Quando in famiglia si nasconde il killer
di Oreste Pivetta
I NUMERI: 174 LE VITTIME di omicidi in ambito familiare secondo il rapporto Eures 2006. Si muore di più in famiglia che per mano della delinquenza organizzata (146 vittime, pari al 29,1 per cento del totale) e della delinquenza comune (91 vittime). E nel 2003 le vittime dei delitti in famiglia erano state 201 (pari al 30,5 per cento), nel 2002 erano state 223 (39,9 per cento).IL QUADRETTO il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei «rapporti di prossimità» (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. I casi più famosi, quelli di Erika e Omar a Novi Ligure e quello - dieci anni prima - del veronese Pietro Maso
49,1 PER CENTO: questa è la quota degli omicidi in famiglia sul totale al Nord. Anche al Centro il maggior numero di delitti è di stampo familiare (46,3 per cento). Al Sud si conferma il primato della criminalità organizzata.
56,3 PER CENTO: tante sono sul totale le donne vittime di delitti di famiglia. Il contesto relazionale nel quale maturano più delitti è quello della coppia (cento, pari al 53 per cento).
«La vita dei coniugi... si snoda lungo un percorso che visto dall’esterno, rimanda ai messaggi contenuti in quegli spot pubblicitari che rappresentano famiglie serene perchè benestanti, perchè armoniche e non conflittuali al loro interno, perchè non preoccupate dall’incertezza per il futuro...». Così nella relazione dei periti del pubblico ministero.
Peccato che uno dei due coniugi sia morto, la donna, accoltellata insieme con il figlioletto, per mano non di un uomo alto e grosso e dai capelli bianchi e da un altro, esile e scuro come un albanese, ma della figlia. La storia di Erika e Omar da Novi Ligure. La storia di una famiglia. Come ce ne sono tante nel bene e nel male. Famiglie di buona educazione, cattolicissime, benestanti, pratiche comuni tra la scuola dei figli, la palestra, la spese, la cucina, un lavoro del capofamiglia che garantisce tutto. E famiglie meno benestanti ma educate dalla stessa televisione, pronte a condividere lo stesso benessere o almeno l’aspirazione allo stesso benessere. Famiglie così, in alcune delle quali il marito uccide la moglie, la moglie uccide il marito, il marito uccide la moglie e i figli e qualche volta i figli uccidono entrambi. Se si rifanno le storie, i nomi sarebbero tanti, ma i ritratti si assomiglierebbero. Dopo la fine, nella villetta di Cogne, del piccolo Samuele, quanti neonati o bimbetti, fratelline e sorelline, sono morti, affogati nei laghetti o soffocati nelle lavatrici.
Secondo un rapporto dell’Eures nel 2006 il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei "rapporti di prossimità" (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. L’ambito familiare, con 174 vittime (pari al 29,5 per cento del totale, s’è confermato quello più a rischio, superando in misura rilevante le vittime della criminalità mafiosa (146, pari al 24,4 per cento). Al secondo posto gli omicidi tra conoscenti: 59 vittime, cioè il 9,9 per cento.
Gianfranco Bettin, ex prosindaco di Venezia con Massimo Cacciari sindaco ed ora consigliere regionale, in un libro molto bello (L’erede, pubblicato da Feltrinelli nel 1992) aveva ricostruito alla maniera di Truman Capote (A sangue freddo) il delitto di Montecchia di Crosara, i primi monti della pianura del Nordest, provincia di Verona. Dove, in una notte infernale, Pietro Maso aveva massacrato i genitori a padellate con l’aiuto di alcuni amici del paese. Voleva i soldi, Pietro, per comprarsi la macchina, probabilmente una Delta Alfa Romeo Rossa. Il patto con i complici l’aveva stabilito nel bar del paese, a un tavolo all’angolo. Alla fine s’era alzato annunciando: «G’avemo da copar gente». Perchè? «Pei schei».
Gianfranco Bettin ha ripreso il libro, ha cambiato il titolo che è diventato Eredi (sempre per Feltrinelli), dopo aver aggiunto la storia, questa volta in poche pagine, di un altro delitto: quello appunto di Erika, che in compagnia di Omar, uccide la madre Susy Cassini e il fratellino.
Due famiglie molto diverse diverse, dieci anni tra una strage e l’altra non sono pochi. La famiglia di Maso è tradizionale e tradizionalista, radicata nella sua cultura contadina, conosce il benessere, ma osserva con prudenza il proprio futuro, vive il consumismo ma non si è ancora lasciata prendere dal consumismo. La famiglia di Erika prende sul serio il mondo del Mulino Bianco e si specchia in quel panorama e nella sua paccottiglia: nel senso dello spot, dove i genitori appaiono giovani e belli ancora, fanno colazione al mattino con i figli, due figli in perfetto equilibrio, un maschio e una femmina, si capisce che non avvertono difficoltà economiche. Erika ha un fratello: Il padre, immigrato dal sud, fa carriera nell’azienda più importante della zona, entra nel Rotary, è un uomo in vista. Anche la moglie tiene al decoro. Va in palestra con la figlia, le parla molto, si scambiano i vestiti, fanno spese insieme. Non vivono l’immaginario del consumismo: sono precipitati nel consumismo.
A Montecchia di Crosara si prospera ancora nel Veneto contadino e il delitto di Pietro Maso ha qualcosa di arcaico. A Novi il trapasso è avvenuto: la cultura televisiva domina con i suoi modelli, i gusti sono plasmati dalla pubblicità, che diventa riferimento della rispettabilità e della moralità. Ma sono la rispettabilità e la moralità dei genitori, che cercano di imporle, nelle stesse identità, ai figli. Se i figli danno la sensazione di uno scarto, allora li si compra: se la figlia va male a scuola, la si perdona quando promette che il brutto voto non si ripeterà più, se invece si ripeterà si cerca un’altra scuola che si immagina più adatta a lei, per incoraggiarla le si regala l’ultimo modello dei jeans. Si compiacciono i figli. Ci si consola leggendo nel loro malessere solo un capriccio. I figli sembrano vicinissimi, ma la distanza si è già fatta incolmabile. La contraddizione vera non esplode mai. Erika, come tutti, si scava una nicchia tra gli amici e il fidanzatino Omar. Quando la nicchia non basta più, uccide. La sua fantasia è proiettata verso un futuro senza costrizioni. Pochi giorni prima del delitto in un tema aveva scritto: «La mia famiglia è magica e immensa...». Erika, il padre e la madre condividono lo stesso orizzonte. Aveva scritto Erika di sua madre: «Come due sorelle». Al contrario di Pietro Maso, che è un’altra vita rispetto a quella del padre. Erika, la madre e il padre sono uguali. Nella falsità di questa apparente omogeneità la famiglia soffoca. Erika uccide per sentirsi libera. Per questo il suo delitto è un delitto senza tempo.
Chi, tra i magistrati, ascolterà le parole di Erika e del padre, “intercettati” nella caserma dei carabinieri di Novi Ligure, commenterà: «È sembrato che ciascuno gestisse da solo il proprio sconvolgimento (anche Erika a modo suo) e la vicinanza nella stanza della caserma era soprattutto contiguità fisica».
«E QUANDO QUELLA PARTORISCE, tu subito ci vai, in chiesa o in comune, tu ci vai e ci metti la firma».
«Sì mamma, se mi prendi il vestito di Dolce e Gabbana».
VILLE SUL LAGO e filatori rivali, traffici d’armi e amori che corrono da una parte all’altra, barche a vela e bonarie trattorie d’altri tempi sulla darsena che pare un quadretto dell’Ottocento. Papà industriale con l’ex moglie di gagliardo quarantenne di successo, che perde la testa per la vivace studentessa in legge che profittando della propria avvenenenza arrotonda tramite agenzia compiacente e che, per completare tesi di laurea, frequenta la locale questura, dove presta la propria opera il figliolo poliziotto del gagliardo quarantenne: colpo di fulmine e la bella, sincera amante e riamata, molla il padre per il figlio ignaro... Mentre la figlia dello stesso quarantenne prima spasima per un severo medico, poi incrocia per caso il fratello e non resiste alla tentazione di provare anche lui... Persino l’attempata moglie del simpatico e solare trattore non resiste alla tentazione di rinvigorire un’antica passione per un mago terapeuta argentino, tenebroso cialtrone che finisce il galera. Non basta una vita a raccontare “Vivere”, soap opera al settimo anno d’esistenza nell’etere di Canale 5, tra le più seguite, ogni giorno tranne il sabato e la domenica a partire da mezzogiorno e mezzo. Tante storie senza una famiglia che sia una: niente, solo disastri dentro casa...
«Eppure Vivere - racconta Davide Sala, caposcrittura, responsabile insomma del manipolo di sceneggiatori che di giorno in giorno inventano personaggi, dialoghi e situazioni - era nata come soap opera delle famiglie, risposta a “Un posto al sole”, tra protagonisti di un livello sociale un po’ più alto, presentando appunto tre famiglie in una provincia italiana che il benessere l’aveva già raggiunto».
Peccato che nel giro di sette anni di famiglia, padre, madre, figli, nipoti, nonni, non ne sia rimasta in piedi una...
«La prima responsabilità è degli attori che se ne vanno, che scelgono altri impegni. Insomma questioni produttive hanno un effetto disgregante sulle famiglie...».
Magico intreccio realtà finzione...
«Adesso stiamo cercando di ricostruirle».
Il bravo poliziotto vuole mettere su casa con l’ex amante del padre, che sembra non mollare la presa e s’offre di pagare l’affitto...
«Dalla disgregazione alla ricomposizione dell’unità familiare, rapporti conflittuali attraverso i quali matura di nuovo l’identità della famiglia».
Tutto il contrario della famiglia salda e quadrata di fronte ad ogni avversità, di “Raccontami”, lo sceneggiato di Raiuno con i bravissimi Massimo Ghini e Lunetta Savino: a Roma il quadretto dell’Italia anni sessanta e sulle rive del lago invece gli anni nostri... Italia fiduciosa in cerca di benessere e felicità, Italia viziata, senza ideali, senza morale... Non è che proprio quest’Italia, più realistica in fondo al di là dei colori pastello della soap, alla fine intrighi di più lo spettattore e faccia più audience?
«Il pubblico preferisce la famiglia tradizionale di “Raccontami”, perchè c’è malgrado tutto una gran voglia di famiglia, si guarda con nostalgia al passato, il presente mette paura, si cerca di ritrovare le radici. Ma la famiglia è esposta alle dinamiche della modernità... E molte fiction, soprattutto americane, di grande successo, rappresentano questa difficoltà, lo scontro-incontro con un tessuto sociale che minaccia il nucleo familiare compatto».
Ma la nostalgia riguarda la famiglia come centro organizzato, sede istituzionalizzata di protezioni reciproche?
«Riguarda la famiglia, perchè si crede nella famiglia come luogo dei sentimenti. Non conta la cornice. Contano i legami sentimentali che la famiglia può esprimere. Contano il cuore, gli affetti, la solidarietà...».
Quindi vale la famiglia benedetta in chiesa esattamente quanto la famiglia dei conviventi e lo coppia gay. Metterebbe in scena la convivenza di una coppia omosessuale?
«La prima volta di una coppia omosessuale in una fiction risale al 1974. Una fiction australiana. Insomma non sarebbe una apparizione rivoluzionaria. A chi guarda la tv piace una storia dove i sentimenti appaiono forti. Anche i sentimenti dei cattivi: all’interno di una logica, ovviamente, non per il puro gusto di far del male».
Repubblica 26.3.07
"Ci finisce chi rifiuta Dio"
Il Papa "L'Inferno esiste ed è eterno"
di AUGUSTO PARAVICINI BAGLIANI
DAL TARTARO ALLA GEENNA GLI ANTENATI DELLA DANNAZIONE
Il luogo cristiano della pena affonda le sue radici nelle antiche civiltà
IL papa ha ragione. Nella cultura contemporanea, anche cristiana, l´inferno sembra essersi fatto da parte. Eppure la sua esistenza accompagna il Cristianesimo fin dalla sua nascita, con un´evoluzione che non è però affatto lineare. La concezione cristiana dell´Inferno affonda le sue radici nelle antiche civiltà (Egitto, Mesopotamia, Grecia ecc.). Per i Greci il tenebroso Hades, confuso con il sinistro Tartaro, aveva il compito di accogliere tutti gli iniqui. I concetti ebraici di Geenna e Sheol crearono un luogo sotterraneo di tormento, dimora del Diavolo e dei suoi demoni.
L´inferno è già presente nel Nuovo Testamento. Il Vangelo di Matteo (25, 41) menziona «il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli», ed anche l´Apocalisse (19,20) parla dello «stagno di fuoco, ardente di zolfo».
Ma la credenza all´inferno pose questioni importanti. Le pene erano corporali ed eterne? Su questi aspetti, i Padri della Chiesa non la pensavano allo stesso modo. Per sant´Ambrogio e san Girolamo (IV secolo), le pene erano di natura spirituale e i cristiani erano salvati dalla virtù del loro battesimo. Agostino dedicò però un intero libro della "Città di Dio" per rifiutare l´idea di un ritorno finale di tutte le creature a Dio e diede così un impulso decisivo alla dottrina della eternità e della corporeità delle pene.
Dal XII secolo in poi, la minaccia della dannazione eterna è sempre più presente nella predicazione e nella pastorale, a tal punto che si è parlato di un "cristianesimo della paura" (J. Delumeau). E´ il periodo in cui nasce anche una vera e propria iconografia dell´inferno. Al nord delle Alpi, l´inferno viene rappresentato come Leviatano, il mostro che divora i dannati. In Italia si impone la rappresentazione dell´inferno come zona di fuoco dove i dannati bruciano intorno a Satana seduto in trono. Dal Trecento in poi (Camposanto di Pisa) i supplizi aumentano sempre di più e si accentua la corrispondenza fra la natura della pena e il genere di peccato: i golosi vengono raffigurati davanti ad una tavola imbandita senza avere la possibilità di mangiare, gli avari vengono ingozzati d´oro, i lussuriosi uniti in un abbraccio eterno. Come nell´Inferno di Dante…
Il XII secolo introduce un´altra grande novità, il purgatorio come luogo geografico. L´idea di un purgatorio è presente nel cristianesimo antico, ma veniva definito con un aggettivo, il "fuoco purgatorio". Intorno al 1100, l´aggettivo si trasforma in sostantivo. Si tratta di una "rivoluzione spirituale" (J. Le Goff). Il purgatorio come luogo spezza il vecchio mondo bipolare dell´alto Medio Evo, e l´aldilà si arricchisce di un luogo che corrisponde ad uno strumento di salvezza. Preghiere e suffragi possono accorciare le pene, per i peccati veniali e per i peccati confessati per i quali la penitenza non è avvenuta.
Le storie dell´inferno e del purgatorio sono inscindibili, anche per quanto riguarda il declino che questi due luoghi della geografia cristiana dell´aldilà hanno subìto da un secolo, in coincidenza con l´affievolimento dell´idea di peccato e della credenza al demonio. Il declino riflette la progressiva scristianizzazione della cultura contemporanea. Ma vi contribuirono anche gli avvenimenti bellici del Novecento: i milioni di morti della prima guerra mondiale hanno preso il posto delle anime del Purgatorio, e gli orrori del nazismo hanno portato l´inferno sulla terra. «L´enfer c´est les autres», dirà Sartre verso la fine del 1943, perchè ogni uomo può essere il giustiziere di un altro uomo e condannarlo, per così dire, a morte…
IL PAPA E LA SOCIETÀ
Il papa in una parrocchia romana evoca la figura del demonio. Gli scenari delineati nel nuovo Catechismo
"Non se ne parla ma l'Inferno c´è"
Ratzinger: pene eterne per chi pecca e non si pente
di ORAZIO LA ROCCA
CITTÀ DEL VATICANO - «L´Inferno esiste ed è eterno, anche se non ne parla quasi più nessuno». Papa Ratzinger torna a rilanciare il luogo della dannazione eterna evocato da secoli dalla tradizione cristiana, declassato, però, negli ultimi tempi ad argomento di serie b nell´immaginario collettivo del popolo dei credenti. Il posto scelto per ribadire l´attuale «pericolosità» di Satana non è la scenografica basilica di San Pietro, ma una anonima parrocchia della periferia romana - la chiesa di Santa Felicita e Figli Martiri della borgata di Fidene - visitata ieri mattina da Benedetto XVI nella sua veste di vescovo di Roma. Nell´omelia, come un vecchio parroco, il pontefice tiene una ferma lezione di teologia partendo dal significato del «perdono cristiano così come ci è stato insegnato nel Vangelo attraverso la parabola dell´adultera», la donna salvata dalla lapidazione dalla famosa frase «chi è senza peccato scagli la prima pietra» rivolta da Gesù ai suoi accusatori. Uno dei più noti episodi evangelici dal quale il Papa parte per mettere in guardia i cattolici dalle «insidie» del demonio «se non si pentiranno dei peccati e non chiederanno il perdono divino».
«La fede cristiana - è il ragionamento di Ratzinger - è un annuncio, una offerta all´uomo, mai una imposizione». Ogni persona - «se vuole», sottolinea il Pontefice - può «accettarla spontaneamente» con «tutta la sua carica salvifica che ci viene da Dio, il nostro Padre misericordioso che è sempre pronto ad aiutarci, ad accoglierci, anche quando sbagliamo». «Perdono e salvezza divina» intesi, quindi, come «doni» che ogni uomo nel corso della sua vita ha la possibilità di accettare, a patto che - avverte Ratzinger - «ammetta le sue colpe e prometta di non peccare più». E quanti continuano a peccare senza mostrare nessuna forma di pentimento? Per questi - rammenta Benedetto XVI - la prospettiva è la dannazione eterna, l´Inferno, perché «l´attaccamento al peccato può condurci al fallimento della nostra esistenza». Tragico destino che spetta a chi «vive nel peccato senza invocare Dio» perché - è la spiegazione del Papa - «solo il perdono divino ci dà la forza di resistere al male e non peccare più». Ecco perché Benedetto XVI ricorda, a conclusione dell´omelia nella parrocchia periferica romana, che «Gesù è venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l´Inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore».
Si tratta - in sostanza - degli stessi scenari previsti nel Compendio del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica alla voce Inferno firmato da Ratzinger poco tempo dopo la sua elezione pontificia. L´Inferno - vi si legge tra l´altro - «consiste nella dannazione eterna di quanti muoiono per libera scelta in peccato mortale» e «la pena principale dell´Inferno sta nella separazione eterna da Dio». Su questo insegnamento si è sempre mosso il teologo Joseph Ratzinger, sia da vescovo che da cardinale. In perfetta sintonia con papa Wojtyla, che durante il suo lungo pontificato in più occasioni ha invitato i cattolici «a pregare Dio perché nessuno sia o vada all´Inferno», spiegando che al luogo della dannazione eterna sono destinati coloro i quali «usano male la libertà offerta loro da Dio». Ma uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Urs Hans von Balthasar, ha teorizzato che «l´Inferno c´è, ma potrebbe anche essere vuoto» perché «la misericordia di Dio è infinita come il suo perdono».
Repubblica 26.3.07
La guerra al terrore ha snaturato gli Usa
di ZBIGNIEW BRZEZINSKI
L'ex consigliere di Jimmy Carter analizza i danni prodotti dalla reazione all'11 settembre
"Bush ha colpito i diritti civili e ridotto il nostro ruolo internazionale"
Così la "Guerra al terrore" ha snaturato l'America
La «Guerra al terrorismo» ha dato vita in America a una cultura della paura. L´elevazione di queste tre parolette a mantra nazionale da parte dell´Amministrazione Bush, dopo i terribili eventi dell´11 settembre, ha avuto un effetto deleterio sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli Stati Uniti nel mondo. L´utilizzo di questa formula ha di fatto pregiudicato la nostra capacità di affrontare in modo efficace le vere sfide che ci impongono i fanatici che potrebbero utilizzare il terrorismo contro di noi. Il danno inferto da queste tre parole - la classica ferita che ci si infligge da soli - è infinitamente più grande di qualsiasi sfrenata aspirazione avessero in mente i fanatici che hanno perpetrato gli attentati dell´11 settembre allorché complottavano contro di noi nelle remote caverne dell´Afghanistan.
In sé e per sé la formula è priva di significato: non definisce con precisione né un ambito geografico né il nostro presunto nemico. Il terrorismo non è un nemico, bensì una tecnica di guerra: è l´intimidazione politica attuata con l´uccisione di esseri umani disarmati.
Può anche essere che l´indeterminatezza della frase sia stata intenzionalmente (o istintivamente) calcolata dai suoi sostenitori. Il costante riferimento a una «guerra al terrorismo» ha di fatto conseguito un obiettivo primario, quello di favorire l´affermarsi di una cultura della paura. La paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare l´opinione pubblica nell´interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire. Senza quel legame psicologico instaurato tra lo shock dell´11 settembre e la presunta esistenza di armi irachene di distruzione di massa, la guerra in Iraq non avrebbe mai conseguito il supporto del Congresso di fatto ottenuto. Anche il sostegno al presidente Bush nelle elezioni del 2004 è stato almeno in parte incamerato grazie al principio secondo cui «una nazione in guerra» non cambia il proprio comandante in capo nel bel mezzo dell´azione. Una sensazione di intenso pericolo, per altri versi del tutto imprecisato, è stata quindi inculcata in una direzione politicamente opportuna dall´appello mobilizzante dell´essere «in guerra».
La cultura della paura è come il genio fatto uscire dalla lampada: acquisisce vita propria e può diventare demoralizzante.
Che l´America sia diventata insicura e molto più paranoica è difficilmente contestabile. Da un recente studio è emerso che nel 2003 il Congresso aveva individuato 160 località che potevano diventare obiettivi potenzialmente importanti a livello nazionale per i presunti terroristi. Grazie al peso di varie lobby, alla fine di quell´anno l´elenco dei luoghi-bersaglio era già salito a 1.849. Alla fine del 2004 ha raggiunto i 28.360 e alla fine del 2005 i 77.769. Oggi l´archivio nazionale dei possibili obiettivi di un attentato terroristico comprende 300.000 località circa. Tra di esse figurano la Sears Tower di Chicago e una Sagra della mela e del maiale dell´Illinois.
Proprio la settimana scorsa, qui a Washington, mentre mi recavo in visita a uno studio giornalistico, ho dovuto passare attraverso uno di quegli assurdi "controlli di sicurezza" proliferati in quasi tutti gli edifici privati di uffici della capitale e della città di New York. Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, di mostrare un documento di identità e nel caso specifico di spiegare gli scopi della mia visita. Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto di voler «far saltare in aria l´edificio»? E la guardia, sarebbe effettivamente in grado di fermare un aspirante attentatore suicida disposto ad autodenunciarsi? A rendere le cose ancora più paradossali, c´è il fatto che i grandi magazzini, con tutte le loro folle di acquirenti, sono esentati da procedure simili. Né del resto queste sono previste per gli auditorium o i cinema. Ciò nonostante, queste "procedure di sicurezza" sono diventate routine, comportano uno spreco di centinaia di milioni di dollari e danno un ulteriore contributo a far affermare questa mentalità di assedio permanente.
L´atmosfera generata dalla "guerra al terrorismo" ha incoraggiato la vessazione legale e politica degli arabo-americani. La discriminazione sociale, per esempio quella nei confronti dei musulmani che viaggiano in aereo, è anch´essa una conseguenza collaterale involontaria: non deve stupire il fatto che il risentimento nei confronti degli Stati Uniti sia cresciuto perfino tra musulmani per altro non particolarmente interessati al Medio Oriente, mentre la reputazione dell´America di leader nel promuovere rapporti costruttivi interrazziali e interreligiosi ne ha gravemente sofferto.
Questo risultato è ancora più preoccupante nell´area più generale dei diritti civili. La cultura della paura ha alimentato l´intolleranza, il sospetto nei confronti degli stranieri, l´adozione di procedure legali che sono deleterie per i principi fondamentali della giustizia. Il principio secondo il quale si è innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è stemperato, se già non si è dissolto del tutto, e alcune persone - anche cittadini statunitensi - sono incarcerate per lunghi periodi senza un giusto processo. Non vi è alcuna prova sicura di cui si abbia testimonianza che un simile eccesso ha effettivamente scongiurato qualche significativo attentato terroristico, né che gli arresti di presunti terroristi di qualsivoglia tipo siano serviti a qualcosa. Un giorno gli americani si vergogneranno di tutto ciò.
Nel frattempo, però, la «guerra al terrorismo» ha gravemente pregiudicato gli Stati Uniti a livello internazionale. Il risentimento non si limita ai musulmani: un recente sondaggio condotto dalla Bbc presso 28.000 persone di 27 paesi, per capire in che modo si valuti il ruolo dei vari Stati nelle questioni internazionali, ha evidenziato che Israele, Iran e Stati Uniti (in questo ordine) sono considerati i paesi che hanno «la peggiore influenza negativa al mondo».
Quanto accaduto l´11 settembre avrebbe potuto portare a una solidarietà davvero globale contro l´estremismo e il terrorismo. Un´alleanza globale dei moderati, inclusi quelli musulmani, impegnata in una campagna dichiarata volta a estirpare i network specificatamente terroristici e a porre fine ai conflitti politici che alimentano il terrorismo sarebbe stata molto più fruttuosa di una «guerra al terrorismo» contro il «fascismo islamico» proclamata demagogicamente e pressoché unilateralmente dagli Stati Uniti. Soltanto un´America fiduciosamente determinata e raziocinante potrà promuovere un´autentica sicurezza internazionale che non lascia più spazio al terrorismo.
Dov´è il leader degli Stati Uniti disposto a dire: «Basta con queste isterie, poniamo fine a questa paranoia»? Anche posti di fronte a futuri attentati terroristici, la probabilità dei quali non può essere negata, cerchiamo di dimostrare un po´ di buonsenso. Cerchiamo di rimanere fedeli alle nostre tradizioni.
Copyright The Washington Post/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 26.3.07
Davanti alla morte come bambini
La paura, le scuse, i ricordi felici: le lettere dall'Iraq dei soldati Usa
di VITTORIO ZUCCONI
Dicono i medici nei reparti di terapia intensiva che i pazienti arrivati alla fine spesso mormorano il nome della mamma quando capiscono di morire. E possono essere anche ragazzoni americani armati fino agli occhi, guerrieri fasciati in carapace di plastica e di acciaio, ma in quella che la preghiera dei cattolici alla Madre - appunto - chiama «l´ora della nostra morte», dietro gli occhiali da sole e i visori notturni a infrarossi spunta lo sguardo di un bambino che ha paura e che perciò pensa alla mamma.
Non c´è bisogno di essere pacifisti o guerrafondai, falchi o colombe, basta essere umani per risentire e rileggere nelle lettere di soldati mandati a morire per conquistare un altro scatolone di sabbia e di petrolio, l´eco di tutte le lettere dall´oltretomba dei soldati morti nelle guerre per «mettere fine a tutte le guerre», come ripete l´eterna menzogna dei condottieri. E avvertire la spossante tristezza della frase, quella scritta dal caporalmaggiore dei Marines, Anthony Butterfield, che prima di morire non si ricorda di Bush, dell´Occidente, della Guerra al Terrore, delle dottrine e degli scenari, ma «del bicchiere di latte al cioccolato con il coperchio forato e la cannuccia» che, e chi altro?, la madre gli versava per consolarlo quando si faceva male.
Proprio come i bambini che tutti loro sono, anche quando si travestono da Rambo e da eroi di video game, domandano scusa, si colpevolizzano, «I am so sorry, Mom», per il dolore che hanno provocato a casa facendosi ammazzare. Non capiscono, «non avrei mai creduto di dover scrivere una lettera come questa». Stanno sospesi in quell´attimo di sbigottimento che vediamo sul volto dei bambini quando cadono e trattengono il fiato, incerti ancora se scoppiare a piangere.
«Qualcosa è andato storto, molto storto», scrive uno di loro per tutti, uomini e donne arruolati per sfuggire alla noia, per trovare un lavoro, per patriottismo, per ansia di sistemare i conti con gli assassini dell´11 settembre, perché questo gli avevano detto il loro Presidente e il sottufficiale in alta uniforme blu nell´ufficio del Lucignolo reclutatore tra la pizzeria e la sala giochi nel centro commerciale, con la promessa di una gloriosa avventura oltremare, da raccontare a figli e nipoti, come i padri e i nonni avevano raccontato l´epopea della «Grande Generazione» dei Soldati Ryan, in Normandia, a Okinawa, ad Anzio, senza sapere che i loro nipoti li dimenticheranno, come li sta ignorando, dietro l´iprocrisia delle decalcomanie da paraurti, una nazione, perché sono volontari, non coscritti, e dunque, sotto sotto, «se la sono cercata loro».
Arrivati all´ora della loro morte, al momento di scrivere sotto una tenda nel mezzo di un nulla polveroso che neppure sapevano che esistesse o dove fosse, non rinnegano, non tradiscono, non sognano di disertare, non maledicono i falchi ottusi che ne hanno fatto prede per le loro saccenti dottrine concepite in uffici con l´aria condizionata. Accettano, come tutti i soldati, sempre, e vanno ad ammazzare e farsi ammazzare, con in bocca il rimpianto del latte al cioccolato che non berranno più.
GLI USA E L'IRAQ
ULTIME LETTERE DAL FRONTE
Le corrispondenze di guerra di chi ha perso la vita nel deserto iracheno
Quattro anni dopo l´invasione, gli americani morti sono più di 3.300
«Sono stanco, bambina, esausto davvero», scrive accucciato su chissà quale branda il maggiore dell´esercito Usa, il sudore - racconta - che gli sgocciola dalla fronte e gli rimbalza sul mento, sotto i 45 gradi del deserto iracheno piatto come un tavolo da biliardo. Alla figlia Eddie, che lui non rivedrà com´è destino di almeno 3.230 americani morti in Iraq, il maggiore cerca di spiegare in poche righe vergate con bella calligrafia su un taccuino d´ordinanza cos´è questa «strana guerra al terrore»: «Non immaginare grandi manovre con centinaia di carri che straboccano oltre le frontiere. È una lotta fatta di dieci uomini nel buio della notte, di imboscate e cecchini e bombe artigianali»: bombe che lo colpiscono il 5 gennaio, a Fallujah.
Questa è una delle cento lettere pubblicate dalla rivista Newsweek in un numero speciale dedicato alla "strana guerra" d´Iraq, nel quarto anno dall´invasione anglo-americana. Sono messaggi e-mail estemporanei, più spesso testi preparati con cura, destinati ad essere letti dopo la morte dell´autore. Ultime parole indirizzate ai propri cari da uomini arruolatisi tutti volontari, «e questo per la prima volta nella storia moderna americana - ricorda l´editoriale del magazine - mentre la grande maggioranza dei cittadini se ne sta al riparo dalla linea di fuoco».
(a. v. b.)
Repubblica 26.3.07
GLI ENIGMI DEL PENSIERO
In un nuovo saggio George Steiner analizza le ragioni della tristezza
di FRANCO MARCOALDI
Al centro è ancora la malinconia una condizione che può rendere anche creativi e vitali
Filosofia, poesia, neurofisiologia concorrono a edificare questo suo inclassificabile libro
La pesantezza dell'animo è fatta di dubbio e frustrazione
L'incompiutezza marca a fuoco ogni esistenza umana
Quanti hanno scelto lo schermo televisivo come ideale specchio del mondo, potrebbero anche credere che esistano soltanto uomini e donne garruli, contenti, spensierati. Basta seguire una qualunque trasmissione di intrattenimento per verificare come nove volte su dieci presentatori, attrici e personaggi pubblici a vario titolo, (compresa la moltitudine di anonimi colti nel loro effimero momento di gloria), esibiscono un immancabile sorriso, vagamente beota, stampato sulle labbra. La legge televisiva appare chiara: bisogna offrire un´immagine di sé improntata alla felicità. Senza ombre di sorta.
Basta però passare dal mondo virtuale a quello reale, prendere un tram o fare la spesa al supermercato, per incontrare altrettante facce con espressioni tutt´affatto diverse. E verificare così come la malinconia e la tristezza siano al contrario moneta corrente; cosa, del resto, che ciascuno di noi verifica puntualmente nella propria intimità.
Il filosofo tedesco Friedrich Schelling si spinse oltre, sostenendo che è proprio questo doppio malessere a marcare a fuoco ogni esistenza umana, contrassegnata dall´incompiutezza: «Donde il velo di tristezza, che si stende su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di ogni vita». Questo brano di Schelling compare nel saggio Ricerche filosofiche sull´essenza della libertà umana e precede un´altra frase che suona: «Solo nella personalità è la vita: e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza».
Poste entrambe le affermazioni ad esergo di uno smilzo libretto, il famoso critico George Steiner le utilizza come volano di una sua ulteriore ed ennesima avventura mentale, volta a spiegare le Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (traduzione di Stefano Velotti, Garzanti, pagg. 87, euro 11).
Ora, basta scorrere i titoli dei libri pubblicati dal critico inglese con l´editore Garzanti (dal vecchio Tolstoj o Dostoevskij al romanzo breve Il correttore, dall´autobiografia Errata al più recente Una certa idea di Europa), per verificare una volta di più quanto la scorribanda intellettuale sia consustanziale alla sua scrittura e al suo ordine di discorso.
Ma qui la natura di impareggiabile guastatore dei rigidi confini disciplinari pare raggiungere il suo acme: filosofia, poesia, neurofisiologia e cosmologia concorrono ciascuna, a diverso titolo e con diverso peso, a edificare un inclassificabile saggio, il cui esiguo numero di pagine (87) è inversamente proporzionale alla densità del contenuto.
Il procedimento adottato è lineare. Steiner ha deciso di analizzare dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero. E così farà, enumerandole una per una, in altrettanti capitoletti. Talvolta le argomentazioni si sovrappongono e si ripetono, ma i punti salienti sbalzano nitidamente dalla pagina.
Pensare il pensiero è la prima, insormontabile difficoltà. Perché trattenere il pensiero è più difficile che trattenere il respiro e dunque siamo perennemente immersi in una attività che risulta pressoché impossibile osservare dal di fuori. Eppure questa tendenziale infinità del pensiero non garantisce affatto risposte sicure o quantomeno soddisfacenti: «Ascoltate con attenzione il corso del pensiero: sentirete, nel suo centro inviolato, dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di "Schwermut", di pesantezza dell´animo».
Il pensiero inoltre, in quanto inarrestabile, è perciò stesso incontrollabile. Si danno, è vero, rari casi in cui il giocatore di scacchi, il matematico o il maestro di meditazione, riescono a chiamarsi fuori dal mondo per un certo lasso di tempo. Ma nella norma tutti sappiamo quanto il corso del pensiero sia «intorbidato, perturbato, incessantemente deviato» da una serie illimitata di fattori esterni e interni di più vario genere. A ciò va sommato l´immenso, vano dispendio di un´attività che solo in piccolissima parte si cristallizza in ragionamenti compiuti, raggiungendo la meta. Tutto il resto, che, baluginato davanti agli occhi o apparso in sogno sembrava tanto interessante, si volatilizza nell´aria. Ricordate Pascal? «Pensiero sfuggito, io lo volevo scrivere; scrivo, invece, che mi è sfuggito».
Ecco dunque due nuove ragioni di tristezza: «il pensiero ordinario è un´impresa pasticciata, dilettantesca» e inoltre è talmente «dispendiosa e rovinosa» da impedirci di misurare la gravità del deficit. Per contro, è pur vero che «pensare a noi stessi è l´ingrediente principale dell´identità personale». Ma proprio da qui discende una conseguenza la cui enormità, secondo Steiner, «è stranamente data per scontata». Nessuna vicinanza spirituale, amorosa, intellettuale, permette infatti di penetrare nell´intimità dell´altro, di scalfire la sua monade. E tutto ciò si accompagna, paradossalmente, al fatto che «il nucleo inaccessibile della nostra singolarità», altro non è che «un luogo comune moltiplicato per miliardi», visto che la germinazione di pensieri nuovi, davvero originali, è la merce più rara (Einstein, a dispetto della sua genialità, «sosteneva di aver avuto soltanto due idee genuine in tutta la sua vita»).
Insomma, mentre il pensare «è sepolto nella privatezza più intima del nostro essere, è anche il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Senza contare la perenne discrasia tra ciò che abbiamo concepito e la mediocre realtà del risultato raggiunto; ciò che induce Steiner ad avanzare la drastica proposta di uno «sperare contro ogni speranza».
E con questo, se non sbaglio, siamo giunti più o meno alla metà del decalogo: le rimanenti fonti di «tristitia» e «melancholia» le scoprirete da voi, leggendo il libro. Prima di chiudere, però, vorrei accennare a un altro paio di questioni. Il critico inglese insiste molto su un linguaggio preconfezionato che finisce per "democratizzare l´intimità" e per impedire la massima espansione di tutte le potenzialità immaginative del pensiero. Aggiungendo inoltre che, saturo com´è di ambiguità, il linguaggio per sua stessa natura si «ribella all´ideale monocromo della verità». D´altronde, nel corso del tempo si sono susseguite talmente tante e diverse verità, «soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione», che forse il massimo a cui può ambire il pensiero sono le «finzioni supreme» a cui alludeva il grande poeta americano Wallace Stevence. Di più: forse che l´impotenza del pensiero di fronte alla verità, non si manifesta anche di fronte alla morte, o all´esistenza di Dio?
Qui il pessimismo di Steiner si fa radicale: «Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell´enigma della natura - o dello scopo, se ce n´è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte o alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati».
Poiché però il critico inglese non dimentica le tracce da cui ha preso le mosse, ovvero lo Shelling che ricordava come la tristezza, la pesantezza dell´anima è anche creativa e proprio affondando nella melanconia si accende la forza vitale in grado di superarla, finisce per affidare l´azzardo supremo del pensiero, più che alla filosofia e alla teologia, alla musica: «questo tormentoso medium dell´intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo. Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso».
Non si tratta di uno zuccherino finale volto a rincuorare il lettore. Lo stesso Schelling, infatti, proseguiva la prima delle sue osservazioni con altre due righe che nell´esergo del libro di Steiner non compaiono: «la gioia deve accogliere il dolore, il dolore deve essere trasfigurato nella gioia». Fors´anche del pensiero, aggiungo; se se ne contiene la versione "dispotica" e lo si immagina come una corrente impersonale che usa le nostre menti come fossero altrettanti veicoli. Ciò che consentì a Goethe di scrivere: «Io so che nulla m´appartiene/ Se non il pensiero che imperturbato/ Dalla mia anima fluisce».
Corriere della Sera 26.3.07
Intervista con Franco Giordano
«Le regole sono già scritte e non possono cambiare»
di Monica Guerzoni
Spinte neocentriste mai sopite e per certi versi legittime sarebbero drammatiche
Siamo leali ma se Mastella o altri fanno giochini sapremo rispondere
ROMA — Segretario Franco Giordano, che accade se il governo va sotto sull'Afghanistan?
«Credo che questo decreto una maggioranza ce l'abbia, i senatori a vita hanno diritto di votare a tutti gli effetti. E i nostri 26 voti non sono in discussione».
Nemmeno i 20 voti dell'Udc lo sono. Ma in cambio Casini vi chiede di cambiare le regole d'ingaggio.
«Siamo contrari a un odg che stravolga le regole di ingaggio. Ma poiché è nel decreto che sono scritte le regole per le missioni, mi sento sereno. L'articolo 11 della Costituzione impedisce un comportamento offensivo delle nostre truppe. E poi l'odg dell'Udc dovrebbe essere acquisito e tradotto in un intervento legislativo del governo...».
Adesso le vanno bene anche i voti centristi? Non teme più che nuove maggioranze possano fare fuori il Prc?
«Non ci sono le condizioni per maggioranze variabili. In questo caso i voti sono aggiuntivi e comunque sono cose che riguardano la politica interna, in politica estera per me vale il merito».
La Cdl chiede di rafforzare gli armamenti. Che ne pensa un pacifista come lei?
«Sono contrario allo spostamento delle truppe, ma i militari devono poter lavorare in assoluta sicurezza. Ho trovato grande saggezza e responsabilità nelle parole dei giorni scorsi del generale Satta, secondo il quale i nostri soldati sono in condizione di tutelarsi e hanno il meglio degli armamenti ».
Al partito dei «rafforzatori» non basta. Mastella voterà il documento dell'Udc e così potrebbero fare i filoatlantici della Margherita, da Dini a Fisichella.
«Spero che non accada e faccio valere con forza la lealtà del Prc, che dopo la costruzione di un accordo sul decreto voterà a favore. Sono altri che giocano a un mutamento delle proprie posizioni, definite col voto positivo della Camera. Cercare giochini sul tema della pace e della guerra, ai soli fini di politica interna, è frutto di una cultura gretta e provinciale e di un alto tasso di cinismo».
Russo Spena ha detto che Mastella gioca col fuoco.
«Vero. Spinte neocentriste, mai sopite e per certi versi legittime, sarebbero drammatiche. E se ci comportassimo noi così? Se il Prc cominciasse a determinare dei distinguo?».
Potrebbe accadere. Se arrivano più armi Giannini non vota.
«Sono sicuro che sul decreto tutti i nostri compagni voteranno in maniera conforme e invito le altre forze politiche a tenere lo stesso comportamento».
Perfino Fassino è disposto a inviare più mezzi.
«Qui è un punto delicato. Una cosa è la sicurezza, un'altra la modifica del nostro ruolo, che non può essere offensivo. Piuttosto dovremmo avere un ruolo efficace nella conferenza di pace, unico strumento alternativo alla regola bellica».
Manifesto e Liberazione hanno parlato di «resa» agli Usa, avete cambiato giudizio sulla politica estera di D'Alema?
«Il mio giornale non l'ha detto. Per la vita umana non si guarda in faccia a nessuno e la vicenda Mastrogiacomo testimonia un atteggiamento che io ho condiviso».
Le nuove regole di ingaggio non saranno una contropartita per la liberazione?
«Non siamo a questo, il decreto non prevede nulla del genere. Una cosa è che i militari si devono poter difendere, altra cosa è cambiare le regole di ingaggio».
Il rutelliano Antonio Polito dice che lei vuole fiori nelle canne dei fucili e la invita a ripassare il mandato Onu.
«Non capisco questa asprezza politica. Mettere fiori nei cannoni è aspirazione nobile e mi inquieta che qualcuno nella nostra coalizione non lo ritenga tale. Mi auguro che dietro le manovre d'Aula sull'Afghanistan non ci siano giochi di forza interni al Partito democratico. Significherebbe che per interessi privati alcune forze politiche rischiano di minare il governo o di alimentare una instabilità permanente».