Eliade vengono definite da Trevi «lievissime», e il suo nazionalismo «uno scivolone... da imputare più a ingenuità che altro». È vero, si legge, Eliade «fu sempre reticente o troppo involuto nelle sue memorie... ma a ben vedere è il presupposto essenziale della (sua) antropologia a renderlo di fatto inservibile ad ogni ideologia fascista».
Eliade viene «sdoganato», ed è una lettura sorprendente considerato l'ostracismo della critica marxista verso Eliade e il sodale Ernst Jünger.
Ancor più sorprendente è comparare questa lettura a quella, sempre di ieri, di Adriano Sofri sulla Repubblica.
Se per Eliade le «reticenze» sul passato sono accettabili e la sua antropologia è intrinsecamente non fascista, «il silenzio (o peggio)» di Heidegger «a proposito del suo passato... è stato più penoso della stessa adesione al nazismo». Ed Essere e tempo, anziché un'opera intrinsecamente di metafisica, andrebbe forse letta in contiguità con il nazismo.
Non solo non vale per l'uno ciò che vale per l'altro, ma per Heidegger, al contrario di Eliade, la critica marxista fu — almeno sino all'uscita del libro di Victor Farias — abbastanza plaudente. Poi, mentre alcuni pensatori «progressisti» (Vattimo, Cacciari, Rovatti) hanno continuato ad apprezzarne il pensiero, la critica più militante lo ha «scaricato». E ora recupera Eliade.

venerdì 9 marzo 2007

Liberazione, 6 marzo 2007
Inserirsi per trasformare


Cara “Liberazione”
nella polemica tra Nichi Vendola e Sansonetti sull’importanza della governabilità, mi pare utile ricordare il pensiero di Riccardo Lombardi in occasione dell’esperienza del primo governo di centrosinistra, che fu poi guidato da Amintore Fanfani negli anni 1962-1963. Al XXXIV Congresso del Partito Socialista, Riccardo Lombardi sostenne vivamente la mozione di Nenni favorevole alla nascita di un governo di centrosinistra. Ma non si deve dimenticare che Lombardi era quello che teorizzava la possibilità e la necessità di «conquistare lo Stato dall’interno», sostituendo gradatamente il «criterio assoluto del profitto con quello dell’utilità collettiva». Era peraltro ben consapevole che qualsiasi sforzo in questa direzione avrebbe comportato uno scontro con i poteri forti, fossero quelli di un capitalismo fortemente viziato dalle rendite parassitarie, dell’imperialismo americano o della Chiesa Cattolica, allora come ora sempre troppo pronta ad intervenire nella politica italiana. D’altra parte, solo tre anni più tardi, di fronte all’evidente fallimento di quell’esperienza lo stesso Riccardo Lombardi in una lettera a Francesco De Martino lo invitava ad intervenire, in quanto segretario del Psi, per contrastare l’affermazione fatta da Nenni secondo cui: «l’idea ispiratrice della politica di centrosinistra era garantire la stabilità politica nella democrazia repubblicana».
Quello che “spaventava” Lombardi non era il riferimento alla “stabilità”, ma che questa fosse diventata per Nenni il «momento essenziale, prioritario e decisivo». Riuscirà la sinistra nei prossimi mesi ad uscire dall’angolo in cui è stata messa dal ricatto della caduta del governo Prodi? Forse l’unica strada, sempre citando Lombardi, è la forza che le verrebbe «dall’unità di tutte le forze che si richiamano al socialismo», un socialismo che, conscio della reazione a cui necessariamente andrà incontro (si chiamino Confindustria, Stati Uniti d’America o cristianesimo) si inserisca con le necessarie alleanze nel sistema capitalistico per trasformarlo, per trasformare gradatamente i modi di produzione, per far sì che tutti lavorino meno ma lavorino meglio, per produrre cose di pubblica utilità. Forze politiche di sinistra unite da una visione politica che sappia anche indirizzarsi ad una trasformazione dell’essere umano, ovvero «più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso» «per una società in cui l’uomo diventa diverso e diventa uguale, uguale non perché ha l’automobile altrettanto bella dell’imprenditore, ma perché è capace di studiare e di apprezzare i beni essenziali della vita». Vogliamo ricordare, infine, ai sostenitori del Partito Democratico, la sua totale e ferma contrarietà alla fusione tra il Psi e il Partito Social Democratico? «Noi siamo socialisti» diceva «perché crediamo possibile cambiare il mondo, non semplicemente amministrarlo!».

Sergio Grom via e-mail


Repubblica 9.3.07
Le idee. Il nazismo di Heidegger e i conti col passato
E Celan incontrò Heidegger
La poesia fa i conti col nazismo
di Adriano Sofri


C´è ancora chi pensa si possa confutare il filonazismo del filosofo di "Essere e tempo" Ma la sola idea, stando alle sue dichiarazioni, è inaccettabile
Nel 1949 T.W. Adorno scrisse una frase poi citata all´infinito sul fatto che scrivere poesie dopo Auschwitz era una barbarie
L´heideggerismo è una filosofia della guerra e la guerra travolge e trascina gli individui, li mette in uniforme e li avvia ad un solo destino
Paul, ebreo, era nato in Bucovina nel 1920 e aveva perso il padre e la madre in un campo di concentramento: è il poeta della Shoah

È DIFFICILE fare i conti col passato. Soprattutto col proprio: con il passato altrui ci si sbriga. Prendo le mosse da una succinta notizia nella pagina culturale del Corriere (Pierluigi Panza, «Heidegger difeso dall´accusa di hitlerismo») sul libro curato da François Fédier che confuta il «presunto filonazismo» di Heidegger. Ho fatto un salto sulla sedia: Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un´adesione rinnovata fino alla fine. Negli stessi giorni Pierluigi Battista ha ripreso il tema del «silenzio» degli intellettuali italiani dopo il fascismo, sulla scia della rivelazione di Günter Grass, fin troppo clamorosa.
Non saprei conciliare una severità verso gli intellettuali convertiti anesteticamente all´antifascismo, e verso Grass, con l´indulgenza per Heidegger. Il silenzio (o peggio) dell´Heidegger del dopoguerra a proposito del suo passato e dello sterminio è stato più penoso della stessa adesione al nazismo. Esce anche da Sellerio una raccolta di saggi (impervii) di Jean Bollack, La Grecia di nessuno, titolo che calca Paul Celan, Niemandsrose, la rosa di nessuno. L´ultimo saggio è dedicato all´episodio più frequentato fra i mille della controversia su Heidegger e il passato: l´incontro fra il filosofo e Celan. (Grass rifece l´episodio ne Il mio secolo). Mi terrò ai bordi, per inadeguatezza e per un pregiudizio contro Heidegger. Una volta un suo visitatore citò con reverenza il commiato del maestro: «E poi, sa, non è ancora detta l´ultima parola». Si trattava nientemeno che del giudizio storico sul Reich. Frase oracolare, che qualunque barbiere potrebbe ridire: «E poi, sa, l´ultima parola non è mai detta». Enigmistica buona per congedare un devoto, col viatico della sapienza oscura.
Al momento di sciogliere l´enigma, nell´intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all´età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».
Se il profetismo di Heidegger era arduo, la poesia di Celan non lo era meno, di una difficoltà pronta a spezzarsi nella lingua come si era spezzata nella vita, mentre la difficoltà del filosofo restava per così dire tutta d´un pezzo. Celan, ebreo, nato in Bucovina nel 1920, aveva perduto padre e madre in un campo nazista, ed era scampato trovandosi un rifugio di fortuna, poi sopravvivendo ai lavori forzati. È stato il poeta della shoah, e in quella lingua tedesca - lingua madre, lingua della madre assassinata - proprio quando veniva coniata la pretesa che non si potesse far più poesia dopo Auschwitz: e gli fu rinfacciata la stessa "bellezza" della sua poesia più famosa, Todesfuge, fuga di morte («...la morte è un mastro di Germania». Le poesie sono curate in un prezioso Meridiano da Giuseppe Bevilacqua).
Il 24 luglio del 1967 Celan, reduce da un ricovero in casa di cura, tiene una conferenza a Freiburg. Heidegger è fra gli ascoltatori, e Celan, che pure rifiuta di essere fotografato con lui, accetta l´invito a visitarlo all´indomani. L´incontro avviene alla Hütte - la baita - che Heidegger ha trasformato nel monumento al proprio prestigio di pensatore e di tedesco della Foresta Nera, di «uomo che ha una patria ed è radicato in una tradizione». Celan firma il libro dei ricordi: «Nel libro della hütte, lo sguardo sulla stella del pozzo, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire. Il 25 luglio 1967, Paul Celan». Sei giorni dopo, nella sua stanza d´albergo, scriverà una poesia: «Arnica, eufrasia, il / sorso dalla fonte con sopra / il dado stellato, // nella / baita, // la riga nel libro / - quali nomi accolse / prima del mio? -, / la riga in quel libro / inscritta, / d´una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero, // umidi prati silvestri, non spianati, / orchis e orchis, separati, // più tardi, in viaggio, parole crude / senza veli // chi guida, l´uomo, / che anche lui ascolta, / percorsi a / mezzo, i viottoli / di randelli sulla torbiera gonfia, // umidore, / molto».
L´arnica, l´eufrasia risanatrici c´erano davvero, e c´era la fontana con la stella intagliata in un cubo. C´era il libro delle firme, la speranza della parola a venire. E poi il cammino nel prato, e le orchidee solitarie, il testimone che ascolta, e infine la palude di tronchi-randelli. Ciascuno di questi ingredienti, a cominciare dal nome del luogo e della poesia, Todtnauberg, il monte della morte, evoca altre immagini senza fine.
Celan manderà a Heidegger la prima copia di un´edizione privata della poesia. Heidegger risponderà con una formula elusiva, ma mostrerà con orgoglio la poesia agli amici. Forse senza averla intesa, o l´oscurità dei versi sarà bastata a tranquillizzarlo. La poesia uscirà poi in volume nel 1970. In quell´anno Celan tiene un´ultima lettura pubblica a Friburgo, e rinfaccia ad Heidegger di non ascoltarlo abbastanza attentamente. Un testimone ricorda: «Heidegger si fermò pensieroso presso la porta della sua casa per dirmi, scosso dall´emozione: "Celan è malato- e non esiste cura"». Heidegger non è stato tradito dall´aria della sua montagna: è morto nel 1976, ottantasettenne. Quanto all´incurabile Celan, il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1º maggio del 1970. Così l´incontro alla Hütte - confronto di radicamento e sradicamento, del filosofo affiliato al nazismo e del poeta scampato, nella lingua comune e irriducibilmente opposta - riceve il suggello del contrasto fra il professore di buona salute e il poeta malato di suicidio. Ci sono longevità vantate come un merito e un segno di aristocrazia: grattate quella longevità, e troverete l´impostura. Ci sono molti modi di "essere per la morte". Il confronto con la morte, che Heidegger incarica di riscattare la distrazione della vita ordinaria, può essere, sulla scorta di Ernst Jünger, la sfida cercata col pericolo estremo, con l´azzardo del soldato nella guerra di trincea. Ecco che la longevità appare, piuttosto che l´indizio di un´esistenza condotta al riparo, come la vincita strappata alla morte in battaglia. L´"essere per la morte" dell´ammalato ha un´autenticità tardiva e di rango inferiore, né scelta né cercata, ma miseramente subita.
Immaginarsi dunque l´"essere per la morte" delle vittime designate di un annientamento, per il loro solo essere quello che sono - ebrei, zingari, gente di scarto. Il suicidio del poeta è agli antipodi della morte sfidata dal soldato: cui, una volta superstite, arridono i centotré anni di Jünger. Chi sopravviva a un "essere per la morte" non voluto, inferiore, nemmeno deciso dal destino o dall´arruolamento obbligato, ma deliberato da nemici superiori, da soldati delle tempeste d´acciaio, gettato nel mondo e rigettato dal mondo - quel superstite infatti muore già in vita, muore così spesso suicida, la vita è la sua malattia.
L´accettazione del destino - rassegnata o entusiasta, nel qual caso la si chiama missione - culmina nella circostanza della guerra: cui ci si piega per solidarietà nazionale, o generazionale o cui si aderisce per passione, soldati di una Missione collettiva, patriottica, religiosa, classista. Il nazismo è una filosofia della guerra - l´heideggerismo anche. La guerra travolge e trascina gli individui, la chiamata alle armi taglia loro i capelli allo stesso modo, dà loro un´uniforme, li sottomette al destino collettivo, l´"oceano" rispetto al quale, come in Jung, la psicologia personale è un´increspatura insignificante. Quello che chiamiamo coscienza è la risalita dalla profondità, dalla barbarie e dal trascinamento collettivo, alla civilizzazione e alla libertà individuale. La civiltà è la camera iperbarica di questa risalita.
Essa non può che essere lenta e intermittente, mentre la discesa è precipitosa. Questo doppio movimento, ineguale e iniquo - perché la civiltà è fragile, una pellicola recente, una lastra di ghiaccio sottile sulla quale danza una pattinatrice adolescente, e invece la barbarie è forte e antica - si riproduce nel doppio movimento della comunità verso la distruzione, velocissimo, e chiamavamo fino a poco fa questa velocità progresso, o verso la pausa di riflessione, la moratoria, il fermo biologico, la ritirata, che è lenta. La riparazione culturale ed ecologica è la tartaruga che insegue l´Achille della consumazione e della manipolazione. È una doppia partita, ma truccata. Non si può che perdere, ma dilazionare la fine. Forse, mentre prendiamo tempo, sarà inventato un farmaco nuovo, si troverà una nuova strada.
La volta in cui accennò allo sterminio, nel 1949, Heidegger lo fece di passaggio, per accostare grottescamente la trasformazione dell´agricoltura in industria alimentare meccanizzata alla lavorazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi.
Insofferente verso la trasfusione di esperienze vissute, di emozioni, di relazioni linguistiche e culturali, dentro i versi di Celan, che li fa sembrare illeggibili fuori da quella trama di informazioni, Hans Georg Gadamer preferisce che la poesia miri a «un mondo nel quale il poeta è di casa proprio come i suoi lettori». Ma per l´appunto Celan non è di casa a questo mondo, e ha tolto il disturbo. Si è arrivati a sostenere che il suicidio di Celan sia stato causato dal tentativo fallito di far riconoscere ad Heidegger la colpa dello sterminio: tesi impudente, che finisce per alzare di qualche centimetro il monumento al filosofo. Il grande e disgraziato poeta, che non la fa finita per la shoah, la morte e la vita, ma perché non è riuscito a strappare ad Heidegger la parola giusta!
Heidegger avrebbe poi accostato Celan a Hölderlin. Ma Celan abita poeticamente la terra, Heidegger no. La svolta di Heidegger verso la poesia, e Hölderlin in particolare, è un falso movimento: un modo per serbare intatta l´oscurità, per rifiutare "poeticamente" la chiarezza. Si è perfino fatto passare il silenzio di Heidegger sulla shoah come una dichiarazione della sua indicibilità! Anche Derrida cede alla sovrainterpretazione dei silenzi, pur dichiarandoli forse imperdonabili: «Io intendo questo terribile, forse imperdonabile silenzio di Heidegger come un´eredità. (...) Ci lascia l´obbligo di pensare ciò che egli stesso non ha pensato». Ma il silenzio di Heidegger va tutto intero sul suo conto.
Nel 1949 T. W. Adorno scrisse quel pensiero citato all´infinito: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». È difficile oggi spiegarsi come potesse essere accolto letteralmente, al punto che qualcuno, abbiamo visto, accusò la Todesfuge di Celan di un sacrilegio contro Auschwitz. Confesso una diffidenza per la frase di Adorno, nella quale sento una retorica quasi fatua. Non era un bando alla parola e alla sua inadeguatezza: è in parole che Adorno dichiara prescritta la poesia. Se no, era uno dei molti modi in cui si cercò di significare il troppo di orrore e di iniquità dello sterminio, l´unicità. Ma l´unicità, che ha argomenti forti dalla sua parte, si impoverisce, o addirittura si avvilisce, quando la si voglia stringere in un´argomentazione. Sicché si potrebbe dire che dopo Auschwitz la prosa è diventata, se non inetta - che vorrebbe dire cedere all´"indicibile" e screditare i testimoni - molto più difficile e debole. E, viceversa, che la poesia è stata forte. Celan fu terribilmente ferito dall´accusa grottesca. Nel 1965 scrisse i versi conosciuti solo dopo la sua morte, che evocavano Theodor Wiesengrund Adorno (la traduzione è di Michele Ranchetti e Jutta Lesckien): «Madre, madre / Strappata dall´aria / Strappata dalla terra. / Giù / Su / trascinata. / Ai coltelli ti consegnano scrivendo, / con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con / il pennarello, sui tavoli di teck, anti- / restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire / di nuovo e giustamente, / da maestro tedesco, / un garbuglio, non / a-bisso/ab-gründig/ ma / a-dorno /ab-wiesen/ / scrivendo, / i reci-divi, / consegnano / te / ai / coltelli».
Adorno stesso avrebbe riconosciuto più tardi che «forse è falso che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una poesia». E «dire che dopo Auschwitz non si possano più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un´arte serena». Che vuol parere un´attenuazione, ed è un vero capovolgimento. Adorno si sarebbe chiesto allora se fosse possibile, dopo Auschwitz, vivere: che era un gioco al rincaro.
"Wahr spricht, wer Schatten spricht" - dice il vero, chi parla oscuro: è un verso di Celan. La differenza fra l´oscurità di Heidegger e quella di Celan ha per posta la verità. Si ha l´impressione che la poesia di Celan, piuttosto che dirla, sia la verità.
Una volta Primo Levi rispose a un intervistatore a proposito del decreto di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro... Avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Tuttavia Levi, che pure diceva di esser stato salvato dalla poesia, metteva in guardia dallo "scrivere oscuro": «Nel mio scrivere... ho sempre teso a un trapasso dall´oscuro al chiaro».
Levi ha di mira Celan nell´articolo del 1976: «Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro... L´effabile è preferibile all´ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all´oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Per Celan soprattutto... Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente... un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli». Noi vivi: ancora dieci anni, e Levi sarà così solo da decidere il suo punto di morte. Prima, il suo corpo a corpo con Celan gli avrà fatto scrivere quella poesia, Il superstite, che grida (invano, come decreteranno fra poco I sommersi e i salvati) la propria incolpevolezza, evoca ancora una volta il suo Ulisse e ripete il nome fatidico del Salmo di Celan, la Rosa di nessuno: «Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno».

Repubblica 9.3.07
Le radici del nuovo potere temporale
La chiesa di Ratzinger e la politica
di Giuseppe Alberigo


Dal governo territoriale alla spiritualità, come è mutata la loro funzione nei secoli
Cosa accadrà dopo il cambio al vertice della Conferenza episcopale

All´interno della storia della chiesa e in rapporto alla società la funzione, il ruolo e il peso dei vescovi è stato molto diverso. In origine questa figura aveva il compito di curare i rapporti tra le varie comunità ed eleggere i nuovi vescovi; elezione accettata e convalidata, in genere per acclamazione, dal popolo. È una situazione che durerà parecchi secoli, durante i quali assistiamo all´affermazione di un´autorità soprattutto spirituale.
La prima grande novità si verifica nell´età feudale. Moltissimi vescovi diventano veri e propri signori feudali. Nascono figure impensabili prima. Il vescovo-conte o il vescovo-principe esercitano non solo un potere spirituale ma anche e soprattutto una signoria territoriale. Appartengono a una nuova geografia sociale che travalica i compiti tradizionali della chiesa. La conseguenza è che si diventa vescovo meno per vocazione e sempre più spesso per interessi di famiglia o per ambizione politica personale. Ancora fino a un secolo fa il vescovo di Trento era un principe dell´impero austro-ungarico. La sua autorità più che dalla chiesa finiva con l´essere legittimata dal sovrano. In nome di questa autorità territoriale decine di vescovi, sparsi per l´Europa, avevano proprie milizie, battevano moneta, ed erano autorizzati a imporre tasse. Il loro potere temporale inglobava e nascondeva quello spirituale. Un tale rilievo sociale, politico ed economico crebbe fino alla metà del Cinquecento, quando il Concilio di Trento tentò di ridimensionare questo processo avanzato di secolarizzazione. Già Lutero e i protestanti avevano denunciato una situazione nella quale i vescovi non facevano più i vescovi ma i signori temporali. Costoro spesso non vivevano neppure più nelle diocesi ma alla corte del principe più importante, al quale esprimevano devozione e fiducia e, in cambio della sottomissione, ricevevano la convalida del loro potere. Il Concilio di Trento porrà le basi per eliminare tutto questo. Ma occorrerà aspettare ancora due secoli perché di fatto la situazione si risolva. Saranno gli stati nazionali a eliminare progressivamente questi signorotti locali che ormai non sono più né laici né vescovi, ma un ibrido giuridicamente preoccupante. Si tratta di un passaggio fondamentale per ristabilire una figura di vescovo che avesse una fisionomia soprattutto spirituale, oggi diremmo pastorale.
Chi è dunque il vescovo oggi? Ecco una domanda che richiede una considerazione allarmante. Ancora quarant´anni fa, cioè all´epoca del Concilio Vaticano II, i vescovi erano circa duemila e cinquecento. Oggi nel mondo sono più che raddoppiati. Alla crescita numerica si è accompagnato mediamente un abbassamento della qualità. Può non sorprendere. Lo scadimento intellettuale si registra anche nella società. Ma le conseguenze nella chiesa sono di aver favorito alcune personalità più forti. Da questo punto di vista, la lunga e incontrastata presidenza di Camillo Ruini alla guida della Cei - che ha ridotto la conferenza episcopale a una struttura monolitica - è stata possibile sia per le sue spiccate doti politiche sia per la scarsa personalità dei vescovi che hanno conformisticamente obbedito alle sue scelte. Lamento, a voler essere più chiari, un´assenza di dibattito reale che mi auguro il nuovo presidente della Cei Angelo Bagnasco, sappia promuovere.
C´è un paradosso che a questo punto, vorrei segnalare. Quando fu firmato il nuovo concordato, quello per intenderci del 1984 con Craxi presidente del consiglio, si impose una novità: non era più la segreteria di stato del Vaticano (il loro ministero degli esteri per intenderci) a trattare con lo Stato italiano, ma la conferenza. Si disse che scopo di questa novità era di ridurre il coinvolgimento politico della chiesa. Si è visto che in questi anni è accaduto esattamente l´opposto. Perché? A parte le considerazioni sullo "spirito del tempo" credo che la forte personalità di Ruini abbia coinciso con il rafforzamento economico della Cei. Pochi sanno che l´otto per mille - il modo con cui lo Stato italiano finanzia lautamente la chiesa - è in larga parte gestito dalla conferenza episcopale.
La questione di quale rapporto deve esserci tra potere spirituale e temporale è nuovamente sotto i nostri occhi. La chiesa di questi anni sta ingigantendo i propri compiti proiettandoli in modo arbitrario sulla società. Il rischio è di sopraffare la società italiana e i cattolici che vi fanno parte. Discutibile mi appare la tendenza che sia la Cei a dettare le norme ai parlamentari cattolici. Quando De Gasperi ricevette da Pio XII l´ordine di fare un governo con l´estrema destra egli rifiutò, restando naturalmente un buon cattolico. Aveva chiara la distinzione tra quello che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio e ai suoi rappresentanti.
Si obietta che oggi, più che in passato, i cattolici italiani sono sottoposti a un processo di secolarizzazione molto intenso. È vero. Ma la chiesa può far fronte a questa pressione sia con ordini inappellabili, sia cercando il dialogo. Del resto non è la prima volta che la Chiesa abbia dovuto misurarsi con fenomeni minacciosi che ha poi felicemente superato.
Ritengo che l´unità della chiesa sia un bene prezioso e innegabile. Ma non c´è oggi il rischio di una spaccatura? Il pericolo più forte per la chiesa quasi mai viene dall´esterno, più spesso è frutto di tensioni intestine. Concludo con un pensiero che mi sta a cuore. In ogni grande epoca storica i vescovi hanno avuto dei modelli. Cioè un punto di riferimento esemplare. Nell´età antica fu Gregorio Magno, che poi divenne papa, a svolgere questo ruolo edificante. Nel cinquecento lo stesso compito lo assolverà il vescovo di Milano Carlo Borromeo. Ancora oggi in certe chiese si possono ammirare le sue immagini. La considerazione un po´ triste è che attualmente i vescovi non hanno più un modello da seguire. E neppure la pietà per Padre Pio può aiutarli a guadagnare quello stile che si ispira ai valori cristiani.
(Testo raccolto da Antonio Gnoli)

Repubblica 9.3.07
Dalle prime comunità al concilio vaticano II
Una figura chiave per l’identità cristiana
di Giovanni Filoramo

Nei primi secoli erano dotati di poteri eccezionali nei confronti del loro "gregge". Legittimati dal consenso popolare e del clero
Dopo gli eccessi nell´esercizio del potere temporale, il Concilio di Trento assegnò ai vescovi il compito prioritario della cura delle anime

Per le chiese cristiane, il vescovo (dal greco episkopos, "sorvegliante"), la cui importanza e funzione variano a seconda delle confessioni e della connessa ecclesiologia, è oggi la figura più significativa tra i vari ministeri. Così, mentre per la chiesa cattolica, per le chiese ortodosse e per l´anglicanesimo i vescovi sono "successori" degli apostoli per diritto divino e, di conseguenza, occupano il posto più alto nella gerarchia ecclesiastica, nelle chiese uscite dalla Riforma, per effetto del modo luterano di intendere l´unità della chiesa, l´ufficio episcopale è stato assimilato a quello del predicatore e giustificato non per diritto divino, ma per le necessità umane della comunità. Ricollegandosi al modo in cui, a loro avviso, il Nuovo Testamento presentava i differenti ministeri, i riformatori hanno voluto prendere le distanze dalla figura del vescovo emerso e impostosi nel corso del II secolo, ritenendolo il segnale più evidente dell´emergere di una struttura gerarchica e sacramentale del sacerdozio, ormai irrimediabilmente lontana dal sacerdozio dei fedeli proprio della comunità primitiva.
In realtà, l´"invenzione" della figura del vescovo, con i suoi tratti profondamente originali rispetto ad analoghe figure di autorità presenti sia nel giudaismo rabbinico sia nel mondo romano, ha costituito uno degli elementi-chiave che hanno permesso alle comunità cristiane di mantenere una forte saldezza e coesione e ne hanno facilitato la diffusione e, alla fine, il successo. Questa funzione unitaria del vescovo, che simboleggia l´unità della sua chiesa e, attraverso la partecipazione al collegio episcopale, la mantiene viva, testimoniando visibilmente la successione apostolica attraverso il suo potere di consacrazione e di amministrazione dei sacramenti, ha costituito un potente fattore d´identità per cattolici, ortodossi e anglicani, anche se poi le tre confessioni hanno declinato diversamente questo potere, in particolare come conseguenza del modo diverso di intendere l´ufficio del vescovo di Roma e i suoi rapporti con l´episcopato.
I tratti essenziali di questa figura si sono formati nell´antichità, grosso modo tra il II e il V secolo. Già all´inizio del III secolo questo tipo di episcopato pare ormai attestato nelle principali città dell´impero. Il vescovo, celebrando l´eucaristia, presiede alla vita liturgica e controlla la vita penitenziale; inoltre, consacrando gli altri appartenenti al clero, gestisce il potere sacerdotale. La scelta di un vescovo risultava dall´interagire di elementi carismatici (il "giudizio di Dio", che gli trasmetteva tra l´altro quel dono di discernimento spirituale essenziale per la buona conduzione dei rapporti umani all´interno della comunità) con il "suffragio" o acclamazione popolare e la scelta da parte del clero della città. Ne risulta una figura particolare, dotata di poteri eccezionali nei confronti del proprio gregge, garantiti dalla successione apostolica visibile e dal possesso dello Spirito (lo pneuma hegemonikon o spirito di comando) e legittimati dal consenso popolare e dall´approvazione del clero. Egli diventa il perno intorno a cui ruota la vita della chiesa locale: ne è il sacerdote, che offre il comune sacrificio; il ministro di tutti i sacramenti per tutti i membri della chiesa; con il suo sermo liturgico, il custode della parola e annunciatore di essa. Ma egli è anche idealmente - funzione non secondaria in un mondo che non praticava l´assistenzialismo - il distributore delle elemosine ai poveri, colui che applica la disciplina ecclesiastica, il centro dell´unità della chiesa, il cuore della sua vita complessa nel temporale e nello spirituale, all´interno e all´esterno. Alla fine del III secolo, il monoepiscopato era diventata la forma di governo della chiesa nelle varie parti dell´Impero. Come dimostrano poi, in particolare, le grandi figure di vescovi occidentali e orientali del IV secolo, Ambrogio Atanasio Basilio, nella nuova situazione politico-religiosa che portò il cristianesimo a diventare religione di Stato, la figura del vescovo, oltre ai compiti pastorali che gli provenivano dalla cura della comunità a lui affidata, acquisì funzioni sempre più rilevanti pubbliche e politiche anche all´interno della vita delle grandi città dell´Impero, come dimostra tra l´altro l´istituto dell´audientia episcopalis, in virtù del quale, in casi determinati, i vescovi amministravano la giustizia su mandato dello Stato. Questa accresciuta importanza pubblica si tradusse nell´acquisizione di insegne e onori propri dei gradi superiori della magistratura (porpora, trono con baldacchino, pallio, anello), in linea per altro con la provenienza per lo più aristocratica di molti vescovi del periodo. Il processo di progressiva sacralizzazione dei ministeri, che accompagna la nuova funzione pubblica assunta dalla chiesa, collocò insomma il vescovo, in quanto successore degli apostoli, in cima alla gerarchia ecclesiastica: un posto che egli continuò a occupare fino al trionfo, in epoca medievale, della monarchia pontificia, in cui non a caso una delle più importanti ragioni di conflitto con il potere politico fu dovuta al problema dell´elezione vescovile.
La storia moderna dell´episcopato cattolico è stata segnata dalle decisioni del Concilio di Trento che, non a caso, anche in reazione alle critiche dei riformati, si attribuì tra i suoi compiti prioritari quello di gettare le basi di una riforma in prospettiva pastorale dell´attività del vescovo, legandolo in modo stabile alla vita della propria diocesi (obbligo di residenza) e incaricandolo prioritariamente della cura animarum ossia dell´azione pastorale nei confronti delle popolazioni affidategli. In linea con la concezione di una Chiesa come societas perfecta, il vescovo è stato idealmente visto come un sovrano religioso che esercita in grado sommo i tre poteri (regale, cultuale e profetico), al vertice di una gerarchia sacrale, che si contrappone dualisticamente a un laicato che appare quasi ignorato.
Soltanto col Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha cercato di superare, pur tra tante contraddizioni (culminate nel permanere di un primato del pontefice rispetto al collegio episcopale assunto nel suo insieme), questa visione sacrale in nome di una nuova ecclesiologia di servizio e di comunione, fondata su basi cristologiche. Il Concilio ha ricollegato al Cristo servo-pastore-sacerdote-maestro la dottrina dell´episcopato, restituendo all´ordinazione episcopale il valore di un dono specifico derivato dalla fonte pneumatologica, non più dunque incentrato, secondo la visione tradizionale, intorno alla celebrazione eucaristica, ma aperto alla missione, in vista della quale egli è ordinato e consacrato. Il vescovo è stato così riconfermato al vertice della gerarchia ministeriale, distinta per "essenza" dal sacerdozio dei fedeli (Lumen Gentium).
La teologia postconciliare non ha fatto che sviluppare la prospettiva del vescovo come espressione del sacerdozio di Cristo - capo della comunità rappresentato dal vescovo, con accenti diversi che variano col variare delle prospettive cristologiche. Inoltre, in linea con l´attenzione per le "chiese locali" promossa dal Concilio, si è sottolineato con vigore, anche dal punto di vista del nuovo Codice di diritto canonico del 1983, il fatto che il vescovo è il soggetto attivo fondamentale del sistema di governo della chiesa locale.
Le Conferenze episcopali nazionali, tra cui, buon ultima, quella italiana, hanno sigillato sul piano concreto della presenza attiva nei vari paesi cattolici, questa rinnovata identità di una figura decisiva nella storia del cattolicesimo.

Repubblica 9.3.07
La nascita del potere secolare vescovile
Quando nel Medioevo erano guerrieri
di Franco Cardini

Le varie Chiese locali si raggruppavano nelle diocesi A capo di ciascuna di queste veniva posto un sovrintendente, un coordinatore: un episkopos

Si parla molto ormai, specie dopo il successo del libro di Dan Brown, della Chiesa primitiva e del suo rapporto sia con il Fondatore, sia con l´Impero romano. Il che è presto detto: ma non è per nulla scontato. Anzitutto: chi è il Fondatore della Chiesa? Gesù di Nazareth? Simone detto Pietro di Cafarnao? Paolo di Tarso? In realtà, della Chiesa primitiva sappiamo abbastanza poco: giusto le scarne righe degli Atti degli Apostoli.
Le cose cominciano a cambiare man mano che ci si addentra nei secoli II e III, quando le testimonianze, anche archeologiche, divengono più dense e più sicure. Ma in realtà la Chiesa emerge ai nostri occhi, e diventa un oggetto di sicura indagine storiografica, solo a partire dal IV secolo, con Costantino che le fornisce piena libertà; e, alla fine di quel secolo, con Teodosio che ne fa religione di Stato.
Per quel tanto che ne sappiamo, non si dovrebbe parlare di Chiesa, bensì di "chiese" al plurale. In greco, la parola ekklesìa significa semplicemente "adunanza", "assemblea". Ogni città, ogni centro in cui nascesse un gruppo di fedeli del nuovo Verbo era automaticamente una Chiesa: i capi dei singoli gruppi erano gli "anziani" (in greco presbyteroi), che amministravano anche la "Santa Cena", ma che è dubbio si potessero propriamente definire sacerdoti.
Il sacerdozio ebraico era finito con la distruzione del Tempio di Gerusalemme; alla Chiesa cristiana sarebbe toccata solo nella sua piena maturità la prerogativa di restaurarlo. Le varie Chiese locali si raggruppavano poi in circoscrizioni, che quando il culto cristiano fu reso giuridicamente lecito andarono sempre più modellandosi su quelle civili: le cosiddette "diocesi". A capo di ciascuna diocesi veniva posto, molto semplicemente un "sovrintendente", un "coordinatore". Tali concetti vengono espressi in greco dalla parola episkopos.
Ecco quindi i vescovi. Tra i quali, in seguito a una ulteriore distinzione gerarchica, sarebbero poi emersi anche gli arcivescovi e i patriarchi.
Con la divisione dell´Impero in due parti, l´orientale e l´occidentale, voluta da Teodosio e attuata dopo la sua morte, anche i destini delle varie Chiese, sempre reciprocamente autonome, si andarono sempre più adattando alla logica politica del tempo. I vescovi della parte orientale si adattarono sempre di più a essere organizzati e sorvegliati dall´imperatore, il quale si serviva della Chiesa come di uno strumento di Stato: d´altra parte, questo permetteva ai religiosi greci e orientali di darsi tranquillamente alla vita religiosa. Il governo imperiale suppliva a tutto il resto. Naturalmente, per le cose che riguardavano strettamente la fede, i vescovi si riunivano abitualmente in speciali congressi detti "sinodi", durante i quali veniva elaborata la dottrina della Chiesa.
Anche in Occidente accadeva più o meno la stessa cosa: ogni chiesa era rigorosamente autonoma rispetto alle altre, e i vescovi si riunivano di tanto in tanto in concilii durante i quali si stabilivano le verità della fede. Il punto era tuttavia che i vescovi della Chiesa occidentale, nella quale il ruolo liturgico e giuridico della lingua greca veniva sempre più soppiantato da quella latina, non disponevano del paracadute costituito dall´autorità imperiale.
Difatti, in Occidente l´Impero era franato. Il risultato fu che, dovendo confrontarsi con le invasioni barbariche e con il destrutturarsi della società del loro tempo, tra V e IX secolo i vescovi dovettero sempre più spesso assumere anche funzioni di governo, incluse le militari.
Cresceva intanto sempre più l´autorità del vescovo dell´unica città d´Occidente che si potesse definire "patriarcale", cioè caratterizzata da una Chiesa fondata da un Apostolo. Si trattava del vescovo di Roma che stava divenendo progressivamente il primus inter pares.
In Oriente le città patriarcali erano molte: soprattutto Antiochia e Alessandria. Ma anche Costantinopoli venne dichiarata tale. Tuttavia il patriarca costantinopolitano non fu mai il vero capo della Chiesa greca. E tale ruolo spettò in pratica sempre all´imperatore.
Quando anche in Occidente venne restaurata un´autorità imperiale, con Carlo Magno e più tardi con Ottone I, essa era d´altronde ben diversa da quella di Costantinopoli. Gli imperatori romano-germanici si servirono molto dei vescovi come del resto degli abati, cioè dei capi dei monasteri, per la loro passione di governo. La differenza tra i vescovi orientali, i greci, e i vescovi occidentali, i latini, stava nel fatto che i primi potevano tranquillamente accudire ai loro doveri religiosi mentre i secondi dovevano invece occuparsi anche di amministrazione, di politica, persino di guerra.
Fu questa una delle differenze tra le due Chiese che in un modo o nell´altro contribuirono allo Scisma del 1054, che nonostante molti tentativi è ancora in atto. Tra i vescovi ortodossi, i quali escono tutti regolarmente dalla carriera monastica e i vescovi cattolici, i quali invece hanno ordinariamente compiuto il loro tirocinio nel clero secolare, la differenza era e resta molto marcata.
La stagione d´oro del potere vescovile in Europa fu quella tra VIII e XI secolo, quando gli imperatori si servirono dei loro uffici come di veri e propri ministri o prefetti. Certamente, la loro cultura e la loro spiritualità ne soffrì molto; al punto che la Chiesa latina fu spesso accusata, al suo stesso interno, di corruzione, e furono necessarie successive riforme. Tuttavia, in quei tempi duri, la funzione vescovile fu uno dei pilastri che permise alla Chiesa latina di governare e gestire l´Europa medievale che nel frattempo si avviava a quel lungo periodo di prosperità che, pur con alcune occasionali crisi avrebbe permesso, a partire dal XVI secolo la conquista del mondo.
La monarchia pontificia ha controllato e represso, a partire dal XII secolo, il potere dei vescovi. Essi hanno reagito: fra il ´300 e il ´400 vi furono addirittura teorie conciliari, le quali sostenevano che non il papa, bensì il concilio, cioè l´assemblea dei vescovi, avrebbe dovuto governare la Chiesa romana. Ma tali istanze hanno storicamente avuto la peggio. Anzi, nel 400 si registrò il divertente fenomeno secondo il quale molti vescovi teorizzatori del primato conciliare, una volta diventati sommi pontefici, passavano serenamente alla teoria del monarchismo pontificio romano.
Questa è la situazione che nella Chiesa cattolica si è mantenuta fino a oggi: in una organizzazione monarchica e gerarchico-piramidale, i vescovi sono essenzialmente dei grandi funzionari. E questo vale anche per quella categoria di "Grandi Elettori Pontifici" che sono i cardinali, una istituzione nata nell´XI secolo per disciplinare l´elezione del vescovo di Roma nel momento in cui egli stava fondando appunto le basi per il suo fermo potere monarchico.

Repubblica 9.3.07
Il sì dell'Agenzia del Farmaco. Ne soffre il 3,5 dei piccoli in età pediatrica
Bambini disattenti e iperattivi via libera al Ritalin anche in Italia
Messe a punto una serie di condizioni per garantirne un uso appropriato


ROMA - Semaforo verde anche in Italia alla vendita del Ritalin dello Strattera, farmaci usati nell´infanzia per il trattamento della sindrome da deficit di attenzione e iperattività. L´Agenzia Italiana del Farmaco che ha approvato l´immissione in commercio dei tanto discussi prodotti, ha tuttavia messo a punto una serie di «condizioni al fine di garantirne un uso appropriato, sicuro e controllato». Per assicurare l´impiego esclusivo di questi farmaci in pazienti affetti da ADHD, sono state individuate procedure che vincolano la prescrizione del farmaco ad una diagnosi differenziale e ad un piano terapeutico definiti da Centri di riferimento di neuropsichiatria infantile individuati dalle Regioni; impongono controlli periodici; richiedono l´inserimento dei dati in un Registro nazionale istituito presso l´Istituto Superiore di Sanità. Tutto questo per mettere l´Italia al riparo dagli «usi impropri verificatisi in altri Paesi»: a tal fine verrà anche elaborato un Rapporto annuale.
Silvio Garattini, direttore dell´Istituto Mario Negri di Milano ha sottolineato come «tutte queste misure siano state prese per evitare che il ragazzo ‘bulletto´ o il bimbo che dà fastidio a scuola ricevano il farmaco-panacea; quelli approvati per la cura dei bambini iperattivi sono farmaci importanti ma che vanno usati con cautela. I paletti messi dall´Aifa mi sembrano buoni e se strada facendo si evidenziassero problemi si potranno correggere». Ma se da un lato Patrizia Stacconi, presidente dell|Associazione Italiana Famiglie ADHD, esprime soddisfazione, dall´altra le senatrici di Rifondazione Comunista, Erminia Emprin e Tiziana Valpina, annunciano una interrogazione al ministro Turco. L´ADHD è un disturbo neurobiologico dovuto all´alterazione di alcuni specifici circuiti cerebrali dei bambini che colpisce il 3,5% circa della popolazione pediatrica e rappresenta uno dei principali problemi medico-sociali dell´infanzia, riconosciuto da tutta la comunità scientifica, compresa l´Organizzazione Mondiale della Sanità. I bambini affetti da ADHD non riescono a controllare le loro risposte all´ambiente, sono disattenti, iperattivi e impulsivi in modo tale da compromettere la loro vita di relazione e scolastica.

il Messaggero 9.3.07
«Se vince Fassino, non ci sarà più la Quercia e noi costruiremo un vero partito socialista con Fausto»
In Parlamento 24 deputati e 12 senatori: verso gruppi autonomi, anche in Europa
«Pd nel Pse», bufera su Schultz

Mussi verso il tandem con Bertinotti
Sinistra ds pronta alla scissione: potrebbe disertare il congresso
di Nino Bertoloni Meli


ROMA Ventilata, sussurrata, paventata, invocata, alla fine la parola ”scissione” si è appalesata dentro la Quercia. Di qui al congresso di fine aprile rischia di diventare la cronaca di una scissione annunciata. Sempre che il tutto non precipiti prima, con le minoranze di Mussi-Salvi-Bandoli che decidono di non partecipare al congresso. Fabio Mussi ha rotto gli indugi. L’anti-Fassino a capo delle minoranze interne coalizzate, l’altra sera al teatro delle Erbe di Milano stracolmo e generoso di applausi a ogni passaggio che sottolineava la separazione piuttosto che il rimanere nei Ds, ha saltato il Rubicone e incalzato dalle domande di Radio popolare alla fine ha scandito: «Mi chiedete del dopo, volete sapere che cosa può accadere, e io vi dico che non c’è più vincolo di partito, la vittoria di Fassino al congresso significa che non ci saranno più i Ds, quindi ognuno sceglierà la sua strada. Vorrei che partecipaste e che andaste numerosi a votare ai congressi di sezione, poi si vedrà». Il ministro della Ricerca parla ormai come uno che si è svincolato da quel ”patto dei quarantenni” che, all’ombra di Achille Occhetto, traghettò il Pci al Pds per poi reggerne le alterne sorti strattonato e poi espunto dal vertice da Massimo D’Alema, ma con un vincolo che permaneva assieme ai vari Fassino, Veltroni, Bassolino, Turco, Petruccioli. Ora non più. Qualcosa sembra essersi definitivamente rotto. «Nell’89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui invece, con il Pd, si salta fuori dalla sinistra», attacca Mussi in un’intervista-manifesto all’Espresso, che segna un’ulteriore passo verso la separazione. Il capo delle minoranze interne chiude porte e finestre all’ipotesi finora sempre in piedi che l’ex correntone si sarebbe alla fine acconciato a fare la sinistra del Partito democratico. Nossignori, Mussi taglia i ponti: «Non accetto l’idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro». E allora? «La sinistra si ritroverà, a prescindere perfino dalle nostre volontà, qualcosa di nuovo nascerà». Non solo pre-annuncio di addio ai Ds, dunque, ma scommessa che la nascita del Pd aprirà enormi spazi a sinistra che andranno riempiti.
E qui arriva la prospettiva, il ”che fare” in alternativa al Pd: «Mi interessa il cantiere di Bertinotti». La proposta in sostanza è di lavorare a una ”costituente della sinistra” in alternativa alla ”costituente del Pd”. Due costituenti parallele seguiranno i due congressi di Ds e Margherita e si daranno battaglia. Al delle Erbe, presente pure Peppino Caldarola che lavora alla ricomposizione socialista, Mussi si è detto interessato anche allo Sdi di Enrico Boselli. Costituente della sinistra, con o senza i socialisti della diaspora che sia, Mussi appare fin d’ora in pole position per la leadership di quel ”qualcosa” che nascerà alla sinistra del Pd e che vedrà la congiunzione del grosso di Rifondazione con un pezzo importante dei Ds.
Il nodo irrisolto della collocazione internazionale è altra benzina sul fuoco: il capogruppo a Strasburgo Martin Schulz si è detto convinto che il Pd alla fine aderirà al Pse, la Margherita si è inalberata, ma forse a Schulz sono giunte all’orecchio le rassicurazioni che Fassino e D’Alema vanno facendo, del tipo che una volta costruito il Pd si farà passare a maggioranza l’adesione al Pse.
Se separazione sarà, la sinistra diessina potrà contare su 24 deputati, 12 senatori e 6-7 europarlamentari compreso Occhetto che ha già fatto sapere di essere molto interessato alla prospettiva di ricomporre la sinistra. Interessato appare anche Gavino Angius, che ha avuto un altro incontro con Mussi. In campo il ”cantiere” di Bertinotti che, come spiega Caldarola, «deve fare una apertura di credito sul fronte della prospettiva socialista, alla quale è atteso», e che comprende anche una ricomposizione di tutta quella sinistra che rimane fuori dal Pd, Oliviero Diliberto e il suo Pdci compreso (ma Franco Giordano recalcistra).

il manifesto 9.3.07
Ds, c'è qualcosa a sinistra della «Cosa»
di R. Pol.


«Qualcosa di nuovo nascerà». Fabio Mussi, candidato della sinistra Ds alla segreteria e alfiere dei diessini contrari al partito democratico scioglie le ultime prudenze: «Sì, mi interessa. Il cantiere a sinistra di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi, certe divisioni hanno fatto il loro tempo».
Sono stati giorni di palesi richiami pubblici dopo i continui contatti informali quelli tra la minoranza della Quercia e l'ex segretario di Rifondazione.
Il ministro dell'Università annuncia sulle pagine dell'Espresso che le fronde «socialiste» della Quercia hanno davvero il piede sulla porta: «Un'impresa comune è sull'orlo di finire e non accetto l'idea - spiega - che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi a prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà».
I congressi non vanno benissimo, la mozione Fassino-D'Alema-Veltroni fa il pieno quasi ovunque ma il clima della base, rileva Mussi «non è certamente quello dell'89. Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Qui si salta fuori dalla sinistra. L'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito che si richiama al socialismo, dovrebbe essere un evento altamente drammatico. E invece vedo in giro un sentimento di rassegnazione. Siamo partiti da Blair e siamo arrivati al nulla».
E' la stessa linea annunciata da Cesare Salvi sul manifesto di mercoledì, in cui annunciava anche una nuova «attenzione» verso lo Sdi di Enrico Boselli e, almeno in parte, verso il Pdci di Oliviero Diliberto. Partito in cui trasloca direttamente il deputato del correntone Aleandro Longhi dopo che una settantina di dirigenti liguri non hanno rinnovato la tessera contro il Pd.
Resta da capire, in mezzo a tanti movimenti, cosa ne sarà della Sinistra europea. Oggi Fausto Bertinotti ne parlerà a Berlino e a fine mese Rifondazione avrebbe dovuto celebrare la consacrazione del progetto in una conferenza nazionale di organizzazione di quattro giorni a Carrara (29 marzo - 1 aprile). E' un fatto che il progetto bertinottiano finora non abbia calamitato le folle e in molti, dentro il partito, si chiedono cosa ha davvero in serbo il «subcomandante» sul futuro di Rifondazione.

l’Unità 9.3.07
Mussi: non sarò minoranza in un partito di centro
di Giuseppe Vittori


Il leader della minoranza Ds. Fabio Mussi, si augura «decine di migliaia di voti per fermare il treno del Pd». Per ora, però, registra un voto largo per la mozione Fassino. Venisse confermato, lui non farà «la sinistra del partito democratico. Ma che destino è per la sinistra italiana diventare una corrente di una formazione neocentrista come il Pd?». Intervistato dall’Espresso, Mussi spiega che nei congressi «è l’epoca delle passioni tristi», il partito ha meno idealità, «ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale, bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...».
«Il problema - ha precisato - è che in Italia serve una grande forza di sinistra di espressione socialista. Sarebbe veramente curioso che fosse l'unico paese d'Europa dove non c'è». A Mussi interessa il cantiere della sinistra proposto da Bertinotti: «Oggi tutta la sinistra sta al governo. Se la cosa regge e funziona, certe divisioni possono fare il loro tempo. C’è bisogno di sinistra, di sinistra di governo». Qualcosa di nuovo, insomma, nascerà.

l’Unità 9.3.07
Dico, bufera su Salvi
Lui ribatte: così potremo fare la legge
Alla vigilia della manifestazione è ancora
polemica col governo sulla «bocciatura»
di Maria Zegarelli


PIAZZE E PARTITI Chi invita la piazza di domani a «urlare piano», evitare i «toni gridati e le esasperazioni ideologiche», come dice Franco Monaco della Margherita, perché «nuocerebbero alla causa»; chi in piazza ci sarà malgrado sia ministro - come Alfonso Pecoraro
Scanio e Paolo Ferrero; e chi evita la piazza, pur «essendoci idealmente» - come la ministra Barbara Pollastrini. Infine, c’è chi annuncia la propria presenza in un’altra piazza, quella del Family Day, come i ministri Clemente Mastella e Beppe Fioroni, anche se quell’appuntamento per ora è solo un punto interrogativo.
Vigilia di manifestazione «Diritti ora», ricca di polemiche. «I Dico non passano» ripete il Guardasigilli. «Passano, se solo mi lasciassero lavorare in pace», ribatte il presidente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Cesare Salvi, che ha smontato «tecnicamente», il ddl firmato dalle due ministre Bindi e Pollastrini. Loro ci sono rimaste piuttosto male, lui ribatte:«Mi dovrebbero ringraziare perché se avessimo adottato il ddl del governo come testo base la legge avrebbe fatto una finaccia. Mastella aveva già annunciato che avrebbe bloccato tutto con la pregiudiziale di costituzionalità. Abbiamo salvato il governo ma anche la speranza di fare una legge sulle unioni civili riaprendo il dibattito in Commissione». In realtà su di lui è piombato un sospetto: che voglia, attraverso il ddl, dimostrare che il partito democratico è una via impraticabile, «un pasticciaccio». A pensarlo già sono in diversi: da Rosy Bindi (che ieri lo ha esplicitamente sostenuto sulle pagine di Europa) a Giorgio Tonini, uno dei saggi che sta lavorando al Manifesto del Partito democratico, al giurista Stefano Ceccanti, Salvi replica: «Ma stiamo scherzando? Il Pd non mi piace affatto, ma questo è un argomento a cui dedico non più di 60 minuti di riflessione al giorno. Le mie critiche al ddl sono critiche tecniche». Sempre dalle colonne del quotidiano Dl oggi Salvi spiega che «quello che apprezzo politicamente del lavoro delle due ministre, e l’ho detto in altra occasione, è l’impegno a trovare un punto di incontro tra cultura laica e cultura cattolica, che è un obiettivo al quale tutte le persone serie devono considerarsi impegnate, sia che ritengano che ciò debba comportare la fusione di un unico partito, sia che, come me, credano che, pur permanendo diritti diversi, l’alleanza tra cattolici democratici e sinistra socialista sia un punto decisivo di tenuta del sistema democratico italiano, prima ancora che del centro sinistra». Argomentazioni che non hanno convinto le due ministre, però. Intanto il capogruppo dell’Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro, dà una botta alla botte e una al cerchio: «Ci sono due questioni dalle quali non prescindere: il testo dei Dico è la prima mediazione possibile tra cattolici e laici e nei Dico c'è una novità rispetto a tutte le altre proposte perché c'è un sistema di diritti per i conviventi non concorrenziale nei confronti della famiglia». In sostanza, per la Finocchiaro, «bisogna riflettere se i diritti dei conviventi si devono registrare solo quando c'è amore erotico o anche quando ci sono affinità e assistenza spirituale e materiale». Lei, come Bindi, Pollastrini e Melandri, è tra i nomi illustri che non saranno in piazza domani per il ruolo istituzionale che rivestono. Il coordinatore nazionale della manifestazione, Alessandro Zan, dice: «Vogliamo costruire un’occasione per mettere in contatto il paese reale, attrverso la testimonianze delle coppie di fatto e le istituzioni perché non è una manifestazione “contro” ma è per allargare i diritti in questo paese».

Aprileonline.info 8.3.07
Mussi: "A sinistra nascerà qualcosa di nuovo"
di C.R.


In un'intervista rilasciata all'Espresso, il leader della Sinistra Ds ammette che l'impresa comune (Ds) si avvia alla fine" e apre al cantiere proposto da Bertinotti: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi"

"Per ora c'è un voto largo per la mozione Fassino". Lo ammette, in un'intervista a l'Espresso, Fabio Mussi, ministro dell'Università e leader della mozione congressuale "A sinistra per il socialismo europeo", a proposito dei congressi della Quercia in corso.
L'agonia dei democratici di sinistra si avvia alla sua fine: "Un'impresa comune è sull'orlo di finire". Mussi "apre" al cantiere che Fausto Bertinotti vorrebbe avviare sulle ceneri della Quercia: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà ''.

Il clima, nella base dei Ds, "Non è certamente quello dell'89", sottolinea ancora Mussi, in questi giorni impegnato in giro per il paese nel dibattito congressuale: "Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Nell'89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui, invece, si salta fuori dalla sinistra". A dominare è una sorta di passiva rassegnazione, spiega ancora il ministro dell'Università, che sottolinea come "l'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito di sinistra che si richiama al socialismo". Un evento altamente drammatico, che viene vissuto "con lo stesso spirito di Gigi Proietti nello spot con Consuelo: 'Se me lo dicevi prima! Ormai...''.
"E' l'epoca delle passioni tristi. Il partito si è indebolito: so che i compagni si infastidiscono quando lo ricordo, ma alle ultime elezioni abbiamo superato di poco il 17 per cento, al netto di Emilia, Toscana, Marche e Umbria in molte zone del paese siamo una forza marginale, sotto il venti per cento in undici regioni. E in questi anni c'è stata una mutazione dei nostri iscritti. Ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale. Siamo bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...".

Fabio Mussi dichiara all'Espresso di non essere ancora rassegnato alla fine dei Ds e di augurarsi che il processo costitutivo del Pd possa ancora essere fermato e questo malgrado l'accelerazione in corso: si diceva che il Pd sarebbe nato nel 2009, per le elezioni europee, poi si è anticipata la nascita al 2008, ora qualcuno vorrebbe battezzarlo in estate. Fassino afferma che il Pd deve stare nel Partito socialista europeo, ma questo nodo è scomparso dalla sua mozione. D'altro canto, la Margherita ripete che il Pd non potrà aderire al Pse. Risultato: "un partito homeless, alla ricerca di un tetto, una roba che non esiste in Europa".

Non mancano le stoccate al collega di governo Francesco Rutelli. Sono tanti i nodi che dividono il vicepremier dall'essenza stessa di un partito che voglia appartenere all'area socialista. "Sui Dico - spiega Mussi - Rutelli dice che non sono una priorità, per la sinistra invece la libertà delle persone dovrebbe essere una questione centrale. E chi vuole una limitazione di questa libertà pone un problema pesante". E l'elenco prosegue: "Rutelli dichiara che in Francia voterebbe il centrista Bayrou, per i Ds invece la candidata di riferimento è Ségolène Royal. E se si va al ballottaggio Sarkozy-Royal e Bayrou decide di appoggiare Sarkozy, che facciamo? In una situazione politicamente e intellettualmente ordinata questo dibattito dovrebbe durare sette minuti e amici come prima".
Insomma, si domanda il leader della sinistra ds, come può stare in piedi un partito così? "Stiamo spendendo tutte le nostre energie per far diventare Rutelli un po' più socialista e Rutelli le spende per far diventare noi un po' più democristiani: ma perché tutto questo dispendio energetico?".

Cosa succederà se il Pd arrivasse in porto in tempi rapidi? A questa domanda Mussi risponde ricordando le due novità presenti, oggi, nel centrosinistra italiano: "Una è l'Ulivo, un po' acciaccato: nel '96 c'eravamo tutti tranne Rifondazione, avevamo il 44 per cento, ora siamo rimasti alla fusione Ds-Margherita e al 31. L'altra novità, è che per la prima volta tutta la sinistra è al governo, tutta. Non è una cosa da poco: nell'89 la svolta che portò dal Pci al Pds provocò una dolorosa scissione, nel '98 il governo Prodi saltò su un'altra divisione a sinistra, quando Bertinotti uscì dalla maggioranza. Oggi siamo tutti al governo. E un evento destinato a produrre grandi novità''.
E riguardo all'apertura di Bertinotti ad un "cantiere che accolga tutti coloro che si dicono di sinistra e che superi Rifondazione", Mussi risponde di sì: "Mi interessa. Il cantiere di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi. Siamo tutti insieme al governo. Se la cosa regge e funziona, Turigliatto a parte, certi steccati, certe divisioni possono fare il loro tempo. C'è bisogno di sinistra, di sinistra di governo". Oggi, nei Ds, si è vicini alla separazione finale, "è una rottura - spiega Mussi - un'impresa comune è sull'orlo di finire e, quando ci penso, ho bisogno di respirare lentamente". "Può darsi - prosegue Mussi - che ci saranno polluzioni di sinistra anche nel Pd. Ma io non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà".