Heidegger è un bravo compagno
di Wlodek Goldkorn
Si definisce "cristocomunista", perché è una nozione più precisa del "cattocomunista" e propone di rifondare il comunismo, a partire da una filosofia nichilista: Heidegger e Nietzsche contro Marx. 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era' (il titolo allude a 'Ecce homo' di Nietzsche) di Gianni Vattimo è un libro diviso in due parti. La prima: sono interventi politici militanti del filosofo convertitosi al comunismo durante la guerra in Iraq. E su questa parte si sono soffermati finora i recensori, qualche volta stupiti dall'attrazione che su Vattimo esercitano personaggi come Castro e Chávez.
La seconda parte, inedita e affascinante, ha invece come ambizione porre basi teoriche a un 'comunismo libertario'. Si parte da Adorno e dalla sua considerazione su come le avanguardie artistiche del Novecento avessero avuto come compito mettere in questione l'arte stessa. Dice Vattimo: il compito di una politica di sinistra è porre domande sulla politica stessa. Per farlo, ci vuole coraggio. E Vattimo lo ha. Per esempio, rivendica il pensiero apocalittico contro un illuminismo che a suo dire, interpreta l'esistente in chiave moderata alleandosi così con i neo-conservatori. Occorre invece, recuperare una visione irrazionalistica della storia.
All'interno di questa visione, non c'è spazio per un Marx, che ha "fede in verità obiettiva della storia e in esistenza di una essenza umana". Largo invece, a tutto ciò che contraddice la 'natura' e a Heidegger che propone di "pensare il non ancora pensato", e a Walter Benjamin che vorrebbe recuperare la memoria dei perdenti, e il "passato ancora aperto". Tutto questo è un gioco intellettuale molto raffinato, molto stimolante, e un po' pericoloso, specie quando ci si dichiara nemici di ogni 'mistica' che presuppone l'esistenza di una verità. Alla fine Vattimo svela tutte le sue carte, e dice: "Con il motto non ci sono fatti, solo interpretazioni (...) fonderemo il comunismo libertario".
Gianni Vattimo, 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era', Fazi, pp. 127 E 12,50
Corriere della Sera 18.3.07
Il regista racconta il copione centrato sulla figura di Ida Dalser. La scelta del titolo: «Vincere»
Bellocchio, il Duce e il film sulla «moglie ribelle»
intervista di Aldo Cazzullo
ROMA - «Il film si intitola Vincere. Come la parola d’ordine del protagonista, il Duce. E come la volontà invincibile della protagonista, Ida Dalser, l’amante e forse moglie di Mussolini, che gli diede il primo figlio maschio, Benito Albino, destinato come lei a morire in manicomio». Dopo Buongiorno notte, Marco Bellocchio torna a fare un film sulla storia politica del ’900. Stavolta affronta la figura del Duce. Respingendone entrambe le immagini stereotipate: quella postresistenziale dell’alieno che grazie a una cricca di criminali governa un paese a lui estraneo; e quella in via di costruzione di un padre di famiglia che con bonomia e sagacia salva l’Italia dal comunismo fino all’errore dell’alleanza con Hitler.
«Il Duce è un "essere per la morte", un calcolatore cinico disposto a passare sui cadaveri. Il Mussolini del mio film ricorda l’Alessandro dei Pugni in tasca, che si "realizza" uccidendo madre e fratello. Ciò non toglie che il Mussolini storico ebbe un consenso straordinario - dice Bellocchio -. E la gran parte dell’Italia si specchiò in lui. Maestri, impiegati, piccolo borghesi si riconobbero nel Duce e lo adorarono; e lui fu di volta in volta uno di loro, maestro, poeta, soldato, contadino, padre affettuoso, marito, amante».
«Quando volle fare di sé un Cesare o un Alessandro Magno cominciò la sua fine. Ma fino ad allora la grande maggioranza degli italiani sono stati fascisti; per questo, quando il fascismo cadde, lasciò dietro di sé un popolo sfiduciato, qualunquista, rassegnato a non credere in nulla. Un po’ com’è accaduto ai postcomunisti dopo il crollo del marxismo. Ovviamente ci furono eroi che al fascismo si opposero. E anche la donna del mio film ebbe il coraggio di tenergli testa. Al Duce, che l’aveva amata e abbandonata, Ida Dalser non si piegò mai. Fu ribelle sino alla fine. Quasi un’Antigone, un’eroina da tragedia greca».
«Il film comincia con un episodio riportato da Paolo Monelli nel suo Mussolini piccoloborghese, ripreso dall’autobiografia della Balabanof. Siamo nel 1909, a Trento. Nella realtà storica, l’episodio accadde in Svizzera, ma il significato è lo stesso: l’immaginazione deve riconoscersi anche in un film storico un margine di infedeltà. La Dalser si affaccia in una sala dove si combatte uno di quei duelli verbali all’epoca molto diffusi tra un prete e un socialista ateo. C’è il giovane Mussolini che da istrione qual è chiede agli spettatori un orologio da taschino, lo poggia sul tavolo e proclama: "Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste"».
Più avanti c’è anche il duello, stavolta non metaforico, con Claudio Treves, «con il Duce che pur ferito si ferma a verificare che gli arbitri scrivano fedelmente il verbale del combattimento e del suo comportamento coraggioso, per poi pubblicarlo sul Popolo d’Italia».
«Il giovane Mussolini esce dal film quando parte per la guerra. Ida ha venduto il suo salone di bellezza per aiutarlo a fondare Il Popolo d’Italia, è rimasta incinta, forse Benito l’ha pure sposata. Il giorno prima di partire per il fronte, lui la porta al cinema. Al cinegiornale scorrono le immagini della guerra, il pianista suona l’inno di Garibaldi, i nazionalisti cominciano a cantarlo - "Si scopron le tombe, si levano i morti..." -, Benito si unisce al coro. I socialisti reagiscono, scoppia una rissa che mi piace pensare con i colori della "Rissa in galleria" di Boccioni, e Ida si lancia in sua difesa nonostante sia al settimo mese di gravidanza: è una donna fatta così, di una dedizione assoluta al suo eroe».
Lo rivedrà solo al cinema, in un altro cinegiornale, nel 1922, mentre sale al Quirinale in camicia nera. «Ho in mente una continua contaminazione della finzione con il repertorio, che ho già sperimentato nel film su Moro». Là, i funerali del presidente della Dc senza sonoro, con la musica dei Pink Floyd.
Nella seconda parte di Vincere, Mussolini sarà quello dei cinegiornali Luce, e Ida andrà continuamente al cinema per averne notizie: nella vita non lo vedrà più.
«Ma per tutta la vita continuerà a rivendicare la propria storia di essere stata la moglie e di essere la madre del primogenito del Duce. Che ormai è avviato verso la conciliazione con la Chiesa e di quell’antico amore si deve disfare. Madre e figlio devono sparire. E spariranno i documenti del matrimonio e della nascita del figlio, a cui verrà cambiato il nome più volte. Non dovranno più esistere. Così nel 1926 Ida viene arrestata e rinchiusa nel manicomio di Pergine, vicino a Trento; poi in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia».
Una vicenda terribile di elettrochoc, malaroterapia - «si iniettava la malaria con il pensiero che le febbri alte avrebbero provocato una reazione salutare per la mente del malato» -, fughe, arresti, ricerche del figlio che nel frattempo il regime ha mandato in Cina, per poi rinchiudere anche lui in manicomio. E un’ultima fuga di Ida, riuscita, vittoriosa, a dimostrazione di questa sua invincibilità, nonostante fosse rinchiusa e controllata giorno e notte. Ida muore nel 1937, Benito Albino nel 1942. Il film si chiude con la Liberazione e la campagna elettorale per il referendum sulla monarchia: l’ultima scena è ancora ambientata in un cinema, dove si rifugiano i manifestanti di un corteo repubblicano dispersi dalla polizia, l’Italia della Resistenza che ha sconfitto il fascismo; ma non voglio rivelare il finale».
Il progetto è finanziato da Raicinema, e le riprese dovrebbero cominciare alla fine dell’anno, per essere nella sale nel 2008. Sull’attrice che farà Ida, e che dovrà essere «di una bravura mostruosa», è ancora buio.
Sarà un film politico, spiega Bellocchio. E uno degli spunti è la crisi del partito socialista, «che comincia proprio nel 1915, con la svolta interventista di Mussolini. Questa è una riflessione maturata anche da conversazioni con mio fratello Piergiorgio, che mi ha mostrato un’intervista in cui Treves prevedeva, dopo il delitto Matteotti, che passata l’estate e finite le vacanze il fascismo sarebbe caduto da sé. I socialisti sottovalutano il Duce, non comprendono che non ha soltanto l’appoggio degli industriali, degli agrari, della piccola borghesia, della Chiesa, ma che tanta gioventù si riconosce in lui, vede in lui l’uomo nuovo della politica, capace di spazzare via la vecchia classe liberale e anche socialista. Poi, dopo la Liberazione, il Psi subisce l’egemonia comunista. Sotto questo profilo, il disegno di Craxi di mettere in discussione il primato del Pci e restituire al proprio partito peso elettorale e libertà d’azione, per quanto perseguito con metodi inaccettabili, era politicamente lungimirante».
«Oggi mi manca, e credo manchi all’Italia, un partito socialista veramente laico - dice Bellocchio -. Non capisco il cupio dissolvi della sinistra, l’ansia di annullamento di sé che spinge i Ds a unirsi ai cattolici ruiniani come la Binetti e lo stesso Rutelli nel partito democratico, che si dovrebbe collocare fuori dall’Internazionale socialista. Stimo Veltroni, è un amico, ma non ne comprendo il progetto. Viene in mente un detto antico, "chi di spada ferisce di spada perisce": come se, dopo aver consegnato il Psi ai giudici, la sinistra erede del Pci scegliesse il suicidio (come espiazione?). E neanche mi convince il "casinismo" di Pannella, che certo non ha giovato alla Rosa nel pugno. Quanto ai neo o veterocomunisti, quelli che con un aggettivo geniale Guareschi definiva trinariciuti, non mi sembra che abbiano le idee molto chiare, o che ne abbiano di nuove. Bertinotti mi pare imbavagliato nel suo ruolo istituzionale, e il suo partito molto sulla difensiva. Sono un moralista (lo sono ancora troppo, e questo è un limite), ma non credo che il moralismo e l’antiberlusconismo possano esaurire la politica: non mi fanno ridere le vignette di Vauro. Così come non mi hanno mai interessato i girotondi, che hanno lasciato poco o nulla dietro di sé. Sono letteralmente scomparsi, e sembravano la grande invenzione della politica. E’ rimasto invece il loro leader carismatico, Nanni Moretti: geniale inventore, e amministratore, della propria immagine».
l’Unità 18.3.07
Tabù, segreti e bugie
L’Italia e il sesso
di Roberto Cotroneo
C’è davvero da domandarsi in che paese viviamo, se nel paese del fotografo Corona e di personaggi come Lele Mora, o se invece siamo nel paese del Cardinal Ruini. Se siamo dentro storie di corruzioni e trasgressioni che finiscono su siti e giornali, o invece se siamo vittime di una recrudescenza bigotta e moralista, un paese dove prima o poi qualcuno dirà che persino il divorzio va ripensato e non è cosa buona e giusto. Sicuramente viviamo in un'Italia schizofrenica, dove i cattolici integralisti vogliono dimenticarsi che siamo uno stato laico ed europeo.
E dove figuri che sembrano usciti da un brutto romanzo di appendice seguono politici e procurano piacenti ragazze a suon di migliaia di euro per stanchi uomini di successo abituati a non conquistarsi nulla e a comprarsi tutto, ma soprattutto a farsi ricattare.
Ma questa è cronaca, per quanto squallida. Quello che va oltre la cronaca dice ben altro. E ci mostra un lato più sfuggente del nostro vivere quotidiano. Se da un lato c'è una battaglia, ufficiale e sommersa, ambigua e fitta di colpi bassi, sulle unioni di fatto, sui Dico, e contro quelli che vengono definiti «i diversi», dall'altro c'è uno spaesamento assoluto, che letto attraverso certi dettagli si mostra più drammatico di quanto si pensi. Mi riferisco a un interessamento morboso nei confronti della vita sessuale di personaggi, che siano pubblici o no. Mi riferisco a questo nuovo tabù che da un po’ circola tra siti di gossip e ben più importanti pagine dei quotidiani. Il tabù del transessuale.
Ora sarebbe ridicolo dire che l'attrazione per i transessuali è cosa di oggi, da molti anni i transessuali sono figure border line, persone di confine, traduciamolo così, che attirano desideri e morbose curiosità. Ma negli ultimi anni il fenomeno è diventato ancora più evidente, ma soprattutto molto pubblico. Si pensi soltanto al modo scorretto e poco rispettoso su cui si è indugiato quando Lapo Elkann finì vittima di un overdose nella casa del famoso trans «Patrizia». Si pensi al clamore di questi giorni, su molto fantomatiche fotografie che avrebbero rivelato un interesse del portavoce di Prodi per i corpi di trans esposti in una delle tante strade della capitale. Quando si innesca un isterismo morboso per fenomeni come questi, vuol dire che c'è una società intorno che non ha fatto i suoi conti con la propria identità e i propri desideri.
Se volessimo sintetizzare con una battuta. Nel paese che in dieci anni è diventato il più moralista d'Europa i transessuali sono merce preziosa. Nella terra degli anatemi di Ruini, l'offerta di transessuali è aumentata vertiginosamente, fino a generare domande su domande. Nel moralismo corrente tutto questo sembra da un lato intollerabile e dall'altro irresistibile. Ma cosa sta accadendo?
È molto semplice. I trans sono tutto. Sono uomini, sono donne, sono prostitute, ma soprattutto sono un «prodotto», se mi si passa il termine, che obbedisce a un immaginario erotico costruito ad arte dalla moda, dal cinema, e in una parola dalla contemporaneità. La loro femminilità è assieme assoluta e al tempo stesso banale. Merito di chirurghi plastici che hanno il compito di esasperare forme e femminilità: nei seni, nelle labbra, sui fianchi, e ovunque. Nello stesso tempo sono anche degli uomini. Per i clienti, per i curiosi, per tutti quelli che li cercano anche soltanto per guardarli da vicino, sono bambole globali, trasgressive e rassicuranti, prive di una identità sessuale che vada in una direzione qualsiasi. E nello stesso tempo sono il trionfo di quella identità sessuale che ha trasformato l'immaginario degli uomini verso le donne in qualcosa di insensato, di plastificato, di artificioso. Non dimentichiamo che stiamo parlando di uomini, e soltanto di loro: perché sono gli uomini a cercarle, gli uomini a volerle, e gli uomini, e sempre eterosessuali, a pagarle. Non si confonda l'attrazione per il transessuale per l'attrazione nei confronti dell'ambiguità, o tantomeno dell'androginia, che è l'opposto. Il transessuale rappresenta un ideale femminile paradossale, e non sono degli omosessuali latenti a cercarli, ma degli eterosessuali che vogliono avere a che fare con donne esagerate che però donne non sono. È una sorta di schizofrenia identitaria, che rispecchia le debolezze di un paese scisso a tutti i livelli. Perché mentre gli scandali - veri, costruiti, perfidi o inutili che siano - si susseguono uno dopo l'altro, dall'altro lato ci sono in Parlamento deputati pronti a dichiarare (legittimo farlo, forse poco discreto dirlo) di portare il «cilicio», che è «meglio dei tacchi a spillo». Mentre sui viali donne che sono uomini portano tacchi a spillo passeggiano seminude di fronte a uomini attratti da una femminilità che sembra più che altro un desiderio onirico, altrove ci si indigna perché in questo paese deve essere normale che una coppia omosessuale possa avere gli stessi diritti di una coppia eterosessuale. E una coppia non sposata di una coppia sposata.
Se dicessimo che tutto questo è solo il gusto per il gossip saremmo degli ipocriti. È vero che oggi tutto diventa pubblico, perché c'è internet, perché le notizie viaggiano velocissime. Perché ormai milioni di italiani portano in tasca sempre una macchina fotografica travestita da telefonino. Ma non basta a spiegare come sia possibile un livello di morbosità che arriva fino a questo punto. Falsa morale, si sarebbe un tempo detto. Confusione si potrebbe dire oggi. E sarebbe più corretto. Il pensiero debole ha fatto centro quando meno ce lo saremmo aspettato. Non è colpa della caduta delle ideologie, non è colpa di una deriva etica inaspettata, è il risultato di una società che non sa trovare in se stessa un limite e un'identità. E molti di quelli che oggi sono contro i Dico, c'è da giurarci, possono essere tra quelli che vanno a cercare i transessuali la notte per i viali. Per poi indignarsi la mattina dopo proprio di questo.
Ma al di là di queste ipocrisie, vecchie come il mondo, è l'aspetto pubblico che colpisce. Il guardare dal buco della serratura, la percezione che il grande fratello, il più grande di tutti, è l'intera società italiana. Dissentire, trasgredire, curiosare, giudicare, indugiare in tutti i dettagli a disposizione. E farlo ad alta voce, come fosse un dibattito pubblico. Segreti e bugie sono sempre stati all'ordine del giorno, nel potere come lontano dal potere. Ma se ora appaiono così scandalosi e irrinunciabili è perché sono scandali privi di vere passioni, e non sono vizi: ma solo un mondo virtuale di plastica, come i corpi dei transessuali sbirciati di notte; ed è l'assenza di vizi e di passioni che mette tutto sullo stesso piano e snatura tutto, e non permette neppure quella simpatia, quella comprensione che si deve sempre avere per le debolezze altrui.
Il risultato è un moralismo sbandierato, di maniera, direi persino di posizione, che non tiene conto di fragilità e di identità altrui da rispettare. Il moralismo dei Ruini, non è la morale: quella è perduta. La morale che prima di ogni cosa è capire le ragioni e le realtà degli altri, quella che pone limiti, certo, ma non per ghettizzare o per gridare allo scandalo, bensì per disegnare una mappa plausibile di una modernità in continuo movimento. Rimane la plastica di queste donne guardate, cercate e desiderate quasi uguali a quelle elaborate nei computer, rimane il non esserci, rimane un chiacchiericcio dannoso e terribile, rimane uno strano vuoto in cui si sembra di essere precipitati. Che toglie l'aria e non ci permette di respirare.
l’Unità Bologna 18.3.07
GIOVANNI DE PLATO: «La frattura tra pensiero ed emozioni porta a comportamenti distruttivi, anche contro se stessi»
«Raptus imprevedibili, anche in chi è sano»
Bologna. «Anche all’interno di un ottimo progetto di reinserimento sociale, come quello costruito per Simone dal Dipartimento di salute mentale dell’Ausl, non è possibile nè prevedere nè eliminare del tutto eventuali comportamenti distruttivi». Giovanni De Plato, docente di Psichiatria all’Università di Bologna, che rapporto c’è fra il disturbo schizofrenico e la possibilità di commettere un crimine?
«Premesso che è sempre difficile pronunciarsi su casi singoli, perchè bisognerebbe prima conoscere la storia del soggetto e della sua famiglia, diverse ricerche dimostrano che non c’è alcun rapporto fra la schizofrenia ed eventuali comportamenti distruttivi. Uno studio recente prova, al contrario, che le persone affette da questo disturbo commettono meno crimini rispetto a quelli compiuti da soggetti “sani” in una grande città americana».
Quindi il disagio mentale non può spiegare il gesto del ragazzo che ha strangolato la nonna?
«Chi ha un disagio così grave è certamente più vulnerabile, ed è più esposto al rischio di commettere gesti violenti rispetto ad altri. Ma il rischio si trasforma in azione solo in una situazione di stress particolarmente intenso e persistente, che il soggetto non riesce più a sopportare».
Nell’interrogatorio davanti al magistrato il giovane ha raccontato di una discussione telefonica, non si sa ancora con chi, che avrebbe fatto scattare la sua ira. La telefonata potrebbe aver fatto precipitare una condizione di forte stress?
«Le persone gestiscono i loro comportamenti in modo “normale” quando legano i comportamenti al pensiero ed alle emozioni. Quando siamo sottoposti ad un’emozione negativa particolarmente forte e pervasiva (come la telefonata può essere stata, ndr) si può momentaneamente interrompere la connessione fra azione, pensiero ed emozioni. Ed è proprio questa frattura che porta a comportamenti distruttivi, contro gli altri o contro se stessi».
Il ragazzo, però, era in cura psicoterapica e farmacologica fin da adolescente. Non era prevedibile che compisse gesti violenti?
«La psichiatria e la psicologia oggi sono in grado di curare disturbi gravi come la schizofrenia, e soprattutto nella nostra città ci sono servizi di alta qualità che possono permettere ai pazienti un percorso di reinserimento sociale. Ma in nessun modo siamo in grado di prevedere eventuali comportamenti distruttivi, se è vero che un gesto violento può essere compiuto in ogni momento di particolare stress e disagio in cui l’azione non è più legata al pensiero».
Questo meccanismo, e questa imprevedibilità, valgono anche per le persone “sane”?
«Per i “sani” è anche peggio. Chi è seguito da un supporto psicologico è generalmente più capace di vivere le emozioni in modo adeguato». g.g.
l’Unità 18.3.07
POLEMICHE «Perché non possiamo essere cristiani», una cavalcata atea dal «Genesi» al cattolicesimo di oggi che ha suscitato ripulse e indignazione
Il matematico Odifreddi fa il verso a Voltaire e plagia Russell? Fa bene!
di Bruno Gravagnuolo
Odifreddi onnipresente. Ubiquo come lo spirito santo, narcisista alla «n». Uomo tutto. Da attore in scena al Festival della Matematica di Genova, dove intervista Dante e lo bacchetta. Questiona virtualmente col Dalai Lama, e inframmezza il pane della scienza con le apparizioni di una bellissima attrice senza veli. Ai fasti del festival matematico di Roma. Con Spasky, Barrow e Nash. Senza dire di collane, apparizioni Tv, saggi alti e bassi, articoli e articolesse, sparsi ovunque.
Del resto di questa vocazione ubiquitaria di «holy Gosth» o «Spirit», testimonia la sua biografia. Un matematico dei due mondi, che studiò tra Usa e Urss e che insegna logica sia a Torino sia alla Cornell University. Insomma, temperamento inflattivo che rischia di finire come un Alberoni di qualità e che magari se si fermasse un attimo senza disperdersi potrebbe persino lasciare un segno scientifico forte e risultare più persuasivo. Queste però ne conveniamo sono ubbie un po’ antiquate, in tempi vanitosi e mediatici. E non valgono a censurare il quia. Il merito e i meriti della battaglia di Odifreddi, di là dello scintillìo narcisistico. Prendete ad esempio il suo ultimo libro, che ha sollevato ripulse moralistiche: Perché non possiamo essere cristiani (Longanesi, pp. 264, euro 14, 60). Ebbene è utilissimo, non di rado spiritoso senza girare attorno alle questioni, ben scritto e ben documentato. Magari ridondante, e persino plagiaro (confesso) nel titolo, che occhieggia a Croce e Bertrand Russell. E infine addirittura scontato, su molteplici aspetti che investono l’irratio dei misteri della fede cristiana, biascicati inconsapevolmente da tanti. E però la cavalcata di Odifreddi, dal Genesi con le sue insensatezze, all’insabbiamento autoritario degli scandali pedofili in seno alla Chiesa, incide. È onesta e veritiera. E costringe ogni «uomo di buona volontà» e retta ragione a fare i conti con l’arbitrio dottrinario e autoritativo di una fede istituzionale che, malgrado contraddizioni e stranezze, pretende di bel nuovo di stare a fondamento delle leggi civili. E in nome della razionalità occidentale! Tale è infatti la campagna che il cattolicesimo con questo papato, ha intrapreso. Con la scusa che le leggi civili da sole non bastano. E che lo stato laico democratico da solo non si fonda. E che necessita di un fondamento esterno, pena la caduta nella negazione della vita, nella violenza e quant’altro. Talché sarà pure la «scoperta dell’ombrello», come scrive Giorgio Israel sul Foglio, che Elohim, nel Genesi biblico è plurale allusivo alle divinità antropomorfe del Toro e del Vitello. Con tanti saluti al monoteismo. E sarà pure l’acqua calda che i «dieci comandamenti» furono rappezzati in momenti diversi, tra Monte Oreb e Sinai e poi ricodificati per gli ebrei, con contraddizioni tra fasi differenti. E infine sarà anche banale che i Vangeli erano almeno 18, i sinottici più gli apocrifi. Che sono scritti per sentito dire. E che molti miracoli sono ridicoli e sconnessi, come quello del diavolo esorcizzato e messo in corpo a mandrie di maiali. E tuttavia repetita juvant, e non «scocciant» (lat. corrotto). Già, non è noioso ricordare, come fa Odifreddi, che la «transustanziazione» dell’Ostia è una magia inverosimile e aristotelicamente macchinosa: mutazione del pane in corpo e sangue di Cristo con le specie sensibili intatte. Laddove più ragionevolmente Lutero sosteneva che è il corpo fantasmatico di Cristo a entrare nel pane, senza alterarne la sostanza. Mentre ancor più ragionevolmente Zwingli diceva che il sacrificio era un «hoc facite in commemoratione mei»: una cerimonia simbolica. Sicché non solo ci si chiede di credere a una sostanza trasfigurata negando quel che appare. Ma se ne fa un vincolo dogmatico che anatemizza o salva a seconda che si voti per i Dico o no.
Altra questione, capitale. Che Odifreddi ripropone all’attenzione. Il nesso tra cristianesimo e libertà. Vero, la fede cristiana fu un ingrediente di liberazione dei servi. Ma solo un ingrediente e più spesso un potente ostacolo. S. Paolo infatti era ultra-maschilista e approvava la schiavitù. Come Pio IX del resto, che chiamava «cani» gli ebrei sciolti dal getto dopo Porta Pia. E però vogliono farlo santo. E allora ben venga Odifreddi a rifare il verso a Voltaire.
il manifesto 18.3.07
Da Michael Atiyah una sfida alle tentazioni della logica
«Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, ma il suo motore è l'immaginazione, non il cieco calcolo». Un dialogo con il celebre studioso anglolibanese noto per il teorema che porta il suo nome e ha rivelato inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi
Luca Tomassini
«Credo che la matematica sia costruita a partire dalla nostra esperienza del mondo esterno». C'è una tensione, una vera linea di frattura, che attraversa la matematica fin dalle sue origini, quella tra intuizione e formalismo, verità immediatamente percepibile e dimostrazione. Un contrasto cui Michael Francis Atiyah - che abbiamo incontrato ai margini del Festival della matematica a Roma - non si è mai arreso, come dimostra la sua straordinaria biografia scientifica. Nato a Londra settantanove anni fa da padre libanese e madre scozzese, cresciuto prima in Sudan e poi nel Regno Unito, è universalmente riconosciuto come una delle più geniali menti matematiche del Novecento. «Per tutta la vita - spiega - ho sempre cercato di costruire ponti», e il celebrato teorema che porta il suo nome (insieme a quello del collega Isadore M. Singer) ha non solo rivelato profonde e inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi ma ha avuto un ruolo straordinario nel colmare il divario tra il mondo della matematica pura e quello della fisica teorica. «La matematica - dice ancora Atiyah - comincia con idee generali che diventano via via più precise e specializzate. Durante il XX secolo le sue parti principali sono state affrontate separatamente, con la ben fondata speranza di realizzare progressi più rapidi. Sul lungo periodo questa strategia espone però al pericolo di perdere una visione di insieme, ma oggi per fortuna viviamo di nuovo in un'epoca di sintesi».
Ci può spiegare come giustifica la sua scelta di avversare, nel dibattito sui fondamenti della matematica, un orientamento basato sulla logica?
Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, dimostrazioni di carattere logico: credo sia un grave errore. È vero, è il cemento che tiene unita tutta la matematica, il suo obiettivo ultimo, ma il mezzo con cui la otteniamo è l'immaginazione, non il cieco calcolo. Non si comincia un lavoro con chiodi e martello, ma con un'idea.
Il calcolo, appunto, viene spesso identificato con l'algebra e contrapposto alla geometria. Anche per lei è così?
Ho sempre avuto un grande interesse per la questione del rapporto tra algebra e geometria. E poiché la nostra percezione di noi stessi e del mondo si articola intorno alle categorie di tempo e spazio, trovo del tutto naturale supporre che esse siano al cuore di questo problema. Per quanto riguarda la geometria, nessuno dubita del fatto che il suo principale oggetto di studio sia lo proprio spazio, come lo percepiamo in un determinato istante. Al contrario, nell'algebra moderna effettuiamo operazioni in una determinata sequenza, una dopo l'altra, nel tempo appunto: è un algoritmo di calcolo, niente affatto diverso da quelli utilizzati da un computer che elabora i suoi dati. Del resto, il pensiero logico-simbolico comporta il passaggio da una serie di assunzioni a delle conclusioni.
Lei ha definito i vantaggi offerti dall'uso del computer come una «offerta faustiana». Quali sarebbero le tentazioni in campo?
Era una provocazione, naturalmente, e ne ho pagato il prezzo subendo un gran numero di critiche. Per capire quale sia il problema torniamo al pensiero geometrico: la sua natura sintetica, intuitiva, è il miglior esempio di ciò che intendo per comprensione. Nella storia della matematica invece l'algebra è nata come un ausilio per il calcolo, la verifica, compito questo che svolge in maniera davvero egregia. Quando facciamo un'operazione algebrica introduciamo un input e smettiamo di pensare al suo significato, semplicemente manipoliamo simboli seguendo regole formali e infine otteniamo una risposta. In mezzo c'è una scatola nera. La scomparsa del desiderio di dare un'occhiata al suo interno è il pericolo che vedo nella diffusione del calcolo automatizzato. Quando ho definito questo fenomeno «faustiano», immaginavo il diavolo mentre si presenta a uno scienziato e gli dice, suadente: «ecco una macchina meravigliosa, basta formulare un problema e lei ti fornisce la risposta. Tutto quello che devi fare per averla è rinunciare alla tua anima, al desiderio di comprendere». Certo, come dimostra la disputa tra Isaac Newton e Gottfried Leibniz, le cose non sono sempre così semplici. Newton sviluppò il suo calcolo infinitesimale per descrivere il movimento dei corpi e in ogni suo ragionamento il riferimento al mondo reale conservava un'importanza centrale. Leibniz era invece un formalista e il suo calcolo era un'algebra molto più semplice da utilizzare. Tra i due, è il filosofo che alla fine ha avuto la meglio: oggi, infatti, scriviamo il calcolo differenziale seguendo la sua notazione. Resta però il fatto che questa scelta non favoriva la comprensione sintetica di tutti gli aspetti del problema. Capire è vedere, tutto insieme e nello stesso istante. Persino nel procedimento artistico possiamo distinguere un aspetto tecnico e uno concettuale, e la tentazione diabolica sta nel considerare solo il primo.
In passato lei ha collaborato all'organizzazione di esperimenti il cui intento era quello di chiarire i fondamenti biologici del pensiero matematico. Ce ne può sintetizzare i risultati?
Alcuni miei colleghi sostengono che per loro ragionare in termini geometrici sia completamente naturale, altri hanno la stessa sensazione riguardo la formulazione algebrica dei problemi. Mi è sempre interessato stabilire se queste inclinazioni avessero un fondamento neurologico e per questo ho cercato di verificare dov'è che nel cervello «avviene la geometria» e dove «avviene l'algebra». La mia ipotesi è che la geometria coinvolga l'emisfero deputato alla visione mentre l'algebra, proprio come il linguaggio, abbia a che fare con l'emisfero specializzato nella percezione del movimento. L'idea era molto semplice: utilizzare tecniche di imaging cerebrale per «vedere» cosa succede durante la risoluzione di problemi matematici. Naturalmente abbiamo iniziato con domande elementari e abbiamo poi verificato che, come previsto, semplici calcoli aritmetici coinvolgono le aree del linguaggio mentre all'opposto problemi più complessi sulla natura dei numeri richiedono l'attivazione dell'altro emisfero. Sono risultati incoraggianti e sono convinto che proseguendo su questa strada nel giro di dieci o vent'anni avremo la possibilità di rispondere a una serie di interrogativi che per secoli hanno impegnato senza successo i filosofi. Se vogliamo capire come pensa il cervello, la matematica è un ottimo punto di partenza.
Eppure importanti filosofi della mente come John Searle ritengono gli strumenti concettuali attualmente a nostra disposizione insufficienti a rispondere a interrogativi quali la natura del pensiero, anche matematico. Lei è d'accordo?
Talvolta un problema può essere così complesso da rendere impossibile una risposta definitiva. Per esempio, cosa è la coscienza? Cosa è il pensiero? Credo che quesiti del genere siano destinati a svanire, a perdere di significato. Per millenni gli esseri umani si sono interrogati sulla natura della vita, oggi ragioniamo in termini di selezione naturale, cellule, proteine, Dna. La domanda si è moltiplicata in tante domande, più specifiche e sofisticate.
Dunque ha un fondamento biologico quella che Eugene Wiegner definiva la «irragionevole efficacia della matematica» nella descrizione scientifica della realtà?
Come le dicevo, la matematica è costruita a partire dal mondo esterno. È poi così sorprendente che sia anche efficace quando si tratta di descriverlo? In fondo, la mente umana è stata modellata dalla selezione naturale, che in qualche modo l'ha resa «compatibile» con la realtà. Ma la nostra esistenza, le nostre percezioni restano confinate a scale macroscopiche e per questa ragione considero sorprendente che la matematica continui a essere applicabile anche al mondo delle particelle elementari. Ma chi può dire qual è la verità? La matematica è veramente uno specchio della realtà o solamente l'immagine che ce ne restituisce il cervello, con tutti i suoi limiti e possibili errori? È proprio ora che la fisica diviene sempre più sofisticata, proprio come la matematica necessaria a descriverla, che le domande poste da Kant tornano di grande importanza. Stiamo sfiorando la natura ultima dello spazio e del tempo o solo costruendo modelli matematici sempre più complicati per adattarli al meglio a quello che osserviamo? I rapporti tra matematica, fisica e realtà continuano a restare un mistero.
Lei ha formulato e dimostrato un teorema che porta il suo nome e che ha trovato sorprendenti applicazioni proprio nel campo della fisica quantistica, influenzando profondamente lo sviluppo della teoria delle stringhe. Ritiene che l'uso sempre più massiccio di sofisticati strumenti matematici stia cambiando la natura della ricerca nel campo della fisica?
La fisica si confronta oggi con domande sulla realtà a scale talmente piccole e energie talmente alte che la verifica sperimentale diventa sempre più difficile, se non addirittura impossibile, e per questo le tecniche che si hanno a disposizione sono per lo più matematiche. Non sappiamo se quelli della fisica odierna siano veri passi avanti nella comprensione del mondo o solo eleganti costruzioni concettuali, ma francamente non vedo alternative all'uso della matematica.
Viceversa alcuni ricercatori hanno messo in discussione il significato della dimostrazione come garanzia della certezza matematica. Oggi esiste persino una rivista dedicata alla cosidetta «matematica teorica», dove sono presentati «teoremi» corroborati da analogie con la fisica. Considera positivi questi sviluppi?
Se un nuovo strumento matematico applicato alla fisica non supera la prova dell'esperimento, non abbiamo alternative a rinunciare al suo uso. Ma se qualcuno partendo da idee fisiche è in grado di ottenere risultati matematici, questi resteranno per sempre. In questo senso la matematica ha tutto da gudagnare da questo rapporto. Molti ricercatori lamentano che le teorie fisiche non sono rigorose ma basate sull'intuizione, ma non colgono l'essenza del problema. Da esse, come è sempre successo nella storia della matematica, vengono suggerimenti, nascono congetture che in molti casi sono state successivamente verificate con altri metodi. Non credo esista il rischio che si possa confondere ciò che è stato dimostrato con quello che non lo è stato.
Nel discorso con cui nel 1995 lasciava la presidenza della Royal Society lei denunciava con parole molto aspre il disinteresse degli scienziati per il crescente «sospetto» che la società nutre nei loro confronti. La pensa ancora così?
Più che mai. Il ruolo della scienza e della tecnologia è enormemente cresciuto negli ultimi due secoli e per questa ragione in una società democratica sono i cittadini che, almeno in linea di principio, dovrebbero prendere decisioni sui finanziamenti alla ricerca. Ma la scienza, specialmente la «grande scienza», è oggi sempre più prigioniera del rapporto con privati, governi e apparati militari che non amano dire alle persone quello che, secondo loro, non devono sapere e i rischi di corruzione intellettuale si sono moltiplicati. Gli scienziati dovrebbero mantenere la loro integrità, senza nascondersi dietro pretesti futili come quello per cui il pubblico non sarebbe mai sufficientemente «educato» per compiere delle scelte. Oggi purtroppo gli scienziati non si muovono così e le conseguenze sono sotto i nostri occhi: il sospetto nei loro confronti è sempre più diffuso.
Tra i suoi numerosi impegni sul fronte pubblico c'è stato anche quello al vertice di Pugwash, un'organizzazione internazionale di scienziati che da più di cinquant'anni si batte contro la proliferazione nucleare. Qual è oggi il suo bilancio?
Dopo la caduta del Muro abbiamo avuto una grande opportunità che per ragioni politiche non è stata colta e oggi la guerra è tornata sulla scena, insieme alla proliferazione nucleare. Sono sempre stato ottimista, ma è difficile esserlo oggi su basi razionali. Mi ricordo che Robert MacNamara, ministro della difesa di Kennedy e poi sostenitore dell'eliminazione delle armi nucleari, mi confidò di essere approdato alle sue convinzioni dopo la sua esperienza nella crisi dei missili a Cuba, quando sembrò che fossimo arrivati molto vicini a un conflitto nucleare. Benché ritenesse questa eventualità effettivamente remota, sottolineava però che una piccola probabilità su lungo arco di tempo può trasformarsi in certezza.