domenica 25 marzo 2007

l’Unità 25.3.07
Schiaffo del Papa all’Europa: «Va fuori dalla storia»
A Berlino i capi di Stato e di governo tentano il rilancio. Prodi: ero per le radici cristiane, ma guardiamo avanti
Il Papa contro l’Europa: senza Cristo è apostasia
Benedetto XVI ai vescovi: «Le correnti laicistiche negano la parola ai cristiani»
Poi all’Ue: «Rischia il congedo dalla storia, salvaguardi il diritto all’obiezione di coscienza»
di Roberto Monteforte


Città del Vaticano. Mentre a Berlino, i 25 capi di Stato cercano un faticoso accordo per rilanciare l’Europa nel summit per i 50 anni dei Trattati, dal Papa arriva un attacco senza precedenti alla Ue. «Senza radici cristiane - afferma Ratzinger - l’Europa è apostasia e rischia di congedarsi dalla storia». Il Vaticano rilancia anche l’obiezione di coscienza su scala europea. Un affondo durissimo, il cui eco arriva a Berlino. «Ero per le radici cristiane - sostiene Prodi - ma ora guardiamo avanti, serve una nuova laicità». Oggi il summit si conclude con una dichiarazione solenne.

UN’EUROPA senza un’anima, che dimentica Dio e i valori del cristianesimo, non ha futuro. «Rischia il congedo dalla storia». Parole durissime quelle pronunciate ieri da Benedetto XVI ai vescovi europei del Comece ricevuti in udienza in Vaticano. Un discorso teso e preoccupato sul destino del vecchio continente. Proprio nei giorni in cui si celebrano i 50 anni dei Trattati di Roma è chiarissimo il messaggio che il Papa ha voluto rivolgere ai leader europei riuniti oggi a Berlino. Dimenticando i «valori» e il Cristianesimo, l'Europa rischia una «apostasia da se stessa, prima ancora che da Dio». Se rinnega le sue radici cristiane, insiste, può andare incontro a un degrado senza ritorno. Presenta un quadro fosco. La nuova Europa è in affanno, in crisi di identità e distante dai cittadini, incapace di far fronte alle sfide poste dalla domanda di solidarietà, di trovare «un sano equilibrio tra dimensione economica e sociale». Si fa sferzante Ratzinger. Richiama il dato oggettivo della crisi demografica dell’Occidente che oltre a mettere in crisi la crescita economica, «pone enormi difficoltà alla coesione sociale, favorisce un pericoloso individualismo disattento verso il futuro». Disegna un Continente stanco, che perde fiducia nel suo avvenire. L’emergenza energia, quella ambientale,la domanda di solidarietà - osserva - rischiano di non avere risposte adeguate. Risulterebbero così ben fragili le fondamenta della «nuova casa comune europea» e debole la sua identità storica, culturale e morale. Questo sarebbe l’effetto di un appannamento di quei valori universali e assoluti che «il Cristianesimo ha contribuito a forgiare» e che «devono restare come fondativi dell’Europa» e che la rendono «fermento di civiltà». Valori che oggi paiono essere messi in discussione. È così che l’Europa negherebbe se stessa, la sua stessa identità: «È la sua apostasia e non solo verso Dio», scandisce il pontefice. Una scelta che avrebbe conseguenze concrete, inaccettabili per Ratzinger. «La ponderazione dei beni» finisce per essere considerata come «l’unica via del discernimento morale»; il «compromesso» è usato come sinonimo di «bene comune». Lo è quando è un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, ma è «il male comune» se comporta accordi lesivi della «natura dell’uomo». E lancia il suo affondo: «Una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno». Non vi sarebbe nulla di «equilibrato» o realista» nel compromesso colpevole di «negare ogni dimensione valoriale ed ideale» figlio di un pragmatismo dilagate che è da contrastare, tanto più che sarebbe proprio il terreno di cultura di quelle «correnti laicistiche e relativistiche» che vorrebbero negare diritto di intervento pubblico ai cristiani. Il Papa chiede all’Ue di riconoscere «l’esistenza certa di una natura umana stabile fonte di diritti comuni a tutti gli individui» e quindi il diritto all’obiezione di coscienza «ogni qualvolta fossero violati i diritti umani fondamentali». Il Papa fissa così l’agenda politica dei cristiani impegnati nelle istituzioni comunitarie, chiarendo che il dibattito europeo ha un effetto anche sulle scelte delle singole nazioni.
Subito dopo l’udienza con i vescovi del Comece il Papa incontra il «popolo» di Comunione e Liberazione che in settantamila ha «occupato» piazza san Pietro. L’occasione è il 25mo del riconoscimento papale della Fraternità di Comunione e Liberazione, fondata da don Giussani. Per i « Ciellini» molti riconoscimenti da Ratzinger.

l’Unità 25.3.07
Mussi: «Fermare il Pd? Serve un miracolo»
Il sociologo Gallino: con il nuovo soggetto
la sinistra finirà in Italia, bisogna reagire
di Giampiero Rossi


FUTURO «A volte avvengono anche cose rare, spero che ci sia un miracolo». Il ministro Fabio Mussi evoca sarcasticamente poteri sovrumani quando parla della possibilità di ottenere «una pausa di riflessione» e fermare la corsa del suo partito verso la fusione con la Margherita, quando il 29 marzo si incontrerà con gli altri vertici dei Ds. Mussi, che si candida alla segreteria del partito e al momento ha dalla sua circa meno del 20% dei tesserati, ieri ha incontrato una platea di dirigenti e quadri della Cgil alla Camera del lavoro di Milano e ha ribadito le ragioni della sua battaglia contro il progetto del Partito democratico: «Il primo problema è la sua incerta collocazione internazionale - spiega - non esistono partiti che non abbiano una chiara collocazione internazionale. Un partito che non sa dove stare nel mondo è un partito che presto non saprà dove stare in Italia. Il secondo è la tavola fondamentale dei valori - aggiunge - c'è questo manifesto dei dodici saggi di cui non sottoscriverei quasi nulla e in particolare si nota un'assoluta incertezza su temi fondamentali che riguardano le libertà delle persone e i diritti civili. E il terzo è la mancanza nel testo di punti di programma fondamentali come la rappresentanza politica del lavoro e la valorizzazione della politica economica».
Il ministro diessino critica anche la «campagna rassicurante» dei vertici dei Ds: «Fassino continua a dire “mai fuori dal Partito socialista europeo”, ma intanto non lo scrive nella mozione che fa votare. E Rutelli non si muove di un passo: non vedo perché spendere tante energie per trasformare Rutelli in un socialista e noi in democristiani». Ma comunque ribadisce: «Nessuna scissione, che è quello che avviene quando c'è un partito e uno ne esce. Io non esco da nessuna parte: si fa un nuovo partito e c'è chi aderirà e chi non aderirà. Questo è diverso che uscire».
Di fronte a una platea di sindacalisti emerge prepotentemente il tema del lavoro: «Una politica nuova che pensi di aggirare la questione del lavoro, come ormai residuale, sbaglia al cento per cento - dice Fabio Mussi - il problema che si presentò in pieno Ottocento di una politica, non solo democratica e progressista, ma che rappresenti il lavoro, cioè la questione socialista, è nient'affatto tramontata ma invece attualissima». Tuttavia, secondo il segretario confederale della Cgil, Paolo Nerozzi, l'esito del dibattito sul Partito Democratico non avrà ripercussioni sul sindacato. «Questo Paese ha bisogno dell'autonomia e dell'indipendenza dei rappresentanti dei lavoratori dai partiti - premette il sindacalista - in questo dibattito sul Partito Democratico il sindacato tutto, non solo la Cgil, non si pone. Ci sono le singole persone che hanno le loro posizioni, ma il problema della Cgil è quello di stare unito con Cisl e Uil per avere un rapporto con l'insieme del quadro politico. Insomma, mai come questa volta, la scelta è delle persone e tantissimi sindacalisti faranno la loro scelta». Nerozzi osserva però che «nel documento dei dodici che fa da piattaforma alla nascita del nuovo partito c'è una rottura storica laddove si afferma l'equidistanza tra il lavoro e il capitale, quasi che i lavoratori siano uguali ai datori di lavoro. Se non si fermeranno - conclude - noi dobbiamo aprire un percorso per la ricostruzione della sinistra, dalle frange più moderate a quelle più radicali». E anche secondo il sociologo del lavoro Luciano Gallino, inoltre, «se si fa il Pd la sinistra sarà politicamente finita in Italia. Occorre reagire e, nel momento stesso dell'annuncio, è necessario reagire con un progetto di tutte le forze della sinistra radicale».

l’Unità 25.3.07

Asor Rosa a capo degli anti-cemento
A Firenze nasce il coordinamento dei comitati: «Non devastiamo la Toscana»
di Vladimiro Frulletti


«LA TOSCANA è di per sé un bene dell’umanità. E quindi è più traumatico che si compiano interventi speculativi qui che non in regioni che già sono state devastate». È così che il professore Asor Rosa, 79 anni, spiega perché dal caso Monticchiello (da lui stesso fatto emergere) in avanti, l’urbanistica in Toscana è diventata notizia di interesse nazionale. Tanto che da quel momento hanno cominciato a avere voce pubblica le proteste di decine di comitati di cittadini. Oggi, per farsi sentire con più forza, quei comitati si riuniscono a Firenze (dalle 10 in via dell’Agnolo, 5) per dare vita a un coordinamento regionale. A guidarlo sarà proprio il professore. All’incontro ha aderito («ma manderà un suo collaboratore» dice Asor Rosa) anche Oliviero Toscani. L’obiettivo è farsi ascoltare degli amministratori toscani. Il presidente della Toscana Claudio Martini le porte le tiene aperte «se non c’è ricerca di conflitto, ma di dialogo». «Il confronto non solo è utile, ma necessario - dice Asor Rosa - . Perché in democrazia le istituzioni elette sono le autentiche interpreti della volontà popolare, gli altri sono portatori di stimoli e suggerimenti». E il primo confronto ci sarà proprio domani a un convegno sul governo del territorio organizzato da Regione e Istituto di scienze umane a Palazzo Strozzi a Firenze. Oltre a politici (da Martini al sindaco di Firenze Leonardo Domenici), urbanisti (Vezio De Lucia, Giuseppe Campos Venuti) e ambientalisti (il presidente di Legambiente Roberto Della Seta), ci sarà anche Asor Rosa.
Ma cosa contestano il professore e i comitati alla Toscana? L’eccessivo potere «non solo di proposta, ma anche di controllo e di decisione finale» che la legislazione urbanistica regionale assegna ai Comuni. E dato che i comuni spesso sono troppo deboli per resistere alle lobby immobiliari, e le Soprintendenze sono svuotate di strumenti (mezzi e personale) e poteri, poi nascono quelli che il professore ha definito «ecomostri autorizzati». «A Monticchiello - spiega Asor Rosa - ci fu un giudizio negativo della Regione di cui il comune ha potuto tranquillamente infischiarsene». La soluzione? Riportare il potere decisionale o a livello regionale o nazionale. Rimedio che però in Regione non accettano. Martini difende i Comuni che con i loro soldi hanno salvato borghi e centri storici e aperto parchi. E ricorda che i casi che fanno notizia sono frutto di decisioni prese proprio all’epoca in cui c’era il controllo delle Soprintendenze e di una speciale commissione della Regione che aveva il compito di dire sì o no ai comuni. E un argine ai casi Monticchiello, secondo la Regione, arriverà dal nuovo Pit. Cioè il piano con cui la Regione governerà il territorio nei prossimi anni. Documento in cui sono state recepite quasi tutte le proposte di associazioni come Legambiente, AmbienteLavoro, Fondazione Toscana sostenibile, Italia Nostra e Wwf.

l’Unità 25.3.07
Il vibrante astrattismo di Kandinsky
di Renato Barilli


UN MAESTRO di rigore che influenzò parte notevole della pittura italiana. Una mostra a Milano, curata da Luciano Caramel, mette in evidenza la lezione del maestro russo e le differenti declinazioni nostrane

Il russo Wassili Kandinsky (1866-1944) è stato uno dei grandi protagonisti delle avanguardie storiche del Novecento, autore di una progressione tra le più emozionanti e decisive, paragonabile solo alla sequenza con cui Picasso è giunto al Cubismo, o Boccioni al Futurismo, o Mondrian al Neoplasticismo. Ma con una profonda differenza, dato che le altre «serie» appena ricordate marciavano in conformità al meccanomorfismo, cioè prendevano come punto di riferimento la macchina, con la sua forte e massiccia consistenza (solo il nostro Boccioni riusciva a prestare attenzione anche alle fluide energie di radiazione), laddove il grande russo, dopo aver schematizzato figure e paesaggi alla maniera del Fauvisme, si decideva a sollevare il velo di Maia tradizionalmente disteso sull’abisso del creato, inaugurando un emozionante viaggio nelle profondità della vita biologica; e così stabiliva un modello avanzatissimo, che solo la seconda metà del secolo, con l’Informale e l’Espressionismo astratto, avrebbe apprezzato in giusta misura. Fu allora una meta talmente precorritrice, che sul finire del secondo decennio il suo stesso inventore dovette imprimere una sterzata ad una marcia così avventurosa. In quel momento le macchine dominavano ancora l’orizzonte, e dunque egli stesso procedé a «rettificare», per così dire, le sue formazioni cellulari, le amebe guizzanti. Intanto, lo avevano deluso i pur grandi eventi della rivoluzione sovietica, così da accogliere l’invito del tedesco Walter Gropius e da recarsi, nel 1922, presso la prima incarnazione del Bauhaus, quando aveva stanza a Weimar. Nasce così il Kandinsky grande padre dell’«astrattismo», come impropriamente si suole dire, dato che in realtà i grandi sperimentatori meccanomorfi proponevano delle forme «concrete», autofondate. In quel clima l’artista russo stendeva il suo secondo trattato magistrale, quel Punto linea e superficie, che però segna un arretramento, rispetto al precedente Dello spirituale nell’arte in cui egli aveva scoperto l’Inconscio, mentre nel secondo caso riedita una «grammatica», ancora di sapore euclideo, nonostante che la relatività di Einstein avesse ormai scoperto che l’universo è curvo, e dunque la linea retta non vi trova cittadinanza. Ma le rette kandinskyane intervenivano pur sempre a «raddrizzare» un nodo elastico di embrioni vitali.
Fatto sta che «questo» Kandinsky in versione geometrico-astratta apparve, negli anni Trenta, come un maestro di rigore, così almeno egli venne accolto in Italia, in una mostra famosa alla galleria milanese del Milione del ’34. È dunque pienamente giustificato che, a più di settant’anni di distanza, il capoluogo lombardo, a Palazzo Reale, ricordi quell’avvenimento, dandone la regia a chi in Italia è da tempo il miglior studioso di quelle vicende, Luciano Caramel (fino al 24 giugno, cat. Mazzotta). Ma a dire il vero gli astrattisti di casa nostra, che giustamente volevano reagire al clima pesante e revivalista di Novecento, pretendevano di «raddrizzare» un po’ troppo le forme, molti di loro, più che alle stuoie arabescate di Kandinsky, guardavano agli adepti del «Cercle et Carré», capeggiati da un fiorentino ormai trasferitosi sulla Senna, Magnelli. O quanto meno, l’ampia messe di astrattisti nostrani, accumulata con perfetta cognizione di causa da questa rassegna, si può spartire in due schiere, quella di coloro che mantengono un pizzico di irregolarità, di segreto fremito vitalistico pur sempre rimasto a covare sotto le ceneri, nel messaggio del grande Russo, o non rinunciano del tutto ad agitare i dadi del caso; e l’altra di coloro che si irrigidiscono in eccesso, affidandosi al tiralinee, a campiture troppo secche e nette. Tra i primi, si potranno mettere tutti i secondo-futuristi, che non possono scordare l’esplosione energetica impressa da Boccioni: e avremo allora Enrico Prampolini, Nicolaj Diulgheroff, o il più folletto fra tutti, che già allora era Bruno Munari. Al centro, domina la scena il terzetto prodigioso costituito da Licini-Melotti-Fontana, il primo pronto a infilzare sulle stecche dell’ordito geometrico dei lembi di stoffa agitata al vento, il secondo intento ai suoi arcani arpeggi spaziali, il terzo già teso a captare, su fragili schermi, il ronzio delle onde nell’etere. Si «ferma» invece il quadro se veniamo ai patentati «astrattisti» lombardi, alcuni dei quali risultano ancora memori degli incastri ingegnosi della lezione kandinskyana, si veda l’arguto, dentellato Soldati, con le sue magiche tarsie, laddove i «comaschi», Reggiani, Rho, Radice, e la pur intrepida Badiali, si bloccano all’eccesso in griglie statiche.
Uno dei meriti di Caramel come testimone di questo filone è di non essersi arrestato alle soglie del mezzo secolo, ma di aver inseguito la sua preda anche nel passaggio al secondo Novecento, quando questa compagine si definisce, correttamente, Movimento Arte Concreta, MAC. Già lo si è detto, l’etichetta del concretismo, più che dell’astrazione, è l’opportuna bandiera di combattimento per operazioni del genere. Ma i tempi urgono, è già esplosa la bomba atomica, quelle tarsie non ce la fanno più, a contenere i fremiti delle nuove energie che battono alle porte, e non per nulla gli aspetti più accattivanti sono quelli inalberati dagli allora giovani o giovanissimi Turcato, Sanfilippo, Accardi, Tancredi, Novelli, cioè da coloro che vanno scardinando la «gabbia», aprendola ad «altre» avventure.

l’Unità 25.3.07
Politici e trans, poco da ridere
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


«Pensate a Sircana, quando gli hanno detto quella cosa delle fotografie... si è sentito male, poveraccio. E ci credo: era roba da andare in trans... Come si fa? Sircana lo conosco bene, siamo usciti spesso di sera a cercar donne, prostitute, viados. Ma lo giuro a quegli ipocriti: non siamo mai andati dai trans, non gli piacciono nemmeno». Ah, ah, oh oh... Divertente, no? E mica finisce qui. Sentite quest’altra: «E poi, si parla di un politico famoso... Sircana? Non era mica lui il politico famoso, ma il trans... che era Maroni! Se era lì con un trans, era per conto di qualcun altro. Cosa fa di mestiere, Sircana? Il portavoce di Prodi. Era lì per combinare tutto per Prodi». Ah ah, oh oh... Mi scompiscio, avrebbe detto Totò.
E riprendiamo un po’ di contegno. Le battute d’apertura non sono tratte da uno spettacolo del Bagaglino. Anzi, ci scusiamo (ma davvero) della tentazione di tirare in ballo la ditta Oreste Lionello & co. per commentare la qualità e il tono di tale e tanta ironia; e sorvoliamo sul fatto che si trattasse dell’ultima, applauditissima performance di Roberto Benigni a Milano. Colpisce il fatto, piuttosto, che “Maroni-trans” possa indurre qualcuno (molti?) alla risata; laddove, mai come in questo caso, l’allegria suscitata ha qualcosa di esorcistico e isterico (e attendiamo che, con maggiore modestia e senza impalcature culturali dantesche, qualche altro comico chieda il nostro applauso con un più modesto «Lo sapevate che Arturo Parisi è ricchione? E che Fabio Mussi è una donna? ...»).
Sin da piccini, sin da quando studiavamo semiotica al Dams di Palombara Sabina, sotto l’alto magistero del professor Amerigo La Paletta, sappiamo che l’essenza del Comico, e la sua fondazione ontologica, risiede innanzitutto nell’Uomo che Scivola sulla Buccia di Banana: e tuttavia, su, un piccolo sforzo non guasterebbe.
Detto questo, colpisce, ancora, che Silvio Sircana rappresenti, oggi, l’oggetto di un gossip da Capocotta quanto, per altri versi e con diverse sfumature, lo fu Lapo Elkann qualche tempo addietro. C’è un elemento assai significativo nella morbosità (sia chiaro: condivisa da tutti) che circonda queste e altre vicende; morbosità che non consiste nello scoprire che anche uomini pubblici possano (o possano essere tentati di) fare ricorso alle prestazioni di una prostituta o di un prostituto (e sai che scoperta!); non sta nemmeno nella pruderie (ancora: condivisa da tutti) che sempre, o quasi, circonda le questioni di letto (o di marciapiede); e non sta neppure negli elementi accessori di questi casi, Vallettopoli&Corona o abuso di stupefacenti che sia. Il vero, taciuto e rimosso, fattore di arrapamento mediatico e di turbamento dell’inconscio collettivo è - ovviamente - «la questione transessuale».
Va da sé: degli orientamenti e delle preferenze sessuali di questo o quello nulla ci importa. Siamo con il Giorgio Gaber che, nei primi anni 70, cantava «Vedi cara, per me l’amore... Non ho problemi. È una cosa normale, sì. Uno lo può fare con chi vuole, certo. Donne, uomini, animali, caloriferi». Tuttavia, dobbiamo constatare che - in una società largamente consumistico-liberale, in cui parlare delle proprie opzioni sessuali sta diventando una tentazione per molti - la “questione transessuale” sembra avvolta da un clima di imbarazzata omertà; e appare come uno dei pochi condimenti possibili per ridare gusto a una pietanza oramai per molti versi sciapa, qual è il pettegolezzo a sfondo erotico. Dei trans si parla, per lo più, come appetibile elemento di contorno a qualche scandalo ormai appannato e di qualche vicenda scollacciata (termine sublime, caduto in disuso), ma non troppo. Eppure, a giudicare da un mercato della prostituzione che appare florido, quella preferenza sessuale sembra stabilmente acquisita per una fascia consistente della popolazione maschile adulta del nostro Paese. Dunque, perché tanto silenzio e poi, inopinatamente, tanto clamore? Forse perché analizzare quel fenomeno (e con quali strumenti, poi?) appare difficile e delicato?
La possibilità che un maschio (eterosessuale o no) possa prediligere un transessuale come oggetto del suo desiderio e come partner, sembra intaccare ancora una qualche idea di “normalità” - dunque, comportare rapporti problematici con l’idea della “perversione” - di quanto non possa la semplice scelta omosessuale. E, intorno a questo vulnus, si va costruendo un clima sociale che interessa sì ogni possibile utente di quel mercato: ma che riguarda, ancor più e molto più crudamente, i transessuali stessi.
Che sono (non tutti, evidentemente) sulle nostre strade di notte e nei nostri negozi, nei nostri uffici postali, sui nostri mezzi pubblici, di giorno. E che pure sembrano oggetto di una strana forma di rimozione collettiva. Insomma, è possibile che i transessuali rappresentino qualcosa di ineffabile: ovvero di indicibile e inquietante, fattore d’insidia per le nostre identità (e alle nostre nevrosi) di genere.
Per l’intanto, restano due ingombranti detriti di queste allucinate settimane:
a) il fatto che un uomo pubblico si trovi a dover riflettere seriamente sulle sue dimissioni a causa di un gesto: quello sporgersi sul sedile del passeggero e parlare attraverso il finestrino;
b) il fatto che si possa arrivare a una sorta di pan-penalizzazione della vita sociale, tale che diventi oggetto di stigmatizzazione e riprovazione collettiva una pulsione.
Tutto ciò preoccupa e non fa ridere (nemmeno noi, che al Dams di Palombara Sabina abbiamo discusso la tesi “Il ruolo di Max Cipollino nell’evoluzione dell’ares comica di Massimo Boldi”). Non fa ridere neppure pensare a Bobo Maroni come a un trans.

Repubblica 25.3.07
L'intervista. Giordano, segretario di Rifondazione: propongo al correntone un nuovo soggetto politico per il 2008
"Se inseguono il Partito democratico i Ds rischiano di lasciare la sinistra"
di Lavinia Rivara


Risarcimento. Quando si parla di tesoretto fiscale penso subito al risarcimento sociale che va dato ai lavoratori
A sinistra dell'Ulivo Verdi e Pdci? Non vogliamo costruire un partito a freddo, una sommatoria di ceti politici

ROMA - Una «sfida unitaria» a tutto campo alla sinistra italiana, che ha in sé l´invito ad un confronto serrato con il correntone diessino per la costruzione di un nuovo soggetto politico entro il 2008, ma non solo. Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, lancia anche un appello ai vertici della Quercia che stanno marciando verso il partito democratico: non potete condannarvi ad «un approdo liberaldemocratico. E allora Rifondazione chiede alla maggioranza Ds di «riflettere» e «aprire un cantiere della sinistra per il socialismo del terzo millennio».
Segretario, nelle ultime settimane, parallelamente all'accelerazione che Fassino e Rutelli stanno imprimendo al partito democratico, lei ha lanciato la proposta di un nuovo processo costituente a sinistra. Quali sono le tappe e gli obiettivi?
«Noi da tempo abbiamo avviato un percorso di costruzione della sinistra europea. A giugno terremo l´assemblea fondativa di un nuovo soggetto unitario in cui, pur continuando a vivere l´autonomia organizzativa e politica di Rifondazione comunista, ci apriremo al confronto con tutta la sinistra. E la fine del 2008 potrà vedere la nascita di un nuovo soggetto politico della sinistra che non sia una sommatoria di ceti politici».
Quali sono gli interlocutori di questa proposta?
«Da quella assemblea noi intendiamo mantenere aperta una proposta che riguarda tutta la sinistra, indipendentemente da dove è collocata, per discutere sulle sorti della società italiana, della globalizzazione».
Dunque non solo alla sinistra Ds, ma anche la maggioranza della Quercia?
«Io penso che con il partito democratico non si può rimuovere il tema della critica dell´esistente. Assistiamo al moltiplicarsi delle diseguaglianze, a un´aggressione capitalistica all´ambiente. Basti pensare che nel 2020 si prevede che 3 miliardi di persone non avranno accesso ad un bene comune così decisivo come l´acqua. Per non parlare della necessità di mettere al centro dell´agenda politica la questione sociale del lavoro. Mai come in questo momento è attuale l´esigenza di un superamento delle forme di capitalismo, mai come oggi risuona vera la frase di una grande pensatrice come Rosa Luxemburg: "O socialismo o barbarie". E allora io dico che sarebbe paradossale se in questa fase la sinistra, una parte di essa, scegliesse invece l´approdo ad una cultura liberaldemocratica».
Lei sta dicendo a Fassino e D'Alema «fermatevi»?
«Io dico loro un´altra cosa: noi vi proponiamo un cantiere della sinistra dovunque essa sia collocata, vi chiediamo una riflessione e vi proponiamo una sfida unitaria sul terreno della critica a questa società. Sia chiaro: è una sfida politico-culturale, non organizzativa. Riflettiamo su una nuova idea di socialismo, un socialismo del terzo millennio. Che comprende anche il tema della laicità dello Stato».
Rifondazione punta a far nascere una nuova forza, questa sì anche di carattere organizzativo. E la sinistra Ds appare interessata al progetto. Che messaggio manda a Mussi e Salvi, anche rispetto ad una futura collocazione europea?
«Già da tempo abbiamo avviato un dialogo con pezzi della sinistra e del mondo sindacale, con movimenti, con l´associazionismo diffuso. E naturalmente ci interessa il rapporto con la sinistra Ds. Anzi riteniamo utile aprire subito con questa componente un confronto per approdare ad una nuova soggettività politica, attraverso un percorso paritario e senza annessioni o egemonie. Ad una condizione: che non si tratti di una adunata di ceti dirigenti, ma di un percorso di massa. Quanto all´Europa noi siamo nel gruppo della sinistra alternativa e intendiamo mantenere questa posizione oggi e in prospettiva. Ma non possiamo fermarci di fronte a questo, la discussione è aperta».
A sinistra dell'Ulivo però ci sono anche i Verdi e i Comunisti italiani di Diliberto e in movimento è anche l'area socialista, compresa la costituente di Caldarola. Anche con queste forze c'è un'interlocuzione?
«Io credo sia sbagliato immaginare un fronte dei "resistenti" al Pd, non vogliamo costruire un soggetto politico a freddo. Quanto ai socialisti rispetto la loro posizione ed è giusto avere una interlocuzione, ma la costruzione di una soggettività politica è un´altra cosa e non può essere comune».
Torniamo ai contenuti. Oggi l'Unione discute innanzitutto sull'utilizzo del cosiddetto «tesoretto»...
«Va aperta immediatamente una stagione di risarcimento sociale per le lavoratrici e i lavoratori che si aspettano da noi un miglioramento delle condizioni di vita. Dunque occorre aumentare le pensioni più basse, pensare alla previdenza dei giovani e incrementare le retribuzioni, visto che le nostre sono tra le più basse d´Europa, e c´è anche il tema del diritto alla casa, cioè della riduzione dell´Ici e le agevolazioni per gli affitti. Chi pensa a finanziare ancora il sistema delle imprese se lo scordi: ha già avuto aiuti enormi con il cuneo fiscale. Sulle pensioni poi abbiamo espresso una posizione chiarissima, in sintonia col movimento sindacale e la maggioranza della popolazione: no ad un aumento obbligatorio dell´età pensionabile. E Prodi ha sempre parlato di un aumento volontario e attraverso incentivi».
Intanto il governo si accinge ad affrontare un nuovo pericoloso scoglio al Senato col voto sulla missione italiana in Afghanistan. Teme che si possa rischiare una nuova crisi?
«No, credo che il governo ce la farà nonostante il cinismo del centrodestra».

il manifesto 25.3.07
Partiti i congressi di scioglimento della Linkspartei e dei dissidenti socialdemocratici della Wasg. Nascerà Die Linke
Pronta la casa comune per la sinistra tedesca
di G. A.


Berlino. L'avvicinamento tra i due maggiori spezzoni della sinistra tedesca dura da tempo. Alle ultime elezioni politiche del settembre 2005 si candidarono sulle liste della Linkspartei (già Pds, partito del socialismo democratico) anche dissidenti della sinistra socialdemocratica e sindacalisti, uniti nella Wasg (alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale). Tanto bastò per un discreto 8,7 per cento in media federale. La Linkspartei, nata dallo sfacelo del partito socialista della Repubblica democratica tedesca, non era mai riuscita a mettere radici all'ovest. Da soli i dissidenti socialdemocratici non sarebbero riusciti a superare la soglia di sbarramento.
Da allora i deputati della Wasg siedono nel gruppo parlamentare della Linkspartei. Ne sono copresidenti il berlinese Gregor Gysi e il saarlandese Oskar Lafontaine, già presidente della Spd, che si era dimesso da tutti gli incarichi di partito e di governo all'epoca del primo governo Schröder, in polemica con la linea neoliberista del cancelliere. Il tandem est ovest funziona egregiamente, smettendo lo scetticismo di quanti temevano che due prime donne come Lafontaine e Gysi mai si sarebbero tollerate.
Linkspartei e Wasg hanno ora deciso di unirsi. La data del congresso di fondazione della nuova casa comune, che si chiamerà semplicemente Die Linke, la sinistra, è stata fissata per il 16 gennaio. Più semplice sarebbe stata l'adesione della piccola Wasg con i suoi 12.000 iscritti nella più grossa Linkspartei, che di tesserati ne ha 60.000. Ma la Wasg tiene a un matrimonio su basi paritarie. E nella Linkspartei si vuole cogliere l'occasione di un nuovo inizio per aumentare la distanza dalle scomode origini realsocialiste.
Il procedimento scelto è complicato. La prima tappa è cominciata ieri con congressi parallelli di scioglimento dei due partiti. In due padiglioni adiacenti della fiera di Dortmund, in Nordreno-Vestfalia, si sono riuniti 398 delegati della Linkspartei e altrettanti della Wasg. Gli uni e gli altri di qui a domenica dovranno approvare il nuovo programma comune, il nuovo statuto e il trattato di fusione con maggioranze qualificate del 75 per cento.
Risolta questa incombenza toccherà agli iscritti confermare la fusione con due referendum. Solo dopo quest'ultimo scoglio il congresso di fondazione del nuovo partito, a giugno, eleggerà i suoi organi dirigenti. Si pensa per i primi tre anni a una doppia guida, nelle persone di Lothar Bisky (già presidente della Pds-Linkspartei) e di Oskar Lafontaine, anche se molte delegate già protestano contro l'accoppiata maschile. La fusione è fortemente voluta dai gruppi dirigenti e dalla maggior parte delle rispettive basi. Non c'è dubbio che riuscirà, anche se con altrettanta certezza diversi gruppi dissidenti si allontaneranno. Tra loro innanzitutto la maggioranza della Wasg di Berlino, che non tollera la moderazione dei socialisti della capitale, dove sono al governo insieme alla Spd.
Aspri i diverbi sul futuro programma. A Dortmund si dovranno discutere ben 560 proposte d'emendamento. Come si atteggerà la Linke rispetto agli interventi militari con mandato delle Nazioni unite? A quali condizioni accetterà di partecipare a amministrazioni locali di coalizione? Accetterà il cumulo di cariche di partito e di mandati parlamentari? Nemmeno il riferimento al «socialismo democratico» come comune orizzonte convince tutti.
Quali che siano le soluzioni di dettaglio, la Linkspartei si presenta già adesso come un partito di sinistra socialdemocratioca, che si batte per salari minimi e redditi sociali garantiti, contro il peggioramento delle pensioni e del sistema sanitario, contro le privatizzazioni, per una redistribuzione degli oneri fiscali. «Potremmo governare anche domani insieme con i socialdemocratici, se solo la Spd tornasse al suo programma del 1998», dice Lafontaine. In quell'anno Schröder vinse per la prima volta le elezioni, e il presidente del partito era proprio Lafontaine.

il manifesto 25.3.07
Pronta la riforma del codice penale Opg sostituiti da «misure di cura»
La Commissione Pisapia ha terminato i suoi lavori. Per i «non imputabili» si stabilisce una «scala» di misure di controllo. Previste «strutture psichiatriche» per i casi più gravi, ma senza la polizia penitenziaria
di Cinzia Gubbini

La riforma del codice penale è pronta. La commissione istituita a luglio presso il ministero della giustizia, e presieduta dall'avvocato Giuliano Pisapia, ha concluso i suoi lavori a tempo di record. Tra due settimane le proposte per rivedere il codice saranno sul tavolo del Guardasigilli Clemente Mastella. Ne uscirà un disegno di legge delega che dovrà essere approvato dal consiglio dei ministri. Poi inizieranno i lavori parlamentari. Un passo avanti, se si considera che i precedenti tentativi di riformare il codice sono rimasti in un cassetto. Proprio quindici giorni fa il presidente Pisapia ha illustrato le linee guida alla commissione giustizia del senato «riscontrando - spiega Pisapia - una generale approvazione sulle linee di fondo. Mi sembra che stiamo iniziando con il passo giusto».
La riforma cambierà la faccia del codice penale italiano sotto diversi aspetti, uno di questi è l'idea di abolire l'ergastolo, tra i nodi più delicati. Ma una delle novità contenute dalla riforma della commissione Pisapia è l'eliminazione delle misure di sicurezza (o detentive) per le persone non imputabili. Ovvero, l'abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. «E' un punto che ha ricevuto l'unanimità della Commissione - spiega Pisapia - Le misure detentive per tutte quelle persone che commettono un reato ma non sono imputabili per i motivi più diversi quali la malattia psichica o uno stato cronico di tossicodipendenza o alcolismo si sono dimostrate inefficaci e anacronistiche».
Questi i principali elementi della riforma: sarà rivista anche la concezione della «incapacità di intendere e volere». La valutazione medico legale, infatti, dovrà considerare non soltanto le malattie psichiche ma, ad esempio, anche i gravi disturbi della personalità.
Al posto degli attuali opg, saranno applicate «misure di cura e di sostegno». La proposta stabilisce una specie di «scala» di interventi. Rimane la previsione di strutture sanitarie specifiche, «ma solo nei casi in cui è assolutamente necessario un controllo quotidiano». E in ogni modo il controllo non sarà affidato alla polizia penitenziaria ma esclusivamente a personale medico.
Quando la salute del reo lo consente saranno previste - a scalare - misure simili alla «libertà controllata». Ad esempio l'obbligo di presentarsi in strutture mediche per assumere farmaci o per incontrare gli psichiatri. In caso di violazione delle prescrizioni, interverranno le forze dell'ordine e verranno comminate misure di maggior controllo. Si prevede, inoltre, la possibilità che alcune misure siano svolte in ambito famigliare. Altra importante novità è la specificazione che l'applicazione delle misure di sostegno non potranno superare l'entità della pena. Mentre oggi, con il meccanismo della «proroga», succede che le persone vengano lasciate negli opg anche per decenni, indipendentemente dal tipo di reato commesso. In secondo luogo - ma questo avviene già oggi - ci sarà una valutazione periodica dell'efficacia della cura. Se funziona, la misura applicata sarà più leggera. Viceversa, si provvederà a un maggiore controllo.

il manifesto 25.3.07
Il Medioevo di Sant'Eframo
Nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli il tempo si è fermato. I detenuti vivono in condizioni igieniche inesistenti e spesso abbandonati a loro stessi
di Dario Stefano Dell'Aquila

OPG. 1.200 i detenuti
Nell'Opg di Napoli vi sono circa 104 internati, 40 infermieri, di cui 18 a contratto, tre educatori, cinque psichiatri a contratto e due psicologi. La struttura risale al 1.500 circa ed in origine era un convento. Gli internati sono persone che hanno commesso un reato e sono ritenute affette da una patologia mentale e riconosciuti socialmente pericolosi. Sono condannati ad una misura di sicurezza di 2,5 o 10 anni prorogabile, un meccanismo che fa si che le persone entrate con una misura di due anni possano rimanete in Opg per decenni, indipendentemente dal reato commesso. Gli Opg in Italia sono sei, gli internati circa 1.200

Napoli Il vecchio monastero di Sant'Eframo, all'angolo della centrale e trafficata via Matteo Renato Imbriani, è un'isola nella quale non giungono i rumori della città. Ma non è un'isola felice. Perché qui, in quello che oggi è l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, non arriva nemmeno l'eco delle riforme penitenziarie e psichiatriche.
Con Sergio Piro, figura storica della psichiatria democratica e Francesco Caruso, deputato indipendente del Prc, varchiamo le porte di una struttura che ad oggi «ospita» circa 100 internati. L'odore di urina è forte e si avverte sin dalla prima rampa di scale che ci porta alla seconda sezione minorati. Un odore che si mischia alla scarsa igiene e alle cicche di sigarette sparse un po' ovunque. Lungo il corridoio, da una cella, un internato molto giovane, Giovanni M. riconosce un profilo noto, «uà i no-global!» esclama e, euforico, ci invita ad entrare. La scena che ci si presenta è agghiacciante. La cella è in condizioni igieniche indescrivibili, avanzi di pasti, sigarette, bucce di arance, sporcizia. Allo sporco fa da contrappeso l'assenza di ogni tipo di suppellettili. Qui sono ammassate sei persone. I letti, l'uno all'altro adiacenti, sono coperti da lenzuola di un grigio imprecisato, che emanano un odore molto forte.
Un internato più anziano ci invita ad entrare in bagno, mentre Sergio Piro dialoga con alcuni ragazzi. I bagni sembrano uscire da un'altra epoca. Tre cessi, affiancati, divisi da una sorta di paratia di ferro, sono pieni di ruggine e liquami. Il lavabo, di quelli che si usa per lavare i panni, è pieno di acqua limacciosa, così come l'acqua copre completamente il pavimento perché il tubo perde. Non c'è acqua calda, non c'è una doccia. Non mancano solo nella cella, mancano su tutto il piano, ci dicono. Incredibile ma è così. Non ci sono docce nelle celle né in tutto reparto. Giovanni M., che ha ventiquattro anni, è qui da un anno. Faceva uso di sostanze, è stato denunciato dalla famiglia. Estorsione, per una somma di 12 euro. Le storie si sovrappongono, tutti in attesa di un parere medico o di una perizia. Giovanni sveglia un compagno che, nonostante il nostro arrivo è rimasto immobile sul letto. Quando Andrea D. si volta, mette in mostra i suoi avambracci, devastati da piaghe. All'altezza del polso due buchi, come quelli da piaghe da decubito con una lesione della pelle che sembra molto profonda sino a raggiungere l'osso. Andrea dice che è colpa della droga, che lui prima si drogava, ma ora non più, se solo tornasse a casa il padre saprebbe come curarlo. Tutti vestono panni vecchi, molto sporchi, l'aspetto è estremamente dimesso, ma riescono a raccontare, seppur confusamente, le loro storie.
Proseguiamo lungo i corridoi, dalle celle richieste di aiuto, di assistenza legale, di alloggio, spesso semplicemente anche di una sola sigaretta. Camillo De Lucia, psichiatra dell'istituto che ci accompagna, di fronte alle nostre perplessità ci dice che sbagliamo a confrontare le loro condizioni con quanto prevede l'ordinamento penitenziario, ma che come riferimento dobbiamo prendere le condizioni dei vecchi manicomi giudiziari. Confrontato con l'orribile del passato, l'indecenza del presente dovrebbe essere meglio tollerata.
In una cella, solitario, tremante, a piedi nudi, un uomo è inginocchiato appoggiato alle sbarre della porta. Gli passano tutti di fronte con estrema indifferenza. Sergio Piro si ferma, si inginocchia gli stringe la mano («stringete le mani ci dice, è importante il contatto è importante», ripete). Gli domanda il nome. Lorenzo M. ha circa cinquanta anni, tremante biascica qualcosa e ci chiede una sigaretta. La sua cella come tutte quelle che incontriamo, salvo rare eccezioni, è desolatamente vuota e sporca. Nei corridoi l'odore di urina è spesso fortissimo, in diverse celle, piene di rifiuti, manca il televisore. Li rompono, ci dice Salvatore De Feo, il direttore, molti di quelli che ci sono li ha donati il Pio Monte della Misericordia.
Chiediamo di vedere la sala di contenzione, ma dopo un primo giro in un corridoio chiuso, ci viene detto che non c'è, qui non si usa. Ci basterebbe vedere anche quella in disuso, ma forse per difetto di comunicazione o forse perché siamo viandanti distratti non ci viene concesso questo onore. Così come, in quei corridoi, non abbiamo avuto il piacere di incrociare un medico o un infermiere.
In una cella incontriamo Fabio M., che avevamo incontrato durante la nostra visita all'Opg di Aversa. Detto «bambolella», perché gira sempre con una bambola di Barbie in mano. E' felice di vederci. Ci aveva raccontato, nell'occasione precedente, di subire molestie. Ne avevamo parlato con il direttore. Il trasferimento l'ha rinfrancato, ci chiede di ringraziare «la dottoressa Roberta» (Roberta Moscatelli del Forum Salute Mentale, ndr) che l'ha fatto trasferire. Non è merito nostro, ma Fabio è convinto del contrario. Un agente che ci accompagna, con poetica chiosa, ci dice: «Non so se è omosessuale ma sicuro è ricchione». Parte della struttura è chiusa, una piccola ala, con circa venti internati è stata da poco rifatta ed almeno qui non si sente odore di urina.
Giungiamo all'aperto, al passeggio. Un cortile di cemento, di pochi metri quadri con una grata molto alta attorno. L'effetto di una gabbia, con dentro uomini poco più che animali. I visi e le storie si sovrappongono. Dai buchi delle grate passiamo le sigarette, una fila ordinata, ogni mano una sigaretta, i più pronti passano per un secondo giro. Un internato, che abbiamo incontrato nel giro, è felice, la stretta di mano di Piro l'ha illuminato: «Ciao grande Sergio», grida mentre ci allontaniamo. C'è ancora tempo per un gesto. Mentre Francesco raccoglie le ultime storie e distribuiamo le ultime sigarette, Giovanni M. si avvicina, estrae dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e dice: «Facciamo uno scambio, tu mi dai una tua diana blu e io ti do una mia rossa». Sorride, il baratto, così lo chiama, lo rende felice, mentre pochi metri più in là un internato obeso è preso in giro dai suo compagni di pena. Ce ne andiamo così, con quella sofferenza che nessuno di noi sa spiegare e con quella sigaretta che ancora adesso aspettiamo a fumare.

il manifesto 25.3.07
Dal lontano Giappone dialoghi sulla oscura identità dell'individuo plurale
Da poco uscite in Francia, le interviste contenute in «Penseurs japonais», a cura di Yann Kassile, testimoniano una profonda frattura fra la filosofia nipponica e quella europea
di Mario Perniola


Cosa pensate se leggete in un libro che un'intervista si è svolta nel 5002? Che c'è stato un errore di stampa. Ma quando questo presunto errore è ripetuto più volte, cominciate a sospettare che si tratti di un testo di fantascienza. Nel caso del volume Penseurs japonais. Dialogues du commencement, a cura di Yann Kassile (Paris, Éditions de l'Éclat), che contiene una ventina di interviste ai più eminenti filosofi giapponesi, effettuate da Jean d'Istria, nessuna di queste due ipotesi è giusta.
Il cambio della cronologia è intenzionale e programmatico: intende infatti prendere le distanze nei confronti del calendario occidentale sostituendolo con una nuova cronologia che pone come punto di partenza non più la nascita di Cristo, ma l'invenzione della scrittura. Non tutti i filosofi giapponesi concordano con questa proposta, ma ciò che è più sorprendente è la motivazione del dissenso. Per il fenomenologo Ishida Hidetaka (come è noto in Giappone e in Cina il cognome viene prima del nome), tale innovazione favorirebbe la globalizzazione imponendo a tutti un'unica misura del tempo, mentre oggi esistono ancora culture che, come quella islamica e quella giapponese (per la quale oggi siamo nell'anno Heisei 18), seguono un'altra cronologia: il suo auspicio è che tutto il mondo abbandoni il cristianesimo, ma si continui a usare il calendario cristiano vuotandolo di ogni contenuto simbolico!
Nel passato si è molto parlato di una Japanese Connection tra la filosofia occidentale e quella giapponese. Dalla fine dell'Ottocento fino al postmoderno, ci sono molti esempi di convergenza tra questi due modi di pensare: per esempio il tradizionalismo universalistico (Okakura, Fenollosa e il nostro Elemire Zolla), la collaborazione negli anni Venti alla rivista Kaizo da parte di Husserl, Russell e Dewey, la relazione tra Heidegger e Kuki Shuzo, l'influenza della filosofia tedesca sulla Scuola di Kyoto, il contributo di Imamichi e di Sasaki all'estetica, la convergenza tra Derrida e Karatani. Siamo perciò abituati a considerare i giapponesi come gli extraeuropei più vicini alla filosofia continentale. Le interviste di d'Istria sradicano completamente questa convinzione e testimoniano l'aprirsi di una profonda frattura, di cui la questione cronologica è solo un piccolo indizio. Non riesco a immaginare un filosofo occidentale, per quanto nichilista, che sostenga come Washida Kiyokazu, che per la specie umana sarebbe meglio non essere che essere, o che rifiuti per principio il dialogo perché viziato da una pregiudiziale platonica. Per Kobayashi Yasu nemmeno Hegel si sottrae al dialogismo, limitandosi a interiorizzarlo. Uno dei massimi intellettuali giapponesi, Yoshimoto Takaaki (padre della scrittrice Banana), ritiene che la chiarezza porti al declino: finché l'essere umano vive all'oscuro, non è «fottuto».
L'impressione di lontananza si accresce quando si nota come nessuno di questi intellettuali, che pure si dichiarano politicamente orientati a sinistra, riconosca un qualche valore alle nozioni di progresso e di felicità. Uno Kuniichi sostiene che credere nel progresso è illusorio, e anche pericoloso, perché la condizione del mondo è oggi molto peggiore di quello che era cent'anni fa. Matsuba Shoichi pensa che in nessun periodo della storia come oggi si sia stata tanta infelicità: mai tanti uomini e donne sono stati vittime della fame e della violenza. Il progresso sarebbe un'idea giudeo-cristiana, derivante da una concezione lineare della storia articolata sulla genesi e sul giudizio universale; successivamente questa idea è passata al positivismo e al marxismo. Minato Chihiro afferma che l'idea del progresso è connessa con l'evoluzionismo biologico per il quale la volontà di dominio sullo spazio dell'essere umano viene surrettiziamente identificata con l'acquisizione della posizione eretta e la lontananza dal suolo. Minato concede che esiste uno sforzo verso il progresso, troppo debole però per ottenere risultati apprezzabili. Infine Kobayashi Yasu sostiene che il progresso riguarda solo la tecnologia, ma è qualcosa di molto pericoloso: è molto meglio l'infelicità che una felicità fornita dalla tecnologia. Per Yoshimoto, la gaiezza segna il declino degli individui e delle società.
Non meno provocatorie suonano per un occidentale le idee espresse sulla libertà, la vita e l'individualità. La società attuale porrebbe una grande enfasi sull'idea della libertà perché questa sta scomparendo in Giappone non meno che in Occidente. Per Shingu Kazushige, l'idea di vita è una costruzione artificiale della scienza moderna: in Oriente non si considera la vita dell'individuo, della civiltà e della natura, come qualcosa di costante. Essa è nella sua essenza passeggera. Fra i filosofi presenti nel volume quello che sembra più vicino alle problematiche discusse in Europa è Nishitani Osamu, l'unico a essere intervistato tre volte. Probabilmente non a caso è il solo che conosco di persona e la cui formazione intellettuale è simile alla mia. Proprio partendo dagli autori che ci accomunano, come Blanchot o Bataille, è forse possibile riallacciare i fili di una ricerca che coinvolga anche quanti sembrano più estranei ai temi trattati in Occidente.
È infatti intorno alle nozioni di impersonalità, di rito e di inorganico che si può ristabilire una nuova contiguità tra il pensiero occidentale e quello nipponico. Come osserva giustamente Nishitani, l'essere umano è già dall'inizio plurale. Mentre la filosofia occidentale trova una grande difficoltà a desoggettivare l'esperienza individuale, perché le nozioni di soggetto e di individuo sono storicamente connesse, la parola giapponese ningen, che viene comunemente tradotta con «essere umano, persona, uomo», implica già da sola l'esistenza di un rapporto. Il termine ningen contiene due aspetti strettamente connessi tra loro: la dimensione individuale non è separabile da quella sociale. I caratteri cinesi di ningen significano originariamente proprio l'esistenza di una relazione tra esseri umani vale a dire il «pubblico»; solo con la trasposizione in lingua giapponese di questo ideogramma, esso ha acquistato anche il significato di essere umano individuale. Per questa ragione ningen non può essere considerato come sostanza: esso implica una interconnessione di azioni compiute da persone diverse. L'individuo non è mai una tabula rasa, ma presuppone una collocazione spazio-temporale, un condizionamento sociale. All'interno dell'individuo ci sarebbe già un punto di vista impersonale ed esterno, che è relazionale: con le parole di Lacan (tradotto e studiato con molto zelo in Giappone), si direbbe «la mediazione del Simbolico». D'altronde la struttura negativa dell'essere umano impedisce l'esistenza di una società che annulla completamente l'individuo: una simile società collasserebbe.

il manifesto 24.3.07
La riscoperta della storia da parte dei dominanti è propedeutica all'esportazione della democrazia ovunque ci sia un «infedele» da combattere
Imprigionare la realtà nell'abito stretto dello storicismo
di Roberto Ciccarelli


Da qualche parte deve esserci un libro segreto in cui si legge «Per cominciare rifiuta la nozione stessa di storicismo». È sorprendente scoprire quanto sia difficile scovare tra le principali linee di ricerca attuali come il postcolonialismo, le teorie della differenza e il pensiero della differenza, gli studi culturali oppure i più significativi contributi internazionali al neo-marxismo qualcuno disposto ad ammettere apertamente di essere uno storicista. Non siamo più, per fortuna, nell'epoca del postmoderno in cui quello di «storicista» era tutt'al più un'accusa infamante, mentre c'era sempre qualcuno disposto a trattare la storia come un gadget e a consigliare di fermarsi sul bagnasciuga per osservare meglio il naufragio delle istanze della trasformazione politica che hanno caratterizzato il Novecento.
Da Robert Young, a Jacques Derrida, da Gayatry Spivak a David Harvey, da Gilles Deleuze a Judith Butler, con tutte le differenze del caso, è ormai chiaro che lo storicismo è quel «regime del discorso» che impone un abito troppo stretto alla realtà, quello dei dominanti che amano rifugiarsi dietro la falsa trasparenza della «Ragione» per meglio esportare i valori della democrazia occidentale ovunque ci sia un nemico, o un «infedele», da combattere.
Dall'11 settembre si è tornati a parlare di «storia» con una certa insistenza, soprattutto tra coloro che hanno scoperto il paradossale fascino avanguardistico di volersi «conservatori» e «cristiani» in una cultura che, dicono, è «progressista», crede nei diritti e nel «relativismo culturale», ma non ha le armi per affrontare uno «scontro di civiltà» a sfondo religioso con l'Islam. Il richiamo alla storia, e ai «valori» dell'Occidente, viene dunque usato tendenziosamente contro tutta la cultura («di sinistra») che ha imposto la contestazione permanente della monocultura dell'identità che prima ha spinto all'affermazione del colonialismo e poi si è scagliata contro i suoi risvolti teologici.
Ben venga dunque una nuova battaglia contro lo storicismo e la retorica vittimistica dei neo-con di tutto il mondo (e quelli nostrani). Innanzitutto perché, almeno nella storia degli intellettuali, essa ha sempre contrassegnato una posizione politica. Senza dimenticare che questo atteggiamento non ha mai fatto sconti ai limiti della propria posizione. E' quello che si chiama critica o, parola da usare con una certa circospezione, di un'auto-critica.
Uno degli esempi è quello della piccola, ma valorosa, rivista Quaderni materialisti che dedica l'ultimo numero a Spinoza con l'obiettivo ambizioso, ma ormai collaudato, di «ripensare» la tradizione materialistica alla luce dell'intuizione di Louis Althusser, il filosofo francese che riscoprì, proprio durante la svolta postmodernista degli anni Ottanta, una nuova linea del materialismo da lui definito «aleatorio» che va da Epicuro a Machiavelli, Spinoza, Marx.
Il rigetto da parte di Althusser dei parametri dello storicismo e dell'umanesimo teorico, avvenuto già negli anni Sessanta dello scorso secolo, può essere usato contro quelle posizioni che pretendono di vedere ancora oggi una direzione obbligata nella corsa della storia. Se dunque è chiaro l'obiettivo politico del nuovo pensiero critico, e necessaria la reinvenzione di una tradizione materialistica di cui sono noti i vicoli ciechi, è lecito ormai aspettarsi un pensiero che raccolga la sfida all'altezza del nostro tempo.

il manifesto 24.3.07
Materialisti. Quella potenza costituente di uno stato nello stato
Dominio, conflitto, diritto, democrazia. Un percorso di lettura su alcune parole chiave del pensiero politico a partire dall'ultimo numero della rivista «Quaderni materialisti»
La proposta di sciogliere il nodo paralizzante del rapporto di causa ed effetto tra «sedizione» e legge attraverso la produzione di nuove istituzioni
di Toni Negri


Questo numero spinoziano di «Quaderni materialisti» è dedicato a François Zourabichvili, giovane formidabile studioso di Spinoza, da non molto tragicamente scomparso: il suo L'enigma della «moltitudine libera» è l'articolo che conclude la raccolta di testi e saggi, riprendendo la tematizzazione iniziale e portando a termine (si fa per dire) la ricerca.
Ora, il fascicolo contiene una serie d'interventi (Sedizione e modernità di Filippo Del Lucchese; Sul principio di obbligazione di Augusto Illuminati; E' legittima la resistenza allo Stato? di Pierre- François Moreau; Memoria, caso e conflitto, Machiavelli nel TTP di Vittorio Morfino; Vincoli di Francesco Piro; L'enigma della «moltitudine libera» di François Zourabichvili) che intendono «misurare la forza d'impatto dell'ontologia spinoziana sulla concettualità tradizionale della politica. Diritto di resistenza, libertà politica, sedizione, obbligazioni o vincoli e loro legittimazione razionale sono ovvi termini-chiave del pensiero politico moderno, così come lo è Machiavelli». Si tratterà di considerarli nel corso storico che va da Machiavelli a Spinoza, sottraendo definitivamente questi concetti alla problematica del giusnaturalismo moderno fra Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau.

Il dominio del diritto
Comincia Filippo Del Lucchese. «Qui mi soffermerò sul pensiero di Machiavelli e di Spinoza - scrive all'inizio del suo saggio - poiché rappresentano nella prima età moderna una vera e propria anomalia. Essi costruiscono un pensiero teorico del conflitto - una vera e propria linea politica della seditio - che fa tremare le fondamenta su cui si reggono i dogmi della politica moderna. Questa, infatti, si rappresenta come un pensiero dell'ordine e della neutralizzazione del conflitto... (di contro) il rapporto fra diritto e conflitto, per Machiavelli come per Spinoza ha un ritmo complesso... un rapporto ricorsivo... fuori da ogni schema dialettico di composizione e di sintesi dei due termini». Procede ancora Del Lucchese: «è stato Foucault che in epoca contemporanea ha espresso più di ogni altro il carattere conflittuale della storia e il suo significato anfibio: da un lato come espressione dei conflitti, delle lotte, delle rivolte... dall'altro come strumento di lotta teorica attraverso l'ordine politico moderno... La guerra viene così, nella filosofia politica moderna, a ricoprire interamente il diritto». Diritto è il comando di chi ha vinto la guerra: ma nessuno vince mai la guerra. Di conseguenza, la storia si presenta come garbuglio e scontro, come dualismo piuttosto che processo unitario e nel rapporto fra Machiavelli e Spinoza si definisce in maniera paradigmatica l'unica divisa che può permetterci di ancorare un futuro progetto rivoluzionario al passato ed al presente di lotte: seditio sive jus (sedizione è anche diritto).

La mediazione della legge
Come si è potuto dimenticare tutto ciò? Come si è potuto consegnare il politico ad una supposta «autonomia», e sostituire Machiavelli con Carl Schmitt? Come si è potuto perdere il senso della duplicità e dell'ambiguità che caratterizza il rapporto fra potenze ontologiche e istituzioni politiche, per meglio dire, fra forze produttive e rapporti di produzione? Ecco, dunque, quel che conduce la riflessione lontano dall'«autonomia del politico» e dalle tradizioni rappresentative del moderno stato costituzionale: il tentativo di rappresentare la forza dinamica del politico democratico, la seditio, attraverso la sua limitazione contrattuale e/o costituzionale viene meno. Il loro limite, dunque, non è nella natura della cosa, ma nella sua distorsione.
Proseguendo su questo terreno Del Lucchese, come d'altra parte Bove ha già fatto a proposito di Affermazione e resistenza in Spinoza, ci mostra quanto la strategia del conatus non si basi su una priorità ontologica ma debba essere letta come un rapporto interno alla potenza della moltitudine. «Questo movimento fa emergere la razionalità immanente delle istituzioni: "punto di vista onto-genetico del diritto di natura e non della legge, della potenza e non del potere"... La legge stessa è la "mediazione necessaria della potenza della moltitudine nella sua affermazione, così come il sintomo del suo stato presente"». Vale a dire che il processo istituzionale nasce dall'interno della lotta. (Accetto qui, di buon grado, la critica che a questo proposito mi è direttamente rivolta e che consiste nell'evidenziare come nella mia trattazione del pensiero spinozista potesse equivocamente presentarsi una certa anteriorità della potenza sul potere, del potere costituente sul formalismo della legge). Ad esempio, è dallo sviluppo dell'indignazione che si propone la sedizione; ma è dallo sviluppo della sedizione che si apre l'espansione rivoluzionaria della libertà: qui è la base che permette d'opporre all'Impero di Bush la potenza di sviluppare una vera democrazia rivoluzionaria delle lotte.

Potenza della sedizione
L'istituzione di questa democrazia non riposa da nessuna parte che non sia all'interno questo stesso sviluppo. Conclude Del Lucchese: «la sedizione deve essere pensata come interna e coesistente al diritto ed allo stato e può per questo essere concepita al di fuori di ogni meccanismo dialettico... Libera multitudo come libera seditio. Questo il carattere mostruoso della sfida che Machiavelli e Spinoza hanno lanciato, tracciando confini diversi per segnare il campo semantico della politica. E si tratta di un vero e proprio campo di battaglia».
Sorge il sospetto, a questo punto, che quella serie di concetti che nel moderno, fra Machiavelli e Spinoza, viene rovesciata - dal contratto alla potenza, dalla seditio alla democrazia - venga oggi, attraverso un esempio teologico-politico, reinserita nel dibattito: il vecchio «moderno» (contrattuale, pattizio) viene, oggi, ripresentato come katechon, cioè come trattenimento, sussunzione del conflitto. Ora, mi sembra che gli interventi che, in questo numero dei Quaderni materialisti seguono quello di Del Lucchese fin qui considerato, s'articolino tutti attorno ad una parola d'ordine: basta con il katechon! Dicono, infatti: se si sta con il katechon non si sta dentro il conflitto ma ci si riposa sul lato della sconfitta e della sua interiorizzazione.

Tra obbedienza e resistenza
Ora, nel suo saggio Sul principio di obbligazione, Augusto Illuminati vi ritorna su con molta intelligenza, muovendosi tra l'Heidegger che blocca ontologicamente lo sviluppo dell'essere e quel recente rinnovamento dell'apologetica paolina che sembra auspicare il riapparire della trascendenza sul limite dell'essere. («La contingenza è vissuta come angoscia e risolta in obbedienza - non avvertiamo partecipazione del movimento che risolve l'essere-per-la-morte, divenuto consapevole nel grande ascolto heideggeriano dell'Essere? Non è forse l'ascolto il vertice dell'obbedienza?»). «Autonomia del politico»: che cosa significava questo se non autolimitazione delle lotte, (nel passato), se non (nel presente) riproposizione della tematica di «ciò che non può essere oltrepassato», di ciò che contiene il suo limite all'interno (male radicale? accumulazione originaria insuperabile?) - che cosa significa questo se non la dimissione d'ogni potenza di trasformazione? Di contro, valgono l'astuzia machiavellica e la cupiditas spinoziana.
Il katechon non può essere superato se dall'interno dell'indignazione, così come dall'interno della potenza, non scaturisce l'istituzione. Nel suo saggio E' legittima la resistenza allo Stato?, Pierre-François Moreau, mentre da un lato sottolinea quanto l'indignazione risulti fondamentale nello sviluppo di ogni istanza critica, tanto insiste sul fatto che da sola l'indignazione non crea un nuovo Stato: pone, tuttavia, la base dello sviluppo dell'istituzione. Anche Vittorio Morfino (Memoria, cosa e conflitto. Machiavelli nel Trattato teologico politico) insiste su questo tema, dal punto di vista questa volta non dell'indignazione spinozista ma del «patto» così come espresso in Machiavelli.
Anche in questo caso ciò che è fondamentale è la costruzione dell'istituzione: è, come Francesco Piro insiste nel suo saggio Vincoli, la capacità di sottrarre la politica alla teologia, la sedizione e la lotta alla mediazione ed all'ordine, capacità di svolgere la sedizione in lotta.

La tensione al comune
È così che l'unica «autonomia del politico» è quella che è prodotta dalla «moltitudine libera». François Zourabichvili squarcia l'enigma della moltitudine libera. Non c'è moltitudine nello Stato di natura. Non c'è moltitudine prima dello Stato civile. In terzo luogo, la moltitudine non è una sorta di concetto intermedio tra gli individui e la comunità istituita. «Per quale ragione allora la moltitudine non è una semplice chimera concettuale? In virtù della tensione naturale degli individui verso la comunità (cioè, del loro comune orrore per la solitudine). Se ne conosce la logica: è quella delle nozioni comuni. La consistenza del concetto di moltitudine si trova allora nella tensione di un desiderio comune. Ed è su questo desiderio comune che l'istituzione si fonda».
C'è, dunque, solo un fare-moltitudine, che è anche un fare-istituzione, poiché il fare è la stessa realtà della moltitudine. Di qui si coglie bene che non v'è moltitudine che per la libertà, dentro la libertà, che non vi è, dunque, katechon da nessuna parte e che le condizioni storiche di una moltitudine libera stanno nel fatto che la moltitudine si costruisce continuamente producendo esperienza comune ed istituzione. Non vi è «Stato nello Stato» - diceva Spinoza: ma potremmo aggiungere, «se non per la moltitudine libera». E' questa la via dell'esodo che la moltitudine, conquistando libertà e costruendo istituzioni, percorre sempre.

Corriere della sera 25.3.07
BRIVIDO Trama inventata e personaggi reali nel romanzo di Jed Rubenfeld, «L'interpretazione della morte»
«Elementare, Jung». E Freud svelò il delitto
Un thriller ambientato a New York: protagonisti i padri della psicoanalisi


«Se solo sapessero che cosa stiamo per portare loro»: la celebre frase pronunziata da Sigmund Freud al suo sbarco in America (29 agosto 1909) non poteva mancare in un romanzo che si ambienta a New York, proprio nei giorni della permanenza in città del padre della psicoanalisi. S'intitola L'interpretazione della morte (l'originale, però, è più esplicito: Interpretation of murder, del delitto insomma) di Jed Rubenfeld, un professore di diritto costituzionale di Yale alla sua prima prova narrativa, ed esce ora da Rizzoli, nella traduzione di Roberta Zuppet. Racconta, il libro, con calcolato miscuglio di storia e di invenzione, un intrigo giallo in cui Freud e i suoi amici si trovano chiamati a dare una consulenza. In particolare il giovane psicologo americano Stratham Younger, cui toccherà in cura Nora Acton, la diciottenne scampata ai rituali omicidi di un misterioso maniaco che ha appena ucciso un'altra donna. Nora ha perso la voce e la memoria, e Younger applica a lei il trattamento indicato da Freud per i casi di isteria.
Younger come Nora sono personaggi inventati, Freud e i due allievi che lo accompagnano, Sándor Ferenczi e Carl Gustav Jung, no. Così come sono veri gli altri due psicoanalisti del gruppo: Abraham Brill, primo traduttore dei testi freudiani negli Stati Uniti, e l'inglese Ernest Jones, che arriva dal Canada. È vero che l'albergo scelto era l'Hotel Manhattan; è vera la visita a Coney Island (il parco dei divertimenti ricorda al dottore viennese il Prater, ma molto più in grande); è vera la visita al Metropolitan Museum. Così come è storica l'occasione del viaggio: la consegna a Freud della laurea honoris causa da parte della Clark University di Worcester, Massachusetts, il primo riconoscimento accademico conferito all'autore dell'Interpretazione dei sogni. Dialoghi e aneddoti sono presi da lettere e memorie. A volte, Rubenfeld si permette qualche libertà cronologica: per esempio anticipando gli scontri tra Freud e Jung, all'epoca ancora latenti; o raccontando uno dei due svenimenti di Freud davanti a Jung come se fosse avvenuto a New York (e non anni dopo a Monaco). Le descrizioni di New York, delle sue strade e i suoi palazzi, sono basate su attente documentazioni. Il resto è opera di fantasia.
Chi uccide chi. Il thriller è piuttosto complicato, e non privo di colpi di scena. Sappiamo all'inizio che la giovane Miss Riverford è stata trovata strangolata con una cravatta di seta bianca in un lussuoso appartamento che si affaccia su Central Park. Poiché il proprietario dell'immobile, George Branwell, è amico del sindaco nonché costruttore del Manhattan Bridge, la raccomandazione è di tenere la cosa nascosta. Ma quando il giorno dopo un'altra ragazza, Nora Acton, viene aggredita (stessa cravatta, stessi tagli sul corpo), l'indagine prende avvio. Intanto sbucano fuori misteriosi cinesi, le ragazze di un bordello, un cadavere che scompare dall'obitorio. Addirittura ha una parte pure Harry Thaw, il miliardario da tre anni ricoverato in manicomio per aver ucciso l'architetto Stanford White. Younger, intanto, accompagna il detective Littlemore nelle ricerche, senza mai dimenticare la sua preparazione psicoanalitica: il pensiero che più lo assilla è l'interpretazione dell'Amleto di Shakespeare, perché non è convinto della lettura «edipica» che ne ha dato Freud.
Manhattan Transfert. L'interpretazione della morte non è certo il primo romanzo in cui c'è il personaggio Freud. Cominciò Nicholas Meyer, negli anni '70, con Soluzione sette per cento, un romanzo poi diventato film che combinava psicoanalisi e thriller: Sherlock Holmes, a Vienna per guarire dalla dipendenza dalla cocaina, scoprirà l'autore di un delitto lavorando insieme con il dottore di Berggasse 19. Freud compare anche, vent'anni dopo, in Le lacrime di Nietzsche di Irvin D. Yalom: è il giovane allievo di Breuer, il medico che ha in cura il filosofo di Zarathustra. In questi due casi, le occasioni sono inventate. Non è così il soggiorno a New York del 1909 scelto da Jed Rubenfeld. Che offre, con la maggiore esattezza possibile, dettagli, frasi, gesti del grande viennese. Ci sono evidentemente i sigari, i frequenti bisogni di andare ad orinare, le conversazioni centrate sui sogni dei suoi allievi, la passione per le antichità greche.
Rubenfeld cerca pure di spiegare come mai Freud conservò un'impressione negativa dell'America, tanto da non volerci più tornare. E la spiegazione che trova sta nel conflitto con Jung, il suo erede prescelto che invece contesta duramente il maestro. La rottura, storicamente, avverrà solo anni dopo; ma il romanziere si prende la libertà di collocarla proprio a New York. Al centro del conflitto, il Complesso di Edipo: Jung accusa Freud di aver dato eccessiva importanza al sesso, anzi per lui non c'è nessun desiderio incestuoso. Ma c'è dell'altro: dopo aver considerato Freud come un padre, ora Jung tenta di spodestarlo; pretende di discendere da Goethe; dichiara di aver appreso le nuove verità da colloqui nel dormiveglia con un saggio dell'antico Egitto. Per certo ha avuto rapporti sessuali con una sua paziente (si allude a Sabina Spielrein), e Freud ne è al corrente. Rubenfeld non esita ad aggiungere tocchi negativi al personaggio di Jung: ce lo mostra in un bordello, a volte lo incrociamo di notte vicino alla scena di un delitto.
Infine, nel romanzo, sarebbe d'accordo con una cricca di neurologi americani che vogliono diffamare Freud, portatore di teorie immorali e pure ebreo. Jung, possiamo anticipare, non è l'assassino. Ma non fa certo la figura della brava persona. Del resto non sarà grazie a lui se il colpevole dei delitti verrà scoperto, ma solo grazie a un'intuizione di Freud.

Uscito in Usa nel settembre 2006, L'interpretazione della morte aveva tutte le caratteristiche per diventare un super-bestseller. Invece non è finora riuscito a piazzarsi oltre il n. 18 della classifica del New York Times. Battuto dal romanzo dell'inglese Diane Setterfield, La tredicesima storia.
Il libro di Rubenfeld è però da tempo ai primi posti delle «top» inglesi. Ed ora, il thriller di Rubenfeld arriva in Italia proprio mentre esce anche La tredicesima storia della «avversaria» Setterfield (Mondadori).



Repubblica D 370 17.3.07
IL CONFLITTO DELL’AMORE MATERNO
Risponde Umberto Galimberti

Vorrei rispetto, perciò vorrei che i media, soprattutto le televisioni, la smettessero con la retorica sul gesto violento e assassino «da parte di chi meno ce lo aspetteremmo» ogni volta che una giovane madre uccide il figlio e prova a uccidere se stessa.
Mi offende che questo gesto venga ancora considerato “inconcepibile” e uno “scandalo contro natura”. Considerarlo così è un grave atto di ignoranza che non ci si aspetterebbe più da professionisti dell’informazione, ovvero da chi per lavoro dovrebbe descrivere le realtà in cui siamo immersi per farcela conoscere meglio.
Molto è stato detto e scritto su quel terribile corpo a corpo madre-figlio fatto di tanto amore, cura e dedizione ma anche di dolorosa quando non intollerabile insofferenza.
Se si vive - come capita sempre più spesso - lontano da parenti o amici, senza un lavoro, è facile scivolare, obbedendo alle piccole incombenze quotidiane e alle responsabilità verso marito e figlio, nella casalinghitudine.
Isolamento in casa, solitudine profonda, corpo a corpo con il figlio accompagnati spesso da depressione. E la depressione non è una compagna che ti aiuta.
Per ora ce l’ho fatta: mio figlio è un adolescente stupendo. Ma è stata non dura, ma durissima, e neanche mio marito si è mai reso conto quanto, e non certo perché recitassi la parte della casalinga felice. Tutto ti accade nell’intimo. Fuori si vede pochissimo se riesci a reggere i gesti quotidiani nei quali la tua anima muore a poco a poco. Mi sento sorella a queste madri assassine perché spessissimo ho avuto momenti così dolorosi da pensare anch'io gesti estremi. Quanto tempo fa è successo? Dieci anni, otto? Non so se siano tanti o pochi ma a ogni tragedia riportata dalla cronaca torna vivo il ricordo di quei momenti.
Un ricordo vivissimo, come fosse ora. Il ricordo di un dolore fatto di rabbia e impotenza: riuscire a fare tutto per il figlio e niente per se stesse e per la propria pena.
Non so quante siamo ma penso che siamo tante, proviamo profondamente pena per le sorelle che non ce la fanno, il loro gesto rinnova quel nostro grido muto, noi non ci scandalizziamo.
Lettera firmata

Tutti sappiamo che l’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora siamo a quei casi di infanticidio, il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche, perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa sentire la donna “depositaria della specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante, troppo dissimile, dal proprio sogno o dal proprio desiderio. È a questo punto che l’ambivalenza amoreodio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione.
Con questo non intendiamo giustificare il gesto infanticida, ma invitare ad accudire le madri perché, per talune di loro, forse è troppa la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo.
E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce.
La natura contamina questi estremi, e la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudita, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l'ambivalenza delle sue emozioni, che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele.
Un invito ai padri: tutelare la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome: “accudimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.

sabato 24 marzo 2007

il Riformista sabato 24 marzo 2007
GENETICA. IL NON TRASCURABILE RUOLO DEL PENSIERO NELLE RELAZIONI INTERUMANE
Il rapporto sessuale umano non è quello tra leone e leonessa
DI ANDREA MASINI

Ho letto con interesse l'originale dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi sul Riformista sul tema genetica-sessualità. In particolare ho trovato fondamentale quanto proposto il 17 da Paolo Fiori Nastro circa l'assoluta differenza tra sessualità umana e animale, un argomento che raramente ho visto trattare sulle pagine degli altri media. La proposizione più comune, infatti, ribadita anche da qualche intervento nel presente dibattito, è quella di cercare di comprendere la realtà umana partendo dal pensiero che l'animale sarebbe uguale all'uomo.
Anche la chiesa cattolica, che da sempre condanna con violenza incomprensibile la sessualità umana, sostiene che essa sia indissolubilmente legata alla procreazione, accettando la prima solo quando ha il suo fine nella seconda; in tal modo il pensiero religioso ha sempre teorizzato una sostanziale animalità del comportamento umano, dalla quale l'uomo si solleverebbe con la rinuncia e l'astinenza. Malgrado questo “veto”, la scienza ha reso possibile la separazione tra procreazione e atto sessuale con quegli atti medici che sono conosciuti sotto il nome di procreazione assistita. E anche se in Italia il pensiero cattolico l'ha resa difficile con la nota legge 40, di fatto nella società odierna sessualità e procreazione non sono più indissolubilmente legati.
La sessualità umana, come ha sostenuto anche Livia Profeti nel suo intervento, è «una modalità di rapporto interumano che (…) implicando non solo il corpo ma anche il pensiero cosciente e non cosciente, non obbedisce alle leggi della biologia evoluzionista», cioè non si lega agli istinti animali di sopravvivenza e moltiplicazione bensì a quella realtà caratteristica della nostra specie che è il rapporto interumano. Ciò che ci distingue dagli animali non è il comportamento, che pure è tanto diverso, ma quel pensiero che c'è dietro il comportamento e che fa sì che l'uomo costruisca la cappella Sistina e gli animali abitino le tane.
Quello che vorrei aggiungere al dibattito in corso è ciò che per me è più evidente: che tra il leone e la leonessa non c'è quel rapporto fatto di pensieri, immagini, sogni, sensazioni e tanto altro, che sempre precede il rapporto sessuale umano, lo accompagna e poi eventualmente lo segue. Non si capisce perché nell'affrontare questi argomenti non si prenda mai in considerazione quella realtà mentale che negli esseri umani si realizza già negli anni che precedono la sessualità, la quale deve invece attendere che lo sviluppo biologico del corpo sia compiuto, alla pubertà. Stupisce che non si pensi mai che le realtà mentali dell'uomo e della donna iniziano molto tempo prima dello sviluppo della sessualità e nel precederla la determinano.
I rapporti interumani non possono essere compresi se non si prende in considerazione che il pensiero, in gran parte non cosciente, determina ogni comportamento umano e quello sessuale più di ogni altro. In questo senso, forse perché faccio lo psichiatra tutti i giorni, sono costretto a ricordare che questo pensiero non sempre è sano, e pensare-augurarmi che un ragazzo e una ragazza, prima di dormire insieme, si pongano quel problema che i gatti non hanno, ovvero se sia giunto realmente il momento di fare un figlio e di assumersi così l'onore e l'onere di ciò che questo comporta.
E con ciò pronuncio un altro grazie alla scienza, che con la contraccezione ha contribuito non poco alla nostra “liberazione” rendendo la sessualità una possibilità di rapporto interumano senza “incidenti” procreativi. Così i ragazzi di oggi possono cominciare la loro vita amorosa, e con questa sviluppare la loro identità umana rinviando ad altro momento quella realtà della procreazione che presuppone invece un'identità già realizzata.
Considerata sempre ricerca del piacere, se non confusa con un qualche bisogno fisiologico di “scarica”, la sessualità non è stata mai vista nella sua realtà di ricerca di una identità maschile e femminile che, realizzandosi nel rapporto con l'altro, potrebbe essere il massimo della realizzazione umana. Realizzazione che in questo caso non starebbe tanto in una brillante carriera professionale di medici, avvocati, operai o politici, ma in una identità umana che propone un'uguaglianza per la quale qualunque differenza sociale, di età o di nazionalità, rappresenta soltanto una variazione priva di significato.

l'Unità 24.3.07
CONTROSTORIE La trasmissione su Rai2 dedicata allo scenario ipotetico di una disfatta della Dc e di un’affermazione del Fronte popolare: simulazione plausibile e stimolante
Minoli e la storia con i se. Incredibile ma funziona
di Bruno Gravagnuolo


La storia con i «se». Detestata da Croce, tenuta in gran conto da Max Weber, idolatrata oggi negli Usa e in Gran Bretagna, sotto forma di fantastoria narrativa, approda infine anche in Italia. In format audiovisivo. È accaduto ieri l’altro dopo le 23 su Rai2 nella trasmissione di Minoli La storia siamo noi, fascia oraria tarda ma propizia alle riflessioni. Tema: cosa sarebbe accaduto se il Fronte popolare avesse vinto le elezioni il 18 aprile 1948?
Interrogativo dipanato così. Sullo sfondo i testimoni, al modo del coro greco, oltre al conduttore Minoli. E cioè da una parte Andreotti e Sandro Curzi, e dall’altra due storici di diversa formazione. Il defeliciano Emilio Gentile e la socialista Simona Colarizi. Ne è venuto fuori un racconto plausibile, da diverse angolature, con ciascuno degli attori disposto a simulare, come se gli avvenimenti si fossero svolti al modo comandato dall’ipotesi di fondo: la vittoria del Fronte con il 53% contro il 31% della Dc. Il contrario esatto di quel che effettivamente avvenne.
Altra risorsa scenica, le immagini di repertorio. Montate anch’esse «come se», come a descrivere filmicamente i fatti ipotetici assunti come veri. Conclusione: un esperimento riuscito. Calibrato e persino «rigoroso», per quanto una simulazione del genere possa esserlo. E malgrado gli opposti punti di vista di Gentile e Colarizi. L’uno convinto che il Pci avrebbe imboccato una via moderatissima a vittoria conseguita, nel tentativo di barcamenarsi tra l’ombra degli Usa e le spinte più radicali. L’altra persuasa al contrario che Togliatti e i suoi non potevano che imporre una dittattura del proletariato. E nondimeno la conclusione di tutti, e quella del racconto che ne è scaturito, è stata unanime. Vale a dire, quella vittoria del Fronte sarebbe durata lo spazio di un mattino. Perché sarebbero entrate in gioco forze potenti a stroncarla. Dagli Usa nel Mediterraneo, al Vaticano, ai ricostituiti apparati dello stato, polizia, prefettura carabinieri. In più la nascente repubblica «socialista» sarebbe stata strangolata dal blocco economico e dal mancato accesso al piano Marshall. Senza dire che l’Urss, non avrebbe potuto, né voluto fare più di tanto, alle prese com’era con la stabilizzazione del suo blocco all’est. L’epilogo del racconto di Minoli è stato allora l’esplodere della guerra civile, innescata da una provocazione armata in Piazza S. Pietro, a confermare i timori dei «cosacchi». E coronata dal ritorno dei Savoia nel 1956, dopo anni di semi-dittattura scelbiana, e di inutile resistenza rossa sulle montagne.
Che dire di tutta la simulazione? Innanzitutto che questo schema «controfattuale» funziona, è plausibile. E costituisce una risposta indiretta alle tante sciocchezze ascoltate proprio ieri l’altro a Roma al Convegno sul Pci aperto da Fabrizio Cicchitto. La cui tesi suonava fra l’altro: «Pci che avrebbe fatto come in Russia, stante la sua natura eversiva ed eterodiretta da Mosca». E funziona lo schema per una serie di ragioni forti. Vediamone alcune. Primo, Togliatti non voleva né poteva volere in quelle condizioni una «democrazia popolare». Sapeva benissimo che i giochi geopolitici erano fatti dopo la guerra, e che al massimo si sarebbe potuto inoltrare su una via neutralista moderata, e non antiamericana. Per questo aveva ipotizzato una strada molto lenta e lunga basata su un’economia guidata senza toccare ceto medio e piccola impresa, ma anche contrattando la ripresa economica con la grande impresa, arginandone il potere monopolistico. La cornice restava dunque la Costituzione repubblicana, l’intesa con i cattolici e la Chiesa. E un’attesa di scongelamento della guerra fredda incipiente. Il tutto da un lato contro Secchia, e la «via jugoslava» a supporto di una radicalizazzione a sinistra. E dall’altro contro l’Italia più reazionaria, da isolare e marginalizzare.Via strettissima perciò, a egemonia progressiva e «gramsciana», e ad economia mista e non di comando. Con l’assunzione piena del modello parlamentare, benché senza chiarezza sull’assunzione netta delle regole liberali dell’alternanza. Piccolo particolare non controfattuale. È provato che gli Usa avrebbero stroncato il tentativo. E lo dimostrano gli scenari dei servizi americani oggi declassificati. Sicché a conti fatti quanto disse una volta Riccardo Lombardi non è tanto paradossale: «La sconfitta del 18 aprile ci salvò da noi stessi».

Repubblica 24.3.07
LA FAMIGLIA DOPO UN LUTTO
Psicoanalisi/ Il trauma della morte di un congiunto
di Luciana Sica


È un momento drammatico, una svolta. Ma può anche diventare un'occasione di crescita
La raccolta di saggi, curata da Maurizio Andolfi, indaga sui traumi nelle persone e nelle relazioni
"Da una perdita si può passare a un modo nuovo di stare insieme accettando la fragilità"
"Prima del dolore si può essere egoisti o narcisisti Dopo tutto si ridimensiona"

ROMA. Maurizio Andolfi è un terapeuta della famiglia, noto anche all´estero, un uomo singolare per i suoi modi diretti, quasi bruschi, tipicamente "romaneschi", coniugati a una competenza rigorosa, a una grande esperienza teorica e clinica, a quel pragmatismo di scuola anglosassone così lontano dalle pose intellettuali di certi sapienti dell´anima.
Sessantaquattro anni, neuropsichiatra infantile, professore alla facoltà di Psicologia della "Sapienza", direttore dell´Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma, Andolfi è un uomo allegro, pieno di simpatia e di curiosità. Forse è anche per queste caratteristiche umane che può sorprendere il suo interesse per un tema come il lutto, per la condizione di vuoto e di dolore che segue la scomparsa di una persona amata - in modo particolare per quella catastrofe che è la morte improvvisa di un figlio: l´incubo sempre presente e sempre rimosso di ogni genitore.
Le perdite e le risorse della famiglia (Raffaello Cortina, pagg. 322, euro 24): basta la titolazione per intuire l´estraneità totale alla celebre "elaborazione del lutto" in chiave psicoanalitica, del libro collettaneo che Andolfi ha curato insieme a un collega più giovane ma già affermato - Antonello D´Elia, psichiatra e psicoterapeuta, "didatta" dell´Accademia romana, che firma i due saggi iniziali, tra i più brillanti del volume.
Se da Freud in poi, il lutto è sempre stato affrontato dalla psicoanalisi in termini individuali (intrapsichici), per la risonanza profonda che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore, questo libro - anche piuttosto "tecnico" ma di un suo innegabile interesse - può vantare un´originalità assoluta (almeno per quel che riguarda il nostro Paese): qui si indaga principalmente sugli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.
È ovvio: la perdita sempre dolorosa di una vita - tanto più se di una giovane vita - mette in moto una serie di dinamiche complesse all´interno della famiglia che ne è sconvolta, comporta - anzi impone - dei profondi mutamenti personali e relazionali. Gli esiti però sono imprevedibili. Ed è qui che le pagine di questo libro si fanno più interessanti, legate come sono alla lunga esperienza clinica degli autori. Se molto spesso un lutto cristallizza o disgrega i legami familiari, a volte - certo, un po´ paradossalmente - può invece significare una "opportunità" di crescita, costituire un punto drammatico di svolta per un cambiamento, grande e positivo, con se stessi e con gli altri. Col tempo non è escluso che una famiglia risulti più unita, "rafforzata", più capace di autentica affettività al suo interno e al di fuori.
«La prima fase di ogni lutto è la distanza, la chiusura, anche per la difficoltà che in genere si ha a esprimere i propri sentimenti più depressivi. Il dramma del lutto è che non si perde soltanto il familiare scomparso, ma anche altre figure significative, o che sembravano tali fino a quel momento». È Maurizio Andolfi a parlare, nel suo studio romano a due passi da Villa Torlonia. «La perdita di una persona amata procura sempre un terremoto all´interno di un gruppo familiare. Il lutto non unisce mai, anzi quasi per sua natura separa, legato com´è al particolare significato che quella perdita ha per ciascuno dei membri di una famiglia. Quando si è colpiti da un grande dolore, si vive come in un mondo a parte, in uno stato dissociato dalla realtà dove vengono svalutati un po´ tutti i rapporti, anche quelli più stretti».
All´inizio la vita non è più vita, solo un rosario di giorni spenti e ripetitivi: è sopravvivere. Ma poi può succedere "qualcosa", che non è solo - banalmente - tornare a vivere. Il punto infatti è come si riprende il rapporto con la realtà, con quali trasformazioni interne e con quale atteggiamento nei confronti degli altri, a cominciare dalle persone più vicine.
Andolfi: «Non è un´idea astratta, o romantica, noi l´abbiamo verificato tante volte nel lavoro con le famiglie. Da un lutto "incestato" si passa a volte, attraverso una circolazione della sofferenza, a un modo nuovo di stare insieme, dove al centro c´è l´accettazione del proprio essere fragili, così indifesi nei confronti della sventura, la capacità di stare a contatto con le proprie emozioni e di saperle comunicare, di non proporsi più come pure maschere, nei soliti ruoli aridi, abitudinari, ripetitivi».
È attraverso l´esperienza del dolore che fantocci senz´anima diventano finalmente esseri vivi, palpitanti, affettivi: è in questo caso che il lutto rappresenta una "risorsa" di aggregazione, imponendo un nuovo modo di essere, di stare al mondo in una gerarchia di valori diversa. Per dirla con Andolfi, «prima magari erano egoisti, grandiosi, onnipotenti, narcisisti, ma poi il lutto li ridimensiona, abbatte ogni falsa impalcatura, rende vulnerabili, costringe insomma a una revisione radicale dell´esistenza... Le morti che insegnano sono proprio quelle che distruggono certi obiettivi assoluti della vita».
Mettiamo i tanti drogati del lavoro, quegli uomini (e quelle donne) che hanno fatto della carriera un mito: le loro ossessioni professionali svaniscono, vanno in frantumi. «Mi è crollato tutto», confessano ai loro terapeuti, intuendo che quel tutto era solo una parte, e neppure la più importante. «La mia vita non ha più un senso», dicono, ma capita che poco alla volta scoprano che la vita possa avere anche un altro senso, e che sia possibile riprogettarla.
Nel lavoro faticoso del lutto, si produce un distacco netto tra presente e passato. L´esperienza vissuta con la persona scomparsa è alle spalle, irripetibile, ma quella ferita può aprire una tensione verso il futuro. Nella famiglia, la morte crea sempre un vuoto, ma spesso lo rivela: la perdita - con tutto il suo potenziale distruttivo, silenzi e sensi di colpa, rabbie e incongruenze - può essere il motore di profondi cambiamenti, e la sensibilità nei rapporti umani aumentare di molto.
Insomma il vero vuoto fa apparire la "felicità" precedente come, essa stessa, in fondo vuota. Lo raccontava perfettamente il film più straziante di Nanni Moretti, e lì a sconfiggere il mostro del lutto celato nella "stanza del figlio" era una ragazza di nome Arianna (un nome, certo, non scelto a caso - come anche il dedalo di corridoi nell´appartamento, notava Tullio Kezich). E forse sarà proprio Arianna a salvare la famiglia, a farla uscire da quel labirinto invisibile che è la loro vita incagliata nel dolore. Tra l´altro il protagonista della storia - il padre, interpretato dallo stesso Moretti - è uno psicoanalista e molti hanno voluto vedere il film come una metafora della morte dell´analisi.
«A me - dice Andolfi - La stanza del figlio ha fatto pensare piuttosto a un discorso sulla finalità dell´analisi che, come ogni terapia, in fondo non può essere che il confronto con il vero lutto, con la mancanza reale, con la morte. E anche che certi cambiamenti possono non essere lenti, graduali, ma improvvisi, folgoranti».
Viene in mente almeno un altro film, Tutto su mia madre di Pedro Almódovar. Lì non esiste traccia di una famiglia tradizionale: c´è una donna sola con un figlio adolescente, che muore in un incidente stradale. Una storia terribile, che fa pensare anche a come oggi le famiglie - così poco numerose, così diverse dal passato - abbiano certamente più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un destino di dolore.
Ora Almodóvar è noto per essere un omosessuale che adora le donne (ne ha un´ammirazione che sconfina forse nell´invidia), quasi tutto il suo cinema ruota intorno a figure femminili memorabili. E così, anche quella donna privata del suo amore più incondizionato, non risulterà sconfitta, annichilita dalla perdita. Anzi sarà capace di rinascere, di recuperare la sua vita precedente forse più problematica ma intensa.
Nella vita reale, sarà però la stessa cosa? Una donna sola può davvero sopravvivere alla morte del proprio unico figlio? C´è da dubitarne, ma Maurizio Andolfi non lo esclude: «Le donne - per loro natura - partecipano ai processi profondi della vita. Quando sono colpite dal dolore, non lo sfuggono, ci stanno molto vicino per lungo tempo, non cercano scorciatoie. "Sentono" che quella è l´unica strada, perché in effetti è solo così - accettandolo, il dolore - che lo si può poco alla volta attraversare, è così che si fa il salto... Ho visto più volte madri reagire alla catastrofe, spesso facendo da ponte ad altre vite intorno a sé: donne inesauribili, che tendono a ricostruire una loro famiglia nel sociale. Le donne credono profondamente nella vita, non a caso ne sono le artefici: sanno che si nasce e si muore da soli, ma anche che si cresce e si cambia con gli altri».

Repubblica 24.3.07
Hegel. Il suo pensiero è una spietata macchina da guerra
"La fenomenologia dello spirito"
di Antonio Gnoli


Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l'ardua opera del grande filosofo: sgomentò non pochi lettori
L'editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall'oscurità del testo, decise di stamparne solo 750 copie
La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena vincitore

Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblicò La Fenomenologia dello Spirito. L´opera - ardua, oscura, indecifrabile - lasciò sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondità. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant´è che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della "Critica" in larga parte si doveva alla sua oscurità. Ma non era un po´ tutta la filosofia tedesca minacciata dall´incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell´astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l´estro della enigmaticità. Anzi, dell´enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio.
Il suo "maestro" dunque non era l´eccezione. Come non lo sarà un secolo e mezzo dopo Heidegger. La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c´è grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose città del pensiero da altri edificate. Al punto che si può immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del più serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un´identità, una figura, una persona, una scuola Bensì nei riguardi di tutto ciò che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non è solo un filosofo è anche un predatore dello spirito. C´è qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento. Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell´esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto ciò che lo deprime o l‘ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Ciò che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che la ravvivano - è solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verità nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - può aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come può immaginare una civiltà a prova di decadenza? Fino a dove può spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell´onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realtà è l´ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l´Oriente e l´Occidente Da giovane si è invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtù di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della città celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un così poderoso programma? A quale verità intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l´eterno? L´ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realtà batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracità del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c´era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all´altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribù immaginaria, quella dello spirito, così come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entrò a Iena da vincitore. E annotò l´evento in una lettera: «Ho visto l´imperatore, quest´anima del mondo - cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
C´era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si può anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all´arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all´altezza di questo compito? Quale "Totalità" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c´erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannerà all´inanità politica e che il giovane Hegel vedrà come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere così la propria forza, per essere non più uno tra loro, ma l´unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perché era dalla fine che bisognava partire per tornare all´inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l´Assoluto. Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da sé e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita tornasse in sé, arricchito dall´esperienza del mondo. Ecco l´esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c´erano stati gli anni decisivi di Iena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la città, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un´alba nuova si annunciava. Un´alba che la Fenomenolo-gia, simile a un grande romanzo filosofico dall´andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell´esistenza. Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell´esistenza umana sull´inquietudine, sull´angoscia, sulla finitezza, sulla morte.
Può suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli è rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla è più infido e più instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non è solo Iena. È il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di sé e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entità che è l´Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare. Non è necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l´incapacità a sanare la distanza tra l´Uno e il Molteplice, tra l´Al di là e l´Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, ciò che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realtà sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l´Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest´ultimo al cielo dell´idea? Lo strumento della dialettica - l´arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne è oggi delle Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all´origine della vicenda. L´editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall´oscurità - ne stampò 750 copie. Poche settimane prima che l´opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera. Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormenterà il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis porterà il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiuterà la paternità. Proverà a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli darà due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilità e l´intelligenza - non riuscì mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolò nell´esercito olandese e morì di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l´epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Morì che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell´Ottocento. La sua fortuna fiorì improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyré, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojève contribuirono al suo sdoganamento. Gyorgy Lukàcs e Ernst Bloch ne rilevarono l´importanza. Anche Heidegger fornì la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione?
Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - è cosparso delle esperienze che lo spirito dovrà fare. L´intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessità, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l´eroismo, l´illuminismo e la superstizione, la libertà e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell´opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L´oscurità che li avvolge è la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si può evitare di concludere che ciò che viene incontro al lettore è un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessità familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Ciò che accade può essere raccontato. Ma solo perché lo si racconta accade realmente. È un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvietà. Del resto, dopo Iena, Hegel si recò a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l´ansia della notizia, la crudeltà della censura e la lingua che si corrompeva. Terminata quell´esperienza tornò ad essere "Hegel l´oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a sé arricchita da quell´esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranità misteriosa che è la totalità hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui è stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civiltà cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del più puro ateismo. Ma dopotutto quell´opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernità. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l´ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.

Il Mattino 24.3.07
IL PROGETTO SULLA MOGLIE SEGRETA DEL DUCE
Bellocchio racconta Ida Dalser
di os. co.


Giornata partenopea, ieri, per Marco Bellocchio, protagonista del festival «L’arte della felicità», in mattinata al Modernissimo per la proiezione di «Sorelle», in serata per un incontro all’istituto francese Grenoble. «Sorelle» è un film a episodi, tre, che raccontano di una bambina, Elena, di sua madre Sara, e dei loro difficili rapporti. Elena vive con le zie a Bobbio, perché la madre, che fa l'attrice, è sempre in giro, ma non l’ha abbandonata: ritorna appena può, così come ritorna continuamente anche il fratello per ragioni diverse. Ma un giorno Sara decide che Elena viva con lei a Milano e perciò lasci il paese e si separi dalle zie. Forse definitivamente. «”Sorelle” è il frutto di un breve laboratorio cinematografico, tenuto per quindici giorni a Bobbio, in provincia di Piacenza», spiega il regista, «a me non sembra utile fare solo discorsi teorici, sono convinto che chi vuole fare cinema debba innanzitutto essere pragmatico, misurarsi con i limiti finanziari e di tempo che ogni situazione produttiva presenta. Così ho pensato ai tre episodi - ce n’è anche un quarto, ma deve essere ancora montato - che sono stati scritti e girati con gli studenti, chiudendo in due settimane l’intero ciclo produttivo di un film: dall’ideazione alla scrittura, dalla scelta logistica dei luoghi dove girare e del casting alle riprese, dal montaggio alla colonna sonora». Sembrerebbe un’impresa impossibile, ma Bellocchio sottolinea quanto sia stato «stimolante lavorare sfruttando i limiti che ci erano imposti. Ovviamente in un contesto del genere non ho potuto che coinvolgere la famiglia, le mie sorelle, gli amici come Donatella Finocchiaro». Un divertissement usato anche per tastare il polso alla generazione prossima ventura di cineasti: «Paragonati a quando mi sono iscritto al Centro sperimentale, questi ragazzi hanno una maggiore cultura cinematografica, hanno visto molti più film, hanno avuto accesso a molte più immagini di quanto non ne avessero gli autori della mia generazione. E possono usare una tecnologia leggera, che permette di girare in assoluta economia». Intanto, per l’uomo di «Buongiorno, notte», cinema e politica sono destinati nuovamente a intrecciarsi: il suo prossimo progetto si intitola «Vincere», copione storico incentrato su Ida Dalser, la moglie segreta di Mussolini: «È lei la protagonista, il dittatore fascista è in scena all’inizio giovane socialista, poi lo si rivede in un cinegiornale salire al Quirinale in camicia nera. Come nel film su Moro, voglio continuare a contaminare il mio girato con immagini d’archivio». Facendo di necessità virtù: anche nella realtà la Dalser non vide più il marito, se non nei cinegiornali Luce.

Repubblica Napoli 24.3.07
Il regista ha presentato al Grenoble il suo ultimo film "Sorelle"
Bellocchio sfida i cinefili e tifa per Mario Merola
"In Lacrime napulitane mi commuove"
di Antonio Tricomi


"Per il partito religioso è come se non fosse mai esistito Voltaire È ancora Medio Evo"
"È caduta l'idea di trasformare il mondo il pensiero socialista è in netta minoranza"

È stato presentato ieri sera al Grenoble in presenza dell´autore, per la rassegna "L´arte della felicità", il film di Marco Bellocchio "Sorelle". Settanta minuti, girato in digitale, il lavoro è ambientato a Bobbio, provincia di Piacenza, nella casa in cui il regista è cresciuto insieme alle sorelle Letizia e Mariuccia.
Maestro, prevede che "Sorelle" verrà regolarmente distribuito?
«A volte le pellicole che si vedono in sala godono di una distribuzione soltanto simbolica: vengono fatti uscire alla spicciolata giusto per dire che sono usciti. Preferisco accompagnare "Sorelle" in situazioni un po´ particolari come quella di ieri a Napoli e magari parlarne con il pubblico. Per il resto, è già passato su Sky e quasi certamente verrà pubblicato su dvd. È sempre cinema, anche se le modalità di fruizione non sono quelle tradizionali».
Cinque anni fa, all'uscita del suo film "L'ora di religione", si aprì un dibattito in Italia sul rapporto tra laicità e religione. Quasi ad anticipare lo scontro di oggi sui Dico e sulle ingerenze del Vaticano nella vita pubblica.
«L´opposizione ai Dico è incomprensibile. Il partito religioso è di un´intolleranza medievale: come se Voltaire non fosse mai esistito. Mi stupisce che i nostri rappresentati politici, che sono dei privilegiati, non sentano come un caso di coscienza i diritti dei conviventi e i temi della laicità in generale».
Come se lo spiega?
«Credo che dipenda dal vuoto lasciato dalla politica. L´idea di trasformare il mondo è caduta, il pensiero socialista e riformista è in netta minoranza».
Per questi motivi si è impegnato nel progetto di fusione tra radicali e socialisti, sostenendo la Rosa nel pugno?
«La mia è un´adesione simbolica, ma i motivi sono esattamente questi».
E del nascente Partito democratico cosa pensa?
«Nulla perché non lo capisco. Credo che in Italia dovrebbe piuttosto nascere un grande partito socialdemocratico con un´identità laica molto precisa. Leggo nel Partito democratico un istinto suicida della sinistra. I post-comunisti voglio riformare la Democrazia cristiana e farsene assorbire: perché parliamoci chiaro, si tratta di questo. Mi sembra grottesco. Forse perché appartengo a un´altra generazione, magari questa è una cosa che i giovani capiscono meglio».
Sta pensando a entrare in politica, maestro?
«Non m´interessa, ho una certa età. E poi di mestiere faccio il regista».
Torniamo a parlare di cinema, allora. I suoi progetti?
«Nel prossimo film vorrei raccontare la storia di un figlio illegittimo di Mussolini che fu lasciato morire in manicomio. Quello della malattia mentale è una tema che da sempre mi sta cuore».
Quando più di trent´anni fa lei realizzava il documentario "Matti da slegare", avrebbe immaginato che un giorno una canzone sui malati di mente avrebbe vinto Sanremo?
«La canzone di Cristicchi è commovente. Ed è interessante perché sottolinea un caso disperato. Ma certo il discorso sulla malattia mentale è più complesso. Bisogna dire che esiste, non bisogna far passare l´idea facile che in fondo siamo un po´ tutti matti. Non basta avere un sentimento di pietà o condividere la disperazione: occorre affrontare e combattere la malattia».
Lei è percepito come un regista "nordico". Si è mai sentito attratto dalla possibilità di girare a Napoli?
«Credo che per fare buoni film bisogna conoscere a fondo la realtà che si intende raccontare: preferisco essere un ammiratore dell´arte napoletana nel suo complesso».
Può fare qualche esempio?
«Potrei farne tanti. Di recente mi è capitato di vedere "Lacrime napulitane", un film forse poco apprezzato dai cinefili. Bene, quando cantava Merola mi sono commosso».

Repubblica Roma 24.3.07
Atenei, 100 eventi nella notte bianca
(...) La filosofia. A Roma Tre Arrigo Levi e Giacomo Marramao parlano di Unione
(...)

di Geraldine Schwarz


Si spengono le luci, si accendono i Saperi. È dedicata all´Europa la seconda notte bianca delle università romane perché domani, 25 marzo, si celebra il cinquantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che sancirono la nascita dell´Unione europea. E allora via, per una lunga notte. Le porte delle università romane, pubbliche e private, si aprono al pubblico di studenti e non, dalle 20 di stasera per una maratona culturale lunga più di sei ore, con quasi cento lezioni, più di cento iniziative tra laboratori, mostre, performance teatrali, letture, film, documentari, ma anche eventi sportivi e sfilate di moda. Tra i tanti ospiti ci saranno Michele Placido e Dario Vergassola con le sue interviste impossibili ma anche Vincenzo Cerami, e Luca Carboni, Simona Ventura, Paolo Bonolis e Achille Bonito Oliva. E anche il famoso economista Jeremy Rifkin che farà una lezione alla Sapienza (alle 21,30).
Ma andiamo per ordine, di tempo. Si comincia con lo sport. Lo IUSM (Istituto di Scienze Motorie di Roma) propone tra le altre attività di boxe, spinning e danze europee, alle 18 allo stadio dei Marmi, un triangolare di calcio tra la rappresentativa della nazionale attori (con la presenza tra gli altri di Riccardo Scamarcio, Raul Bova, Luca Zingaretti, Giulio Scarpati), quella dei Giornalisti e una squadra dello IUSM.
La Sapienza invece apre le porte dell´Ateneo alle 20 con una lectio magistralis sull´Europa, e alle 21,30 nell´aula magna del rettorato l´incontro con Jeremy Rifkin. Alla stessa ora, nell´aula I della facoltà di Giurisprudenza, Vincenzo Cerami leggerà brani dall´Ecclesiaste dell´Antico Testamento; a seguire, alle 22,30, Michele La Ginestra in un monologo. Dopo, ancora a Giurisprudenza, le lezioni d´arte di Achille Bonito Oliva e Paolo Portoghesi, a mezzanotte e mezza nell´aula magna del rettorato ci sarà il concerto di Le Mani e Pier Cortese e a seguire Luca Carboni in un viaggio di parole e musica.
A Tor Vergata l´apertura, presso la facoltà di Lettere e Filosofia, è affidata a Sergio Zavoli (ore 20,45) con una lezione sull´Europa che apre a cinque percorsi di video e lezioni sulla cultura europea. Alle 22, in Auditorium, Michele Placido con "Le tre sorelle" di Cechov e a seguire Dario Vergassola (23,30), Johnny Palomba, ma anche musica alle 22,30 in biblioteca con Roma Sinfonietta. Arrigo Levi e Giacomo Marramao aprono invece la notte di Roma Tre parlando ancora di Europa. Qui, si esibiranno l´orchestra di Roma Tre su musiche di Mozart. (ore 20 Aula magna) i Ladri di Carrozzelle (alle 21,30) e la danza, con Kledi kadiu e la Free dance Company.(22,30). Dopo mezzanotte un monologo di Salvatore Marino (all´1) e l´incontro con gli scrittori Beppe Sebaste e Giancarlo de Cataldo. Chiude il film "Europa" di Lars Von Trier. Alla Luiss apre alle 20 Andrea Purgatori con "I sentimenti della notte" e poi, dopo il convegno l´Europa e la moda, la sfilata degli studenti vestiti e acconciati (aula magna dalle 23). Tra gli incontri, Simona Ventura (aula magna ore 21) e a seguire Pier Luigi Celli che intervista Paolo Bonolis. E ad Economia ecco il villaggio Amnesty International. Il programma della notte sul sito www. universitadellanotte. it