domenica 18 marzo 2007

L'espresso 18.3.07
Heidegger è un bravo compagno

di Wlodek Goldkorn


Si definisce "cristocomunista", perché è una nozione più precisa del "cattocomunista" e propone di rifondare il comunismo, a partire da una filosofia nichilista: Heidegger e Nietzsche contro Marx. 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era' (il titolo allude a 'Ecce homo' di Nietzsche) di Gianni Vattimo è un libro diviso in due parti. La prima: sono interventi politici militanti del filosofo convertitosi al comunismo durante la guerra in Iraq. E su questa parte si sono soffermati finora i recensori, qualche volta stupiti dall'attrazione che su Vattimo esercitano personaggi come Castro e Chávez.

La seconda parte, inedita e affascinante, ha invece come ambizione porre basi teoriche a un 'comunismo libertario'. Si parte da Adorno e dalla sua considerazione su come le avanguardie artistiche del Novecento avessero avuto come compito mettere in questione l'arte stessa. Dice Vattimo: il compito di una politica di sinistra è porre domande sulla politica stessa. Per farlo, ci vuole coraggio. E Vattimo lo ha. Per esempio, rivendica il pensiero apocalittico contro un illuminismo che a suo dire, interpreta l'esistente in chiave moderata alleandosi così con i neo-conservatori. Occorre invece, recuperare una visione irrazionalistica della storia.

All'interno di questa visione, non c'è spazio per un Marx, che ha "fede in verità obiettiva della storia e in esistenza di una essenza umana". Largo invece, a tutto ciò che contraddice la 'natura' e a Heidegger che propone di "pensare il non ancora pensato", e a Walter Benjamin che vorrebbe recuperare la memoria dei perdenti, e il "passato ancora aperto". Tutto questo è un gioco intellettuale molto raffinato, molto stimolante, e un po' pericoloso, specie quando ci si dichiara nemici di ogni 'mistica' che presuppone l'esistenza di una verità. Alla fine Vattimo svela tutte le sue carte, e dice: "Con il motto non ci sono fatti, solo interpretazioni (...) fonderemo il comunismo libertario".

Gianni Vattimo, 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era', Fazi, pp. 127 E 12,50


Corriere della Sera 18.3.07
Il regista racconta il copione centrato sulla figura di Ida Dalser. La scelta del titolo: «Vincere»
Bellocchio, il Duce e il film sulla «moglie ribelle»
intervista di Aldo Cazzullo


ROMA - «Il film si intitola Vincere. Come la parola d’ordine del protagonista, il Duce. E come la volontà invincibile della protagonista, Ida Dalser, l’amante e forse moglie di Mussolini, che gli diede il primo figlio maschio, Benito Albino, destinato come lei a morire in manicomio». Dopo Buongiorno notte, Marco Bellocchio torna a fare un film sulla storia politica del ’900. Stavolta affronta la figura del Duce. Respingendone entrambe le immagini stereotipate: quella postresistenziale dell’alieno che grazie a una cricca di criminali governa un paese a lui estraneo; e quella in via di costruzione di un padre di famiglia che con bonomia e sagacia salva l’Italia dal comunismo fino all’errore dell’alleanza con Hitler.
«Il Duce è un "essere per la morte", un calcolatore cinico disposto a passare sui cadaveri. Il Mussolini del mio film ricorda l’Alessandro dei Pugni in tasca, che si "realizza" uccidendo madre e fratello. Ciò non toglie che il Mussolini storico ebbe un consenso straordinario - dice Bellocchio -. E la gran parte dell’Italia si specchiò in lui. Maestri, impiegati, piccolo borghesi si riconobbero nel Duce e lo adorarono; e lui fu di volta in volta uno di loro, maestro, poeta, soldato, contadino, padre affettuoso, marito, amante».
«Quando volle fare di sé un Cesare o un Alessandro Magno cominciò la sua fine. Ma fino ad allora la grande maggioranza degli italiani sono stati fascisti; per questo, quando il fascismo cadde, lasciò dietro di sé un popolo sfiduciato, qualunquista, rassegnato a non credere in nulla. Un po’ com’è accaduto ai postcomunisti dopo il crollo del marxismo. Ovviamente ci furono eroi che al fascismo si opposero. E anche la donna del mio film ebbe il coraggio di tenergli testa. Al Duce, che l’aveva amata e abbandonata, Ida Dalser non si piegò mai. Fu ribelle sino alla fine. Quasi un’Antigone, un’eroina da tragedia greca».
«Il film comincia con un episodio riportato da Paolo Monelli nel suo Mussolini piccoloborghese, ripreso dall’autobiografia della Balabanof. Siamo nel 1909, a Trento. Nella realtà storica, l’episodio accadde in Svizzera, ma il significato è lo stesso: l’immaginazione deve riconoscersi anche in un film storico un margine di infedeltà. La Dalser si affaccia in una sala dove si combatte uno di quei duelli verbali all’epoca molto diffusi tra un prete e un socialista ateo. C’è il giovane Mussolini che da istrione qual è chiede agli spettatori un orologio da taschino, lo poggia sul tavolo e proclama: "Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste"».
Più avanti c’è anche il duello, stavolta non metaforico, con Claudio Treves, «con il Duce che pur ferito si ferma a verificare che gli arbitri scrivano fedelmente il verbale del combattimento e del suo comportamento coraggioso, per poi pubblicarlo sul Popolo d’Italia».
«Il giovane Mussolini esce dal film quando parte per la guerra. Ida ha venduto il suo salone di bellezza per aiutarlo a fondare Il Popolo d’Italia, è rimasta incinta, forse Benito l’ha pure sposata. Il giorno prima di partire per il fronte, lui la porta al cinema. Al cinegiornale scorrono le immagini della guerra, il pianista suona l’inno di Garibaldi, i nazionalisti cominciano a cantarlo - "Si scopron le tombe, si levano i morti..." -, Benito si unisce al coro. I socialisti reagiscono, scoppia una rissa che mi piace pensare con i colori della "Rissa in galleria" di Boccioni, e Ida si lancia in sua difesa nonostante sia al settimo mese di gravidanza: è una donna fatta così, di una dedizione assoluta al suo eroe».
Lo rivedrà solo al cinema, in un altro cinegiornale, nel 1922, mentre sale al Quirinale in camicia nera. «Ho in mente una continua contaminazione della finzione con il repertorio, che ho già sperimentato nel film su Moro». Là, i funerali del presidente della Dc senza sonoro, con la musica dei Pink Floyd.
Nella seconda parte di Vincere, Mussolini sarà quello dei cinegiornali Luce, e Ida andrà continuamente al cinema per averne notizie: nella vita non lo vedrà più.
«Ma per tutta la vita continuerà a rivendicare la propria storia di essere stata la moglie e di essere la madre del primogenito del Duce. Che ormai è avviato verso la conciliazione con la Chiesa e di quell’antico amore si deve disfare. Madre e figlio devono sparire. E spariranno i documenti del matrimonio e della nascita del figlio, a cui verrà cambiato il nome più volte. Non dovranno più esistere. Così nel 1926 Ida viene arrestata e rinchiusa nel manicomio di Pergine, vicino a Trento; poi in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia».
Una vicenda terribile di elettrochoc, malaroterapia - «si iniettava la malaria con il pensiero che le febbri alte avrebbero provocato una reazione salutare per la mente del malato» -, fughe, arresti, ricerche del figlio che nel frattempo il regime ha mandato in Cina, per poi rinchiudere anche lui in manicomio. E un’ultima fuga di Ida, riuscita, vittoriosa, a dimostrazione di questa sua invincibilità, nonostante fosse rinchiusa e controllata giorno e notte. Ida muore nel 1937, Benito Albino nel 1942. Il film si chiude con la Liberazione e la campagna elettorale per il referendum sulla monarchia: l’ultima scena è ancora ambientata in un cinema, dove si rifugiano i manifestanti di un corteo repubblicano dispersi dalla polizia, l’Italia della Resistenza che ha sconfitto il fascismo; ma non voglio rivelare il finale».
Il progetto è finanziato da Raicinema, e le riprese dovrebbero cominciare alla fine dell’anno, per essere nella sale nel 2008. Sull’attrice che farà Ida, e che dovrà essere «di una bravura mostruosa», è ancora buio.
Sarà un film politico, spiega Bellocchio. E uno degli spunti è la crisi del partito socialista, «che comincia proprio nel 1915, con la svolta interventista di Mussolini. Questa è una riflessione maturata anche da conversazioni con mio fratello Piergiorgio, che mi ha mostrato un’intervista in cui Treves prevedeva, dopo il delitto Matteotti, che passata l’estate e finite le vacanze il fascismo sarebbe caduto da sé. I socialisti sottovalutano il Duce, non comprendono che non ha soltanto l’appoggio degli industriali, degli agrari, della piccola borghesia, della Chiesa, ma che tanta gioventù si riconosce in lui, vede in lui l’uomo nuovo della politica, capace di spazzare via la vecchia classe liberale e anche socialista. Poi, dopo la Liberazione, il Psi subisce l’egemonia comunista. Sotto questo profilo, il disegno di Craxi di mettere in discussione il primato del Pci e restituire al proprio partito peso elettorale e libertà d’azione, per quanto perseguito con metodi inaccettabili, era politicamente lungimirante».
«Oggi mi manca, e credo manchi all’Italia, un partito socialista veramente laico - dice Bellocchio -. Non capisco il cupio dissolvi della sinistra, l’ansia di annullamento di sé che spinge i Ds a unirsi ai cattolici ruiniani come la Binetti e lo stesso Rutelli nel partito democratico, che si dovrebbe collocare fuori dall’Internazionale socialista. Stimo Veltroni, è un amico, ma non ne comprendo il progetto. Viene in mente un detto antico, "chi di spada ferisce di spada perisce": come se, dopo aver consegnato il Psi ai giudici, la sinistra erede del Pci scegliesse il suicidio (come espiazione?). E neanche mi convince il "casinismo" di Pannella, che certo non ha giovato alla Rosa nel pugno. Quanto ai neo o veterocomunisti, quelli che con un aggettivo geniale Guareschi definiva trinariciuti, non mi sembra che abbiano le idee molto chiare, o che ne abbiano di nuove. Bertinotti mi pare imbavagliato nel suo ruolo istituzionale, e il suo partito molto sulla difensiva. Sono un moralista (lo sono ancora troppo, e questo è un limite), ma non credo che il moralismo e l’antiberlusconismo possano esaurire la politica: non mi fanno ridere le vignette di Vauro. Così come non mi hanno mai interessato i girotondi, che hanno lasciato poco o nulla dietro di sé. Sono letteralmente scomparsi, e sembravano la grande invenzione della politica. E’ rimasto invece il loro leader carismatico, Nanni Moretti: geniale inventore, e amministratore, della propria immagine».

l’Unità 18.3.07
Tabù, segreti e bugie
L’Italia e il sesso
di Roberto Cotroneo


C’è davvero da domandarsi in che paese viviamo, se nel paese del fotografo Corona e di personaggi come Lele Mora, o se invece siamo nel paese del Cardinal Ruini. Se siamo dentro storie di corruzioni e trasgressioni che finiscono su siti e giornali, o invece se siamo vittime di una recrudescenza bigotta e moralista, un paese dove prima o poi qualcuno dirà che persino il divorzio va ripensato e non è cosa buona e giusto. Sicuramente viviamo in un'Italia schizofrenica, dove i cattolici integralisti vogliono dimenticarsi che siamo uno stato laico ed europeo.
E dove figuri che sembrano usciti da un brutto romanzo di appendice seguono politici e procurano piacenti ragazze a suon di migliaia di euro per stanchi uomini di successo abituati a non conquistarsi nulla e a comprarsi tutto, ma soprattutto a farsi ricattare.
Ma questa è cronaca, per quanto squallida. Quello che va oltre la cronaca dice ben altro. E ci mostra un lato più sfuggente del nostro vivere quotidiano. Se da un lato c'è una battaglia, ufficiale e sommersa, ambigua e fitta di colpi bassi, sulle unioni di fatto, sui Dico, e contro quelli che vengono definiti «i diversi», dall'altro c'è uno spaesamento assoluto, che letto attraverso certi dettagli si mostra più drammatico di quanto si pensi. Mi riferisco a un interessamento morboso nei confronti della vita sessuale di personaggi, che siano pubblici o no. Mi riferisco a questo nuovo tabù che da un po’ circola tra siti di gossip e ben più importanti pagine dei quotidiani. Il tabù del transessuale.
Ora sarebbe ridicolo dire che l'attrazione per i transessuali è cosa di oggi, da molti anni i transessuali sono figure border line, persone di confine, traduciamolo così, che attirano desideri e morbose curiosità. Ma negli ultimi anni il fenomeno è diventato ancora più evidente, ma soprattutto molto pubblico. Si pensi soltanto al modo scorretto e poco rispettoso su cui si è indugiato quando Lapo Elkann finì vittima di un overdose nella casa del famoso trans «Patrizia». Si pensi al clamore di questi giorni, su molto fantomatiche fotografie che avrebbero rivelato un interesse del portavoce di Prodi per i corpi di trans esposti in una delle tante strade della capitale. Quando si innesca un isterismo morboso per fenomeni come questi, vuol dire che c'è una società intorno che non ha fatto i suoi conti con la propria identità e i propri desideri.
Se volessimo sintetizzare con una battuta. Nel paese che in dieci anni è diventato il più moralista d'Europa i transessuali sono merce preziosa. Nella terra degli anatemi di Ruini, l'offerta di transessuali è aumentata vertiginosamente, fino a generare domande su domande. Nel moralismo corrente tutto questo sembra da un lato intollerabile e dall'altro irresistibile. Ma cosa sta accadendo?
È molto semplice. I trans sono tutto. Sono uomini, sono donne, sono prostitute, ma soprattutto sono un «prodotto», se mi si passa il termine, che obbedisce a un immaginario erotico costruito ad arte dalla moda, dal cinema, e in una parola dalla contemporaneità. La loro femminilità è assieme assoluta e al tempo stesso banale. Merito di chirurghi plastici che hanno il compito di esasperare forme e femminilità: nei seni, nelle labbra, sui fianchi, e ovunque. Nello stesso tempo sono anche degli uomini. Per i clienti, per i curiosi, per tutti quelli che li cercano anche soltanto per guardarli da vicino, sono bambole globali, trasgressive e rassicuranti, prive di una identità sessuale che vada in una direzione qualsiasi. E nello stesso tempo sono il trionfo di quella identità sessuale che ha trasformato l'immaginario degli uomini verso le donne in qualcosa di insensato, di plastificato, di artificioso. Non dimentichiamo che stiamo parlando di uomini, e soltanto di loro: perché sono gli uomini a cercarle, gli uomini a volerle, e gli uomini, e sempre eterosessuali, a pagarle. Non si confonda l'attrazione per il transessuale per l'attrazione nei confronti dell'ambiguità, o tantomeno dell'androginia, che è l'opposto. Il transessuale rappresenta un ideale femminile paradossale, e non sono degli omosessuali latenti a cercarli, ma degli eterosessuali che vogliono avere a che fare con donne esagerate che però donne non sono. È una sorta di schizofrenia identitaria, che rispecchia le debolezze di un paese scisso a tutti i livelli. Perché mentre gli scandali - veri, costruiti, perfidi o inutili che siano - si susseguono uno dopo l'altro, dall'altro lato ci sono in Parlamento deputati pronti a dichiarare (legittimo farlo, forse poco discreto dirlo) di portare il «cilicio», che è «meglio dei tacchi a spillo». Mentre sui viali donne che sono uomini portano tacchi a spillo passeggiano seminude di fronte a uomini attratti da una femminilità che sembra più che altro un desiderio onirico, altrove ci si indigna perché in questo paese deve essere normale che una coppia omosessuale possa avere gli stessi diritti di una coppia eterosessuale. E una coppia non sposata di una coppia sposata.
Se dicessimo che tutto questo è solo il gusto per il gossip saremmo degli ipocriti. È vero che oggi tutto diventa pubblico, perché c'è internet, perché le notizie viaggiano velocissime. Perché ormai milioni di italiani portano in tasca sempre una macchina fotografica travestita da telefonino. Ma non basta a spiegare come sia possibile un livello di morbosità che arriva fino a questo punto. Falsa morale, si sarebbe un tempo detto. Confusione si potrebbe dire oggi. E sarebbe più corretto. Il pensiero debole ha fatto centro quando meno ce lo saremmo aspettato. Non è colpa della caduta delle ideologie, non è colpa di una deriva etica inaspettata, è il risultato di una società che non sa trovare in se stessa un limite e un'identità. E molti di quelli che oggi sono contro i Dico, c'è da giurarci, possono essere tra quelli che vanno a cercare i transessuali la notte per i viali. Per poi indignarsi la mattina dopo proprio di questo.
Ma al di là di queste ipocrisie, vecchie come il mondo, è l'aspetto pubblico che colpisce. Il guardare dal buco della serratura, la percezione che il grande fratello, il più grande di tutti, è l'intera società italiana. Dissentire, trasgredire, curiosare, giudicare, indugiare in tutti i dettagli a disposizione. E farlo ad alta voce, come fosse un dibattito pubblico. Segreti e bugie sono sempre stati all'ordine del giorno, nel potere come lontano dal potere. Ma se ora appaiono così scandalosi e irrinunciabili è perché sono scandali privi di vere passioni, e non sono vizi: ma solo un mondo virtuale di plastica, come i corpi dei transessuali sbirciati di notte; ed è l'assenza di vizi e di passioni che mette tutto sullo stesso piano e snatura tutto, e non permette neppure quella simpatia, quella comprensione che si deve sempre avere per le debolezze altrui.
Il risultato è un moralismo sbandierato, di maniera, direi persino di posizione, che non tiene conto di fragilità e di identità altrui da rispettare. Il moralismo dei Ruini, non è la morale: quella è perduta. La morale che prima di ogni cosa è capire le ragioni e le realtà degli altri, quella che pone limiti, certo, ma non per ghettizzare o per gridare allo scandalo, bensì per disegnare una mappa plausibile di una modernità in continuo movimento. Rimane la plastica di queste donne guardate, cercate e desiderate quasi uguali a quelle elaborate nei computer, rimane il non esserci, rimane un chiacchiericcio dannoso e terribile, rimane uno strano vuoto in cui si sembra di essere precipitati. Che toglie l'aria e non ci permette di respirare.

l’Unità Bologna 18.3.07
GIOVANNI DE PLATO: «La frattura tra pensiero ed emozioni porta a comportamenti distruttivi, anche contro se stessi»
«Raptus imprevedibili, anche in chi è sano»


Bologna. «Anche all’interno di un ottimo progetto di reinserimento sociale, come quello costruito per Simone dal Dipartimento di salute mentale dell’Ausl, non è possibile nè prevedere nè eliminare del tutto eventuali comportamenti distruttivi». Giovanni De Plato, docente di Psichiatria all’Università di Bologna, che rapporto c’è fra il disturbo schizofrenico e la possibilità di commettere un crimine?
«Premesso che è sempre difficile pronunciarsi su casi singoli, perchè bisognerebbe prima conoscere la storia del soggetto e della sua famiglia, diverse ricerche dimostrano che non c’è alcun rapporto fra la schizofrenia ed eventuali comportamenti distruttivi. Uno studio recente prova, al contrario, che le persone affette da questo disturbo commettono meno crimini rispetto a quelli compiuti da soggetti “sani” in una grande città americana».
Quindi il disagio mentale non può spiegare il gesto del ragazzo che ha strangolato la nonna?
«Chi ha un disagio così grave è certamente più vulnerabile, ed è più esposto al rischio di commettere gesti violenti rispetto ad altri. Ma il rischio si trasforma in azione solo in una situazione di stress particolarmente intenso e persistente, che il soggetto non riesce più a sopportare».
Nell’interrogatorio davanti al magistrato il giovane ha raccontato di una discussione telefonica, non si sa ancora con chi, che avrebbe fatto scattare la sua ira. La telefonata potrebbe aver fatto precipitare una condizione di forte stress?
«Le persone gestiscono i loro comportamenti in modo “normale” quando legano i comportamenti al pensiero ed alle emozioni. Quando siamo sottoposti ad un’emozione negativa particolarmente forte e pervasiva (come la telefonata può essere stata, ndr) si può momentaneamente interrompere la connessione fra azione, pensiero ed emozioni. Ed è proprio questa frattura che porta a comportamenti distruttivi, contro gli altri o contro se stessi».
Il ragazzo, però, era in cura psicoterapica e farmacologica fin da adolescente. Non era prevedibile che compisse gesti violenti?
«La psichiatria e la psicologia oggi sono in grado di curare disturbi gravi come la schizofrenia, e soprattutto nella nostra città ci sono servizi di alta qualità che possono permettere ai pazienti un percorso di reinserimento sociale. Ma in nessun modo siamo in grado di prevedere eventuali comportamenti distruttivi, se è vero che un gesto violento può essere compiuto in ogni momento di particolare stress e disagio in cui l’azione non è più legata al pensiero».
Questo meccanismo, e questa imprevedibilità, valgono anche per le persone “sane”?
«Per i “sani” è anche peggio. Chi è seguito da un supporto psicologico è generalmente più capace di vivere le emozioni in modo adeguato». g.g.

l’Unità 18.3.07
POLEMICHE «Perché non possiamo essere cristiani», una cavalcata atea dal «Genesi» al cattolicesimo di oggi che ha suscitato ripulse e indignazione
Il matematico Odifreddi fa il verso a Voltaire e plagia Russell? Fa bene!
di Bruno Gravagnuolo


Odifreddi onnipresente. Ubiquo come lo spirito santo, narcisista alla «n». Uomo tutto. Da attore in scena al Festival della Matematica di Genova, dove intervista Dante e lo bacchetta. Questiona virtualmente col Dalai Lama, e inframmezza il pane della scienza con le apparizioni di una bellissima attrice senza veli. Ai fasti del festival matematico di Roma. Con Spasky, Barrow e Nash. Senza dire di collane, apparizioni Tv, saggi alti e bassi, articoli e articolesse, sparsi ovunque.
Del resto di questa vocazione ubiquitaria di «holy Gosth» o «Spirit», testimonia la sua biografia. Un matematico dei due mondi, che studiò tra Usa e Urss e che insegna logica sia a Torino sia alla Cornell University. Insomma, temperamento inflattivo che rischia di finire come un Alberoni di qualità e che magari se si fermasse un attimo senza disperdersi potrebbe persino lasciare un segno scientifico forte e risultare più persuasivo. Queste però ne conveniamo sono ubbie un po’ antiquate, in tempi vanitosi e mediatici. E non valgono a censurare il quia. Il merito e i meriti della battaglia di Odifreddi, di là dello scintillìo narcisistico. Prendete ad esempio il suo ultimo libro, che ha sollevato ripulse moralistiche: Perché non possiamo essere cristiani (Longanesi, pp. 264, euro 14, 60). Ebbene è utilissimo, non di rado spiritoso senza girare attorno alle questioni, ben scritto e ben documentato. Magari ridondante, e persino plagiaro (confesso) nel titolo, che occhieggia a Croce e Bertrand Russell. E infine addirittura scontato, su molteplici aspetti che investono l’irratio dei misteri della fede cristiana, biascicati inconsapevolmente da tanti. E però la cavalcata di Odifreddi, dal Genesi con le sue insensatezze, all’insabbiamento autoritario degli scandali pedofili in seno alla Chiesa, incide. È onesta e veritiera. E costringe ogni «uomo di buona volontà» e retta ragione a fare i conti con l’arbitrio dottrinario e autoritativo di una fede istituzionale che, malgrado contraddizioni e stranezze, pretende di bel nuovo di stare a fondamento delle leggi civili. E in nome della razionalità occidentale! Tale è infatti la campagna che il cattolicesimo con questo papato, ha intrapreso. Con la scusa che le leggi civili da sole non bastano. E che lo stato laico democratico da solo non si fonda. E che necessita di un fondamento esterno, pena la caduta nella negazione della vita, nella violenza e quant’altro. Talché sarà pure la «scoperta dell’ombrello», come scrive Giorgio Israel sul Foglio, che Elohim, nel Genesi biblico è plurale allusivo alle divinità antropomorfe del Toro e del Vitello. Con tanti saluti al monoteismo. E sarà pure l’acqua calda che i «dieci comandamenti» furono rappezzati in momenti diversi, tra Monte Oreb e Sinai e poi ricodificati per gli ebrei, con contraddizioni tra fasi differenti. E infine sarà anche banale che i Vangeli erano almeno 18, i sinottici più gli apocrifi. Che sono scritti per sentito dire. E che molti miracoli sono ridicoli e sconnessi, come quello del diavolo esorcizzato e messo in corpo a mandrie di maiali. E tuttavia repetita juvant, e non «scocciant» (lat. corrotto). Già, non è noioso ricordare, come fa Odifreddi, che la «transustanziazione» dell’Ostia è una magia inverosimile e aristotelicamente macchinosa: mutazione del pane in corpo e sangue di Cristo con le specie sensibili intatte. Laddove più ragionevolmente Lutero sosteneva che è il corpo fantasmatico di Cristo a entrare nel pane, senza alterarne la sostanza. Mentre ancor più ragionevolmente Zwingli diceva che il sacrificio era un «hoc facite in commemoratione mei»: una cerimonia simbolica. Sicché non solo ci si chiede di credere a una sostanza trasfigurata negando quel che appare. Ma se ne fa un vincolo dogmatico che anatemizza o salva a seconda che si voti per i Dico o no.
Altra questione, capitale. Che Odifreddi ripropone all’attenzione. Il nesso tra cristianesimo e libertà. Vero, la fede cristiana fu un ingrediente di liberazione dei servi. Ma solo un ingrediente e più spesso un potente ostacolo. S. Paolo infatti era ultra-maschilista e approvava la schiavitù. Come Pio IX del resto, che chiamava «cani» gli ebrei sciolti dal getto dopo Porta Pia. E però vogliono farlo santo. E allora ben venga Odifreddi a rifare il verso a Voltaire.

il manifesto 18.3.07
Da Michael Atiyah una sfida alle tentazioni della logica
«Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, ma il suo motore è l'immaginazione, non il cieco calcolo». Un dialogo con il celebre studioso anglolibanese noto per il teorema che porta il suo nome e ha rivelato inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi
Luca Tomassini


«Credo che la matematica sia costruita a partire dalla nostra esperienza del mondo esterno». C'è una tensione, una vera linea di frattura, che attraversa la matematica fin dalle sue origini, quella tra intuizione e formalismo, verità immediatamente percepibile e dimostrazione. Un contrasto cui Michael Francis Atiyah - che abbiamo incontrato ai margini del Festival della matematica a Roma - non si è mai arreso, come dimostra la sua straordinaria biografia scientifica. Nato a Londra settantanove anni fa da padre libanese e madre scozzese, cresciuto prima in Sudan e poi nel Regno Unito, è universalmente riconosciuto come una delle più geniali menti matematiche del Novecento. «Per tutta la vita - spiega - ho sempre cercato di costruire ponti», e il celebrato teorema che porta il suo nome (insieme a quello del collega Isadore M. Singer) ha non solo rivelato profonde e inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi ma ha avuto un ruolo straordinario nel colmare il divario tra il mondo della matematica pura e quello della fisica teorica. «La matematica - dice ancora Atiyah - comincia con idee generali che diventano via via più precise e specializzate. Durante il XX secolo le sue parti principali sono state affrontate separatamente, con la ben fondata speranza di realizzare progressi più rapidi. Sul lungo periodo questa strategia espone però al pericolo di perdere una visione di insieme, ma oggi per fortuna viviamo di nuovo in un'epoca di sintesi».
Ci può spiegare come giustifica la sua scelta di avversare, nel dibattito sui fondamenti della matematica, un orientamento basato sulla logica?
Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, dimostrazioni di carattere logico: credo sia un grave errore. È vero, è il cemento che tiene unita tutta la matematica, il suo obiettivo ultimo, ma il mezzo con cui la otteniamo è l'immaginazione, non il cieco calcolo. Non si comincia un lavoro con chiodi e martello, ma con un'idea.
Il calcolo, appunto, viene spesso identificato con l'algebra e contrapposto alla geometria. Anche per lei è così?
Ho sempre avuto un grande interesse per la questione del rapporto tra algebra e geometria. E poiché la nostra percezione di noi stessi e del mondo si articola intorno alle categorie di tempo e spazio, trovo del tutto naturale supporre che esse siano al cuore di questo problema. Per quanto riguarda la geometria, nessuno dubita del fatto che il suo principale oggetto di studio sia lo proprio spazio, come lo percepiamo in un determinato istante. Al contrario, nell'algebra moderna effettuiamo operazioni in una determinata sequenza, una dopo l'altra, nel tempo appunto: è un algoritmo di calcolo, niente affatto diverso da quelli utilizzati da un computer che elabora i suoi dati. Del resto, il pensiero logico-simbolico comporta il passaggio da una serie di assunzioni a delle conclusioni.
Lei ha definito i vantaggi offerti dall'uso del computer come una «offerta faustiana». Quali sarebbero le tentazioni in campo?
Era una provocazione, naturalmente, e ne ho pagato il prezzo subendo un gran numero di critiche. Per capire quale sia il problema torniamo al pensiero geometrico: la sua natura sintetica, intuitiva, è il miglior esempio di ciò che intendo per comprensione. Nella storia della matematica invece l'algebra è nata come un ausilio per il calcolo, la verifica, compito questo che svolge in maniera davvero egregia. Quando facciamo un'operazione algebrica introduciamo un input e smettiamo di pensare al suo significato, semplicemente manipoliamo simboli seguendo regole formali e infine otteniamo una risposta. In mezzo c'è una scatola nera. La scomparsa del desiderio di dare un'occhiata al suo interno è il pericolo che vedo nella diffusione del calcolo automatizzato. Quando ho definito questo fenomeno «faustiano», immaginavo il diavolo mentre si presenta a uno scienziato e gli dice, suadente: «ecco una macchina meravigliosa, basta formulare un problema e lei ti fornisce la risposta. Tutto quello che devi fare per averla è rinunciare alla tua anima, al desiderio di comprendere». Certo, come dimostra la disputa tra Isaac Newton e Gottfried Leibniz, le cose non sono sempre così semplici. Newton sviluppò il suo calcolo infinitesimale per descrivere il movimento dei corpi e in ogni suo ragionamento il riferimento al mondo reale conservava un'importanza centrale. Leibniz era invece un formalista e il suo calcolo era un'algebra molto più semplice da utilizzare. Tra i due, è il filosofo che alla fine ha avuto la meglio: oggi, infatti, scriviamo il calcolo differenziale seguendo la sua notazione. Resta però il fatto che questa scelta non favoriva la comprensione sintetica di tutti gli aspetti del problema. Capire è vedere, tutto insieme e nello stesso istante. Persino nel procedimento artistico possiamo distinguere un aspetto tecnico e uno concettuale, e la tentazione diabolica sta nel considerare solo il primo.
In passato lei ha collaborato all'organizzazione di esperimenti il cui intento era quello di chiarire i fondamenti biologici del pensiero matematico. Ce ne può sintetizzare i risultati?
Alcuni miei colleghi sostengono che per loro ragionare in termini geometrici sia completamente naturale, altri hanno la stessa sensazione riguardo la formulazione algebrica dei problemi. Mi è sempre interessato stabilire se queste inclinazioni avessero un fondamento neurologico e per questo ho cercato di verificare dov'è che nel cervello «avviene la geometria» e dove «avviene l'algebra». La mia ipotesi è che la geometria coinvolga l'emisfero deputato alla visione mentre l'algebra, proprio come il linguaggio, abbia a che fare con l'emisfero specializzato nella percezione del movimento. L'idea era molto semplice: utilizzare tecniche di imaging cerebrale per «vedere» cosa succede durante la risoluzione di problemi matematici. Naturalmente abbiamo iniziato con domande elementari e abbiamo poi verificato che, come previsto, semplici calcoli aritmetici coinvolgono le aree del linguaggio mentre all'opposto problemi più complessi sulla natura dei numeri richiedono l'attivazione dell'altro emisfero. Sono risultati incoraggianti e sono convinto che proseguendo su questa strada nel giro di dieci o vent'anni avremo la possibilità di rispondere a una serie di interrogativi che per secoli hanno impegnato senza successo i filosofi. Se vogliamo capire come pensa il cervello, la matematica è un ottimo punto di partenza.
Eppure importanti filosofi della mente come John Searle ritengono gli strumenti concettuali attualmente a nostra disposizione insufficienti a rispondere a interrogativi quali la natura del pensiero, anche matematico. Lei è d'accordo?
Talvolta un problema può essere così complesso da rendere impossibile una risposta definitiva. Per esempio, cosa è la coscienza? Cosa è il pensiero? Credo che quesiti del genere siano destinati a svanire, a perdere di significato. Per millenni gli esseri umani si sono interrogati sulla natura della vita, oggi ragioniamo in termini di selezione naturale, cellule, proteine, Dna. La domanda si è moltiplicata in tante domande, più specifiche e sofisticate.
Dunque ha un fondamento biologico quella che Eugene Wiegner definiva la «irragionevole efficacia della matematica» nella descrizione scientifica della realtà?
Come le dicevo, la matematica è costruita a partire dal mondo esterno. È poi così sorprendente che sia anche efficace quando si tratta di descriverlo? In fondo, la mente umana è stata modellata dalla selezione naturale, che in qualche modo l'ha resa «compatibile» con la realtà. Ma la nostra esistenza, le nostre percezioni restano confinate a scale macroscopiche e per questa ragione considero sorprendente che la matematica continui a essere applicabile anche al mondo delle particelle elementari. Ma chi può dire qual è la verità? La matematica è veramente uno specchio della realtà o solamente l'immagine che ce ne restituisce il cervello, con tutti i suoi limiti e possibili errori? È proprio ora che la fisica diviene sempre più sofisticata, proprio come la matematica necessaria a descriverla, che le domande poste da Kant tornano di grande importanza. Stiamo sfiorando la natura ultima dello spazio e del tempo o solo costruendo modelli matematici sempre più complicati per adattarli al meglio a quello che osserviamo? I rapporti tra matematica, fisica e realtà continuano a restare un mistero.
Lei ha formulato e dimostrato un teorema che porta il suo nome e che ha trovato sorprendenti applicazioni proprio nel campo della fisica quantistica, influenzando profondamente lo sviluppo della teoria delle stringhe. Ritiene che l'uso sempre più massiccio di sofisticati strumenti matematici stia cambiando la natura della ricerca nel campo della fisica?
La fisica si confronta oggi con domande sulla realtà a scale talmente piccole e energie talmente alte che la verifica sperimentale diventa sempre più difficile, se non addirittura impossibile, e per questo le tecniche che si hanno a disposizione sono per lo più matematiche. Non sappiamo se quelli della fisica odierna siano veri passi avanti nella comprensione del mondo o solo eleganti costruzioni concettuali, ma francamente non vedo alternative all'uso della matematica.
Viceversa alcuni ricercatori hanno messo in discussione il significato della dimostrazione come garanzia della certezza matematica. Oggi esiste persino una rivista dedicata alla cosidetta «matematica teorica», dove sono presentati «teoremi» corroborati da analogie con la fisica. Considera positivi questi sviluppi?
Se un nuovo strumento matematico applicato alla fisica non supera la prova dell'esperimento, non abbiamo alternative a rinunciare al suo uso. Ma se qualcuno partendo da idee fisiche è in grado di ottenere risultati matematici, questi resteranno per sempre. In questo senso la matematica ha tutto da gudagnare da questo rapporto. Molti ricercatori lamentano che le teorie fisiche non sono rigorose ma basate sull'intuizione, ma non colgono l'essenza del problema. Da esse, come è sempre successo nella storia della matematica, vengono suggerimenti, nascono congetture che in molti casi sono state successivamente verificate con altri metodi. Non credo esista il rischio che si possa confondere ciò che è stato dimostrato con quello che non lo è stato.
Nel discorso con cui nel 1995 lasciava la presidenza della Royal Society lei denunciava con parole molto aspre il disinteresse degli scienziati per il crescente «sospetto» che la società nutre nei loro confronti. La pensa ancora così?
Più che mai. Il ruolo della scienza e della tecnologia è enormemente cresciuto negli ultimi due secoli e per questa ragione in una società democratica sono i cittadini che, almeno in linea di principio, dovrebbero prendere decisioni sui finanziamenti alla ricerca. Ma la scienza, specialmente la «grande scienza», è oggi sempre più prigioniera del rapporto con privati, governi e apparati militari che non amano dire alle persone quello che, secondo loro, non devono sapere e i rischi di corruzione intellettuale si sono moltiplicati. Gli scienziati dovrebbero mantenere la loro integrità, senza nascondersi dietro pretesti futili come quello per cui il pubblico non sarebbe mai sufficientemente «educato» per compiere delle scelte. Oggi purtroppo gli scienziati non si muovono così e le conseguenze sono sotto i nostri occhi: il sospetto nei loro confronti è sempre più diffuso.
Tra i suoi numerosi impegni sul fronte pubblico c'è stato anche quello al vertice di Pugwash, un'organizzazione internazionale di scienziati che da più di cinquant'anni si batte contro la proliferazione nucleare. Qual è oggi il suo bilancio?
Dopo la caduta del Muro abbiamo avuto una grande opportunità che per ragioni politiche non è stata colta e oggi la guerra è tornata sulla scena, insieme alla proliferazione nucleare. Sono sempre stato ottimista, ma è difficile esserlo oggi su basi razionali. Mi ricordo che Robert MacNamara, ministro della difesa di Kennedy e poi sostenitore dell'eliminazione delle armi nucleari, mi confidò di essere approdato alle sue convinzioni dopo la sua esperienza nella crisi dei missili a Cuba, quando sembrò che fossimo arrivati molto vicini a un conflitto nucleare. Benché ritenesse questa eventualità effettivamente remota, sottolineava però che una piccola probabilità su lungo arco di tempo può trasformarsi in certezza.

sabato 17 marzo 2007

il Riformista 17.3.07
BIOLOGIA. UNA RISPOSTA A GILBERTO CORBELLINI SUL TEMA DELLA GENETICA E DEI GAY
Ma la sessualità umana è una dialettica tra identità diverse
Il professore attacca Livia Profeti accusandola di neutralizzare la scienza evolutiva per opporsi ai tentativi della Chiesa di fondare la «presunta normalità naturale» sulla realtà biologica. In realtà si auspica lo sviluppo di una ricerca sul pensiero umano senza demiurghi divini
DI PAOLO FIORI NASTRO


Conosco Gilberto Corbellini da molti anni; abbiamo insegnato insieme Storia della medicina all’Università “La Sapienza” ed ho potuto apprezzare in molte occasioni il suo rigore intellettuale. Anche di Livia Profeti sono amico da molti anni, e so che conosce approfonditamente gli argomenti di cui scrive. Ho letto il suo articolo sul Riformista del 10/03/07 in cui esprime un pensiero complesso che si dipana però in modo assolutamente lineare. Ho dovuto leggere molte volte la risposta dell’amico Corbellini del 14/03/07 perché non riuscivo a spiegarmi i toni, a dir poco “virulenti”, con i quali lo scritto della Profeti viene stigmatizzato.
Pur consapevole della complessità delle questioni toccate nei due articoli ho ritenuto di dover intervenire anche perché credo che l’approfondimento di questi temi sia di notevole utilità per la ricerca sulla realtà umana che la sinistra tutta avverte oggi come una priorità assoluta.
L’articolo di Corbellini è centrato sull’affermazione che l’omosessualità ha una base genetica anche se la frase «lasciamo da parte la questione se i geni dell’omosessualità danno una marcia in più» lascia veramente perplessi perché potrebbe essere espressione di un pensiero che da solo minerebbe alla base l’intero articolo. Accanto a questo egli accusa la Profeti di cadere nella trappola di neutralizzare la biologia per opporsi ai tentativi della Chiesa di fondare la «presunta normalità naturale» proprio sulla realtà biologica, mentre la biologia avrebbe il potere di disvelare tutte «le credenze superstiziose attraverso cui sono influenzate le persone più sprovvedute». In realtà la Profeti non liquida affatto la biologia, anzi auspica che si sviluppi a sinistra la ricerca su un pensiero umano «che si crea a partire dalla nostra biologia, senza necessari interventi di demiurghi divini».
Detto questo mi sembra evidente che la questione posta sul tavolo dalla Profeti, ma soprattutto dalla risposta di Corbellini, riguarda non tanto l’omosessualità quanto la sessualità e in particolare la sessualità umana.
Se è vero che la specie umana è «il prodotto della evoluzione» è anche evidente che ciò che definisce l’“umano” non è solo una variazione quantitativa di quanto si manifesta negli animali, ma anche e soprattutto una variazione qualitativa (penso al pensiero, al linguaggio verbale, alla capacità di creare immagini che è la base della creatività scientifica e di quella artistica). Un amico non perde occasione di sottolineare come nessun animale abbia mai inventato nemmeno un ombrello. Non c’è alcun dubbio che la nostra realtà fisica sia la realizzazione di quanto è inscritto nel nostro codice genetico ma non esistono dubbi che la qualità della vita che il nostro organismo riesce a realizzare dipende da molti altri fattori genericamente definiti “ambientali” con i quali dobbiamo stabilire rapporti.
La sessualità è sicuramente uno degli aspetti in cui la lontananza dagli animali è più evidente sempre che si dia a questa parola un contenuto che non sia circoscritto al solo ambito fisico. L’argomento è spinoso e le posizioni controverse: dice monsignor Bagnasco sulla Repubblica del 15/3/07 che «la famiglia è un patrimonio naturale (quindi la Profeti non aveva torto) e il matrimonio è il vincolo tra un uomo e una donna che generano la vita».
È evidente che la sessualità cui fa riferimento il capo della Cei, da poco insediato, è una sessualità molto simile a quella animale, finalizzata alla procreazione. Gli animali sono molto poco inclini a perdere tempo, devono pensare alla sopravvivenza propria e del branco e quindi utilizzano la sessualità (nel senso dell’atto meccanico e nulla più) per realizzare la sopravvivenza della specie. Gli esseri umani invece, non so se dire per fortuna o purtroppo, godono di una libertà che permette loro di realizzare rapporti ben più ricchi e complessi all’interno dei quali la sessualità è ormai completamente sganciata dagl’intenti procreativi. Quando alla parola sessualità si fa seguire l’aggettivo umano si fa riferimento a quella possibilità che solo gli esseri umani hanno di realizzare la conoscenza di qualcuno che ci assomiglia ma che è al contempo completamente diverso da noi. È questo il vero cimento con cui gli uomini e le donne sono obbligati a confrontarsi: la conoscenza del diverso. È poco accettabile che si scinda la parola sessualità dalla parola identità perché la sessualità umana è dialettica tra due identità in cui ciascuno realizza la fusione tra realtà mentale e realtà biologica. Da questa prospettiva è nel rapporto tra uomo e donna che si realizza la massima diversità.

Repubblica 17.3.07
COME PENSANO I MISTICI
Un convegno a Roma
di Massimo Ammaniti


Un saggio di Daniel Dennett ha suscitato molte polemiche
Un'entità trascendente aiuta ad affrontare interrogativi nuovi
Le forme religiose si sarebbero sviluppate con l'homo sapiens
Il Nobel Romain Rolland, Freud e il misticismo indiano
Ci sono tecniche molto sofisticate di studio dei processi cerebrali
Neurobiologi e altri scienziati si interrogano su quali attività cerebrali entrano in gioco quando si prega o si sta in meditazione

Rompere l´incantesimo. La religione come fenomeno naturale è il titolo del libro del filosofo americano Daniel Dennett che ha suscitato negli Stati Uniti polemiche e critiche virulente (uscirà in Italia ad aprile, edito da Raffaello Cortina). L´intendimento dichiarato di Dennett è quello di sfidare il tabù, ossia l´incantesimo in base al quale le religioni siano verità divine rivelate e che non possano essere oggetto di investigazione scientifica. Cercando di rispondere al suo interrogativo iniziale - «da dove nasce la nostra devozione per Dio?» - Dennett si inoltra in un sentiero scivoloso, già percorso da molti altri pensatori come ad esempio Sigmund Freud, che riteneva che i sistemi religiosi fossero «la nevrosi ossessiva universale dell´umanità», una risposta alla paura della morte che attanaglia gli esseri umani, soprattutto se la vita rappresenta soltanto il frutto del caso.
Un analogo tentativo è stato effettuato anche dal filosofo della scienza Richard Dawkins nel suo libro The God Delusion, (L´illusione di Dio), che è stato recensito qualche mese fa sul London Review of Books, non da un teocon ma da uno studioso del marxismo che rileva in modo comprensibilmente critico che «in un libro di circa 400 pagine l´autore quasi non riconosce che un solo beneficio possa essere scaturito dalla fede religiosa, un punto di vista che non solo costituisce un apriori improbabile ma anche empiricamente falso».
Per ritornare a Dennett non si tratta, dal suo punto di vista, di discutere le prove dell´esistenza di Dio quanto piuttosto di sottoporre le convinzioni religiose dei credenti all´indagine scientifica utilizzando discipline diverse dalla teoria dell´evoluzione, all´antropologia e all´archeologia. Le forme religiose si sarebbero sviluppate ed evolute con l´avvento dell´Homo Sapiens, ma addirittura col Neanderthal, probabilmente in relazione al linguaggio, ossia alla dimensione simbolica. Non evento soprannaturale, ma naturale ossia un fenomeno umano fatto di eventi, organismi, oggetti, strutture e forme che obbediscano alle leggi della biologia e della fisica.
Cercando di ricostruire lo sviluppo della comunità umane decine di migliaia di anni fa la mente andò incontro a trasformazioni complesse con l´acquisizione di sistemi cognitivi distinti, fra cui il riconoscimento delle intenzioni delle altre persone oppure un sistema per individuare le fonti di inganno, proprio per migliorare le capacità adattative e di previsione dei possibili pericoli. È a questo punto che in base ad un sistema mentale così complesso prenderebbe corpo l´esigenza di un´entità che trascenda la dimensione immediata della realtà ed aiuti ad affrontare interrogativi nuovi e conflitti difficili da risolvere.
Le credenze e le pratiche religiose servono a confortare nei momenti di dolore e ad attenuare la paura della morte, ma anche a darsi delle spiegazioni di fenomeni incomprensibili, ad esempio il tuono o il fulmine. Ma c´è un altro aspetto che nel tempo si è rivelato vincente, il senso di appartenenza ad una religione favorisce la cooperazione e la coesione sociale, pensiamo che cosa seppe fare il popolo ebraico fuggendo dall´Egitto, unito nella comune convinzione religiosa con la guida di Mosè.
Naturalmente, ed è lo stesso Dennett ad ammetterlo, si tratta di ipotesi e supposizioni che dovranno essere confermate, anche se sono troppe semplicistiche e riduttive nel tentativo di spiegare un evento complesso come la religione. Forse la teoria evoluzionistica, che ha avuto ed ha grandi meriti scientifici, rischia di diventare una nuova credenza se pretende di spiegare ogni fenomeno umano.
Forse è più interessante circoscrivere il campo e studiare le credenze religiose come ad esempio fece il padre della psicologia moderna William James più di un secolo fa nel suo libro Varie forme di esperienza religiosa riconoscendo all´esperienza mistica il fondamento di ogni religione. Ma oggi l´esplorazione delle credenze e del senso di religiosità si è ampliato allo studio dei processi cerebrali attraverso nuove tecniche di indagine molto sofisticate, come viene messo in luce nelle Giornate di Studio dedicate al «Mystic Brain» (Il cervello mistico) organizzate in questi giorni presso l´Università di Roma La Sapienza.
Queste ricerche sono iniziate alla fine degli anni ´90. Vanno ricordate ad esempio quelle dell´Università della Pennsylvania che hanno studiato il cervello di credenti buddisti mentre facevano degli esercizi di meditazione oppure di suore francescane che pregavano in modo contemplativo.
Nonostante la diversità dei gruppi e delle appartenenze religiose si è messo in luce che durante la preghiera o la meditazione si attivano i lobi prefrontali, ossia la parte più recente del cervello che interviene nei processi mentali superiori come l´intenzionalità, la decisionalità e la capacità di focalizzare l´attenzione. Se da una parte avviene una concentrazione meditativa o mistica tipica del credente, dall´altra si è rilevata una ridotta attività del lobo parietale posteriore che è invece è un´area associativa che serve all´orientamento nello spazio e alla percezione degli stimoli dell´ambiente circostante. Infatti nell´intensità dell´assorbimento religioso e nel senso di unicità si perde di vista quello che ci succede intorno in una sorta di movimento psichico trascendente.
Naturalmente esistono delle profonde variabilità del senso religioso individuale, che, in base a queste ricerche, dipendono anche dal sistema cerebrale della serotonina e da altri neuromodulatori che intervengono sui recettori cerebrali oppioidi contribuendo ad un senso di benessere e di pacificazione interiore. Forse è questo che lega molti credenti alle proprie pratiche religiose contribuendo ad un senso di pace interiore, che non viene garantito da nessuna altra attività.
Come scrisse il Premio Nobel Romain Rolland, scrittore, poeta e studioso del misticismo indiano, in una lettera a Freud proprio su questo tema: «Mi sarebbe piaciuto che lei avesse fatto un´analisi del stato d´animo religioso spontaneo o più esattamente del sentimento religioso, che è totalmente diverso dalle religioni e molto più durevole... Mi sento a mia volta familiare con questa sensazione. Attraverso tutta la mia vita non mi ha mai abbandonato, si tratta di una fonte di rinnovamento vitale».

Repubblica 17.3.07
L’Ordine dei medici: obiettore l’80% dei ginecologi. Flamigni: illegale non vendere farmaci prescritti
E negli ospedali scatta l’allarme "Già ora a rischio la legge 194"
di Maria Novella De Luca


ROMA - L´ultima denuncia è di pochi mesi fa: "Non ce la facciamo più, se continua così non potremo più garantire l´applicazione della legge 194". Firmato: i medici "non obiettori" di Roma e provincia. Perché il tema è delicato, e l´appello del Vaticano, affinché sanitari e farmacisti cattolici si astengano da quelle pratiche che in modo diretto o indiretto hanno a che fare con la tutela della vita, pone l´accento su una situazione drammatica. Già oggi in Italia circa l´80% dei ginecologi si dichiara obiettore di coscienza, si rifiuta cioè di praticare aborti negli ospedali, con punte che vanno dal 96,6% della Basilicata al 68,6% della Lombardia, costringendo le donne a peregrinare anche di regione in regione. Alcuni nosocomi infatti, soprattutto nelle province governate dal centrodestra hanno addirittura chiuso decine di reparti dove veniva eseguita l´interruzione volontaria di gravidanza.
Un atteggiamento che si sta estendendo al rifiuto di molti medici di somministrare la pillola del giorno dopo. Tanto che, soprattutto nei week end, per le donne, spesso giovanissime, inizia un calvario che le porta di ospedale in ospedale, fino a che un "non obiettore" consegna loro la ricetta. «Se il consultorio è aperto - spiega un medico del San Camillo di Roma - il farmaco viene prescritto dai medici del servizio, o dal medico generico. Ma se una donna ne ha bisogno durante il fine settimana, Pasqua o Natale, allora è molto più difficile, perché spesso i sanitari del pronto soccorso si rifiutano di prescriverla, creando così problemi seri, visto che il tempo massimo entro cui prendere la pillola è di 72 ore». Ad aggravare ulteriormente la situazione, lamenta il medico, «c´è stata da quest´anno l´introduzione del ticket, che ha fatto salire la spesa della pillola a 36 euro, cifra che per un´adolescente può risultare troppo alta».
Una prassi illegittima però, sottolinea Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli Ordini dei Medici. «L´obiezione di coscienza nel nostro ordinamento è prevista solo per la procreazione assistita e l´aborto. Quanto invece alla contraccezione d´emergenza, cioè la pillola del giorno dopo, questa non si può ritenere dal punto di vista scientifico un aborto. Tanto è vero che non prevede le procedure indicate per l´interruzione di gravidanza dalla legge 194. E il medico, deve adoperarsi perché il paziente possa accedere in tempi appropriati al servizio richiesto, come ad esempio l´acquisto della pillola del giorno dopo».
Non può esserci quindi "omissione di cure" e l´appello del Vaticano ai farmacisti si inserisce su un terreno scivoloso. Dove la realtà è piena di ombre, come spiega il ginecologo Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di Bioetica. «Questo dilagare dell´obiezione di coscienza, che costringe le donne ad affrontare rischiose liste d´attesa per poter effettuare una interruzione di gravidanza, è soltanto in pochissimi casi dettato da reali convincimenti etici o religiosi. La verità - dice Flamigni - è che fare gli aborti è considerato un lavoro minore, che non aiuta nella carriera, magari non è ben visto dai vertici sanitari, e così per assicurare alle donne un diritto, gli ospedali devono prendere medici esterni e personale precario. Sarò provocatorio ma vorrei che tutti questi obiettori fossero costretti ad utilizzare il tempo che si rifiutano di "concedere" alla legge 194, per fare promozione alla cultura della contraccezione. Rispetto all´invito fatto dal Vaticano ai farmacisti credo che questo violi tutte le regole: non è legale rifiutarsi di vendere un farmaco regolarmente prescritto, che sia un anticoncezionale o la pillola del giorno dopo. Il farmacista può finire in tribunale. Davvero non capisco questa nuova crociata della Chiesa, contro quelle che sono leggi dello Stato e diritti civili. Il Paese va da un´altra parte, la gente non li segue più, e questa guerriglia di religione non serve davvero a nessuno».

Corriere della Sera 17.3.07
L'Unione teme l'asse tra Chiesa e destra
di Massimo Franco


È probabile che non inciderà né sulla strategia di Benedetto XVI, né sulla «nota» che la Cei sta preparando sulle coppie di fatto. Ma politicamente, l'approccio morbido del cardinale Carlo Maria Martini ha rotto l'immagine monolitica della Chiesa; e offerto al centrosinistra un appiglio prestigioso al quale aggrapparsi per contestare la tesi di una collisione inevitabile con il Vaticano. Difendere il provvedimento sulle coppie di fatto, adesso, viene presentato come un atto che non può comportare mezze scomuniche. I commenti dell'Unione tradiscono il sollievo, anche se non è scontato che la legge passerà in Parlamento.
La novità è un'altra: per la prima volta, sui Dico la maggioranza si sente meno sola di fronte alle gerarchie. E usa il cardinale Martini come testimonial di un dialogo che il Vaticano di Benedetto XVI si ostinerebbe a rifiutare. Si nota un'inversione dei ruoli curiosa. Il disappunto del fronte berlusconiano contro l'ex arcivescovo di Milano, accusato di «cedere alla modernità», somiglia a quello che esprimeva nei giorni scorsi la maggioranza contro la rigidità dottrinale del Papa. Insomma, ogni schieramento usa le gerarchie per legittimare le proprie posizioni e screditare quelle avversarie.
Ma per l'Unione è un esercizio complicato dai segnali che continuano ad arrivare dalla Santa Sede. La «Pontificia accademia per la vita» che invoca l'obiezione di coscienza di medici e politici conferma le pressioni sui parlamentari chiamati a pronunciarsi sui Dico. Cresce l'impressione che la scelta sarà compiuta secondo logiche di schieramento che il sindaco di Roma, Walter Veltroni, vede come una vittoria dell'«integralismo» e del «laicismo esasperato».
Fausto Bertinotti teme una sconfitta del governo al Senato. Per questo, da presidente della Camera e dirigente del Prc, esalta la «laicità dello Stato e del legislatore» contro i «vincoli confessionali». Ma le tensioni col Vaticano ormai vanno oltre le unioni civili. Mimmo Lucà, dei Cristiano-sociali, evoca ed esorcizza «la saldatura tra integralismo cristiano e destra conservatrice». Nega la cittadinanza alla «Chiesa soggetto politico». Ed assegna al Partito democratico il compito di «evitare che quell'alleanza si saldi».
È un allarme indirizzato anche all'interno dell'Unione: ai settori che pensano di ridurre la «strategia vaticana» del centrosinistra all'anticlericalismo. Lo stesso Prodi cerca di abbozzare una risposta di compromesso. Invita a conciliare «l'ispirazione religiosa e la fedeltà ai propri convincimenti di fede» con «l'esercizio della responsabilità politica». Il premier sembra rivendicare la legge sui Dico quando spiega che occorrono «spirito aperto e disponibilità all'ascolto delle domande nuove che vengono dalla società». Ma è improbabile che si tratti di un'analisi accettata e condivisa oltre Tevere.
Il governo loda Martini ma resta l'ostacolo della legge sulle coppie di fatto

Repubblica 17.3.07
In Cina rivoluzione capitalista
La proprietà non è più furto
Il Parlamento vara la parità tra pubblico e privato
Un nuovo passo verso l'economia di mercato cancellando un altro pezzo dell'eredità storica di Mao
di Federico Rampini


PECHINO - La Cina fa un passo in più per essere una «normale» economia di mercato, cancellando un altro pezzo dell´eredità storica di Mao Zedong. Il Parlamento di Pechino ieri ha approvato l´attesa legge che sancisce la protezione della proprietà privata, e stabilisce il principio della parità di diritti fra proprietà privata e proprietà statale. Al tempo stesso è stata abolita l´ultradecennale agevolazione fiscale a favore delle imprese straniere, retaggio delle prime fasi del suo decollo industriale, quando la Repubblica popolare aveva bisogno di introdurre incentivi speciali per attirare capitali esteri e rafforzare la propria capacità di esportazione: ora l´aliquota fiscale è stata equiparata al 25% per tutte le imprese.
Il varo del nuovo testo sulla proprietà privata da parte del Congresso Nazionale del Popolo (così si chiama l´assemblea legislativa) può sembrare un caso di ritardo di adeguamento della legge alla realtà. Di fatto la proprietà privata esiste in Cina da oltre un quarto di secolo, cioè da quando il successore di Mao, Deng Xiaoping, iniziò nel 1979 la transizione verso l´economia di mercato. Secondo uno studio compiuto nel 2005 dalla Federazione cinese dell´industria e del commercio - un´equivalente della Confindustria - le imprese private contribuiscono per il 50% del Pil, e si arriva al 65% con l´aggiunta delle straniere. In certe regioni si stima che i privati versino fino all´80% del gettito fiscale delle amministrazioni locali. Per quanto i confini tra pubblico e privato siano meno trasparenti in Cina che nei paesi occidentali - molte società sono a capitale misto e si scopre che in ultima istanza l´azionista pubblico ha ancora un´influenza - tuttavia il capitalismo è ormai una realtà ben radicata in questo paese. Ma le normative non si erano ancora adeguate in misura sufficiente. Paradossalmente, per gli impegni legati alla sua adesione al Wto (l´organizzazione del commercio mondiale), la Cina si è dotata di una legge sulla tutela della proprietà intellettuale e del copyright, prima ancora di averne una sulla protezione della proprietà dei beni reali. Nel marzo 2004 il Congresso aveva sì introdotto nella Costituzione il principio che «la proprietà privata acquisita legalmente dai cittadini è inviolabile», ma nell´applicazione quotidiana del diritto la Costituzione è meno rilevante del codice civile. La nuova legge approvata ieri dal Congresso colma questa lacuna. Con la riforma di ieri migliora la certezza del diritto. E´ un fattore importante per favorire la crescita degli investimenti privati, in un paese dove la magistratura è ancora subordinata al potere politico e il rischio di arbitri ed abusi è sempre elevato.
Che la riforma di ieri non fosse scontata, lo dimostra la sua lunga e controversa gestazione. Ai vertici del partito l´idea originale di questa legge si affacciò già nel 1998 e a quell´epoca il Congresso costituì una commissione di nove esperti per scriverne il testo. L´anno scorso la legge era all´ordine del giorno della sessione del Congresso a marzo, ma l´opposizione uscì allo scoperto. Una petizione firmata da 200 esponenti del regime - studiosi autorevoli e dirigenti del partito in pensione - denunciò la riforma come un «tradimento della Costituzione socialista». Un noto esperto, il professor Gong Xiantian della facoltà di diritto di Pechino, ironizzò sulla «eguale protezione garantita alla limousine del miliardario e alla ciotola con cui il mendicante chiede l´elemosina». Era un´offensiva dell´ala ortodossa del partito comunista, ancora potente e capace di condizionare la leadership attuale del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. Tra gli argomenti usati dai conservatori, e molto popolari fra la gente, vi era il rischio che la riforma servisse a legalizzare ricchezze acquisite illegalmente dai dirigenti corrotti, attraverso l´appropriazione indebita di beni dello Stato. Gli argomenti usati dalla sinistra marxista sono pretestuosi: le leggi contro la corruzione esistono già e sulla carta sono assai severe (le sanzioni includono la pena di morte), la loro inefficacia deriva però dalla natura autoritaria del regime, dal monopolio di potere del partito unico, dalle protezioni di cui la nomenklatura corrotta gode nella magistratura e nella polizia. Alla fine le obiezioni dei veterocomunisti sono state superate e ieri il Congresso ha varato la legge sulla proprietà con una maggioranza tipicamente. cinese, del 99,1%. Ma le resistenze degli ideologi conservatori hanno sortito un risultato: ancora una volta dalla tutela della proprietà privata sono stati esclusi i terreni agricoli. Questo significa che le compravendite di terre rurali continueranno a essere soggette alla decisione delle autorità politiche locali. Questa differenza di trattamento giuridico mantiene i contadini in una posizione di inferiorità, alla mercé di dirigenti corrotti che espropriano le terre agricole per incassare tangenti da chi vi costruisce fabbriche o insediamenti residenziali. L´ideologia dell´ala sinistra del partito è servita quindi di copertura per rinviare la riforma della proprietà agricola, perpetuando così una fonte permanente di ingiustizie e soprusi.
A conferma del carattere controverso di questa legge, nel concludere la sessione legislativa del Congresso il premier Wen Jiabao ha evitato di menzionare la riforma della proprietà, e il testo preciso della nuova legge non è stato ancora divulgato.
Nelle conclusioni del primo ministro sono affiorate le stesse priorità enunciate un anno fa: sviluppo sostenibile, riequilibrio delle diseguaglianze sociali, maggiori investimenti nell´istruzione e nella sanità delle regioni più povere, lotta all´inquinamento. E´ il New Deal di tipo «socialdemocratico» con cui il nuovo gruppo dirigente legato a Hu Jintao cerca di correggere gli squilibri dello sviluppo economico e controllare i fermenti di conflitto sociale. Ma più la Cina diventa un´economia di mercato, meno il suo sviluppo obbedisce alle direttive del governo centrale. In quanto alla costruzione di uno Stato di diritto, i progressi saranno limitati finché il potere del partito unico resta il tabù che non si può mettere in discussione.

Corriere della Sera 17.3.05
Il leader della fronda marxista «Una truffa. Hanno vinto i ladri»
Il docente: «Un disastro, è stato scelto il capitalismo»
di Fabio Cavalera


PECHINO — Il professor Gong Xiantian ha da poco traslocato nella nuova sede dell'istituto di studi giuridici all'Università di Pechino. Pile di libri sono ancora accatastate attorno alla sua scrivania. Fanno bella mostra le opere complete di Marx e di Lenin, vecchie edizioni in lingua russa. Per due anni, questo docente quasi sessantenne ha tenuto alta la bandiera dell'opposizione alla legge sulla proprietà privata. Si è trascinato dietro un bel gruppo di accademici, ha riunito una parte del partito e per sette volte ha costretto l'Assemblea nazionale a rinviare il voto. È stato il promotore di un nuovo dissenso, un dissenso di sinistra. Le categorie della politica in Cina stanno cambiando. Identificare il professor Gong Xiantian con l'ortodossia conservatrice e con il purismo maoista, tanto meno con l'estremismo rivoluzionario, non ha senso ed è sbagliato. In verità, ciò che rappresenta lo studioso è un' area estranea alla vecchia nomenklatura. Una corrente di pensiero anticapitalista. Una «nuova sinistra» che si richiama ai principi dell'economia socialista con gli aggiustamenti indotti dai processi globali e suggeriti dalle aspirazioni consumiste del ceto medio urbano.
La Cina volta pagina. Riconoscere e disciplinare la proprietà privata significa — aldilà delle dichiarazioni formali dei dirigenti — abbandonare per sempre l'ideologia collettivista. Per lei, marxista, è una sconfitta.
«Indubbiamente è un cambiamento epocale. La legge sposta definitivamente gli equilibri: la Cina ha scelto il capitalismo».
Lei afferma che la legge sposta gli equilibri nella società, nell'economia, nel partito. Cosa intende?
«Occorre essere chiari. È una legge pessima costruita a tutela di quello che io chiamo il Triangolo di Ferro, il Triangolo padrone della economia cinese, il Triangolo del quale era esponente di rilievo il segretario di Shanghai. È l'alleanza che unisce i funzionari corrotti del partito, gli intellettuali ormai privi di coscienza e la borghesia prepotente ed egoista. È una legge pasticciata che causerà instabilità e che isolerà ancora di più il partito».
Perché una legge pasticciata?
«Da un lato equipara la proprietà collettiva e dello Stato alla proprietà privata: è una aberrazione teorica. Anche negli ordinamenti capitalisti si riconosce la superiorità dello Stato, nel senso che si riconosce l'inalienabilità di certi beni fondamentali. In linea di principio è lo Stato che deve proteggere la proprietà privata. Nel caso nostro invece lo Stato diventa l'oggetto da proteggere. Sarò un provocatore ma preferisco esprimermi con chiarezza: è una legge su misura per i ladri. Il Triangolo di Ferro sarà libero di fare il bello e il cattivo tempo. È l'affermazione definitiva di un blocco autoritario. E lo dimostra un particolare...».
Quale?
«La legge dice che la terra è un bene dello Stato e che lo Stato può cederne il diritto di utilizzo. Ebbene il diritto di utilizzo viene esercitato dal Consiglio di Stato, dal governo. Si espropria l'organo legislativo, l'Assemblea Nazionale. È molto sbagliato. Il via libera, per legge, all' arbitrio».
Lei resta convinto che la proprietà privata sia una sorta di delitto?
«Me ne guardo bene. Noi marxisti cinesi non siamo rimasti fermi a due secoli fa. Un cittadino ha il diritto di essere proprietario di una bella casa o di una macchina o di tutto ciò che serve nella vita quotidiana. In un ordinamento socialista sono i mezzi materiali della produzione che rimangono di proprietà pubblica. In Cina non sarà più così. I corrotti si approprieranno dei beni dello Stato».
La stragrande maggioranza dei delegati al Congresso del popolo ha approvato la legge.
«È una legge costruita apposta per non essere capita. Il Triangolo di Ferro, d'accordo con gli Stati Uniti, ha agito in modo furbo. Non sono solo io a dirlo. Siamo in tanti, dentro e fuori il partito a sostenere che questa legge contraddice il pensiero e la linea del grande Deng Xiaoping. È un tradimento che avrà conseguenze nefaste quando il popolo si accorgerà che ad avvantaggiarsene saranno i corrotti.
È l'alleanza tra i funzionari di partito corrotti, gli intellettuali privi di coscienza e la borghesia egoista».

Repubblica - Genova 17.3.07
Reich, l'inquieto pensatore: un libro per non dimenticarlo

Una celebrazioncina non si nega a nessuno negli anni tondi della morte o della nascita, anzi, sono sempre più le stesse annate succulente a essere festeggiate con fragore, specie dalla produzione editoriale di scuola giornalistico-televisiva. Nel diluvio ininterrotto di commemorazioni, ricorrenze, anniversari, solennità, rievocazioni, genetliaci e giubilei, ancora nessuno ha speso una parola per ricordare, a cinquant´anni della morte, Wilhelm Reich, uno dei pensatori più originali del secolo scorso, uno dei suoi spiriti più inquieti, curiosi, anticonformisti, genuinamente libertari, e forse l´unico a vantare uno score di persecuzioni completo da parte di tutti i totalitarismi del Novecento. In ordine cronologico gli capitò di essere perseguitato dai nazisti per gli studi che tendevano a trovare una sintesi tra le teorie (e le pratiche) freudiane e quelle marxiste (oltre che per le sue origine ebraiche, va da sé), di essere espulso con ignominia dalla comunità internazionale degli psicoanalisti per delitto di lesa maestà freudiana, di essere cacciato dal partito comunista austriaco e poi osteggiato e boicottato dalla sessuofobia stalinista per aver aperto consultori sessuologici per i ragazzi delle classi lavoratrici, infine di essere imprigionato e lasciato morire (appunto nel 1957) in un democratico carcere della democratica America in quanto devoto al culto del sesso e dell´anarchia. Tutti gli snodi fondamentali della biografia intellettuale, scientifica ed esistenziale di Reich furono scaldati e rischiarati da colossali falò delle sue opere. Farsi bruciare i propri scritti da nazisti, stalinisti e democratici è un privilegio capitato a pochi. Particolarmente prestigioso l´ultimo rogo, quello del 23 agosto 1956 a New York, quando funzionari della Food and Drug Administration svuotarono di pubblicazioni e documenti gli archivi dell´istituto di ricerca fondato da Reich, e con un grande camion li portarono nell´inceneritore di Gansevoort a Manhattan. Non fosse stato un importante ricercatore che ha lasciato un segno definitivo in tutte le discipline nelle quali si è applicato (la psicoanalisi, la sociologia e la biologia) varrebbe la pena di riservare a Reich un ricordo almeno per il suo record in fatto di falò culturali. In attesa del 3 novembre prossimo, quando verranno tolti i sigilli all´archivio e alla biblioteca personale e chissà, verranno svelati gli ultimi segreti di questo indefesso demolitore di dogmi, suggerisco, per una celebrazione privata, la lettura di un piccolo libro dell´ultimo Reich (il più censurato da tutte le ortodossie, al massimo sbeffeggiato) Ascolta, piccolo uomo (Sugarco, euro 8,80). Da parte mia leverò il calice per ricordare i 50 anni dalla sua morte ripetendomi il motto che usava anteporre ai suoi scritti: "L´amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita. Dovrebbero anche governarla".

venerdì 16 marzo 2007

Liberazione 10.3.07
Il paradosso dell’antipolitica di sinistra
Riflessioni (e dissenso) su alcune idee di Marco Revelli
di Rina Gagliardi

Quando il manifesto (allora partito politico in formazione) decise di presentarsi alle elezioni politiche del 1972, scoppiai in un pianto dirotto: mi pareva che tutto, la politica, la rivoluzione, fossero ormai finiti. Immaginavo una pattuglia di dieci, quindici deputati pronti a svendere tutti i miei ideali per un pugno di banali mediazioni. Avevo l’attenuante di avere meno di venticinque anni, di essere reduce fresca del ’68, e di ritenere in conseguenza che le istituzioni fossero una cosa di “lor Signori”, per loro natura un po’ sporche, lontane e molto corrompenti. Alla fine, come è noto, in quelle elezioni il manifesto non ottenne il quorum – e la “purezza” così preservata, con quei miseri 223.789 voti presi e nessun seggio, fu un brusco risveglio. Capii allora, credo, che la questione del rapporto tra politica e società era tanto più complessa delle mie lacrime infantili e che ogni assolutismo “di principio” risultava comunque fuorviante. “L’apparir del vero” di leopardiana memoria non era l’avvio del cretinismo parlamentare, ma, crudamente, l’assenza di consenso.
Questo brandello (un po’) autobiografico mi è tornato alla memoria nel fuoco del dibattito di queste settimane. Trentacinque anni dopo, è vero, tutto è diverso, quasi come in un altro paese e in un altro pianeta. Eppure, un filo sotterraneo c’è, a legare i giovani astensionisti degli anni ’70 a quei pezzi di sinistra radicale e di movimento che invocano oggi un gesto di rottura. Che identificano la salvezza (possibile, nient’affatto certa) in una sequenza di “No” da pronunciare in parlamento – oggi Afghanistan, domani chissà. E che concentrano la loro critica, la loro delusione, la loro polemica, sempre più veemente e organica, addosso ai partiti della sinistra radicale, segnatamente addosso a Rifondazione comunista. Ma non sono soltanto i contenuti e le singole scelte che pesano, assunte ciascuna come un Simbolo o una bandiera da sventolare – c’è qualcosa di più profondo, che investe l’idea stessa di politica. La politica tout court. La legittimità e l’utilità del “far politica”. Ieri, me lo ricordo bene, era soprattutto un umore extraistituzionale. Oggi, esso assume il volto dell’antipolitica. Un’antipolitica di sinistra, naturalmente, se questo ossimoro davvero si dà in natura.

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L’ultimo articolo di Marco Revelli (il manifesto del 6 marzo) sintetizza questi umori e queste tentazioni in termini quasi esemplari. Conosco (e stimo) da molti anni questo intellettuale rigoroso, coerente, capace di mettersi personalmente in gioco e, oltre ad altri meriti, immune dalle pratiche presenzialistico-mediatiche così care a molti “dissenzienti”. Mi pare però che nella sua ricerca, da tempo, stiano prevalendo pulsioni apocalittiche, oltre che un cupo pessimismo sulla possibilità, come si diceva una volta, di “cambiare il mondo”. L’antipolitica, perciò, diventa per Revelli l’approdo naturale del bilancio catastrofico di “Oltre il Novecento”, dove si dichiarava chiusa (e conclusa, dopo le tragedie del socialismo reale) la pensabilità stessa dell’anticapitalismo, di una lotta di trasformazione capace di proporsi il superamento del modo di produzione capitalistico. Oggi, la riflessione di Revelli muove da un bilancio radicalmente critico sia dell’operato del governo Prodi sia, conseguentemente, del “non operato” (o del cedimento) del Prc. La conclusione è che, perfino al di là delle contingenti vicende di governo, la vera novità di questa fase è che si è chiusa ogni possibilità di comunicazione tra sfera della politica e movimenti: esse sono ormai abissalmente distanti per natura ed orizzonti. L’ultima eredità del ‘900, la rappresentanza, si è insomma consumata.
E dunque? Dunque, non resta che la strada della estraneità, della autonomia del sociale – dell’esodo.

Revelli non si sofferma, più di tanto, sulle conseguenze da trarre da questa analisi (scrive, anzi premette di aver tirato anche lui un “sospiro di sollievo” di fronte alla ricomposizione della crisi) ma esse sono implicite: se la politica, qualsiasi politica in quanto tale, è fatta di mediazioni e compromessi, e se i movimenti sono portatori di valori “non negoziabili” e di obiettivi non mediabili - tutti e sempre “senza se e senza ma” - è evidente che tra le due dimensioni è calata una Grande Muraglia. Sulla Pace - per esempio - non si danno percorsi, possibilità di avanzamento, soluzioni parziali: o si dà, o non si dà. Ora, questa impostazione può apparire “radicale”, o “rivoluzionaria” o “antiriformista”: a me pare, piuttosto un’impostazione di tipo religioso. Un assolutismo forse laico nei suoi contenuti, ma non poi così diverso, nell’ispirazione, da quello che muove i teodem o i cattolici ruiniani - anch’essi, del resto, parlano della Famiglia e della Vita come valori “indisponibili”, non consegnabili alla politica. Un intransigentismo che non solo rischia l’indifferenza ai risultati, ai mutamenti, agli spostamenti di potere (un “lusso” che le larghe masse non si possono consentire), ma che mette in causa l’idea stessa di aggregazione e di efficacia dell’azione, anche nei movimenti. Alla fine, chi è il soggetto portatore di “valori non negoziabili” se non il singolo individuo? E come si può ragionare della soggettività dei movimenti o di analoghi soggetti della società civile espungendo da essi (come fa Revelli) la mediazione interna, le norme di funzionamento, i rapporti, la rappresentanza? Non è vero che soltanto la politica, o i partiti, o i grandi apparati sindacali, vivono di mediazioni: ogni azione collettiva, se tale vuole essere e come tale vuole operare, non può che trascendere gli assolutismi, gli individui, gli assolutismi individuali. Questo mi pare sia successo, precisamente, nella fase alta del movimento no global e dei forum mondiali - che non per caso, fino a Firenze, hanno dedicato ai temi della democrazia interna, della rappresentanza e delle “procedure” lunghissime ore di discussione e di confronto. Questo, purtroppo, non succede in questa fase, caratterizzata dalla frammentazione e dalla disunione: per cui quasi chiunque è legittimato ad alzarsi e parlare “nel nome” del movimento. Legittimato da chi? Dalla propria fede personale, dall’autorità di un condottiero o di un capo, dalla “rappresentazione” arbitraria di quella che si ritiene essere la “volontà generale” di un territorio o di una generazione o di un’area culturale? Curioso che un intellettuale sensibile come Marco Revelli non si accorga che oggi, proprio nel rapporto tra politica e movimenti si pongano questioni un po’ più complesse della “storica frattura” che egli denuncia.

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Anche la questione dei partiti si colloca nello stesso ambito tematico: che è poi, in senso ampio, la crisi della democrazia. Per Revelli i partiti sono luoghi morti, apparati burocratici (a cominciare dal Prc) dediti allo sport dell’“epurazione”, “divinità esigenti” e affamate di sacrifici umani. Che strana descrizione per entità che sono, invece, sostanzialmente deboli (altro che moloc), mentre l’individualismo (quello che trentacinque anni fa avrei definito come l’“individualismo borghese”) è in pieno trionfo, grazie anche alla spettacolarizzazione mediatica: una singola persona, purché collocata nel contesto giusto (istituzionale) e dotata delle relazioni giuste, “vale” , decide, determina molto di più del lavoro gratuito, della fatica e del dono offerti da migliaia di altre persone, che hanno il solo torto di essere “consenzienti”. Strano che questa assimmetria di potere, e dell’uso del potere, sfugga alla sensibilità democratica di Marco, che so essere molto alta. Curiosa la sua definizione di “mandato elettorale”, proprio come se non sapesse che di “mandato di coalizione”, per governare dentro un’alleanza zeppa di centristi e moderati, si trattava, dato lo (sciagurato) sistema bipolare e maggioritario vigente. Ma, per tornare al problema dei “dissenzienti” e della “coscienza” (altro concetto, se assolutizzato, più religioso che laico), eviterei di scomodare grandi principi e grandi teorie politiche. Per capire che cosa è successo, è la pratica musicale ad offrirci un’indicazione preziosa: prendiamo un coro, formato da cantori liberamente associati, che deve esibirsi in uno spettacolo importante. Esso discute a lungo che cosa cantare e, alla fine, non senza contestazioni interne, sceglie il coro del Nabucco verdiano, il classico “Va Pensiero”. Ecco, se durante l’esibizione, uno o due membri del coro si mettono ad intonare un’altra cosa - un bellissimo blues, tipo “The House of rising Sun” - il coro verdiano non riesce ad andare avanti. Non è solo cacofonia, è proprio che il coro si blocca. Ne consegue che il cantore di blues viene invitato ad andare a cantare altrove, viene, in sintesi, “allontanato”. Non è piacevole, per nessuno, anzi, è doloroso - quel coro aveva un’armonia d’insieme, un equilibrio di voci, un’agogia che adesso non ci sono più. Ma il diritto di quel coro a cantare il “Va Pensiero” valeva qualcosa o no?

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Naturalmente, la crisi della politica c’è - e come. Così come è evidente la crisi della rappresentanza - che il maggioritario contribuisce per altro ad acuire ma che non nasce dai sistemi elettorali, ma dalla fine dei partiti di massa, dalla disgregazione sociale, dalle tendenze a-democratiche e autoritarie dell’establishment, dal dominio della televisione, e da mille altri fattori che qui non possiamo analizzare. In questo senso, la rifondazione - radicale - della politica è uno dei compiti ineludibili di questa fase storica, e anche una delle ragioni principali che giustificano la presenza in una coalizione di governo della sinistra radicale. Invece l’antipolitica - la fuga dalla politica - mi pare assecondare, sia pure da sinistra, quel processo di “americanizzazione” della nostra società (del rapporto tra politica e società) già ampiamente in atto, che alle classi dirigenti viene in insperato soccorso: una sfera istituzionale del tutto separata non dalla società, ma dalle classi subalterne, nella quale la sinistra non può avere rappresentanza alcuna; una società dove miriadi di movimenti, o di associazioni, o di aggregazioni temporanee, sono capaci di promuovere conflitti, che la politica non la incontreranno mai. Una politica che consta di un solo partito, sia pure diviso in due formazioni storiche, e che, come tutti i poteri che contano, è gestita in proprio dai poteri forti - anzi, dai ricchi. Non è sempre stata questa, del resto, l’aspirazione recondita del capitalismo? Tutto ciò che a noi oggi può apparire scontato - come il suffragio universale, la democrazia rappresentativa, lo Stato sociale, la scuola pubblica - è il frutto di lotte epocali, non è mai stato gentilmente “concesso”, octroyee. La politica, il “far politica” non serve, più di tanto, alle classi dirigenti, che anzi la vivono come un impiccio, un ingombro, una concessione forzata alla modernità. I modelli ideali di Montezemolo e del cardinal Ruini (o del suo fresco successore) non prevedono la politica o la partecipazione politica, ma le obbedienze che la società dovrebbe riservare alla logica dell’azienda o ai dettami della Chiesa cattolica. Gli omosessuali di regime, come Franco Zeffirelli, non hanno bisogno dei Pacs o dei Dico. Alla fin fine, può darsi, sì, che la politica abbia toccato limiti così profondi da risultare “non riformabile” e che l’Apocalisse revelliana ne esca confermata. Vorrei sommessamente sapere chi, in questo caso, potrà dire di aver vinto.

Aprileonline.info 15.3.07
La Chiesa e i suoi valori non negoziabili
di Carlo Diana

Dibattito Sullo sfondo è chiara come il sole l'intolleranza, non verso la diversità ma nei confronti della sua dignità. Il diverso deve rimanere caduco nella sua dignità, essere ben distinto dalla normalità e da tutto ciò che la consacra

Si discute in questi giorni sulle posizioni della Chiesa cattolica e sugli eccessi di laicismo.
Il problema così posto a me pare sembra fuorviante. Non c'entra nulla il laicismo e neppure la sua esagerazione. Non della comparazione tra gli eccessi ci si dovrebbe occupare con urgenza, ed il diritto di espressione, di qualsiasi credo religioso, non è in discussione.

Il fatto che non si coglie sta nella pericolosissima strategia di radicalizzazione della Chiesa cattolica attorno a presunti valori non negoziabili. Sullo sfondo è chiara come il sole l'intolleranza, non verso la diversità ma nei confronti della sua dignità. Il diverso deve rimanere caduco nella sua dignità, essere ben distinto dalla normalità e da tutto ciò che la consacra. Lo si può sopportare, forse anche aiutare con pietà cristiana, come si fa per un malato, per uno sfortunato, per chi per natura, per scelta o per sorte sociale non si è adeguato, non è un uguale.

I gay o le coppie di fatto rappresentano il pericolo minore per questa Chiesa, di fronte al fantasma di tante etnie e religioni che ormai invadono l'Europa. E' lì il vero problema della Chiesa cattolica, tanto che le recenti posizioni sulla politica italiana fanno coppia con quelle espresse da autorevoli rappresentati cattolici della Unione Europea. Si torna all'attacco sulle radici cristiano-giudaiche del vecchio continente che la Chiesa vorrebbe fondamento etico-morale della costituzione europea, argine per ogni possibilità di apertura a nuovi diritti e perimetro asfittico di un mondo che non dovrebbe cambiare integrandosi. E' la posizione che radicalizza gli scontri dentro le società e fra popoli differenti. E' opzione tanto precisa quanto irresponsabile che pretende di piegare alle sue ragioni religiose la libera scelta di uomini e donne, di intere culture ed etnie.

Se a qualcuno pare di tornare indietro di un secolo, il mio ricordo va al 31 ottobre 1517, a Martin Lutero, alla Riforma protestante, ad una Chiesa cattolica ancora alle prese con roghi e streghe, costretta a confrontarsi con la modernità. Ecco, con questo pontificato sembra che tutta l'era contemporanea e moderna venga oscurata con un salto lungo a ritroso fin dentro il medioevo.

Qui in Italia c'è una specificità - ci distinguiamo in furberia e scaltrezza, è risaputo - invece che essere la Chiesa ad influenzare la politica, a me pare un disegno politico meschino d'una destra che tenta gli ultimi fendenti al corpo vacillante del Governo Prodi, ricompattato alla men peggio sulla politica estera. Si prova ora col colpo basso dell'etica, da parte di una destra che schiera in prima fila una sfilza di divorziati appena tollerati da Santa Romana Chiesa.

Repubblica Torino 16.3.07
l'intervento
Il docente: è importante imparare a non abbassare la voce
"Laici difendetevi meglio" Lezione del filosofo Viano
di Federica Cravero


È Carlo Augusto Viano il «Laico dell´anno 2006», un premio istituito per la prima volta dalla Consulta torinese per la laicità delle istituzioni e consegnato ieri al professore emerito di Storia della filosofia all´Università di Torino, che ha tenuto una lectio magistralis in Rettorato.
«Il laicismo contemporaneo – ha detto Viano – deve affrontare la sfida costituita dalle pretese delle religioni di rientrare nella sfera pubblica, per imporre le prescrizioni delle autorità religiose indipendentemente dalla volontà dei cittadini». Dunque un conto è manifestarsi in pubblico, atteggiamento lecito per qualunque religione, un altro è prendere decisioni pubbliche. Di lì alle intromissioni in tema di eutanasia, fecondazione assistita e Dico il passo è breve. «I laici non fanno abbastanza per difendersi, ma non è il ruolo degli intellettuali insegnare ai politici come fare. L´importante è non abbassare la voce e soprattutto non accontentarsi dei compromessi e avere risposte intelligenti e adeguate da controbattere. Magari le prese di posizione della Chiesa rafforzeranno le coscienze laiche, ma ne faremmo volentieri a meno», ha affermato il professore.
E sul dibattito tra Dico nazionali e il disegno di legge regionale sulle discriminazioni, Viano non si schiera a favore di nessuno dei due e con un sorriso dice: «Avrò letto una decina di testi di legge, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di compromessi. Io sono per soluzioni più liberali e d´altra parte le chiusure che sono state poste su questo tema non rispondono nemmeno alla sensibilità dei credenti. Si deve pensare a una società delle differenze: paradossalmente siamo più aperti alle diversità multiculturali che a quelle legate all´individuo».

Corriere della Sera 16.3.07
INEDITI Negli scritti giovanili il passaggio dalla teologia alla filosofia
Heidegger cattolico.
Un profilo sconosciuto del pensatore antimodernista e vicino alla Chiesa
di Armando Torno


IL PENSATORE
Martin Heidegger (1889-1976). Risale al 1927 il suo capolavoro «Essere e Tempo». Nel 1955 si ritirò nella Foresta Nera a Todtnauberg, dove morì.

Nel 1972 furono pubblicati per la prima volta gli scritti giovanili di Martin Heidegger che fecero conoscere a un vasto pubblico i testi da lui elaborati tra il 1909 e il 1919. Oltre alle opere più note di quel tempo — citiamo la dissertazione per la libera docenza a Friburgo La teoria delle categorie e del significato in Duns Scoto ( tradotta da Laterza) — non mancavano studi di logica, corsi e seminari su Kant, Aristotele, Fichte. È un periodo fecondo, che più tardi si arricchirà con ricerche sui mistici medievali, la fenomenologia religiosa, i rapporti tra Agostino e i neoplatonici.
L'opera fondamentale, Essere e tempo, è lontana (uscirà nel 1927), così come Hitler e le polemiche che investiranno il filosofo. Nel 1980, un articolo di Bernhard Casper apparso in «Freiburger Diözesan-Archiv», dava il via alle indagini biografiche sul giovane pensatore, spostando l'attenzione sul periodo che precedeva il dottorato. Victor Farias e Hugo Ott, poi, individuavano nuovi testi e nel 2000 li pubblicavano nel volume 16 delle Opere che stanno uscendo presso Klostermann di Francoforte (102 volumi previsti, dei quali sono disponibili in tedesco poco più della metà). Non staremo a indicarvi altre vicissitudini, diremo soltanto che Alfred Denker ha da poco scoperto alcuni scritti di Heidegger rimasti finora sconosciuti. Sono due brevi saggi, due recensioni, una dichiarazione firmata da alcuni studenti (tra i quali c'è, appunto, Martin), dei resoconti di conferenze e soprattutto cinque articoli con i quali il futuro autore di Essere e tempo polemizza — scrivendo sul foglio cattolico locale «Heuberger Volksblatt» — contro la rivista liberale edita a Messkirch «Oberbadischer Grenzbote», vero e proprio covo modernista. Saranno esaminati in un saggio di Alberto Anelli («Heidegger e il modernismo») e pubblicati in italiano per la prima volta, con una serie di considerazioni sui nuovi ritrovamenti, sul bimestrale «Humanitas», che nel prossimo numero (in uscita a fine mese) ospita appunto una sezione sul modernismo in Europa, coordinata da Maurilio Guasco. «Humanitas» è pubblicata dalla Morcelliana di Brescia e diretta da Ilario Bertoletti.
Che valore hanno tali polemiche giovanili della primavera 1911, quando Heidegger aveva 22 anni? Basta dare un'occhiata ai cinque articoli per rendersi conto che qui c'è la traccia di una svolta epocale che si era dimenticata: in essi è possibile indicare il suo passaggio dalla teologia alla filosofia. Vicino ai valori tradizionali del cattolicesimo, ai gesuiti, contrario ai venti modernisti che in quegli anni spiravano nella Chiesa, apologeta del papato: ecco sommariamente il giovane Martin. Ma c'è altro. Egli trova i mezzi per argomentare contro l'epistemologia che si fa largo nella teologia del primo '900, contro le contaminazioni tra piano logico e psichico.
Nella prima risposta «al filosofo del Grenzbote» (7 aprile 1911), che resta anonimo, Heidegger nota che come lo Stato punisce ciò che minaccia la sua esistenza e il buon costume, allo stesso modo la «Chiesa ha il diritto e il dovere di tutelare i credenti, mettendo in guardia dai pericoli che minacciano fede e morale; può perciò chiedere che i più alti beni dell'uomo possano non venire umiliati, derisi ed esposti al ridicolo da chiunque, in discorsi e scritti, liberamente e senza ostacolo». Tra l'altro, rimanda a un testo del reverendo Heiner, uscito in terza edizione a Mainz nel 1905, dove si difende il Sillabo di Pio IX. Roba da causare, già in quell'epoca, l'orticaria ai liberali (o a coloro che tali si credevano e credono). È ancora Heidegger in questa prima polemica a ricordare all'avversario di conoscere poco e male la logica: «Una cosa è il concetto di tolleranza dogmatica, un'altra quello di tolleranza borghese e un'altra ancora quello di tolleranza statale. In linea di principio, la Chiesa, come custode della verità, deve respingere l'idea secondo cui tutte le religioni sarebbero vere allo stesso modo; infatti c'è solo una verità ». Di più: la frase «extra ecclesiam nulla salus» (al di fuori della Chiesa non c'è salvezza), Heidegger sottolinea che «non è enunciazione di fatto, ma un principio. Resta quindi sempre la possibilità di partecipare alla grazia della redenzione per chi si trovi nell'errore senza colpa».
Nel secondo scritto polemico (10 aprile), tra l'altro, Heidegger confuta l'idea che le ricerche dei gesuiti siano viziate dalla «non libertà di pensiero», invita l'avversario a leggere bene Kant e nota che con il suo procedere logico «non si dimostra assolutamente nulla». Peccato che il 19 aprile la replica non sia di Martin, giacché l'articolo ricorda l'impossibilità di dimostrare la derivazione dell'uomo dalla scimmia; comunque il terzo colpo è del 17 maggio di quel 1911. In esso sottolinea: «Aspetto a tutt'oggi ancora una risposta alle questioni che ho posto», facendo intendere che tutte le repliche sono di modesto parere, o meglio da «scrittori di mezza tacca». La quarta — 22 maggio — si acutizza sui concetti di conoscenza e dimostrazione; la quinta — il 31 — offre un affondo finale contro il modernismo in senso lato: «È un'affermazione insostenibile quella che identifica l'essenza della dimostrazione con l'esperimento. Dimostrare è una funzione del pensiero che si serve del comprendere,
del giudicare e del concludere ».
Dunque: in questi frammenti c'è un giovane che sta passando alla filosofia. Il suo nome, nel volgere di qualche anno, diventerà centrale per il pensiero. Ancora oggi lo si maledice o lo si ringrazia, ma i conti con lui occorre farli. E tutto è iniziato tirando fendenti ai modernisti.

Autore e Tesi
Martin Heidegger nasce a Messkirch, nel Baden, in Germania nel 1889.
Si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913.
Nel 1923 ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno in cui pubblica «Essere e Tempo». Nel 1955 si ritira a Todtnauberg, dove vive fino alla morte nel 1976.
Il «Modernismo» fu un movimento di pensiero cattolico di fine '800 che cercava una conciliazione tra filosofia moderna e teologia. Fu condannato nella enciclica Pascendi Dominici Gregis di papa Pio X del 1907

Corriere della Sera 16.3.07
IL BRANO

Quando la scienza devia dalla Fede non dice la verità
di Martin Heidegger

Pubblichiamo parte dell'articolo del 7 aprile 1911 apparso su «Heuberger Volksblatt» e recentemente ritrovato, nel quale il giovane Martin Heidegger ribatte le tesi moderniste, citando tra l'altro anche testi di Pio IX, uscite su «Oberbadischer Grenzbote».
C hiedo: che cosa ha l'autore da obiettare contro la «decisione normativa e infallibile» del Concilio Vaticano I, che respinge l'idea secondo cui vi potrebbe essere un conflitto tra un risultato della ricerca scientifica e il dogma? Se è scientificamente dimostrato che la Chiesa cattolica è un'istituzione divina che ha l'incarico di conservare intatta la dottrina della fede, cioè l'eterna verità divina, e di annunciarla, allora è chiaro a tutti che un presunto risultato della ricerca scientifica che stia in contraddizione con la dottrina della fede, la verità eterna, non può essere vero.... Se l'autore volesse muovere un'obiezione valida alla citata decisione del Concilio, allora dovrebbe dimostrare che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata, che non è possibile una rivelazione e che non può essere storica, che Cristo era semplicemente un uomo e che quindi la Chiesa è una società esclusivamente umana.
Tutte le altre riflessioni non valgono, perché non colgono il punto in questione.
Per di più la Chiesa non prescrive a chi fa ricerca nulla in positivo, cioè a quale risultato debba giungere; essa dà piuttosto solo una norma in negativo. Se l'autore ritiene che gli studiosi cattolici dovrebbero sottomettersi alle decisioni delle congregazioni
(che per espressa dottrina della Chiesa
non sono infallibili) proprio come si fa con una decisione infallibile di un Concilio,
allora potrebbe essere in errore. Le decisioni delle congregazioni non sono fide divina et catholica, cioè non vi si deve credere come se fossero verità rivelate e proposte dal magistero ecclesiastico, tanto meno sono opinioni teologiche...
Non posso e non devo assolutamente biasimare l'autore per il fatto che queste più precise distinzioni teologiche non gli siano famigliari (dottrina teologica e dottrina
dogmatica sono due cose assolutamente diverse). Del resto la Chiesa potrà chiedere ai suoi membri di prestar ossequio alle decisioni di una congregazione che nel corso dei secoli ha sbagliato una sola volta (il caso Galilei). In che senso questa sottomissione deve comportare la «morte della scienza»?
Suona molto ingenua la domanda dell'autore: «Ma se gli scienziati lo scoprissero (cioè che l'uomo deriva dall'animale)? Che succederebbe?».
Come si possa rispondere a questa domanda, lo potrebbe dire all'autore il professor Wilhelm Branca, direttore dell'istituto geologico-paleontologico dell'università di Berlino. Branca, di cui l'autore certo riconoscerà l'autorevolezza, scrive così nel suo libro Der Stand unserer Kenntnisse von fossilen Menschen ( Lo stato delle nostre conoscenze degli uomini fossili, Lipsia 1910; n.d.r.): «Chi dia uno sguardo complessivo a questa insufficienza dei famosi resti fossili finora rinvenuti di esseri antropomorfi, capirà senz'altro, perfino da profano, che è fuori discussione il fatto che essi ci forniscano la dimostrazione di una catena genealogica continua dell'uomo».
Quindi possiamo aspettare con calma la prova.