lunedì 26 marzo 2007

l’Unità 26.3.07
Quando in famiglia si nasconde il killer
di Oreste Pivetta
I NUMERI: 174 LE VITTIME di omicidi in ambito familiare secondo il rapporto Eures 2006. Si muore di più in famiglia che per mano della delinquenza organizzata (146 vittime, pari al 29,1 per cento del totale) e della delinquenza comune (91 vittime). E nel 2003 le vittime dei delitti in famiglia erano state 201 (pari al 30,5 per cento), nel 2002 erano state 223 (39,9 per cento).
49,1 PER CENTO: questa è la quota degli omicidi in famiglia sul totale al Nord. Anche al Centro il maggior numero di delitti è di stampo familiare (46,3 per cento). Al Sud si conferma il primato della criminalità organizzata.
56,3 PER CENTO: tante sono sul totale le donne vittime di delitti di famiglia. Il contesto relazionale nel quale maturano più delitti è quello della coppia (cento, pari al 53 per cento).
IL QUADRETTO il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei «rapporti di prossimità» (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. I casi più famosi, quelli di Erika e Omar a Novi Ligure e quello - dieci anni prima - del veronese Pietro Maso

«La vita dei coniugi... si snoda lungo un percorso che visto dall’esterno, rimanda ai messaggi contenuti in quegli spot pubblicitari che rappresentano famiglie serene perchè benestanti, perchè armoniche e non conflittuali al loro interno, perchè non preoccupate dall’incertezza per il futuro...». Così nella relazione dei periti del pubblico ministero.
Peccato che uno dei due coniugi sia morto, la donna, accoltellata insieme con il figlioletto, per mano non di un uomo alto e grosso e dai capelli bianchi e da un altro, esile e scuro come un albanese, ma della figlia. La storia di Erika e Omar da Novi Ligure. La storia di una famiglia. Come ce ne sono tante nel bene e nel male. Famiglie di buona educazione, cattolicissime, benestanti, pratiche comuni tra la scuola dei figli, la palestra, la spese, la cucina, un lavoro del capofamiglia che garantisce tutto. E famiglie meno benestanti ma educate dalla stessa televisione, pronte a condividere lo stesso benessere o almeno l’aspirazione allo stesso benessere. Famiglie così, in alcune delle quali il marito uccide la moglie, la moglie uccide il marito, il marito uccide la moglie e i figli e qualche volta i figli uccidono entrambi. Se si rifanno le storie, i nomi sarebbero tanti, ma i ritratti si assomiglierebbero. Dopo la fine, nella villetta di Cogne, del piccolo Samuele, quanti neonati o bimbetti, fratelline e sorelline, sono morti, affogati nei laghetti o soffocati nelle lavatrici.
Secondo un rapporto dell’Eures nel 2006 il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei "rapporti di prossimità" (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. L’ambito familiare, con 174 vittime (pari al 29,5 per cento del totale, s’è confermato quello più a rischio, superando in misura rilevante le vittime della criminalità mafiosa (146, pari al 24,4 per cento). Al secondo posto gli omicidi tra conoscenti: 59 vittime, cioè il 9,9 per cento.
Gianfranco Bettin, ex prosindaco di Venezia con Massimo Cacciari sindaco ed ora consigliere regionale, in un libro molto bello (L’erede, pubblicato da Feltrinelli nel 1992) aveva ricostruito alla maniera di Truman Capote (A sangue freddo) il delitto di Montecchia di Crosara, i primi monti della pianura del Nordest, provincia di Verona. Dove, in una notte infernale, Pietro Maso aveva massacrato i genitori a padellate con l’aiuto di alcuni amici del paese. Voleva i soldi, Pietro, per comprarsi la macchina, probabilmente una Delta Alfa Romeo Rossa. Il patto con i complici l’aveva stabilito nel bar del paese, a un tavolo all’angolo. Alla fine s’era alzato annunciando: «G’avemo da copar gente». Perchè? «Pei schei».
Gianfranco Bettin ha ripreso il libro, ha cambiato il titolo che è diventato Eredi (sempre per Feltrinelli), dopo aver aggiunto la storia, questa volta in poche pagine, di un altro delitto: quello appunto di Erika, che in compagnia di Omar, uccide la madre Susy Cassini e il fratellino.
Due famiglie molto diverse diverse, dieci anni tra una strage e l’altra non sono pochi. La famiglia di Maso è tradizionale e tradizionalista, radicata nella sua cultura contadina, conosce il benessere, ma osserva con prudenza il proprio futuro, vive il consumismo ma non si è ancora lasciata prendere dal consumismo. La famiglia di Erika prende sul serio il mondo del Mulino Bianco e si specchia in quel panorama e nella sua paccottiglia: nel senso dello spot, dove i genitori appaiono giovani e belli ancora, fanno colazione al mattino con i figli, due figli in perfetto equilibrio, un maschio e una femmina, si capisce che non avvertono difficoltà economiche. Erika ha un fratello: Il padre, immigrato dal sud, fa carriera nell’azienda più importante della zona, entra nel Rotary, è un uomo in vista. Anche la moglie tiene al decoro. Va in palestra con la figlia, le parla molto, si scambiano i vestiti, fanno spese insieme. Non vivono l’immaginario del consumismo: sono precipitati nel consumismo.
A Montecchia di Crosara si prospera ancora nel Veneto contadino e il delitto di Pietro Maso ha qualcosa di arcaico. A Novi il trapasso è avvenuto: la cultura televisiva domina con i suoi modelli, i gusti sono plasmati dalla pubblicità, che diventa riferimento della rispettabilità e della moralità. Ma sono la rispettabilità e la moralità dei genitori, che cercano di imporle, nelle stesse identità, ai figli. Se i figli danno la sensazione di uno scarto, allora li si compra: se la figlia va male a scuola, la si perdona quando promette che il brutto voto non si ripeterà più, se invece si ripeterà si cerca un’altra scuola che si immagina più adatta a lei, per incoraggiarla le si regala l’ultimo modello dei jeans. Si compiacciono i figli. Ci si consola leggendo nel loro malessere solo un capriccio. I figli sembrano vicinissimi, ma la distanza si è già fatta incolmabile. La contraddizione vera non esplode mai. Erika, come tutti, si scava una nicchia tra gli amici e il fidanzatino Omar. Quando la nicchia non basta più, uccide. La sua fantasia è proiettata verso un futuro senza costrizioni. Pochi giorni prima del delitto in un tema aveva scritto: «La mia famiglia è magica e immensa...». Erika, il padre e la madre condividono lo stesso orizzonte. Aveva scritto Erika di sua madre: «Come due sorelle». Al contrario di Pietro Maso, che è un’altra vita rispetto a quella del padre. Erika, la madre e il padre sono uguali. Nella falsità di questa apparente omogeneità la famiglia soffoca. Erika uccide per sentirsi libera. Per questo il suo delitto è un delitto senza tempo.
Chi, tra i magistrati, ascolterà le parole di Erika e del padre, “intercettati” nella caserma dei carabinieri di Novi Ligure, commenterà: «È sembrato che ciascuno gestisse da solo il proprio sconvolgimento (anche Erika a modo suo) e la vicinanza nella stanza della caserma era soprattutto contiguità fisica».
«E QUANDO QUELLA PARTORISCE, tu subito ci vai, in chiesa o in comune, tu ci vai e ci metti la firma».
«Sì mamma, se mi prendi il vestito di Dolce e Gabbana».
VILLE SUL LAGO e filatori rivali, traffici d’armi e amori che corrono da una parte all’altra, barche a vela e bonarie trattorie d’altri tempi sulla darsena che pare un quadretto dell’Ottocento. Papà industriale con l’ex moglie di gagliardo quarantenne di successo, che perde la testa per la vivace studentessa in legge che profittando della propria avvenenenza arrotonda tramite agenzia compiacente e che, per completare tesi di laurea, frequenta la locale questura, dove presta la propria opera il figliolo poliziotto del gagliardo quarantenne: colpo di fulmine e la bella, sincera amante e riamata, molla il padre per il figlio ignaro... Mentre la figlia dello stesso quarantenne prima spasima per un severo medico, poi incrocia per caso il fratello e non resiste alla tentazione di provare anche lui... Persino l’attempata moglie del simpatico e solare trattore non resiste alla tentazione di rinvigorire un’antica passione per un mago terapeuta argentino, tenebroso cialtrone che finisce il galera. Non basta una vita a raccontare “Vivere”, soap opera al settimo anno d’esistenza nell’etere di Canale 5, tra le più seguite, ogni giorno tranne il sabato e la domenica a partire da mezzogiorno e mezzo. Tante storie senza una famiglia che sia una: niente, solo disastri dentro casa...
«Eppure Vivere - racconta Davide Sala, caposcrittura, responsabile insomma del manipolo di sceneggiatori che di giorno in giorno inventano personaggi, dialoghi e situazioni - era nata come soap opera delle famiglie, risposta a “Un posto al sole”, tra protagonisti di un livello sociale un po’ più alto, presentando appunto tre famiglie in una provincia italiana che il benessere l’aveva già raggiunto».
Peccato che nel giro di sette anni di famiglia, padre, madre, figli, nipoti, nonni, non ne sia rimasta in piedi una...
«La prima responsabilità è degli attori che se ne vanno, che scelgono altri impegni. Insomma questioni produttive hanno un effetto disgregante sulle famiglie...».
Magico intreccio realtà finzione...
«Adesso stiamo cercando di ricostruirle».
Il bravo poliziotto vuole mettere su casa con l’ex amante del padre, che sembra non mollare la presa e s’offre di pagare l’affitto...
«Dalla disgregazione alla ricomposizione dell’unità familiare, rapporti conflittuali attraverso i quali matura di nuovo l’identità della famiglia».
Tutto il contrario della famiglia salda e quadrata di fronte ad ogni avversità, di “Raccontami”, lo sceneggiato di Raiuno con i bravissimi Massimo Ghini e Lunetta Savino: a Roma il quadretto dell’Italia anni sessanta e sulle rive del lago invece gli anni nostri... Italia fiduciosa in cerca di benessere e felicità, Italia viziata, senza ideali, senza morale... Non è che proprio quest’Italia, più realistica in fondo al di là dei colori pastello della soap, alla fine intrighi di più lo spettattore e faccia più audience?
«Il pubblico preferisce la famiglia tradizionale di “Raccontami”, perchè c’è malgrado tutto una gran voglia di famiglia, si guarda con nostalgia al passato, il presente mette paura, si cerca di ritrovare le radici. Ma la famiglia è esposta alle dinamiche della modernità... E molte fiction, soprattutto americane, di grande successo, rappresentano questa difficoltà, lo scontro-incontro con un tessuto sociale che minaccia il nucleo familiare compatto».
Ma la nostalgia riguarda la famiglia come centro organizzato, sede istituzionalizzata di protezioni reciproche?
«Riguarda la famiglia, perchè si crede nella famiglia come luogo dei sentimenti. Non conta la cornice. Contano i legami sentimentali che la famiglia può esprimere. Contano il cuore, gli affetti, la solidarietà...».
Quindi vale la famiglia benedetta in chiesa esattamente quanto la famiglia dei conviventi e lo coppia gay. Metterebbe in scena la convivenza di una coppia omosessuale?
«La prima volta di una coppia omosessuale in una fiction risale al 1974. Una fiction australiana. Insomma non sarebbe una apparizione rivoluzionaria. A chi guarda la tv piace una storia dove i sentimenti appaiono forti. Anche i sentimenti dei cattivi: all’interno di una logica, ovviamente, non per il puro gusto di far del male».

Repubblica 26.3.07
"Ci finisce chi rifiuta Dio"
Il Papa "L'Inferno esiste ed è eterno"
di AUGUSTO PARAVICINI BAGLIANI


DAL TARTARO ALLA GEENNA GLI ANTENATI DELLA DANNAZIONE
Il luogo cristiano della pena affonda le sue radici nelle antiche civiltà

IL papa ha ragione. Nella cultura contemporanea, anche cristiana, l´inferno sembra essersi fatto da parte. Eppure la sua esistenza accompagna il Cristianesimo fin dalla sua nascita, con un´evoluzione che non è però affatto lineare. La concezione cristiana dell´Inferno affonda le sue radici nelle antiche civiltà (Egitto, Mesopotamia, Grecia ecc.). Per i Greci il tenebroso Hades, confuso con il sinistro Tartaro, aveva il compito di accogliere tutti gli iniqui. I concetti ebraici di Geenna e Sheol crearono un luogo sotterraneo di tormento, dimora del Diavolo e dei suoi demoni.
L´inferno è già presente nel Nuovo Testamento. Il Vangelo di Matteo (25, 41) menziona «il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli», ed anche l´Apocalisse (19,20) parla dello «stagno di fuoco, ardente di zolfo».
Ma la credenza all´inferno pose questioni importanti. Le pene erano corporali ed eterne? Su questi aspetti, i Padri della Chiesa non la pensavano allo stesso modo. Per sant´Ambrogio e san Girolamo (IV secolo), le pene erano di natura spirituale e i cristiani erano salvati dalla virtù del loro battesimo. Agostino dedicò però un intero libro della "Città di Dio" per rifiutare l´idea di un ritorno finale di tutte le creature a Dio e diede così un impulso decisivo alla dottrina della eternità e della corporeità delle pene.
Dal XII secolo in poi, la minaccia della dannazione eterna è sempre più presente nella predicazione e nella pastorale, a tal punto che si è parlato di un "cristianesimo della paura" (J. Delumeau). E´ il periodo in cui nasce anche una vera e propria iconografia dell´inferno. Al nord delle Alpi, l´inferno viene rappresentato come Leviatano, il mostro che divora i dannati. In Italia si impone la rappresentazione dell´inferno come zona di fuoco dove i dannati bruciano intorno a Satana seduto in trono. Dal Trecento in poi (Camposanto di Pisa) i supplizi aumentano sempre di più e si accentua la corrispondenza fra la natura della pena e il genere di peccato: i golosi vengono raffigurati davanti ad una tavola imbandita senza avere la possibilità di mangiare, gli avari vengono ingozzati d´oro, i lussuriosi uniti in un abbraccio eterno. Come nell´Inferno di Dante…
Il XII secolo introduce un´altra grande novità, il purgatorio come luogo geografico. L´idea di un purgatorio è presente nel cristianesimo antico, ma veniva definito con un aggettivo, il "fuoco purgatorio". Intorno al 1100, l´aggettivo si trasforma in sostantivo. Si tratta di una "rivoluzione spirituale" (J. Le Goff). Il purgatorio come luogo spezza il vecchio mondo bipolare dell´alto Medio Evo, e l´aldilà si arricchisce di un luogo che corrisponde ad uno strumento di salvezza. Preghiere e suffragi possono accorciare le pene, per i peccati veniali e per i peccati confessati per i quali la penitenza non è avvenuta.
Le storie dell´inferno e del purgatorio sono inscindibili, anche per quanto riguarda il declino che questi due luoghi della geografia cristiana dell´aldilà hanno subìto da un secolo, in coincidenza con l´affievolimento dell´idea di peccato e della credenza al demonio. Il declino riflette la progressiva scristianizzazione della cultura contemporanea. Ma vi contribuirono anche gli avvenimenti bellici del Novecento: i milioni di morti della prima guerra mondiale hanno preso il posto delle anime del Purgatorio, e gli orrori del nazismo hanno portato l´inferno sulla terra. «L´enfer c´est les autres», dirà Sartre verso la fine del 1943, perchè ogni uomo può essere il giustiziere di un altro uomo e condannarlo, per così dire, a morte…

IL PAPA E LA SOCIETÀ
Il papa in una parrocchia romana evoca la figura del demonio. Gli scenari delineati nel nuovo Catechismo
"Non se ne parla ma l'Inferno c´è"
Ratzinger: pene eterne per chi pecca e non si pente
di ORAZIO LA ROCCA

CITTÀ DEL VATICANO - «L´Inferno esiste ed è eterno, anche se non ne parla quasi più nessuno». Papa Ratzinger torna a rilanciare il luogo della dannazione eterna evocato da secoli dalla tradizione cristiana, declassato, però, negli ultimi tempi ad argomento di serie b nell´immaginario collettivo del popolo dei credenti. Il posto scelto per ribadire l´attuale «pericolosità» di Satana non è la scenografica basilica di San Pietro, ma una anonima parrocchia della periferia romana - la chiesa di Santa Felicita e Figli Martiri della borgata di Fidene - visitata ieri mattina da Benedetto XVI nella sua veste di vescovo di Roma. Nell´omelia, come un vecchio parroco, il pontefice tiene una ferma lezione di teologia partendo dal significato del «perdono cristiano così come ci è stato insegnato nel Vangelo attraverso la parabola dell´adultera», la donna salvata dalla lapidazione dalla famosa frase «chi è senza peccato scagli la prima pietra» rivolta da Gesù ai suoi accusatori. Uno dei più noti episodi evangelici dal quale il Papa parte per mettere in guardia i cattolici dalle «insidie» del demonio «se non si pentiranno dei peccati e non chiederanno il perdono divino».
«La fede cristiana - è il ragionamento di Ratzinger - è un annuncio, una offerta all´uomo, mai una imposizione». Ogni persona - «se vuole», sottolinea il Pontefice - può «accettarla spontaneamente» con «tutta la sua carica salvifica che ci viene da Dio, il nostro Padre misericordioso che è sempre pronto ad aiutarci, ad accoglierci, anche quando sbagliamo». «Perdono e salvezza divina» intesi, quindi, come «doni» che ogni uomo nel corso della sua vita ha la possibilità di accettare, a patto che - avverte Ratzinger - «ammetta le sue colpe e prometta di non peccare più». E quanti continuano a peccare senza mostrare nessuna forma di pentimento? Per questi - rammenta Benedetto XVI - la prospettiva è la dannazione eterna, l´Inferno, perché «l´attaccamento al peccato può condurci al fallimento della nostra esistenza». Tragico destino che spetta a chi «vive nel peccato senza invocare Dio» perché - è la spiegazione del Papa - «solo il perdono divino ci dà la forza di resistere al male e non peccare più». Ecco perché Benedetto XVI ricorda, a conclusione dell´omelia nella parrocchia periferica romana, che «Gesù è venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l´Inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore».
Si tratta - in sostanza - degli stessi scenari previsti nel Compendio del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica alla voce Inferno firmato da Ratzinger poco tempo dopo la sua elezione pontificia. L´Inferno - vi si legge tra l´altro - «consiste nella dannazione eterna di quanti muoiono per libera scelta in peccato mortale» e «la pena principale dell´Inferno sta nella separazione eterna da Dio». Su questo insegnamento si è sempre mosso il teologo Joseph Ratzinger, sia da vescovo che da cardinale. In perfetta sintonia con papa Wojtyla, che durante il suo lungo pontificato in più occasioni ha invitato i cattolici «a pregare Dio perché nessuno sia o vada all´Inferno», spiegando che al luogo della dannazione eterna sono destinati coloro i quali «usano male la libertà offerta loro da Dio». Ma uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Urs Hans von Balthasar, ha teorizzato che «l´Inferno c´è, ma potrebbe anche essere vuoto» perché «la misericordia di Dio è infinita come il suo perdono».

Repubblica 26.3.07
La guerra al terrore ha snaturato gli Usa
di ZBIGNIEW BRZEZINSKI


L'ex consigliere di Jimmy Carter analizza i danni prodotti dalla reazione all'11 settembre
"Bush ha colpito i diritti civili e ridotto il nostro ruolo internazionale"
Così la "Guerra al terrore" ha snaturato l'America


La «Guerra al terrorismo» ha dato vita in America a una cultura della paura. L´elevazione di queste tre parolette a mantra nazionale da parte dell´Amministrazione Bush, dopo i terribili eventi dell´11 settembre, ha avuto un effetto deleterio sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli Stati Uniti nel mondo. L´utilizzo di questa formula ha di fatto pregiudicato la nostra capacità di affrontare in modo efficace le vere sfide che ci impongono i fanatici che potrebbero utilizzare il terrorismo contro di noi. Il danno inferto da queste tre parole - la classica ferita che ci si infligge da soli - è infinitamente più grande di qualsiasi sfrenata aspirazione avessero in mente i fanatici che hanno perpetrato gli attentati dell´11 settembre allorché complottavano contro di noi nelle remote caverne dell´Afghanistan.
In sé e per sé la formula è priva di significato: non definisce con precisione né un ambito geografico né il nostro presunto nemico. Il terrorismo non è un nemico, bensì una tecnica di guerra: è l´intimidazione politica attuata con l´uccisione di esseri umani disarmati.
Può anche essere che l´indeterminatezza della frase sia stata intenzionalmente (o istintivamente) calcolata dai suoi sostenitori. Il costante riferimento a una «guerra al terrorismo» ha di fatto conseguito un obiettivo primario, quello di favorire l´affermarsi di una cultura della paura. La paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare l´opinione pubblica nell´interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire. Senza quel legame psicologico instaurato tra lo shock dell´11 settembre e la presunta esistenza di armi irachene di distruzione di massa, la guerra in Iraq non avrebbe mai conseguito il supporto del Congresso di fatto ottenuto. Anche il sostegno al presidente Bush nelle elezioni del 2004 è stato almeno in parte incamerato grazie al principio secondo cui «una nazione in guerra» non cambia il proprio comandante in capo nel bel mezzo dell´azione. Una sensazione di intenso pericolo, per altri versi del tutto imprecisato, è stata quindi inculcata in una direzione politicamente opportuna dall´appello mobilizzante dell´essere «in guerra».
La cultura della paura è come il genio fatto uscire dalla lampada: acquisisce vita propria e può diventare demoralizzante.
Che l´America sia diventata insicura e molto più paranoica è difficilmente contestabile. Da un recente studio è emerso che nel 2003 il Congresso aveva individuato 160 località che potevano diventare obiettivi potenzialmente importanti a livello nazionale per i presunti terroristi. Grazie al peso di varie lobby, alla fine di quell´anno l´elenco dei luoghi-bersaglio era già salito a 1.849. Alla fine del 2004 ha raggiunto i 28.360 e alla fine del 2005 i 77.769. Oggi l´archivio nazionale dei possibili obiettivi di un attentato terroristico comprende 300.000 località circa. Tra di esse figurano la Sears Tower di Chicago e una Sagra della mela e del maiale dell´Illinois.
Proprio la settimana scorsa, qui a Washington, mentre mi recavo in visita a uno studio giornalistico, ho dovuto passare attraverso uno di quegli assurdi "controlli di sicurezza" proliferati in quasi tutti gli edifici privati di uffici della capitale e della città di New York. Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, di mostrare un documento di identità e nel caso specifico di spiegare gli scopi della mia visita. Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto di voler «far saltare in aria l´edificio»? E la guardia, sarebbe effettivamente in grado di fermare un aspirante attentatore suicida disposto ad autodenunciarsi? A rendere le cose ancora più paradossali, c´è il fatto che i grandi magazzini, con tutte le loro folle di acquirenti, sono esentati da procedure simili. Né del resto queste sono previste per gli auditorium o i cinema. Ciò nonostante, queste "procedure di sicurezza" sono diventate routine, comportano uno spreco di centinaia di milioni di dollari e danno un ulteriore contributo a far affermare questa mentalità di assedio permanente.
L´atmosfera generata dalla "guerra al terrorismo" ha incoraggiato la vessazione legale e politica degli arabo-americani. La discriminazione sociale, per esempio quella nei confronti dei musulmani che viaggiano in aereo, è anch´essa una conseguenza collaterale involontaria: non deve stupire il fatto che il risentimento nei confronti degli Stati Uniti sia cresciuto perfino tra musulmani per altro non particolarmente interessati al Medio Oriente, mentre la reputazione dell´America di leader nel promuovere rapporti costruttivi interrazziali e interreligiosi ne ha gravemente sofferto.
Questo risultato è ancora più preoccupante nell´area più generale dei diritti civili. La cultura della paura ha alimentato l´intolleranza, il sospetto nei confronti degli stranieri, l´adozione di procedure legali che sono deleterie per i principi fondamentali della giustizia. Il principio secondo il quale si è innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è stemperato, se già non si è dissolto del tutto, e alcune persone - anche cittadini statunitensi - sono incarcerate per lunghi periodi senza un giusto processo. Non vi è alcuna prova sicura di cui si abbia testimonianza che un simile eccesso ha effettivamente scongiurato qualche significativo attentato terroristico, né che gli arresti di presunti terroristi di qualsivoglia tipo siano serviti a qualcosa. Un giorno gli americani si vergogneranno di tutto ciò.
Nel frattempo, però, la «guerra al terrorismo» ha gravemente pregiudicato gli Stati Uniti a livello internazionale. Il risentimento non si limita ai musulmani: un recente sondaggio condotto dalla Bbc presso 28.000 persone di 27 paesi, per capire in che modo si valuti il ruolo dei vari Stati nelle questioni internazionali, ha evidenziato che Israele, Iran e Stati Uniti (in questo ordine) sono considerati i paesi che hanno «la peggiore influenza negativa al mondo».
Quanto accaduto l´11 settembre avrebbe potuto portare a una solidarietà davvero globale contro l´estremismo e il terrorismo. Un´alleanza globale dei moderati, inclusi quelli musulmani, impegnata in una campagna dichiarata volta a estirpare i network specificatamente terroristici e a porre fine ai conflitti politici che alimentano il terrorismo sarebbe stata molto più fruttuosa di una «guerra al terrorismo» contro il «fascismo islamico» proclamata demagogicamente e pressoché unilateralmente dagli Stati Uniti. Soltanto un´America fiduciosamente determinata e raziocinante potrà promuovere un´autentica sicurezza internazionale che non lascia più spazio al terrorismo.
Dov´è il leader degli Stati Uniti disposto a dire: «Basta con queste isterie, poniamo fine a questa paranoia»? Anche posti di fronte a futuri attentati terroristici, la probabilità dei quali non può essere negata, cerchiamo di dimostrare un po´ di buonsenso. Cerchiamo di rimanere fedeli alle nostre tradizioni.
Copyright The Washington Post/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 26.3.07
Davanti alla morte come bambini
La paura, le scuse, i ricordi felici: le lettere dall'Iraq dei soldati Usa
di VITTORIO ZUCCONI

Dicono i medici nei reparti di terapia intensiva che i pazienti arrivati alla fine spesso mormorano il nome della mamma quando capiscono di morire. E possono essere anche ragazzoni americani armati fino agli occhi, guerrieri fasciati in carapace di plastica e di acciaio, ma in quella che la preghiera dei cattolici alla Madre - appunto - chiama «l´ora della nostra morte», dietro gli occhiali da sole e i visori notturni a infrarossi spunta lo sguardo di un bambino che ha paura e che perciò pensa alla mamma.
Non c´è bisogno di essere pacifisti o guerrafondai, falchi o colombe, basta essere umani per risentire e rileggere nelle lettere di soldati mandati a morire per conquistare un altro scatolone di sabbia e di petrolio, l´eco di tutte le lettere dall´oltretomba dei soldati morti nelle guerre per «mettere fine a tutte le guerre», come ripete l´eterna menzogna dei condottieri. E avvertire la spossante tristezza della frase, quella scritta dal caporalmaggiore dei Marines, Anthony Butterfield, che prima di morire non si ricorda di Bush, dell´Occidente, della Guerra al Terrore, delle dottrine e degli scenari, ma «del bicchiere di latte al cioccolato con il coperchio forato e la cannuccia» che, e chi altro?, la madre gli versava per consolarlo quando si faceva male.
Proprio come i bambini che tutti loro sono, anche quando si travestono da Rambo e da eroi di video game, domandano scusa, si colpevolizzano, «I am so sorry, Mom», per il dolore che hanno provocato a casa facendosi ammazzare. Non capiscono, «non avrei mai creduto di dover scrivere una lettera come questa». Stanno sospesi in quell´attimo di sbigottimento che vediamo sul volto dei bambini quando cadono e trattengono il fiato, incerti ancora se scoppiare a piangere.
«Qualcosa è andato storto, molto storto», scrive uno di loro per tutti, uomini e donne arruolati per sfuggire alla noia, per trovare un lavoro, per patriottismo, per ansia di sistemare i conti con gli assassini dell´11 settembre, perché questo gli avevano detto il loro Presidente e il sottufficiale in alta uniforme blu nell´ufficio del Lucignolo reclutatore tra la pizzeria e la sala giochi nel centro commerciale, con la promessa di una gloriosa avventura oltremare, da raccontare a figli e nipoti, come i padri e i nonni avevano raccontato l´epopea della «Grande Generazione» dei Soldati Ryan, in Normandia, a Okinawa, ad Anzio, senza sapere che i loro nipoti li dimenticheranno, come li sta ignorando, dietro l´iprocrisia delle decalcomanie da paraurti, una nazione, perché sono volontari, non coscritti, e dunque, sotto sotto, «se la sono cercata loro».
Arrivati all´ora della loro morte, al momento di scrivere sotto una tenda nel mezzo di un nulla polveroso che neppure sapevano che esistesse o dove fosse, non rinnegano, non tradiscono, non sognano di disertare, non maledicono i falchi ottusi che ne hanno fatto prede per le loro saccenti dottrine concepite in uffici con l´aria condizionata. Accettano, come tutti i soldati, sempre, e vanno ad ammazzare e farsi ammazzare, con in bocca il rimpianto del latte al cioccolato che non berranno più.

GLI USA E L'IRAQ
ULTIME LETTERE DAL FRONTE

Le corrispondenze di guerra di chi ha perso la vita nel deserto iracheno
Quattro anni dopo l´invasione, gli americani morti sono più di 3.300

«Sono stanco, bambina, esausto davvero», scrive accucciato su chissà quale branda il maggiore dell´esercito Usa, il sudore - racconta - che gli sgocciola dalla fronte e gli rimbalza sul mento, sotto i 45 gradi del deserto iracheno piatto come un tavolo da biliardo. Alla figlia Eddie, che lui non rivedrà com´è destino di almeno 3.230 americani morti in Iraq, il maggiore cerca di spiegare in poche righe vergate con bella calligrafia su un taccuino d´ordinanza cos´è questa «strana guerra al terrore»: «Non immaginare grandi manovre con centinaia di carri che straboccano oltre le frontiere. È una lotta fatta di dieci uomini nel buio della notte, di imboscate e cecchini e bombe artigianali»: bombe che lo colpiscono il 5 gennaio, a Fallujah.
Questa è una delle cento lettere pubblicate dalla rivista Newsweek in un numero speciale dedicato alla "strana guerra" d´Iraq, nel quarto anno dall´invasione anglo-americana. Sono messaggi e-mail estemporanei, più spesso testi preparati con cura, destinati ad essere letti dopo la morte dell´autore. Ultime parole indirizzate ai propri cari da uomini arruolatisi tutti volontari, «e questo per la prima volta nella storia moderna americana - ricorda l´editoriale del magazine - mentre la grande maggioranza dei cittadini se ne sta al riparo dalla linea di fuoco».
(a. v. b.)

Repubblica 26.3.07
GLI ENIGMI DEL PENSIERO
In un nuovo saggio George Steiner analizza le ragioni della tristezza
di FRANCO MARCOALDI


Al centro è ancora la malinconia una condizione che può rendere anche creativi e vitali
Filosofia, poesia, neurofisiologia concorrono a edificare questo suo inclassificabile libro
La pesantezza dell'animo è fatta di dubbio e frustrazione
L'incompiutezza marca a fuoco ogni esistenza umana


Quanti hanno scelto lo schermo televisivo come ideale specchio del mondo, potrebbero anche credere che esistano soltanto uomini e donne garruli, contenti, spensierati. Basta seguire una qualunque trasmissione di intrattenimento per verificare come nove volte su dieci presentatori, attrici e personaggi pubblici a vario titolo, (compresa la moltitudine di anonimi colti nel loro effimero momento di gloria), esibiscono un immancabile sorriso, vagamente beota, stampato sulle labbra. La legge televisiva appare chiara: bisogna offrire un´immagine di sé improntata alla felicità. Senza ombre di sorta.
Basta però passare dal mondo virtuale a quello reale, prendere un tram o fare la spesa al supermercato, per incontrare altrettante facce con espressioni tutt´affatto diverse. E verificare così come la malinconia e la tristezza siano al contrario moneta corrente; cosa, del resto, che ciascuno di noi verifica puntualmente nella propria intimità.
Il filosofo tedesco Friedrich Schelling si spinse oltre, sostenendo che è proprio questo doppio malessere a marcare a fuoco ogni esistenza umana, contrassegnata dall´incompiutezza: «Donde il velo di tristezza, che si stende su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di ogni vita». Questo brano di Schelling compare nel saggio Ricerche filosofiche sull´essenza della libertà umana e precede un´altra frase che suona: «Solo nella personalità è la vita: e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza».
Poste entrambe le affermazioni ad esergo di uno smilzo libretto, il famoso critico George Steiner le utilizza come volano di una sua ulteriore ed ennesima avventura mentale, volta a spiegare le Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (traduzione di Stefano Velotti, Garzanti, pagg. 87, euro 11).
Ora, basta scorrere i titoli dei libri pubblicati dal critico inglese con l´editore Garzanti (dal vecchio Tolstoj o Dostoevskij al romanzo breve Il correttore, dall´autobiografia Errata al più recente Una certa idea di Europa), per verificare una volta di più quanto la scorribanda intellettuale sia consustanziale alla sua scrittura e al suo ordine di discorso.
Ma qui la natura di impareggiabile guastatore dei rigidi confini disciplinari pare raggiungere il suo acme: filosofia, poesia, neurofisiologia e cosmologia concorrono ciascuna, a diverso titolo e con diverso peso, a edificare un inclassificabile saggio, il cui esiguo numero di pagine (87) è inversamente proporzionale alla densità del contenuto.
Il procedimento adottato è lineare. Steiner ha deciso di analizzare dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero. E così farà, enumerandole una per una, in altrettanti capitoletti. Talvolta le argomentazioni si sovrappongono e si ripetono, ma i punti salienti sbalzano nitidamente dalla pagina.
Pensare il pensiero è la prima, insormontabile difficoltà. Perché trattenere il pensiero è più difficile che trattenere il respiro e dunque siamo perennemente immersi in una attività che risulta pressoché impossibile osservare dal di fuori. Eppure questa tendenziale infinità del pensiero non garantisce affatto risposte sicure o quantomeno soddisfacenti: «Ascoltate con attenzione il corso del pensiero: sentirete, nel suo centro inviolato, dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di "Schwermut", di pesantezza dell´animo».
Il pensiero inoltre, in quanto inarrestabile, è perciò stesso incontrollabile. Si danno, è vero, rari casi in cui il giocatore di scacchi, il matematico o il maestro di meditazione, riescono a chiamarsi fuori dal mondo per un certo lasso di tempo. Ma nella norma tutti sappiamo quanto il corso del pensiero sia «intorbidato, perturbato, incessantemente deviato» da una serie illimitata di fattori esterni e interni di più vario genere. A ciò va sommato l´immenso, vano dispendio di un´attività che solo in piccolissima parte si cristallizza in ragionamenti compiuti, raggiungendo la meta. Tutto il resto, che, baluginato davanti agli occhi o apparso in sogno sembrava tanto interessante, si volatilizza nell´aria. Ricordate Pascal? «Pensiero sfuggito, io lo volevo scrivere; scrivo, invece, che mi è sfuggito».
Ecco dunque due nuove ragioni di tristezza: «il pensiero ordinario è un´impresa pasticciata, dilettantesca» e inoltre è talmente «dispendiosa e rovinosa» da impedirci di misurare la gravità del deficit. Per contro, è pur vero che «pensare a noi stessi è l´ingrediente principale dell´identità personale». Ma proprio da qui discende una conseguenza la cui enormità, secondo Steiner, «è stranamente data per scontata». Nessuna vicinanza spirituale, amorosa, intellettuale, permette infatti di penetrare nell´intimità dell´altro, di scalfire la sua monade. E tutto ciò si accompagna, paradossalmente, al fatto che «il nucleo inaccessibile della nostra singolarità», altro non è che «un luogo comune moltiplicato per miliardi», visto che la germinazione di pensieri nuovi, davvero originali, è la merce più rara (Einstein, a dispetto della sua genialità, «sosteneva di aver avuto soltanto due idee genuine in tutta la sua vita»).
Insomma, mentre il pensare «è sepolto nella privatezza più intima del nostro essere, è anche il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Senza contare la perenne discrasia tra ciò che abbiamo concepito e la mediocre realtà del risultato raggiunto; ciò che induce Steiner ad avanzare la drastica proposta di uno «sperare contro ogni speranza».
E con questo, se non sbaglio, siamo giunti più o meno alla metà del decalogo: le rimanenti fonti di «tristitia» e «melancholia» le scoprirete da voi, leggendo il libro. Prima di chiudere, però, vorrei accennare a un altro paio di questioni. Il critico inglese insiste molto su un linguaggio preconfezionato che finisce per "democratizzare l´intimità" e per impedire la massima espansione di tutte le potenzialità immaginative del pensiero. Aggiungendo inoltre che, saturo com´è di ambiguità, il linguaggio per sua stessa natura si «ribella all´ideale monocromo della verità». D´altronde, nel corso del tempo si sono susseguite talmente tante e diverse verità, «soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione», che forse il massimo a cui può ambire il pensiero sono le «finzioni supreme» a cui alludeva il grande poeta americano Wallace Stevence. Di più: forse che l´impotenza del pensiero di fronte alla verità, non si manifesta anche di fronte alla morte, o all´esistenza di Dio?
Qui il pessimismo di Steiner si fa radicale: «Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell´enigma della natura - o dello scopo, se ce n´è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte o alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati».
Poiché però il critico inglese non dimentica le tracce da cui ha preso le mosse, ovvero lo Shelling che ricordava come la tristezza, la pesantezza dell´anima è anche creativa e proprio affondando nella melanconia si accende la forza vitale in grado di superarla, finisce per affidare l´azzardo supremo del pensiero, più che alla filosofia e alla teologia, alla musica: «questo tormentoso medium dell´intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo. Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso».
Non si tratta di uno zuccherino finale volto a rincuorare il lettore. Lo stesso Schelling, infatti, proseguiva la prima delle sue osservazioni con altre due righe che nell´esergo del libro di Steiner non compaiono: «la gioia deve accogliere il dolore, il dolore deve essere trasfigurato nella gioia». Fors´anche del pensiero, aggiungo; se se ne contiene la versione "dispotica" e lo si immagina come una corrente impersonale che usa le nostre menti come fossero altrettanti veicoli. Ciò che consentì a Goethe di scrivere: «Io so che nulla m´appartiene/ Se non il pensiero che imperturbato/ Dalla mia anima fluisce».

Corriere della Sera 26.3.07
Intervista con Franco Giordano
«Le regole sono già scritte e non possono cambiare»
di Monica Guerzoni


Spinte neocentriste mai sopite e per certi versi legittime sarebbero drammatiche
Siamo leali ma se Mastella o altri fanno giochini sapremo rispondere


ROMA — Segretario Franco Giordano, che accade se il governo va sotto sull'Afghanistan?
«Credo che questo decreto una maggioranza ce l'abbia, i senatori a vita hanno diritto di votare a tutti gli effetti. E i nostri 26 voti non sono in discussione».
Nemmeno i 20 voti dell'Udc lo sono. Ma in cambio Casini vi chiede di cambiare le regole d'ingaggio.
«Siamo contrari a un odg che stravolga le regole di ingaggio. Ma poiché è nel decreto che sono scritte le regole per le missioni, mi sento sereno. L'articolo 11 della Costituzione impedisce un comportamento offensivo delle nostre truppe. E poi l'odg dell'Udc dovrebbe essere acquisito e tradotto in un intervento legislativo del governo...».
Adesso le vanno bene anche i voti centristi? Non teme più che nuove maggioranze possano fare fuori il Prc?
«Non ci sono le condizioni per maggioranze variabili. In questo caso i voti sono aggiuntivi e comunque sono cose che riguardano la politica interna, in politica estera per me vale il merito».
La Cdl chiede di rafforzare gli armamenti. Che ne pensa un pacifista come lei?
«Sono contrario allo spostamento delle truppe, ma i militari devono poter lavorare in assoluta sicurezza. Ho trovato grande saggezza e responsabilità nelle parole dei giorni scorsi del generale Satta, secondo il quale i nostri soldati sono in condizione di tutelarsi e hanno il meglio degli armamenti ».
Al partito dei «rafforzatori» non basta. Mastella voterà il documento dell'Udc e così potrebbero fare i filoatlantici della Margherita, da Dini a Fisichella.
«Spero che non accada e faccio valere con forza la lealtà del Prc, che dopo la costruzione di un accordo sul decreto voterà a favore. Sono altri che giocano a un mutamento delle proprie posizioni, definite col voto positivo della Camera. Cercare giochini sul tema della pace e della guerra, ai soli fini di politica interna, è frutto di una cultura gretta e provinciale e di un alto tasso di cinismo».
Russo Spena ha detto che Mastella gioca col fuoco.
«Vero. Spinte neocentriste, mai sopite e per certi versi legittime, sarebbero drammatiche. E se ci comportassimo noi così? Se il Prc cominciasse a determinare dei distinguo?».
Potrebbe accadere. Se arrivano più armi Giannini non vota.
«Sono sicuro che sul decreto tutti i nostri compagni voteranno in maniera conforme e invito le altre forze politiche a tenere lo stesso comportamento».
Perfino Fassino è disposto a inviare più mezzi.
«Qui è un punto delicato. Una cosa è la sicurezza, un'altra la modifica del nostro ruolo, che non può essere offensivo. Piuttosto dovremmo avere un ruolo efficace nella conferenza di pace, unico strumento alternativo alla regola bellica».
Manifesto e Liberazione hanno parlato di «resa» agli Usa, avete cambiato giudizio sulla politica estera di D'Alema?
«Il mio giornale non l'ha detto. Per la vita umana non si guarda in faccia a nessuno e la vicenda Mastrogiacomo testimonia un atteggiamento che io ho condiviso».
Le nuove regole di ingaggio non saranno una contropartita per la liberazione?
«Non siamo a questo, il decreto non prevede nulla del genere. Una cosa è che i militari si devono poter difendere, altra cosa è cambiare le regole di ingaggio».
Il rutelliano Antonio Polito dice che lei vuole fiori nelle canne dei fucili e la invita a ripassare il mandato Onu.
«Non capisco questa asprezza politica. Mettere fiori nei cannoni è aspirazione nobile e mi inquieta che qualcuno nella nostra coalizione non lo ritenga tale. Mi auguro che dietro le manovre d'Aula sull'Afghanistan non ci siano giochi di forza interni al Partito democratico. Significherebbe che per interessi privati alcune forze politiche rischiano di minare il governo o di alimentare una instabilità permanente».

domenica 25 marzo 2007

l’Unità 25.3.07
Schiaffo del Papa all’Europa: «Va fuori dalla storia»
A Berlino i capi di Stato e di governo tentano il rilancio. Prodi: ero per le radici cristiane, ma guardiamo avanti
Il Papa contro l’Europa: senza Cristo è apostasia
Benedetto XVI ai vescovi: «Le correnti laicistiche negano la parola ai cristiani»
Poi all’Ue: «Rischia il congedo dalla storia, salvaguardi il diritto all’obiezione di coscienza»
di Roberto Monteforte


Città del Vaticano. Mentre a Berlino, i 25 capi di Stato cercano un faticoso accordo per rilanciare l’Europa nel summit per i 50 anni dei Trattati, dal Papa arriva un attacco senza precedenti alla Ue. «Senza radici cristiane - afferma Ratzinger - l’Europa è apostasia e rischia di congedarsi dalla storia». Il Vaticano rilancia anche l’obiezione di coscienza su scala europea. Un affondo durissimo, il cui eco arriva a Berlino. «Ero per le radici cristiane - sostiene Prodi - ma ora guardiamo avanti, serve una nuova laicità». Oggi il summit si conclude con una dichiarazione solenne.

UN’EUROPA senza un’anima, che dimentica Dio e i valori del cristianesimo, non ha futuro. «Rischia il congedo dalla storia». Parole durissime quelle pronunciate ieri da Benedetto XVI ai vescovi europei del Comece ricevuti in udienza in Vaticano. Un discorso teso e preoccupato sul destino del vecchio continente. Proprio nei giorni in cui si celebrano i 50 anni dei Trattati di Roma è chiarissimo il messaggio che il Papa ha voluto rivolgere ai leader europei riuniti oggi a Berlino. Dimenticando i «valori» e il Cristianesimo, l'Europa rischia una «apostasia da se stessa, prima ancora che da Dio». Se rinnega le sue radici cristiane, insiste, può andare incontro a un degrado senza ritorno. Presenta un quadro fosco. La nuova Europa è in affanno, in crisi di identità e distante dai cittadini, incapace di far fronte alle sfide poste dalla domanda di solidarietà, di trovare «un sano equilibrio tra dimensione economica e sociale». Si fa sferzante Ratzinger. Richiama il dato oggettivo della crisi demografica dell’Occidente che oltre a mettere in crisi la crescita economica, «pone enormi difficoltà alla coesione sociale, favorisce un pericoloso individualismo disattento verso il futuro». Disegna un Continente stanco, che perde fiducia nel suo avvenire. L’emergenza energia, quella ambientale,la domanda di solidarietà - osserva - rischiano di non avere risposte adeguate. Risulterebbero così ben fragili le fondamenta della «nuova casa comune europea» e debole la sua identità storica, culturale e morale. Questo sarebbe l’effetto di un appannamento di quei valori universali e assoluti che «il Cristianesimo ha contribuito a forgiare» e che «devono restare come fondativi dell’Europa» e che la rendono «fermento di civiltà». Valori che oggi paiono essere messi in discussione. È così che l’Europa negherebbe se stessa, la sua stessa identità: «È la sua apostasia e non solo verso Dio», scandisce il pontefice. Una scelta che avrebbe conseguenze concrete, inaccettabili per Ratzinger. «La ponderazione dei beni» finisce per essere considerata come «l’unica via del discernimento morale»; il «compromesso» è usato come sinonimo di «bene comune». Lo è quando è un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, ma è «il male comune» se comporta accordi lesivi della «natura dell’uomo». E lancia il suo affondo: «Una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno». Non vi sarebbe nulla di «equilibrato» o realista» nel compromesso colpevole di «negare ogni dimensione valoriale ed ideale» figlio di un pragmatismo dilagate che è da contrastare, tanto più che sarebbe proprio il terreno di cultura di quelle «correnti laicistiche e relativistiche» che vorrebbero negare diritto di intervento pubblico ai cristiani. Il Papa chiede all’Ue di riconoscere «l’esistenza certa di una natura umana stabile fonte di diritti comuni a tutti gli individui» e quindi il diritto all’obiezione di coscienza «ogni qualvolta fossero violati i diritti umani fondamentali». Il Papa fissa così l’agenda politica dei cristiani impegnati nelle istituzioni comunitarie, chiarendo che il dibattito europeo ha un effetto anche sulle scelte delle singole nazioni.
Subito dopo l’udienza con i vescovi del Comece il Papa incontra il «popolo» di Comunione e Liberazione che in settantamila ha «occupato» piazza san Pietro. L’occasione è il 25mo del riconoscimento papale della Fraternità di Comunione e Liberazione, fondata da don Giussani. Per i « Ciellini» molti riconoscimenti da Ratzinger.

l’Unità 25.3.07
Mussi: «Fermare il Pd? Serve un miracolo»
Il sociologo Gallino: con il nuovo soggetto
la sinistra finirà in Italia, bisogna reagire
di Giampiero Rossi


FUTURO «A volte avvengono anche cose rare, spero che ci sia un miracolo». Il ministro Fabio Mussi evoca sarcasticamente poteri sovrumani quando parla della possibilità di ottenere «una pausa di riflessione» e fermare la corsa del suo partito verso la fusione con la Margherita, quando il 29 marzo si incontrerà con gli altri vertici dei Ds. Mussi, che si candida alla segreteria del partito e al momento ha dalla sua circa meno del 20% dei tesserati, ieri ha incontrato una platea di dirigenti e quadri della Cgil alla Camera del lavoro di Milano e ha ribadito le ragioni della sua battaglia contro il progetto del Partito democratico: «Il primo problema è la sua incerta collocazione internazionale - spiega - non esistono partiti che non abbiano una chiara collocazione internazionale. Un partito che non sa dove stare nel mondo è un partito che presto non saprà dove stare in Italia. Il secondo è la tavola fondamentale dei valori - aggiunge - c'è questo manifesto dei dodici saggi di cui non sottoscriverei quasi nulla e in particolare si nota un'assoluta incertezza su temi fondamentali che riguardano le libertà delle persone e i diritti civili. E il terzo è la mancanza nel testo di punti di programma fondamentali come la rappresentanza politica del lavoro e la valorizzazione della politica economica».
Il ministro diessino critica anche la «campagna rassicurante» dei vertici dei Ds: «Fassino continua a dire “mai fuori dal Partito socialista europeo”, ma intanto non lo scrive nella mozione che fa votare. E Rutelli non si muove di un passo: non vedo perché spendere tante energie per trasformare Rutelli in un socialista e noi in democristiani». Ma comunque ribadisce: «Nessuna scissione, che è quello che avviene quando c'è un partito e uno ne esce. Io non esco da nessuna parte: si fa un nuovo partito e c'è chi aderirà e chi non aderirà. Questo è diverso che uscire».
Di fronte a una platea di sindacalisti emerge prepotentemente il tema del lavoro: «Una politica nuova che pensi di aggirare la questione del lavoro, come ormai residuale, sbaglia al cento per cento - dice Fabio Mussi - il problema che si presentò in pieno Ottocento di una politica, non solo democratica e progressista, ma che rappresenti il lavoro, cioè la questione socialista, è nient'affatto tramontata ma invece attualissima». Tuttavia, secondo il segretario confederale della Cgil, Paolo Nerozzi, l'esito del dibattito sul Partito Democratico non avrà ripercussioni sul sindacato. «Questo Paese ha bisogno dell'autonomia e dell'indipendenza dei rappresentanti dei lavoratori dai partiti - premette il sindacalista - in questo dibattito sul Partito Democratico il sindacato tutto, non solo la Cgil, non si pone. Ci sono le singole persone che hanno le loro posizioni, ma il problema della Cgil è quello di stare unito con Cisl e Uil per avere un rapporto con l'insieme del quadro politico. Insomma, mai come questa volta, la scelta è delle persone e tantissimi sindacalisti faranno la loro scelta». Nerozzi osserva però che «nel documento dei dodici che fa da piattaforma alla nascita del nuovo partito c'è una rottura storica laddove si afferma l'equidistanza tra il lavoro e il capitale, quasi che i lavoratori siano uguali ai datori di lavoro. Se non si fermeranno - conclude - noi dobbiamo aprire un percorso per la ricostruzione della sinistra, dalle frange più moderate a quelle più radicali». E anche secondo il sociologo del lavoro Luciano Gallino, inoltre, «se si fa il Pd la sinistra sarà politicamente finita in Italia. Occorre reagire e, nel momento stesso dell'annuncio, è necessario reagire con un progetto di tutte le forze della sinistra radicale».

l’Unità 25.3.07

Asor Rosa a capo degli anti-cemento
A Firenze nasce il coordinamento dei comitati: «Non devastiamo la Toscana»
di Vladimiro Frulletti


«LA TOSCANA è di per sé un bene dell’umanità. E quindi è più traumatico che si compiano interventi speculativi qui che non in regioni che già sono state devastate». È così che il professore Asor Rosa, 79 anni, spiega perché dal caso Monticchiello (da lui stesso fatto emergere) in avanti, l’urbanistica in Toscana è diventata notizia di interesse nazionale. Tanto che da quel momento hanno cominciato a avere voce pubblica le proteste di decine di comitati di cittadini. Oggi, per farsi sentire con più forza, quei comitati si riuniscono a Firenze (dalle 10 in via dell’Agnolo, 5) per dare vita a un coordinamento regionale. A guidarlo sarà proprio il professore. All’incontro ha aderito («ma manderà un suo collaboratore» dice Asor Rosa) anche Oliviero Toscani. L’obiettivo è farsi ascoltare degli amministratori toscani. Il presidente della Toscana Claudio Martini le porte le tiene aperte «se non c’è ricerca di conflitto, ma di dialogo». «Il confronto non solo è utile, ma necessario - dice Asor Rosa - . Perché in democrazia le istituzioni elette sono le autentiche interpreti della volontà popolare, gli altri sono portatori di stimoli e suggerimenti». E il primo confronto ci sarà proprio domani a un convegno sul governo del territorio organizzato da Regione e Istituto di scienze umane a Palazzo Strozzi a Firenze. Oltre a politici (da Martini al sindaco di Firenze Leonardo Domenici), urbanisti (Vezio De Lucia, Giuseppe Campos Venuti) e ambientalisti (il presidente di Legambiente Roberto Della Seta), ci sarà anche Asor Rosa.
Ma cosa contestano il professore e i comitati alla Toscana? L’eccessivo potere «non solo di proposta, ma anche di controllo e di decisione finale» che la legislazione urbanistica regionale assegna ai Comuni. E dato che i comuni spesso sono troppo deboli per resistere alle lobby immobiliari, e le Soprintendenze sono svuotate di strumenti (mezzi e personale) e poteri, poi nascono quelli che il professore ha definito «ecomostri autorizzati». «A Monticchiello - spiega Asor Rosa - ci fu un giudizio negativo della Regione di cui il comune ha potuto tranquillamente infischiarsene». La soluzione? Riportare il potere decisionale o a livello regionale o nazionale. Rimedio che però in Regione non accettano. Martini difende i Comuni che con i loro soldi hanno salvato borghi e centri storici e aperto parchi. E ricorda che i casi che fanno notizia sono frutto di decisioni prese proprio all’epoca in cui c’era il controllo delle Soprintendenze e di una speciale commissione della Regione che aveva il compito di dire sì o no ai comuni. E un argine ai casi Monticchiello, secondo la Regione, arriverà dal nuovo Pit. Cioè il piano con cui la Regione governerà il territorio nei prossimi anni. Documento in cui sono state recepite quasi tutte le proposte di associazioni come Legambiente, AmbienteLavoro, Fondazione Toscana sostenibile, Italia Nostra e Wwf.

l’Unità 25.3.07
Il vibrante astrattismo di Kandinsky
di Renato Barilli


UN MAESTRO di rigore che influenzò parte notevole della pittura italiana. Una mostra a Milano, curata da Luciano Caramel, mette in evidenza la lezione del maestro russo e le differenti declinazioni nostrane

Il russo Wassili Kandinsky (1866-1944) è stato uno dei grandi protagonisti delle avanguardie storiche del Novecento, autore di una progressione tra le più emozionanti e decisive, paragonabile solo alla sequenza con cui Picasso è giunto al Cubismo, o Boccioni al Futurismo, o Mondrian al Neoplasticismo. Ma con una profonda differenza, dato che le altre «serie» appena ricordate marciavano in conformità al meccanomorfismo, cioè prendevano come punto di riferimento la macchina, con la sua forte e massiccia consistenza (solo il nostro Boccioni riusciva a prestare attenzione anche alle fluide energie di radiazione), laddove il grande russo, dopo aver schematizzato figure e paesaggi alla maniera del Fauvisme, si decideva a sollevare il velo di Maia tradizionalmente disteso sull’abisso del creato, inaugurando un emozionante viaggio nelle profondità della vita biologica; e così stabiliva un modello avanzatissimo, che solo la seconda metà del secolo, con l’Informale e l’Espressionismo astratto, avrebbe apprezzato in giusta misura. Fu allora una meta talmente precorritrice, che sul finire del secondo decennio il suo stesso inventore dovette imprimere una sterzata ad una marcia così avventurosa. In quel momento le macchine dominavano ancora l’orizzonte, e dunque egli stesso procedé a «rettificare», per così dire, le sue formazioni cellulari, le amebe guizzanti. Intanto, lo avevano deluso i pur grandi eventi della rivoluzione sovietica, così da accogliere l’invito del tedesco Walter Gropius e da recarsi, nel 1922, presso la prima incarnazione del Bauhaus, quando aveva stanza a Weimar. Nasce così il Kandinsky grande padre dell’«astrattismo», come impropriamente si suole dire, dato che in realtà i grandi sperimentatori meccanomorfi proponevano delle forme «concrete», autofondate. In quel clima l’artista russo stendeva il suo secondo trattato magistrale, quel Punto linea e superficie, che però segna un arretramento, rispetto al precedente Dello spirituale nell’arte in cui egli aveva scoperto l’Inconscio, mentre nel secondo caso riedita una «grammatica», ancora di sapore euclideo, nonostante che la relatività di Einstein avesse ormai scoperto che l’universo è curvo, e dunque la linea retta non vi trova cittadinanza. Ma le rette kandinskyane intervenivano pur sempre a «raddrizzare» un nodo elastico di embrioni vitali.
Fatto sta che «questo» Kandinsky in versione geometrico-astratta apparve, negli anni Trenta, come un maestro di rigore, così almeno egli venne accolto in Italia, in una mostra famosa alla galleria milanese del Milione del ’34. È dunque pienamente giustificato che, a più di settant’anni di distanza, il capoluogo lombardo, a Palazzo Reale, ricordi quell’avvenimento, dandone la regia a chi in Italia è da tempo il miglior studioso di quelle vicende, Luciano Caramel (fino al 24 giugno, cat. Mazzotta). Ma a dire il vero gli astrattisti di casa nostra, che giustamente volevano reagire al clima pesante e revivalista di Novecento, pretendevano di «raddrizzare» un po’ troppo le forme, molti di loro, più che alle stuoie arabescate di Kandinsky, guardavano agli adepti del «Cercle et Carré», capeggiati da un fiorentino ormai trasferitosi sulla Senna, Magnelli. O quanto meno, l’ampia messe di astrattisti nostrani, accumulata con perfetta cognizione di causa da questa rassegna, si può spartire in due schiere, quella di coloro che mantengono un pizzico di irregolarità, di segreto fremito vitalistico pur sempre rimasto a covare sotto le ceneri, nel messaggio del grande Russo, o non rinunciano del tutto ad agitare i dadi del caso; e l’altra di coloro che si irrigidiscono in eccesso, affidandosi al tiralinee, a campiture troppo secche e nette. Tra i primi, si potranno mettere tutti i secondo-futuristi, che non possono scordare l’esplosione energetica impressa da Boccioni: e avremo allora Enrico Prampolini, Nicolaj Diulgheroff, o il più folletto fra tutti, che già allora era Bruno Munari. Al centro, domina la scena il terzetto prodigioso costituito da Licini-Melotti-Fontana, il primo pronto a infilzare sulle stecche dell’ordito geometrico dei lembi di stoffa agitata al vento, il secondo intento ai suoi arcani arpeggi spaziali, il terzo già teso a captare, su fragili schermi, il ronzio delle onde nell’etere. Si «ferma» invece il quadro se veniamo ai patentati «astrattisti» lombardi, alcuni dei quali risultano ancora memori degli incastri ingegnosi della lezione kandinskyana, si veda l’arguto, dentellato Soldati, con le sue magiche tarsie, laddove i «comaschi», Reggiani, Rho, Radice, e la pur intrepida Badiali, si bloccano all’eccesso in griglie statiche.
Uno dei meriti di Caramel come testimone di questo filone è di non essersi arrestato alle soglie del mezzo secolo, ma di aver inseguito la sua preda anche nel passaggio al secondo Novecento, quando questa compagine si definisce, correttamente, Movimento Arte Concreta, MAC. Già lo si è detto, l’etichetta del concretismo, più che dell’astrazione, è l’opportuna bandiera di combattimento per operazioni del genere. Ma i tempi urgono, è già esplosa la bomba atomica, quelle tarsie non ce la fanno più, a contenere i fremiti delle nuove energie che battono alle porte, e non per nulla gli aspetti più accattivanti sono quelli inalberati dagli allora giovani o giovanissimi Turcato, Sanfilippo, Accardi, Tancredi, Novelli, cioè da coloro che vanno scardinando la «gabbia», aprendola ad «altre» avventure.

l’Unità 25.3.07
Politici e trans, poco da ridere
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


«Pensate a Sircana, quando gli hanno detto quella cosa delle fotografie... si è sentito male, poveraccio. E ci credo: era roba da andare in trans... Come si fa? Sircana lo conosco bene, siamo usciti spesso di sera a cercar donne, prostitute, viados. Ma lo giuro a quegli ipocriti: non siamo mai andati dai trans, non gli piacciono nemmeno». Ah, ah, oh oh... Divertente, no? E mica finisce qui. Sentite quest’altra: «E poi, si parla di un politico famoso... Sircana? Non era mica lui il politico famoso, ma il trans... che era Maroni! Se era lì con un trans, era per conto di qualcun altro. Cosa fa di mestiere, Sircana? Il portavoce di Prodi. Era lì per combinare tutto per Prodi». Ah ah, oh oh... Mi scompiscio, avrebbe detto Totò.
E riprendiamo un po’ di contegno. Le battute d’apertura non sono tratte da uno spettacolo del Bagaglino. Anzi, ci scusiamo (ma davvero) della tentazione di tirare in ballo la ditta Oreste Lionello & co. per commentare la qualità e il tono di tale e tanta ironia; e sorvoliamo sul fatto che si trattasse dell’ultima, applauditissima performance di Roberto Benigni a Milano. Colpisce il fatto, piuttosto, che “Maroni-trans” possa indurre qualcuno (molti?) alla risata; laddove, mai come in questo caso, l’allegria suscitata ha qualcosa di esorcistico e isterico (e attendiamo che, con maggiore modestia e senza impalcature culturali dantesche, qualche altro comico chieda il nostro applauso con un più modesto «Lo sapevate che Arturo Parisi è ricchione? E che Fabio Mussi è una donna? ...»).
Sin da piccini, sin da quando studiavamo semiotica al Dams di Palombara Sabina, sotto l’alto magistero del professor Amerigo La Paletta, sappiamo che l’essenza del Comico, e la sua fondazione ontologica, risiede innanzitutto nell’Uomo che Scivola sulla Buccia di Banana: e tuttavia, su, un piccolo sforzo non guasterebbe.
Detto questo, colpisce, ancora, che Silvio Sircana rappresenti, oggi, l’oggetto di un gossip da Capocotta quanto, per altri versi e con diverse sfumature, lo fu Lapo Elkann qualche tempo addietro. C’è un elemento assai significativo nella morbosità (sia chiaro: condivisa da tutti) che circonda queste e altre vicende; morbosità che non consiste nello scoprire che anche uomini pubblici possano (o possano essere tentati di) fare ricorso alle prestazioni di una prostituta o di un prostituto (e sai che scoperta!); non sta nemmeno nella pruderie (ancora: condivisa da tutti) che sempre, o quasi, circonda le questioni di letto (o di marciapiede); e non sta neppure negli elementi accessori di questi casi, Vallettopoli&Corona o abuso di stupefacenti che sia. Il vero, taciuto e rimosso, fattore di arrapamento mediatico e di turbamento dell’inconscio collettivo è - ovviamente - «la questione transessuale».
Va da sé: degli orientamenti e delle preferenze sessuali di questo o quello nulla ci importa. Siamo con il Giorgio Gaber che, nei primi anni 70, cantava «Vedi cara, per me l’amore... Non ho problemi. È una cosa normale, sì. Uno lo può fare con chi vuole, certo. Donne, uomini, animali, caloriferi». Tuttavia, dobbiamo constatare che - in una società largamente consumistico-liberale, in cui parlare delle proprie opzioni sessuali sta diventando una tentazione per molti - la “questione transessuale” sembra avvolta da un clima di imbarazzata omertà; e appare come uno dei pochi condimenti possibili per ridare gusto a una pietanza oramai per molti versi sciapa, qual è il pettegolezzo a sfondo erotico. Dei trans si parla, per lo più, come appetibile elemento di contorno a qualche scandalo ormai appannato e di qualche vicenda scollacciata (termine sublime, caduto in disuso), ma non troppo. Eppure, a giudicare da un mercato della prostituzione che appare florido, quella preferenza sessuale sembra stabilmente acquisita per una fascia consistente della popolazione maschile adulta del nostro Paese. Dunque, perché tanto silenzio e poi, inopinatamente, tanto clamore? Forse perché analizzare quel fenomeno (e con quali strumenti, poi?) appare difficile e delicato?
La possibilità che un maschio (eterosessuale o no) possa prediligere un transessuale come oggetto del suo desiderio e come partner, sembra intaccare ancora una qualche idea di “normalità” - dunque, comportare rapporti problematici con l’idea della “perversione” - di quanto non possa la semplice scelta omosessuale. E, intorno a questo vulnus, si va costruendo un clima sociale che interessa sì ogni possibile utente di quel mercato: ma che riguarda, ancor più e molto più crudamente, i transessuali stessi.
Che sono (non tutti, evidentemente) sulle nostre strade di notte e nei nostri negozi, nei nostri uffici postali, sui nostri mezzi pubblici, di giorno. E che pure sembrano oggetto di una strana forma di rimozione collettiva. Insomma, è possibile che i transessuali rappresentino qualcosa di ineffabile: ovvero di indicibile e inquietante, fattore d’insidia per le nostre identità (e alle nostre nevrosi) di genere.
Per l’intanto, restano due ingombranti detriti di queste allucinate settimane:
a) il fatto che un uomo pubblico si trovi a dover riflettere seriamente sulle sue dimissioni a causa di un gesto: quello sporgersi sul sedile del passeggero e parlare attraverso il finestrino;
b) il fatto che si possa arrivare a una sorta di pan-penalizzazione della vita sociale, tale che diventi oggetto di stigmatizzazione e riprovazione collettiva una pulsione.
Tutto ciò preoccupa e non fa ridere (nemmeno noi, che al Dams di Palombara Sabina abbiamo discusso la tesi “Il ruolo di Max Cipollino nell’evoluzione dell’ares comica di Massimo Boldi”). Non fa ridere neppure pensare a Bobo Maroni come a un trans.

Repubblica 25.3.07
L'intervista. Giordano, segretario di Rifondazione: propongo al correntone un nuovo soggetto politico per il 2008
"Se inseguono il Partito democratico i Ds rischiano di lasciare la sinistra"
di Lavinia Rivara


Risarcimento. Quando si parla di tesoretto fiscale penso subito al risarcimento sociale che va dato ai lavoratori
A sinistra dell'Ulivo Verdi e Pdci? Non vogliamo costruire un partito a freddo, una sommatoria di ceti politici

ROMA - Una «sfida unitaria» a tutto campo alla sinistra italiana, che ha in sé l´invito ad un confronto serrato con il correntone diessino per la costruzione di un nuovo soggetto politico entro il 2008, ma non solo. Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, lancia anche un appello ai vertici della Quercia che stanno marciando verso il partito democratico: non potete condannarvi ad «un approdo liberaldemocratico. E allora Rifondazione chiede alla maggioranza Ds di «riflettere» e «aprire un cantiere della sinistra per il socialismo del terzo millennio».
Segretario, nelle ultime settimane, parallelamente all'accelerazione che Fassino e Rutelli stanno imprimendo al partito democratico, lei ha lanciato la proposta di un nuovo processo costituente a sinistra. Quali sono le tappe e gli obiettivi?
«Noi da tempo abbiamo avviato un percorso di costruzione della sinistra europea. A giugno terremo l´assemblea fondativa di un nuovo soggetto unitario in cui, pur continuando a vivere l´autonomia organizzativa e politica di Rifondazione comunista, ci apriremo al confronto con tutta la sinistra. E la fine del 2008 potrà vedere la nascita di un nuovo soggetto politico della sinistra che non sia una sommatoria di ceti politici».
Quali sono gli interlocutori di questa proposta?
«Da quella assemblea noi intendiamo mantenere aperta una proposta che riguarda tutta la sinistra, indipendentemente da dove è collocata, per discutere sulle sorti della società italiana, della globalizzazione».
Dunque non solo alla sinistra Ds, ma anche la maggioranza della Quercia?
«Io penso che con il partito democratico non si può rimuovere il tema della critica dell´esistente. Assistiamo al moltiplicarsi delle diseguaglianze, a un´aggressione capitalistica all´ambiente. Basti pensare che nel 2020 si prevede che 3 miliardi di persone non avranno accesso ad un bene comune così decisivo come l´acqua. Per non parlare della necessità di mettere al centro dell´agenda politica la questione sociale del lavoro. Mai come in questo momento è attuale l´esigenza di un superamento delle forme di capitalismo, mai come oggi risuona vera la frase di una grande pensatrice come Rosa Luxemburg: "O socialismo o barbarie". E allora io dico che sarebbe paradossale se in questa fase la sinistra, una parte di essa, scegliesse invece l´approdo ad una cultura liberaldemocratica».
Lei sta dicendo a Fassino e D'Alema «fermatevi»?
«Io dico loro un´altra cosa: noi vi proponiamo un cantiere della sinistra dovunque essa sia collocata, vi chiediamo una riflessione e vi proponiamo una sfida unitaria sul terreno della critica a questa società. Sia chiaro: è una sfida politico-culturale, non organizzativa. Riflettiamo su una nuova idea di socialismo, un socialismo del terzo millennio. Che comprende anche il tema della laicità dello Stato».
Rifondazione punta a far nascere una nuova forza, questa sì anche di carattere organizzativo. E la sinistra Ds appare interessata al progetto. Che messaggio manda a Mussi e Salvi, anche rispetto ad una futura collocazione europea?
«Già da tempo abbiamo avviato un dialogo con pezzi della sinistra e del mondo sindacale, con movimenti, con l´associazionismo diffuso. E naturalmente ci interessa il rapporto con la sinistra Ds. Anzi riteniamo utile aprire subito con questa componente un confronto per approdare ad una nuova soggettività politica, attraverso un percorso paritario e senza annessioni o egemonie. Ad una condizione: che non si tratti di una adunata di ceti dirigenti, ma di un percorso di massa. Quanto all´Europa noi siamo nel gruppo della sinistra alternativa e intendiamo mantenere questa posizione oggi e in prospettiva. Ma non possiamo fermarci di fronte a questo, la discussione è aperta».
A sinistra dell'Ulivo però ci sono anche i Verdi e i Comunisti italiani di Diliberto e in movimento è anche l'area socialista, compresa la costituente di Caldarola. Anche con queste forze c'è un'interlocuzione?
«Io credo sia sbagliato immaginare un fronte dei "resistenti" al Pd, non vogliamo costruire un soggetto politico a freddo. Quanto ai socialisti rispetto la loro posizione ed è giusto avere una interlocuzione, ma la costruzione di una soggettività politica è un´altra cosa e non può essere comune».
Torniamo ai contenuti. Oggi l'Unione discute innanzitutto sull'utilizzo del cosiddetto «tesoretto»...
«Va aperta immediatamente una stagione di risarcimento sociale per le lavoratrici e i lavoratori che si aspettano da noi un miglioramento delle condizioni di vita. Dunque occorre aumentare le pensioni più basse, pensare alla previdenza dei giovani e incrementare le retribuzioni, visto che le nostre sono tra le più basse d´Europa, e c´è anche il tema del diritto alla casa, cioè della riduzione dell´Ici e le agevolazioni per gli affitti. Chi pensa a finanziare ancora il sistema delle imprese se lo scordi: ha già avuto aiuti enormi con il cuneo fiscale. Sulle pensioni poi abbiamo espresso una posizione chiarissima, in sintonia col movimento sindacale e la maggioranza della popolazione: no ad un aumento obbligatorio dell´età pensionabile. E Prodi ha sempre parlato di un aumento volontario e attraverso incentivi».
Intanto il governo si accinge ad affrontare un nuovo pericoloso scoglio al Senato col voto sulla missione italiana in Afghanistan. Teme che si possa rischiare una nuova crisi?
«No, credo che il governo ce la farà nonostante il cinismo del centrodestra».

il manifesto 25.3.07
Partiti i congressi di scioglimento della Linkspartei e dei dissidenti socialdemocratici della Wasg. Nascerà Die Linke
Pronta la casa comune per la sinistra tedesca
di G. A.


Berlino. L'avvicinamento tra i due maggiori spezzoni della sinistra tedesca dura da tempo. Alle ultime elezioni politiche del settembre 2005 si candidarono sulle liste della Linkspartei (già Pds, partito del socialismo democratico) anche dissidenti della sinistra socialdemocratica e sindacalisti, uniti nella Wasg (alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale). Tanto bastò per un discreto 8,7 per cento in media federale. La Linkspartei, nata dallo sfacelo del partito socialista della Repubblica democratica tedesca, non era mai riuscita a mettere radici all'ovest. Da soli i dissidenti socialdemocratici non sarebbero riusciti a superare la soglia di sbarramento.
Da allora i deputati della Wasg siedono nel gruppo parlamentare della Linkspartei. Ne sono copresidenti il berlinese Gregor Gysi e il saarlandese Oskar Lafontaine, già presidente della Spd, che si era dimesso da tutti gli incarichi di partito e di governo all'epoca del primo governo Schröder, in polemica con la linea neoliberista del cancelliere. Il tandem est ovest funziona egregiamente, smettendo lo scetticismo di quanti temevano che due prime donne come Lafontaine e Gysi mai si sarebbero tollerate.
Linkspartei e Wasg hanno ora deciso di unirsi. La data del congresso di fondazione della nuova casa comune, che si chiamerà semplicemente Die Linke, la sinistra, è stata fissata per il 16 gennaio. Più semplice sarebbe stata l'adesione della piccola Wasg con i suoi 12.000 iscritti nella più grossa Linkspartei, che di tesserati ne ha 60.000. Ma la Wasg tiene a un matrimonio su basi paritarie. E nella Linkspartei si vuole cogliere l'occasione di un nuovo inizio per aumentare la distanza dalle scomode origini realsocialiste.
Il procedimento scelto è complicato. La prima tappa è cominciata ieri con congressi parallelli di scioglimento dei due partiti. In due padiglioni adiacenti della fiera di Dortmund, in Nordreno-Vestfalia, si sono riuniti 398 delegati della Linkspartei e altrettanti della Wasg. Gli uni e gli altri di qui a domenica dovranno approvare il nuovo programma comune, il nuovo statuto e il trattato di fusione con maggioranze qualificate del 75 per cento.
Risolta questa incombenza toccherà agli iscritti confermare la fusione con due referendum. Solo dopo quest'ultimo scoglio il congresso di fondazione del nuovo partito, a giugno, eleggerà i suoi organi dirigenti. Si pensa per i primi tre anni a una doppia guida, nelle persone di Lothar Bisky (già presidente della Pds-Linkspartei) e di Oskar Lafontaine, anche se molte delegate già protestano contro l'accoppiata maschile. La fusione è fortemente voluta dai gruppi dirigenti e dalla maggior parte delle rispettive basi. Non c'è dubbio che riuscirà, anche se con altrettanta certezza diversi gruppi dissidenti si allontaneranno. Tra loro innanzitutto la maggioranza della Wasg di Berlino, che non tollera la moderazione dei socialisti della capitale, dove sono al governo insieme alla Spd.
Aspri i diverbi sul futuro programma. A Dortmund si dovranno discutere ben 560 proposte d'emendamento. Come si atteggerà la Linke rispetto agli interventi militari con mandato delle Nazioni unite? A quali condizioni accetterà di partecipare a amministrazioni locali di coalizione? Accetterà il cumulo di cariche di partito e di mandati parlamentari? Nemmeno il riferimento al «socialismo democratico» come comune orizzonte convince tutti.
Quali che siano le soluzioni di dettaglio, la Linkspartei si presenta già adesso come un partito di sinistra socialdemocratioca, che si batte per salari minimi e redditi sociali garantiti, contro il peggioramento delle pensioni e del sistema sanitario, contro le privatizzazioni, per una redistribuzione degli oneri fiscali. «Potremmo governare anche domani insieme con i socialdemocratici, se solo la Spd tornasse al suo programma del 1998», dice Lafontaine. In quell'anno Schröder vinse per la prima volta le elezioni, e il presidente del partito era proprio Lafontaine.

il manifesto 25.3.07
Pronta la riforma del codice penale Opg sostituiti da «misure di cura»
La Commissione Pisapia ha terminato i suoi lavori. Per i «non imputabili» si stabilisce una «scala» di misure di controllo. Previste «strutture psichiatriche» per i casi più gravi, ma senza la polizia penitenziaria
di Cinzia Gubbini

La riforma del codice penale è pronta. La commissione istituita a luglio presso il ministero della giustizia, e presieduta dall'avvocato Giuliano Pisapia, ha concluso i suoi lavori a tempo di record. Tra due settimane le proposte per rivedere il codice saranno sul tavolo del Guardasigilli Clemente Mastella. Ne uscirà un disegno di legge delega che dovrà essere approvato dal consiglio dei ministri. Poi inizieranno i lavori parlamentari. Un passo avanti, se si considera che i precedenti tentativi di riformare il codice sono rimasti in un cassetto. Proprio quindici giorni fa il presidente Pisapia ha illustrato le linee guida alla commissione giustizia del senato «riscontrando - spiega Pisapia - una generale approvazione sulle linee di fondo. Mi sembra che stiamo iniziando con il passo giusto».
La riforma cambierà la faccia del codice penale italiano sotto diversi aspetti, uno di questi è l'idea di abolire l'ergastolo, tra i nodi più delicati. Ma una delle novità contenute dalla riforma della commissione Pisapia è l'eliminazione delle misure di sicurezza (o detentive) per le persone non imputabili. Ovvero, l'abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. «E' un punto che ha ricevuto l'unanimità della Commissione - spiega Pisapia - Le misure detentive per tutte quelle persone che commettono un reato ma non sono imputabili per i motivi più diversi quali la malattia psichica o uno stato cronico di tossicodipendenza o alcolismo si sono dimostrate inefficaci e anacronistiche».
Questi i principali elementi della riforma: sarà rivista anche la concezione della «incapacità di intendere e volere». La valutazione medico legale, infatti, dovrà considerare non soltanto le malattie psichiche ma, ad esempio, anche i gravi disturbi della personalità.
Al posto degli attuali opg, saranno applicate «misure di cura e di sostegno». La proposta stabilisce una specie di «scala» di interventi. Rimane la previsione di strutture sanitarie specifiche, «ma solo nei casi in cui è assolutamente necessario un controllo quotidiano». E in ogni modo il controllo non sarà affidato alla polizia penitenziaria ma esclusivamente a personale medico.
Quando la salute del reo lo consente saranno previste - a scalare - misure simili alla «libertà controllata». Ad esempio l'obbligo di presentarsi in strutture mediche per assumere farmaci o per incontrare gli psichiatri. In caso di violazione delle prescrizioni, interverranno le forze dell'ordine e verranno comminate misure di maggior controllo. Si prevede, inoltre, la possibilità che alcune misure siano svolte in ambito famigliare. Altra importante novità è la specificazione che l'applicazione delle misure di sostegno non potranno superare l'entità della pena. Mentre oggi, con il meccanismo della «proroga», succede che le persone vengano lasciate negli opg anche per decenni, indipendentemente dal tipo di reato commesso. In secondo luogo - ma questo avviene già oggi - ci sarà una valutazione periodica dell'efficacia della cura. Se funziona, la misura applicata sarà più leggera. Viceversa, si provvederà a un maggiore controllo.

il manifesto 25.3.07
Il Medioevo di Sant'Eframo
Nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli il tempo si è fermato. I detenuti vivono in condizioni igieniche inesistenti e spesso abbandonati a loro stessi
di Dario Stefano Dell'Aquila

OPG. 1.200 i detenuti
Nell'Opg di Napoli vi sono circa 104 internati, 40 infermieri, di cui 18 a contratto, tre educatori, cinque psichiatri a contratto e due psicologi. La struttura risale al 1.500 circa ed in origine era un convento. Gli internati sono persone che hanno commesso un reato e sono ritenute affette da una patologia mentale e riconosciuti socialmente pericolosi. Sono condannati ad una misura di sicurezza di 2,5 o 10 anni prorogabile, un meccanismo che fa si che le persone entrate con una misura di due anni possano rimanete in Opg per decenni, indipendentemente dal reato commesso. Gli Opg in Italia sono sei, gli internati circa 1.200

Napoli Il vecchio monastero di Sant'Eframo, all'angolo della centrale e trafficata via Matteo Renato Imbriani, è un'isola nella quale non giungono i rumori della città. Ma non è un'isola felice. Perché qui, in quello che oggi è l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, non arriva nemmeno l'eco delle riforme penitenziarie e psichiatriche.
Con Sergio Piro, figura storica della psichiatria democratica e Francesco Caruso, deputato indipendente del Prc, varchiamo le porte di una struttura che ad oggi «ospita» circa 100 internati. L'odore di urina è forte e si avverte sin dalla prima rampa di scale che ci porta alla seconda sezione minorati. Un odore che si mischia alla scarsa igiene e alle cicche di sigarette sparse un po' ovunque. Lungo il corridoio, da una cella, un internato molto giovane, Giovanni M. riconosce un profilo noto, «uà i no-global!» esclama e, euforico, ci invita ad entrare. La scena che ci si presenta è agghiacciante. La cella è in condizioni igieniche indescrivibili, avanzi di pasti, sigarette, bucce di arance, sporcizia. Allo sporco fa da contrappeso l'assenza di ogni tipo di suppellettili. Qui sono ammassate sei persone. I letti, l'uno all'altro adiacenti, sono coperti da lenzuola di un grigio imprecisato, che emanano un odore molto forte.
Un internato più anziano ci invita ad entrare in bagno, mentre Sergio Piro dialoga con alcuni ragazzi. I bagni sembrano uscire da un'altra epoca. Tre cessi, affiancati, divisi da una sorta di paratia di ferro, sono pieni di ruggine e liquami. Il lavabo, di quelli che si usa per lavare i panni, è pieno di acqua limacciosa, così come l'acqua copre completamente il pavimento perché il tubo perde. Non c'è acqua calda, non c'è una doccia. Non mancano solo nella cella, mancano su tutto il piano, ci dicono. Incredibile ma è così. Non ci sono docce nelle celle né in tutto reparto. Giovanni M., che ha ventiquattro anni, è qui da un anno. Faceva uso di sostanze, è stato denunciato dalla famiglia. Estorsione, per una somma di 12 euro. Le storie si sovrappongono, tutti in attesa di un parere medico o di una perizia. Giovanni sveglia un compagno che, nonostante il nostro arrivo è rimasto immobile sul letto. Quando Andrea D. si volta, mette in mostra i suoi avambracci, devastati da piaghe. All'altezza del polso due buchi, come quelli da piaghe da decubito con una lesione della pelle che sembra molto profonda sino a raggiungere l'osso. Andrea dice che è colpa della droga, che lui prima si drogava, ma ora non più, se solo tornasse a casa il padre saprebbe come curarlo. Tutti vestono panni vecchi, molto sporchi, l'aspetto è estremamente dimesso, ma riescono a raccontare, seppur confusamente, le loro storie.
Proseguiamo lungo i corridoi, dalle celle richieste di aiuto, di assistenza legale, di alloggio, spesso semplicemente anche di una sola sigaretta. Camillo De Lucia, psichiatra dell'istituto che ci accompagna, di fronte alle nostre perplessità ci dice che sbagliamo a confrontare le loro condizioni con quanto prevede l'ordinamento penitenziario, ma che come riferimento dobbiamo prendere le condizioni dei vecchi manicomi giudiziari. Confrontato con l'orribile del passato, l'indecenza del presente dovrebbe essere meglio tollerata.
In una cella, solitario, tremante, a piedi nudi, un uomo è inginocchiato appoggiato alle sbarre della porta. Gli passano tutti di fronte con estrema indifferenza. Sergio Piro si ferma, si inginocchia gli stringe la mano («stringete le mani ci dice, è importante il contatto è importante», ripete). Gli domanda il nome. Lorenzo M. ha circa cinquanta anni, tremante biascica qualcosa e ci chiede una sigaretta. La sua cella come tutte quelle che incontriamo, salvo rare eccezioni, è desolatamente vuota e sporca. Nei corridoi l'odore di urina è spesso fortissimo, in diverse celle, piene di rifiuti, manca il televisore. Li rompono, ci dice Salvatore De Feo, il direttore, molti di quelli che ci sono li ha donati il Pio Monte della Misericordia.
Chiediamo di vedere la sala di contenzione, ma dopo un primo giro in un corridoio chiuso, ci viene detto che non c'è, qui non si usa. Ci basterebbe vedere anche quella in disuso, ma forse per difetto di comunicazione o forse perché siamo viandanti distratti non ci viene concesso questo onore. Così come, in quei corridoi, non abbiamo avuto il piacere di incrociare un medico o un infermiere.
In una cella incontriamo Fabio M., che avevamo incontrato durante la nostra visita all'Opg di Aversa. Detto «bambolella», perché gira sempre con una bambola di Barbie in mano. E' felice di vederci. Ci aveva raccontato, nell'occasione precedente, di subire molestie. Ne avevamo parlato con il direttore. Il trasferimento l'ha rinfrancato, ci chiede di ringraziare «la dottoressa Roberta» (Roberta Moscatelli del Forum Salute Mentale, ndr) che l'ha fatto trasferire. Non è merito nostro, ma Fabio è convinto del contrario. Un agente che ci accompagna, con poetica chiosa, ci dice: «Non so se è omosessuale ma sicuro è ricchione». Parte della struttura è chiusa, una piccola ala, con circa venti internati è stata da poco rifatta ed almeno qui non si sente odore di urina.
Giungiamo all'aperto, al passeggio. Un cortile di cemento, di pochi metri quadri con una grata molto alta attorno. L'effetto di una gabbia, con dentro uomini poco più che animali. I visi e le storie si sovrappongono. Dai buchi delle grate passiamo le sigarette, una fila ordinata, ogni mano una sigaretta, i più pronti passano per un secondo giro. Un internato, che abbiamo incontrato nel giro, è felice, la stretta di mano di Piro l'ha illuminato: «Ciao grande Sergio», grida mentre ci allontaniamo. C'è ancora tempo per un gesto. Mentre Francesco raccoglie le ultime storie e distribuiamo le ultime sigarette, Giovanni M. si avvicina, estrae dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e dice: «Facciamo uno scambio, tu mi dai una tua diana blu e io ti do una mia rossa». Sorride, il baratto, così lo chiama, lo rende felice, mentre pochi metri più in là un internato obeso è preso in giro dai suo compagni di pena. Ce ne andiamo così, con quella sofferenza che nessuno di noi sa spiegare e con quella sigaretta che ancora adesso aspettiamo a fumare.

il manifesto 25.3.07
Dal lontano Giappone dialoghi sulla oscura identità dell'individuo plurale
Da poco uscite in Francia, le interviste contenute in «Penseurs japonais», a cura di Yann Kassile, testimoniano una profonda frattura fra la filosofia nipponica e quella europea
di Mario Perniola


Cosa pensate se leggete in un libro che un'intervista si è svolta nel 5002? Che c'è stato un errore di stampa. Ma quando questo presunto errore è ripetuto più volte, cominciate a sospettare che si tratti di un testo di fantascienza. Nel caso del volume Penseurs japonais. Dialogues du commencement, a cura di Yann Kassile (Paris, Éditions de l'Éclat), che contiene una ventina di interviste ai più eminenti filosofi giapponesi, effettuate da Jean d'Istria, nessuna di queste due ipotesi è giusta.
Il cambio della cronologia è intenzionale e programmatico: intende infatti prendere le distanze nei confronti del calendario occidentale sostituendolo con una nuova cronologia che pone come punto di partenza non più la nascita di Cristo, ma l'invenzione della scrittura. Non tutti i filosofi giapponesi concordano con questa proposta, ma ciò che è più sorprendente è la motivazione del dissenso. Per il fenomenologo Ishida Hidetaka (come è noto in Giappone e in Cina il cognome viene prima del nome), tale innovazione favorirebbe la globalizzazione imponendo a tutti un'unica misura del tempo, mentre oggi esistono ancora culture che, come quella islamica e quella giapponese (per la quale oggi siamo nell'anno Heisei 18), seguono un'altra cronologia: il suo auspicio è che tutto il mondo abbandoni il cristianesimo, ma si continui a usare il calendario cristiano vuotandolo di ogni contenuto simbolico!
Nel passato si è molto parlato di una Japanese Connection tra la filosofia occidentale e quella giapponese. Dalla fine dell'Ottocento fino al postmoderno, ci sono molti esempi di convergenza tra questi due modi di pensare: per esempio il tradizionalismo universalistico (Okakura, Fenollosa e il nostro Elemire Zolla), la collaborazione negli anni Venti alla rivista Kaizo da parte di Husserl, Russell e Dewey, la relazione tra Heidegger e Kuki Shuzo, l'influenza della filosofia tedesca sulla Scuola di Kyoto, il contributo di Imamichi e di Sasaki all'estetica, la convergenza tra Derrida e Karatani. Siamo perciò abituati a considerare i giapponesi come gli extraeuropei più vicini alla filosofia continentale. Le interviste di d'Istria sradicano completamente questa convinzione e testimoniano l'aprirsi di una profonda frattura, di cui la questione cronologica è solo un piccolo indizio. Non riesco a immaginare un filosofo occidentale, per quanto nichilista, che sostenga come Washida Kiyokazu, che per la specie umana sarebbe meglio non essere che essere, o che rifiuti per principio il dialogo perché viziato da una pregiudiziale platonica. Per Kobayashi Yasu nemmeno Hegel si sottrae al dialogismo, limitandosi a interiorizzarlo. Uno dei massimi intellettuali giapponesi, Yoshimoto Takaaki (padre della scrittrice Banana), ritiene che la chiarezza porti al declino: finché l'essere umano vive all'oscuro, non è «fottuto».
L'impressione di lontananza si accresce quando si nota come nessuno di questi intellettuali, che pure si dichiarano politicamente orientati a sinistra, riconosca un qualche valore alle nozioni di progresso e di felicità. Uno Kuniichi sostiene che credere nel progresso è illusorio, e anche pericoloso, perché la condizione del mondo è oggi molto peggiore di quello che era cent'anni fa. Matsuba Shoichi pensa che in nessun periodo della storia come oggi si sia stata tanta infelicità: mai tanti uomini e donne sono stati vittime della fame e della violenza. Il progresso sarebbe un'idea giudeo-cristiana, derivante da una concezione lineare della storia articolata sulla genesi e sul giudizio universale; successivamente questa idea è passata al positivismo e al marxismo. Minato Chihiro afferma che l'idea del progresso è connessa con l'evoluzionismo biologico per il quale la volontà di dominio sullo spazio dell'essere umano viene surrettiziamente identificata con l'acquisizione della posizione eretta e la lontananza dal suolo. Minato concede che esiste uno sforzo verso il progresso, troppo debole però per ottenere risultati apprezzabili. Infine Kobayashi Yasu sostiene che il progresso riguarda solo la tecnologia, ma è qualcosa di molto pericoloso: è molto meglio l'infelicità che una felicità fornita dalla tecnologia. Per Yoshimoto, la gaiezza segna il declino degli individui e delle società.
Non meno provocatorie suonano per un occidentale le idee espresse sulla libertà, la vita e l'individualità. La società attuale porrebbe una grande enfasi sull'idea della libertà perché questa sta scomparendo in Giappone non meno che in Occidente. Per Shingu Kazushige, l'idea di vita è una costruzione artificiale della scienza moderna: in Oriente non si considera la vita dell'individuo, della civiltà e della natura, come qualcosa di costante. Essa è nella sua essenza passeggera. Fra i filosofi presenti nel volume quello che sembra più vicino alle problematiche discusse in Europa è Nishitani Osamu, l'unico a essere intervistato tre volte. Probabilmente non a caso è il solo che conosco di persona e la cui formazione intellettuale è simile alla mia. Proprio partendo dagli autori che ci accomunano, come Blanchot o Bataille, è forse possibile riallacciare i fili di una ricerca che coinvolga anche quanti sembrano più estranei ai temi trattati in Occidente.
È infatti intorno alle nozioni di impersonalità, di rito e di inorganico che si può ristabilire una nuova contiguità tra il pensiero occidentale e quello nipponico. Come osserva giustamente Nishitani, l'essere umano è già dall'inizio plurale. Mentre la filosofia occidentale trova una grande difficoltà a desoggettivare l'esperienza individuale, perché le nozioni di soggetto e di individuo sono storicamente connesse, la parola giapponese ningen, che viene comunemente tradotta con «essere umano, persona, uomo», implica già da sola l'esistenza di un rapporto. Il termine ningen contiene due aspetti strettamente connessi tra loro: la dimensione individuale non è separabile da quella sociale. I caratteri cinesi di ningen significano originariamente proprio l'esistenza di una relazione tra esseri umani vale a dire il «pubblico»; solo con la trasposizione in lingua giapponese di questo ideogramma, esso ha acquistato anche il significato di essere umano individuale. Per questa ragione ningen non può essere considerato come sostanza: esso implica una interconnessione di azioni compiute da persone diverse. L'individuo non è mai una tabula rasa, ma presuppone una collocazione spazio-temporale, un condizionamento sociale. All'interno dell'individuo ci sarebbe già un punto di vista impersonale ed esterno, che è relazionale: con le parole di Lacan (tradotto e studiato con molto zelo in Giappone), si direbbe «la mediazione del Simbolico». D'altronde la struttura negativa dell'essere umano impedisce l'esistenza di una società che annulla completamente l'individuo: una simile società collasserebbe.

il manifesto 24.3.07
La riscoperta della storia da parte dei dominanti è propedeutica all'esportazione della democrazia ovunque ci sia un «infedele» da combattere
Imprigionare la realtà nell'abito stretto dello storicismo
di Roberto Ciccarelli


Da qualche parte deve esserci un libro segreto in cui si legge «Per cominciare rifiuta la nozione stessa di storicismo». È sorprendente scoprire quanto sia difficile scovare tra le principali linee di ricerca attuali come il postcolonialismo, le teorie della differenza e il pensiero della differenza, gli studi culturali oppure i più significativi contributi internazionali al neo-marxismo qualcuno disposto ad ammettere apertamente di essere uno storicista. Non siamo più, per fortuna, nell'epoca del postmoderno in cui quello di «storicista» era tutt'al più un'accusa infamante, mentre c'era sempre qualcuno disposto a trattare la storia come un gadget e a consigliare di fermarsi sul bagnasciuga per osservare meglio il naufragio delle istanze della trasformazione politica che hanno caratterizzato il Novecento.
Da Robert Young, a Jacques Derrida, da Gayatry Spivak a David Harvey, da Gilles Deleuze a Judith Butler, con tutte le differenze del caso, è ormai chiaro che lo storicismo è quel «regime del discorso» che impone un abito troppo stretto alla realtà, quello dei dominanti che amano rifugiarsi dietro la falsa trasparenza della «Ragione» per meglio esportare i valori della democrazia occidentale ovunque ci sia un nemico, o un «infedele», da combattere.
Dall'11 settembre si è tornati a parlare di «storia» con una certa insistenza, soprattutto tra coloro che hanno scoperto il paradossale fascino avanguardistico di volersi «conservatori» e «cristiani» in una cultura che, dicono, è «progressista», crede nei diritti e nel «relativismo culturale», ma non ha le armi per affrontare uno «scontro di civiltà» a sfondo religioso con l'Islam. Il richiamo alla storia, e ai «valori» dell'Occidente, viene dunque usato tendenziosamente contro tutta la cultura («di sinistra») che ha imposto la contestazione permanente della monocultura dell'identità che prima ha spinto all'affermazione del colonialismo e poi si è scagliata contro i suoi risvolti teologici.
Ben venga dunque una nuova battaglia contro lo storicismo e la retorica vittimistica dei neo-con di tutto il mondo (e quelli nostrani). Innanzitutto perché, almeno nella storia degli intellettuali, essa ha sempre contrassegnato una posizione politica. Senza dimenticare che questo atteggiamento non ha mai fatto sconti ai limiti della propria posizione. E' quello che si chiama critica o, parola da usare con una certa circospezione, di un'auto-critica.
Uno degli esempi è quello della piccola, ma valorosa, rivista Quaderni materialisti che dedica l'ultimo numero a Spinoza con l'obiettivo ambizioso, ma ormai collaudato, di «ripensare» la tradizione materialistica alla luce dell'intuizione di Louis Althusser, il filosofo francese che riscoprì, proprio durante la svolta postmodernista degli anni Ottanta, una nuova linea del materialismo da lui definito «aleatorio» che va da Epicuro a Machiavelli, Spinoza, Marx.
Il rigetto da parte di Althusser dei parametri dello storicismo e dell'umanesimo teorico, avvenuto già negli anni Sessanta dello scorso secolo, può essere usato contro quelle posizioni che pretendono di vedere ancora oggi una direzione obbligata nella corsa della storia. Se dunque è chiaro l'obiettivo politico del nuovo pensiero critico, e necessaria la reinvenzione di una tradizione materialistica di cui sono noti i vicoli ciechi, è lecito ormai aspettarsi un pensiero che raccolga la sfida all'altezza del nostro tempo.

il manifesto 24.3.07
Materialisti. Quella potenza costituente di uno stato nello stato
Dominio, conflitto, diritto, democrazia. Un percorso di lettura su alcune parole chiave del pensiero politico a partire dall'ultimo numero della rivista «Quaderni materialisti»
La proposta di sciogliere il nodo paralizzante del rapporto di causa ed effetto tra «sedizione» e legge attraverso la produzione di nuove istituzioni
di Toni Negri


Questo numero spinoziano di «Quaderni materialisti» è dedicato a François Zourabichvili, giovane formidabile studioso di Spinoza, da non molto tragicamente scomparso: il suo L'enigma della «moltitudine libera» è l'articolo che conclude la raccolta di testi e saggi, riprendendo la tematizzazione iniziale e portando a termine (si fa per dire) la ricerca.
Ora, il fascicolo contiene una serie d'interventi (Sedizione e modernità di Filippo Del Lucchese; Sul principio di obbligazione di Augusto Illuminati; E' legittima la resistenza allo Stato? di Pierre- François Moreau; Memoria, caso e conflitto, Machiavelli nel TTP di Vittorio Morfino; Vincoli di Francesco Piro; L'enigma della «moltitudine libera» di François Zourabichvili) che intendono «misurare la forza d'impatto dell'ontologia spinoziana sulla concettualità tradizionale della politica. Diritto di resistenza, libertà politica, sedizione, obbligazioni o vincoli e loro legittimazione razionale sono ovvi termini-chiave del pensiero politico moderno, così come lo è Machiavelli». Si tratterà di considerarli nel corso storico che va da Machiavelli a Spinoza, sottraendo definitivamente questi concetti alla problematica del giusnaturalismo moderno fra Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau.

Il dominio del diritto
Comincia Filippo Del Lucchese. «Qui mi soffermerò sul pensiero di Machiavelli e di Spinoza - scrive all'inizio del suo saggio - poiché rappresentano nella prima età moderna una vera e propria anomalia. Essi costruiscono un pensiero teorico del conflitto - una vera e propria linea politica della seditio - che fa tremare le fondamenta su cui si reggono i dogmi della politica moderna. Questa, infatti, si rappresenta come un pensiero dell'ordine e della neutralizzazione del conflitto... (di contro) il rapporto fra diritto e conflitto, per Machiavelli come per Spinoza ha un ritmo complesso... un rapporto ricorsivo... fuori da ogni schema dialettico di composizione e di sintesi dei due termini». Procede ancora Del Lucchese: «è stato Foucault che in epoca contemporanea ha espresso più di ogni altro il carattere conflittuale della storia e il suo significato anfibio: da un lato come espressione dei conflitti, delle lotte, delle rivolte... dall'altro come strumento di lotta teorica attraverso l'ordine politico moderno... La guerra viene così, nella filosofia politica moderna, a ricoprire interamente il diritto». Diritto è il comando di chi ha vinto la guerra: ma nessuno vince mai la guerra. Di conseguenza, la storia si presenta come garbuglio e scontro, come dualismo piuttosto che processo unitario e nel rapporto fra Machiavelli e Spinoza si definisce in maniera paradigmatica l'unica divisa che può permetterci di ancorare un futuro progetto rivoluzionario al passato ed al presente di lotte: seditio sive jus (sedizione è anche diritto).

La mediazione della legge
Come si è potuto dimenticare tutto ciò? Come si è potuto consegnare il politico ad una supposta «autonomia», e sostituire Machiavelli con Carl Schmitt? Come si è potuto perdere il senso della duplicità e dell'ambiguità che caratterizza il rapporto fra potenze ontologiche e istituzioni politiche, per meglio dire, fra forze produttive e rapporti di produzione? Ecco, dunque, quel che conduce la riflessione lontano dall'«autonomia del politico» e dalle tradizioni rappresentative del moderno stato costituzionale: il tentativo di rappresentare la forza dinamica del politico democratico, la seditio, attraverso la sua limitazione contrattuale e/o costituzionale viene meno. Il loro limite, dunque, non è nella natura della cosa, ma nella sua distorsione.
Proseguendo su questo terreno Del Lucchese, come d'altra parte Bove ha già fatto a proposito di Affermazione e resistenza in Spinoza, ci mostra quanto la strategia del conatus non si basi su una priorità ontologica ma debba essere letta come un rapporto interno alla potenza della moltitudine. «Questo movimento fa emergere la razionalità immanente delle istituzioni: "punto di vista onto-genetico del diritto di natura e non della legge, della potenza e non del potere"... La legge stessa è la "mediazione necessaria della potenza della moltitudine nella sua affermazione, così come il sintomo del suo stato presente"». Vale a dire che il processo istituzionale nasce dall'interno della lotta. (Accetto qui, di buon grado, la critica che a questo proposito mi è direttamente rivolta e che consiste nell'evidenziare come nella mia trattazione del pensiero spinozista potesse equivocamente presentarsi una certa anteriorità della potenza sul potere, del potere costituente sul formalismo della legge). Ad esempio, è dallo sviluppo dell'indignazione che si propone la sedizione; ma è dallo sviluppo della sedizione che si apre l'espansione rivoluzionaria della libertà: qui è la base che permette d'opporre all'Impero di Bush la potenza di sviluppare una vera democrazia rivoluzionaria delle lotte.

Potenza della sedizione
L'istituzione di questa democrazia non riposa da nessuna parte che non sia all'interno questo stesso sviluppo. Conclude Del Lucchese: «la sedizione deve essere pensata come interna e coesistente al diritto ed allo stato e può per questo essere concepita al di fuori di ogni meccanismo dialettico... Libera multitudo come libera seditio. Questo il carattere mostruoso della sfida che Machiavelli e Spinoza hanno lanciato, tracciando confini diversi per segnare il campo semantico della politica. E si tratta di un vero e proprio campo di battaglia».
Sorge il sospetto, a questo punto, che quella serie di concetti che nel moderno, fra Machiavelli e Spinoza, viene rovesciata - dal contratto alla potenza, dalla seditio alla democrazia - venga oggi, attraverso un esempio teologico-politico, reinserita nel dibattito: il vecchio «moderno» (contrattuale, pattizio) viene, oggi, ripresentato come katechon, cioè come trattenimento, sussunzione del conflitto. Ora, mi sembra che gli interventi che, in questo numero dei Quaderni materialisti seguono quello di Del Lucchese fin qui considerato, s'articolino tutti attorno ad una parola d'ordine: basta con il katechon! Dicono, infatti: se si sta con il katechon non si sta dentro il conflitto ma ci si riposa sul lato della sconfitta e della sua interiorizzazione.

Tra obbedienza e resistenza
Ora, nel suo saggio Sul principio di obbligazione, Augusto Illuminati vi ritorna su con molta intelligenza, muovendosi tra l'Heidegger che blocca ontologicamente lo sviluppo dell'essere e quel recente rinnovamento dell'apologetica paolina che sembra auspicare il riapparire della trascendenza sul limite dell'essere. («La contingenza è vissuta come angoscia e risolta in obbedienza - non avvertiamo partecipazione del movimento che risolve l'essere-per-la-morte, divenuto consapevole nel grande ascolto heideggeriano dell'Essere? Non è forse l'ascolto il vertice dell'obbedienza?»). «Autonomia del politico»: che cosa significava questo se non autolimitazione delle lotte, (nel passato), se non (nel presente) riproposizione della tematica di «ciò che non può essere oltrepassato», di ciò che contiene il suo limite all'interno (male radicale? accumulazione originaria insuperabile?) - che cosa significa questo se non la dimissione d'ogni potenza di trasformazione? Di contro, valgono l'astuzia machiavellica e la cupiditas spinoziana.
Il katechon non può essere superato se dall'interno dell'indignazione, così come dall'interno della potenza, non scaturisce l'istituzione. Nel suo saggio E' legittima la resistenza allo Stato?, Pierre-François Moreau, mentre da un lato sottolinea quanto l'indignazione risulti fondamentale nello sviluppo di ogni istanza critica, tanto insiste sul fatto che da sola l'indignazione non crea un nuovo Stato: pone, tuttavia, la base dello sviluppo dell'istituzione. Anche Vittorio Morfino (Memoria, cosa e conflitto. Machiavelli nel Trattato teologico politico) insiste su questo tema, dal punto di vista questa volta non dell'indignazione spinozista ma del «patto» così come espresso in Machiavelli.
Anche in questo caso ciò che è fondamentale è la costruzione dell'istituzione: è, come Francesco Piro insiste nel suo saggio Vincoli, la capacità di sottrarre la politica alla teologia, la sedizione e la lotta alla mediazione ed all'ordine, capacità di svolgere la sedizione in lotta.

La tensione al comune
È così che l'unica «autonomia del politico» è quella che è prodotta dalla «moltitudine libera». François Zourabichvili squarcia l'enigma della moltitudine libera. Non c'è moltitudine nello Stato di natura. Non c'è moltitudine prima dello Stato civile. In terzo luogo, la moltitudine non è una sorta di concetto intermedio tra gli individui e la comunità istituita. «Per quale ragione allora la moltitudine non è una semplice chimera concettuale? In virtù della tensione naturale degli individui verso la comunità (cioè, del loro comune orrore per la solitudine). Se ne conosce la logica: è quella delle nozioni comuni. La consistenza del concetto di moltitudine si trova allora nella tensione di un desiderio comune. Ed è su questo desiderio comune che l'istituzione si fonda».
C'è, dunque, solo un fare-moltitudine, che è anche un fare-istituzione, poiché il fare è la stessa realtà della moltitudine. Di qui si coglie bene che non v'è moltitudine che per la libertà, dentro la libertà, che non vi è, dunque, katechon da nessuna parte e che le condizioni storiche di una moltitudine libera stanno nel fatto che la moltitudine si costruisce continuamente producendo esperienza comune ed istituzione. Non vi è «Stato nello Stato» - diceva Spinoza: ma potremmo aggiungere, «se non per la moltitudine libera». E' questa la via dell'esodo che la moltitudine, conquistando libertà e costruendo istituzioni, percorre sempre.

Corriere della sera 25.3.07
BRIVIDO Trama inventata e personaggi reali nel romanzo di Jed Rubenfeld, «L'interpretazione della morte»
«Elementare, Jung». E Freud svelò il delitto
Un thriller ambientato a New York: protagonisti i padri della psicoanalisi


«Se solo sapessero che cosa stiamo per portare loro»: la celebre frase pronunziata da Sigmund Freud al suo sbarco in America (29 agosto 1909) non poteva mancare in un romanzo che si ambienta a New York, proprio nei giorni della permanenza in città del padre della psicoanalisi. S'intitola L'interpretazione della morte (l'originale, però, è più esplicito: Interpretation of murder, del delitto insomma) di Jed Rubenfeld, un professore di diritto costituzionale di Yale alla sua prima prova narrativa, ed esce ora da Rizzoli, nella traduzione di Roberta Zuppet. Racconta, il libro, con calcolato miscuglio di storia e di invenzione, un intrigo giallo in cui Freud e i suoi amici si trovano chiamati a dare una consulenza. In particolare il giovane psicologo americano Stratham Younger, cui toccherà in cura Nora Acton, la diciottenne scampata ai rituali omicidi di un misterioso maniaco che ha appena ucciso un'altra donna. Nora ha perso la voce e la memoria, e Younger applica a lei il trattamento indicato da Freud per i casi di isteria.
Younger come Nora sono personaggi inventati, Freud e i due allievi che lo accompagnano, Sándor Ferenczi e Carl Gustav Jung, no. Così come sono veri gli altri due psicoanalisti del gruppo: Abraham Brill, primo traduttore dei testi freudiani negli Stati Uniti, e l'inglese Ernest Jones, che arriva dal Canada. È vero che l'albergo scelto era l'Hotel Manhattan; è vera la visita a Coney Island (il parco dei divertimenti ricorda al dottore viennese il Prater, ma molto più in grande); è vera la visita al Metropolitan Museum. Così come è storica l'occasione del viaggio: la consegna a Freud della laurea honoris causa da parte della Clark University di Worcester, Massachusetts, il primo riconoscimento accademico conferito all'autore dell'Interpretazione dei sogni. Dialoghi e aneddoti sono presi da lettere e memorie. A volte, Rubenfeld si permette qualche libertà cronologica: per esempio anticipando gli scontri tra Freud e Jung, all'epoca ancora latenti; o raccontando uno dei due svenimenti di Freud davanti a Jung come se fosse avvenuto a New York (e non anni dopo a Monaco). Le descrizioni di New York, delle sue strade e i suoi palazzi, sono basate su attente documentazioni. Il resto è opera di fantasia.
Chi uccide chi. Il thriller è piuttosto complicato, e non privo di colpi di scena. Sappiamo all'inizio che la giovane Miss Riverford è stata trovata strangolata con una cravatta di seta bianca in un lussuoso appartamento che si affaccia su Central Park. Poiché il proprietario dell'immobile, George Branwell, è amico del sindaco nonché costruttore del Manhattan Bridge, la raccomandazione è di tenere la cosa nascosta. Ma quando il giorno dopo un'altra ragazza, Nora Acton, viene aggredita (stessa cravatta, stessi tagli sul corpo), l'indagine prende avvio. Intanto sbucano fuori misteriosi cinesi, le ragazze di un bordello, un cadavere che scompare dall'obitorio. Addirittura ha una parte pure Harry Thaw, il miliardario da tre anni ricoverato in manicomio per aver ucciso l'architetto Stanford White. Younger, intanto, accompagna il detective Littlemore nelle ricerche, senza mai dimenticare la sua preparazione psicoanalitica: il pensiero che più lo assilla è l'interpretazione dell'Amleto di Shakespeare, perché non è convinto della lettura «edipica» che ne ha dato Freud.
Manhattan Transfert. L'interpretazione della morte non è certo il primo romanzo in cui c'è il personaggio Freud. Cominciò Nicholas Meyer, negli anni '70, con Soluzione sette per cento, un romanzo poi diventato film che combinava psicoanalisi e thriller: Sherlock Holmes, a Vienna per guarire dalla dipendenza dalla cocaina, scoprirà l'autore di un delitto lavorando insieme con il dottore di Berggasse 19. Freud compare anche, vent'anni dopo, in Le lacrime di Nietzsche di Irvin D. Yalom: è il giovane allievo di Breuer, il medico che ha in cura il filosofo di Zarathustra. In questi due casi, le occasioni sono inventate. Non è così il soggiorno a New York del 1909 scelto da Jed Rubenfeld. Che offre, con la maggiore esattezza possibile, dettagli, frasi, gesti del grande viennese. Ci sono evidentemente i sigari, i frequenti bisogni di andare ad orinare, le conversazioni centrate sui sogni dei suoi allievi, la passione per le antichità greche.
Rubenfeld cerca pure di spiegare come mai Freud conservò un'impressione negativa dell'America, tanto da non volerci più tornare. E la spiegazione che trova sta nel conflitto con Jung, il suo erede prescelto che invece contesta duramente il maestro. La rottura, storicamente, avverrà solo anni dopo; ma il romanziere si prende la libertà di collocarla proprio a New York. Al centro del conflitto, il Complesso di Edipo: Jung accusa Freud di aver dato eccessiva importanza al sesso, anzi per lui non c'è nessun desiderio incestuoso. Ma c'è dell'altro: dopo aver considerato Freud come un padre, ora Jung tenta di spodestarlo; pretende di discendere da Goethe; dichiara di aver appreso le nuove verità da colloqui nel dormiveglia con un saggio dell'antico Egitto. Per certo ha avuto rapporti sessuali con una sua paziente (si allude a Sabina Spielrein), e Freud ne è al corrente. Rubenfeld non esita ad aggiungere tocchi negativi al personaggio di Jung: ce lo mostra in un bordello, a volte lo incrociamo di notte vicino alla scena di un delitto.
Infine, nel romanzo, sarebbe d'accordo con una cricca di neurologi americani che vogliono diffamare Freud, portatore di teorie immorali e pure ebreo. Jung, possiamo anticipare, non è l'assassino. Ma non fa certo la figura della brava persona. Del resto non sarà grazie a lui se il colpevole dei delitti verrà scoperto, ma solo grazie a un'intuizione di Freud.

Uscito in Usa nel settembre 2006, L'interpretazione della morte aveva tutte le caratteristiche per diventare un super-bestseller. Invece non è finora riuscito a piazzarsi oltre il n. 18 della classifica del New York Times. Battuto dal romanzo dell'inglese Diane Setterfield, La tredicesima storia.
Il libro di Rubenfeld è però da tempo ai primi posti delle «top» inglesi. Ed ora, il thriller di Rubenfeld arriva in Italia proprio mentre esce anche La tredicesima storia della «avversaria» Setterfield (Mondadori).



Repubblica D 370 17.3.07
IL CONFLITTO DELL’AMORE MATERNO
Risponde Umberto Galimberti

Vorrei rispetto, perciò vorrei che i media, soprattutto le televisioni, la smettessero con la retorica sul gesto violento e assassino «da parte di chi meno ce lo aspetteremmo» ogni volta che una giovane madre uccide il figlio e prova a uccidere se stessa.
Mi offende che questo gesto venga ancora considerato “inconcepibile” e uno “scandalo contro natura”. Considerarlo così è un grave atto di ignoranza che non ci si aspetterebbe più da professionisti dell’informazione, ovvero da chi per lavoro dovrebbe descrivere le realtà in cui siamo immersi per farcela conoscere meglio.
Molto è stato detto e scritto su quel terribile corpo a corpo madre-figlio fatto di tanto amore, cura e dedizione ma anche di dolorosa quando non intollerabile insofferenza.
Se si vive - come capita sempre più spesso - lontano da parenti o amici, senza un lavoro, è facile scivolare, obbedendo alle piccole incombenze quotidiane e alle responsabilità verso marito e figlio, nella casalinghitudine.
Isolamento in casa, solitudine profonda, corpo a corpo con il figlio accompagnati spesso da depressione. E la depressione non è una compagna che ti aiuta.
Per ora ce l’ho fatta: mio figlio è un adolescente stupendo. Ma è stata non dura, ma durissima, e neanche mio marito si è mai reso conto quanto, e non certo perché recitassi la parte della casalinga felice. Tutto ti accade nell’intimo. Fuori si vede pochissimo se riesci a reggere i gesti quotidiani nei quali la tua anima muore a poco a poco. Mi sento sorella a queste madri assassine perché spessissimo ho avuto momenti così dolorosi da pensare anch'io gesti estremi. Quanto tempo fa è successo? Dieci anni, otto? Non so se siano tanti o pochi ma a ogni tragedia riportata dalla cronaca torna vivo il ricordo di quei momenti.
Un ricordo vivissimo, come fosse ora. Il ricordo di un dolore fatto di rabbia e impotenza: riuscire a fare tutto per il figlio e niente per se stesse e per la propria pena.
Non so quante siamo ma penso che siamo tante, proviamo profondamente pena per le sorelle che non ce la fanno, il loro gesto rinnova quel nostro grido muto, noi non ci scandalizziamo.
Lettera firmata

Tutti sappiamo che l’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora siamo a quei casi di infanticidio, il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche, perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa sentire la donna “depositaria della specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante, troppo dissimile, dal proprio sogno o dal proprio desiderio. È a questo punto che l’ambivalenza amoreodio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione.
Con questo non intendiamo giustificare il gesto infanticida, ma invitare ad accudire le madri perché, per talune di loro, forse è troppa la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo.
E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce.
La natura contamina questi estremi, e la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudita, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l'ambivalenza delle sue emozioni, che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele.
Un invito ai padri: tutelare la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome: “accudimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.