Valdo Spini. L’esponente della Mussi parla di congresso «mascherato» e dice che nel Pd non ci sarà spazio per la sinistra socialista
«Il 29 marzo decideremo se andare a Firenze»
di Vladimiro Frulletti
Onorevole Valdo Spini, la mozione Mussi di cui lei è uno dei principali esponenti, parteciperà al congresso nazionale dei Ds?
«Il 29 ci sarà la riunione di tutta la mozione, faremo un documento rivolto alla maggioranza e, sulla base delle risposte che ci verranno date, ci orienteremo».
Fin qui la proposta di Fassino è largamente maggioritaria nei Ds.
«Ma se si tolgono le regioni del potere Ds, cioè l’Emilia e la Toscana, noi siamo a percentuali assai più alte. Oltre il 22%».
Ma Toscana e Emilia sono anche le realtà dove i Ds hanno più iscritti.
«D’accordo, ma è un congresso che si è svolto in maschera».
Perché in maschera?
«Perché nelle sezioni si votavano le mozioni Fassino, Mussi e Angius. Ma sono successi tre fatti nuovi che hanno cambiato lo scenario su cui gli iscritti non sono stati ascoltati».
Che fatti?
«C’è stato il manifesto dei valori del nuovo Pd che è completamente differente dalla mozione Fassino. Poi l’adesione al Pse con la Margherita che ribadisce ogni volta che loro non ci entreranno. Terzo fatto: nelle tesi di Fassino c’è scritto “Pd per le europee 2009” e invece ora dice che il Pd deve essere pronto per il turno amministrativo del 2008. Il che vuol dire fare la costituente e chiuderla nel 2007».
Cosa succederà adesso?
«Spero che la maggioranza si renda conto delle novità politiche emerse a sinistra. Fino a qualche tempo fa lo Sdi era per il partito di Prodi. Oggi c’è un paragrafo delle tesi congressuali di Boselli che apre il dialogo con la nostra mozione. E poi c’è Bertinotti che evoca il suo passato lombardiano, Giordano che dice che il problema è il socialismo di oggi e di domani».
Ma il Prc non è nel Pse.
«Per noi il punto di verifica resta è il socialismo europeo. Lo è per il Pd, lo è per il Prc. Ma questo dibattito è incoraggiante. Ed è un peccato che non ne protagonisti tutti i Ds. Noi certo non possiamo rinunciare a svolgere questo compito».
Che compito?
«Di catalizzatori perché c’è possibilità di mettere in campo una strategia di unità e rinnovamento della sinistra all’insegna del socialismo europeo».
Quindi se parte la costituente per il Pd con scadenza 2008, voi farete la costituente per un nuovo partito socialista?
«Noi faremo un appello affinché la maggioranza dei Ds guardi alle novità politiche emerse. Certo che con il taglio con cui il Pd sta venendo fuori non è una cosa che ci interessa».
Amato e altri si sono appellati ai socialisti per stare dentro Il Pd.
«Avrebbero dovuto farlo prima. E avrebbero dovuto tener duro su alcuni valori socialisti: dalla laicità all’adesione al Pse. Se lo avessero fatto Il Pd sarebbe sorto sotto un’altra stella».
Non c’è spazio per una componente di sinistra e socialista nel Pd?
«Nella situazione attuale sarebbe emarginata o ridotta a una specie di voce di tradizione, residuale».
Ma questo non è il “male” storico della sinistra italiana che riesce sempre a dividersi?
«Non c’è dubbio. Ma non riesco a capire come il partito di Gramsci e Togliatti si sia ridotto a questa svendita della sinistra italiana».
l’Unità 21,3.07
«La maggioranza costruisca le condizioni per l’unità»
La minoranza dei Ds s’incontrerà il 29
di Simone Collini
LE MINORANZE DS ribadiscono che sta alla maggioranza del partito muoversi per evitare rotture, ma intanto guardano con attenzione a due cantieri che si stanno aprendo fuori dalla Quercia, e fuori dal futuro Partito democratico: quello prospettato dal segretario di Rifondazione comunista per dar vita a un nuovo soggetto che riunisca le forze della sinistra critica e ambientalista e la costituente socialista di cui parla Enrico Boselli nella sua mozione per il congresso di aprile (dal 13 al 15) dello Sdi. Ai sostenitori della seconda mozione non è sfuggito che il segretario del Prc abbia inserito Fabio Mussi tra i possibili interlocutori per l’operazione da avviare. Così come non gli è sfuggito, né a loro né ai sostenitori della Angius-Zani, che il leader dello Sdi abbia citato uno per uno i primi firmatari della seconda e della terza mozione Ds nel documento con cui va al congresso di Fiuggi.
A questo “pressing”, ufficialmente le minoranze diessine non danno peso. Mussi e i suoi ribadiscono che alla riunione del 29 lanceranno al gruppo dirigente un messaggio preciso, riservandosi di decidere come proseguire in base alla risposta che riceveranno: alla luce dei risultati congressuali, cosa intende fare la maggioranza per rispondere alla contrarietà o alle perplessità di chi non ha votato la mozione “Per il Pd”?. E non a caso, del resto, Alberto Nigra definisce «prive di fondamento le dichiarazioni riportate da l’Unità e da altri giornali riguardanti una nostra possibile scissione dal partito» (dichiarazioni comunque consegnate dal portavoce della terza mozione alle agenzie di stampa la mattina e non smentite per tutto il resto della giornata). Anche i “terzisti” ripetono che «spetta alla maggioranza porre le condizioni per garantire l’unità di tutto il partito». Ma intanto contatti al di là dei confini della Quercia sono stati avviati. In maniera riservata, o con più libertà di movimento da parte di chi ha già abbandonato i Ds. Come Giuseppe Caldarola, che lavora alla costituente socialista e che ieri ha avuto un colloquio con il capogruppo del Prc Gennaro Migliore.
Della situazione si è discusso nella segreteria Ds, che ha dato giudizio positivo dei primi risultati dei congressi. Ugo Sposetti dice che «non ci sarà alcuna scissione». Aggiunge comunque a scanso di equivoci il tesoriere della Quercia: «Il patrimonio dei Ds è unico e indivisibile, le sezioni andranno tutte con la Quercia verso il Pd».
C’è chi si chiede se con il Pd in Italia non si formi un altro partito condizionato dal Vaticano
Repubblica 21.3.07
Già un milione i casi, tre se si considera chi resta con i genitori, magari fino a 35 anni. La ricerca in un libro del Mulino
Insieme ma separati, ecco la nuova coppia
Più divorzi e figli nati fuori dal matrimonio: così cambia l'Italia
E nei prossimi dieci anni la metà dei giovani conviverà prima di sposarsi Le trasformazioni dopo il mutamento del ruolo delle donne e del lavoro
Malgrado un rapporto stabile, una persona su cinque sceglierà di non avere bambini
Secondo gli esperti, una relazione su tre è destinata a rompersi dopo le nozze
di Marina Cavallieri
ROMA - Nell´Italia che verrà - non in un futuro lontano, ma presto, nei prossimi dieci anni - oltre la metà dei giovani inizierà a convivere prima di sposarsi, un quarto dei bambini nascerà fuori del matrimonio, il venti per cento delle persone non si sposerà e altrettante sceglieranno di non fare figli. Un matrimonio su tre sarà destinato a sciogliersi. Molte coppie decideranno di amarsi ma di non vivere insieme, già oggi, del resto, di gente così ce n´è più di un milione. Lo dice la statistica con la sua implacabilità matematica, con le sue regole severe, lo dimostrano le ricerche demografiche che non raccontano quello che sarebbe giusto o bello, ma semplicemente si limitano a rilevare quello che veramente accade.
Quello che è avvenuto negli ultimi anni, la silenziosa rivoluzione della vita di coppia, e non solo, è illustrata dal "Rapporto sulla popolazione - L´Italia all´inizio del XXI secolo", un libro promosso dalla società italiana di statistica, curato da Giuseppe Gesano, Fausta Ongaro e Alessandro Rosina, edito da "Il Mulino". «Negli ultimi dieci, quindici anni ci sono stati cambiamenti notevolissimi, proprio in un paese dove il matrimonio sembrava molto stabile è cambiato il modo di fare famiglia e di vivere le relazioni sentimentali», spiega Alessandro Rosina, docente di demografia. Trasformazioni, non sempre raccolte dalla politica, che rendono il quadro sociale in continuo movimento. Tra le novità rilevate, diventate un fenomeno statistico, c´è il Living apart together, la scelta di quelli che vivono da soli ma hanno una relazione stabile, stanno insieme ma in case diverse. È una strategia che adottano alcune coppie, che per scelta o necessità, comodità o lungimiranza, optano per il ménage a distanza, lo stare insieme ma non la convivenza. Sono più di un milione in Italia le persone che vivono da single senza esserlo, che dividono la vita ma non lo spazio vitale, quelli che hanno il doppio spazzolino sono un fenomeno in crescita, alla base, spesso, ci sono condizioni reali più che pigrizia o nevrosi. «Più della metà, il 50 per cento delle persone che fanno questa scelta sono nubili o celibi, il 35 per cento sono separati o divorziati, il 15 per cento vedovi», spiega Alessandro Rosina. Persone già sposate che non vogliono imporre un nuovo partner ai figli, giovani o professionisti che si spostano per lavoro, anziani che non vogliono abbandonare le loro abitudini. Ma sono oltre tre milioni i Living apart together se si considerano anche quelli che continuano a stare in famiglia, magari fino a 35 anni, con la fidanzata che a sua volta vive con i genitori.
«Alla base della rivoluzione sociale ci sono diversi fattori. I genitori che hanno innescato questi cambiamenti sono quelli che erano giovani negli anni ‘60 e che hanno permesso ai loro figli di fare una vita diversa. Anche l´autonomia e l´occupazione femminile hanno cambiato il modo di vivere, hanno avuto un forte impatto considerato che c´è un contesto che accetta molto di più la libertà delle donne. Un forte peso ce l´ha anche il mercato del lavoro, non si può pensare che la flessibilizzazione del lavoro, la precarietà dell´occupazione, non abbiano conseguenze sulle scelte di vita, sul modo di stare insieme di una coppia. Anche se c´è da dire che il matrimonio, prima o dopo, rimane sempre una scelta con cui confrontarsi, fondamentale».
La famiglia cambia ma non è la prima volta e il modello che abbiamo conosciuto negli ‘50 e ‘60, l´epoca d´oro del matrimonio, vissuto come archetipo di famiglia ideale, fissato per sempre dentro di noi, era già a sua volta frutto di altre trasformazioni. «Le famiglie che si ricostituiscono non sono una novità, fino a un secolo fa con l´alta mortalità capitava di sposarsi più volte nel corso dell´esistenza», dice Rosina. «Oggi con l´allungamento della vita stiamo in un periodo inedito della storia dell´umanità, l´esistenza viene vissuta in modo più articolato, con fasi diverse, e le relazioni sentimentali rispecchieranno questa instabilità».
Repubblica 21.3.07
Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti "non negoziabili"
di Stefano Rodotà
Ormai siamo di fronte a uno scontro tra i due poteri non governabile con le categorie tradizionali dell´ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche
Quando il dialogo scompare, quando la verità assoluta esclude l'attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata
Spero che anche i più pigri e distratti si siano resi conto che siamo ormai di fronte ad un conflitto tra due poteri, lo Stato e la Chiesa, non governabile con le categorie tradizionali dell´ingerenza più o meno legittima delle gerarchie ecclesiastiche o con il riferimento al Concordato. E il terreno dello scontro è sostanzialmente quello dei diritti fondamentali della persona, a loro volta parte di una più generale questione dei diritti, quelli legati all´innovazione scientifica e tecnologica e quelli sociali, tema centrale della discussione pubblica in moltissimi paesi (e con il quale dovrebbe misurarsi chi continua a porre interrogativi su significato e sopravvivenza delle categorie di destra e sinistra, come hanno fatto negli ultimi tempi il mensile inglese Prospect e quello francese Philosophie Magazine).
Il conflitto tra poteri emerge dalle ultime prese di posizioni della Chiesa, che più nitide e radicali non potrebbero essere. Benedetto XVI ha indicato una serie di valori che "non sono negoziabili" e che impongono ai legislatori cattolici " di "presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti della natura umana" (13 marzo). La Pontificia Accademia per la vita ha "raccomandato una coraggiosa obiezione di coscienza" a tutti i credenti, e in particolare a "medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la mettono in pericolo" (16 marzo). In concreto, questo significa che i valori di riferimento dei legislatori non devono più essere quelli definiti dalla Costituzione, ma quelli di un diritto naturale di cui la Chiesa si fa unica interprete. A questo si accompagna un esplicito rifiuto dell´ordine civile, rappresentato dalla legittima legislazione dello Stato ritenuta non conforme a quei valori, che persino i giudici non dovrebbero applicare. La rottura è netta. Viene posto un limite esplicito al potere del Parlamento di decidere liberamente sul contenuto delle leggi, con l´ulteriore ammonimento che, qualora quel limite non fosse rispettato, si troverebbe di fronte alla rivolta dell´intera società cattolica.
Esplosa negli ultimi tempi, questa posizione ha avuto una lunga incubazione, è stata colpevolmente sottovalutata e non può essere spiegata con riferimenti solo alla fase più recente. So bene che le autocitazioni non sono eleganti. Ma in un mio articolo, apparso il 26 settembre 1991 su questo giornale con il significativo titolo "La restaurazione del Cardinale Ruini", sottolineavo proprio che nei discorsi di Ruini si trovava un "impegnativo programma politico", costruito intorno a "valori a difesa dei quali i cattolici, compatti, dovrebbero schierarsi", e al quale i cattolici in Parlamento dovevano conformarsi. Già sedici anni fa chi avesse occhi per vedere poteva ben rendersi conto di quel che sarebbe successo.
Ora le cose sono andate assai più avanti, e l´analisi della situazione attuale non può essere condotta limitandosi a ripetere che bisogna respingere l´interferenza dei vescovi (ne ero convinto già nel 1991). Siamo di fronte ad un modo d´essere della Chiesa che si presenta e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La contrapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico. E´ una realtà scomoda per chi ha ignorato i segnali che si accumulavano negli anni per il timore d´un conflitto con la Chiesa, e che oggi si trova di fronte ad un conflitto assai più profondo di quello che si è cercato di schivare. E´ una realtà scomoda per chi vorrebbe vedere nelle parole delle gerarchie ecclesiastiche nient´altro che la manifestazione della sua vocazione pastorale. Ed è una realtà che negli ultimi giorni ha assunto una tale evidenza, per la schiettezza con cui parla la Chiesa, che diventa sempre più difficile negarla parlando di forzature interpretative "laiciste".
La prima vittima di questo stato delle cose è il dialogo, che a parole molti dichiarano di volere. Ma il dialogo non è possibile quando una delle parti afferma d´essere depositaria di valori appunto "non negoziabili", e prospetta una rivolta permanente contro lo Stato. Vi è chi, come il cardinale Martini, cerca di rompere questo schema, ricordando che le parole della Chiesa non devono cadere "dall´alto, o da una teoria". Ma, come già era avvenuto per la sua posizione sul caso Welby, anche questa volta l´ufficialità ecclesiastica ne respinge le indicazioni. In questo modo, però, non è una opinione personale ad essere cancellata. Quando il dialogo scompare, quando la verità assoluta esclude l´attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata.
Ma, si dice, la non negoziabilità di quei valori nasce dal fatto che essi sono radicati nella natura stessa, fanno parte di un diritto naturale che l´uomo, dunque il legislatore, non può scalfire. In tempi non sospetti, tuttavia, Norberto Bobbio ha opportunamente ricordato che, "purtroppo, ‘natura´ è uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi nella storia della filosofia" e che sono almeno otto i significati di natura, e di diritto naturale. Chi scioglie questa ambiguità, chi sceglie tra le molte accezioni possibili? In definitiva, chi può parlare in nome della natura? E´ evidente che la pretesa d´avere il monopolio in questa materia rivela una attitudine autoritaria, non compatibile con le regole d´un sistema democratico. Non a caso, per evitare che l´azione pubblica fosse sottomessa a tavole di valori fissate in modo arbitrario o autoritario, si è affidata alle costituzioni la determinazione in forme democratiche dei valori comuni di riferimento, passando così ad uno "Stato costituzionale di diritto". Sostituire ai valori costituzionali quelli attinti ad una natura costruita in modo autoritario porta con sè una regressione culturale che, di nuovo, nega la logica della democrazia.
Altro è, evidentemente, sottolineare le novità, anche antropologiche, che il nuovo contesto scientifico e tecnologico propone, e chiedere che di questo si discuta apertamente. Presente e futuro sono carichi di incognite che richiedono una comune ricerca. Ma, per fare questo, bisogna appunto ricostruire le condizioni del dialogo tra persone di buona volontà, liberarsi dei dogmatismi, non rinserrarsi nelle proprie certezze e pretendere di imporle agli altri.
Le distorsioni della discussione sono evidentissime se si guarda ai problemi specifici. Si dice, ad esempio: invece di pensare al testamento biologico occupiamoci delle terapie antidolore, evitiamo l´abbandono e la solitudine dei morenti; invece di pensare ai Dico mettiamo a punto adeguate politiche della famiglia. Ma non v´è alcun contrasto tra queste iniziative, e le incompatibilità prospettate sono solo un modo per mascherare l´ostilità ai nuovi strumenti che si vogliono introdurre nella nostra legislazione.
Se si vuol discutere seriamente, bisogna ricordare che riconoscimento del testamento biologico e attenzione per le cure palliative convivono in molti paesi, anzi si sostengono reciprocamente, poiché il testamento biologico è un documento che consente di manifestare anche le proprie volontà sulle terapie contro il dolore. E in Francia, tanto per fare un solo esempio, la legge sui Pacs (ben più incisiva e chiara delle nostre proposte sulle unioni di fatto) convive con una delle più avanzate politiche di sostegno alla famiglia.
Se si vuol fare riferimento all´umanità e comprendere davvero le necessità e le sofferenze della gente, come ci incita a fare il cardinal Martini, bisogna abbandonare il dogmatismo e parlare di cose concrete. Cure palliative al primo posto? Benissimo. Si sappia, allora, che in Italia i centri specializzati sono 102 da Roma in su, e solo 5 nel resto del paese; e che a Milano un grande ospedale ha chiuso il reparto per le cure contro il dolore perché economicamente non rendeva. Politiche per la famiglia? Benissimo. Si legga, allora, quel che Massimo Livi Bacci scrive con il consueto rigore sulla situazione francese, mostrando quali debbano essere le azioni da condurre e quali gli investimenti necessari.
Liberi da dogmatismi e pretese autoritarie, possiamo meglio cogliere i valori di riferimento e le politiche da intraprendere. Da una parte, riconoscimento alle persone del diritto di governare liberamente la propria vita e di organizzare le relazioni personali, come già nitidamente ci dice la Costituzione. Dall´altra, rinnovata e forte attenzione pubblica, che è la condizione perché le scelte possano essere compiute responsabilmente e al riparo da ogni costrizione. Ma le politiche pubbliche, in queste materie, sono fatte di investimenti e di servizi, esattamente l´opposto delle derive privatistiche e liberistiche alle quali ogni giorno qualcuno incita.
Marco Bellocchio il 28 marzo sarà a Latina nell'Auditorium del Liceo Classico. A lui è dedicata una rassegna di film. Prima proiezione lunedì 26 marzo
Latina Oggi 21.3.07
Quattro pellicole in programma
Le immagini del Maestro
di Licia Pastore
E’ un regista famoso, Marco Bellocchio; un artista protagonista di una ricerca assolutamente originale sulle immagini. Quattro suoi film saranno presentati a Latina in occasione di una breve rassegna promossa dal Liceo Classico Dante Alighieri diretto dal preside Giorgio Maulucci. Si tratta di una retrospettiva dedicata proprio a Bellocchio e alle sue pellicole, proiettate negli spazi del grande auditorium della scuola di viale Mazzini. Quattro film e non solo. Ne abbiamo già parlato, l’iniziativa sarà arricchita dalla presenza dello stesso regista che parlerà con il pubblico il 28 marzo, alle 16. La rassegna prende ufficialmente il via lunedì 26 con due proiezioni, rispettivamente alle 10 e alle 15.30. In visione «I pugni in tasca», opera del 1965 interpretata da Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè. Il giorno successivo, martedì 27, alle 10, sarà la volta di «Addio del passato», cortometraggio del 2002 presentato nello stesso anno alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle 15.30, verrà proiettato «Sorelle», lungometraggio realizzato in tre anni, dal 1999 al 2005, con la collaborazione degli studenti del laboratorio «Fare cinema» di Bobbio. Il percorso si chiuderà alle 10 del 28 e 29 marzo, con «Buongiorno notte». Il percorso artistico del regista è molto vasto ed articolato e per comprenderlo appieno occorre analizzarlo nel suo andamento: i discorsi e le immagini de «Pugni in tasca» vanno radicalmente trasformandosi fino ad arrivare alla maturità artistica di grande intensità ed eleganza degli ultimi film. Uno snodo all’interno di questo percorso è dato da «Diavolo in Corpo» del 1986, film con il quale Bellocchio inizia la collaborazione con Massimo Fagioli, psichiatra dell’Analisi Collettiva, una collaborazione che durerà qualche anno. Bellocchio non si limita a «fotografare» la realtà per come è, riprendendola con la macchina da presa; va oltre e crea immagini nuove. La sua è una proposta artistica che rimanda ad una affascinante ricerca sull'identità inconscia. L’incontro con Bellocchio sarà una grande opportunità per avvicinare e conoscere un vero e proprio Maestro del cinema internazionale contemporaneo.
Li.p
il manifesto 21.3.07
«Vietato parlare di omosessualità»
In Polonia un disegno di legge punirà gli insegnanti che affronteranno l'argomento
di Alberto D'Argenzio
L'omosessualità fa una gran paura in Polonia, almeno al suo governo. Tanto che l'esecutivo Kaczynski sta preparando una legge per proibire di parlare di relazioni tra lo stesso sesso in tutti i livelli della scala educativa: dalle elementari fino all'università. Con il corollario di mettere alla porta gli insegnanti gay. Il progetto di legge porta la firma di Roman Giertych, vicepremier, ministro dell'Educazione e dirigente della Lega delle famiglie polacche, uno dei tre pilastri dell'esecutivo formato anche dal partito Legge e Giustizia, dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynski, e dalla formazione rurale Autodifesa.
Tra un mesetto la legge dovrebbe essere pronta, ma intanto è già scoppiata la polemica, sia in Polonia, con la protesta di varie Ong, che all'estero. Human Rights Watch assicura infatti in una lettera inviata al premier che la legge, qualora approvata, «creerebbe un clima di intolleranza e minaccerebbe i diritti civili e politici degli educatori polacchi e dei gay e delle lesbiche nelle scuole, soprattutto tra i giovani». L'Ong chiede a Jaroslaw Kaczynski di «assicurarsi che i diritti umani siano protetti e rispettati completamente, di impedire la censura accademica, di dissociarsi dalla retorica che propaga l'odio e di promuovere l'uguaglianza, senza penalizzare l'orientamento sessuale né il genere». Più cauta invece la Commissione europea: «Bisogna attendere l'approvazione della legge, qualora ciò dovesse avvenire, valuteremo la sua compatibilità con la direttiva sulla non-discriminazione al lavoro. Questo è il nostro punto di referenza», assicura Friso Roscam Abbing, portavoce di Frattini.
Effettivamente, al momento, non si conosce ancora il contenuto esatto della legge, ma un'idea l'ha già data lo scorso 13 marzo Marek Orzechowski, vice ministro all'educazione: la norma «dovrà castigare chiunque promuova l'omosessualità o qualsiasi altra deviazione di natura sessuale nei centri educativi». Due giorni dopo Orzechowski rincarava la dose: «i professori che rivelano la propria omosessualità saranno licenziati». Una discriminazione, assicura HRW, guardando anche alla Carta europea dei diritti umani.
Sarà forse un caso, ma Maciej Giertych, padre del ministro dell'educazione Roman, eurodeputato della Lega delle Famiglie, è stato recentemente «biasimato» dal Parlamento europeo per aver pubblicato un pamphlet antisemita piazzando in copertina il logo della stessa Eurocamera.
il manifesto 21.3.07
Il tempo essenziale nella voce di Juliette Gréco
Al festival Ferré la divina creatura francese in un recital straordinario. Immobile in scena, ferma davanti al microfono a stelo, valorizzando con suprema eleganza gli accenti drammatici di «Avec le temps»
di Massimo Raffaeli
San Benedetto del Tronto. L'immancabile abito nero, che aggiunge buio al buio mentre esalta il pallore del viso, gli occhi che nulla hanno perduto d'una profondità che fu detta abissale, la voce che il tempo non ha affatto affievolito, anzi ha arricchito di spessori e ulteriori, impreviste, nuances: questa è ancora e sempre Juliette Gréco che, alla bella età di ottant'anni, sabato sera ha inaugurato al Teatro Calabresi di San Benedetto del Tronto la tredicesima edizione del «Festival Léo Ferré», una rassegna ormai tradizionale, dove la poesia richiama la canzone d'autore, curata, con la consueta passione, da Giuseppe Gennari e Maurizio Silvestri insieme con Mauro Macario. Introdotta da un omaggio dei Têtes de bois, accompagnata in palcoscenico da due musicisti di qualità persino sorprendente (Gerard Jouannest al piano e Dominique Lucetti all'accordéon) Juliette Gréco ha donato al pubblico, ininterrottamente per un'ora e mezza, un combinato disposto di parole/musica di straordinaria suggestione. Chi fra i presenti temeva l'epica dei tempi andati, la malinconia di standard mille volte riproposti, insomma la versione marmorizzata di quella che fu la regina di Saint-Germain-des-Près e delle caves esistenzialiste, ne è stato immediatamente smentito.
Ancora vent'anni fa, la Gréco venne da queste parti, pochi mesi dopo lo stesso Ferré che portava in giro lo spettacolo dedicato ai poeti prediletti (Villon, Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire): allora era una donna al culmine della vitalità, straripava sul palco, ammiccava, spudorata e insolente, permettendosi a piena voce le malizie di Paris canaille di Ferré medesimo o di Si tu t'imagines, il testo d'esordio scritto apposta per lei nell'immediato dopoguerra da Raymond Queneau.
Oggi Juliette ha come introvertito la sua vitalità, l'ha tutta quanta metabolizzata e resa essenziale, per certi versi lunare. Predilige infatti il filo di voce, l'abbassamento del tono, sceglie a tratti il parlato come musica, come battito elementare. Lei sta immobile in scena, ferma davanti al microfono a stelo, è una donna esile, magrissima, ma dalla sua figura così minuta si espande una vibrazione, quasi un alone, che la occupa interamente. Perciò non ha bisogno di muoversi, anzi in scena testimonia di una rigidità ieratica, mentre sembra bastarle il continuo, incessante, moto delle mani che apre e chiude a pugno come fossero il più naturale dei metronomi.
È probabile che venti o trent'anni fa non se la sentisse ancora di cantare la stupenda Avec le temps, il classico che peraltro tutti gli intimi di Léo hanno in repertorio. Juliette la esegue solo oggi, in un simile e necessario contesto di personale meditazione ed autospoliazione. La interpreta come liberandola dall'elegia funebre e al contrario valorizzandone gli spessori opachi e i trapassi drammatici: «Col tempo sai,/ col tempo tutto se ne va/ E ti senti il biancore di un cavallo sfiancato/ in un letto straniero ti senti gelato/ solitario ma in fondo in pace col mondo/ E ti senti ingannato dagli anni perduti/ e allora tu, col tempo sai... non ami più.//». Questo è il vero baricentro del suo spettacolo, una zona quasi infera verso la quale convergono fatalmente gli altri testi in scaletta. Non che manchino il sorriso e alcuni omaggi alla vita spensierata (Trenet, per esempio), però il segno prevalente allude alla serietà di un bilancio esistenziale, all'atto di sovrana responsabilità di chi si interroga sulle cose ultime, su quanto è infine possibile salvare dalla dispersione, dalla etimologica insensatezza del quotidiano: il poco, l'essenziale, che fa di una vita davvero una vita.
Non a caso fittissima è la scelta da Jacques Brel e, quasi altrettanto, dall'indimenticabile Serge Gainsbourg (che vinse l'edizione 2002 del Festival); nemmeno è un caso che Juliette si congedi dal pubblico con un'interpretazione sofferta, di ritmo sincopato e quasi cardiaco, come sussurrata in uno spasimo prolungato, di Ne me quitte pas. Nella brossura-programma di sala Guido Armellini dice di una Gréco prosciugata, livida, scarnificata, di un «recitativo estenuato, ipnotico, di magnetica essenzialità, che esige un ascolto proteso a cogliere ogni minima accensione, ogni impercettibile sussulto di una vocalità concentrata e profonda»; ed è con queste parole, infatti, che Juliette Gréco accetta il dono postumo di Avec le temps: «Perché è così: vero./ Perché è l'immenso Léo Ferré/ per dirgli ancora e sempre grazie./ Per tutto ciò che mi ha offerto./ Perché bisognava che la cantassi, un giorno./ Perché la volevo mia».