mercoledì 21 marzo 2007

l’Unità 21,3.07
Valdo Spini. L’esponente della Mussi parla di congresso «mascherato» e dice che nel Pd non ci sarà spazio per la sinistra socialista
«Il 29 marzo decideremo se andare a Firenze»
di Vladimiro Frulletti


Onorevole Valdo Spini, la mozione Mussi di cui lei è uno dei principali esponenti, parteciperà al congresso nazionale dei Ds?
«Il 29 ci sarà la riunione di tutta la mozione, faremo un documento rivolto alla maggioranza e, sulla base delle risposte che ci verranno date, ci orienteremo».
Fin qui la proposta di Fassino è largamente maggioritaria nei Ds.
«Ma se si tolgono le regioni del potere Ds, cioè l’Emilia e la Toscana, noi siamo a percentuali assai più alte. Oltre il 22%».
Ma Toscana e Emilia sono anche le realtà dove i Ds hanno più iscritti.
«D’accordo, ma è un congresso che si è svolto in maschera».
Perché in maschera?
«Perché nelle sezioni si votavano le mozioni Fassino, Mussi e Angius. Ma sono successi tre fatti nuovi che hanno cambiato lo scenario su cui gli iscritti non sono stati ascoltati».
Che fatti?
«C’è stato il manifesto dei valori del nuovo Pd che è completamente differente dalla mozione Fassino. Poi l’adesione al Pse con la Margherita che ribadisce ogni volta che loro non ci entreranno. Terzo fatto: nelle tesi di Fassino c’è scritto “Pd per le europee 2009” e invece ora dice che il Pd deve essere pronto per il turno amministrativo del 2008. Il che vuol dire fare la costituente e chiuderla nel 2007».
Cosa succederà adesso?
«Spero che la maggioranza si renda conto delle novità politiche emerse a sinistra. Fino a qualche tempo fa lo Sdi era per il partito di Prodi. Oggi c’è un paragrafo delle tesi congressuali di Boselli che apre il dialogo con la nostra mozione. E poi c’è Bertinotti che evoca il suo passato lombardiano, Giordano che dice che il problema è il socialismo di oggi e di domani».
Ma il Prc non è nel Pse.
«Per noi il punto di verifica resta è il socialismo europeo. Lo è per il Pd, lo è per il Prc. Ma questo dibattito è incoraggiante. Ed è un peccato che non ne protagonisti tutti i Ds. Noi certo non possiamo rinunciare a svolgere questo compito».
Che compito?
«Di catalizzatori perché c’è possibilità di mettere in campo una strategia di unità e rinnovamento della sinistra all’insegna del socialismo europeo».
Quindi se parte la costituente per il Pd con scadenza 2008, voi farete la costituente per un nuovo partito socialista?
«Noi faremo un appello affinché la maggioranza dei Ds guardi alle novità politiche emerse. Certo che con il taglio con cui il Pd sta venendo fuori non è una cosa che ci interessa».
Amato e altri si sono appellati ai socialisti per stare dentro Il Pd.
«Avrebbero dovuto farlo prima. E avrebbero dovuto tener duro su alcuni valori socialisti: dalla laicità all’adesione al Pse. Se lo avessero fatto Il Pd sarebbe sorto sotto un’altra stella».
Non c’è spazio per una componente di sinistra e socialista nel Pd?
«Nella situazione attuale sarebbe emarginata o ridotta a una specie di voce di tradizione, residuale».
Ma questo non è il “male” storico della sinistra italiana che riesce sempre a dividersi?
«Non c’è dubbio. Ma non riesco a capire come il partito di Gramsci e Togliatti si sia ridotto a questa svendita della sinistra italiana».

l’Unità 21,3.07
«La maggioranza costruisca le condizioni per l’unità»
La minoranza dei Ds s’incontrerà il 29
di Simone Collini


LE MINORANZE DS ribadiscono che sta alla maggioranza del partito muoversi per evitare rotture, ma intanto guardano con attenzione a due cantieri che si stanno aprendo fuori dalla Quercia, e fuori dal futuro Partito democratico: quello prospettato dal segretario di Rifondazione comunista per dar vita a un nuovo soggetto che riunisca le forze della sinistra critica e ambientalista e la costituente socialista di cui parla Enrico Boselli nella sua mozione per il congresso di aprile (dal 13 al 15) dello Sdi. Ai sostenitori della seconda mozione non è sfuggito che il segretario del Prc abbia inserito Fabio Mussi tra i possibili interlocutori per l’operazione da avviare. Così come non gli è sfuggito, né a loro né ai sostenitori della Angius-Zani, che il leader dello Sdi abbia citato uno per uno i primi firmatari della seconda e della terza mozione Ds nel documento con cui va al congresso di Fiuggi.
A questo “pressing”, ufficialmente le minoranze diessine non danno peso. Mussi e i suoi ribadiscono che alla riunione del 29 lanceranno al gruppo dirigente un messaggio preciso, riservandosi di decidere come proseguire in base alla risposta che riceveranno: alla luce dei risultati congressuali, cosa intende fare la maggioranza per rispondere alla contrarietà o alle perplessità di chi non ha votato la mozione “Per il Pd”?. E non a caso, del resto, Alberto Nigra definisce «prive di fondamento le dichiarazioni riportate da l’Unità e da altri giornali riguardanti una nostra possibile scissione dal partito» (dichiarazioni comunque consegnate dal portavoce della terza mozione alle agenzie di stampa la mattina e non smentite per tutto il resto della giornata). Anche i “terzisti” ripetono che «spetta alla maggioranza porre le condizioni per garantire l’unità di tutto il partito». Ma intanto contatti al di là dei confini della Quercia sono stati avviati. In maniera riservata, o con più libertà di movimento da parte di chi ha già abbandonato i Ds. Come Giuseppe Caldarola, che lavora alla costituente socialista e che ieri ha avuto un colloquio con il capogruppo del Prc Gennaro Migliore.
Della situazione si è discusso nella segreteria Ds, che ha dato giudizio positivo dei primi risultati dei congressi. Ugo Sposetti dice che «non ci sarà alcuna scissione». Aggiunge comunque a scanso di equivoci il tesoriere della Quercia: «Il patrimonio dei Ds è unico e indivisibile, le sezioni andranno tutte con la Quercia verso il Pd».

C’è chi si chiede se con il Pd in Italia non si formi un altro partito condizionato dal Vaticano

Repubblica 21.3.07
Già un milione i casi, tre se si considera chi resta con i genitori, magari fino a 35 anni. La ricerca in un libro del Mulino
Insieme ma separati, ecco la nuova coppia
Più divorzi e figli nati fuori dal matrimonio: così cambia l'Italia
E nei prossimi dieci anni la metà dei giovani conviverà prima di sposarsi Le trasformazioni dopo il mutamento del ruolo delle donne e del lavoro
Malgrado un rapporto stabile, una persona su cinque sceglierà di non avere bambini
Secondo gli esperti, una relazione su tre è destinata a rompersi dopo le nozze
di Marina Cavallieri


ROMA - Nell´Italia che verrà - non in un futuro lontano, ma presto, nei prossimi dieci anni - oltre la metà dei giovani inizierà a convivere prima di sposarsi, un quarto dei bambini nascerà fuori del matrimonio, il venti per cento delle persone non si sposerà e altrettante sceglieranno di non fare figli. Un matrimonio su tre sarà destinato a sciogliersi. Molte coppie decideranno di amarsi ma di non vivere insieme, già oggi, del resto, di gente così ce n´è più di un milione. Lo dice la statistica con la sua implacabilità matematica, con le sue regole severe, lo dimostrano le ricerche demografiche che non raccontano quello che sarebbe giusto o bello, ma semplicemente si limitano a rilevare quello che veramente accade.
Quello che è avvenuto negli ultimi anni, la silenziosa rivoluzione della vita di coppia, e non solo, è illustrata dal "Rapporto sulla popolazione - L´Italia all´inizio del XXI secolo", un libro promosso dalla società italiana di statistica, curato da Giuseppe Gesano, Fausta Ongaro e Alessandro Rosina, edito da "Il Mulino". «Negli ultimi dieci, quindici anni ci sono stati cambiamenti notevolissimi, proprio in un paese dove il matrimonio sembrava molto stabile è cambiato il modo di fare famiglia e di vivere le relazioni sentimentali», spiega Alessandro Rosina, docente di demografia. Trasformazioni, non sempre raccolte dalla politica, che rendono il quadro sociale in continuo movimento. Tra le novità rilevate, diventate un fenomeno statistico, c´è il Living apart together, la scelta di quelli che vivono da soli ma hanno una relazione stabile, stanno insieme ma in case diverse. È una strategia che adottano alcune coppie, che per scelta o necessità, comodità o lungimiranza, optano per il ménage a distanza, lo stare insieme ma non la convivenza. Sono più di un milione in Italia le persone che vivono da single senza esserlo, che dividono la vita ma non lo spazio vitale, quelli che hanno il doppio spazzolino sono un fenomeno in crescita, alla base, spesso, ci sono condizioni reali più che pigrizia o nevrosi. «Più della metà, il 50 per cento delle persone che fanno questa scelta sono nubili o celibi, il 35 per cento sono separati o divorziati, il 15 per cento vedovi», spiega Alessandro Rosina. Persone già sposate che non vogliono imporre un nuovo partner ai figli, giovani o professionisti che si spostano per lavoro, anziani che non vogliono abbandonare le loro abitudini. Ma sono oltre tre milioni i Living apart together se si considerano anche quelli che continuano a stare in famiglia, magari fino a 35 anni, con la fidanzata che a sua volta vive con i genitori.
«Alla base della rivoluzione sociale ci sono diversi fattori. I genitori che hanno innescato questi cambiamenti sono quelli che erano giovani negli anni ‘60 e che hanno permesso ai loro figli di fare una vita diversa. Anche l´autonomia e l´occupazione femminile hanno cambiato il modo di vivere, hanno avuto un forte impatto considerato che c´è un contesto che accetta molto di più la libertà delle donne. Un forte peso ce l´ha anche il mercato del lavoro, non si può pensare che la flessibilizzazione del lavoro, la precarietà dell´occupazione, non abbiano conseguenze sulle scelte di vita, sul modo di stare insieme di una coppia. Anche se c´è da dire che il matrimonio, prima o dopo, rimane sempre una scelta con cui confrontarsi, fondamentale».
La famiglia cambia ma non è la prima volta e il modello che abbiamo conosciuto negli ‘50 e ‘60, l´epoca d´oro del matrimonio, vissuto come archetipo di famiglia ideale, fissato per sempre dentro di noi, era già a sua volta frutto di altre trasformazioni. «Le famiglie che si ricostituiscono non sono una novità, fino a un secolo fa con l´alta mortalità capitava di sposarsi più volte nel corso dell´esistenza», dice Rosina. «Oggi con l´allungamento della vita stiamo in un periodo inedito della storia dell´umanità, l´esistenza viene vissuta in modo più articolato, con fasi diverse, e le relazioni sentimentali rispecchieranno questa instabilità».

Repubblica 21.3.07
Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti "non negoziabili"
di Stefano Rodotà

Ormai siamo di fronte a uno scontro tra i due poteri non governabile con le categorie tradizionali dell´ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche
Quando il dialogo scompare, quando la verità assoluta esclude l'attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata

Spero che anche i più pigri e distratti si siano resi conto che siamo ormai di fronte ad un conflitto tra due poteri, lo Stato e la Chiesa, non governabile con le categorie tradizionali dell´ingerenza più o meno legittima delle gerarchie ecclesiastiche o con il riferimento al Concordato. E il terreno dello scontro è sostanzialmente quello dei diritti fondamentali della persona, a loro volta parte di una più generale questione dei diritti, quelli legati all´innovazione scientifica e tecnologica e quelli sociali, tema centrale della discussione pubblica in moltissimi paesi (e con il quale dovrebbe misurarsi chi continua a porre interrogativi su significato e sopravvivenza delle categorie di destra e sinistra, come hanno fatto negli ultimi tempi il mensile inglese Prospect e quello francese Philosophie Magazine).
Il conflitto tra poteri emerge dalle ultime prese di posizioni della Chiesa, che più nitide e radicali non potrebbero essere. Benedetto XVI ha indicato una serie di valori che "non sono negoziabili" e che impongono ai legislatori cattolici " di "presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti della natura umana" (13 marzo). La Pontificia Accademia per la vita ha "raccomandato una coraggiosa obiezione di coscienza" a tutti i credenti, e in particolare a "medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la mettono in pericolo" (16 marzo). In concreto, questo significa che i valori di riferimento dei legislatori non devono più essere quelli definiti dalla Costituzione, ma quelli di un diritto naturale di cui la Chiesa si fa unica interprete. A questo si accompagna un esplicito rifiuto dell´ordine civile, rappresentato dalla legittima legislazione dello Stato ritenuta non conforme a quei valori, che persino i giudici non dovrebbero applicare. La rottura è netta. Viene posto un limite esplicito al potere del Parlamento di decidere liberamente sul contenuto delle leggi, con l´ulteriore ammonimento che, qualora quel limite non fosse rispettato, si troverebbe di fronte alla rivolta dell´intera società cattolica.
Esplosa negli ultimi tempi, questa posizione ha avuto una lunga incubazione, è stata colpevolmente sottovalutata e non può essere spiegata con riferimenti solo alla fase più recente. So bene che le autocitazioni non sono eleganti. Ma in un mio articolo, apparso il 26 settembre 1991 su questo giornale con il significativo titolo "La restaurazione del Cardinale Ruini", sottolineavo proprio che nei discorsi di Ruini si trovava un "impegnativo programma politico", costruito intorno a "valori a difesa dei quali i cattolici, compatti, dovrebbero schierarsi", e al quale i cattolici in Parlamento dovevano conformarsi. Già sedici anni fa chi avesse occhi per vedere poteva ben rendersi conto di quel che sarebbe successo.
Ora le cose sono andate assai più avanti, e l´analisi della situazione attuale non può essere condotta limitandosi a ripetere che bisogna respingere l´interferenza dei vescovi (ne ero convinto già nel 1991). Siamo di fronte ad un modo d´essere della Chiesa che si presenta e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La contrapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico. E´ una realtà scomoda per chi ha ignorato i segnali che si accumulavano negli anni per il timore d´un conflitto con la Chiesa, e che oggi si trova di fronte ad un conflitto assai più profondo di quello che si è cercato di schivare. E´ una realtà scomoda per chi vorrebbe vedere nelle parole delle gerarchie ecclesiastiche nient´altro che la manifestazione della sua vocazione pastorale. Ed è una realtà che negli ultimi giorni ha assunto una tale evidenza, per la schiettezza con cui parla la Chiesa, che diventa sempre più difficile negarla parlando di forzature interpretative "laiciste".
La prima vittima di questo stato delle cose è il dialogo, che a parole molti dichiarano di volere. Ma il dialogo non è possibile quando una delle parti afferma d´essere depositaria di valori appunto "non negoziabili", e prospetta una rivolta permanente contro lo Stato. Vi è chi, come il cardinale Martini, cerca di rompere questo schema, ricordando che le parole della Chiesa non devono cadere "dall´alto, o da una teoria". Ma, come già era avvenuto per la sua posizione sul caso Welby, anche questa volta l´ufficialità ecclesiastica ne respinge le indicazioni. In questo modo, però, non è una opinione personale ad essere cancellata. Quando il dialogo scompare, quando la verità assoluta esclude l´attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata.
Ma, si dice, la non negoziabilità di quei valori nasce dal fatto che essi sono radicati nella natura stessa, fanno parte di un diritto naturale che l´uomo, dunque il legislatore, non può scalfire. In tempi non sospetti, tuttavia, Norberto Bobbio ha opportunamente ricordato che, "purtroppo, ‘natura´ è uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi nella storia della filosofia" e che sono almeno otto i significati di natura, e di diritto naturale. Chi scioglie questa ambiguità, chi sceglie tra le molte accezioni possibili? In definitiva, chi può parlare in nome della natura? E´ evidente che la pretesa d´avere il monopolio in questa materia rivela una attitudine autoritaria, non compatibile con le regole d´un sistema democratico. Non a caso, per evitare che l´azione pubblica fosse sottomessa a tavole di valori fissate in modo arbitrario o autoritario, si è affidata alle costituzioni la determinazione in forme democratiche dei valori comuni di riferimento, passando così ad uno "Stato costituzionale di diritto". Sostituire ai valori costituzionali quelli attinti ad una natura costruita in modo autoritario porta con sè una regressione culturale che, di nuovo, nega la logica della democrazia.
Altro è, evidentemente, sottolineare le novità, anche antropologiche, che il nuovo contesto scientifico e tecnologico propone, e chiedere che di questo si discuta apertamente. Presente e futuro sono carichi di incognite che richiedono una comune ricerca. Ma, per fare questo, bisogna appunto ricostruire le condizioni del dialogo tra persone di buona volontà, liberarsi dei dogmatismi, non rinserrarsi nelle proprie certezze e pretendere di imporle agli altri.
Le distorsioni della discussione sono evidentissime se si guarda ai problemi specifici. Si dice, ad esempio: invece di pensare al testamento biologico occupiamoci delle terapie antidolore, evitiamo l´abbandono e la solitudine dei morenti; invece di pensare ai Dico mettiamo a punto adeguate politiche della famiglia. Ma non v´è alcun contrasto tra queste iniziative, e le incompatibilità prospettate sono solo un modo per mascherare l´ostilità ai nuovi strumenti che si vogliono introdurre nella nostra legislazione.
Se si vuol discutere seriamente, bisogna ricordare che riconoscimento del testamento biologico e attenzione per le cure palliative convivono in molti paesi, anzi si sostengono reciprocamente, poiché il testamento biologico è un documento che consente di manifestare anche le proprie volontà sulle terapie contro il dolore. E in Francia, tanto per fare un solo esempio, la legge sui Pacs (ben più incisiva e chiara delle nostre proposte sulle unioni di fatto) convive con una delle più avanzate politiche di sostegno alla famiglia.
Se si vuol fare riferimento all´umanità e comprendere davvero le necessità e le sofferenze della gente, come ci incita a fare il cardinal Martini, bisogna abbandonare il dogmatismo e parlare di cose concrete. Cure palliative al primo posto? Benissimo. Si sappia, allora, che in Italia i centri specializzati sono 102 da Roma in su, e solo 5 nel resto del paese; e che a Milano un grande ospedale ha chiuso il reparto per le cure contro il dolore perché economicamente non rendeva. Politiche per la famiglia? Benissimo. Si legga, allora, quel che Massimo Livi Bacci scrive con il consueto rigore sulla situazione francese, mostrando quali debbano essere le azioni da condurre e quali gli investimenti necessari.
Liberi da dogmatismi e pretese autoritarie, possiamo meglio cogliere i valori di riferimento e le politiche da intraprendere. Da una parte, riconoscimento alle persone del diritto di governare liberamente la propria vita e di organizzare le relazioni personali, come già nitidamente ci dice la Costituzione. Dall´altra, rinnovata e forte attenzione pubblica, che è la condizione perché le scelte possano essere compiute responsabilmente e al riparo da ogni costrizione. Ma le politiche pubbliche, in queste materie, sono fatte di investimenti e di servizi, esattamente l´opposto delle derive privatistiche e liberistiche alle quali ogni giorno qualcuno incita.

Marco Bellocchio il 28 marzo sarà a Latina nell'Auditorium del Liceo Classico. A lui è dedicata una rassegna di film. Prima proiezione lunedì 26 marzo
Latina Oggi 21.3.07
Quattro pellicole in programma
Le immagini del Maestro
di Licia Pastore

E’ un regista famoso, Marco Bellocchio; un artista protagonista di una ricerca assolutamente originale sulle immagini. Quattro suoi film saranno presentati a Latina in occasione di una breve rassegna promossa dal Liceo Classico Dante Alighieri diretto dal preside Giorgio Maulucci. Si tratta di una retrospettiva dedicata proprio a Bellocchio e alle sue pellicole, proiettate negli spazi del grande auditorium della scuola di viale Mazzini. Quattro film e non solo. Ne abbiamo già parlato, l’iniziativa sarà arricchita dalla presenza dello stesso regista che parlerà con il pubblico il 28 marzo, alle 16. La rassegna prende ufficialmente il via lunedì 26 con due proiezioni, rispettivamente alle 10 e alle 15.30. In visione «I pugni in tasca», opera del 1965 interpretata da Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè. Il giorno successivo, martedì 27, alle 10, sarà la volta di «Addio del passato», cortometraggio del 2002 presentato nello stesso anno alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle 15.30, verrà proiettato «Sorelle», lungometraggio realizzato in tre anni, dal 1999 al 2005, con la collaborazione degli studenti del laboratorio «Fare cinema» di Bobbio. Il percorso si chiuderà alle 10 del 28 e 29 marzo, con «Buongiorno notte». Il percorso artistico del regista è molto vasto ed articolato e per comprenderlo appieno occorre analizzarlo nel suo andamento: i discorsi e le immagini de «Pugni in tasca» vanno radicalmente trasformandosi fino ad arrivare alla maturità artistica di grande intensità ed eleganza degli ultimi film. Uno snodo all’interno di questo percorso è dato da «Diavolo in Corpo» del 1986, film con il quale Bellocchio inizia la collaborazione con Massimo Fagioli, psichiatra dell’Analisi Collettiva, una collaborazione che durerà qualche anno. Bellocchio non si limita a «fotografare» la realtà per come è, riprendendola con la macchina da presa; va oltre e crea immagini nuove. La sua è una proposta artistica che rimanda ad una affascinante ricerca sull'identità inconscia. L’incontro con Bellocchio sarà una grande opportunità per avvicinare e conoscere un vero e proprio Maestro del cinema internazionale contemporaneo.
Li.p


il manifesto 21.3.07
«Vietato parlare di omosessualità»
In Polonia un disegno di legge punirà gli insegnanti che affronteranno l'argomento
di Alberto D'Argenzio


L'omosessualità fa una gran paura in Polonia, almeno al suo governo. Tanto che l'esecutivo Kaczynski sta preparando una legge per proibire di parlare di relazioni tra lo stesso sesso in tutti i livelli della scala educativa: dalle elementari fino all'università. Con il corollario di mettere alla porta gli insegnanti gay. Il progetto di legge porta la firma di Roman Giertych, vicepremier, ministro dell'Educazione e dirigente della Lega delle famiglie polacche, uno dei tre pilastri dell'esecutivo formato anche dal partito Legge e Giustizia, dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynski, e dalla formazione rurale Autodifesa.
Tra un mesetto la legge dovrebbe essere pronta, ma intanto è già scoppiata la polemica, sia in Polonia, con la protesta di varie Ong, che all'estero. Human Rights Watch assicura infatti in una lettera inviata al premier che la legge, qualora approvata, «creerebbe un clima di intolleranza e minaccerebbe i diritti civili e politici degli educatori polacchi e dei gay e delle lesbiche nelle scuole, soprattutto tra i giovani». L'Ong chiede a Jaroslaw Kaczynski di «assicurarsi che i diritti umani siano protetti e rispettati completamente, di impedire la censura accademica, di dissociarsi dalla retorica che propaga l'odio e di promuovere l'uguaglianza, senza penalizzare l'orientamento sessuale né il genere». Più cauta invece la Commissione europea: «Bisogna attendere l'approvazione della legge, qualora ciò dovesse avvenire, valuteremo la sua compatibilità con la direttiva sulla non-discriminazione al lavoro. Questo è il nostro punto di referenza», assicura Friso Roscam Abbing, portavoce di Frattini.
Effettivamente, al momento, non si conosce ancora il contenuto esatto della legge, ma un'idea l'ha già data lo scorso 13 marzo Marek Orzechowski, vice ministro all'educazione: la norma «dovrà castigare chiunque promuova l'omosessualità o qualsiasi altra deviazione di natura sessuale nei centri educativi». Due giorni dopo Orzechowski rincarava la dose: «i professori che rivelano la propria omosessualità saranno licenziati». Una discriminazione, assicura HRW, guardando anche alla Carta europea dei diritti umani.
Sarà forse un caso, ma Maciej Giertych, padre del ministro dell'educazione Roman, eurodeputato della Lega delle Famiglie, è stato recentemente «biasimato» dal Parlamento europeo per aver pubblicato un pamphlet antisemita piazzando in copertina il logo della stessa Eurocamera.

il manifesto 21.3.07
Il tempo essenziale nella voce di Juliette Gréco
Al festival Ferré la divina creatura francese in un recital straordinario. Immobile in scena, ferma davanti al microfono a stelo, valorizzando con suprema eleganza gli accenti drammatici di «Avec le temps»
di Massimo Raffaeli


San Benedetto del Tronto. L'immancabile abito nero, che aggiunge buio al buio mentre esalta il pallore del viso, gli occhi che nulla hanno perduto d'una profondità che fu detta abissale, la voce che il tempo non ha affatto affievolito, anzi ha arricchito di spessori e ulteriori, impreviste, nuances: questa è ancora e sempre Juliette Gréco che, alla bella età di ottant'anni, sabato sera ha inaugurato al Teatro Calabresi di San Benedetto del Tronto la tredicesima edizione del «Festival Léo Ferré», una rassegna ormai tradizionale, dove la poesia richiama la canzone d'autore, curata, con la consueta passione, da Giuseppe Gennari e Maurizio Silvestri insieme con Mauro Macario. Introdotta da un omaggio dei Têtes de bois, accompagnata in palcoscenico da due musicisti di qualità persino sorprendente (Gerard Jouannest al piano e Dominique Lucetti all'accordéon) Juliette Gréco ha donato al pubblico, ininterrottamente per un'ora e mezza, un combinato disposto di parole/musica di straordinaria suggestione. Chi fra i presenti temeva l'epica dei tempi andati, la malinconia di standard mille volte riproposti, insomma la versione marmorizzata di quella che fu la regina di Saint-Germain-des-Près e delle caves esistenzialiste, ne è stato immediatamente smentito.
Ancora vent'anni fa, la Gréco venne da queste parti, pochi mesi dopo lo stesso Ferré che portava in giro lo spettacolo dedicato ai poeti prediletti (Villon, Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire): allora era una donna al culmine della vitalità, straripava sul palco, ammiccava, spudorata e insolente, permettendosi a piena voce le malizie di Paris canaille di Ferré medesimo o di Si tu t'imagines, il testo d'esordio scritto apposta per lei nell'immediato dopoguerra da Raymond Queneau.
Oggi Juliette ha come introvertito la sua vitalità, l'ha tutta quanta metabolizzata e resa essenziale, per certi versi lunare. Predilige infatti il filo di voce, l'abbassamento del tono, sceglie a tratti il parlato come musica, come battito elementare. Lei sta immobile in scena, ferma davanti al microfono a stelo, è una donna esile, magrissima, ma dalla sua figura così minuta si espande una vibrazione, quasi un alone, che la occupa interamente. Perciò non ha bisogno di muoversi, anzi in scena testimonia di una rigidità ieratica, mentre sembra bastarle il continuo, incessante, moto delle mani che apre e chiude a pugno come fossero il più naturale dei metronomi.
È probabile che venti o trent'anni fa non se la sentisse ancora di cantare la stupenda Avec le temps, il classico che peraltro tutti gli intimi di Léo hanno in repertorio. Juliette la esegue solo oggi, in un simile e necessario contesto di personale meditazione ed autospoliazione. La interpreta come liberandola dall'elegia funebre e al contrario valorizzandone gli spessori opachi e i trapassi drammatici: «Col tempo sai,/ col tempo tutto se ne va/ E ti senti il biancore di un cavallo sfiancato/ in un letto straniero ti senti gelato/ solitario ma in fondo in pace col mondo/ E ti senti ingannato dagli anni perduti/ e allora tu, col tempo sai... non ami più.//». Questo è il vero baricentro del suo spettacolo, una zona quasi infera verso la quale convergono fatalmente gli altri testi in scaletta. Non che manchino il sorriso e alcuni omaggi alla vita spensierata (Trenet, per esempio), però il segno prevalente allude alla serietà di un bilancio esistenziale, all'atto di sovrana responsabilità di chi si interroga sulle cose ultime, su quanto è infine possibile salvare dalla dispersione, dalla etimologica insensatezza del quotidiano: il poco, l'essenziale, che fa di una vita davvero una vita.
Non a caso fittissima è la scelta da Jacques Brel e, quasi altrettanto, dall'indimenticabile Serge Gainsbourg (che vinse l'edizione 2002 del Festival); nemmeno è un caso che Juliette si congedi dal pubblico con un'interpretazione sofferta, di ritmo sincopato e quasi cardiaco, come sussurrata in uno spasimo prolungato, di Ne me quitte pas. Nella brossura-programma di sala Guido Armellini dice di una Gréco prosciugata, livida, scarnificata, di un «recitativo estenuato, ipnotico, di magnetica essenzialità, che esige un ascolto proteso a cogliere ogni minima accensione, ogni impercettibile sussulto di una vocalità concentrata e profonda»; ed è con queste parole, infatti, che Juliette Gréco accetta il dono postumo di Avec le temps: «Perché è così: vero./ Perché è l'immenso Léo Ferré/ per dirgli ancora e sempre grazie./ Per tutto ciò che mi ha offerto./ Perché bisognava che la cantassi, un giorno./ Perché la volevo mia».

martedì 20 marzo 2007

da Lettere al Riformista del 17.3.07
su Corbellini
di Luigi Castaldi

Caro direttore, vorrei far notare alla lettrice Isabella Faraoni che la frase di Gilberto Corbellini, che tanto l’ha turbata, è ineccepibile. Corbellini afferma che «esistono incontrovertibili prove che alcuni geni sono coinvolti nel controllo dell’orientamento sessuale»: non è forse vero che l’orientamento sessuale di una femmina e di un maschio della specie umana è controllato rispettivamente dai geni dei due cromosomi X e Y? Mi risulta che un cromosoma sia un insieme di geni. Ma Faraoni scrive che «continuare a cercare le basi genetiche dei comportamenti umani è un retaggio metodologico dell’impostazione deterministica»: io correggerei dicendo che cercare le basi genetiche dei comportamenti umani è - appunto - una ricerca, e le sia data libertà, cribbio. Grazie alla ricerca abbiamo scoperto che i comportamenti e gli orientamenti umani sono anche sotto il controllo - sottolineo “anche” e faccio notare che ho detto “controllo”, non “effetto necessario” - di tiroide, surrenali e gonadi: tutta roba controllata da geni, chi pensa che l’ansia dell’ipertiroideo sia esistenziale, deve fare i conti con l’esistenza di una ghiandola endocrina. Nessuno vuol negare l’importanza dei fattori ambientali e, volendo, si può dare dignità di ipotesi sostenibile anche a chi invoca influenze astrali o comunque ultraterrene (in senso lato) nella determinazione del genere e dei conseguenti e rispettivi comportamenti; perfino la psicologia classica metteva l’omosessualità tra le nevrosi, come risultato di una riparazione eccessivamente dispendiosa, e cioè “contro natura”, ergo “deviante”. Nessuno, però, vorrà negare che un ormone femminile sia il prodotto di una catena enzimatica, del lavoro di proteine, cioè della traduzione del messaggio espresso dai geni che presiedono al fatto che quell’ormone sia un ormone femminile, piuttosto che maschile: nessuno vorrà negare ai geni il controllo dell’ontologia di genere. Se l’idea di maschio, per esempio, appena ipostatizzata dall’Iperuranio, viene imbottita di ormoni femminili - o le si impiantano i geni necessari per mettere l’idea di maschio a produrre ormoni femminili, invece che maschili - o questi geni sono elementi selezionatisi nel corso dell’evoluzione (nel caso dell’omosessualità, geni particolarmente resistenti se sfavoriti dalla sterilità!) - se questo accade, vuol dire che l’Iperuranio non conta più niente. L’Iperuranio è morto. Ma mi premeva considerare anche un altro punto della lettera di Faraoni, quello in cui scrive della «realtà psichica che origina da una realtà biologica che si trasforma senza essere più riducibile a elementi materiali». Concordo con uno sdegnato rifiuto di ogni riduzionismo, epperciò considero contraddittorio ridurre il pensiero - la «realtà psichica» - a cosa non più riducibile a «elementi materiali». Diciamo, piuttosto, che gli «elementi materiali» permangono, sono attivi, attuano il controllo: nessun pensiero permane se si inceneriscono gli “relementi materiali”, a meno di non voler immaginare che il pensiero salga verso l’Iperuranio. Ma le rammento che l’Iperuranio non c’è
Luigi Castaldi, Napoli


un intervento in una sezione locale dei Ds di Roma, in occasione del Congresso
Care compagne e cari compagni,

in questi giorni siamo chiamati a decidere sulla vita del nostro partito. Mi sento addosso una grande responsabilità e ho paura di non essere all’altezza della situazione. Vorrei potervi dire: scusate, non fa per me, sono inadeguato e ho paura di sbagliare. Ma non posso. Prendo parte anche io, è mio dovere, ad un decisione politica di grande rilevanza nazionale e internazionale, anzi, direi di grande contenuto ideale, umano. Riesco a farmi forza, perché penso di non essere solo, che anzi tutti gli iscritti ai DS sono nella posizione di poter decidere, di dover esprimere un voto alla fine di questo dibattito. Così mi accorgo della necessità di affrontare una battaglia congressuale aperta, democratica, che esprima con chiarezza la diversità delle due prospettive politiche in campo. Una vuole costituire il “Partito Democratico”, passando di fatto dalla cancellazione dei Democratici di Sinistra, in nome di una necessità politica mai chiarita, e in conseguenza di un vuoto mentale che è caratteristico della politica degli ultimi decenni; l’altra cerca, con passione straordinaria, di ridare senso e funzione storica alla sinistra, perché solo da sinistra si può tentare di cambiare veramente il mondo. Da una parte c’è chi si rassegna a non capire i processi sociali in corso e i conflitti prodotti dalla trasformazione dei rapporti di lavoro, dall’altra invece c’è il tentativo di rispondere alla crisi di rappresentanza che investe la sinistra, guardando alle nuove e crescenti disuguaglianze sociali e ai movimenti di massa critica così indispensabili per la vitalità della democrazia.
Ma è tutta la società che è in disfacimento, e per un attimo, ma solo per un attimo mi viene lo sconforto se penso che i DS, loro malgrado, ne sono la dimostrazione più evidente. Su una cosa sono d’accordo quindi con i fautori del Partito Democratico: questo partito, così com’è, non ha più senso. Al di là dei numeri, non ha una sua autonomia di elaborazione: è subalterno, a tutte le forze in campo, alla sua destra e alla sua sinistra; e lo vuole goffamente nascondere spacciando per sua propria identità sociale, una faticosa e sacrificale, nonché presunta, capacità di compromesso tra le altre forze in campo, per il bene dell’Italia. Il nostro partito si comporta come una vecchia zia zitellona che in una famiglia in cui tutti litigano per affermarsi trova spazio talora come arbitro, tal’altra come ambasciatore, poi come isterica matrona. E alla fine ormai stufa che fa la vecchia zia zitellona? Si fa bella ed esce fuori di casa a conquistarsi qualcuno? No, fa il matrimonio di interesse. Cos’altro è se non questo l’unione con la Margherita? Amore? Mi sa proprio che è solo potere.
Care compagne e cari compagni, in questo paese, oggi, manca una grande forza di sinistra. Dobbiamo costruirla, ritrovando la passione, il coraggio, la decisione e l’azione politica.
Norberto Bobbio scrisse da qualche parte che lui aveva scelto di fare lo studioso della politica per avere la libertà di finire le sue ricerche con il punto interrogativo, col dubbio: il politico invece ad un certo punto deve decidere, anche quando non sa proprio, come si suol dire, che pesci prendere. Io, in passato, ho sempre pensato che in questo discorso ci fosse qualche elemento di verità, e ho sempre sbagliato. Oggi sono convinto che il dubbio è il pilastro portante del potere dei pochi sui molti. Il dubbio crea il bisogno del potere, la dipendenza da qualcuno che si suppone ne sappia più di te. Il PCI forse ne era consapevole, e di fatto finchè è esistito ha contribuito in modo decisivo a costruire quel po’ di democrazia sostanziale che c’è in questo paese, e che Bobbio forse faticava a vedere: il PCI ha coinvolto nella storia politica italiana il movimento operaio, la massa dei suoi iscritti, i sindacati dei lavoratori, insieme a intellettuali e artisti. E quello spirito democratico oggi ci consente di essere protagonisti, al di là della nostra condizione sociale, economica e culturale, di una fase politica così delicata e densa di premesse e conseguenze storiche. Oggi noi siamo, nel nostro congresso, una testa e un voto.
Penso agli ultimi miei interventi in questa sezione. Li ho spesi per fare una battaglia contro la prospettiva del Partito Democratico e per richiamare alla mente la parola sinistra. Alcuni compagni, che si dicono di sinistra, mi hanno rimproverato aspramente perché io avrei dovuto spiegare meglio il senso di un’identità di sinistra, la concretezza dell’idea. Hanno ragione. L’idea della sinistra però non è una figura percepibile mediante il senso fisico, non è il tavolo, le sedie, i muri che ci avvolgono e che possiamo descrivere, misurare, e anche distruggere quando non ci servono più, non è neanche un modo onesto di amministrare le strade del nostro quartiere. Non è l’allargamento di una strada per far fluire meglio il traffico. Queste cose, pure importanti, non costituiscono un’identità, non fanno politica.
La sinistra è Conoscenza, Realizzazione, Trasformazione: tre parole che indicano una realtà umana.
La conoscenza che supera la negazione dell’uomo proposta da un dio e permette un rapporto reale con l’altro; che è la straordinaria possibilità di un mondo sempre più interdipendente grazie alla tecnologia; che è la valorizzazione della Scuola e dell’Università; che è libero confronto e ricerca collettiva anziché catechismo.
La realizzazione, che è la ritrovata potenza di fare, di incidere sulla società, senza paura, non abdicando alla Chiesa sui grandi temi etici, valoriali.
La trasformazione, che è la convinzione che la realtà non è immodificabile, che è stare al governo non per esercitare il potere ma per cambiare profondamente il corso della vita di tutti.
Il PCI ha chiamato tutto il popolo a farsi classe dirigente, a decidere su se stesso, e in parte ha assolto alla sua funzione storica. È stata una forza che tendeva all’uguaglianza anche rendendo ogni suo singolo iscritto un politico, nel suo quartiere, nella sua fabbrica o altrove questi era un rappresentante della società.
Oggi c’è bisogno di una nuova forza di sinistra che ritrovi la capacità di sognare, che faccia di ognuno un artista capace di rappresentare il mondo, di immaginarlo, di valorizzare la fantasia per rapportarsi alla realtà con idee sane.
Compagni, voterò la mozione Mussi, non tanto o non solo contro il Partito Democratico, ma per iniziare un cammino, una ricerca a sinistra insieme ai tanti, spero tantissimi, che vorranno.
Alla fine di questo Congresso, comunque vada, inizia una nuova storia. Guardo al futuro con molta speranza, e vi ringrazio sinceramente per ciò che abbiamo vissuto insieme fino ad oggi, per ciò che mi avete dato, per la fiducia e per i rimproveri: tutto ha contribuito a farmi crescere e maturare.
Se ci rincontreremo sulla strada dell’impegno politico, sarà perché anche voi come me non avrete più bisogno dell’analisi economica del Sole 24 ore per capire la situazione dei lavoratori, sarà perché anche voi come me non crederete più che la sinistra sia oggi un fantasma persecutorio di cui è necessario liberarsi, sarà perché anche voi, come vi sarete ribellati al triste appiattimento proposto dai compagni della mozione Fassino, sarà infine perché anche voi come me avrete ritrovato la gioia di dar retta a quella vocina interna, che può sembrare fastidiosa ma che rende intelligenti, che per alcuni è solo un grillo parlante, per altri è la sinistra.
Grazie.
Roma 15 marzo 2007
Giovanni Perrino

lunedì 19 marzo 2007

l’Unità 19.3.07
Giordano, Prc: di nuovo il socialismo è freno alla barbarie
Il segretario di Rifondazione: ha ragione Fassino
sì ai talebani al tavolo di pace sull’Afghanistan
di Simone Collini


«SOCIALISMO O BARBARIE». Franco Giordano riesuma la «grande affermazione» di Rosa Luxemburg. Il segretario di Rifondazione comunista insiste sulla necessità di dar vita a «un nuovo soggetto a sinistra» e di riorganizzare le forze in campo anche per
evitare che «una parte consistente della sinistra finisca con l’accedere a una cultura liberaldemocratica».
Sabato c’è stata una manifestazione pacifista a cui hanno partecipato ventimila persone, ma non Rifondazione. Una crepa nel rapporto tra il suo partito e il popolo della pace?
«No perché quello pacifista è un movimento largo e plurale. Nessuno può arrogarsi il diritto di rappresentarlo per intero e nessuno può arrogarsi il diritto di espellere qualcun altro».
I manifestanti hanno però contestato il Prc e le altre forze che voteranno il rifinanziamento della missione in Afghanistan.
«Se il nostro voto determinasse un immediato stop del conflitto non avrei dubbi su cosa fare. Mi interesserebbero relativamente le sorti del governo, perché quelle della pace e della guerra sono superiori. Ma temo che chi ci chiede questo non punta a sortire un simile effetto ma vuole solo ed esclusivamente far emergere una soggettività politica».
Come giudica la proposta di Fassino di far partecipare anche i talebani alla conferenza di pace sull’Afghanistan?
«Interessante e giusta. Inoltre testimonia che pur partendo da posizioni differenti, perché noi non avremmo mai mandato i nostri militari lì, diventa sempre più credibile la nostra proposta di far svolgere una conferenza internazionale di pace come alternativa concreta alla semplice replica bellica, che ha mostrato il suo fallimento».
Come spiega le perplessità nei confronti della proposta di Fassino provenienti dalla maggioranza?
«Ci sono anche nell’Unione settori permeabili a una vecchia cultura centrata sulla preponderanza americana nello scenario internazionale. Ma oggi dobbiamo abituarci a svolgere sempre di più un ruolo di autonomia, perché altrimenti saremo subalterni alla logica della guerra preventiva e permanente di Bush».
Nel centrosinistra è in corso una riorganizzazione. Oltre al Partito democratico, saranno avviati altri processi?
«Devono essere avviati. Siamo arrivati ad un punto assolutamente decisivo per le sorti della sinistra nel nostro Paese. E credo che sia assolutamente doveroso per noi tutti ridare progettualità e futuro alla sinistra. E costruire una nuova soggettività a sinistra. Per questo, indipendentemente dalle collocazioni politiche di ciascuno, abbiamo lanciato la sfida di una discussione vera sull’attualità dell’idea di un nuovo socialismo».
A che tipo di discussione pensa?
«Intanto, non deve essere ingegneristica, organizzativistica. Deve essere una discussione plurale, perché sarebbe paradossale che proprio nel momento in cui di questo tema si avverte così intensamente l’attualità, una parte consistente della sinistra finisse con l’accedere a una cultura liberaldemocratica».
Da cosa deduce l’attualità del socialismo?
«Dal fatto che mai come in questa fase del processo di globalizzazione si è assistito a un proliferare e acuirsi di disparità sociali, mai come oggi si è visto che il neoliberismo per potersi inverare ha dovuto ripudiare persino l’idea liberale e far ricorso a processi autoritari, alla guerra preventiva. E mai come in questo momento l’aggressione capitalistica all’ambiente mette in relazione il tempo biologico, nostro o dei nostri figli, con la necessità di superare le attuali forme di produzione se vogliamo salvaguardare la specie. In questo senso mi verrebbe da riesumare, in forme totalmente moderne e in un contesto del tutto diverso, la grande affermazione: socialismo o barbarie».
Critica della globalizzazione, pacifismo, ambiente: si direbbe che lei abbia già chiare in mente le forze che potrebbero lavorare per dar vita al nuovo soggetto.
«A fronte di un progetto così grande non si può fare la sommatoria di ceti politici. Dobbiamo tenere fermi due punti fissi. Il primo è la relazione intensa con la società e i movimenti. Il secondo è che ci vuole una grande innovazione teorica e culturale, e tutti dobbiamo metterci in discussione. Rifondazione comunista ha già cominciato. Penso al femminismo, alla nonviolenza, alla critica delle forme del potere».
Diliberto si è detto disponibile a lavorare per riorganizzare la sinistra.
«L’idea di Diliberto mi sembra diversa dalla nostra, tende a rappresentare staticamente quello che c’è e non a costruire una tensione che porti un’innovazione culturale. Non voglio fare nessuna polemica, sto solamente fotografando la situazione. Mentre per noi diventa decisivo il confronto con i movimenti, la società, mi pare che quella di Diliberto sia semplicemente un’idea di resistenti, coloro cioè che resistono alla costruzione del Pd. Però così sarebbe un’operazione del tutto complementare e di risulta rispetto al Pd. Noi invece dobbiamo ricostruire la sinistra in Italia».
A proposito di Pd, pensa che Mussi possa essere un vostro futuro interlocutore?
«Assolutamente sì. Penso che ci debba essere una sfida unitaria per la costruzione di un nuovo soggetto a sinistra. Sfida, perché investe il piano del culturale, l’egemonia. Ma unitaria, perché dovremo muoverci sul terreno del rapporto unitario se vogliamo mettere la sinistra in relazione con i bisogni delle nuove generazioni, se vogliamo ricostruire il fascino della parola socialismo, se vogliamo combattere efficacemente le forme di passività, di spettacolarizzazione della politica, il modello americano».

l’Unità 19.3.07
IL LIBRO Franco Prattico avanza un’ipotesi: la nascita di Homo sapiens è opera della donna. Ma lo abbiamo dimenticato
Eva Nera, ovvero la grande esclusa dalla storia dell’umanità
di Pietro Greco


«Eva Nera», il nuovo libro che Franco Prattico ha appena pubblicato per i tipi della Codice Edizioni (pagine 73, euro 9,90), nasce da un dubbio. Che nel racconto della grande Storia dell’Uomo ci sia stata e ci sia ancora una cancellazione, o anche solo una sistematica omissione: la Donna. Il sospetto è che ci sia una clamorosa esclusione nella ricca narrazione che dalle prime scimmie antropomorfe scese dagli alberi e dotate di un’inedita postura bipede giunge fino a Homo sapiens, l’Uomo sedicente sapiente: l’esclusione della Femmina dalla Storia.
In poche ma densissime pagine il giornalista scientifico di Repubblica risolve il dubbio e giunge a una soluzione che, per la sua forza dirompente, appare come una provocazione: la vicenda della nostra specie - con quella fragorosa accelerazione che il biologo Theodosius Dobzhanski chiamava trascendimento evolutivo e che noi, più modestamente, chiamiamo civilizzazione - non è la Storia dell’Uomo. Ma è la Storia della Donna.
Prattico parte da una constatazione. Che esiste una differenza di genere. Il maschio dei sapiens rispetto ai maschi di quasi tutte le altre specie animali è caratterizzato da un forte interesse - una sorta di ossessione - per il sesso. La femmina dei sapiens, pur non disdegnando affatto il piacere sessuale, ha un più accentuato interesse alla cura parentale: alla protezione e all’educazione dei suoi cuccioli. Nella femmina dei sapiens su ogni altra prevale la propensione alla maternità.
L’ipotesi di Prattico che la donna sia il vero motore della Storia dell'Uomo si fonda su alcuni dati di fatto. Il primo è la «perdita dell’estro» e il disaccoppiamento tra la fecondità e la ricettività delle femmine dei sapiens. Una caratteristica che potrebbe essere legata alla postura bipede acquisita 4 o 5 milioni di anni fa dalle austrolopitecine.
La ricettività estesa delle femmine ha favorito l’emergere del desiderio sessuale dilatato che caratterizza tutta la specie e «ossessiona» i maschi dei sapiens. Probabilmente questi caratteri vanno filogeneticamente estesi a tutto il genere Homo e si sono formati nel corso degli ultimi milioni di anni. Con conseguenze straordinarie: il desiderio esteso ha infatti bisogno di memoria, che è il fondamento di quel trascendimento evolutivo che chiamiamo cultura. Insomma, l’ipotesi ripresa da Prattico, ma propria di molti antropologi, è che la postura bipede e la perdita dell’estro sono tra i fattori che hanno innescato la coevoluzione biologica e culturale che ha portato all’estensione delle nostre capacità cognitive. Ed emotive. E sociali. Perché memoria significa capacità di riaccendere il desiderio e quindi evoluzione della pulsione sessuale in «sentimento». Che, a sua volta, è componente essenziale per la costituzione della famiglia stabile e monogamica.
Ma in realtà, ricorda Prattico, c’è un altro elemento biologico all’origine del nostro peculiare percorso evolutivo, la neotenia: i cuccioli d’uomo (pardon, di donna) conservano a lungo i loro caratteri infantili, si sviluppano lentamente e hanno bisogno a lungo di cure parentali prima di diventare autosufficienti. La neotenia ha rafforzato la propensione alla maternità delle femmine di sapiens. Con conseguenze, ancora una volta, decisive. L’ipotesi ha trovato nuova conferma proprio nei giorni scorsi: secondo una ricerca pubblicata venerdì scorso sulla rivista PNAS lo sviluppo dei bambini dei primi sapiens, 160.000 anni fa, era lento proprio come l’attuale e quindi richiedeva le medesime, lunghe cure parentali.
È proprio dal rapporto peculiare tra femmine e cuccioli neotenici di sapiens, sostiene Prattico, che sarebbero nati tra l’altro il linguaggio (evoluzione dei suoni con cui le femmine interagivano con la prole), la famiglia stabile e l’agricoltura (un accesso sempre più stabile e sicuro al cibo). In definitiva, la stessa civilizzazione.
La storia della nostra specie è, dunque, la Storia della Donna. Eva, anzi Eva Nera - perché la vicenda ha origine e si svolge per lo più in Africa - ne è la protagonista assoluta. Ed è a lei che il maschio Franco Prattico rende il giusto omaggio nell’ultima parte del libro, andando a incontrare la Madre degli Uomini in una capanna del continente nero. Fornendoci, con la curiosità e l’abilità del grande cronista, non solo alcune immagini suggestive della nostra storia profonda. Ma un’interpretazione autentica della sua stessa proposta.
La mia, sembra avvertirci Franco Prattico, non è né nuova scienza eterodossa né scienza consolidata. Ma solo (solo?) una stimolante ipotesi. Un modo di leggere i solidi fatti scientifici con occhiali affatto diversi. La nuova visione appare così profonda e penetrante da proporsi, per dirla con Thomas Khun, come un vero e proprio «cambio di paradigma».

Repubblica 19.3.07
L’ALBA DEI CATTO-COMUNISTI
Sessant'anni fa Togliatti si accordava con la Dc sull'articolo 7 della Costituzione
di Mario Pirani


Il Pci accolse i Patti Lateranensi e avviò una strategia di dialogo che sarebbe arrivata fino al compromesso storico. Una lunga stagione politica di cui si discute in vista del Partito democratico

Il partito democratico è davvero «l´idea forza per galvanizzare il nostro popolo, l´unica chance che abbiamo per battere il centrodestra», come esclama, con entusiasmo un po´ disperato, Michele Salvati, tra i principali estensori del Manifesto dei Democratici? Lasciando in sospeso l´interrogativo c´è da augurarsi che l´Unione sappia presentarsi con una panoplia più ricca di armi e di argomenti e con una capacità unitaria capace di esprimersi oltre l´orizzonte del partito democratico, qualora questo non avesse ancora superato le doglie del parto al momento del voto, specie se anticipato.
L´incertezza di questo appuntamento spiega forse anche il carattere ultimativo imposto da Piero Fassino («non si può più tornare indietro») alla dialettica congressuale, da cui dovrebbe scaturire la decisione dell´auto scioglimento ds, concepita evidentemente come una strategia senza altre alternative. I sostenitori del Pd avanzano in proposito due argomenti: alle ultime politiche si calcola che i ds abbiano raccolto il 17,5 dei voti e la Margherita il 10,7.
Non sono percentuali paragonabili a quelle raccolte dagli schieramenti riformisti negli altri paesi europei. L´altro argomento a favore è la parallela ispirazione riformista sia dei post comunisti sia dei post dc, per cui, a quasi vent´anni dalla caduta del muro di Berlino, essendo venute meno le ragioni storiche della loro contrapposizione, non avrebbe più senso una separazione non suffragata da una sostanziale differenziazione politica.
Vi è, peraltro, almeno a mio avviso, un altro elemento imponderabile e che potrebbe dare, come nel gioco d´azzardo quando si becca l´en plein, una soddisfazione di gran lunga più decisiva delle attese aritmetiche: l´esplodere propulsivo di un sentimento di massa, scaturito dalla combinazione tra l´attesa sempre delusa, ma sempre risorgente di unità e concordia del popolo di centro sinistra, e la nascita del nuovo partito. Dipenderà dal modo e dal come si presenterà, dalla sua apertura e trasparenza, dal grado di sterilizzazione percepita delle dinamiche partitiche e di potere fino ad oggi prevalenti e sempre più mal sopportate dall´opinione pubblica di qualsivoglia tendenza, dalla formazione e dal profilo della leadership. Tutte premesse per ora lontane, poiché allo stato dell´arte, purtroppo, la gestazione in corso denota un appiattimento sul presente, quasi questo partito democratico venisse proposto per una subitanea illuminazione o per un calcolo strumentale di scarso respiro. Eppure credo che se si collocasse questa svolta nella ormai lunga vicenda del rapporto tra mondo cattolico e sinistre e si uscisse dalle questioni di breve momento, le incomprensioni e i dilemmi si collocherebbero in una dimensione storica che consentirebbe di riconoscerli alla radice. E forse di chiarire quale obbiettivo viene proposto, al di là del prossimo o meno prossimo risultato elettorale.
Tanto per fissare una periodizzazione partirò da un giorno ormai lontano, l´11 marzo 1947, quando Palmiro Togliatti illustrò su quale terreno di "compromesso" (compare qui per la prima volta quella formulazione che, dice T., «non ha in sé un senso deteriore» e che Berlinguer riprenderà molti anni dopo) giudicasse possibile costruire una Costituzione che valesse ben oltre «gli accordi politici contingenti dei partiti che possono costituire una maggioranza». Suo interlocutore privilegiato è Giorgio La Pira, in quella stagione il rappresentante più alto, assieme a Giuseppe Dossetti, del pensiero cattolico. Le parole di La Pira che aveva parlato poco prima, ascoltate con "appassionato interesse" dal capo del Pci hanno indicato «la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci ha permesso di dettare queste formulazioni (gli articoli basilari della Costituzione, n.d.r.). Effettivamente c´è stata una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra un solidarismo - scusate il termine barbaro - umano e sociale; dall´altra parte un solidarismo, di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli cui arriviamo noi. Questo è il caso dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, né individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà. Né poteva far ostacolo a questo confluire di due correnti... la concezione... della dignità della persona... vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, colla corrente solidaristica cristiana... Se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come "compromesso" fatelo pure».
Solo pochi giorni dopo, il 27 marzo, dc, comunisti (col voto contrario di Concetto Marchesi e Teresa Noce) e qualunquisti faranno approvare l´art. 7 che sancisce l´inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, malgrado l´opposizione dei socialisti e di buona parte de partiti repubblicani e laici.
Si apre in quel momento la lunga stagione del catto-comunismo che segnerà tutta la storia della prima Repubblica e non solo la Costituzione scritta ma altresì la Costituzione materiale, quell´assieme di norme, leggi, regolamenti e prassi parlamentari, suddivisione di poteri, riforme di vario segno, comportamenti consolidati che hanno caratterizzato in modo permanente e vincolante l´operato di quello che fu chiamato l´arco costituzionale.
Assai meno lineare, già da allora, come si è visto con l´art.7 ma non solo, il rapporto fra le due sinistre, comunista e socialista. E se dal 1948 al 1956 la stagione della guerra fredda rinsalderà il patto di unità d´azione e il comune impegno nei sindacati, comuni e cooperative, la repressione prima a Poznan, poi in Ungheria porterà ad un progressivo distacco e a una ripresa dell´autonomia socialista. Chi poi, come Giorgio Amendola, tenterà di sostenere nel Pci l´esigenza di un partito unico di sinistra di stampo riformista, uscirà isolato e sconfitto.
La partecipazione del Psi ai governi di centro sinistra darà nuovi incentivi alla ostilità, ancor prima che compaia Craxi all´orizzonte. Ma quel che qui preme sottolineare è la funzione che il rapporto coi cattolici assume per impedire ogni possibile trasformazione del Pci in un partito socialdemocratico. Nel settembre-ottobre 1973 Enrico Berlinguer con due articoli su Rinascita prende le mosse dal colpo di Stato di Pinochet in Cile per trarre la conclusione che, neppure con il 51 per cento dei voti, le sinistre possano e debbano andare al governo. Di qui la proposta del compromesso storico che corona un ragionamento esplicito: «Noi parliamo non di una alternativa di sinistra ma di una alternativa democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica». Incardinando in questa nuova fase la strategia consociativa inaugurata da Togliatti, Berlinguer, da un lato, approfondirà il rapporto con la Dc che con Moro toccherà l´acme, proponendosi di ottenere l´avallo cattolico per arrivare alla cancellazione della conventio ad excludendum senza affrontare una profonda revisione della natura del partito, dall´altra, taglierà ogni prospettiva all´autonomia socialista negando alla radice la possibilità di un governo delle sinistre, persino nel caso avessero ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi.
Su questa premessa sbagliata e conservatrice il Pci arriva al crollo del Muro e alla fine dell´Urss. L´empito dell´anti socialismo, che si confonde con l´anti craxismo, si riverbera anche nel neonato Pds. L´approdo al partito socialista europeo e la patetica operazione della Cosa due avvengono per partenogenesi: vetero e post comunisti si autobattezzano socialdemocratici, guardandosi bene dal recuperare e far accedere alla stanza dei bottoni gli ex socialisti, anche quando si chiamano Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo. Contemporaneamente viene respinta anche quell´ipotesi di "partito democratico" avanzata da Walter Veltroni, come involucro di trasformazione radicale e di modernizzazione dell´ex Pci.
È guardando a questo storico retroterra, che ci accompagna almeno da cinquant´anni, che il giudizio sul costituendo partito democratico si fa più approfondito. Le varianti col passato sono senz´altro notevoli. In primo luogo fino a ieri e certamente da Togliatti a Berlinguer il catto-comunismo costituiva il terreno comune, sovente para istituzionale, di compromesso politico e sociale, fra due partiti ben distinti, fieri della loro identità e, almeno in alcuni periodi, aspramente contrapposti. Oggi siamo di fronte ad un salto di qualità: la creazione di un partito unificato tra post dc e post comunisti, un parto assai tardivo ma non incestuoso del compromesso storico.
Se così è appare anche abbastanza naturale il distacco dal Pse, un impronta genetica troppo recente e, dunque, eliminabile senza dolore per una buona parte dei post comunisti.
Il discorso, peraltro, non si chiude qui perché lascia aperto il quesito su quale cultura risulterà egemonica nel nuovo partito. È lecito presumere che i ds si presentino col bagaglio più leggero avendo fatto piazza pulita del concetto stesso di ideologia, obbligati a una terapia di rigetto nei confronti della socialdemocrazia, incerti su una identità slabbrata tra liberismo e no global. Per contro le margherite post dc trovano nella conciliazione tra fede cattolica e riformismo temperato l´humus su cui far crescere una cultura capace di marcare il futuro partito. Lo si ricava dallo stesso Manifesto dei Democratici, laddove si bolla come "presunta e illusoria" la "neutralità" del laicismo e si rivendica, per contro, il «riconoscimento della piena cittadinanza, dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata, delle religioni». L´empito interventista impresso alla Chiesa dagli ultimi due pontificati - dalla scienza all´etica, dalla scuola alla famiglia - si riverbera sulla diaspora politica del cattolicesimo italiano con una dialettica destinata a farsi sentire su ogni comparto partitico, ancorché separato. Da Togliatti a Ruini il cammino è stato lungo. Le vie della Provvidenza sono infinite e non è detto che il Partito democratico non possa contribuire alla ricostruzione in forme nuove dell´unità politica dei cattolici. Non è detto che sia un male.

Repubblica 19.3.07
Le idee. Il giudice la legge e i diritti di Welby
di Gustavo Zagrebelsky


La vicenda di Piergiorgio Welby è conclusa sul piano umano. Non lo è su quello giuridico. La pronuncia del Tribunale di Roma è ancora sub iudice e, soprattutto, potrebbe diventare il modello di altre future pronunce in casi analoghi. Essa contiene un principio di diritto, al tempo stesso, molto importante e – per essere chiaro – del tutto inaccettabile, che avvilisce la nostra giustizia.
La struttura concettuale della decisione è tripartita. (1) Innanzitutto, dopo aver richiamato norme della più diversa natura: internazionale, costituzionale, legislativa e deontologica, si afferma che il principio di autodeterminazione è da considerare ormai positivamente [cioè dal diritto vigente] acquisito e che esso comprende la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ugualmente vigente – si aggiunge – è il divieto dell´accanimento terapeutico. (2) Tuttavia il diritto di autodeterminazione e il divieto di accanimento, pur "positivamente acquisiti", sono disciplinati in modo insufficiente e contraddittorio. Insufficiente, perché la legge non prevede alcuna disciplina specifica del rapporto medico-paziente nelle fasi terminali della vita, non distinguendo tra comportamenti commissivi (interrompere un trattamento attuale) e omissivi (non praticare un trattamento possibile), non definendo il contenuto di concetti rilevanti, come la dignità umana e le condizioni che degradano l´essere umano da soggetto a oggetto, la futilità, l´inutilità o la sproporzione dei trattamenti, l´insostenibilità della sofferenza, ecc.
Contraddittorio, perché l´ordinamento giuridico, che pur prevede il diritto di autodeterminazione e il divieto d´accanimento terapeutico, è ispirato, nel suo complesso, al principio di indisponibilità della vita, come risulta da norme del codice civile, del codice penale e della deontologia medica. (3) Data la carenza e la contraddizione delle norme, il diritto di richiedere l´interruzione del trattamento, che pur è riconosciuto dall´ordinamento, è un diritto non concretamente tutelato. Esso lo sarà solo quando il legislatore sarà intervenuto a porre una disciplina positiva, sufficientemente precisa e coerente; in mancanza, il giudice deve astenersi dal giudicare. Il ricorso di Piergiorgio Welby, così, non è stato né accolto né respinto: è stato dichiarato "inammissibile".
L´impressione che si ricava è di una stridente, irridente contraddizione. Come? Prima, mi dici che ho un diritto, in astratto, ma che, in concreto, non l´ho più! Se non l´ho in concreto, che cosa significa riconoscermelo in astratto? Mi stai forse prendendo in giro? È il momento di simili giochi di prestigio? Questo modo di argomentare – con tutto il rispetto dovuto a una decisione non certo facile – non accresce il rispetto dei cittadini nei confronti della giustizia. Rappresenta ciò che i giuristi chiamano "denegata giustizia": il diritto c´è, ma io, giudice al quale ti sei rivolto, mi rifiuto di darti il provvedimento che lo protegge. Si può discutere se sia fondata, in tutta la sua ampiezza, l´affermazione indicata al numero (1), quanto al principio di autodeterminazione; ma non si può dire, una volta riconosciutolo: il diritto costituzionale è "effettivo e tutelato" solo se e quando il legislatore abbia emanato norme di attuazione. Ciò, in concreto, significa subordinare la Costituzione alla legge, proprio come si cercava di fare con la vecchia e superata dottrina delle norme costituzionali solo "programmatiche"; una dottrina con la quale, nei primi anni dopo l´entrata in vigore della Costituzione, si era tentato di "congelare" gran parte delle sue disposizioni principali, subordinandole al beneplacito del legislatore. Oggi, vale il principio opposto, sancito dall´art. 24 della Costituzione e ribadito numerose volte dalla Corte costituzionale: se un diritto c´è (e tanto più se è previsto dalla Costituzione) non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere.
Si può capire la difficoltà dei nostri giudici, abituati a giudicare applicando regole precise (quelle che il Tribunale di Roma chiede al legislatore) e non avvezzi a giudicare secondo principi di portata generale (come quello di autodeterminazione). Ma è proprio questo il compito cui essi sono chiamati nel nostro momento storico, quando il diritto - in primo luogo, il diritto più elevato: il diritto costituzionale - si esprime attraverso norme di principio e, in questa forma, sono proclamati i diritti fondamentali. Giudicare secondo principi non è la stessa cosa che giudicare secondo regole. Secondo regole, il giudice può trincerarsi dietro una funzione meccanica, di semplice "bocca della legge", la celebre formula di Montesquieu; giudicare secondo principi è cosa molto diversa. Significa stabilire un contatto immediato e concreto con i casi da giudicare. Il criterio di decisione scaturisce così nel rapporto principio-caso e non è mediato dalla regola legislativa. Il compito del giudice si arricchisce di responsabilità e diventa terribilmente difficile. Ma non è una buona ragione per non giudicare.
Possiamo auspicare che il legislatore ponga regole per precisare i principi, e così alleggerire il compito dei giudici. Ma si deve riconoscere che, in settori come il nostro, i principi sono insostituibili. Come si può pensare che la legge "faccia chiarezza e definisca" (questo il Tribunale chiede) concetti come futilità e sproporzione dei trattamenti, dolore insostenibile, "qualità della vita" intollerabile, degradazione della persona da soggetto a oggetto? È un compito impossibile, in generale e in astratto, cioè per legge. È perfino grottesco pretenderlo. È invece possibile, oltre che necessario, in concreto, a contatto con l´irriducibile varietà delle situazioni. Ed è qui che il giudice incontra la sfida alle sue responsabilità.
Per chiarire che cosa significa giudicare per principi e non sottrarsi alle responsabilità, ecco come ha deciso la Corte d´Appello del Regno Unito in un caso che coinvolgeva analoghi problemi. È una pronuncia del 9 dicembre 1992, riguardante un certo Anthony Bland che, per lo schiacciamento dei polmoni, aveva subito una sofferenza cerebrale con danni irreversibili e da tre anni e mezzo era totalmente privo di reazioni nervose (Martin Roth, Euthanasia and related ethical issues in dementias of later life with special reference to Alzheimer´s disease, in «British Medical Bulletin», vol. 52, n. 2, aprile 1996, p. 268 ss.). La Corte d´Appello stabilì che l´équipe medica avrebbe agito conformemente al diritto sospendendo i trattamenti artificiali che tenevano in vita il paziente, in presenza di un giudizio medico unanime circa l´irreversibilità delle sue condizioni: «Le scelte giuridiche devono rassicurare la gente sul pieno rispetto della vita che grava sulle Corti come obbligo, ma non fino al punto in cui diventi privo di reale contenuto e quando ciò coinvolge il sacrificio di altri importanti valori come la dignità umana e la libertà di scelta. Tali assicurazioni possono essere fornite da una decisione, adeguatamente motivata, che permetta a Anthony Bland di morire. Ciò non significa ch´egli può morire perché la Corte pensa che la sua vita "non è degna di essere vissuta". Non è questa la questione. La dura realtà è che egli non sta affatto vivendo una vita. Nessuna delle cose che si possono dire su come noi viviamo la nostra vita – sani o ammalati, con coraggio o forza d´animo, serenamente o tristemente – hanno alcun significato per lui. Ciò rappresenta una differenza qualitativa rispetto al caso di persona gravemente handicappata ma vigile. È assurdo evocare lo spettro dell´eugenetica come motivo contrario alla decisione in questo caso». La Corte affronta poi la questione delle modalità della morte e la distinzione tra far e lasciar morire, distinzione cruciale anche nel caso Welby: non sarebbe più umano praticare un´iniezione letale, piuttosto che attendere la morte per un´infezione o per mancanza di nutrimento? «Secondo le nostre istintive intuizioni, molti di noi sono sgomenti di fronte all´eventualità che gli sia fatta un´iniezione letale. Questo è connesso con la convinzione che la santità della vita ne implica l´inviolabilità da parte di estranei. Salve eccezioni come la legittima difesa, la vita umana è inviolabile perfino se la persona in questione consente alla sua violazione. Ciò spiega perché, sebbene il suicidio non sia un crimine, lo è l´assistenza a chi vuol suicidarsi. […] Il principio di inviolabilità spiega perché, sebbene noi accettiamo che in certi casi sia giusto permettere a un uomo di morire, crediamo senza riserve che nessuno può introdurre nella vita altrui un´azione esterna con l´intenzione di causare la morte. Questa distinzione non si fonda sul fatto che si tratti di un´azione o di un´omissione. La distinzione è tra un´azione o un´omissione che permette a una causa di produrre i suoi effetti e l´introduzione di un agente esterno che causa la morte. Uccidere o lasciar morire è la distinzione accettabile».
Questa citazione non è perché questi argomenti siano indiscutibili, ma è solo per mostrare come si argomenta per principi, ciò che, nel caso Welby, non è stato fatto. Si dirà: ma il nostro non è un ordinamento di common law. Da noi, i diritti sono diritti legislativi (ciò che, implicitamente, ha detto il Tribunale di Roma), mentre il common law riconosce diritti pre-legislativi, beni giuridici nati dal diritto naturale o nella tradizione giuridica. Questo è vero. Ma, da quando sono vigenti costituzioni che statuiscono diritti indipendenti dalla legge – ciò che chiamiamo "Stato costituzionale" –, la condizione pratica in cui si trovano i giudici non è diversa: là e qua essi hanno a che fare con i diritti che, qualunque ne sia l´origine (il diritto naturale, la tradizione, la Costituzione), esistono da prima che il legislatore li determini per mezzo di regole. Sotto questo aspetto, c´è un´inevitabile convergenza tra ordinamenti pur un tempo assai lontani, quanto a ruolo della legge e a compito dei giudici.
La motivazione della decisione sul caso Welby, infine, mette in luce un´altra difficoltà in cui essa si è impigliata: la contraddizione tra il diritto di autodeterminazione e il generale orientamento della legge all´indisponibilità della vita. Il giudice l´ha risolta astenendosi dal giudicare e invitando il legislatore a intervenire per contemperare i due principi. Ma, se la constatazione è fondata e il giudice non sa risolverla da sé; se cioè un diritto costituzionale si trova in irrimediabile contraddizione con altre parti dell´ordinamento giuridico, la via non è astenersi dal giudicare, ma proporre la questione alla Corte costituzionale, il "giudice naturale" cui spetta assicurare la coerenza del diritto, sotto la supremazia della Costituzione.
Da qualunque parte questa vicenda si guardi – compiti dei giudici e valore della Costituzione – si ha da essere delusi, e la delusione aumenta quando si consideri la diversa situazione che esiste in altri Paesi, dove il ricorso ai giudici per la tutela dei diritti ha un grado di efficacia ben maggiore di quello che il nostro ordinamento giudiziario ha saputo finora offrire nel caso di Piergiorgio Welby.

Corriere della Sera 19.3.07
Il Correntone guarda alle Europee e pensa a una «grande sinistra» con il Prc
Ds e Partito democratico Mussi verso la scissione Addio prima del congresso
Il ministro ai suoi: temo che diventi una rissa
di Maria Teresa Meli


Il 29 marzo la sinistra interna della Quercia terrà un'assemblea e deciderà

ROMA — La scissione dei Ds, ormai, è cosa fatta. Anche Piero Fassino ha capito che questo è un esito inevitabile, che Fabio Mussi e compagni se ne andranno. Che costituiranno due gruppi parlamentari autonomi alla Camera e al Senato e una fondazione politica e che anche negli enti locali formeranno gruppi consiliari loro. La questione è chiusa. E non contano le percentuali (il Correntone viaggia intorno al 15,3 per cento, la maggioranza ha il 77,1 e la mozione Angius il 7,1). Né il fatto che i congressi locali termineranno solo il prossimo fine settimana. La decisione è stata presa. Ora il braccio di ferro dentro la Quercia è un altro. La maggioranza chiede al Correntone di partecipare almeno alle assise nazionali. Ma Mussi vuole disertare questo appuntamento e dare l'addio al partito prima.
E' chiaro che una mossa del genere rappresenterebbe un brutto colpo per i vertici dei Ds. Rovinerebbe il Congresso anche sul piano mediatico. Ma il ministro dell'Università, che è molto provato anche emotivamente da questa rottura con gli amici di un tempo D'Alema e Fassino («mi manca il fiato», è la sua confessione), è propenso a intraprendere questa strada. E ha così motivato l'ipotesi di non partecipare al Congresso di Firenze di aprile: «Il rischio — ha spiegato — è che si trasformi in una rissa, con fischi e insulti contro di noi, con la gente che ci urla "traditori"». Ovviamente c'è anche una giustificazione politica: perché andare alle assise nazionali se tanto c'è la scissione?
Per la verità la decisione di disertare il Congresso non è ancora definitiva. Le pressioni della maggioranza sono fortissime. Non solo, i sindacalisti della Cgil che aderiscono al Correntone frenano e fanno altrettanto alcuni autorevoli esponenti di quell'area come il vicepresidente della Camera Carlo Leoni, Marco Fumagalli e Gloria Buffo. Ma Cesare Salvi sembra più propenso ad assecondare l'ipotesi Mussi, il quale è determinato ad andare avanti con la sua idea. Il 29 marzo, comunque, il Correntone terrà un'assemblea per fare il punto. E' chiaro, però, che se, nonostante le perplessità interne, Mussi, cioè il leader di tutta quell'area, non muterà opinione la minoranza non parteciperà alle assise di Firenze. Ed è un'eventualità che fa tremare Fassino.
Il Correntone, intanto, sta pensando al proprio futuro. Il traguardo è fissato nel 2009. Per quella data Mussi e compagni sperano di potersi presentare alle europee con un grande "rassemblement" della sinistra. Per farlo hanno bisogno della sponda che Fausto Bertinotti sembrerebbe pronto a offrire loro. Per il presidente della Camera sta giungendo il tempo di lasciarsi alle spalle anche Rifondazione comunista e di tentare un'esperienza politicamente più significativa: una grande sinistra che alle politiche si allei con il più moderato Partito democratico. Franco Giordano appare più cauto (è il ruolo che glielo impone, visto che del Prc è il segretario) però comincia già a parlare della necessità di dare vita a una nuova «soggettività politica». Ma dentro il partito c'è chi, come il ministro Paolo Ferrero (che nel Prc ha un certo peso), frena. Due anni di tempo, però, potrebbero sciogliere nodi e risolvere difficoltà.

domenica 18 marzo 2007

L'espresso 18.3.07
Heidegger è un bravo compagno

di Wlodek Goldkorn


Si definisce "cristocomunista", perché è una nozione più precisa del "cattocomunista" e propone di rifondare il comunismo, a partire da una filosofia nichilista: Heidegger e Nietzsche contro Marx. 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era' (il titolo allude a 'Ecce homo' di Nietzsche) di Gianni Vattimo è un libro diviso in due parti. La prima: sono interventi politici militanti del filosofo convertitosi al comunismo durante la guerra in Iraq. E su questa parte si sono soffermati finora i recensori, qualche volta stupiti dall'attrazione che su Vattimo esercitano personaggi come Castro e Chávez.

La seconda parte, inedita e affascinante, ha invece come ambizione porre basi teoriche a un 'comunismo libertario'. Si parte da Adorno e dalla sua considerazione su come le avanguardie artistiche del Novecento avessero avuto come compito mettere in questione l'arte stessa. Dice Vattimo: il compito di una politica di sinistra è porre domande sulla politica stessa. Per farlo, ci vuole coraggio. E Vattimo lo ha. Per esempio, rivendica il pensiero apocalittico contro un illuminismo che a suo dire, interpreta l'esistente in chiave moderata alleandosi così con i neo-conservatori. Occorre invece, recuperare una visione irrazionalistica della storia.

All'interno di questa visione, non c'è spazio per un Marx, che ha "fede in verità obiettiva della storia e in esistenza di una essenza umana". Largo invece, a tutto ciò che contraddice la 'natura' e a Heidegger che propone di "pensare il non ancora pensato", e a Walter Benjamin che vorrebbe recuperare la memoria dei perdenti, e il "passato ancora aperto". Tutto questo è un gioco intellettuale molto raffinato, molto stimolante, e un po' pericoloso, specie quando ci si dichiara nemici di ogni 'mistica' che presuppone l'esistenza di una verità. Alla fine Vattimo svela tutte le sue carte, e dice: "Con il motto non ci sono fatti, solo interpretazioni (...) fonderemo il comunismo libertario".

Gianni Vattimo, 'Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era', Fazi, pp. 127 E 12,50


Corriere della Sera 18.3.07
Il regista racconta il copione centrato sulla figura di Ida Dalser. La scelta del titolo: «Vincere»
Bellocchio, il Duce e il film sulla «moglie ribelle»
intervista di Aldo Cazzullo


ROMA - «Il film si intitola Vincere. Come la parola d’ordine del protagonista, il Duce. E come la volontà invincibile della protagonista, Ida Dalser, l’amante e forse moglie di Mussolini, che gli diede il primo figlio maschio, Benito Albino, destinato come lei a morire in manicomio». Dopo Buongiorno notte, Marco Bellocchio torna a fare un film sulla storia politica del ’900. Stavolta affronta la figura del Duce. Respingendone entrambe le immagini stereotipate: quella postresistenziale dell’alieno che grazie a una cricca di criminali governa un paese a lui estraneo; e quella in via di costruzione di un padre di famiglia che con bonomia e sagacia salva l’Italia dal comunismo fino all’errore dell’alleanza con Hitler.
«Il Duce è un "essere per la morte", un calcolatore cinico disposto a passare sui cadaveri. Il Mussolini del mio film ricorda l’Alessandro dei Pugni in tasca, che si "realizza" uccidendo madre e fratello. Ciò non toglie che il Mussolini storico ebbe un consenso straordinario - dice Bellocchio -. E la gran parte dell’Italia si specchiò in lui. Maestri, impiegati, piccolo borghesi si riconobbero nel Duce e lo adorarono; e lui fu di volta in volta uno di loro, maestro, poeta, soldato, contadino, padre affettuoso, marito, amante».
«Quando volle fare di sé un Cesare o un Alessandro Magno cominciò la sua fine. Ma fino ad allora la grande maggioranza degli italiani sono stati fascisti; per questo, quando il fascismo cadde, lasciò dietro di sé un popolo sfiduciato, qualunquista, rassegnato a non credere in nulla. Un po’ com’è accaduto ai postcomunisti dopo il crollo del marxismo. Ovviamente ci furono eroi che al fascismo si opposero. E anche la donna del mio film ebbe il coraggio di tenergli testa. Al Duce, che l’aveva amata e abbandonata, Ida Dalser non si piegò mai. Fu ribelle sino alla fine. Quasi un’Antigone, un’eroina da tragedia greca».
«Il film comincia con un episodio riportato da Paolo Monelli nel suo Mussolini piccoloborghese, ripreso dall’autobiografia della Balabanof. Siamo nel 1909, a Trento. Nella realtà storica, l’episodio accadde in Svizzera, ma il significato è lo stesso: l’immaginazione deve riconoscersi anche in un film storico un margine di infedeltà. La Dalser si affaccia in una sala dove si combatte uno di quei duelli verbali all’epoca molto diffusi tra un prete e un socialista ateo. C’è il giovane Mussolini che da istrione qual è chiede agli spettatori un orologio da taschino, lo poggia sul tavolo e proclama: "Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste"».
Più avanti c’è anche il duello, stavolta non metaforico, con Claudio Treves, «con il Duce che pur ferito si ferma a verificare che gli arbitri scrivano fedelmente il verbale del combattimento e del suo comportamento coraggioso, per poi pubblicarlo sul Popolo d’Italia».
«Il giovane Mussolini esce dal film quando parte per la guerra. Ida ha venduto il suo salone di bellezza per aiutarlo a fondare Il Popolo d’Italia, è rimasta incinta, forse Benito l’ha pure sposata. Il giorno prima di partire per il fronte, lui la porta al cinema. Al cinegiornale scorrono le immagini della guerra, il pianista suona l’inno di Garibaldi, i nazionalisti cominciano a cantarlo - "Si scopron le tombe, si levano i morti..." -, Benito si unisce al coro. I socialisti reagiscono, scoppia una rissa che mi piace pensare con i colori della "Rissa in galleria" di Boccioni, e Ida si lancia in sua difesa nonostante sia al settimo mese di gravidanza: è una donna fatta così, di una dedizione assoluta al suo eroe».
Lo rivedrà solo al cinema, in un altro cinegiornale, nel 1922, mentre sale al Quirinale in camicia nera. «Ho in mente una continua contaminazione della finzione con il repertorio, che ho già sperimentato nel film su Moro». Là, i funerali del presidente della Dc senza sonoro, con la musica dei Pink Floyd.
Nella seconda parte di Vincere, Mussolini sarà quello dei cinegiornali Luce, e Ida andrà continuamente al cinema per averne notizie: nella vita non lo vedrà più.
«Ma per tutta la vita continuerà a rivendicare la propria storia di essere stata la moglie e di essere la madre del primogenito del Duce. Che ormai è avviato verso la conciliazione con la Chiesa e di quell’antico amore si deve disfare. Madre e figlio devono sparire. E spariranno i documenti del matrimonio e della nascita del figlio, a cui verrà cambiato il nome più volte. Non dovranno più esistere. Così nel 1926 Ida viene arrestata e rinchiusa nel manicomio di Pergine, vicino a Trento; poi in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia».
Una vicenda terribile di elettrochoc, malaroterapia - «si iniettava la malaria con il pensiero che le febbri alte avrebbero provocato una reazione salutare per la mente del malato» -, fughe, arresti, ricerche del figlio che nel frattempo il regime ha mandato in Cina, per poi rinchiudere anche lui in manicomio. E un’ultima fuga di Ida, riuscita, vittoriosa, a dimostrazione di questa sua invincibilità, nonostante fosse rinchiusa e controllata giorno e notte. Ida muore nel 1937, Benito Albino nel 1942. Il film si chiude con la Liberazione e la campagna elettorale per il referendum sulla monarchia: l’ultima scena è ancora ambientata in un cinema, dove si rifugiano i manifestanti di un corteo repubblicano dispersi dalla polizia, l’Italia della Resistenza che ha sconfitto il fascismo; ma non voglio rivelare il finale».
Il progetto è finanziato da Raicinema, e le riprese dovrebbero cominciare alla fine dell’anno, per essere nella sale nel 2008. Sull’attrice che farà Ida, e che dovrà essere «di una bravura mostruosa», è ancora buio.
Sarà un film politico, spiega Bellocchio. E uno degli spunti è la crisi del partito socialista, «che comincia proprio nel 1915, con la svolta interventista di Mussolini. Questa è una riflessione maturata anche da conversazioni con mio fratello Piergiorgio, che mi ha mostrato un’intervista in cui Treves prevedeva, dopo il delitto Matteotti, che passata l’estate e finite le vacanze il fascismo sarebbe caduto da sé. I socialisti sottovalutano il Duce, non comprendono che non ha soltanto l’appoggio degli industriali, degli agrari, della piccola borghesia, della Chiesa, ma che tanta gioventù si riconosce in lui, vede in lui l’uomo nuovo della politica, capace di spazzare via la vecchia classe liberale e anche socialista. Poi, dopo la Liberazione, il Psi subisce l’egemonia comunista. Sotto questo profilo, il disegno di Craxi di mettere in discussione il primato del Pci e restituire al proprio partito peso elettorale e libertà d’azione, per quanto perseguito con metodi inaccettabili, era politicamente lungimirante».
«Oggi mi manca, e credo manchi all’Italia, un partito socialista veramente laico - dice Bellocchio -. Non capisco il cupio dissolvi della sinistra, l’ansia di annullamento di sé che spinge i Ds a unirsi ai cattolici ruiniani come la Binetti e lo stesso Rutelli nel partito democratico, che si dovrebbe collocare fuori dall’Internazionale socialista. Stimo Veltroni, è un amico, ma non ne comprendo il progetto. Viene in mente un detto antico, "chi di spada ferisce di spada perisce": come se, dopo aver consegnato il Psi ai giudici, la sinistra erede del Pci scegliesse il suicidio (come espiazione?). E neanche mi convince il "casinismo" di Pannella, che certo non ha giovato alla Rosa nel pugno. Quanto ai neo o veterocomunisti, quelli che con un aggettivo geniale Guareschi definiva trinariciuti, non mi sembra che abbiano le idee molto chiare, o che ne abbiano di nuove. Bertinotti mi pare imbavagliato nel suo ruolo istituzionale, e il suo partito molto sulla difensiva. Sono un moralista (lo sono ancora troppo, e questo è un limite), ma non credo che il moralismo e l’antiberlusconismo possano esaurire la politica: non mi fanno ridere le vignette di Vauro. Così come non mi hanno mai interessato i girotondi, che hanno lasciato poco o nulla dietro di sé. Sono letteralmente scomparsi, e sembravano la grande invenzione della politica. E’ rimasto invece il loro leader carismatico, Nanni Moretti: geniale inventore, e amministratore, della propria immagine».

l’Unità 18.3.07
Tabù, segreti e bugie
L’Italia e il sesso
di Roberto Cotroneo


C’è davvero da domandarsi in che paese viviamo, se nel paese del fotografo Corona e di personaggi come Lele Mora, o se invece siamo nel paese del Cardinal Ruini. Se siamo dentro storie di corruzioni e trasgressioni che finiscono su siti e giornali, o invece se siamo vittime di una recrudescenza bigotta e moralista, un paese dove prima o poi qualcuno dirà che persino il divorzio va ripensato e non è cosa buona e giusto. Sicuramente viviamo in un'Italia schizofrenica, dove i cattolici integralisti vogliono dimenticarsi che siamo uno stato laico ed europeo.
E dove figuri che sembrano usciti da un brutto romanzo di appendice seguono politici e procurano piacenti ragazze a suon di migliaia di euro per stanchi uomini di successo abituati a non conquistarsi nulla e a comprarsi tutto, ma soprattutto a farsi ricattare.
Ma questa è cronaca, per quanto squallida. Quello che va oltre la cronaca dice ben altro. E ci mostra un lato più sfuggente del nostro vivere quotidiano. Se da un lato c'è una battaglia, ufficiale e sommersa, ambigua e fitta di colpi bassi, sulle unioni di fatto, sui Dico, e contro quelli che vengono definiti «i diversi», dall'altro c'è uno spaesamento assoluto, che letto attraverso certi dettagli si mostra più drammatico di quanto si pensi. Mi riferisco a un interessamento morboso nei confronti della vita sessuale di personaggi, che siano pubblici o no. Mi riferisco a questo nuovo tabù che da un po’ circola tra siti di gossip e ben più importanti pagine dei quotidiani. Il tabù del transessuale.
Ora sarebbe ridicolo dire che l'attrazione per i transessuali è cosa di oggi, da molti anni i transessuali sono figure border line, persone di confine, traduciamolo così, che attirano desideri e morbose curiosità. Ma negli ultimi anni il fenomeno è diventato ancora più evidente, ma soprattutto molto pubblico. Si pensi soltanto al modo scorretto e poco rispettoso su cui si è indugiato quando Lapo Elkann finì vittima di un overdose nella casa del famoso trans «Patrizia». Si pensi al clamore di questi giorni, su molto fantomatiche fotografie che avrebbero rivelato un interesse del portavoce di Prodi per i corpi di trans esposti in una delle tante strade della capitale. Quando si innesca un isterismo morboso per fenomeni come questi, vuol dire che c'è una società intorno che non ha fatto i suoi conti con la propria identità e i propri desideri.
Se volessimo sintetizzare con una battuta. Nel paese che in dieci anni è diventato il più moralista d'Europa i transessuali sono merce preziosa. Nella terra degli anatemi di Ruini, l'offerta di transessuali è aumentata vertiginosamente, fino a generare domande su domande. Nel moralismo corrente tutto questo sembra da un lato intollerabile e dall'altro irresistibile. Ma cosa sta accadendo?
È molto semplice. I trans sono tutto. Sono uomini, sono donne, sono prostitute, ma soprattutto sono un «prodotto», se mi si passa il termine, che obbedisce a un immaginario erotico costruito ad arte dalla moda, dal cinema, e in una parola dalla contemporaneità. La loro femminilità è assieme assoluta e al tempo stesso banale. Merito di chirurghi plastici che hanno il compito di esasperare forme e femminilità: nei seni, nelle labbra, sui fianchi, e ovunque. Nello stesso tempo sono anche degli uomini. Per i clienti, per i curiosi, per tutti quelli che li cercano anche soltanto per guardarli da vicino, sono bambole globali, trasgressive e rassicuranti, prive di una identità sessuale che vada in una direzione qualsiasi. E nello stesso tempo sono il trionfo di quella identità sessuale che ha trasformato l'immaginario degli uomini verso le donne in qualcosa di insensato, di plastificato, di artificioso. Non dimentichiamo che stiamo parlando di uomini, e soltanto di loro: perché sono gli uomini a cercarle, gli uomini a volerle, e gli uomini, e sempre eterosessuali, a pagarle. Non si confonda l'attrazione per il transessuale per l'attrazione nei confronti dell'ambiguità, o tantomeno dell'androginia, che è l'opposto. Il transessuale rappresenta un ideale femminile paradossale, e non sono degli omosessuali latenti a cercarli, ma degli eterosessuali che vogliono avere a che fare con donne esagerate che però donne non sono. È una sorta di schizofrenia identitaria, che rispecchia le debolezze di un paese scisso a tutti i livelli. Perché mentre gli scandali - veri, costruiti, perfidi o inutili che siano - si susseguono uno dopo l'altro, dall'altro lato ci sono in Parlamento deputati pronti a dichiarare (legittimo farlo, forse poco discreto dirlo) di portare il «cilicio», che è «meglio dei tacchi a spillo». Mentre sui viali donne che sono uomini portano tacchi a spillo passeggiano seminude di fronte a uomini attratti da una femminilità che sembra più che altro un desiderio onirico, altrove ci si indigna perché in questo paese deve essere normale che una coppia omosessuale possa avere gli stessi diritti di una coppia eterosessuale. E una coppia non sposata di una coppia sposata.
Se dicessimo che tutto questo è solo il gusto per il gossip saremmo degli ipocriti. È vero che oggi tutto diventa pubblico, perché c'è internet, perché le notizie viaggiano velocissime. Perché ormai milioni di italiani portano in tasca sempre una macchina fotografica travestita da telefonino. Ma non basta a spiegare come sia possibile un livello di morbosità che arriva fino a questo punto. Falsa morale, si sarebbe un tempo detto. Confusione si potrebbe dire oggi. E sarebbe più corretto. Il pensiero debole ha fatto centro quando meno ce lo saremmo aspettato. Non è colpa della caduta delle ideologie, non è colpa di una deriva etica inaspettata, è il risultato di una società che non sa trovare in se stessa un limite e un'identità. E molti di quelli che oggi sono contro i Dico, c'è da giurarci, possono essere tra quelli che vanno a cercare i transessuali la notte per i viali. Per poi indignarsi la mattina dopo proprio di questo.
Ma al di là di queste ipocrisie, vecchie come il mondo, è l'aspetto pubblico che colpisce. Il guardare dal buco della serratura, la percezione che il grande fratello, il più grande di tutti, è l'intera società italiana. Dissentire, trasgredire, curiosare, giudicare, indugiare in tutti i dettagli a disposizione. E farlo ad alta voce, come fosse un dibattito pubblico. Segreti e bugie sono sempre stati all'ordine del giorno, nel potere come lontano dal potere. Ma se ora appaiono così scandalosi e irrinunciabili è perché sono scandali privi di vere passioni, e non sono vizi: ma solo un mondo virtuale di plastica, come i corpi dei transessuali sbirciati di notte; ed è l'assenza di vizi e di passioni che mette tutto sullo stesso piano e snatura tutto, e non permette neppure quella simpatia, quella comprensione che si deve sempre avere per le debolezze altrui.
Il risultato è un moralismo sbandierato, di maniera, direi persino di posizione, che non tiene conto di fragilità e di identità altrui da rispettare. Il moralismo dei Ruini, non è la morale: quella è perduta. La morale che prima di ogni cosa è capire le ragioni e le realtà degli altri, quella che pone limiti, certo, ma non per ghettizzare o per gridare allo scandalo, bensì per disegnare una mappa plausibile di una modernità in continuo movimento. Rimane la plastica di queste donne guardate, cercate e desiderate quasi uguali a quelle elaborate nei computer, rimane il non esserci, rimane un chiacchiericcio dannoso e terribile, rimane uno strano vuoto in cui si sembra di essere precipitati. Che toglie l'aria e non ci permette di respirare.

l’Unità Bologna 18.3.07
GIOVANNI DE PLATO: «La frattura tra pensiero ed emozioni porta a comportamenti distruttivi, anche contro se stessi»
«Raptus imprevedibili, anche in chi è sano»


Bologna. «Anche all’interno di un ottimo progetto di reinserimento sociale, come quello costruito per Simone dal Dipartimento di salute mentale dell’Ausl, non è possibile nè prevedere nè eliminare del tutto eventuali comportamenti distruttivi». Giovanni De Plato, docente di Psichiatria all’Università di Bologna, che rapporto c’è fra il disturbo schizofrenico e la possibilità di commettere un crimine?
«Premesso che è sempre difficile pronunciarsi su casi singoli, perchè bisognerebbe prima conoscere la storia del soggetto e della sua famiglia, diverse ricerche dimostrano che non c’è alcun rapporto fra la schizofrenia ed eventuali comportamenti distruttivi. Uno studio recente prova, al contrario, che le persone affette da questo disturbo commettono meno crimini rispetto a quelli compiuti da soggetti “sani” in una grande città americana».
Quindi il disagio mentale non può spiegare il gesto del ragazzo che ha strangolato la nonna?
«Chi ha un disagio così grave è certamente più vulnerabile, ed è più esposto al rischio di commettere gesti violenti rispetto ad altri. Ma il rischio si trasforma in azione solo in una situazione di stress particolarmente intenso e persistente, che il soggetto non riesce più a sopportare».
Nell’interrogatorio davanti al magistrato il giovane ha raccontato di una discussione telefonica, non si sa ancora con chi, che avrebbe fatto scattare la sua ira. La telefonata potrebbe aver fatto precipitare una condizione di forte stress?
«Le persone gestiscono i loro comportamenti in modo “normale” quando legano i comportamenti al pensiero ed alle emozioni. Quando siamo sottoposti ad un’emozione negativa particolarmente forte e pervasiva (come la telefonata può essere stata, ndr) si può momentaneamente interrompere la connessione fra azione, pensiero ed emozioni. Ed è proprio questa frattura che porta a comportamenti distruttivi, contro gli altri o contro se stessi».
Il ragazzo, però, era in cura psicoterapica e farmacologica fin da adolescente. Non era prevedibile che compisse gesti violenti?
«La psichiatria e la psicologia oggi sono in grado di curare disturbi gravi come la schizofrenia, e soprattutto nella nostra città ci sono servizi di alta qualità che possono permettere ai pazienti un percorso di reinserimento sociale. Ma in nessun modo siamo in grado di prevedere eventuali comportamenti distruttivi, se è vero che un gesto violento può essere compiuto in ogni momento di particolare stress e disagio in cui l’azione non è più legata al pensiero».
Questo meccanismo, e questa imprevedibilità, valgono anche per le persone “sane”?
«Per i “sani” è anche peggio. Chi è seguito da un supporto psicologico è generalmente più capace di vivere le emozioni in modo adeguato». g.g.

l’Unità 18.3.07
POLEMICHE «Perché non possiamo essere cristiani», una cavalcata atea dal «Genesi» al cattolicesimo di oggi che ha suscitato ripulse e indignazione
Il matematico Odifreddi fa il verso a Voltaire e plagia Russell? Fa bene!
di Bruno Gravagnuolo


Odifreddi onnipresente. Ubiquo come lo spirito santo, narcisista alla «n». Uomo tutto. Da attore in scena al Festival della Matematica di Genova, dove intervista Dante e lo bacchetta. Questiona virtualmente col Dalai Lama, e inframmezza il pane della scienza con le apparizioni di una bellissima attrice senza veli. Ai fasti del festival matematico di Roma. Con Spasky, Barrow e Nash. Senza dire di collane, apparizioni Tv, saggi alti e bassi, articoli e articolesse, sparsi ovunque.
Del resto di questa vocazione ubiquitaria di «holy Gosth» o «Spirit», testimonia la sua biografia. Un matematico dei due mondi, che studiò tra Usa e Urss e che insegna logica sia a Torino sia alla Cornell University. Insomma, temperamento inflattivo che rischia di finire come un Alberoni di qualità e che magari se si fermasse un attimo senza disperdersi potrebbe persino lasciare un segno scientifico forte e risultare più persuasivo. Queste però ne conveniamo sono ubbie un po’ antiquate, in tempi vanitosi e mediatici. E non valgono a censurare il quia. Il merito e i meriti della battaglia di Odifreddi, di là dello scintillìo narcisistico. Prendete ad esempio il suo ultimo libro, che ha sollevato ripulse moralistiche: Perché non possiamo essere cristiani (Longanesi, pp. 264, euro 14, 60). Ebbene è utilissimo, non di rado spiritoso senza girare attorno alle questioni, ben scritto e ben documentato. Magari ridondante, e persino plagiaro (confesso) nel titolo, che occhieggia a Croce e Bertrand Russell. E infine addirittura scontato, su molteplici aspetti che investono l’irratio dei misteri della fede cristiana, biascicati inconsapevolmente da tanti. E però la cavalcata di Odifreddi, dal Genesi con le sue insensatezze, all’insabbiamento autoritario degli scandali pedofili in seno alla Chiesa, incide. È onesta e veritiera. E costringe ogni «uomo di buona volontà» e retta ragione a fare i conti con l’arbitrio dottrinario e autoritativo di una fede istituzionale che, malgrado contraddizioni e stranezze, pretende di bel nuovo di stare a fondamento delle leggi civili. E in nome della razionalità occidentale! Tale è infatti la campagna che il cattolicesimo con questo papato, ha intrapreso. Con la scusa che le leggi civili da sole non bastano. E che lo stato laico democratico da solo non si fonda. E che necessita di un fondamento esterno, pena la caduta nella negazione della vita, nella violenza e quant’altro. Talché sarà pure la «scoperta dell’ombrello», come scrive Giorgio Israel sul Foglio, che Elohim, nel Genesi biblico è plurale allusivo alle divinità antropomorfe del Toro e del Vitello. Con tanti saluti al monoteismo. E sarà pure l’acqua calda che i «dieci comandamenti» furono rappezzati in momenti diversi, tra Monte Oreb e Sinai e poi ricodificati per gli ebrei, con contraddizioni tra fasi differenti. E infine sarà anche banale che i Vangeli erano almeno 18, i sinottici più gli apocrifi. Che sono scritti per sentito dire. E che molti miracoli sono ridicoli e sconnessi, come quello del diavolo esorcizzato e messo in corpo a mandrie di maiali. E tuttavia repetita juvant, e non «scocciant» (lat. corrotto). Già, non è noioso ricordare, come fa Odifreddi, che la «transustanziazione» dell’Ostia è una magia inverosimile e aristotelicamente macchinosa: mutazione del pane in corpo e sangue di Cristo con le specie sensibili intatte. Laddove più ragionevolmente Lutero sosteneva che è il corpo fantasmatico di Cristo a entrare nel pane, senza alterarne la sostanza. Mentre ancor più ragionevolmente Zwingli diceva che il sacrificio era un «hoc facite in commemoratione mei»: una cerimonia simbolica. Sicché non solo ci si chiede di credere a una sostanza trasfigurata negando quel che appare. Ma se ne fa un vincolo dogmatico che anatemizza o salva a seconda che si voti per i Dico o no.
Altra questione, capitale. Che Odifreddi ripropone all’attenzione. Il nesso tra cristianesimo e libertà. Vero, la fede cristiana fu un ingrediente di liberazione dei servi. Ma solo un ingrediente e più spesso un potente ostacolo. S. Paolo infatti era ultra-maschilista e approvava la schiavitù. Come Pio IX del resto, che chiamava «cani» gli ebrei sciolti dal getto dopo Porta Pia. E però vogliono farlo santo. E allora ben venga Odifreddi a rifare il verso a Voltaire.

il manifesto 18.3.07
Da Michael Atiyah una sfida alle tentazioni della logica
«Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, ma il suo motore è l'immaginazione, non il cieco calcolo». Un dialogo con il celebre studioso anglolibanese noto per il teorema che porta il suo nome e ha rivelato inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi
Luca Tomassini


«Credo che la matematica sia costruita a partire dalla nostra esperienza del mondo esterno». C'è una tensione, una vera linea di frattura, che attraversa la matematica fin dalle sue origini, quella tra intuizione e formalismo, verità immediatamente percepibile e dimostrazione. Un contrasto cui Michael Francis Atiyah - che abbiamo incontrato ai margini del Festival della matematica a Roma - non si è mai arreso, come dimostra la sua straordinaria biografia scientifica. Nato a Londra settantanove anni fa da padre libanese e madre scozzese, cresciuto prima in Sudan e poi nel Regno Unito, è universalmente riconosciuto come una delle più geniali menti matematiche del Novecento. «Per tutta la vita - spiega - ho sempre cercato di costruire ponti», e il celebrato teorema che porta il suo nome (insieme a quello del collega Isadore M. Singer) ha non solo rivelato profonde e inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi ma ha avuto un ruolo straordinario nel colmare il divario tra il mondo della matematica pura e quello della fisica teorica. «La matematica - dice ancora Atiyah - comincia con idee generali che diventano via via più precise e specializzate. Durante il XX secolo le sue parti principali sono state affrontate separatamente, con la ben fondata speranza di realizzare progressi più rapidi. Sul lungo periodo questa strategia espone però al pericolo di perdere una visione di insieme, ma oggi per fortuna viviamo di nuovo in un'epoca di sintesi».
Ci può spiegare come giustifica la sua scelta di avversare, nel dibattito sui fondamenti della matematica, un orientamento basato sulla logica?
Molti sono convinti che la matematica si risolva nell'esibire dimostrazioni, dimostrazioni di carattere logico: credo sia un grave errore. È vero, è il cemento che tiene unita tutta la matematica, il suo obiettivo ultimo, ma il mezzo con cui la otteniamo è l'immaginazione, non il cieco calcolo. Non si comincia un lavoro con chiodi e martello, ma con un'idea.
Il calcolo, appunto, viene spesso identificato con l'algebra e contrapposto alla geometria. Anche per lei è così?
Ho sempre avuto un grande interesse per la questione del rapporto tra algebra e geometria. E poiché la nostra percezione di noi stessi e del mondo si articola intorno alle categorie di tempo e spazio, trovo del tutto naturale supporre che esse siano al cuore di questo problema. Per quanto riguarda la geometria, nessuno dubita del fatto che il suo principale oggetto di studio sia lo proprio spazio, come lo percepiamo in un determinato istante. Al contrario, nell'algebra moderna effettuiamo operazioni in una determinata sequenza, una dopo l'altra, nel tempo appunto: è un algoritmo di calcolo, niente affatto diverso da quelli utilizzati da un computer che elabora i suoi dati. Del resto, il pensiero logico-simbolico comporta il passaggio da una serie di assunzioni a delle conclusioni.
Lei ha definito i vantaggi offerti dall'uso del computer come una «offerta faustiana». Quali sarebbero le tentazioni in campo?
Era una provocazione, naturalmente, e ne ho pagato il prezzo subendo un gran numero di critiche. Per capire quale sia il problema torniamo al pensiero geometrico: la sua natura sintetica, intuitiva, è il miglior esempio di ciò che intendo per comprensione. Nella storia della matematica invece l'algebra è nata come un ausilio per il calcolo, la verifica, compito questo che svolge in maniera davvero egregia. Quando facciamo un'operazione algebrica introduciamo un input e smettiamo di pensare al suo significato, semplicemente manipoliamo simboli seguendo regole formali e infine otteniamo una risposta. In mezzo c'è una scatola nera. La scomparsa del desiderio di dare un'occhiata al suo interno è il pericolo che vedo nella diffusione del calcolo automatizzato. Quando ho definito questo fenomeno «faustiano», immaginavo il diavolo mentre si presenta a uno scienziato e gli dice, suadente: «ecco una macchina meravigliosa, basta formulare un problema e lei ti fornisce la risposta. Tutto quello che devi fare per averla è rinunciare alla tua anima, al desiderio di comprendere». Certo, come dimostra la disputa tra Isaac Newton e Gottfried Leibniz, le cose non sono sempre così semplici. Newton sviluppò il suo calcolo infinitesimale per descrivere il movimento dei corpi e in ogni suo ragionamento il riferimento al mondo reale conservava un'importanza centrale. Leibniz era invece un formalista e il suo calcolo era un'algebra molto più semplice da utilizzare. Tra i due, è il filosofo che alla fine ha avuto la meglio: oggi, infatti, scriviamo il calcolo differenziale seguendo la sua notazione. Resta però il fatto che questa scelta non favoriva la comprensione sintetica di tutti gli aspetti del problema. Capire è vedere, tutto insieme e nello stesso istante. Persino nel procedimento artistico possiamo distinguere un aspetto tecnico e uno concettuale, e la tentazione diabolica sta nel considerare solo il primo.
In passato lei ha collaborato all'organizzazione di esperimenti il cui intento era quello di chiarire i fondamenti biologici del pensiero matematico. Ce ne può sintetizzare i risultati?
Alcuni miei colleghi sostengono che per loro ragionare in termini geometrici sia completamente naturale, altri hanno la stessa sensazione riguardo la formulazione algebrica dei problemi. Mi è sempre interessato stabilire se queste inclinazioni avessero un fondamento neurologico e per questo ho cercato di verificare dov'è che nel cervello «avviene la geometria» e dove «avviene l'algebra». La mia ipotesi è che la geometria coinvolga l'emisfero deputato alla visione mentre l'algebra, proprio come il linguaggio, abbia a che fare con l'emisfero specializzato nella percezione del movimento. L'idea era molto semplice: utilizzare tecniche di imaging cerebrale per «vedere» cosa succede durante la risoluzione di problemi matematici. Naturalmente abbiamo iniziato con domande elementari e abbiamo poi verificato che, come previsto, semplici calcoli aritmetici coinvolgono le aree del linguaggio mentre all'opposto problemi più complessi sulla natura dei numeri richiedono l'attivazione dell'altro emisfero. Sono risultati incoraggianti e sono convinto che proseguendo su questa strada nel giro di dieci o vent'anni avremo la possibilità di rispondere a una serie di interrogativi che per secoli hanno impegnato senza successo i filosofi. Se vogliamo capire come pensa il cervello, la matematica è un ottimo punto di partenza.
Eppure importanti filosofi della mente come John Searle ritengono gli strumenti concettuali attualmente a nostra disposizione insufficienti a rispondere a interrogativi quali la natura del pensiero, anche matematico. Lei è d'accordo?
Talvolta un problema può essere così complesso da rendere impossibile una risposta definitiva. Per esempio, cosa è la coscienza? Cosa è il pensiero? Credo che quesiti del genere siano destinati a svanire, a perdere di significato. Per millenni gli esseri umani si sono interrogati sulla natura della vita, oggi ragioniamo in termini di selezione naturale, cellule, proteine, Dna. La domanda si è moltiplicata in tante domande, più specifiche e sofisticate.
Dunque ha un fondamento biologico quella che Eugene Wiegner definiva la «irragionevole efficacia della matematica» nella descrizione scientifica della realtà?
Come le dicevo, la matematica è costruita a partire dal mondo esterno. È poi così sorprendente che sia anche efficace quando si tratta di descriverlo? In fondo, la mente umana è stata modellata dalla selezione naturale, che in qualche modo l'ha resa «compatibile» con la realtà. Ma la nostra esistenza, le nostre percezioni restano confinate a scale macroscopiche e per questa ragione considero sorprendente che la matematica continui a essere applicabile anche al mondo delle particelle elementari. Ma chi può dire qual è la verità? La matematica è veramente uno specchio della realtà o solamente l'immagine che ce ne restituisce il cervello, con tutti i suoi limiti e possibili errori? È proprio ora che la fisica diviene sempre più sofisticata, proprio come la matematica necessaria a descriverla, che le domande poste da Kant tornano di grande importanza. Stiamo sfiorando la natura ultima dello spazio e del tempo o solo costruendo modelli matematici sempre più complicati per adattarli al meglio a quello che osserviamo? I rapporti tra matematica, fisica e realtà continuano a restare un mistero.
Lei ha formulato e dimostrato un teorema che porta il suo nome e che ha trovato sorprendenti applicazioni proprio nel campo della fisica quantistica, influenzando profondamente lo sviluppo della teoria delle stringhe. Ritiene che l'uso sempre più massiccio di sofisticati strumenti matematici stia cambiando la natura della ricerca nel campo della fisica?
La fisica si confronta oggi con domande sulla realtà a scale talmente piccole e energie talmente alte che la verifica sperimentale diventa sempre più difficile, se non addirittura impossibile, e per questo le tecniche che si hanno a disposizione sono per lo più matematiche. Non sappiamo se quelli della fisica odierna siano veri passi avanti nella comprensione del mondo o solo eleganti costruzioni concettuali, ma francamente non vedo alternative all'uso della matematica.
Viceversa alcuni ricercatori hanno messo in discussione il significato della dimostrazione come garanzia della certezza matematica. Oggi esiste persino una rivista dedicata alla cosidetta «matematica teorica», dove sono presentati «teoremi» corroborati da analogie con la fisica. Considera positivi questi sviluppi?
Se un nuovo strumento matematico applicato alla fisica non supera la prova dell'esperimento, non abbiamo alternative a rinunciare al suo uso. Ma se qualcuno partendo da idee fisiche è in grado di ottenere risultati matematici, questi resteranno per sempre. In questo senso la matematica ha tutto da gudagnare da questo rapporto. Molti ricercatori lamentano che le teorie fisiche non sono rigorose ma basate sull'intuizione, ma non colgono l'essenza del problema. Da esse, come è sempre successo nella storia della matematica, vengono suggerimenti, nascono congetture che in molti casi sono state successivamente verificate con altri metodi. Non credo esista il rischio che si possa confondere ciò che è stato dimostrato con quello che non lo è stato.
Nel discorso con cui nel 1995 lasciava la presidenza della Royal Society lei denunciava con parole molto aspre il disinteresse degli scienziati per il crescente «sospetto» che la società nutre nei loro confronti. La pensa ancora così?
Più che mai. Il ruolo della scienza e della tecnologia è enormemente cresciuto negli ultimi due secoli e per questa ragione in una società democratica sono i cittadini che, almeno in linea di principio, dovrebbero prendere decisioni sui finanziamenti alla ricerca. Ma la scienza, specialmente la «grande scienza», è oggi sempre più prigioniera del rapporto con privati, governi e apparati militari che non amano dire alle persone quello che, secondo loro, non devono sapere e i rischi di corruzione intellettuale si sono moltiplicati. Gli scienziati dovrebbero mantenere la loro integrità, senza nascondersi dietro pretesti futili come quello per cui il pubblico non sarebbe mai sufficientemente «educato» per compiere delle scelte. Oggi purtroppo gli scienziati non si muovono così e le conseguenze sono sotto i nostri occhi: il sospetto nei loro confronti è sempre più diffuso.
Tra i suoi numerosi impegni sul fronte pubblico c'è stato anche quello al vertice di Pugwash, un'organizzazione internazionale di scienziati che da più di cinquant'anni si batte contro la proliferazione nucleare. Qual è oggi il suo bilancio?
Dopo la caduta del Muro abbiamo avuto una grande opportunità che per ragioni politiche non è stata colta e oggi la guerra è tornata sulla scena, insieme alla proliferazione nucleare. Sono sempre stato ottimista, ma è difficile esserlo oggi su basi razionali. Mi ricordo che Robert MacNamara, ministro della difesa di Kennedy e poi sostenitore dell'eliminazione delle armi nucleari, mi confidò di essere approdato alle sue convinzioni dopo la sua esperienza nella crisi dei missili a Cuba, quando sembrò che fossimo arrivati molto vicini a un conflitto nucleare. Benché ritenesse questa eventualità effettivamente remota, sottolineava però che una piccola probabilità su lungo arco di tempo può trasformarsi in certezza.