martedì 13 marzo 2007

da il Riformista del 10.3.07
Perché le unioni civili in Italia mettono in pericolo la famiglia? Perché la Chiesa viene ascoltata in nome dello stesso popolo che trent’anni fa l’ha sconfitta sull’aborto e sul divorzio? Perché non rimettere in discussione anche il divorzio? Perché se l’embrione è “persona” non rimettere in discussione anche l’aborto? Siete sicuri, politici cattolici, elettori cattolici, di essere la maggioranza? Cari Giuliano Ferrara, cari Vittorio Sgarbi, cari Antonio Socci, cari finti liberali neoguelfi, cari credenti fedeli o atei devoti o comunque vogliate chiamarvi, personalmente mi avete convinto. Ma allora vi chiediamo un altro piccolo sforzo. Se è vero quanto dite, se la Chiesa rappresenta il popolo italiano e non una parte, non potete tirarvi indietro. Abbiate il coraggio della verità, e di trarre le conseguenze dalle vostre parole.
***
Poiché la maggioranza della classe politica si oppone alle unioni civili tra omosessuali o tra eterosessuali in difesa dei valori cattolici e della “sacralità” della famiglia; poiché il punto di vista religioso e la voce del Vaticano è predominante nel voler imporre questi valori anche a chi cattolico non è; poiché noi laici, liberali, libertari, e illuministi, messi all’angolo dall’altissimo pensiero cattolico, avendo perso la battaglia sui nostri diritti, vogliamo tutelare i vostri doveri, rispetto ai quali sarete certamente d’accordo, vi chiedo di firmare il presente appello per favorire referendum o proposte di legge che sanciscano, per le famiglie cattoliche:
1. Abolizione del matrimonio civile, non riconosciuto dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
2. Abolizione del divorzio, severamente condannato dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
3. Divieto di copulazione non “unitiva e procreativa”, come stabilita anche dal diritto canonico della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana contro gli eterosessuali cattolici che commettessero atto sessuale e fornicativo a scopi di piacere, ivi incluso l’onanisno, indicato come peccato mortale quanto l’omicidio o il rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso.
4. Divieto di aborto, che sia punito anche penalmente come omicidio, anche se praticato prima dei tre mesi, dal concepimento in poi.
5. Divieto, per Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini, e qualsiasi esponente politico cattolico divorziato, già interdetti a ricevere la Santa Comunione dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana (Catechismo, art. 349), di parlare in nome del cattolicesimo.
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Ho fede, in nome della Vostra Fede, che questo appello troverà ampio consenso tra deputati, senatori, intellettuali, giornalisti, Cei, partiti, circoli dellutriani, margherite e elettori cattolici italiani giustamente preoccupati per i valori dello spirito e della famiglia messi in pericolo dalla modernità, dall’edonismo e dal laicismo imperante. Il credente che non fosse d’accordo è pregato di fornire argomentate ragioni, possibilmente in nome di Dio o giù di lì.
Massimiliano Parente

da il Riformista del 13.3.07
(...)
Obbedisco, aderisco /4
Caro direttore, condivido e sottoscrivo la lettera ai cattolici di Massimiliano Parente, pubblicata dal vostro giornale. Cari saluti
Paolo Izzo scrittore ateo, eretico
impenitente www.paoloizzo.net
l'Unità 13.3.07
Dico, il Vaticano passa agli insulti
l’Osservatore senza freni
di Maria Zegarelli


IL QUOTIDIANO dello Stato Vaticano entra a gamba tesa nella già accesa polemica sulla manifestazione che si è svolta sabato scorso in piazza Farnese a Roma in difesa del riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Un intervento che si inserisce in
un clima politico ancora rovente con i ministri che battibeccano tra di loro, Prodi che interviene e torna a prendere le distanze dai ministri Pollastrini, Pecoraro Scanio e Ferrero, che hanno preso parte alla manifestazione (distanze condivise dalle ministre Bindi e Bonino) e Clemente Mastella che minaccia fuoriuscite dal governo e un referendum in caso di approvazione della legge sui Dico. Su questa posizione il Guardasigilli crea un fronte compatto con Pierferdinando Casini - Udc - e di assoluta sintonia con oltretevere. Tanto che nell’articolo dell’Osservatore il suo comportamento (come quello di Casini) raccoglie la piena approvazione.
Il giornale vaticano punta l’obiettivo sui bambini e lancia un affondo durissimo contro il sit-in: «Erano in molti i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all’estero. Bambini la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l’immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare. Ogni bambino, almeno da quando è nato, gode, anche nell’ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo, sfruttare la loro ingenuità appare un’operazione particolarmente criticabile. Ma è anche, ancora una volta, la prova evidente di quale sia la finalità di chi si batte per il riconoscimento legale degli omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad un nucleo famigliare particolari diritti». Per questo, secondo l’Osservatore, «spiccavano» in piazza Farnese, «fra l’altro ben tre ministri, a dimostrazione di come una parte del Governo sembra volersi impegnare personalmente per una questione diventata inspiegabilmente prioritaria», per fortuna è arrivato Mastella a «sfrondare il campo da ogni ipocrisia» e dire che su una questione così potrebbe cadere il governo. Proprio come, secondo indiscrezioni che trapelarono alla vigilia dell’approvazione in Cdm dei Dico, auspicò il cardinale Camillo Ruini. Al di qua del Tevere il deputato ds franco Grillini, presidente Arcigay, commenta a caldo:«Non ci meraviglia che l'imponente manifestazione “Diritti ora!” non sia piaciuta all’Osservatore. Un conto però è non condividere i contenuti della kermesse per i diritti, la non discriminazione e la dignità di milioni di persone, un conto è insolentire i migliaia di manifestanti, apostrofati come “pagliacci”, e perseguire nell'ossessione antiomosessuale che caratterizza il vertice vaticano». Secondo il capogruppo della Rnp alla Camera, Roberto Villetti, l’Osservatore esaspera «aspetti di colore presenti nella manifestazione con l'evidente scopo di svilirne il profondo significato civile e politico» e lancia una «caccia alle streghe». «Le vere vittime di questa assurda contrapposizione ideologica e religiosa - dice Angelo Bonelli dei Verdi - sono milioni di cittadini ai quali è necessario dare risposte. Il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena pretende le scuse dell'Osservatore, mentre Marina Sereni, vicecapogruppo Ulivo alla Camera ricorda agli alleati: «Dobbiamo rispettare l'impegno preso con i nostri elettori». Secondo Isabella Bertolini, Fi, il centrosinistra è affetto «da clericofobia».
Il Guardasigilli si tira fuori. Lui no. Anzi: «Se mi pongono un problema o un dilemma, “o al Governo oppure devi firmare i Dico”, io esco dal Governo». Anche a costo di far cadere Prodi e di cadere lui stesso. Tutti a terra ma niente Dico. Se ci fosse la fiducia «voterei no», minaccia. E se si dovesse arrivare a una legge, allora l’Udeur potrebbe anche «promuovere un referendum» per farla abrogare. Passando di trasmissione in trasmissione, da «l’Antipatico», a «Porta a Porta», rimprovera i suoi colleghi presenti sul palco sabato di non averlo difeso quando è stato fischiato. Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio non ce la fa più e spiega che lui non lo ha difeso semplicemente perché nessuno lo ha fischiato in sua presenza: «La manifestazione e i nostri interventi dal palco sono stati trasmessi su Raitre e tutti possono confermare che dalle 17 alle 18, cioè quando eravamo presenti, nessuno ha insultato o fischiato il ministro». La platea in quel lasso di tempo ha applaudito i ministri. «Mastella la pensa diversamente da me - dice il ministro - ma merita tutto il mio rispetto e se avessi sentito i fischi l’avrei difeso».Rosy Bindi invita tutti ad abbassare i toni, ma poi dice che a lei le piazze come quella di sabato «non piacciono,e infatti non ci sono andata». Comunque, «la famiglia è tra un uomo e una donna e quindi il desiderio di maternità e di paternità un omosessuale se lo deve scordare». Quindi, «è meglio che un bambino stia in Africa, piuttosto che cresca con due uomini, o due donne». Il senatore a vita Giulio Andreotti tanto per rendere più scivoloso il dibattito ha annunciato un emendamento al ddl sui Dico per eliminare le parole «dello stesso sesso»: quel riferimento, alle coppie di fatto dello stesso sesso, «è un errore e non deve essere approvato». Forse, in quel caso, i teodem della Margherita, potrebbero persino votare a favore.

l'Unità 13.3.07
La Chiesa prepara i cattolici allo scontro
di Roberto Monteforte


Nessuna caccia alle streghe: l’aveva chiesto l’arcivescovo Angelo Bagnasco il successore del cardinale Ruini alla guida dei vescovi italiani. Si immagina che il richiamo fosse rivolto ai due schieramenti. Ferma la sua difesa dei valori che per la Chiesa «non sono valicabili», come la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e aperta a generare la vita, ma da esercitare con «serenità» oltre che con «chiarezza». Una linea che è sembrata indicare un passo nuovo, più «pastorale» e vicino ai drammi dell’uomo e della donna nella società contemporanea. Una Chiesa, quindi, che pur tenendo ferma la difesa dei valori, è attenta a non esasperare i toni, a non acuire l’asprezza del confronto, a mantenere aperta la via del dialogo, nella distinzione dei ruoli e delle posizioni. Poi ieri è arrivato il commento dell’Osservatore romano alla manifestazione di sabato per il riconoscimento delle coppie di fatto in particolare per i diritti delle coppie omosessuali. «Un’esibizione carnascialesca» così l’ha bollata il giornale vaticano. Giudizi da fuoco alle polveri. In particolare per quelle critiche rivolte ai manifestanti gay che hanno marciato con i loro figli: colpevoli di voler dare l’idea di famiglia. È questa la linea della segreteria di Stato?
L’impressione è che il clima «caccia alle streghe», da chiamata alle armi per i cattolici, lo stiano alimentando proprio le gerarchie. Un’impressione confermata dal Sir, l’agenzia di stampa dei vescovi che muove un richiamo fermo a quei cattolici «tiepidi», che paiono poco disposti a mobilitarsi contro i Dico. «Oggi è il tempo delle proposte», e per questo non è sostenibile un atteggiamento di «scelta tra indifferenti» come al tempo dei referendum sull'aborto e sul divorzio, ma bisogna chiamare «con il loro nome bene e male, vero e falso, giusto e sbagliato» tuona l'agenzia ispirata dalla Cei. «È il tempo delle proposte, con tre parole chiave: libertà, diritti, responsabilità» conclude il Sir che richiama le parole del nuovo presidente della Cei: «La vicenda dei Dico sta dimostrando con serenità e chiarezza che il preciso no pronunciato con coerenza non solo dai cattolici, ma da tanti laici, diventa un punto di riferimento aperto e creativo». Come sul referendum per la procreazione assistita è il via libera alla linea dello scontro. Così si prepara anche il terreno per quella Nota Cei «vincolante per i politici cattolici», voluta dal cardinale Ruini che sarà discussa il prossimo 26 marzo nel primo Consiglio permanente della Cei a «gestione Bagnasco». Parola d’ordine: sbarrare la strada ai Dico. Subito. Pare essere più importante delle misure concrete, pure invocate, a favore della famiglia tradizionale. Le richiama dai microfoni di Radio vaticana l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Ruppi: far fronte alle difficoltà dei giovani a sposarsi, degli alloggi, degli affitti, l'insufficienza degli assegni familiari, la mancanza di tutela della famiglia vera. Ma prima vi è il richiamo alle forze politiche. «Facciano una valutazione di quello che è più urgente, più importante e di quello che è meno importante» e «diano la priorità ai problemi della famiglia rispetto ai Dico» afferma Ruppi che pure riconosce che le coppie di fatto meritano rispetto e che «la Chiesa non condanna nessuno». Ma la realtà pare essere diversa. Per la gerarchia vi sono diritti e doveri da non riconoscere per non rendere ancora più pesante la crisi della famiglia tradizionale. Sono richiami ai quali lo Stato, nella sua auspicata neutralità, non può essere indifferente. È il parere del patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola che nel suo ultimo libro «Una nuova laicità», edito da Marsilio affronta il tema del rapporto della Chiesa con la società contemporanea, pluralistica e complessa. «Il potere politico e dello Stato non è sacrale e quindi non è onnipotente» scrive, richiamando il diritto della Chiesa ad esercitare una «funzione di coscienza critica». Invoca uno Stato «laico», ma non «indifferente alle identità e alle culture» prevalenti e ai valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica. Parla di convivenza dialogica, il cardinale. E del rispetto delle procedure del consenso. Di riconoscimento reciproco come garanzia da ogni integralismo. Ma che sia davvero reciproco.

l'Unità 13.3.07
Il ministro Mussi a D’Alema: «L’adesione al nuovo partito non è obbligatoria»
I Congressi a Roma: la mozione del segretario «ferma» al 59%, la Mussi al 26-27% e la Angius-Zani al 14%.


ROMA «Si sciolgono i Ds e si forma un nuovo partito. L’adesione al nuovo partito è facoltativa, non obbligatoria».
Così il ministro della Ricerca, Fabio Mussi, risponde all’invito di Massimo D’Alema ad abbandonare i «no pregiudiziali» al nuovo soggetto politico, cui Mussi si oppone con una delle mozioni per il congresso Ds.
Il ministro, a Palermo per un incontro appunto sulla sua mozione, parlando con i giornalisti aggiunge: «Io sono un uomo di sinistra non si può cancellare la sinistra, farla sparire o diventare una corrente e farla diventare la corrente di un partito centrista, cosa che non esiste in nessuna parte d’Europa. Ritengo che sia un errore clamoroso. Questo Partito democratico è sostanzialmente un terreno di fusione tra Ds e Margherita, penso che abbia poca storia e poco futuro. È un partito che nasce non si sa bene con quale identità, con quale collocazione internazionale, con quale tavola dei valori. L’unica cosa nota per ora -conclude Mussi- è questo manifesto dei saggi che non passerà alla storia come un grande documento dal punto di vista politico e intellettuale».
La mattina, sempre a Palermo, Mussi aveva detto che non avrebbe parlato di Partito Democratico. Evidentemente non ne ha potuto fare a meno.

l'Unità 13.3.07
Per Revelli e Cremaschi Rc è ormai rosso sbiadito
Delusi dal partito che ha processato Turigliatto. Gagliardi: «Troppo apocalittici»
di Wanda Marra


L’intellettuale: «Abbiamo condannato i crimini del ‘900
Ora usiamo le stesse categorie»

Il sindacalista: «Rifondazione ha fallito. Non è né di lotta né di governo»

DISSENSI È una questione di «dissenso» e il dissenso è sempre «positivo», secondo il direttore di Liberazione, Piero Sansonetti. Ma forse ci sono dissensi che pe-
sano più di altri. A criticare aspramente Bertinotti e con lui Rifondazione comunista sono stati (e sono ancora) Marco Revelli e Giorgio Cremaschi. Due figure importanti, che al leader sono state fino a poco fa molto vicine. Intellettuale di riferimento il primo, tanto che Bertinotti gli affidò al Congresso di Venezia la relazione che affermava l’assoluta non violenza. E poco importa che, battitore libero com’è, a Rifondazione non sia mai stato iscritto. Sindacalista Fiom il secondo, tanto vicino all’allora segretario di Rifondazione da far ventilare ad alcuni l’ipotesi che nel 2001 questi potesse cedergli il posto per assumere la presidenza del partito. E anche qui, poco importa che la tessera ad ora non l’abbia rimessa.
Revelli e Cremaschi venerdì sera erano a Torino, a un’assemblea di solidarietà a Turigliatto, allontanato per 2 anni da Rifondazione. In quell’assemblea Revelli, forse anche provocatoriamente, ha dichiarato che non voterà più Rc. Applaudito entusiasticamente da Cremaschi. «Se Rifondazione la voterò ancora non lo so - spiega Revelli - certo è che se diventerà un partito che mi impedisce di fare un appello contro la guerra, allora non lo farò». Il dissenso, comunque, è forte. Revelli l’aveva già espresso in un articolo sul Manifesto del 6 marzo. Qualcosa si è rotto, scriveva, che« investe alle radici la strategia della sinistra, in particolare della «sinistra radicale»: «Di quella componente del centrosinistra, cioè, che aveva affidato buona parte del proprio ruolo alla possibilità di “fare rappresentanza” di ciò che muove “in basso”». Chiosando che «i 12 punti che hanno siglato la pace istituzionale dentro la coalizione sono 12 chiodi ben lunghi piantati sul coperchio della cassa delle buone intenzioni di chi sperava di far filtrare in alto almeno brandelli di voci dei territori». Parlando del «paradosso dell’antipolitica di sinistra», gli aveva risposto su Liberazione Rina Gagliardi, tra le “teste pensanti” di Rifondazione più vicine a Bertinotti, definendo «apocalittiche» le sue ragioni e attribuendogli un cupo pessimismo sulla possibilità, come si diceva una volta, di “cambiare il mondo”». I due, poi, si sono confrontati ancora sulle pagine di Liberazione domenica.
Ma Revelli, a proposito dell’espulsione di Turigliatto, lo ribadisce: «Prima abbiamo condannato i crimini del ‘900, e poi riproponiamo le stesse categorie che li hanno provocati». Mentre Cremaschi, che in occasione della manifestazione di Vicenza aveva dichiarato che «uscire dal governo per Rifondazione non dev’essere un tabù» ci va giù durissimo: «Il Prc ha fallito nella sua missione di essere partito di lotta e di governo. Da una parte ha rotto con la parte più radicale del movimento, dall’altra viene accusata di essere continuo elemento di destabilizzazione del governo».
Che da una parte ci sia questo tipo di dissenso, alimentato dalla decisione su Turigliatto, dall’altra la discussione su un nuovo soggetto della sinistra, in grado di fare «massa critica», lanciata da Bertinotti, e che Rifondazione stia in mezzo lo dice anche Sansonetti. «Ci sono due Rifondazioni», dichiara invece Salvatore Cannavò, leader della corrente trotzkista del partito, Sinistra critica, che si è autosospeso per solidarietà a Turigliatto. Una, spiega, è quella che guarda a un soggetto della sinistra, che tenga insieme Mussi e Bertinotti. E un’altra, che si pone a sinistra di quest’operazione. D’altra parte, non più di un mese e mezzo fa proprio da Cannavò è partita la fondazione di una nuova Associazione, Sinistra Critica, che tra le sue parole d’ordine mette il no alla missione italiana in Afghanistan. All’assemblea fondativa era presente lo stesso Cremaschi. Che però ci tiene a dire che «non c’è nessuna operazione in atto». Mentre Revelli dichiara che le «architetture» politiche non gli interessano. Nessun nuovo partito, per ora. Ma i giochi sono aperti.

Repubblica 13.3.07
La violenza suipiù deboli e l'incertezza del futuro
Perché si è giunti alo scontro fisico
di Umberto Galimberti


Le frontiere che delimitavano gli individui sono saltate determinando un tale stato d´allarme da non sapere più chi è chi. Ciò vale anche per i giovani

Il bullismo c´è sempre stato come eccesso dell´esuberanza giovanile. Oggi ha passato paurosamente il limite, al punto da generare nei genitori angoscia, negli insegnanti impotenza, e nella società nel suo complesso disorientamento. Le ragioni vanno cercate nell´eredità del passato, nella cultura del presente e nell´incertezza del futuro. Vediamole ad una ad una.
A partire dal Sessantotto si è registrato un passaggio dalla "società della disciplina" dove ci si dibatteva nel conflitto tra permesso e proibito alla "società dell´efficienza e della performance spinta" dove ci si dibatte tra il possibile e l´impossibile, senza nessun riguardo e forse nessuna percezione del concetto di "limite".
Questo passaggio s´è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d´ordine dell´intero continente giovanile era "emancipazione" all´insegna del "tutto è possibile", per cui la famiglia era una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro un´alienazione, il consumismo un aberrazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si doveva liberare. La parola d´ordine era: "vietato vietare".
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini "sociali", si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di impostazione americana, giocata però a livello "individuale", dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all´infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il limite tra un atto di esuberanza e una vera e propria aggressione, tra un atto di insubordinazione e il misconoscimento di ogni gerarchia, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l´abuso sessuale?
E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone siano saltate, determinando un tale stato d´allarme da non sapere più chi è chi. Questa è la ragione per cui i giovani non si sentono mai sufficientemente se stessi, mai sufficientemente colmi di identità, mai sufficientemente attivi se non quando superano se stessi, senza essere mai se stessi, ma solo una risposta ai modelli o alle performance che la televisione e internet a piene mani distribuiscono, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, insubordinazione alle norme sociali.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche annunciava profeticamente «l´avvento dell´individuo sovrano riscattato dall´eticità dei costumi». Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l´emancipazione ha forse affrancato i nostri giovani dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d´obbedienza, ma li ha innegabilmente condannati al parossismo dell´eccesso e dell´oltrepassamento del limite. Per cui genitori e insegnanti non sanno più come far fronte all´indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isolano nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, all´escalation della violenza, allo stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia. Tutti questi sintomi sono iscrivibili, come scrive il filosofo francese Benasayag: «nell´oscurarsi del futuro come promessa e nell´affacciarsi di un futuro come minaccia».
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell´assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. O come scrive il sociologo tedesco Falko Brask: «Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra».
Ciò significa che nell´adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla "libido narcisistica" (che investe sull´amore di sé) alla "libido oggettuale" (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, accade che si inducano gli adolescenti a studiare con motivazioni "utilitaristiche", impostando un´educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che "ci si salva da soli", con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
E così i nostri giovani hanno smesso di dire "noi" come lo si diceva nel Sessantotto, l´hanno detto sempre meno dopo il crollo delle ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi che ripete ossessivamente "io" dalle pareti strette come quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la "banda".
Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l´impressione di poter dire davvero "noi", e di riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre più caratterizzano i loro comportamenti nella scuola, negli stadi, all´uscita delle discoteche. Lo sfondo è quello della violenza sui più deboli e la pratica della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro imprese.
E questo perché oggi i nostri ragazzi si trovano ad avere un´emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l´emozione e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo. L´eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo li portano a oscillare tra lo "stordimento dell´apparato emotivo", attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga, o il "disinteresse per tutto", messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell´ignavia e della non partecipazione che conducono all´atteggiamento opaco dell´indifferenza.
Di fronte a questi ragazzi, che inconsciamente avvertono l´incertezza del futuro che li induce ad attardarsi in una sorta di adolescenza infinita, resta solo da dire a genitori e professori: non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in maniera distruttiva.

Repubblica 13.3.07
L'intervista. Armando Cossutta: uno sbarramento al 5 per cento può aiutarci
"Ha ragione Bertinotti serve una nuova sinistra"
L'ex presidente del Pdci critica Diliberto e insiste: possiamo dire addio a falce e martello
di Umberto Rosso


ROMA - «Sì, oggi mi sento più vicino alle posizioni e alle ultime riflessioni di Fausto Bertinotti che alla linea, ripetitiva e chiusa, del segretario del Pdci Diliberto».
Senatore Cossutta, sta dicendo che sono ormai superate le ragioni della clamorosa scissione con Rifondazione?
«Quelle ragioni non possono essere superate per il semplice motivo che fanno parte della nostra storia. Ma il tempo delle divisioni a sinistra è finito. E uno sbarramento elettorale al 5 per cento potrebbe favorire l´aggregazione di una sinistra nuova. Rimettendosi tutti in discussione, in un gioco più grande e più ambizioso».
E con Bertinotti, è tornato a parlarne?
«Personalmente no. Io sono liberamente comunista. Ma ho molto apprezzato le interviste, le riflessioni che in quest´ultimo periodo ha compiuto. L´invito a ragionare sui tratti distintivi della sinistra ma in maniera produttiva, incisiva».
L'idea della "massa critica" della sinistra, rivolto in primo luogo ai Ds.
«Lui parla così, ha questo linguaggio. Io, che volete, sono più prosaico. Ma quella è una significativa apertura alla costruzione di una sinistra che conti realmente. Mentre è improduttivo e dannoso l´atteggiamento di quanti antepongono solo la paura di sparire come piccola entità di partito».
Ce l'ha con Oliviero Diliberto?
«I suoi appelli sono ripetitivi, semplificatori, soprattutto molto gridati. Unità, unità, unità. E poi? In realtà, se qualcuno prova ad avvicinarsi, apriti cielo. Scatta il riflesso identitario del partito, l´unità come somma di apparati, l´idea salvifica di tutelare in primo luogo se stessi. Una visione davvero ristretta, rispetto alla sfida dei tempi. Io mi sono dimesso da presidente del partito, in modo molto critico. Resto senatore del gruppo. Oggi, di fronte ad un´offensiva moderata, c´è un´esigenza oggettiva di costruire un processo unitario più largo possibile. Di popolo, non di segreterie».
Anche mettendo da parte il simbolo della falce e martello?
«Quello è storicamente il simbolo dei comunisti. Non lo rinnego, lo dico a chi ha cercato di spargere veleni nei miei confronti. Punto. Ma se vogliamo fare una cosa nuova, grande, bisogna sapersi liberare delle pregiudiziali, di nomi e di simboli. Di quelle piccole miserie di cercare sempre di strappare un voto nell´orto del vicino. Siamo di fronte ad una fase diversa e importante. Con la nascita del Partito democratico una parte significativa dei Ds si guarderà attorno, incerta, smarrita. Proprio a questa forza, in primo luogo, è rivolta la mia idea di aggregazione della sinistra ».
Prevede una scissione della sinistra ds?
«Di certo, come dimostrano anche i primi risultati dei congressi diessini, c´è una grande preoccupazione per la nascita del Pd. Poi c´è Rifondazione, ci sono i Verdi. E c´è il Pdci, ma oggi è chiuso e asfittico. Se gli uomini di queste forze dovessero scegliere di dar vita ad un nuovo progetto unitario, certo non possiamo proporre loro come condizione questo o quel simbolo, questo o quel nome. Ad un militante, mettiamo, della sinistra ds, non credo possa interessare finire ospite in casa altrui».

Repubblica 13.3.07
La famiglia dimezzata che non vuole figli "Il futuro? Siamo noi"
Quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera bambini
di Concite De Gregorio


Un "modello" in crescita mentre calano le coppie con figli

L´istinto. Mi sembra chiaro che l´istinto di conservazione della nostra specie decrepita si è consumato. Certo che avremmo potuto averne, ma non abbiamo voluto

La sociologa. In un certo senso perché esista famiglia sono necessari i figli, quando una coppia rinuncia, rinuncia a fare futuro

Meglio zia. A me i piccoli non piacciono, quelli degli altri sì, intendiamoci: i miei nipoti sono meravigliosi, ma io non ne ho mai desiderati, sto bene così

ROMA - Fare futuro. Anni fa parlando ai ragazzi di un liceo romano con un linguaggio, dunque, per nulla dottorale la sociologa Chiara Saraceno rispose ad una studentessa che le chiedeva "ma perché esista una famiglia sono necessari i figli?". In un certo senso sì, disse Saraceno. "Non si può negare che quando una coppia rinuncia ai figli rinuncia a fare futuro".
La realtà dell´Italia, quindi, ci apparecchia una tavola da cui sta scomparendo il futuro. Se ci contiamo troviamo un bambino ogni sette abitanti: una delle medie più basse d´Europa. Il saldo fra nati e morti, nella popolazione non immigrata, è negativo: i morti sono 13 mila di più. Ventidue famiglie su cento in Italia sono composte da coppie senza figli: ventidue su cento, quasi una su quattro. Sposate o non sposate, è lo stesso: il punto non è il tipo di vincolo. La questione è, piuttosto, che quasi un quarto delle famiglie italiane non desidera avere figli: preferisce di no. Si può ormai molto spesso dire che "preferisce" dal momento che i casi di impossibilità oggettiva di averne – non tutti, certo - sono stati da tempo soccorsi dai progressi della medicina, l´aumento delle adozioni ha fatto il resto. Volendo avere un figlio oggi molto più spesso di prima si può: a costo anche di aggirare le nostre leggi andando in paesi dove è più facile farne, od ottenerne. Ciononostante quel 22 su cento cresce ancora: del 19,6 in due anni. Diminuiscono, anche se molto meno, le coppie con figli.
Bruno Melappione, 56 anni, ascolta tutto questo mentre la moglie quarantenne prepara un caffè: "Mi sembra chiaro che l´istinto di conservazione della nostra specie decrepita, dopo millenni, si è consumato", ride. La moglie arriva con le tazze: "A me i bambini non piacciono, quelli degli altri sì, intendiamoci: i miei nipoti sono meravigliosi ma per me non ne ho mai desiderati. Sto bene così, stiamo molto bene così". Quando ha conosciuto suo marito aveva 31 anni, ora ne ha 42: undici anni di cene con gli amici, pomeriggi al cinema, viaggi. Non è stata una questione economica, dicono: non è che i figli non siano arrivati perché costano e non c´erano soldi, perché mancava la casa o il lavoro. Ci sono state difficoltà, certamente, ma non è a causa di quelle che hanno rinunciato. E´ facile capire che davvero è quasi sempre così. C´è il buon senso, c´è l´esperienza e ci sono studi che lo certificano: specialmente quando si tratta del primo figlio il conto dei soldi è secondario. Sono altre le ragioni che spingono a farlo, le difficoltà si superano. Semmai è al secondo e al terzo figlio che si rinuncia per non aggiungere spese e rinunce, non al primo: quasi mai al primo. "Certo che avremmo potuto farlo, semplicemente non abbiamo voluto".
Bruno Melappione e Maricetta Lombardo sono nati in famiglie numerose.
Lui romano, settimo di nove fratelli. Artigiano specializzato, costruisce scenografie per il cinema. Scrive racconti, vorrebbe sceneggiare un film. Primo matrimonio a 24 anni: due figli di 34 ed 32, è già nonno di un bimbo di 4. Lei agrigentina, terza di sei figli. E´ arrivata a roma 16 anni fa per frequentare il centro sperimentale di cinematografia, fa il tecnico del suono. Per passione fotografa. In salotto alle pareti ci sono sono foto sue: un incontro di boxe, un autoritratto con Alberto Granado quello che ha fatto col Che il viaggio della motocicletta, "un vecchio bellissimo l´ho conosciuto a Berlino". Vivono in una casa di 70 metri quadri, "una casa dei preti": l´affitto è basso, mille euro al mese. Non fumano, non bevono. Il giornale ogni tanto, "ci sono quelli gratuiti". Libri molti, "cinema tutti i giorni". Tutti i giorni? "Sì, in un cinema di San Lorenzo al primo spettacolo il biglietto per le prime visioni è di due euro. Ci andiamo tutti i pomeriggi. Se si può, certo. Ogni giorno un film diverso". E´ la loro spesa principale. Niente macchina ("c´è, ma solo per i viaggi in Sicilia", quando vanno in estate a casa di lei), tessera dei mezzi pubblici. Maricetta: "Per il mangiare sì che si spende. Io adoro cucinare, si vede no?, guardi che taglia abbiamo raggiunto fra tutti e due… Ecco, questo sì: invitiamo molto spesso amici a cena".
Si sono conosciuti undici anni fa, sette anni dopo si sono sposati. Perché il matrimonio? Bruno: "Io prima convivevo con una ragazza finlandese ma non avevo mai preso l´impegno di sposarla, non ho mai pensato fino in fondo che avrei voluto stare per sempre con lei". Il matrimonio perché è un impegno. "Sì è così. Convivi se stai bene in quel momento, ti sposi se ti prendi un impegno per la vita. È anche un regalo che fai all´altra persona: per me non ci dobbiamo lasciare mei più, le dici. Delle volte mi dispiace averla sposata perché non la posso risposare". La moglie gli sorride. E perché niente figli? Maricetta: "Non ho pazienza. Non ne ho voluti. Lui aveva i suoi già grandi, io lavoravo molto viaggiavo. C´è stato un momento, forse, ma poi ho preferito di no. Mi piace stare con i miei nipoti ma non torno mai a casa pensando vorrei un figlio anch´io. E´ poi vede quante storie infelici ci sono, che inferno può essere la famiglia, quei poveri figli… abbiamo visto un film proprio ieri no Bruno?. "Ieri. La riproduzione è un istinto animale, lo fanno le bestie senza essere famiglia. Fra uomini si può stare insieme anche in modi diversi, si decide cosa è meglio, cosa è possibile, cosa si desidera davvero". Loro desiderano principalmente stare insieme: "Siamo felici così, col cinema al pomeriggio, le cene con gli amici la sera, il nostro computer, qualcosa da leggere e da scrivere, la macchina fotografica che ci accompagna nei viaggi". Bruno progetta di scrivere un libro sui templari, la sua passione. "E´ chiaro che il tesoro se l´è magnato Filippo il Bello e che il papa era d´accordo", questa la trama. Maricetta ha lavorato a un film di Pasquale Scimeca sullo sfruttamento dei bambini "e ora spero che esca, poi spero di avere presto un altro lavoro perché al momento non ce n´è". Cosa servirebbe per stare meglio? Lei: "Qualche soldo in più ma non per essere ricchi, la ricchezza porta problemi. Per andare a teatro, fuori a vedere una mostra, per viaggiare un po´ di più. Prima avevo delle manie, gli occhiali gli orologi, poi sono stata in Africa e mi sono passate tutte. Bisognerebbe che fosse obbligatorio per tutti passare almeno una settimana in africa nella vita, così uno si rende conto del mondo dove viviamo". Il futuro com´è? "Il futuro siamo noi, i nostri amici. Le serate a base di piatti siciliani e greci, brasiliani. Abbasso le diete, per carità, non sopporto il velinismo. Sono contro la taglia 38 a favore della 46". Il futuro, Bruno? "Il mio futuro è lei, Maricetta. Forse un libro, forse un film: se vengono, chissà. Di certo ci siamo noi. La nostra famiglia cioè noi, la nostra casa cioè qui: il nostro futuro è questo, ce l´ho davanti agli occhi".

il manifesto 13.3.07
Assemblea decisiva dei delegati «con Mussi»
Movimenti a sinistra: la minoranza Ds si prepara allo scontro, il Prc discute dell'«apertura» di Bertinotti
di Carla Casalini


«Credo che non ci sarà una scissione nei Ds». Il segretario della Quercia Piero Fassino non smentisce il mood del tempo, il vizio ormai invalso del parlare imperioso, del presumere di decidere per altri, al posto di altri, in questo caso la sinistra Ds che con la mozione Mussi si contrappone nei congressi a quella della maggioranza. Alle parole di ieri di Fassino ha risposto indirettamente lo stesso ministro dell'Università e Ricerca Fabio Mussi - impegnato in un giro in Sicilia - reagendo a Massimo D'Alema che invitava ad abbandonare i «no pregiudiziali» alla costruzione del «Partito democratico».
Precisa in premessa Mussi: «Si sciolgono i Ds e si forma un nuovo partito? L'adesione al nuovo partito è facoltativa, non obbligatoria». Per altro, è la sua previsione, questo Partito democratico che nasce sostanzialmente come fusione fra Ds e Margherita, in vaghezza di identità, collocazione internazionale, e tavola dei valori, avrà «poca storia e poco futuro». In conclusione, il ministro ribadisce la sua posizione: «Io sono un uomo di sinistra» e la sinistra «non si può cancellarla o farla diventare la corrente di un partito centrista - cosa che non esiste in nessuna parte d'Europa».
Insomma, tutto fa pensare che sarà di importanza cruciale per le decisioni della sinistra Ds l'assemblea del 28 marzo: l'appuntamento che riunirà tutti i sostenitoridella «mozione Mussi». Non avverrà lì, nelle previisoni, la scelta ufficiale sulla eventuale «scissione» - a favore della quale Mussi personalmente è stato piuttosto esplicito - perché all'appuntamento nazionale seguirà una «discussione articolata nei territori». Ma non c'è dubbio che la giornata del 28 segnerà uno spartiacque decisivo rispetto alla corsa dei Ds, ulteriormente accelerata, verso il partito democratico (ieri la nascita del Pd è stata anticipata al febbraio 2008).
Quello che emerge alloggi è un quadro in movimento che coinvolge l'intera sinistra politica di partito. Ne è segno, ovviamente, anche l'invito di Fausto Bertinotti - all'indomani della crisi del governo Prodi e sua risoluzione verso il 'centro' - col quale il presidente della Camera ha prefigurato uno scenario nuovo, di confronto sui 'temi di fondo' fra tutte le sinistra indipendentemente dalla loro collocazione attuale.
Ieri, in una lunga seduta di segreteria, Rifondazione ha parlato proprio di questo rilancio con cui Bertinotti ha riaperto i giochi (oltre che della prossima conferenza di organizzazione del partito che inizia il 29 marzo, di voto al senato sull'Afghanistan, di temi sociali).
Bene, la conclusione della segreteria sul nuovo 'scenario' sembra abbastanza prudente. In sostanza: «buonissimo punto di partenza ma nessuna accelerazione organizzativa». La decisione - come confermato da Maurizio Zipponi - è quella di costituire subito, per il momento. la costituzione formale della «sezione italiana della Sinistra europea», nella sua dimensione politica, organizzazione, e regole interne. Avverrà da questo soggetto attrezzato per l'occasione, il processo di «incrocio con esperienze, pratiche, protagonisti della sinistra italiana».
In sostanza, non sembra volersi sbilanciare prima del tempo Rifondazione. Salvo poi dover investire la Conferenza di organizzazione di decisioni politiche - giacchè il suo inizio è proprio all'indomani dell'assemblea del 28 della sinistra Ds. Ma certo il Prc appare in un momento di grande difficoltà interna, per la non esaltante riuscita del progetto iniziale di stare contemporaneamente «dentro e fuori dalle istituzioni» - con il singolare riflesso di esternalizzare (contro Revelli, il manifesto, o quant'altri) i propri problemi. Forse anche a questo si deve la prudenza. Non a caso ieri è stata rinviata - anche per l'assenza del capogruppo alla camera Gennaro Migliore - ogni discussione sulle posizioni , come quella di Paolo Cacciari, contrarie alla guerra senza 'se e ma'.


Corriere della Sera 13.3.07

Partito democratico, in sala anche Ciarrapico


ROMA — C'è un teatro pieno, l'Eliseo di Roma, e in platea ci sono politici e imprenditori, registi e attori, gente di estrazione diversa, cattolici, società civile: ovunque, compagni e compagne arrivati per assistere al convegno «Partito democratico, una necessita e una speranza»; e in seconda fila, proprio dietro Carla Fracci, c'è Giuseppe Ciarrapico , un tempo potentissimo, mediatore dell'accordo Mondadori tra De Benedetti e Berlusconi, poi condannato per bancarotta, affidato ai servizi sociali nel 2000, lui che certo non è mai stato di sinistra, è lì, in seconda fila. Ma che ci fa qui? Sorride: «Sono l'editore di undici giornali, e lavoro nel Lazio e...come dire?, il Lazio sono loro...». Guarda al partito democratico, Ciarrapico? «Io rimango legato alle mie origini, ciò non toglie che conosco l'attualità, e poi vediamo, ci si confronta...» (...)

Corriere della Sera 12.3.07
Usa e Cina in simbiosi economica. La Chimerica ormai è una realtà
di Niall Ferguson


La teoria del caos suggerisce che basta una farfalla, semplicemente sbattendo le ali nella giungla dell'Amazzonia, a scatenare un uragano a Manhattan. Qualcosa di simile si può dire dei mercati finanziari, come abbiamo visto la settimana scorsa. La farfalla in questo caso è il nuovo mercato azionario di Shanghai. Quando gli investitori cinesi hanno sobbalzato martedì, ne è seguita una tempesta in quasi tutte le borse del mondo.
Man mano che il globo girava, martedì scorso, il valore delle aziende quotate in borsa si afflosciava in un mercato dopo l'altro. Le borse europee sono scese di quasi il 3 percento. A New York, lo Standard and Poor 500 ha perso circa 3,5 punti percentuali. I cosiddetti mercati emergenti, come Argentina, Brasile e Messico, sono stati colpiti ancor più gravemente. Non meno di 45 dei 53 principali mercati azionari del pianeta hanno chiuso il mese su valori inferiori a quelli iniziali.
Per il fine settimana, tuttavia, gli analisti più scettici hanno sollevato qualche dubbio sulla versione degli avvenimenti ispirata alla teoria del caos. Come ha fatto una borsa con una capitalizzazione di mercato pari ad appena il 5 percento di quella di New York ad aver causato un tale scompiglio planetario? Devono esserci altri motivi. Forse l'uso della parola «recessione», saltata fuori in un'intervista ad Alan Greenspan? Signori, vi prego. Alan Greenspan ha lasciato il suo incarico alla guida della Fed oltre un anno fa.
A dire il vero, non occorre la teoria del caos per spiegare questi fenomeni: basta l'economia. Quello che si è verificato sotto i nostri occhi la settimana scorsa è sintomo di uno spostamento più profondo, a livello strutturale, nell'equilibrio del potere economico mondiale. Chiedetevi perché l'anno appena trascorso è stato così eccezionale per i mercati finanziari; perché quasi ogni mercato ha chiuso l'anno con rialzi da record; perché gli utili raccolti da banche d'investimento, hedge fund e gruppi di private equity sembravano sconfinati?
Alcuni analisti dicono che si trattava di liquidità eccessiva, mentre altri parlano di carenza di attivo. Tuttavia, la risposta più convincente è l'impatto sismico provocato dall'ingresso della Cina nell'economia globale. È stato l'effetto dell'immensa manodopera cinese a basso costo sui livelli salariali globali a spingere i profitti delle aziende Usa da circa il 7 per cento del Pil nel 2001 al 12 per cento lo scorso anno. Allo stesso tempo, è stata la valanga di risparmi cinesi confluita nel mercato capitale globale a causare il ribasso dei tassi d'interesse immobiliari su scala mondiale, da circa il 5 per cento 7 anni fa al 2,8 per cento l'anno passato.
Riflettiamo: gli utili aziendali crescono a dismisura, mentre i tassi d'interesse reale restano molto al di sotto della loro media su lungo periodo. Chiunque abbia voglia di mettersi in tasca un bel po' di soldi sa benissimo che cosa fare. Prendere a prestito il più possibile e acquistare le aziende con i maggiori utili. Ovvio, molti economisti si preoccupano per gli squilibri mondiali collegati all'ascesa cinese. Da un lato, puntano il dito verso l'esplosione delle esportazioni cinesi che l'anno scorso hanno generato un'eccedenza nelle partite correnti di oltre 230 miliardi di dollari; dall'altro, segnalano un crescente deficit nella bilancia commerciale americana equivalente a oltre il 6 per cento del Pil. Ricordando lo scompiglio causato da squilibri molto più contenuti negli anni '70 e '80, queste «Cassandre» profetizzano il crollo del dollaro e altre catastrofi.
Eppure c'è un altro modo per esaminare questi presunti squilibri: non sono infatti più preoccupanti di quanto non lo siano, mettiamo, le vastissime disparità tra California e Arizona. Pensiamo agli Usa e alla Repubblica Popolare non come due paesi, ma come un'unica entità: la Chimerica. È un paese impressionante: appena il 13 per cento della superficie terrestre, ma un quarto della sua popolazione e un buon terzo della produzione economica mondiale. Per di più, la Chimerica ha toccato quasi il 60 per cento della crescita globale negli ultimi 5 anni. Il loro rapporto non è necessariamente sbilanciato, anzi, appare piuttosto simbiotico. I chimericani dell'est sono risparmiatori; quelli dell'ovest sono spendaccioni. I chimericani dell'est si occupano di produzione, quelli dell'ovest del terziario. I chimericani dell'est esportano, quelli dell'ovest importano. A est si accumulano riserve, a ovest si producono deficit, accompagnati da emissioni di obbligazioni in dollari di cui sono ghiotti i chimericani dell'est. Come in tutti i matrimoni riusciti, le differenze tra le due metà della Chimerica sono complementari.
Accumulando pacchetti azionari in dollari, la Banca della Cina non si limita solo a finanziare gli sperperi americani, ma rallenta sistematicamente l'apprezzamento della valuta cinese, mantenendo così le esportazioni cinesi a basso prezzo. Allo stesso tempo, la Banca della Cina sta creando il migliore fondo di stabilizzazione che si possa immaginare. Quando si ha un trilione di dollari sotto chiave, ci si sente immuni dalle crisi monetarie che hanno travagliato le altre economie asiatiche negli anni 1997-1998.
E questa è una delle ragioni per cui la volatilità del mercato azionario della scorsa settimana ha rappresentato una «correzione», non un crollo, e meno che mai l'inizio di un lungo periodo di crisi.
E che dire di tutti quei rischi politici che riempiono i notiziari, in particolare il pericolo di un allargamento del conflitto in Medio Oriente? Paradossalmente, più diventa pericoloso il Medio Oriente, più salda appare la Chimerica, perché il rischio geopolitico incoraggia gli investitori asiatici a mettere al riparo i loro soldi nel fortino degli Stati Uniti.
Non c'è dubbio che vedremo nuovi alti e bassi man mano che gli investitori cinesi imparano la lezione, ovvero che «la performance passata non è garanzia di risultati futuri». Ma i loro scombussolamenti periodici non causeranno nient'altro che qualche scossone di volatilità finanziaria globale, un acquazzone in confronto al solleone secolare che splende sulla simbiosi tra Cina e America. La Chimerica, nonostante il nome, non è una chimera.
© Niall Ferguson, 2007 Traduzione di Rita Baldassarre

lunedì 12 marzo 2007

Repubblica Roma 10.3.07
La nuova metropoli
Piano, Fuksas, Rogers & Co la Roma degli architetti star
di Paolo Boccacci e Simona Casalini


Grande cantiere della Capitale: ecco ventisette progetti d´autore
Per la nuova stazione Tiburtina una galleria trasparente si librerà sui binari
La Romanina di Salgado, Acilia di Gregotti e la Bufalotta di Gino Valle

Il giardino d´inverno tra case di lusso, in una scatola di vetro che si specchia nel laghetto dell´Eur, firmata da Renzo Piano. Un´altra teca di cristallo dentro la quale fluttua, come in una Nuvola, il nuovo Centro congressi, disegnato da Massimiliano Fuksas. Il bianco del travertino che protegge l´Ara Pacis e le vele della chiesa di Tor Tre Teste, dalla matita dell´americano Meier. Fino al grattacielo di Richard Rogers alla Magliana.
Le archistar del mondo sono di scena a Roma dove è tornata l´architettura contemporanea. Dalle tre testuggini dell´Auditorium di Piano lo skyline della città si arricchisce di segni. Ecco a via Reni, al Flaminio, il Maxxi di Zaha Hadid, a via Reggio Emilia un altro museo, il Macro di Odile Decq, poi le curve del nuovo Palazzetto dello Sport di Tor Vergata dello spagnolo Calatrava, fino a Gregotti, Sartogo, Salgado, Paolo Desideri, Valle.
Le architetture di Renzo Piano per l´Auditorium ormai sono storia benedetta dal successo del Parco della Musica, diventato un centro culturale di livello mondiale, a cui il tappeto rosso della Festa del Cinema ha dato un risalto internazionale.
È stato proprio l´Auditorium, inaugurato il 21 dicembre del 2002, a regalare a Roma la prima grande opera di architettura internazionale del XXI secolo a distanza di un sessantennio dai progetti per i palazzi bianchi dell´Eur.
Ma ora è una corsa di progetti di matite d´eccellenza. Solo all´Eur, oltre al nuovo complesso di Piano che sorgerà sulle ceneri delle torri dell´ex sede del ministero delle Finanze, arriva il disegno della Nuvola di Massimiliano Fuksas, un´altra architettura trasparente, che sarà il prossimo Centro Congressi, su un´area di circa tre ettari che si affaccia sulla Colombo: bando di gara di prossima pubblicazione per un costo di 120 milioni di euro circa. La «nuvola», in particolare, verrà realizzata in gore-tex. Sarà una struttura flessibile, che potrà ospitare eventi e avrà una capienza di 9.200 posti.
Invece il museo dell´Ara Pacis, su progetto di Richard Meier, è stato inaugurato il 21 aprile 2006. E successivamente, il 23 settembre, è stato aperto anche l´Auditorium. Costo dei lavori 16 milioni di euro. Ed ora l´opera, che ha suscitato anche polemiche, si staglia candida sul lungotevere, dove è in programma la realizzazione di un sottopasso di 250 metri con un parcheggio sotterraneo di 390 posti auto, che consentirà di disegnare davanti all´Ara Pacis una sorta di terrazza pedonale sul fiume.
Ma Meier lascia a Roma anche le alte vele della parrocchia di Tor Tre Teste, una delle chiese progettate durante il Giubileo, inaugurata poi nell´ottobre del 2003.
Avanti. C´è il Maxxi, il Museo di arte contemporanea del XXI secolo progettato da Zaha Hadid su un´area di via Reni, al Flaminio. Costa 125 milioni di euro e sarà caratterizzato da un complesso intreccio di spazi e volumi.
E proprio in asse con il Maxxi, il nuovo Ponte della Musica, sul Tevere, che tra poco andrà a gara, progettato dagli inglesi dello studio Buro Happold Engineers. Lungo 170 metri, sarà destinato a pedoni e ciclisti, ma anche al trasporto pubblico.
Rimaniamo ai ponti. Quello della Scienza, tra la sponda del fiume dalla parte del Gazometro e quella del Teatro India, è stato disegnato dagli italiani Andeoletti, Pintore e Tonucci.
Più lontano, nel campus di Tor Vergata, nascerà la Città dello Sport disegnata dallo spagnolo Santiago Calatrava, altro maestro dell´architettura internazionale. E per i Mondiali di Nuoto del 2009, si materializzerà un palazzo dello sport per 8 mila spettatori con due grandi coperture a forma di ventaglio, in un parco di 50 ettari.
Dall´altra parte della città, dopo l´Eur, sugli ettari di Castellaccio, la sfida è raccolta dall´italiano Franco Purini con la sua Torre, un grattacielo in vetro, acciaio e travertino alto 120 metri, che si affaccerà su una piazza più grande di piazza Navona. Non solo: di Purini è anche la nuova Casa dello studente a forma di nave che si costruirà sul lungotevere Papareschi.
Ancora grattacieli. Come quello, poco distante, che sorgerà alla Magliana, dove la nuova centralità, studiata nelle stanze dell´assessorato ai Progetti speciali di Claudio Minelli, è stata affidata a un progetto dell´americano Richard Rogers, l´architetto che firmò con Piano lo storico edificio del Beaubourg parigino. E qui è prevista una «torre» di 30 piani per uffici, disegnata da Rogers.
Anche per le stazioni è gara di architetti. La più importante sarà la Nuova Stazione Tiburtina, una piastra che si librerà sui binari, firmata dallo studio romano ABDR guidato da Paolo Desideri. Forte il «segno» urbano: una grande galleria aerea lunga 300 metri, trasparente, che sarà allo stesso tempo stazione e viale urbano di congiungimento tra due quartieri.
E sempre dello stesso studio ABDR è la nuova stazione del metrò B1 di Annibaliano, caratterizzata da una forma da astronave.
Ancora un grande progetto per un grande architetto nel cuore di Roma: quella «Città dei giovani» già in cantiere sugli ettari degli ex Mercati generali di Ostiense, affidata all´olandese Rem Koolhaas, una cittadella con mediateche e centri sportivi, che prenderà forma con grandi piazze interne e lunghi edifici bianchi.
Altra operazione di recupero, nell´ex Mattatoio di Testaccio, che ospiterà la Città dell´arte e che vede, per la parte destinata all´università Roma Tre i disegni di Francesco Cellini e Alessandro Anselmi. E quest´ultimo firma inoltre una parrocchia a Malafede e la nuova Stazione San Pietro, pensata come un «muro» svuotato nella parte centrale da una piazza coperta. E ancora di Anselmi è il Centro operativo del Parco tecnologico Tiburtino.
E un´altra grande struttura già nata è quella della Nuova Fiera di Roma, sulla Roma Fiumicino, con l´imponente prospetto con padiglioni a pettine disegnato da Tommaso Valle.
Veniamo alle «centralità», i nuovi quartieri della periferia. Ognuna di loro ha una firma illustre. Oltre a Rogers alla Magliana, ecco il portoghese Manuel Salgado alla Romanina, un´area di 92 ettari dove è previsto anche lo sviluppo dei nuovi Studios di Cinecittà, la localizzazione della Geode e del Planetario. Acilia-Madonnetta è invece firmata da Vittorio Gregotti, 136 ettari tra l´Eur e il mare, dove si realizzerà anche il campus dell´ateneo Roma Tre. Infine la Bufalotta di Gino Valle incastonata in un parco.
Poco distante, nell´ambito del nuovo piano «articolo 11» della Magliana, il bando per la progettazione tra l´altro di un albergo-torre di 70 metri è stato vinto dall´architetto Stefano Cordeschi con lo studio Abt. Terza è arrivata invece Paola Rossi, che si è fatta notare per il disegno di un bianco palazzo dall´insolita forma triangolare in via di San Fabiano, vicino via Gregorio VII, progettato con Massimo Fagioli.
Ma non mancano altre firme. C´è il centro sportivo di Dragona di Paolo Portoghesi, l´ampliamento della Galleria Nazionale d´Arte Moderna di valle Giulia di Diener e il nuovo museo della Shoah accanto villa Torlonia, di Luca Zevi e Giorgio Tamburini.

Repubblica 12.3.07
Bertinotti: serve una sinistra giovane E spera nella "Provvidenza rossa"
"Il mio essere comunista è questione di fede. Bisogna vedere se sono all'altezza"


ROMA - Coltiva ancora il mito della rivoluzione. E non ha motivo di nasconderlo. Anche perché «la rivoluzione non è la conquista del Palazzo d´inverno, non è la conquista del potere ma è la trasformazione del potere» dice il presidente della Camera Fausto Bertinotti intervenendo alla trasmissione "Che tempo che fa" di Fabio Fazio per parlare del suo ultimo libro (edito da Mondadori) "La città degli uomini: cinque riflessioni sul mondo che cambia".
C´è ancora spazio per la rivoluzione, nella prospettiva della terza carica dello Stato, ma anche fiducia in una forma tutta particolare di "provvidenza". Ne accenna quando gli viene chiesto del futuro delle forze politiche, del nascituro Partito democratico, ad esempio. E lui: «Guardo con attenzione a quanto accade sul Partito democratico, una cosa che non mi appartiene. Però penso ci sarebbe bisogno a sinistra di una forza rilevante, giovane, che ha una grande voglia di cambiare». Una forza che rischierebbe di essere minoritaria, gli fa notare Fazio. Il presidente della Camera: «Mai porre limiti alla provvidenza, tanto meno quella rossa». E pazienza se, come commenta il conduttore, «dal libro si evince che lei è comunista». «Mi piacerebbe - replica per nulla imbarazzato Bertinotti - perché contiene un elemento di fede e bisogna vedere se ne sono all´altezza». Chiacchierata dai toni confidenziali. Che ha toccato anche l´altra fede, quella calcistica del presidente della Camera: milanista e dunque ieri segnata dalla sconfitta nel derby con l´Inter. «Ma il mio essere milanista è una condizione dello spirito. Non è il Milan reale è il Milan del mito, di Liedolm, sono le maglie rossonere che non perdono mai».
Solo un cenno ai nodi d´attualità. La polemica sui Dico? Segno di quanto «la politica in crisi sia distante dalla vita della gente». E le maggioranze variabili? «C´è una maggioranza, faccia il suo mestiere. Se tutti i componenti della maggioranza pensano che sulla legge elettorale si può decidere anche altrimenti, facciano altrimenti. È un artificio che fa parte di un gergo politico, pur sapendo che non arriverà mai ad un persona normale quel linguaggio lì».

Repubblica 12.3.07
Mircea Eliade, il genio
Cento anni fa nasceva uno dei più grandi studiosi del fenomeno religioso
di Franco Volpi


Una figura controversa però, che fu vicino alla Guardia di Ferro filonazista
Erudito poliglotta del mito e del sacro, di yoga e sciamani, scrittore e saggista
Nacque in Romania Morì nell'86 a Chicago
A Bucarest frequentava Ionesco e Cioran
Cercò in tutti i modi di insabbiare il suo passato

Il 13 marzo di cent´anni fa nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Fin dall´infanzia i genitori spostano il compleanno al 9 marzo. Al suo nome di battesimo non corrispondeva infatti alcun patrono nel calendario ortodosso, sicché la famiglia decise di festeggiare il giorno 9, che non era consacrato a nessun santo particolare bensì ai Quaranta Martiri uccisi a Sebaste durante le persecuzioni di Luciano.
Studioso del mito e delle religioni, esperto di yoga e sciamanesimo, di occultismo ed esoterismo, romanziere fecondo, saggista dall´erudizione prodigiosa e a suo agio in otto lingue, Eliade è stato tra le intelligenze più acute e versatili del Novecento. Ma l´intelligenza è un dono di dèi invidiosi, un dono avvelenato: il confine che la separa dall´ottusità è mobile.
«Che uomo straordinario sono!», annota il trentaquattrenne intellettuale nel suo Jurnalul din Portugalia, l´inedito diario dei cinque anni, dal 1941 al 1945, trascorsi come consigliere culturale all´ambasciata rumena di Lisbona (in Italia sarà pubblicato da Bollati Boringhieri). Il giovane Eliade, all´epoca ancora sconosciuto al grande pubblico europeo, passa parte delle sue giornate a rileggere alcune sue pagine e si paragona ai grandi della letteratura: «La mia capacità di comprendere e percepire tutto ciò che appartiene alla sfera culturale è illimitata … Comunque sia, i miei orizzonti intellettuali sono più vasti di quelli di Goethe». Il 15 luglio 1943 annota con ineffabile disinvoltura: «Mi rendo conto che dopo Eminescu [il poeta nazionale rumeno], la nostra razza non ha mai più conosciuto una personalità tanto (...) potente e tanto dotata quanto la mia».
I diari integrali saranno desecretati solo nel 2018, ma tutto fa pensare che l´autocritica non appartenesse al pur vastissimo repertorio di Eliade. Né che egli sia mai guarito dalla megalomania di cui evidentemente andava affetto. A quattordici anni aveva già pubblicato il suo primo racconto: Come ho scoperto la pietra filosofale. In un successivo Romanzo dell´adolescente miope (1923) elabora la quasi umiliante scoperta della propria sessualità. Qualche anno dopo, in Gaudeamus (1928), entrano in scena la femminilità e l´amore, e per converso il concetto di «virilità», mutuato dall´adorato Papini, autore di Maschilità. Il suo io è superalimentato dall´ambizione e da una «religione della volontà» fatta di astinenza e disciplina (dormiva cinque ore per non sottrarre tempo allo studio).
Iscrittosi nel 1925 a Lettere e Filosofia dell´università di Bucarest, emerge come leader della giovane «Generazione», un gruppo di intellettuali anticonformisti che aspira a rinnovare la tradizione rumena. Tra gli altri «latini d´Oriente» ci sono Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi superbi Exercises d´admiration), Ionesco, Costantin Noica e Mihail Sebastian, un ebreo a lui molto caro.
Nel 1927 e 1928 visita l´Italia, avendo alle spalle una serie di letture rapaci che mettono le ali alla sua passione per nostra cultura (documentata esaurientemente da Roberto Scagno per Jaca Book). Su tutti Papini ed Evola, a proposito del quale scriverà un testo, Il fatto magico, andato perduto. Dopo la laurea su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, alla fine del 1928, parte alla volta dell´India per studiare la filosofia orientale con Surendranath Dasgupta. Vi rimane fino al dicembre del 1931, imparando il sanscrito e raccogliendo materiali, conoscenze ed esperienze che lo segnano profondamente. C´è anche una storia d´amore con Maitreyi, la figlia di Dasgupta, nella cui casa a Calcutta era andato ad abitare. La ragazza è la protagonista dell´omonimo romanzo, che Eliade pubblica in Romania nel 1933. Sarà un grande successo, che trasfigura Maitreyi in un simbolo dell´immaginario rumeno.
Incrinatisi i rapporti con Dasgupta, viaggia nell´Himalaya occidentale soggiornando nell´ashram di Shivananda e facendosi iniziare allo yoga. Nel contempo lavora alla tesi di dottorato, che discute a Bucarest nel ‘33 e pubblica a Parigi nel ‘36 con il titolo Yoga, saggio sulle origini della mistica indiana. Un libro che lo lancerà come autore di culto quando lo yoga si diffonderà in Occidente.
Dal 1933 al 1940 è di nuovo a Bucarest come assistente di Nae Ionescu, il leggendario maestro della giovane Generazione. Ionescu lo avvicina alla Guardia di Ferro, l´organizzazione di estrema destra capeggiata da Codreanu. Costui era convinto, tra l´altro, che gli ebrei cospirassero per fondare una nuova Palestina tra il Mal Baltico e il Mar Nero, e il suo vice, Ion Mota, aveva tradotto in rumeno I protocolli dei Savi di Sion. Eliade non era antisemita, ma all´epoca si lasciò intruppare. Il diario che l´amico ebreo Sebastian tenne fra il 1935 e il 1944, pubblicato nel 1996, è un´accorato lamento per il comportamento ambiguo di Eliade. Che è tutto preso dalle sue carte: pubblica vari saggi (tra cui Oceanografia e Il mito della reintegrazione), romanzi (tra cui Ritorno dal Paradiso, La luce che si spegne, i due volumi Huliganii), un´importante rivista di studi mitologici, Zalmoxis, che richiamerà l´attenzione di Carl Schmitt ed Ernst Jünger.
Alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, aiutato da Dumézil, insegna all´Ecole des Hautes Etudes. Il Trattato di storia delle religioni (1949) lo consacra come massimo studioso del fenomeno religioso su scala mondiale. Ostile al metodo positivistico e storicista, Eliade riprende la prospettiva aperta da Rudolf Otto e sviluppa uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, le «ierofanie». La sua non è una storia bensì una morfologia del sacro, le cui forme appaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», riattualizzando miti primordiali. Per lui il mito non è affatto arcaico né fuori gioco. Si è piuttosto ritirato negli interstizi della modernità, dove si tratta di scovarlo. Contro la presunta superiorità dell´uomo moderno sui «primitivi».
Nel 1950 è invitato da C.G. Jung al primo incontro di «Eranos» ad Ascona. Nel 1956 passa a insegnare alla Divinity School di Chicago, dove rimarrà fino alla morte (avvenuta il 22 aprile 1986 per un ictus). Dal 1960 al 1972 dirige con Ernst Jünger una straordinaria rivista di storia delle religioni, Antaios. Intanto seguita a pubblicare a ritmo martellante un´infinità di lavori, culminati nella grande Storia delle credenze e delle idee religiose (1976-1983). È anche candidato al Nobel per la letteratura.
Purtroppo, un dettaglio ne stoppa l´apoteosi, e gli schizza addosso una macchia infamante. Un dettaglio biografico, sul quale la sua intelligenza si incaglia e si rovescia in ottusità.
Nel 1972 lo storico Theodor Lavi (pseudonimo di Lowenstein), in base al diario ancora inedito di Sebastian e ad altre testimonianze, rivela su Toladot, una piccola rivista dell´emigrazione rumena in Israele, che Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro. Eliade fa finta di nulla, cerca di sbarazzarsi del suo passato come un serpente della sua pelle. Ma la notizia fa il giro del mondo, in Italia è ripresa da Furio Jesi. Un suo viaggio a Gerusalemme nella primavera del 1973 dev´essere annullato in extremis, tra lo sconcerto dell´amico Gershom Scholem. Nei suoi diari, silenzio.
Da quel momento Eliade adopera la sua intelligenza per dissimulare e insabbiare. Cerca coperture, si stringe ad amici insospettabili, come Paul Ricoeur e lo scrittore ebreo Saul Bellow. Quest´ultimo diventa suo intimo, ma nel romanzo Ravelstein inscena il dubbio che lo tormenta. Il protagonista, alias Allan Bloom, mette in guardia l´amico narratore da Radu Grielescu, alias Eliade: è stato «un seguace di Nae Ionescu che fondò la Guardia di Ferro», avverte, un jew-hater che denunciò «la sifilide ebraica che contagiava la raffinata civiltà balcanica», «ti strumentalizza» per «rifarsi una verginità». Il tarlo del sospetto non soffocherà la compassione, e ai funerali di Eliade Bellow prenderà la parola per dire il suo dolore e la sua compassione.
È difficile giudicare del caso Eliade. Come è difficile giudicare di Heidegger, Carl Schmitt o Céline. Certo, la loro opera non può più essere letta solo in chiave scientifica o letteraria, separandola dalla biografia. Eppure, la loro vita mediocre non basta a oscurare la grandezza dell´opera che ha generato. Ci chiediamo: perché intellettuali di tale statura si sono ostinati a tacere il loro passato? La verità è che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.
È probabilmente questa saggezza che ha indotto perfino il regista Francis Coppola a rendere omaggio a Eliade. Il suo nuovo film, Youth without Youth, prende spunto da un omonimo racconto di Eliade (Tinerete fara tinerete): un settantenne professore, colpito da un fulmine, diventa più giovane anziché più vecchio, attirando l´attenzione dei servizi segreti. Il professore deve scappare attraverso vari paesi fino in India… Anche questa singolare fortuna è un dettaglio in cui si nasconde il buon Dio, e ci avverte che l´opera di Eliade rimane un capitolo inevitabile della storia intellettuale del Novecento, un passaggio obbligato per capirne le convulsioni.

l'Unità 12.3.07
BERTINOTTI
«A sinistra una nuova forza più giovane»


Maggioranze variabili e necessità di una nuova forza della sinistra. Sono due dei temi che il Presidente della Camera, Bertinotti affronta parlando alla trasmissione di Fazio, «Che tempo che fa». «C'è una maggioranza, faccia il suo mestiere. Se tutti i componenti della maggioranza pensano che su un tema come per esempio la legge elettorale, si può decidere anche altrimenti, si decide altrimenti». Così Bertinotti spiega che cosa sono le maggioranze variabili. E definisce questo un «artificio» che fa parte di un «gergo politico» che usa per gli addetti ai lavori, pur sapendo che «non arriverà mai ad un persona normale quel linguaggio lì».
«Guardo con attenzione», dice poi Bertinotti, a quanto accade sul Partito democratico «una cosa che non mi appartiene; però penso ci sarebbe bisogno a sinistra di una forza rilevante giovane che ha una grande voglia di cambiare. E c'è bisogno di cambiare». All'osservazione del conduttore Fabio Fazio che questa forza potrebbe essere minoritaria, il presidente della Camera risponde: «Mai porre limiti alla provvidenza, tanto meno quella rossa...».
E a proposito di nuovi soggetti della sinistra, Diliberto ieri in giornata aveva rilanciato l’ipotesi di una ricomposizione con Rc: «I presupposti ci sono, perché per la prima volta nei giorni scorsi Bertinotti ha riaperto una prospettiva di unità. Noi siamo pronti da ieri, anzi sono cinque anni che parlo dell'unità a sinistra». Diliberto ha aggiunto che «da quando Rifondazione comunista è entrata nel centrosinistra e sostiene Prodi, è finita una differenza strategica tra i due partiti per cui si può fare qualcosa unsieme, magari un Dico...».

l'Unità 12.3.07
Ritalin: le due facce di uno psicofarmaco
di Cristiana Pulcinelli


TORNA ad essere venduto in Italia il farmaco contro la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ma con alcuni paletti contro il rischio di abuso. Alcuni sono favorevoli, altri no. Perché?

La settimana scorsa, l’Agenzia italiana del farmaco ha approvato l’immissione in commercio di due farmaci che sono indicati per il trattamento della Sindrome da deficit di attenzione e iperattività, o Adhd, come viene chiamata in inglese.
Le due sostanze sono il metilfenidato, conosciuto con il nome commerciale di Ritalin, e la atomoxedina, il cui nome commerciale è Strattera. I due farmaci non sono uguali, ma entrambi agiscono sui neurotrasmettitori, ossia le sostanze che permettono lo scambio di informazioni tra le cellule nervose. L’atomoxedina però è un preparato nuovo e la sua commercializzazione è stata approvata contemporaneamente da tutti gli stati europei con una procedura di mutuo riconoscimento, il che vuol dire che nessun paese si può opporre alla sua autorizzazione. Siamo in Europa.
Il metilfenidato, invece, è una conoscenza antica. In Italia era già stato venduto, ma la casa produttrice (che allora era la Bayer, mentre oggi è Novartis) decise di ritirarlo dal nostro mercato nell’89, un po’ perché si vendeva poco e un po’ perché era entrato in un mercato illecito. Il metilfenidato infatti è un’anfetamina e veniva usato dagli studenti per star su tutta la notte a preparare gli esami o a ballare in discoteca e dalle loro mamme per dimagrire. Tuttavia, negli altri paesi europei il farmaco ha continuato ad essere venduto.
Oggi questi farmaci entrano nel mercato italiano con un’indicazione precisa: il trattamento dell’Adhd. La notizia ha dato vita a reazioni opposte: da un lato, c’è chi l’ha accolta con favore e, anzi, la aspettava da tempo, dall’altro c'è chi invece ha criticato la velocità con cui si è giunti a questa decisione ed ha manifestato una forte preoccupazione per quello che potrà accadere. Tra i primi troviamo alcune associazioni di familiari di bambini affetti da Adhd, tra i secondi «Giù le mani dai bambini», un comitato che raggruppa cento associazioni di volontariato e promozione sociale e che si batte contro quello che considerano un uso eccessivo degli psicofarmaci nei bambini. La questione è oggetto anche di un’interrogazione parlamentare presentata da Ermina Emprin e Tiziana Valpiana di Rifondazione comunista che chiedono al ministro «le sue valutazioni in ordine alla classificazione dell’Adhd come patologia neuropsichiatria a esordio in età evolutiva, nonché in ordine all’opportunità di prevedere l’accesso a terapie farmacologiche psicostimolanti o noradrenergiche a carico del Servizio Sanitario Nazionale».
Cerchiamo di capire quali sono i punti di contrasto.
La sindrome. L’Adhd viene definito «un disordine dello sviluppo neuropsichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato da iperattività, impulsività, incapacità a concentrarsi che si manifesta generalmente prima dei 7 anni d’età». Alcuni però mettono in discussione la diagnosi di questo disturbo. I protocolli per diagnosticare la sindrome avrebbero maglie troppo larghe e quindi potrebbero cadere nella categoria anche bambini con altri problemi: «Spesso - dice ad esempio lo psichiatra Luigi Cancrini - l’Adhd viene diagnosticata anche quando c’è solo un problema di ansia». C’è anche chi mette in discussione l’esistenza stessa di una tale sindrome: «I bambini sono vivaci, a volte inquieti, non stanno attenti a scuola - afferma lo psicoanalista Giorgio Antonucci - ma l’aggressività nei bambini è un problema etico, sociale, ma non è certo un problema di carattere clinico». In sostanza, ci sarebbe un tentativo di medicalizzare problemi che non hanno niente di medico.
Tuttavia, sostiene Maurizio Bonati, responsabile del laboratorio materno infantile dell’Istituto Mario Negri di Milano, «da anni c'è un consenso sulla definizione della malattia. Anche se i criteri possono essere più o meno restrittivi: ad esempio, negli Stati Uniti i criteri diagnostici sono più ampi e quindi si contano più casi rispetto all’Europa». Mentre oltreoceano si stima che la sindrome colpisca tra il 7 e il 10% dei bambini in età scolare, in Italia i casi gravi sarebbero l'1%. Ma come si arriva a dire che il bambino è affetto da Adhd? La diagnosi è un fatto complesso: c’è la valutazione del neuropsichiatria, ma anche quella dei i genitori e degli insegnanti, perché il disturbo si manifesta soprattutto quando il bambino si trova in comunità. «È un disturbo relazionale grave - continua Bonati - che distrugge i rapporti, porta a disturbi del sonno e dell’alimentazione e incide su tutta la famiglia, provocandone l’isolamento».
La cura. La terapia di prima scelta non deve essere quella farmacologia, ma quella psicologico-relazionale: su questo sono tutti d’accordo. Tuttavia, nei casi in cui le altre strade hanno fallito rimane il farmaco. C’è però anche chi, come «Giù le mani dai bambini» sostiene che invece i protocolli di terapia sono troppo indirizzati all’uso del farmaco: una via più semplice e veloce alla soluzione del problema. Ed è possibile che verso questa strada spingano le pressioni dell’industria farmaceutica.
In Italia, dove il farmaco non era disponibile, alcuni centri specializzati nella cura di questa sindrome finora lo compravano all’estero. «Sembra strano dare a un bambino ipercinetico un eccitante come l’anfetamina - dice Bonati - ma si è visto che stimolando ulteriormente i mediatori già molto stimolati del bambino con Adhd si arriva a un punto in cui le scorte si esauriscono e i mediatori non riescono più a sfuggire al controllo. È come quando si corre troppo e alla fine si esauriscono le forze». Anche questi psicofarmaci hanno effetti collaterali che vanno dalla riduzione di peso alla comparsa di tic e, in rari casi, danni epatici o cardiaci. E una recente nota della Food and Drug Administration, l’ente che regola il commercio dei farmaci negli Stati Uniti, ha messo in allerta sul fatto che gli psicofarmaci, tra cui quelli usati per l’Adhd, possono causare sindromi depressivo maniacali.
L’abuso. Il rischio di abuso di questi psicofarmaci esiste: anche su questo sono tutti d'accordo. Nel mondo l’uso del Ritalin è triplicato nel giro di 10 anni: a guidare la lista dei paesi che utilizzano di più il farmaco sarebbero gli Stati Uniti. Ma anche la vicina Francia non scherza. L’Agenzia del farmaco ha pensato di ovviare al problema vincolando la prescrizione del metilfenidato e dell'atomoxedina a una diagnosi differenziale e a un piano terapeutico definiti da centri di neuropsichiatria infantile pubblici individuati dalle regioni. Questo vuol dire che il pediatra o lo psichiatra privato non possono prescrivere il farmaco, ma possono solo mandare il bambino di cui si sospetta la malattia in uno di questi centri specializzati. Inoltre, si prevede la creazione di un registro anonimo dei bambini in trattamento per seguire l’andamento della terapia. «Questa è una mossa intelligente - commenta Luigi Cancrini - così come il fatto che l’efficacia deve essere valutata a un mese dall’inizio della terapia. La stessa procedura dovrebbe essere usata per tutti gli psicofarmaci».

domenica 11 marzo 2007

Repubblica 11.3.07
La chiesa di Pascal che piace a noi laici
di Eugenio Scalfari

LA QUESTIONE è diventata talmente chiara che la stessa Chiesa italiana ha smesso di negarne l´esistenza: esiste uno scontro aperto tra la Conferenza episcopale (cioè il maggior organo pastorale e politico dei cattolici) e lo Stato italiano, la rappresentanza parlamentare, i vari partiti e associazioni democratiche.
Due concezioni si contrastano, due culture ciascuna delle quali deve moltissimo all´altra, si contrappongono e non soltanto sui modi per raggiungere un obiettivo comune, ma sulle finalità stesse che vengono proposte. Gli ultimi due papi scavalcando a piedi pari gran parte delle conclusioni e dello spirito del Vaticano II e di fatto cancellando i due pontificati precedenti, quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI, hanno fatto dell´accusa di liberalismo e di relativismo un tema centrale e l´hanno usato sistematicamente per sconfessare di fatto l´intero valore della modernità, dal Rinascimento alla libera ricerca, dalla scienza sperimentale allo stoicismo di Montaigne, al "Discorso sul metodo" di Cartesio, all´ "Etica" di Spinoza, all´Illuminismo, alla "Critica della ragion pura" di Kant e infine ai più recenti svolgimenti del pensiero filosofico derivanti da Schopenhauer e da Nietzsche e agli esiti scientifici di Freud, di Einstein e della fisica quantistica.
Tutto questo immenso deposito di pensiero e di sapere è impregnato di relativismo nelle sue diverse varianti metodiche conoscitive ed etiche e tutto, preso nel suo insieme, si è proposto di spodestare la metafisica dal vertice del pensiero filosofico dove si era insediata a partire da Platone. Se dunque Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur dotati di diversa portanza e di diverso linguaggio, hanno deciso di eleggere come nemico numero uno della cattolicità il relativismo e l´Illuminismo e lo hanno ripetuto in gran parte delle loro pubbliche allocuzioni e delle più solenni encicliche; e se Ratzinger appena insediato sulla cattedra petrina, nella sua prolusione all´università di Ratisbona ebbe nei confronti del fondamentalismo islamico accenti addirittura meno severi di quelli riservati al pensiero moderno dell´Occidente, non è purtroppo lontano dal vero parlare oggi d´uno scontro in atto tra cattolicesimo e modernità. La Chiesa lo nega tenacemente.
E come potrebbe ammetterlo, visto che la sua missione è quella di stare tra la gente, ascoltarne i dolori e le richieste, darle un progetto di sicurezza e di salvezza senza mai separarsi dai diversi e dai peccatori? La Chiesa tiene ben ferma questa sua missione perché essa costituisce il fondamento del messaggio evangelico e della predicazione del Cristo e dei suoi apostoli. Ma la contraddice tutte le volte in cui fa passare questa missione in seconda fila di fronte ad altre incombenze che ritiene più urgenti per l´affermazione del suo potere.
In realtà nella Chiesa cattolica ci sono due anime. Una è quella dell´Evangelo, dell´amore, della misericordia, della povertà; l´altra è quello del potere, della politica, dell´ "imperium". La prima spesso è perseguitata, sofferente e tuttavia portatrice di salvezza nel regno futuro delle Beatitudini; la seconda si sente forte e fonte unica e legittima d´investitura: investitura di verità e insieme di potere terreno.
Nella Chiesa cattolica questa divisione tra le due anime è stata particolarmente visibile per la struttura stessa della sua organizzazione centrata su un unico personaggio che la rappresenta interamente per il fatto stesso di rappresentare il Cristo incarnato e portare con ciò la presenza del Redentore. Nelle altre chiese cristiane questa unità di comando non esiste e neppure esiste nelle altre religioni monoteistiche: nell´Islam e nell´ebraismo. Probabilmente questa duplicità del cattolicesimo questa sua doppia anima riunificata in una persona è stato uno degli elementi che ne ha esaltato la dinamica e la capacità di comprendere e di aderire ai mutamenti della società. Per capire a fondo le persone, individui e comunità, bisogna avere l´attitudine e l´attrezzatura psicologica per commerciare anche con gli interessi oltre che con i principi le convinzioni e i dogmi. La Chiesa cattolica è stata la sola ad avere questa vocazione e i frutti positivi ne sono stati copiosi per lei e per le popolazioni che ne hanno seguito il messaggio e gli incitamenti.
Ma non è certo un caso se in anni più recenti la sua influenza si è ristretta nel mondo occidentale ed è diventata assai più ampia in Africa e in America Latina. Questo movimento di sgonfiamento e rigonfiamento ha proceduto di pari passo con la secolarizzazione della società moderna l´affermarsi del concetto di laicità nelle nazioni dell´Europa e del nord America. La vocazione missionaria nel senso più ampio del termine della Chiesa cattolica ha finalmente sfondato in quei paesi ancora immersi nella povertà e in mitologie tribali che la Chiesa ha avuto la capacità di trasferire nel messaggio cristiano come del resto già aveva fatto nel momento della evangelizzazione dei popoli germanici alla caduta dell´Impero Romano.
* * * *
Il nemico è insomma il relativismo, la rivendicazione dell´autonomia di ciascuno, la ricerca sperimentale della verità che non esclude neppure l´inesistenza di un´unica verità assoluta. E di conseguenza l´abbandono della trascendenza, antico rifugio contro l´insicurezza del vivere e ultima istanza del giudizio finale tra buoni e cattivi, tra bene e male.
Il pensiero laico è stato lungamente silente su questa diabolizzazione cui la Chiesa l´ha sottoposto. Parlo del pensiero laico e non di quello anticlericale che ne rappresenta una caricatura.
Il pensiero laico non ha mai escluso (e come potrebbe?) il mistero, l´Increato, la necessità di dare un senso al nostro vivere. Si è sempre posto con estrema serietà i problemi della vita e della morte. Non ha mai confuso il complesso delle sue idee e delle sue convinzioni con la secolarizzazione consumista che è fenomeno diverso e per molti aspetti deteriore. Per di più il pensiero laico, anzi il mondo laico, non ha una struttura di potere, non ha associazioni proprie che lo rappresentino, non parla "ex cathedra". Predica libertà, democrazia, tolleranza. Perciò non ha alcuna responsabilità nello scontro che si è determinato con la Chiesa se non per il fatto di opporsi alle pretese ecclesiastiche di voler imporre ad una comunità dove convivono pacificamente cattolici, laici e fedeli di altre religioni, istituti che vietino l´esercizio e il riconoscimento dei diritti. Diritti di minoranze, certo, e proprio per questo ancor più sacri e degni di riconoscimento e tutela.
Ieri si è svolta a Roma una manifestazione in favore del progetto di legge sulle convivenze di fatto, sia eterosessuali sia omosessuali sia affettive tra amici e parenti lontani. Come tutte le proposte, anche queste possono essere migliorate ma non certo abolite. Questa sarebbe infatti una prevaricazione contro una minoranza del tutto inaccettabile per ogni democratico responsabile. Proprio per questo il documento dei sessanta parlamentari cattolici della Margherita in difesa della propria autonomia rispetto alle ingiunzioni dei Vescovi sul voto per le convivenze di fatto ha rappresentato un evento positivo e – senza esagerazione – storico. Non accadeva da mezzo secolo che il laicato cattolico politicamente impegnato prendesse una posizione di questo genere. L´episodio di De Gasperi, quando bocciò la lista clerico-fascista nelle elezioni comunali di Roma, proposta da Sturzo e caldeggiata da papa Pacelli, fu un atto di grande importanza che aveva però come autore un presidente del Consiglio capo e fondatore della Dc. Nel caso dei "sessanta" si è trattato di deputati e senatori per lo più sconosciuti e tuttavia fieri dell´autonomia del loro rango costituzionale e del loro impegno politico.
Gli avversari dei patti sulle convivenze di fatto cercano di dimostrare che quei diritti sono in gran parte già riconosciuti dal codice civile e che quindi una legge in proposito è del tutto inutile. Se la si vuole, la si vuole per dare riconoscimento pubblico a quei diritti e a quelle coppie. L´obiezione è in parte inesistente e in parte sbagliata. Inesistente perché la quasi totalità dei diritti in questione deve essere affermata "erga omnes" cioè nei confronti dei terzi, senza di che quel diritto è di fatto inesistente. Sbagliata perché il riconoscimento pubblico di una situazione è un atto fondamentale che attiene alla dignità delle persone ed alla loro riconoscibilità.
* * * *
Qualche giorno fa si è svolto nel salotto televisivo di Giuliano Ferrara un dibattito di spessore su questo tema. L´ho seguito con interesse; ho apprezzato la prudenza e anche il garbo con il quale ha sostenuto le ragioni della Chiesa il cardinale Barragan, le efficaci stimolazioni del conduttore il quale, per antica vocazione, vorrebbe che i suoi invitati preferiti facessero a pezzi gli avversari e che il suo manicheismo fosse fatto proprio da tutti i partecipanti non concependo lui, nella vita pubblica, altra modalità per regolare i conti tra opposte convinzioni, interessi, poteri. Ma ho soprattutto apprezzato l´intervento finale di Rosy Bindi, coautrice con il ministro Barbara Pollastrini del disegno di legge sulle convivenze di fatto ormai da tempo presentato in Parlamento.
Sul tema specifico si era già detto tutto e del resto esiste un testo legislativo che non abbisogna di ulteriori spiegazioni. Di che cosa dunque doveva parlare la Bindi a chiusura di quel dibattito? Ha parlato di cristianesimo. Ha detto tre cose che mi hanno molto colpito e che voglio qui riportare con la massima chiarezza così come mi sono arrivate.
Vorrei che la religione si occupasse soprattutto di Dio e di Cristo.
Vorrei una Chiesa pastorale che non solo vivesse tra la gente ma tra i diversi, tra quelli che non la pensano come noi, che noi consideriamo peccatori, ma che sono pur sempre uomini e donne come noi. In loro dobbiamo percepire esaltare aiutare la scintilla divina che anch´essi possiedono al pari di noi. Che cos´altro il Cristo ci esorta a fare? Ma è questo che stiamo facendo?
Tanti uccelli si posano la notte sui rami degli alberi e ne ripartono al mattino. A volte ritornano, altre volte non più. Ma l´albero che li ha ospitati ha comunque dato e ricevuto da ciascuno di essi qualche cosa, qualche insegnamento e comunque la presenza di una vita.
Non so se questa conclusione d´un dibattito che si annunciava ed è stato polemico sia piaciuta al suo turgido conduttore. A me, laico non credente, è piaciuta molto. A me piace la Chiesa di Francesco e anche quella di Agostino, quella di Bernardo, quella di Duns Scoto. Mi piace quella di Pascal e quella di Maritain. Mi piace quella del cardinale Martini. Mentirei se dicessi che mi piace quella di Camillo Ruini. Politicamente sarebbe forse stato un papa migliore di Ratzinger. Ma la Chiesa ha bisogno di un politico sulla sedia di Pietro?
Se è questo di cui ha bisogno, allora è perduta.

l'Unità 11.3.07
L’embrione e i piccoli inquisitori
di Carlo Flamigni


Gli studenti milanesi di Comunione e Liberazione non possono essere troppo biasimati per non essere stati capaci di gestire l’improvvisa popolarità che li ha colpiti e per non saper distinguere tra dialettica e maleducazione. Il cartellone esposto davanti alla Cattolica (la cui fotografia è stata pubblicata da l’Unità del 6 marzo) intitolato «Auschwitz o Università Statale?» ne è solo un esempio. In realtà, chi esce con le ossa rotte da questo increscioso episodio è l’Università che ancora una volta si dimostra incapace di educare; e chi ne esce ancor peggio è colui che a quei ragazzi ha fatto da padre spirituale e che ha saputo solo trasformarli in piccoli censori morali. Almeno, nei tempi passati, il mestiere di Inquisitore era cosa da adulti, non lo si affidava alle mani innocenti dei ragazzini. Provo comunque a ignorare, come mera espressione di buona volontà, l’irrefrenabile voglia di goliardia dei bravi ragazzi milanesi, non tengo conto dei loro eccessi e rispondo a quella che, almeno all’inizio, sembrava una proposta di dialogo. Chiedendo però di accettare almeno una regola: che il dialogo sia laico e che ognuno di noi inizi sempre le sue riflessioni dicendo «secondo me»: al primo non possumus, alla prima presentazione di valori sui quali non è possibile negoziare, chiudo il computer e torno alle mie faccende, ho molte cose arretrate.
Prima questione: quando si vuole essere ascoltati dalla istituzioni - in questo caso dal Comitato Nazionale per la Bioetica - non si scrivono bugie. Nella lettera al Cnb gli studenti Cl hanno scritto che il professor Emilio Dolcini, nel convegno organizzato dalla professoressa Cattaneo, «ha illustrato come in Italia sia consentito lavorare su cellule staminali embrionali importate dall’estero per un buco legislativo della legge 40/2004». In realtà il professor Dolcini ha detto che nella legislazione penale italiana non esiste alcun divieto di ricerca sulla cellule staminali embrionali; poi, rispondendo a chi aveva prospettato l’esistenza di un divieto implicito ha ricordato che nel diritto penale vige il principio della legalità dei reati e delle pene con la conseguenza che eventuali lacune nella legge possono essere colmate solo dal legislatore, non dall’interprete.
Questa storia del divieto implicito merita un ulteriore commento. Una parlamentare cattolica si era espressa molto duramente contro quei ricercatori che avessero osato ignorare lo spirito della legge e aveva dichiarato come fosse fin troppo evidente che ricerca sulla cellule staminali di origine embrionale non se ne poteva fare, in Italia, neppure importando le colture dall’estero. Sconfessata, invece di chiedere scusa, come avrebbe dovuto, aveva minacciato di presentare una legge che colmasse questa terribile lacuna. Ho cercato a lungo di capire le ragioni di questo accanimento e sono stato finalmente illuminato durante una discussione con un noto bioeticista cattolico che mi ha spiegato che ogni cellula staminale embrionale è in realtà un embrione (e quindi una persona potenziale) e che perciò la non liceità di questi esperimenti è sin troppo evidente. Sono certo che gli studenti milanesi sono (anche) biologi raffinati e non cadono in queste trappole, ma per chi non avesse le idee chiare espongo i motivi per i quali si deve ritenere errata la convinzione del bioeticista cattolico (e di molte altre persone, illustri parlamentari compresi): le cellule embrionali sono totipotenti fino alla formazione della blastocisti, quando si separa il trofoblasto dalla massa cellulare interna. A questo punto, parte di questa totipotenza viene perduta e le cellule della massa cellulare interna, quelle che vengono prelevate per gli studi sulle cellule staminali, non sono più in grado di fare placenta e annessi fetali: queste cellule, dunque, anche con la migliore buona volontà, non sono “uno di noi”.
Passo ora a esaminare la dichiarazione più forte contenuta nella lettera alla professoressa Cattaneo: «Non abbiamo bisogno di attendere ulteriori progressi della ricerca scientifica per stabilire che se un embrione non viene soppresso si mostrerà come quell’individuo umano che è fin dall’inizio». Accidenti, siamo proprio in piena “dittatura dell’embrione”: ai ragazzi è apparso in sogno monsignor Sgreccia e ogni mistero è stato loro svelato! Vediamo invece come stanno le cose, almeno secondo me.
Secondo me sull’inizio della vita individuale nessuno può avere certezze, a meno che non si tratti di certezze di fede, che hanno certamente un grande peso, ma solo un peso personale. Il Magistero Cattolico ha sostenuto per molto tempo (anche con le parole e gli scritti dell’attuale Pontefice) che l’inizio della vita personale era post-zigotico, e lo zigote è la cellula che si forma dopo l’anfimissi, cioè dopo la scomparsa dei due pronuclei nell’ootide (chi non crede a questa definizione deve sapere che l’ha scritta Bompiani, bioeticista cattolico di fede provata): oggi l’inizio della vita personale è stato anticipato all’attivazione dell’oocita, cioè di 24 ore, e speriamo che ci si fermi lì, o gli scenari diventeranno veramente misteriosi. Ma quello che gli studenti milanesi debbono sapere, per molcire un po’ le loro fastidiose certezze, è che bioeticisti e filosofi cattolici di queste teorie ne hanno partorite molte altre e che tutte queste ipotesi sono ancora lì sul tappeto, nessuno le ha condannate, nessuno le ha ritirate. Per la bibliografia rimando al mio sito: www.carloflamigni.it. Elenco dunque soltanto le ipotesi più rilevanti, tutte, ripeto, elaborate all’interno della cultura cattolica, tutte vive e vitali: 1) l’ipotesi post- zigotica; quella blastocistica, che attende la scomparsa della totipotenza; 2) quella dell’attivazione del genoma embrionale; 3) quella della scomparsa della capacità di formare gemelli omozigoti; 4) quella dell’inizio dell’impianto; 5) quella della comparsa della linea embrionaria primitiva; 6) quella della comparsa delle prime cellule nervose; 7) la teoria ilomorfica. L’elenco dei filosofi cattolici che le sostengono è lungo, anche per questo rinvio al mio sito.
Quanto ho detto vale per il mondo cattolico, non è neppur necessario ricordare che altre religioni propongono ipotesi ancora diverse. Che facciamo, neghiamo loro serietà e coerenza? Ammettiamo che la verità stia tutta dalla parte degli studenti cattolici e che gli altri, che so, siano tutti fratelli che sbagliano ( o fanatici pericolosi)?
Credo che questi ragazzi abbiano perso una buona occasione, che per fortuna certamente si ripresenterà in avvenire: se fossero intervenuti nel dibattito avrebbero potuto aprire un dialogo con Demetrio Neri, che non è solo un grande filosofo, è anche un grande maestro e sa dialogare e convincere. Avendo scelto un gesto goliardico, si sono invece esposti a un grande rischio: diventare un simbolo politicamente molto utile per tutti i cattivi maestri, i mestatori di fango. Cattiva scelta, brutto destino.
Ultima cosa: è necessario un po’ più di rispetto per la scienza e per i ricercatori. Di scienza ci sarà ancora modo di parlare in avvenire; per quanto riguarda i ricercatori, leggo ogni tanto allusioni e riferimenti misteriosi a non so quali interessi che indurrebbero alcuni scienziati a privilegiare la ricerca sulle staminali embrionali: non è solo una menzogna, è maldicenza della più bell’acqua. Se ci pensate, se considerate i finanziamenti dello Stato e i privilegi che vengono offerti in cambio del piatto di lenticchie della propria coscienza, dovete ammettere che, semmai, è vero il contrario.

l'Unità 11.3.07
Libero cilicio in libero Stato
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

Ce ne aveva offerto un vivido racconto Dan Brown, nel suo «Codice da Vinci» e una rappresentazione, ancor più cruda, il regista Ron Howard, nella sua trasposizione cinematografica. Dal dizionario si apprende che si tratta di un «panno ruvido e grossolano di pelo di capra, usato dai Romani»; e che, dalle sue origini classiche in avanti, è divenuto una «cintura molto ruvida di setole annodate, portata sulla pelle nuda per penitenza». Il concetto di espiazione della colpa è tanto connaturato a questo oggetto che l’uso figurato del nome che lo designa, nella nostra lingua, può stare per “tortura”, “tormento fisico”, “supplizio morale”. Gli anacoreti cristiani erano soliti «indossarlo sulla nuda pelle per mortificare la carne» (Wikipedia). È evidente di cosa stiamo parlando. La senatrice Paola Binetti, esponente di punta di un cattolicesimo assai “intenso” e sempre più attivo all’interno del centrosinistra, ha offerto al sistema dell’informazione la sua testimonianza di credente che fa ricorso a pratiche di mortificazione del proprio corpo. E, così, ha fatto irruzione, nello spazio pubblico, il cilicio. Sia chiaro: non intendiamo certo avallare quegli argomenti, così diffusi, che stabiliscono un’equiparazione tra l’arcaicità di talune pratiche e il loro (presunto) carattere primitivo e oscurantista. E, d’altra parte, sono assai diffuse - nelle nostre società - forme di manipolazione del corpo (attraverso interventi dietetici, igienici, estetici, chirurgici, sanitari, agonistici...) altrettanto, se non più, afflittivi.
Insomma, è pacifico che per noi Paola Binetti può fare, del suo corpo, ciò che meglio crede: libero cilicio in libero stato. E sarebbe interessante, come esercizio intellettuale, cercare di comprendere il senso della partecipazione corporea del cattolico alla sofferenza di Cristo; tornare a riflettere - da laici - sul valore mistico e ascetico della mortificazione; interpretare l’accettazione del dolore e l’esercizio della sopportazione alla luce delle trasformazioni che interessano il rapporto tra corpo e cultura e tra corpo e società. Perché il dato materiale, sensuale e corporeo della nostra esistenza si va facendo sempre più centrale in molte delle questioni del nostro tempo. Non a caso la bioetica rappresenta l’orizzonte sul quale si addensano le maggiori ansie e attorno al quale ruotano le più accese passioni che percorrono la società; e le relazioni tra stato, legge, dimensione collettiva e pubblica - da un lato - e corpo, persona, individuo - dall’altro - è in via di costante ridefinizione. E costituisce il terreno di confronto (e scontro) per molte delle forze oggi in campo.
Insomma, siamo con Paola Binetti. E per quale motivo dovrebbero apparirci socialmente accettabili le diete più estenuanti e i patimenti della chirurgia estetica e non le pratiche (fisicamente forse meno mortificanti) di taluni credenti?
Tuttavia, ci sono un paio di domande che vorremmo porre alla senatrice Paola Binetti: non crede che in molti, moltissimi casi (come in quello di Piergiorgio Welby) la volontà di fuggire il dolore abbia la stessa dignità morale della sua volontà di accettarlo? Non crede che se è lecito per un credente sottoporre il proprio corpo a sofferenze “gratuite”, debba essere lecito, per chiunque altro, rifiutare altre - parimenti gratuite - sofferenze? Ecco, allora, che la critica ai rigori di certe pratiche religiose solleva (giuste e sacrosante) repliche: «Chi siete voi per giudicare? Se in quest’epoca ognuno fa del proprio corpo ciò che vuole, perché tale diritto deve essere negato proprio a noi credenti?». Tuttavia, una contraddizione appare stridente: i credenti si appellano a quel principio di sovranità sul proprio corpo per rivendicare un loro diritto e una loro libertà; si appellano a un principio che, fatta salva questa circostanza, combattono ogni giorno in materia di libertà di cura, di maternità consapevole, di politica sulle droghe, di riconoscimento del valore delle scelte sessuali e relazionali della persona.
Beh, per quanto ci riguarda non avranno mai di che preoccuparsi: il loro cilicio non ci interessa e la pensiamo un po’ come Vittorio Messori: «vivremmo tutti meglio se ciascuno si facesse i cilici suoi». Pure, diamo a quei credenti un modesto consiglio: attenti, se la battaglia (che per alcuni di voi appare proprio una “guerra”) che avete avviato contro molte libertà personali conducesse davvero a un controllo della sfera pubblica sulle libertà individuali, un giorno qualcuno, per una strana eterogenesi dei fini, potrebbe contestarvi l’uso di qualsivoglia ruvida corda di peli di capra, cinta sulla coscia o dove più vi pare. E, allora, dovrete augurarvi che qualche radicale senza Dio, qualche liberale illuminato, qualche sincero democratico corra in vostro aiuto, a difendere la vostra libertà di credenti.

l'Unità 11.3.07
Ma fare il Pd non vuol dire uscire tutti dai Ds?
di Fulvia Bandoli

Sarebbe tempo di dire finalmente le cose come stanno invece di menare scandalo per alcune affermazioni fatte da esponenti della sinistra ds nei giorni scorsi, che non annunciavano un bel nulla ma chiamavano semplicemente le cose con il loro nome.
Se, come dice Fassino, il Pd deve nascere al più presto è chiaro che i Ds si sciolgono al più presto. Magari non ad aprile, ma qualche mese dopo sicuramente. E che la fase costituente sarà brevissima. Questo è dunque l’ultimo congresso dei Ds. Con il voto alla mozione di Fassino si autorizza il gruppo dirigente a fare un altro partito e a sciogliere questo partito che ci vede insieme.
Ciò che accadrà da qui a pochi mesi, quindi, sarà che “usciremo tutti dai Ds” semplicemente perchè questo partito non esisterà più e ne nascerà un altro, nuovo di zecca.
Esagero? Si può forse dire che i Ds si trasferiranno così come sono nel Pd, con le loro sezioni, la loro organizzazione? Non si può dire perché così non sarà. Perchè se così fosse il Pd sarebbe una Federazione e invece si è detto in tutti i modi che non lo è, che sarà un partito nuovo e non la somma di due o più partiti, e che l’adesione sarà individuale. La verità sul processo in corso è la prima condizione per una scelta consapevole da parte degli iscritti, e un gruppo dirigente deve prendersi per primo, e in tutte le sue componenti, la responsabilità dei percorsi che propone. Non può esistere a lungo il partito democratico secondo Fassino, quello secondo Rutelli, quello secondo D’Alema. Ad un certo punto tutte le “letture personali” dovranno lasciare il posto ad una proposta unitaria. E non è forse legittimo che ognuno di noi prima di entrare in un partito che presenta tante incognite, tante incertezze e alcune inquietanti certezze ci voglia pensare su?
Proviamo ad analizzare più a fondo alcuni di questi punti: è assai improbabile che il Partito Democratico entri a far parte del Pse, io credo ai dirigenti della Margherita che escludono a priori questa ipotesi e penso che alla fine di questo braccio di ferro a cedere saranno i Ds. Non è un caso che il «manifesto dei saggi» abbia già sancito che si “collabora” con il socialismo europeo e basta. E allora, se questa è la strada, chi si separa dal socialismo europeo? Quelli che la pensano come noi oppure quelli che dicono che il Pd va bene comunque anche se sarà fuori dal socialismo europeo?
Ho fatto questo esempio per dire che parlare di scissioni e di separazioni non aiuta, avvelena il clima, e applica categorie improprie e datate a scelte che invece sono inedite per tutti.
La storia della sinistra ds parla per noi, abbiamo sempre seguito il percorso di questo partito e le sue molte trasformazioni (alcune condivise e altre meno), non ci siamo mai sognati di andare da qualche altra parte. Ma la proposta del Pd non è l’ennesima trasformazione del più grande partito della sinistra: presentare così il partito democratico significa sminuirne la portata da parte degli stessi proponenti. Io non condivido in radice questa proposta (io sostengo la proposta contenuta nella mozione Mussi, che nell’Ulivo ci sia una sinistra autonoma organizzata attorno ai Ds e un centro democratico attorno alla Margherita, alleati, ma non fusi insieme in un partito unico) ma se si vuole far camminare almeno un po’ l’idea del partito democratico bisognerebbe evidenziarne le parti innovative e non quelle conservative. Questa volta non si trasforma la sinistra italiana, questa volta si prende una strada diversa, io direi una strada traversa.
E infatti il documento scritto dei saggi nominati da Fassino, Prodi e Rutelli, per ora l’unico documento unitario Ds-Margherita, dice chiaramente quanto sia diversa la strada che si prende. Anche se nei congressi Fassino mette ai voti la sua mozione, in realtà il documento dei Saggi supera la mozione Fassino e scioglie diversi nodi che la mozione del segretario non scioglie.
Cito solo i principali: il partito democratico sarà fuori dal Pse perchè le tradizionali famiglie europee sono oramai incapaci di capire i mutamenti e vanno rinnovate, il Pd costituisce questo rinnovamento. E dunque il nuovo partito collaborerà con il Pse e con altri gruppi ma non ne farà parte, sarà autonomo. Posizione chiarissima, che bene riassume ciò che Rutelli viene da sempre dicendo: «l’approdo del Pd è il gruppo liberaldemocratico diretto da Bayrou». Il concetto di laicità viene definito in rapporto ai credenti, e solo essi sembrano portatori di valori etici e morali. Dei non credenti nessuna traccia e si saluta così il valore della laicità come terreno comune di credenti e non credenti definito così bene nel carteggio di tanti anni fa tra Enrico Berlinguer e Monsignor Bettazzi. Il quel Manifesto non si incontra mai la parola giustizia sociale, principio fondante del socialismo, e neppure i lavoratori e le lavoratrici vengono menzionati, così come si legge con chiarezza una certa equidistanza tra i sindacati e la confindustria. Si trova spazio per dedicare diverse righe al cinema e una sola parola per una delle più grandi contraddizioni dello sviluppo. Sull’energia e sulla rivoluzione che servirebbe fare urgentemente in questo settore cè solo uno stanco e rituale richiamo al sempre più inapplicato protocollo di Kyoto.
Nessun esponente della maggioranza ha preso le distanze da questo «manifesto dei saggi» e dunque devo dedurre che lo si condivide, che si condividono quelle omissioni, quei pesanti giudizi sul socialismo europeo, quella visione inquietante della laicità.
Noi speriamo che l’esito del congresso sia tale da consentire un ripensamento alla maggioranza, noi lavoriamo e ci battiamo prima di tutto per questo obiettivo. Ma se nessun ripensamento vi fosse, se si decidesse di procedere nonostante tutti i nodi non sciolti, allora sì, ci troveremmo davanti a una scelta.
Ma prima bisogna concludere i congressi di sezione, nei quali mettere in discussione le varie proposte che si confrontano. Non si tratta di scegliere tra una ragione e un torto: si tratta di scegliere la proposta che convince di più. Noi siamo interessati a portare i nostri argomenti in tutte le sezioni e non solo e non tanto a contare i voti alla fine. Ci interessa il dibattito, poco o tanto che sia, ci interessa spiegare la nostra proposta e soprattutto ascoltare i dubbi che ci sembrano tantissimi.
So bene che, abituati come siamo ad apprendere le decisioni importanti sul destino del nostro partito dai giornali o a «Porta a Porta», il nostro percorso sembrerà ad alcuni curioso e anche un po’ lento. Ma la democrazia ha i suoi tempi per svolgersi e la partecipazione pure. Noi decideremo in modo democratico e collegiale, consulteremo chi voterà in tutte le città la nostra Mozione e insieme cercheremo di scegliere tra le ipotesi che abbiamo davanti. Fare la sinistra nel Pd oppure vedere cosa accade anche in altre parti della coalizione.
E voglio dire due cose su queste opzioni: la prima è difficile, perché la sinistra del pd c’è già e saranno gli ex ds; la seconda strada è altrettanto difficile perché nella sinistra della coalizione si muovono diverse cose ma nessuna di esse sembra all’altezza del sommovimento che si crea con la scomparsa del più grande partito della sinistra italiana.
È del resto ovvio che un terremoto quale sarà la costruzione di una partito nuovo che scioglie e unifica Ds e Margherita non lascerà intatto il territorio circostante... pensarlo significa pensarsi soli al centro del mondo e questo è il solito difetto autoreferenziale della politica italiana. I grandi mutamenti, giusti o sbagliati che siano, determinano altri cambiamenti, e quando si crea un vuoto in politica in genere qualcuno prova a riempirlo.

il manifesto 11.3.07
Dacci oggi il nostro cilicio quotidiano
di Alessandro Robecchi

So per certo che il geometra del terzo piano ama farsi frustare le piante dei piedi dalla moglie fasciata di latex. Sono piuttosto liberale in queste faccende, e abbastanza uomo di mondo (interista-marxista) per sapere che tra piacere e dolore il confine è sottile. Figurarsi dunque se mi scandalizzo per il cilicio dell'onorevole Binetti. E anzi mi schiero fieramente, pur da laico, con il cattolicissimo Vittorio Messori: «Ognuno si faccia i cilici suoi». Meglio non si poteva dire. E però, siccome la faccenda del cilicio l'onorevole Binetti è andata a dirla in tivù, capirete che la faccenda diventa pubblica, rivendicata, e aggiunge una coordinata sulle nostre mappe. E forse per la sua esternazione sul cilicio, la Binetti andrebbe ringraziata: ora non ci sembreranno più tanto strani e selvaggi (come con gran gusto ce li mostrano i tg) gli sciiti che si flagellano grondando sangue durante l'Ashura. Un contributo alla comprensione culturale delle religioni.
Intervenendo nell'inevitabile dibattito (perché niente ci viene risparmiato), Antonio Socci sposta furbescamente l'asse della discussione, sacrificio, penitenza eccetera eccetera: se tuo figlio avesse bisogno, non andresti a donare il sangue? Uno spostamento dialettico bizzarro che già aveva tentato la Binetti in tivù: «il cilicio ci costringe a riflettere sulle fatiche del vivere, è il sacrificio della mamma che si sveglia di notte perché il bimbo piange». Interessante trucchetto semantico: si era partiti dal cilicio, privata pratica mistico-sado-maso, e si arriva al donare sangue e allo svegliarsi di notte per il bambino. Tutte cose civili e normalissime che fanno anche i laici, gli atei, i miscredenti di varia specie, e persino i gay, almeno quelli con figli piccoli. In questa accezione allargata del termine, insomma, il cilicio è sofferenza e costrizione, esattamente come un lavoro a tempo indeterminato, un contratto precario, l'instabilità economica o l'assenza di diritti certi della coppia. E tutti i cilici che portiamo tutti i giorni, con intorno chi, come la Binetti, ci impedisce di toglierceli.

il manifesto 11.3.07
Giustiniano. Le scelte impolitiche di un imperatore
Nel suo ponderoso saggio su Giustiniano, lo storico francese Georges Tate individua nelle persecuzioni sistematiche degli eretici e nelle campagne militari le cause della fragilità del suo regno
di Marina Montesano

Nel 532 a Costantinopoli scoppiò una rivolta che avrebbe poi preso nome dal grido di battaglia degli insorti, Nika! («Vinci!»). L'insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori delle due fazioni nelle gare circensi, i «verdi» favoriti dalla plebe e gli «azzurri» considerati la squadra degli aristocratici. In realtà sembra però che il tumulto fosse fomentato dall'interno della corte e da una parte dell'aristocrazia. In quell'occasione, Giustiniano fu sul punto di fuggire dalla capitale: secondo la tradizione, a trattenerlo e a salvargli il trono fu la presenza di spirito della moglie Teodora, una donna dalle oscure origini - il malevolo storico di corte, Procopio di Cesarea, sostiene che era stata «mima» (attrice di basso livello: un eufemismo per dire che aveva fatto la prostituta) - che dopo una profonda crisi religiosa aveva attratto Giustiniano il quale l'aveva sposata nel 525, due anni prima di ascendere al trono. La rivolta venne repressa nel sangue: è uno degli episodi più cupi della vita di un grande imperatore, che, pur chiudendo per certi versi la parabola del mondo antico, lasciò al contempo un'eredità fondante per il mondo moderno.
Gli ha dedicato ora un ponderoso studio lo storico francese Georges Tate (Giustiniano. Il tentativo di rifondazione dell'impero, Salerno Editrice, pp. 1024, euro 78), che prende avvio dagli assetti istituzionali e dal quadro delle riforme - religiose, politiche, militari - dei predecessori per introdurre il personaggio centrale. Rispetto ai grandi quadri amministrativi e politici, il Giustiniano legislatore passa qui forse in secondo piano. La codifica e la riforma del diritto, ossia il suo lascito principale alla storia europea, occupano infatti solo un capitolo: non molto, in un'opera che si aggira sulle mille pagine (e che avrebbe avuto bisogno di un editing più attento nella versione italiana, punteggiata da numerosi errori di traduzione). Probabilmente, come scrive Tate, «nessuno contesta l'importanza dell'opera di Giustiniano, ma generalmente si esprimono serie riserve sulla pertinenza della sue scelte politiche», soprattutto in merito alle scelte in campo religioso e alle campagne militari.
A ragione Tate sottolinea che non in tutti i campi Giustiniano fu un innovatore, ma seguì una strada già tracciata nei due secoli precedenti. In particolare, proprio la persecuzione sistematica degli eretici e degli oppositori - capitolo in cui si inscrive la rivolta della Nika - costituiva l'esito di un processo evolutivo avviato con Diocleziano. Ma era una strada necessaria? Tate non indugia in tentazioni ucroniche, ma dalle pagine finali sembra emergere la consapevolezza che un'inversione di tendenza in favore di una maggiore tolleranza delle dottrine teologiche contrapposte nella Chiesa d'Oriente avrebbe contribuito sulla lunga durata a rafforzare l'impero e avrebbe evitato - si può aggiungere con il proverbiale senno di poi - che gli eretici perseguitati accogliessero come liberatori gli arabi un secolo più tardi.
Una questione altrettanto dibattuta dalla storiografia, che Tate affronta con spregiudicatezza, riguarda le campagne militari che miravano a riprendere il Mediterraneo occidentale, troppo spesso liquidate come un fallimento, dal momento che l'avanzata araba avrebbe conquistato di lì a poco l'Africa settentrionale (che Giustiniano aveva sottratto ai vandali) e la penisola iberica (contesa ai visigoti), mentre dal 568 in Italia avrebbero fatto irruzione i longobardi. A ragione lo storico sottolinea che non si trattava di un miraggio: a seguito delle riforme dello stesso Giustiniano e di quanti lo avevano preceduto, Bisanzio era un impero florido e potente; l'impresa era dunque alla sua portata, e non se ne possono tacere i frutti più duraturi, quali lo stretto legame che d'allora in poi si sarebbe creato con l'Italia, un legame che si sarebbe interrotto solo nell'XI secolo con l'avvento dei normanni. Naturalmente, resta aperta la discussione sulla sua scelta di voler guardare a un Occidente impoverito e soggetto al predominio germanico; cosa sarebbe accaduto se l'imperatore si fosse volto al più ricco Oriente, all'Asia più che all'Europa? La risposta ovviamente non è facile, ma la domanda è legittima.

il Mattino 10.3.07
Bertinotti: la sinistra riscopra il dialogo

Berlino. La sinistra deve «tornare a discutere insieme dopo tanti anni», «riscoprire il dialogo » per affrontare le sfide di una società caratterizzata «da un vuoto della politica» e dal «precariato, che è la cifra del nuovo capitalismo». È l’analisi del presidente della Camera Fausto Bertinotti che, al Bundestag di Berlino, fa una riflessione su quella che dovrebbe essere la nuova Costituzione europea dopo il no al Trattato di Francia e Olanda. E invita la sinistra a un «grande dibattito» su ciò che la unisce, anche se - sottolinea - quello della unificazione della sinistra italiana «non è nè il tema nè il problema». Il presidente di Montecitorio interviene alla conferenza internazionale di Die Linke su «La sinistra ed il futuro dell’Europa». Accanto a lui siedono, in una sala circolare a vetri dell'avveniristica sede del Parlamento tedesco lungo la Sprea, il leader dell’estrema sinistra in Germania, Oskar Lafontaine, e la presidente del Partito Comunista francese Marie-George Buffet, impegnata nella corsa per l’Eliseo. È lì che Bertinottio lancia un monito: «La presenza al governo di forze della sinistra alternativa è una opportunità, ma se le si attribuisce un carattere salvifico si compie un errore strategico; perchè quella presenza non è e non può essere risolutiva». La prospettiva, insomma, è quella di un cantiere senza preclusioni, perchè «di sinistra sono tutti quelli che si dicono così e non ho un magistero che mi consente di dire ”tu sì, tu no”».

Apcom 11.3.07
SINISTRE/ DILIBERTO:FINALMENTE BERTINOTTI APRE, SIAMO PRONTISSIMI
A Congresso proporrò Confederazione. Con Pd si liberano energie

Roma, 10 mar. (Apcom) - Se Bertinotti lancia il cantiere delle sinistre, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto risponde: "Finalmente, noi è da cinque anni che lo proponiamo. Siamo davvero felici che Bertinotti apra a questo tema. Noi ci siamo, siamo prontissimi".

Conversando con i giornalisti a margine del Comitato centrale che dovrà fissare la data del congresso, Diliberto spiega: "Giudico un errore fare il partito democratico, ma stiamo parlando di nostri alleati, quindi faccio tanti auguri. Ma è ovvio che questo aprirà un problema a sinistra".

Il segretario del Pdci osserva che "noi non siamo anti Partito democratico, ci possiamo solo limitare a prenderne atto", ma "se i Ds non ci saranno più la sinistra rischia di scomparire. L'Italia rischia di essere l'unico Paese europeo senza un partito socialista".

In vista del congresso, che si terrà a Rimini dal 27 al 29 aprile ("non a caso - sottolinea - una settimana dopo quelli di Ds e Dl"), Diliberto rilancia il tema della confederazione delle sinistre. "Questa - spiega - è la nostra proposta ma discuteremo modi e forme con gli altri". Il segretario ragiona anche sulle percentuali di consenso che si potrebbero avere. "Già ora - sottolinea - saremmo al 12%. Ma la nascita del Pd può liberare altre energie".

aprileonline.info 10.3.07
Unità a sinistra, forse stavolta è la volta buona


Accade a Sinistra Al Capranichetta di Roma convegno di Uniti a sinistra, Ars e Rossoverdi. Gli eventi corrono e da seminario diventa un'assemblea per un nuovo soggetto politico. Folena: "Un movimento per unire la sinistra". Salvi: "Ci interessa la proposta di Bertinotti". Sì anche da Pdci e Verdi

Contenuto o contenitore? Discutere delle idee di una nuova sinistra - addirittura, ambiziosamente, di un nuovo socialismo - oppure iniziare a costruire un partito (o qualcosa di simile) da Bertinotti a Mussi, passando per Diliberto? Tutte e due le cose, con piu' di un paletto.
E' questo il filo rosso che al teatro Capranichetta di Roma ha percorso il seminario di Uniti a sinistra, Ars e associazione Rossoverde. Anzi, più che un seminario, spiega Folena all'inizio, una assemblea per dare vita ad un movimento per un nuovo soggetto della sinistra.
La "massa critica" richiamata da Bertinotti trova qui una lettura duplice: da un lato la metafora tratta dalla fisica, ovvero la necessità di mettere insieme il maggior numero di atomi possibile della sinistra per raggiungere quelle dimensioni minime per far sentire il proprio peso, la propria gravità; dall'altro la necessità di essere e continuare ad essere 'critici' anche con se stessi e il proprio passato, oltre che con il capitalismo.

"Il lavoro e la trasformazione sociale tornano a fondamento della sinistra" dice Folena davanti ad esponenti di un po' tutte le anime della sinistra, dal correntonista Famiano Crucianelli al verde Paolo Cento al direttore di Aprile Massimo Serafini cui è affidata anche una delle relazioni iniziali, fino a Giampaolo Patta che qui rappresenta un po' anche il Pdci. E il seminario-assemblea chiama in causa, esplicitamente, la battaglia del correntone ds. Perché lì, in vista di decisioni forse "inevitabili" come le ha definite Alfiero Grandi, più di qualcosa già si muove. Insomma, ancora per qualche settimana ognuno fa la sua strada - chi contro il Pd, chi per la Sinistra europea, chi né per l'una né per l'altra - ma poi serve mettersi a camminare insieme. E allora "oggi diamo vita ad un movimento per l'unità della sinistra" propone Folena e "impegnamoci nelle idee e progetti per un nuovo socialismo". Ognuno con la sua storia e la sua identita' "dentro un campo comune aperto, ma che come tutti i campi ha i suoi confini" perché, altrimenti, nessuna massa critica può stare insieme se le spinte centrifughe diventano prevalenti.

A raccogliere l'invito di Folena ci pensa Salvi che esplicitamente ammette di sperare ancora che il Pd non si faccia, ma di ragionare già per il dopo. "La proposta che abbiamo avanzato al congresso dei Ds - spiega il presidente della commissione giustizia del Senato - cioè quella di un soggetto della sinistra socialista oggi si rivolge a tutto campo". E, dicendosi interessato alla proposta bertinottiana di fare "massa critica", Salvi si sbilancia raccontando che ormai una decisione sulla separazione della sinistra della Quercia è questione assodata, visto anche l'andamento del congresso che consegna più o meno le stesse percentuali della precedente assise diossina. "Quello che prima era l'intendimento individuale mio e di Mussi. non fare la sinistra del Pd - scandisce Salvi - ora è divenuto collettivo".
Patta - e un po' si sapeva - anche lui si dice pronto ad una nuova forza a sinistra. Come indipendente di area Pdci è più libero di muoversi e sondare, ma il disgelo tra il Prc e i fratelli separati di Diliberto è cosa nota. La sorpresa, però, arriva da Paolo Cento, perché sinora i verdi avevano rivendicato sempre la propria autonomia. Al sottosegretario ambientalista non va di fare un partito comunista, ma la proposta di Bertinotti, ammette, è altra cosa: "possiamo intraprendere un percorso".

Le conclusioni sono affidate ad Aldo Tortorella. Il cronista quasi scorge l'occhio inumidito dell'anziano leader della sinistra del Pci quando dice che "molti di noi hanno speso gran parte della loro vita per l'obiettivo dell'unità a sinistra". Forse stavolta è la volta buona.
L'ordine del giorno finale accoglie la proposta della relazione di Folena. Uniti a sinistra, Ars e Rossoverde e quanti vorranno aderire sono da oggi un movimento per l'unità della sinistra in un soggetto politico "unitario e molteplice". In programma già tre seminari su ambiente, lavoro e pace per dare un tessuto programmatico al nuovo soggetto, con un occhio sul manifesto di un "nuovo socialismo" e l'altro puntato sugli esiti del congresso della Quercia.

il Messaggero 11.3.07
Venne 90 anni fa, prese uno studio in Via Margutta,
lavorò per i “Ballets russes”, creò due capolavori. Una mostra e un libro lo ricordano
Picasso a Roma con genio
di Massimo Di Forti


VENNE, vide, vinse. Accadde a Roma nel 1917. No, Pablo Picasso non vi giunse da turista e lo mise in chiaro subito, in una lettera datata febbraio e indirizzata all’amico Apollinaire: «Caro Guillaume, stamane ti scrivo mentre sono a letto. Non andrò al Foro. Alloggio in via del Babuino all’Hotel de Russie e ho uno studio in via Margutta dove lavoro». Vi rimase dal 17 febbraio al 2 maggio, giusto il tempo di creare due capolavori (L’Italiana, oggi nella Collezione Buhrle di Zurigo, e Arlecchino e donna con collana, conservato al Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi, Centre Georges Pompidou), di realizzare le scenografie dello spettacolo Parade per i Ballets russes di Sergej Diaghilev e di innamorarsi della ballerina Olga Kokhlova, che sposò poi il 12 luglio a Parigi.
Erano tempi in cui gli Dei delle Arti scendevano sulla Terra per vivere, lavorare, respirare insieme e lasciare impronte indelebili di geniale creatività, Picasso e Jean Cocteau, Diaghilev e Igor Stravinskij, Eric Satie e Léonide Massine, Gino Severini e Giacomo Balla... «Abitiamo nel Paradiso terrestre», faceva sapere il 20 febbraio Cocteau alla madre. «L’albergo ha un giardino che domina Roma. Raccogliamo le arance dalla finestra...».
Che straordinario amarcord, questo evento in tre tempi organizzato da Valentina Moncada per ricordare il novantesimo anniversario del primo soggiorno romano del grande artista spagnolo: la mostra Picasso a Via Margutta (dal 28 febbraio al 30 marzo negli spazi della Galleria Moncada, in via Margutta 54), il libro Picasso a Roma. 1917. Mon atelier de Via Margutta 53B edito da Electa (con documenti inediti raccolti a cura di Francesca Foti) e una targa commemorativa che verrà affissa al numero civico 53B in occasione dell’inaugurazione della mostra.
L’ispirazione è venuta a Valentina Moncada durante una notte insonne, in cui le era tornata alla memoria la storia fitta di leggende e di gloria degli “Studj di Pittura e Scultura” affacciati sui magnifici cortili ai piedi del Pincio. Il suo trisnonno, il marchese Francesco Patrizi, nel 1858 aveva deciso di affittarli agli artisti di passaggio a Roma rafforzando una tradizione avviata già da secoli. E se il marchese ebbe ospiti come Verdi e Wagner, Puccini e Ravel, Liszt e Debussy, il figlio Giuseppe non fu da meno: fu lui ad aprire, a partire dal 1905, quegli spazi ai primi storici incontri dei Futuristi e a sistemare Pablo Picasso nell’atelier del 53B.
«Mi precipitai a Parigi nell’Archivio del Museo Picasso», racconta la bionda gallerista, figlia del fotografo di moda Johnny Moncada e della modella americana Joan Whelan, protagonisti di quell’età d’oro romana che abbraccia gli anni 50 e 60, «alla ricerca di documenti e lì trovai il diario italiano dell’artista spagnolo, dove in prima pagina si legge Mon Atelier de Via Margutta 53/b. Il carnet era ricco di aneddoti, schizzi, notizie sulla vita artistica e mondana di Picasso, Diaghilev, Cocteau, Stravinskij in quei giorni romani che pubblichiamo ed esponiamo per la prima volta in quest’occasione».
Certo, Picasso e Cocteau (che doveva scrivere il libretto di Parade) lavorarono alacremente per lo spettacolo che la compagnia di Diaghilev doveva dare il 9 aprile al Teatro Costanzi (oggi l’Opera). Ma ebbero modo anche di incontrarsi più volte con Gino Severini, Fortunato Depero e altri futuristi al Caffè Greco o, più amabilmente, con leggendarie bellezze come la marchesa Luisa Casati al Grand Hotel... Il dispotico Diaghilev, onnipotente deus ex machina dei Ballets russes (che Cocteau definisce, senza giri di frase, “l’orco” in una lettera alla madre), si era invece insediato in un lussuoso appartamento nel palazzo del marchese Theodoli, all’angolo tra via del Parlamento e il Corso, di fronte al Caffè Aragno, dove ospitò Igor Stravinskij che diresse a Roma due concerti, l’Oiseau de feu il 9 aprile e Feu d’artifices il 12.
Nello studio di via Margutta, Picasso realizzò non solo le scenografie di Parade ma “soprattutto” due capolavori come L’Italiana e Arlecchino e donna con collana. Il primo, coloratissimo e parzialmente ispirato a una composizione di Severini, grazie alla giustapposizione di piani geometrici tipica del Cubismo, rappresenta una figura femminile con indosso un tradizionale costume laziale, il grambiule a fasce variopinte, la tovaglia bianca e una cesta di fiori al braccio. Il secondo fu descritto dallo stesso Severini come «una grande tela fatta in uno spirito molto lineare, forme a due dimensioni, di una limpidezza estrema, trattate quasi in nero e bianco quadro di una poesia pittorica giunta al massimo della trasposizione e dell’astrazione».
Vi rimase soltanto due mesi e mezzo. Gli bastarono per lasciare un altro segno indimenticabile nella storia dell’arte del Secolo Ventesimo.

SCRIVEVA Jean Cocteau alla madre (24 febbraio): «Picasso lavora in un magnifico studio dietro Villa Medici, gli portano uova e formaggio romano, e rifiuta di uscire quando è preso dalla pittura». No, Picasso non rimase certo “recluso” nello studio e godette dei piaceri della vita romana in mille modi, visitando con l’amico Jean i ristoranti alla moda come “Basilica Ulpia” al Foro Traiano e “La Villetta” in via della Nocetta, presso Villa Pamphilj. Ma la sua vena creativa fu all’altezza della fama che già in quegli anni lo accompagnava costantemente.
L’idea di tributargli una targa in via Margutta per quell’eccezionale soggiorno è stata quanto mai felice e aggiunge un nuovo mitico tassello alla storia di una strada ascesa alla notorietà mondiale soprattutto dopo le indimenticabili avventure della coppia Audrey Hepburn & Gregory Peck in Vacanze romane. Eppure - incredibile ma vero, assicurano alla Galleria Moncada - non sono state poche le difficoltà da superare per ottenere un risultato che spesso si ottiene per molto meno.
L’importante, comunque, è che l’obiettivo sia stato raggiunto. Perché è giusto che via Margutta sia conosciuta per quel che ha rappresentato per generazioni di artisti e Maestri: una fonte continua di ispirazione e una straordinaria Fabbrica di Bellezza.
M.D.F.