martedì 27 marzo 2007

La morte di Palinuro
Eneide, Libro VI vv.336-383



Ecce gubernator sese Palinurus agebat,
qui Libyco nuper cursu, dum sidera servat,
exciderat puppi mediis effusus in undis.
Hunc ubi vix multa maestum cognovit in umbra,
sic prior adloquitur: «Quis te, Palinure, deorum
eripuit nobis, medioque sub aequore mersit?
Dic age. Namque mihi, fallax haud ante repertus,
hoc uno responso animum delusit Apollo,
qui fore te ponto incolumem, finesque canebat
venturum Ausonios. En haec promissa fides est?»
Ille autem: «Neque te Phoebi cortina fefellit,
dux Anchisiade, nec me deus aequore mersit.
Namque gubernaclum multa vi forte revolsum,
cui datus haerebam custos cursusque regebam,
praecipitans traxi mecum. Maria aspera iuro
non ullum pro me tantum cepisse timorem,
quam tua ne, spoliata armis, excussa magistro,
deficeret tantis navis surgentibus undis.
Tris Notus hibernas immensa per aequora noctes
vexit me violentus aqua; vix lumine quarto
prospexi Italiam summa sublimis ab unda.
Paulatim adnabam terrae; iam tuta tenebam,
ni gens crudelis madida cum veste gravatum
prensantemque uncis manibus capita aspera montis
ferro invasisset, praedamque ignara putasset.
Nunc me fluctus habet, versantque in litore venti.
Quod te per caeli iucundum lumen et auras,
per genitorem oro, per spes surgentis Iuli,
eripe me his, invicte, malis: aut tu mihi terram
inice, namque potes, portusque require Velinos;
aut tu, si qua via est, si quam tibi diva creatrix
ostendit (neque enim, credo, sine numine divom
flumina tanta paras Stygiamque innare paludem)
da dextram misero, et tecum me tolle per undas,
sedibus ut saltem placidis in morte quiescam.
Talia fatus erat, coepit cum talia vates:
«Unde haec, o Palinure, tibi tam dira cupido?
Tu Stygias inhumatus aquas amnemque severum
Eumenidum aspicies, ripamve iniussus adibis?
Desine fata deum flecti sperare precando.
Sed cape dicta memor, duri solatia casus.
Nam tua finitimi, longe lateque per urbes
prodigiis acti caelestibus, ossa piabunt,
et statuent tumulum, et tumulo sollemnia mittent,
aeternumque locus Palinuri nomen habebit.»
His dictis curae emotae, pulsusque parumper
corde dolor tristi: gaudet cognomine terrae.


Ecco si fa avanti Palinuro, il nocchiero che poco prima durante la navigazione libica, mentre osservava le stelle era caduto dalla poppa gettato in mezzo alle onde. Quando lo riconobbe, a stento nella nera ombra, così per primo gli parlò:
- O Palinuro, quale dio ti ha strappato a noi e ti sommerse nel profondo del mare? Orsù, parla. E infatti Apollo, che mai prima ho trovato bugiardo, solo con questo responso ha deluso il mio animo, quando profetizzava che saresti scampato al mare e saresti giunto sulle terre Ausonie. È questa, forse, la fede promessa?
E Palinuro rispose:
- Né il tripode di Apollo ti ingannò, o duce figlio di Anchise, né un dio sommerse me nel mare. Infatti, trascinai con me il timone strappato con molta forza, al quale ero aggrappato, col quale governavo la navigazione e che mi era stato dato da custodire. Giuro sui mari tempestosi di non aver preso nessun grande spavento tanto per me quanto per la tua nave, che, spogliata degli strumenti e privata del nocchiero potesse naufragare allo scatenarsi di così grandi marosi. Il violento Noto per tre notti tempestose mi trascinò sull'acqua per gli immensi mari; appena al sorgere della quarta alba scorsi l'Italia sollevato sulla cima di un'onda, lentamente m'avvicinavo a nuoto alla terra, già in salvo l'avevo raggiunta, se una gente crudele non mi avesse assalito col ferro e ignara non mi avesse giudicato una facile preda gravato com'ero dalla veste bagnata mentre cercavo di afferrare colle mani adunche le aspre sporgenze di una rupe. Ora mi tiene l'onda e mi rivoltano i venti sul lido. Perciò ti prego per lo splendore giocondo del cielo e per le brezze, per il genitore e per le speranze di Iulo che cresce, i invitto, strappami da questi mali; o ricoprimi di terra (e tu lo puoi ben fare) e cerca i porti di Velia, oppure, se c'è qualche modo, se la divina tua madre te ne mostra qualcuna, infatti non credo che ti prepari senza la volontà degli dei a traversare così grandi fiumi e la palude Stigia, porgi la destra a un infelice e conducimi con te sulle onde affinché almeno nella morte io possa riposare in una dimora tranquilla.
Aveva detto queste parole, quando la veggente gli rispose così:
- Da dove ti arriva, o Palinuro, un desiderio così empio? Insepolto tu vedrai le acque Stigie e il crudele fiume delle Eumenidi e raggiungerai la riva senza aver ricevuto l'ordine di Caronte? Smettila di sperare che i decreti degli dei si possano mutare pregando. Ma afferra riconoscente queste parole, conforto della tua dura sorte. Infatti, i popoli vicini, spinti in lungo e largo per le città da prodigi celesti cercheranno di placare le tue ossa e innalzeranno un tumulo e sulla tua tomba condurranno vittime sacre e il luogo avrà in eterno il nome di Palinuro.
Da queste parole vengono rimossi gli affanni e per un poco è scacciato il dolore dal triste cuore: si rallegra Palinuro per il nome dato alla terra.


due e.mail a proposito della contestazione fatta ieri alla Sapienza a Fausto Bertinotti, inviate a "segnalazioni" dai protagonisti

1) Per completezza vi segnalo il comunicato stampa emesso dopo le notizie trasmesse dai primi telegiornali:

*E' STATA UNA CONTESTAZIONE GIOIOSA E IRONICA*
*IL PROBLEMA E' LA GUERRA, NON UNO SLOGAN*

Oggi gli studenti e le studentesse hanno contestato il presidente della Camera Fausto Bertinotti in quanto esponente di una maggioranza che vota la guerra in Afghanistan e i tagli all´università mentre si aumentano le spese militari. Rifiutiamo il tentativo di svuotare di contenuti quanto è avvenuto oggi, spostando l´attenzione su uno slogan. Ridurre a questo la protesta è ridicolo, se non fosse un segnale preoccupante di come l´attuale governo si relaziona con le istanze dei movimenti. Non ci facciamo mettere all´angolo: il problema è la guerra e chi la vota, non chi la contesta. Ma quale violenza? E' stata una protesta gioiosa, ironica, dai contenuti forti che non ha impedito ad alcuno di prendere parola. Il nostro problema non è se Bertinotti è un "assassino" ma la dura realtà della guerra che stermina ogni giorno migliaia di vite. Di questo parliamo non di uno slogan!
Coordinamento dei Collettivi La Sapienza Rete per l'autoformazione

2) Non so quanto questo possa essere di interesse, ma mi sembra importante fare alcune precisazioni riguardo ai fatti di questa mattina alla Sapienza.

In primo luogo, il convegno a cui Bertinotti ha partecipato era organizzato da Comunione e Liberazione, un'organizzazione politica cattolica integralista.
Quelli che lo hanno accolto con un grande applauso al suo ingresso sono quelli che all'università parlano di disegno intelligente, contro l'aborto, contro i dico, di don Giussani e del Papa.
Come loro solito, non hanno firmato la loro iniziativa come "Comunione e Liberazione", ma genericamente come studenti. E' per questo che la stampa ha potuto tacere questo importante particolare.

Quelli che fuori lo contestavano erano il Coordinamento dei Collettivi e la Rete per l'autoformazione, due strutture diverse e non una sola come la stampa riporta. Due strutture che non si parlano molto in questo periodo, ma che prima hanno pensato e oggi hanno messo in atto insieme la contestazione.
Inoltre, c'era un discreto numero di studenti come me che non aderiscono né all'una né all'altra struttura.
Il Coordinamento dei Collettivi, tra l'altro, è un'organizzazione legata a Sinistra Critica: una corrente interna al PRC.

Oltre ai "buffone" e agli "assassini" (inteso come rivolto alle istituzioni che Bertinotti rappresenta in questo momento), gli studenti hanno cercato di comunicare con slogan e striscioni i motivi della loro contestazione: denunciare le contraddizioni dei partiti e delle istituzioni che parlano di non violenza e finanziano la guerra, che parlano di non violenza e tacciono sulla base di Vicenza, che parlano di non violenza e tacciano di violenti chi esprime il proprio dissenso.

Andando oltre i fatti: l'immagine di Bertinotti che attraversa scortato un pezzo di quel movimento che vorrebbe rappresentare, che entra in un aula affollata da un pezzo di quel macigno alla cui forza resistiamo e la scorta di Bertinotti che con i ciellini chiudono le porte impedendo a chi non ne fa parte di partecipare al convegno parla e urla più forte degli studenti. Di quegli studenti che urlavano per non stare in silenzio e che la non violenza che fa la guerra riscchia di uccidere, come altri che urlavano sono stati uccisi.

Appena Bertinotti è arrivato un mio compagno, che è uno del Coordinamento e che fino all'anno scorso aveva la tessera del PRC, gli si è avvicinato per dargli un volantino. Bertinotti l'ha preso e l'ha ringraziato, lui gli ha risposto ed ha sorriso. Bertinotti gli ha teso la mano, "non posso" ha risposto lui.
Michael Vu




Repubblica 27.3.07
LA PRIMA VOLTA DI FAUSTO
di MIRIAM MAFAI

Non erano più di una cinquantina, pare, i giovani e le ragazze che ieri mattina all´Università di Roma hanno accolto con insulti e cartelli di protesta il presidente della Camera Fausto Bertinotti, che si avviava a partecipare a un convegno di Comunione e Liberazione. Non più di una cinquantina e tuttavia l´episodio non può essere sottovalutato né liquidato come qualcuno ha fatto alla stregua di esempio di maleducazione politica o «analfabetismo istituzionale». Le grida e le proteste dei giovani e delle ragazze presenti sulla scalinata dell´Università (un luogo che ha visto nel corso degli anni ben più corpose e in qualche caso drammatiche contestazioni) portano infatti alla luce un disagio presente non solo e non tanto nelle stesse file di Rifondazione Comunista, quanto in una parte forse minoritaria ma non trascurabile del movimento. O meglio dei movimenti che a suo tempo, nel nostro come in altri paesi, si sono mobilitati contro la guerra. Nel nome della pace «senza se e senza ma». Frange legate ai centri sociali più radicali e alle posizioni più estremiste.
Bertinotti le ha definite "schegge impazzite", ma la conversione della stessa Rifondazione Comunista ad una cultura istituzionale, responsabile e della «non violenza» è un dato molto recente. Non del tutto acquisito. Non del tutto metabolizzato. E al quale una parte almeno dei movimenti giovanili, alternativi, - vezzeggiati e corteggiati da Rifondazione fino al punto da portarne i leader in Parlamento - sono rimasti finora estranei. Se non ostili. Non è poi così lontano il tempo in cui anche esponenti di partiti oggi al governo partecipavano ai cortei con i quali si escludeva, sempre e comunque, il ricorso alla forza, in nome di una interpretazione per lo meno forzata e arbitraria dell´articolo 11 della nostra Costituzione. E, del resto, non è proprio in coerenza con quella cultura che alcuni senatori di Rifondazione hanno rifiutato, poche settimane fa, di votare le scelte di politica estera illustrate al Senato dal ministro D´Alema? Non è in coerenza con quella scelta e con quella linea che anche oggi il senatore Turigliatto ed altri con lui minacciano di non votare, in Senato, il decreto per il rifinanziamento delle nostre missioni militari all´estero?
C´è nel nostro paese una sinistra, minoritaria e marginale quanto si vuole, che resta tenacemente ferma sulle parole d´ordine che ne mobilitarono i sentimenti e le passioni non molto tempo fa. È una sinistra estrema, anti-istituzionale per definizione, nel cui arcipelago peraltro crescono anche posizioni violente. Rifondazione in passato ha cercato di "cavalcare la tigre" ma ormai si è solidificata una cultura alternativa che entra in contraddizione con le scelte politiche di una forza di governo.
Spetta inevitabilmente alla sinistra, a quella che per molti anni è stata vicina a tutti i movimenti, alimentandone anche le speranze più generose e infantili, il compito di conquistare - dove è ancora possibile - a una visione più realistica della politica quelle passioni e quelle coscienze: ma senza civettare con le posizioni più radicali, evitando ogni ambiguità e affermando le proprie idee con la dovuta chiarezza. Il corto circuito tra movimenti e le scelte politiche di governo di cui ieri, all´Università di Roma abbiamo avuto un primo esempio può essere un´occasione importante per Rifondazione Comunista per affrancarsi definitivamente da quelle "schegge impazzite" che possono forse portare qualche voto ma sono politicamente pericolose.

Repubblica 27.3.07
Lo specchio rotto del subcomandante
di FILIPPO CECCARELLI

Una vita in piazza e poi, a Montecitorio, la missione impossibile: fare il rivoluzionario nelle istituzioni
Dall´arcobaleno al Palazzo e Fausto ora deve pagare pegno
Dieci mesi di messaggi generosi e contraddittori, di lotta e di governo

Gli hanno gridato: «Assassino» e «Buffone». E subito c´è da dire che sul primo insulto il presidente della Camera ha mantenuto, sia a caldo che a freddo, un ammirevole fair-play. Anche pensare a Bertinotti come a un «guerrafondaio», del resto, improperio di rinforzo pure volato ieri fuori dall´aula universitaria, appare la più palese delle assurdità; e infatti nel torrente di dichiarazioni solidali, non c´è voce che abbia omesso di ricordare la scelta non-violenta dell´ex leader di Rifondazione, la svolta culturale gandhiana da lui impressa e via discorrendo. Ma quel «buffone»? Ecco, qui la faccenda un po´ si complica.
E non tanto perché l´oltraggio - lo stesso peraltro riservato a Berlusconi nei corridoi del tribunale di Milano - fuoriesce decisamente dai tradizionali confini della politica. O perché da ben altre fantasmagoriche insolenze fu accolto Luciano Lama, trent´anni orsono, in quella stessa università. No. E´ l´effetto di quel povero e fatidico insulto che fa la differenza. Per cui di colpo Bertinotti è trasalito, consegnando alla cronaca uno scatto molto meno banale di quanto possa apparire: «Buffone? Buffone sei tu se dici così» ha risposto a uno dei tanti che gli si agitavano attorno. E poi, attenzione qui: «Chiedetemi scusa». Voi a me.
C´è parecchio di Bertinotti, oggi, in questa frase. C´è il consueto garbo e c´è una comprensibile sorpresa; ma soprattutto c´è o pare di cogliere in lui qualcosa che un tempo non c´era. Il senso di un potere lesionato; di una maestà improvvisamente offesa. Aspettarsi delle scuse, chiederle, al limite pretenderle, è umano e forse perfino educato. La cortesia e perfino l´eleganza del personaggio sono note e riscuotono ammirazione in tutti, dal cardinal Ruini a Valeria Marini, dall´intera Casa Savoia al cantante Zucchero. Eppure, stavolta, ripreso dopo la burina universitaria nella cornice super-istituzionale del Tg1, il presidente della Camera è apparso, più che ferito o amareggiato sul piano politico, decisamente seccato per quella violazione al suo status personale, al suo rango presidenziale, alle sue prerogative di comprimario, in qualche modo, della Repubblica.
Così ha finito anche lui per mettere in campo, il Sub-Comandante Fausto, il classico argomento che usano tutti gli alttri potenti in questi casi: i contestori erano pochissimi; e gli altri, dentro, mi hanno applaudito assai. Vero. Pure vero (ma questo non l´ha detto così) che le proteste erano abbastanza semplificate, per non dire grossolane. Ma da uno che ha appena pubblicato, con Mondadori, un libro dall´impegnativo titolo «La città degli uomini», e altrettanto pensosamente impervio suona il sottotitolo «Cinque riflessioni in un mondo che cambia», beh, ecco, magari una sesta riflessione sul possibile valore simbolico dei fischi e delle offese, per un´eventuale ristampa la si potrebbe pure prendere in considerazione.
Perché il Tractatus meta-agostiniano di Bertinotti sarà anche uno schianto, il capolavoro che mancava, e infatti già è stato presentato da Fazio e domani lo sarà in mille altri salotti d´eccellenza, ma la masnada di ieri, che non l´ha letto, per certo gli ha gridato: «E´ comoda la poltrona, eh?». E con tutto che quei quattro gatti di estremisti, magari violenti, non fanno scuola né tantomeno opinione, forse è bene ricordare che quella domandina impertinente gira da un bel po´ nella testa di parecchi. E così, a proposito: nel giugno scorso, quando il presidente della Camera pensò di limitare i danni assistendo a una parata militare con la spilletta pacifista appuntata al bavero, saltò su a dire un fior d´intellettuale, per giunta d´area rifondarola, Massimiliano Fuksas: «Come è noto, il potere rende stupidi dopo cinque minuti».
Anche questo assioma, in realtà, è discutibile. Tutt´altro che sciocco, né molto più esibizionista di tanti altri politici di questo tempo, nel maggio scorso Bertinotti ha avuto almeno l´onestà di partecipare a un pubblico incontro su «Narcisismo e leadership». Qui ha ammesso di essere narcisista, un pochino, pur rigettando con energia il concetto della vanità.
Il punto è che né l´amore per se stesso né il sopraggiunto benessere di Palazzo; né l´eroico passato sindacale né l´autocelebrazione libresca; tanto meno le frequenti ospitate televisive, le scorribande mondane, i viaggi rivoluzionari e quel curioso e vagamente comico turismo spirituale che prima o poi, finalmente, lo porterà sul Monte Athos con adepti e collaboratori, insomma, nulla di tutto questo aiuta oggi Fausto Bertinotti a svolgere bene il suo compito. Né a dargli un ruolo, che resta difficile, anzi ancora più difficile per il semplice fatto che parecchi dalla sua stessa parte, nel suo stesso popolo, pensano che lui sia cambiato. Che si sia messo comodo. Che abbia ceduto alle tentazioni e alle comodità del potere. E quindi un po´ si sentono anche traditi. E allora taglia ch´è rosso: «Assassino», «Guerrafondaio», «Buffone», nelle forme più rozze e primitive. Mentre in quelle più perfide e sofisticate Bertinotti resta: «Una bella orchidea di regime», copyright di Marco Pannella.
Forse è l´inevitabile destino che tocca agli ex rivoluzionari. A prescindere, evidentemente, dagli indubbi sforzi culturali che hanno portato Bertinotti a togliere da Rifondazione quella coltre polverosa, vetero-marxista, burocratica; e anche a costo di oscurare gli obiettivi meriti, il primo dei quali è di aver condotto il partito in contatto con i movimenti e le realtà scomode, ma vitali.
Viene piuttosto da chiedersi se lo sapesse in anticipo, Berlusconi, quando fece capolino nella stanza di Montecitorio dove a pochi minuti dal voto amici e familiari stavano festeggiando il nuovo presidente della Camera: «Adesso dovete applaudire il nonno» disse allora il Cavaliere, rivolto ai nipotini. Quindi attaccò con il tifo per il Milan, che lo unisce alla gente più varia, e brindò pure lui. Anche questo, dopo tutto, poteva essere un buon segnale.
Sono passati ormai dieci mesi da quel giorno: e chi potrebbe, con un briciolo di cuore, sostenere che la dignità del Parlamento e in particolare della Camera è cresciuta? E chi mai si azzarderebbe anche solo a pensare che di questo passo le distanze tra le istituzioni rappresentative e l´elettorato vanno colmandosi? A febbraio, poco prima che partisse la manifestazione contro il raddoppio della base militare americana di Vicenza, Bertinotti ha trovato il modo di far sapere che gli dispiaceva di non esserci. Che con lo spirito sarebbe stato lì. Ma anche quel «vorrei ma non posso» ha finito per scontentare un po´ tutti, come l´astuta spilletta arcobaleno. Quelli che volevano che stesse zitto, e quegli altri che invece lo consideravano un atteggiamento da pesce in barile.
Generosi e contraddittori, nel frattempo, seguitano a distillarsi i messaggi del bertinottismo di lotta e di governo, di strada e di Palazzo, di «noi» e di «ego». Preti e trans-gender, fervore e soddisfazione, vacanze in Bretagna con aereo di servizio e sale di meditazione interconfessionale. Il cielo e la terra, in definitiva, ma soprattutto quello che riesce a entrarci, possibilmente senza fischi né improperi.

Repubblica 27.3.07
Bertinotti contestato per l'Afghanistan
Un gruppo di studenti: assassino. E lui: schegge di antipolitica
di CARMELO LOPAPA

Cartelli e slogan all´arrivo alla Sapienza. Poi applausi nell´aula magna
Il presidente della Camera era ospite di un convegno organizzato da Cl
Botta e risposta con un manifestante. "Buffone". "Buffone sei tu, chiedimi scusa"

ROMA - «As-sas-sino, as-sas-sino». Fausto Bertinotti è appena sceso dalla blindata, la quindicina tra guardie del corpo e agenti della Digos lo circonda, ai piedi della scalinata della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma. Sono le 11 del mattino e al presidente della Camera - venuto per partecipare all´incontro organizzato dall´Asvi, una ong legata a Comunione e liberazione - basta dare un´occhiata in alto per capire che la contestazione organizzata da una cinquantina di studenti è ben più aspra di quanto la Questura avesse preannunciato al suo staff. «Bertinotti? No, thanks», si legge sullo striscione più grande. E sugli altri: «Berti-not in my name. Basta guerre, basta basi», o «Fausto, da Kabul a Vicenza, ma ‘ndo sta la non violenza?», o «Dal comunismo alla Comunion», o ancora «8/3/07 la Camera vota la guerra in Afghanistan, giorno in-Fausto». Sono una cinquantina, studenti appartenenti soprattutto a due diverse organizzazioni universitarie, la «Rete per l´autoformazione» e il «Coordinamento dei collettivi» universitari.
«Andiamo comunque, non si può andare solo dove ci applaudono», dice il presidente ai collaboratori, dopo essere stato informato di quel che lo attende. Chiede alla scorta di non aprirgli con maniere brusche un corridoio tra la folla. Sobrietà, dispone, come sempre. «Assassino», gli urlano a muso duro reggendo cartelli e striscioni e circondandolo. «Vergogna», «è comoda la poltrona?», «guerrafondaio», «buffone», non appena Bertinotti mette piede in facoltà e fino all´ingresso dell´aula magna. Al «buffone» l´ex leader del Prc si inalbera, sarà l´unico momento: «Questa non è democrazia. Buffone sei tu, se dici così. Chiedetemi scusa». Macché. La polizia riuscirà a fatica a impedire l´ingresso dei movimentisti nell´aula. Dentro, un´ora di assemblea in cui Bertinotti strapperà applausi a più riprese dagli studenti, molti dei quali vicini a Cl. Nel frattempo, i contestatori si riuniscono a porte chiuse nella vicina aula autogestita al piano terra. Per dirsi che «la contestazione è perfettamente riuscita» e per decidere di respingere l´offerta di dialogo avanzata dal presidente della Camera. E sì, perché su richiesta di Bertinotti vertici della Questura sono andati a proporre ai movimentisti un confronto. Invano. «Ha tentato di inaugurare la contestazione partecipata. Nessuna mediazione è possibile - si leggerà nel documento diramato poco dopo dal «Coordinamento» e dalla «Rete per l´autoformazione» - Le uniche risposte che può darci sono politiche». E giù con le rivendicazioni, dal «ritiro delle truppe dall´Afghanistan» alla «abrogazione della legge Moratti e della legge 30». Francesco, Scienze politiche: «Ce l´abbiamo con lui perché ha strumentalizzato i movimenti. E poi mette piede dopo anni alla Sapienza per far cosa? Per partecipare a un incontro con Cl». Giorgio, facoltà di Fisica: «Era il politico della non violenza. Ha tradito». Laura, Scienze della comunicazione: «Sulla guerra sono in continuità con Berlusconi».
L´operazione per loro è stata un successo, non lo attenderanno all´uscita. Bertinotti invece sì, ha voglia di replicare, davanti a microfoni e taccuini. Citando Mao: «La politica non è un pranzo di gala. Ma questa di oggi è un´area estrema della sinistra che rifiuta la politica, che contesta la non violenza». Concetto che ribadirà in serata, intervistato dal Tg1: «L´episodio dimostra che per la sinistra non c´è solo il terreno della lotta culturale contro il moderatismo, ma anche contro quelle schegge dell´estrema sinistra che rifiutano la politica e la non violenza». Nulla a che fare comunque con la contestazione del ´77 alla Sapienza, di cui fu bersaglio Luciano Lama, leader Cgil: «Questo era un gruppo di una cinquantina, sparuto, isolato. Allora fu un fenomeno di massa dallo sviluppo drammatico». Solidarietà da tutto il centrosinistra, a cominciare dal premier Prodi, per il quale «sono legittime espressioni di pochi, ma non sono il polso del paese». Ma anche da Casini e Maroni. Gli unici distinguo da Turigliatto, espulso dal Prc («La contestazione è il sale della politica») e da Cannavò di Sinistra critica: «È segno che sulla guerra c´è un problema».

Corriere della Sera 27.3.07
L'ex portavoce, conduttrice di «Otto e mezzo»: il '77? Oggi come allora il governo ci divide e c'è una parte che mugugna
di Aldo Cazzullo

Rifondazione e i primi fischi da sinistra «Come osano? Fausto uomo di pace»
La difesa delle «sue» donne Gagliardi e Armeni: colpito a freddo solo per andare in tv

ROMA — Il contestatore contestato. Da «estremisti di sinistra», come li definisce lui stesso, che giocano a evocare («I Lama in Afghanistan» dicono i cartelli) gli autonomi che trent'anni fa sancirono una rottura a sinistra, cacciando da questa stessa università di Roma uno dei leader storici del comunismo italiano, il segretario della Cgil.
Un parallelo ovviamente impossibile. E non solo perché Bertinotti non è più sindacalista Cgil da tempo, e il suo posto di oggi è quello che trent'anni fa aveva il suo punto di riferimento, Pietro Ingrao. Forse, al di là delle suggestioni storiche — ora come nel '77 si consuma una rottura tra un movimento che non si riconosce nelle scelte della sinistra istituzionale —, la contestazione di ieri va inserita nel contesto biografico di Fausto Bertinotti. Che nella sua vita sindacale e politica è stato più volte contestato, ma per aver rifiutato un accordo o per aver rotto con Prodi; contestazioni «da destra». La contestazione «da sinistra», sia pure porta con un'arroganza che ha suscitato in lui incredulità più che fastidio, è una novità che segna, se non un passaggio di barricata, la difficoltà di conciliare il nuovo ruolo con la sua antica storia.
Così, dopo la contestazione, e prima dell'intervista al Tg1, Bertinotti ha riunito i collaboratori più stretti. Un appuntamento già preso, per discutere il progetto di una nuova rivista, è diventato l'occasione per un confronto. In cui tutti si sono stretti a difesa del leader. Soprattutto le «sue» donne, le giornaliste a lui più vicine, Rina Gagliardi, editorialista di Liberazione, e Ritanna Armeni, la conduttrice di Otto e mezzo che è stata a lungo sua portavoce.
«Sono indignata. Anzi, diciamolo: sono incazzata — dice la Gagliardi —. Ma chi sono questi? Come si permettono di insultare un uomo di pace come Fausto, di urlare in faccia a uno che si è battuto tutta la vita per i deboli e i lavoratori? Chi sono? Sono dei violenti che non rappresentano nessuno tranne se stessi. Chi li conosceva prima? Chi aveva mai sentito parlare del gruppo Kombinat, o Rekombinat, o come si chiamano? Non è stata una contestazione spontanea. È stata un'operazione orchestrata. Molto pensata. A freddo. Una trappola mediatica. I precedenti non mancano: è successo con Pansa, con Prodi; bastano poche decine di facinorosi che fischiano e urlano per finire nei titoli di testa del telegiornale. Un circuito perverso».
La Gagliardi non si nasconde che Bertinotti deve però fronteggiare un problema politico. Lei stessa ha combattuto in due editoriali un duello con Marco Revelli, molto critico della stagione politica che vede Rifondazione al governo e il suo leader alla presidenza di Montecitorio. «È ovvio che la posizione ambiziosa di Rifondazione può essere criticata da sinistra. Una parte, secondo me piccola, è in dissenso non tanto con la nostra linea politica, ma con la politica in se stessa; per loro, ogni compromesso è sbagliato per il semplice fatto che è un compromesso. Ma quanto accaduto all'università di Roma non c'entra niente con le dinamiche dei movimenti. Non è la spia di nulla che ci riguardi. Mi rifiuto di pensare che ci siano pezzi del movimento per la pace che considerino giusto trattare Bertinotti in quel modo. Questi sono segni di un estremismo sciocco che è sempre esistito ed esiste ancora. E non farei paragoni con il Settantasette. Io sono sempre stata critica sia con Lama e il Pci, che tentò di riprendere il controllo del movimento, sia con gli autonomi. Quella fu una vera rottura storica. Oggi vedo solo un gruppo di violenti. Fausto è consapevole che la sua biografia lo espone, in questa fase, al rischio della contestazione. Se lo aspetta, è sempre disponibile al confronto, anche oggi si è offerto di incontrare una delegazione dei suoi oppositori; ma quelli non hanno voluto». Ciò non toglie che Bertinotti ne abbia sofferto. Lui che da sinistra ha contestato tutti: la segreteria del Psi, al punto da lasciare il partito della giovinezza; la segreteria della Cgil, dove capeggiava l'opposizione interna; la segreteria del Pds, abbandonato per Rifondazione; e poi l'ala «destra» del suo partito, che sotto la guida di Cossutta scelse di andarsene. «Fu allora che Fausto si trovò a fronteggiare una contestazione dura, anche personale. Ma era la sinistra governativa che gli rimproverava la rottura con Prodi — racconta Ritanna Armeni —. Me lo ricordo bene, quel momento. Gli piovve addosso di tutto: i tg, Nanni Moretti, la Ferilli; per anni alle feste dell'Unità abbiamo avuto un'accoglienza freddina. Ora Fausto è accusato all'opposto di essere troppo governativo...».
Premesso che il confronto con il Settantasette è improprio, la Armeni coglie un'analogia: «Allora come oggi, la questione del governo tende a dividerci. Da una parte chi considera gli uomini di sinistra che diventano ministri o rappresentanti delle istituzioni come traditori; dall'altra chi vede la nuova esperienza come il modo più efficace per affrontare le istanze sociali. Le condizioni sono molto cambiate in questi trent'anni: allora c'era un grande partito comunista che perseguiva la solidarietà nazionale e veniva contrastato da un grande movimento di massa; e il Pci entrò all'università con i suoi fabbri che scardinarono i cancelli e con il "Dodge", il camion rosso dei grandi cortei romani. L'episodio di oggi è una cosa piccola, e fatta a freddo. Ma il messaggio lanciato dai fischi della Sapienza corrisponde a un'idea presente in una parte della sinistra. Il mugugno, lo scontento esistono. Sintomi diversi della stessa malattia».

Repubblica 27.3.07
Frank Gehry
La mia casa di vetro piena zeppa di fantasmi
Un film di Sydney Pollack sull'architetto
di FRANCESCO ERBANI


Sarà presentato oggi a Roma il documentario sul "creatore di sogni che ha firmato il Guggenheim di Bilbao
Fra i protagonisti della pellicola, Julian Schnabel, Dennis Hopper, Thomas Krens e Bob Geldof

Los Angeles, una giornata luminosa. La casa è circondata da un giardino con alte piante grasse. Dice Frank Gehry: «Quando la comprammo capii che avrei dovuto fare qualcosa prima di traslocarci. E mi affezionai subito all´idea di lasciarla intatta, di non manometterla. Era intorno alla vecchia costruzione che avrei realizzato il nuovo edificio». Ora intorno a quella casa c´è un grande involucro di vetro, lo spazio è quasi raddoppiato. «Ci dissero che c´erano i fantasmi. Di notte i vetri, non essendo ortogonali, danno vita a un gioco di specchi. Così, stando seduti qui, si vedono passare le macchine. Si vede la luna nel posto sbagliato. Magari è là, ma si riflette qui. E non capisci più dove sei».
Nasce così la casa di un architetto. Un architetto cubista, che «sa vivere l´istante». «Io vorrei saperlo fare», spiega Dennis Hopper, l´attore di Easy Rider, ora anche pittore, «lui lo fa creativamente. Coglie al volo un´idea, capisce quello che vogliono e pensano i suoi interlocutori e in un attimo inizia a creare». Frank Gehry, l´inventore del Guggenheim di Bilbao, si racconta in un film di Sydney Pollack (Frank Gehry creatore di sogni) che uscirà nelle sale venerdì, ma che stasera viene presentato alla Casa dell´Architettura di Roma, a cura della Bim distribuzione. Pollack è il regista di La vita corre sul filo e di Tootsie, e quando Gehry gli disse: «Vorrei che fossi tu a dirigere questo lavoro», gli rispose che non aveva mai fatto un documentario e che non sapeva nulla di architettura. «Per questo sei perfetto», replicò l´architetto.
Gehry è ritratto al lavoro, mentre appallottola un cartoncino argentato insoddisfatto da una parete che scende giù lineare, mentre si arrampica su un ponteggio. Di lui parlano l´architetto Philip Johnson e il pittore Julian Schnabel, imbacuccato in un accappatoio bianco, in mano un bicchiere di whisky, Thomas Krens, il direttore della Fondazione Guggenheim, Milton Wexler, lo psicanalista che lo aveva in cura, morto alcuni giorni fa, il musicista Bob Geldof.
Da giovane, Gehry - il cui vero nome è Goldberg, ebreo, nato in Canada nel 1929 e poi trasferito in California - faceva il camionista, poi si iscrisse ad architettura, ma venne bocciato all´esame di prospettiva. Un professore lo invitò a cambiare facoltà. «Ma io archiviai l´incidente come persecuzione antisemita». La sua carriera inizia negli atelier degli artisti, più che negli studi con i suoi colleghi - e in fondo la linea retta, l´angolo retto gli resteranno antipatici per sempre: per qualcuno la sua forza è nello scarto dalla norma, per altri le sue predilezioni formali lo vincolano troppo a una gamma preconcetta di effetti stupefacenti. «Certi miei colleghi hanno una concezione tetragona dell´architettura», dice Gehry, «può essere solo X. Non X meno qualcosa o X più qualcosa. X e basta, solo norme e costrizioni. Se ti azzardi a fare così per loro non è più architettura. L´innovazione viene avvertita come una minaccia. Ma una volta che hai saltato il fosso non ti puoi più fermare».
La sua passione è il modo in cui la luce si rifrange. Racconta Charles Jencks, anche lui architetto: «È interessante come ha finito casa sua. Un giorno è salito in bagno per radersi, ma non c´era abbastanza luce. Allora ha preso un martello ed ha aperto un´asola nel tetto, verso il sole californiano. Poi si è fatto la barba». Mentre costruiva la sua casa, contemporaneamente portava a termine un mastodontico centro commerciale. Invitò a cena il proprietario che dentro quel prisma irregolare di vetro strabuzzò i suoi occhi da magnate: «Che diavolo ha fatto?», gli chiese. «Be´ per casa mia mi sono divertito a sperimentare un po´». «Ma se le piace questo, non può piacerle quello»: e punta il dito verso il centro commerciale. E Gehry: «Ha ragione, non mi piace». «E perché l´ha fatto?». «Per guadagnarmi da vivere». «Fa male. Dovrebbe smettere». «Ha ragione». E così, nonostante a quel cantiere lavorassero una cinquantina di persone, Gehry decise di fermare tutto.
Wexler, lo psicanalista, racconta di quando si presentò da lui. Si sentiva alla bancarotta e incapace di far accettare ai clienti le cose che faceva. Lo misero in un gruppo di quindici pazienti, ma per due anni non disse una parola, finché qualcuno non sbottò: «Basta con quest´aria sprezzante». Fu come togliere il tappo, confessa ora Gehry.
Nel film sfilano i progetti, il palazzo del ghiaccio e la Concert Hall della Disney, le tante case californiane, fino al Guggenheim di Bilbao. Domanda Pollack: «Quella sensualità da dove ti viene?». «Semplice evoluzione. Cercavo il modo di esprimere emozioni in oggetti tridimensionali. La cattedrale di Chartres, quando entri, ti obbliga a inginocchiarti». A Schnabel il museo della città basca ricorda la maestosità egizia di Luxor. A qualcun altro fa pensare a un oggetto piovuto dallo spazio cent´anni fa. Una giornalista spagnola rievoca l´orgoglio collettivo di una comunità cittadina - gli abitanti di Bilbao - che pareva morta e che ora è rinata, anche per quel museo. Dissente lo storico dell´arte Al Foster: «Gehry ha sfruttato misure ipertrofiche per azzerare il resto con un edificio che di per sé è un´opera da ammirare. Talvolta penso che Frank si sia speso troppo in fretta, che abbia concesso troppo ai suoi committenti. Crea una sorta di oggetto sublime da cui l´osservatore si sente sopraffatto, ma che è un´immagine perfetta da far circolare tra i media e per il mondo come un marchio di fabbrica».
«Mio Dio cosa ho fatto!», esclamò Gehry quando vide il Guggenheim appena realizzato. Ma l´insicurezza è un gioco delle parti. «Non fatevi ingannare da quell´aria da tenente Colombo», avverte Thomas Krens, «impermeabile spiegazzato, andatura strascicata, basso profilo… Frank ha l´ego più smisurato della categoria. Lo so perché ne è consapevole anche lui».
Inquadrando bene la telecamera, Gehry pronuncia il suo dettato: «L´espressione architettonica è soggetta a regole e dovrebbe muoversi entro certi binari. Al diavolo! Non ha senso!». Qualcun altro, un giornalista del New York Times, prova a rendere più brutale questo concetto di libertà, con il vilipendio dell´architetto che non si fa notare, che si mescola. E compiendo l´apologia di quello che invece si fa notare, non si mescola, sostenendo che è a questo che serve l´architettura, che è così che dovrebbero evolversi le città. È l´elogio dell´archistar, di quelli che Leonardo Benevolo ha definito "i protagonisti impazienti", scultori, più che architetti, obbligati a riprodurre un certo manierismo individuale e debordanti verso la produzione virtuale.

l’Unità 27.3.07
Togliatti e il Concordato
I costi della pax religiosa
ANNIVERSARI Sessant’anni fa la scelta di votare l’articolo 7, con le polemiche e le conseguenze che ne derivarono. Fu una decisione non facile motivata dal pericolo di un assedio ideologico contro la repubblica e che ancora fa discutere
di Michele Prospero


Con 350 voti a favore e 149 contrari, sessant’anni fa venne approvato l’articolo 7 della costituzione. Il testo recepiva il vecchio concordato siglato dalla chiesa con il fascismo e accordava una successiva modifica, da attuarsi nell’accordo tra le parti, e senza le procedure aggravate della revisione costituzionale. Quel 24 marzo fece scalpore soprattutto l’apporto decisivo del Pci che si distaccò dalle altre forze laiche e socialiste. Nella mente di Togliatti maturò in extremis il cedimento sulla menzione esplicita nella carta dei patti del 1929, che egli stesso aveva definito «un triste amplesso di Pietro e Cesare». Solo il 19 marzo egli annunciò l’orientamento del Pci. Una decisione improvvisa senza dubbio. Ma pesò nella sua scelta anche una più lenta rivelazione dei caratteri triviali della società italiana emersa a tinte fosche dopo il 2 giugno. La lezione del referendum tormentava la sua coscienza di capo politico. Non ci fu una sola regione del sud in cui la repubblica vinse. La stella dei Savoia e l’altare del Vaticano rappresentavano un inquietante ostacolo contro la democrazia progressiva di oggi, così come in passato avevano osteggiato ogni timido vento liberale sulla penisola. Il popolino e i preti. Fantasmi grondanti di sangue che si aggiravano a Napoli e dintorni. Il viaggio oltreoceano di De Gasperi poi non lo aveva certo rassicurato. Il cerchio si stava stringendo attorno ai comunisti. Un tarlo opprimente, che alimentava il timore della marginalizzazione imminente, indusse Togliatti a una mossa imprevista che provocò qualche mugugno in illustri intellettuali come concetto Marchesi.
Il leader del Pci metteva in conto i costi reali di quell’operazione ma calcolava che maggiori sarebbero stati i vantaggi sperati. Tra i costi possibili c’era di sicuro quello paventato a suo tempo da Gramsci. E cioè che il concordato era un grave anacronismo entro uno Stato di diritto che doveva affidare la sfera religiosa al diritto comune e non ricorrere alla mediazione di accordi istituzionali tra enti sovrani coesistenti nello stesso territorio. Togliatti sapeva bene che i patti lateranensi assumevano quella cattolica come la autentica fede dei padri, come il fondamento di un’integrale unità spirituale del popolo. E quale religione vera, essa andava difesa contro le insidie di altre fedi, viste come rotture dell’armonia spirituale con il loro illecito proselitismo. Vantaggi patrimoniali, finanziari, giurisdizionali e simbolici andavano alla chiesa. Allo Stato poi toccavano poteri giurisdizionali d’ascendenza medievale come il controllo sulla nomina dei vescovi e il loro giuramento davanti al capo dello Stato. Il papa soddisfatto non esitò a definire il duce un uomo della provvidenza e a promuoverlo a vero capo della civiltà. Non ci fu Stato totalitario con il quale la chiesa non firmasse un benevolo concordato. Lo fece con Hitler, con Dollfuss, con Salazar, con Franco, con Horthy. La democrazia non rientrava tra le corde spirituali della chiesa. Queste cose Togliatti le sapeva, ma valutò che la via dell’accordo con una potenza estranea fosse tra i rospi da ingoiare. Per i suoi critici, l’ombra oppressiva del passato, più che un roseo progetto di futuro, si proiettava sul voto a favore dell’articolo 7.
Il concordato - come mise in luce Arturo Carlo Jemolo - fu un vero scambio indecente con uno Stato autoritario. Non senza traumi la costituzione lo recepì, affermando che quello della chiesa era da ritenersi un ordinamento giuridico originario. La chiesa fu proclamata come un ordine sovrano con il quale si poteva negoziare con gli arnesi del trattato internazionale. L’ordinamento costituzionale dello Stato venne di fatto minato nelle sue prerogative, anche se dinanzi a privati o ecclesiastici che agiscono in conformità dei precetti del diritto ecclesiastico. Ma violando le norme dell’ordinamento statale, era sempre quest’ultimo che prevaleva. È sempre la sovrana discrezionalità dello Stato a consentire deroghe, a circoscrivere gli spazi della libertas ecclesiae catholicae, ad assegnare competenze al diritto canonico. Lo spazio della chiesa si estende solo ove lo Stato rinuncia a intervenire. Lo stesso concordato a rigori non è la sola via legittima per regolare la materia. Se salta il principio dello stare pactis, è sempre ipotizzabile, ma è molto costosa, la sua modificazione unilaterale secondo l’articolo 138. Questa soluzione però aprirebbe tante frizioni in merito alla violata soggettività internazionale del Vaticano. Per questo nelle modifiche del 1984 è stata seguita la via dell’intesa reciproca. Essenziale è risultato comunque il lavoro della Corte costituzionale che ha sempre più precisato gli spazi dei diritti soggettivi, la protezione giuridica alle altre fedi e agli atei.
L’articolo 7 ha rallentato il cammino dei diritti individuali ma non ha impedito alla fine l’avvicinamento dell’Italia ai requisiti del moderno Stato costituzionale laico. Questo anche perché nel ’47 non passarono le velleità delle destre, cattolica e monarchica, che si proclamavano defensores fidei e pretendevano il recupero della dizione di religione di Stato già contenuta nello statuto albertino. Questo scempio dei diritti fondamentali almeno fu impedito. E il principio concordatario fu chiamato a coesistere con i valori della libertà religiosa che si intendevano perseguire in una cornice ispirata alla coerente laicità. Una frizione esplodeva tra le norme di derivazione pattizia, sovente dal contenuto particolaristico e utilitaristico, e l’eguaglianza e la libertà visti come valori e principi supremi della carta. Il concordato è ancora oggi una lima confessionale sorda che si insinua nell’ordinamento costituzionale e lo corrode lentamente introducendo status differenziati nella cittadinanza? Secondo i suoi critici il principio supremo di laicità e libertà è chiamato a convivere con un criterio regolativo di segno del tutto opposto: l’autorità e il privilegio.
Quel voto imprevisto di sessant’anni fa non garantì al Pci di restare al governo, evitò forse altre lacerazioni che avrebbero insidiato il faticoso lavoro di redazione della costituzione. Il problema storico dell’alienazione politica dei cattolici consigliò alterazioni tutt’altro che modiche nel catalogo delle libertà fondamentali pur di portare comunque avanti la conquista più significativa, la costituzione repubblicana come frutto della sintesi di grandi culture politiche. Agli inizi il percorso fu tutt’altro che agevole. Non mancarono sollecitazioni a definire uno Stato confessionale che accordava alla chiesa privilegi e contraeva la libertà dei soggetti. Va detto che nei primi anni della repubblica, il diligente lavoro di supporto dei giudici, che marciavano con un’etica confessionale più che con un senso del diritto positivo, non si fece attendere. Nell’affidamento della prole, il genitore timorato di Dio era sempre preferito al coniuge ateo, anche se irreprensibile. Solo la scure della corte costituzionale sanò con il tempo alcune manifestazioni di pacchiana intolleranza alla luce della corretta interpretazione della carta del ’48, che sancì nell’articolo 8 il diritto di libertà religiosa. Secondo l’alta corte, in un coerente Stato costituzionale, i diritti fondamentali della persona non possono essere condizionati da considerazioni relative alla consistenza numerica delle confessioni. Neanche possono essere tollerati vantaggi (fiscali, militari, scolastici, mediatici) che si risolvono di fatto in una sensazione di discriminazione in chi ne è escluso.
Se la pace religiosa era l’obiettivo politico contingente del cedimento comunista, il voto favorevole all’articolo 7 non sembrava però averla avvicinata. Madonne pellegrine, comitati civici e scomuniche da parte del Sant’Uffizio ci furono ugualmente. Il voto del 24 marzo non riuscì a bloccarle. Microfoni di Dio lanciavano anatemi terribili. Il sostegno all’articolo 7 non bastò a dissuaderli. E oltre Tevere si disegnavano operazioni Sturzo per mettere insieme cattolici e destra radicale. De Gasperi ebbe il suo da fare per garantirsi un margine di manovra laico e autonomo dalla chiesa. Il cuore del clero in certi frangenti batteva per la Spagna del caudillo. Era lì che la religione aveva trovato spazio immenso nel diritto pubblico. Modesti nell’immediato furono dunque gli effetti politici del voto comunista. Più consistenti si rilevarono purtroppo i colpi inferti al principio di eguaglianza e di libertà religiosa. Per definizione i diritti fondamentali sono espansivi, il godimento di essi cioè non comporta l’esclusione di altri. In virtù del concordato, avviene proprio il contrario. La fruizione di taluni vantaggi giuridici da parte di alcuni soggetti ha effetti negativi sulla sfera della libertà degli altri.
La chiesa anche oggi torna a reclamare, oltre ai diritti pubblici soggettivi già garantiti dalla costituzione, il riconoscimento del carattere pubblico e non solo privato della fede. Ma è questa una proposta che spezza la coerenza di uno Stato costituzionale. La chiesa non può essere assimilata alle cosiddette società intermedie perché il suo compito non è quello di gettare un ponte di collegamento tra il singolo e lo Stato, e le finalità che in piena autonomia organizzativa persegue non sono coincidenti con quelle pubbliche dello Stato. Il fulcro dei diritti in uno Stato costituzionale sono gli individui, non le comunità. Dove il carattere pubblico della fede persiste troppo a lungo, ad esempio in alcune norme del codice penale che parlano di «religione dello Stato», si determinano odiose discriminazioni in nome della protezione della religione di maggioranza. Un diritto penale senza distinzioni di religione per certi versi è ancora un obiettivo da raggiungere. Senza far valere una laicità positiva ed inclusiva però si differenzia lo status delle persone e si viola nel profondo il valore indisponibile dell’eguaglianza.
Secondo la Corte costituzionale è ormai appurata l’irrilevanza assoluta del criterio quantitativo per la valutazione delle fedi. Per alcuni tribunali invece i simboli della religione maggioritaria sono dei non-simboli perché non sono momenti d’identificazione di una parte ma valgono per tutti a prescindere dalla loro provenienza e delimitano l’identità culturale del popolo. Dei simboli cattolici come «identità del nostro popolo» parla il parere del consiglio di Stato, che presenta la costituzione come un posteriore riconoscimento di valori (libertà, eguaglianza, tolleranza) propri, già in origine, della religione. La costituzione insomma non istituisce i diritti di libertà, li eredita dalla fede. Anche la chiesa rigetta sempre con più insistenza un ordinamento secolarizzato che non postula il connotato pubblico della fede e torna a parlare di diritti di natura, di verità eterne superiori al diritto positivo e a postulare persino l’obbligo politico dei deputati di attenersi alle disposizioni etiche del clero. Le richieste di un diritto pubblico vigilato dalla chiesa svelano che quello della laicità e delle libertà moderne è un discorso che non è stato chiuso il 24 marzo di sessanta anni fa.

Corriere della Sera 27.3.07
Quattro membri della segreteria del sindacato votano la mozione del ministro. Epifani non si schiera
E Mussi ha conquistato mezzo vertice della Cgil
di Enrico Marro


ROMA — Gli scossoni che hanno colpito i Ds in vista del congresso del 19-21 aprile a Firenze stanno investendo con intensità la Cgil. Mezzo gruppo dirigente del più grande sindacato italiano ha scelto la mozione di Fabio Mussi «A sinistra». Si identifica cioè con quel pezzo dei Ds, capeggiato oltre che dal ministro dell'Università anche da Cesare Salvi, Fulvia Bandoli e Valdo Spini, che si oppone al matrimonio con la Margherita e alla nascita del «partito democratico». Mussi riunirà i suoi giovedì a Roma per decidere, tra l'altro, se partecipare al congresso di Firenze o se uscire prima dal partito di Fassino e D'Alema, per aprire subito un dialogo con Rifondazione comunista e/o con i socialisti di Enrico Boselli alla ricerca di un nuovo soggetto politico. Tra i cinque promotori della mozione Mussi c'è un personaggio di spicco della segreteria Cgil, Paolo Nerozzi. Ma anche altri 3 segretari confederali l'appoggiano: Fulvio Fammoni, Morena Piccinini (che ha la delicata delega sulle pensioni) e Carla Cantone, responsabile dell'organizzazione.
La segreteria Cgil risulta così spaccata a metà, perché ai quattro «mussiani» si contrappongono i quattro che sostengono la mozione Fassino per il partito democratico: Mauro Guzzonato, Achille Passoni, Nicoletta Rocchi e Marigia Maulucci (benché non più iscritta ai Ds). C'è poi Paola Agnello Modica, vicina alla sinistra radicale, ma senza partito (uscì da Rifondazione quando ci fu la scissione del Pdci). Resta infine il più importante, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, diessino, ex socialista. Epifani ha scelto di non schierarsi con alcuna mozione (fece così anche due anni fa quando la divisione era tra il «correntone» e i dalemiani). E così la bilancia resta in equilibrio.
Fuori dalla segreteria confederale i mussiani possono contare sull'appoggio di importanti segretari di categoria: Enrico Panini (scuola), Carlo Podda (pubblico impiego), Franco Chiriaco (agroalimentare), Betty Leone (pensionati). A questi bisogna aggiungere i leader di strutture regionali come la Lombardia (Susanna Camusso), il Lazio (Walter Schiavella), la Puglia (Domenico Pantaleo), il Molise (Italo Stellon). Di assoluto rilievo, infine, il sostegno a Mussi di Raffaele Minelli, presidente del direttivo della Cgil (il parlamentino di Corso Italia) e dell'Inca (il patronato della Cgil), nonché sindacalista vicinissimo ad Epifani.
In Cgil, insomma, l'opposizione al partito democratico è molto forte. Con motivazioni diverse. C'è una parte che ha scelto Mussi e Salvi perché è su posizioni intransigenti in materia di welfare e mercato del lavoro, più vicine a quelle di Rifondazione che a quelle di Fassino e D'Alema. È il caso per esempio di Podda, Panini e Chiriaco. Ma c'è anche una parte che non vuole il Pd perché lo vede come un nuovo compromesso storico tra ex comunisti ed ex democristiani che annullerebbe lo spazio politico della famiglia laico-socialista. Spiega così, per esempio, la sua scelta l'ex socialista Susanna Camusso. La conclusione è comunque questa: se finora il grosso della Cgil si è identificato con i Ds (e prima con il Pds e il Pci) non sarà così se nascerà il partito democratico. Si passerà da un punto di riferimento egemone a una pluralità di referenti.
La scomposizione dei Ds avviene mentre il sindacato si avvia a trattare col governo e le imprese sulle riforme per la competitività e lo Stato sociale. Le divisioni già presenti a sinistra sulle pensioni (da Fassino a Giordano, passando per Salvi) potrebbero inasprirsi se si dovesse arrivare a un'ipotesi di accordo lungo le linee tracciate da Romano Prodi (aumento dell'età pensionabile e taglio dei coefficienti) e se i mussiani dovessero uscire dai Ds e avvicinarsi a Rifondazione. E questo potrebbe agire da freno sulla disponibilità della Cgil all'accordo, oltre al freno già rappresentato dalla posizione intransigente dei metalmeccanici (Fiom) di Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Ma Nerozzi nega: «L'autonomia della Cgil dai partiti sta sopra ogni altra cosa. Noi condividiamo il documento unitario con Cisl e Uil e quanto votato dalla Cgil nel direttivo». Epifani, commentando l'inizio del negoziato con Prodi, ha detto: «Non sarà una passeggiata». Non lo sarà neppure nella Cgil.

Corriere della Sera 27.3.07
Dalle pozzanghere alle Piramidi Mai snobbare le «follie» dei filosofi
di Giulio Giorello


Talete speculava sia nel mondo delle idee, sia in quello degli affari
Sembrano oscuri, ma ci aiutano a cercare ciò che è vero, bello e giusto

Talete (VII-VI secolo a.C.) predisse un'eclissi e divenne uno dei Sette Savi, stando a quel che racconta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi. Ci si conquista fama imperitura guardando il cielo! Ma se si cammina troppo a testa in su, si può inciampare in un sasso e cadere, finendo col bere l'acqua di una pozzanghera, «destando le risa di una schiavetta tracia». Stiamo ancora parlando del Savio di Mileto: questa volta la fonte è Platone.
Eppure Talete non visse sempre con gli occhi rivolti agli astri o — se preferite — con la testa nelle nuvole, se è vero che, prevedendo con largo anticipo un abbondantissimo raccolto di olive, si sarebbe premurato di acquistare quasi tutti i frantoi della zona per affittarli a caro prezzo al momento opportuno. Quello che i manuali abitualmente considerano il primo dei filosofi era capace di «speculazione» non solo nel mondo delle idee, ma anche in quello degli affari. Inoltre, Talete era anche un provetto matematico. La tradizione vuole che, recatosi in Egitto, abbia sfruttato accortamente le sue conoscenze geometriche (come quel teorema detto appunto «di Talete» sulla similitudine dei triangoli per cui talvolta il nostro eroe viene maledetto dagli studenti della media superiore) per escogitare un elegante metodo indiretto per calcolare l'altezza delle piramidi, cosa per la quale fu generosamente ricompensato dal Sovrano — salvo seguire subito il consiglio di un cortigiano: «Prendi l'oro e vai via. I potenti non amano la geometria!». E, presumibilmente, nemmeno la filosofia, almeno quando va di pari passo con quel tipo di indagine spregiudicata che secoli dopo Talete abbiamo chiamato scienza. Dunque, non solo un liberista, ma addirittura un libertario!
Di aneddoti del genere se ne potrebbero raccontare molti altri, magari per sfatare l'immagine del filosofo come un tipo completamente avulso dalla realtà — anche se si narra del grande Plotino (III secolo d.C.) che era così assorto in sublimi meditazioni «da dimenticare perfino di avere un corpo». C'è stato invece chi ha solennemente dichiarato che l'uomo non è altro che ciò che mangia, come pretendeva nell'Ottocento Ludwig Feurbach, salvo essere poi tacciato di idealismo dal collega e rivale Karl Marx, il burbanzoso e capelluto rivoluzionario di Treviri, per il quale la filosofia doveva non «interpretare», bensì «cambiare il mondo». Come è noto, Marx non volle fare il capitalista alla Talete, ma gettò invece le basi (ovviamente teoriche) del comunismo moderno. E agli inizi del secolo scorso Lenin esortava i socialdemocratici russi con queste parole: «Compagni, bisogna sognare!». Stalin, Mao e Castro ringraziano.
Forse coglieva nel segno il visionario Borges quando ammoniva che i grandi sistemi edificati dai filosofi non sono che un ramo della letteratura fantastica. Un'agile enciclopedia filosofica potrebbe allora essere usata come guida per il museo della fantasia dell'uomo, animale, per dirla con Aristotele, a un tempo «razionale» e «lunare» (quando decolla verso il cielo delle idee). Aggiungerei della donna. Cosa sarebbe stato John Stuart Mill senza la sua Harriet Taylor che gli fece gustare il frutto proibito della libertà, per non dire delle grandi pensatrici del Novecento come Hannah Arendt o Simone Weil?
È però sbrigativo concludere che tutto ciò sia stato solo moonshine, per usare la parola inglese che indica insieme il chiaro di luna e una più o meno lucida follia. Potranno talvolta sembrarci oscuri i concetti, astruso il linguaggio, lambiccato il ragionamento: non dobbiamo però dimenticarci che senza quella Tela di Penelope che è la filosofia (ogni addetto ai lavori gode nel disfare l'opera dei predecessori o dei rivali) non saremmo stati capaci di articolare le nostre intuizioni di quello che è bello, buono, vero e giusto. E nemmeno avremmo avuto la critica dell'autoritarismo, l'elogio del dubbio, la libertà di sbagliare (e quella di imparare dagli errori), l'insofferenza per la tirannide e la demolizione di ogni forma di totalitarismo. Un vecchio adagio recita: «Prima vivere, poi filosofare». Ma la filosofia, come diceva appunto Hannah Arendt, è la vita della mente.

Corriere della Sera 27.3.07
La «famiglia naturale»?
Non esiste, perché la natura è violenza, caos e incesto
di Dacia Maraini


Il Papa sostiene, con ostinato candore, che si deve difendere la famiglia naturale. Ma cosa intende per natura, viene da chiedere. Ogni normativa sociale, se guardiamo bene, va contro natura. Nel mondo naturale il più grosso mangia il più piccolo, il più robusto schiavizza il più debole, le madri si accoppiano con i figli, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle. In natura non esiste morale, se per morale intendiamo prescrizioni che gli uomini si scelgono per vivere nello stesso Paese, nella stessa città, nella stessa casa, senza scannarsi a vicenda. Proprio per difendere la famiglia artificiale creata dall'uomo, sono state stabilite discipline che impediscono il vivere selvaggio del nucleo originale: l'incesto per esempio, presente in tutte le specie, anche nell'uomo, addirittura ammesso in certe circostanze storiche — vedi gli antichi egiziani — è stato proibito, come racconta bene Malinowski, per permettere alle prime tribù di espandersi, andare a cercare altre tribù, intrecciare rapporti e quindi aprire scambi di idee, di conoscenze, di esperienze. Se per etica intendiamo i regolamenti che una società stabilisce per vivere meglio insieme, evitando le grandi ingiustizie, punendo i trasgressori e aiutando i più deboli, certo l'etica non è un prodotto della natura ma una difficile e nobile prassi che l'uomo avoca a sé, in nome di un Dio che sceglie di applicare la giustizia, concetto assolutamente contrario alla natura. La giustizia a volte sembra un'utopia, ma ciò che rende umani gli uomini è proprio il continuo ossessivo tentativo di sostituire la crudeltà brutale delle cose con una voglia di comunità, di uguaglianza, di fraternità.
Ogni volta che la natura crea un disastro, l'uomo cerca di rimediare.
Perché la natura vuole sì la riproduzione dell'uomo, ma spesso e volentieri solleva le sue forze devastatrici che distruggono con un solo colpo migliaia di corpi umani.
Anche l'omosessualità esiste in natura, come dimostrano tanti popoli che l'hanno ammessa e praticata legalmente. Eppure spesso è stata proibita, soprattutto quando c'era pericolo di estinzione per un popolo, quando metà dei figli morivano di malattia e c'era un bisogno assoluto di braccia da lavoro. Con la crescita di un certo benessere e con la sovrappopolazione, cambiano le prospettive e l'intolleranza diminuisce. Certo la natura, quando vuole riprodursi, accoppia due persone di sesso opposto. Ma poiché abbiamo guastato e corrotto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, gli uomini soffrono sempre più di sterilità. E per ovviare a un dato naturale — la sterilità — le società avanzate hanno inventato l'adozione, che non esiste in natura, hanno inventato la riproduzione assistita che aiuta coloro che vogliono avere figli, a farli. Infine potremmo anche chiederci cosa c'è di naturale nella castità dei preti. Nessuno mette in discussione la legittimità della loro scelta, ma ciò non dà diritto a chi preferisce la verginità, di decidere come gli altri, uomini e donne, debbano vivere la propria sessualità.
Cosa c'è di naturale nell'educazione? Nei libri? Nelle scuole? Nella scienza? E perfino nella monogamia? L'uomo per natura è poligamo, come lo sono la maggioranza degli animali. Anche le donne per natura sono probabilmente molto più poliandriche di quanto si pensi. Eppure la civiltà ha scelto la monogamia proprio per difendere quella famiglia del tutto artificiale che si oppone, per ragioni morali, e quindi non naturali, allo sperpero e al caos. Insomma un poco più di prudenza nell'uso della parola natura perché può rivoltarsi contro chi la usa.
E' l'uomo ad aver costituito una struttura «artificiale» per difendersi da disastri e disordine

Corriere della Sera 27.3.07
Un saggio che parte dalla confessione di Darwin: «Mi sento il cappellano del diavolo»
L'origine del peccato e l'evoluzione del male
Boncinelli: non esiste il bene senza cognizione del dolore
di Stefano Moriggi


Un'indagine tra natura e cultura, biologia ed etica

«Non è dalla polvere che nasce il male», ammoniva la sapienza di Giobbe. Allora da dove? «Nasce dall'uomo e rimane circoscritto al suo mondo», risponde uno scienziato come Edoardo Boncinelli nel suo nuovo libro Il male (Mondadori). Charles Darwin confessava di sentirsi come «un cappellano del Diavolo» nel narrare il «vangelo di crudeltà» che si dispiega in natura. Eppure, ci dice Boncinelli, non si può «rimproverare al leone di sbranare una piccolo antilope». Se lo facessimo, cadremmo vittima di quell'illusione che ci porta a «proiettare» le nostre emozioni e valutazioni sul resto della natura. Solo quando si è capaci di interrogarsi sull'origine dei patimenti — nostri o altrui — la sofferenza diventa male. Boncinelli vede il processo che ha portato alla comparsa degli esseri umani, e quindi la loro stessa storia, come una progressiva emancipazione. Forse una scimmia è più libera di un cane e noi siamo più liberi sia del cane sia della scimmia. Passando dalla schiavitù degli istinti all'emergenza del pensiero razionale e simbolico si conquista lo spazio della libertà in cui possiamo credere il vero o il falso, e agire per il bene o per il male.
Non ci pare fuori luogo citare uno dei Cattivi pensieri di Paul Valéry. Si dice usualmente che il pollice opponibile sia «ciò che distingue in modo più netto l'uomo dalla scimmia». Ma noi esseri umani abbiamo forse un'altra bizzarra proprietà, «quella di dividerci da noi stessi... Abbiamo l'anima opponibile». Se Valéry ha indovinato, «allora si spiegherebbero le parole comprendere o afferrare». Infatti, «afferriamo» ovvero «comprendiamo» tanto gli oggetti quanto i concetti — e questi due modi del «prendere» non sono affatto disconnessi tra loro. Le capacità manuali hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell'intelletto umano, grazie a un reciproco scambio tra mani e cervello. Per dirla con Christian de Duve, Nobel per la medicina (1974), «gli ingegneri sono venuti prima dei filosofi». Mano e cervello insieme vogliono dire anche strumento, macchina, tecnica. Al tempo stesso, l'estensione della complessa e sofisticata libertà umana costituisce anche l'apertura alla responsabilità. «Siamo gli animali di gran lunga più liberi, ma proprio per questo dobbiamo in qualche maniera riempire il vuoto lasciato dal depotenziamento degli istinti, tanto sul piano cognitivo quanto su quello comportamentale». A ciò provvede quello scambio di cose e idee che non solo l'economia ma le istituzioni consentono di articolare anche tra gruppi differenti e di generazione in generazione, grazie ai principi della convivenza, alle regole di condotta, alle norme giuridiche, ai valori morali. Questi «puntelli» — come li definisce Boncinelli — riducono il disordine che sarebbe prodotto da una competizione sfrenata, rassicurano chiunque vi si conformi in quanto membro di una comunità, emarginano il trasgressore come un vero e proprio attentatore al benessere collettivo.
A questo punto, il male è stato definito: quelle norme, quelle regole vengono assolutizzate in imperativi etici che devono valere in ogni tempo e in ogni luogo, e guai a non tenerne conto; se così accadesse, il male dilagherebbe in tutta la sua potenza corrosiva e disgregante. «Quante volte — constata Boncinelli — abbiamo sentito dire che non ci sono più valori»? Per denotare tutto questo i filosofi usano una parola dalle molteplici sfumature, nichilismo: i valori si scoloriscono, e tutto quello che prima aveva senso e significato sembra svuotarsi. Che cosa c'è, dunque, alla radice del male? Non solo il dolore, ma la cognizione del dolore, sospesa tra natura e cultura, tra biologia ed etica. Ma non sarà l'indifferenza il male peggiore? Una specie animale può soppiantarne un'altra in una data nicchia ecologica: ecco il dettato di una natura che non si cura delle proprie creature. Possiamo limitarci a dire lo stesso se qualcosa di analogo capita con due popolazioni umane? Il nichilismo ci lascerebbe privi di qualunque metro di giudizio per distinguere una situazione dall'altra. Ci ricondurrebbe a sancire la prevalenza del più forte, come pensavano i cosiddetti «darwinisti sociali», contro i quali polemizzavano energicamente lo stesso Darwin e il suo «mastino» Thomas Huxley.
Sulla scia di Darwin, Boncinelli prospetta in chiave evolutiva la stessa questione dei criteri morali e dei valori. Sull'evoluzione biologica si è innestata l'evoluzione culturale: norme e valori sono strumenti che ci consentono non solo di sopravvivere, ma di vivere meglio. Non diversamente dagli strumenti costruiti con il pollice opponibile, possiamo continuare a perfezionarli, facendoci carico della responsabilità di tradurre in concrete leggi e istituzioni quella libertà che faticosamente ci stiamo guadagnando. Però, la nostra anima opponibile è ben più ambigua della tecnica, nel senso che può impiegare gli stessi «strumenti» anche per vivere peggio, o per distruggere la vita. Questo, e solo questo, è ciò che chiamiamo male. Una creatura perversa di quella libera immaginazione senza la quale, ovviamente, nemmeno il bene ci sarebbe.
• Il libro di Edoardo Boncinelli, «Il male», è da oggi in libreria per Mondadori (pagine 272, e 17,50)


ASCA 27.3.07
CAMERA: BERTINOTTI DOMANI INCONTRA CARDINALE BERTONE

Roma, 27 mar - Domani pomeriggio il cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone fara' visita a Montecitorio. Il cardinale anzitutto si incontrera' con il presidente della Camera Fausto Bertinotti. L'incontro avverra' nello studio del presidente alle 19,30. Subito dopo il cardinale Bertone raggiungera' la piccola chiesa di S. Gregorio Nazianzieno, all'interno del complesso monumentale della Camera, in Vicolo Valdina, l'ex monastero alle spalle di Campo Marzio ora sede di uffici e di sale convegni della Camera. Qui il cardinale celebrera' una messa per tutti i deputati e i dipendenti della Camera. Il cardinal Bertone sara' accompagnato da monsignor Rino Fisichella che della chiesa di S. Gregorio e' il rettore. La visita di cortesia al presidente Bertinotti e la messa non sono in se' una novita' in assoluto. Vi sono molti precedenti in questo senso (in genere collegati al Natale mentre oggi si e' alla vigilia della settimana di Pasqua), ma le altre volte riguardavano il presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana) e non il segretario di Stato vaticano. In questo senso, si tratta di una novita' in assoluto. Il giorno sucessivo Montecitorio vedra' la visita di un altro prelato, si tratta di mons. Giuseppe Betello, il nuovo nunzio in Italia, che iniziando il suo mandato, compie una serie di visite di presentazione con le cariche istituzionali italiane. min/min

lunedì 26 marzo 2007

l’Unità 26.3.07
Quando in famiglia si nasconde il killer
di Oreste Pivetta
I NUMERI: 174 LE VITTIME di omicidi in ambito familiare secondo il rapporto Eures 2006. Si muore di più in famiglia che per mano della delinquenza organizzata (146 vittime, pari al 29,1 per cento del totale) e della delinquenza comune (91 vittime). E nel 2003 le vittime dei delitti in famiglia erano state 201 (pari al 30,5 per cento), nel 2002 erano state 223 (39,9 per cento).
49,1 PER CENTO: questa è la quota degli omicidi in famiglia sul totale al Nord. Anche al Centro il maggior numero di delitti è di stampo familiare (46,3 per cento). Al Sud si conferma il primato della criminalità organizzata.
56,3 PER CENTO: tante sono sul totale le donne vittime di delitti di famiglia. Il contesto relazionale nel quale maturano più delitti è quello della coppia (cento, pari al 53 per cento).
IL QUADRETTO il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei «rapporti di prossimità» (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. I casi più famosi, quelli di Erika e Omar a Novi Ligure e quello - dieci anni prima - del veronese Pietro Maso

«La vita dei coniugi... si snoda lungo un percorso che visto dall’esterno, rimanda ai messaggi contenuti in quegli spot pubblicitari che rappresentano famiglie serene perchè benestanti, perchè armoniche e non conflittuali al loro interno, perchè non preoccupate dall’incertezza per il futuro...». Così nella relazione dei periti del pubblico ministero.
Peccato che uno dei due coniugi sia morto, la donna, accoltellata insieme con il figlioletto, per mano non di un uomo alto e grosso e dai capelli bianchi e da un altro, esile e scuro come un albanese, ma della figlia. La storia di Erika e Omar da Novi Ligure. La storia di una famiglia. Come ce ne sono tante nel bene e nel male. Famiglie di buona educazione, cattolicissime, benestanti, pratiche comuni tra la scuola dei figli, la palestra, la spese, la cucina, un lavoro del capofamiglia che garantisce tutto. E famiglie meno benestanti ma educate dalla stessa televisione, pronte a condividere lo stesso benessere o almeno l’aspirazione allo stesso benessere. Famiglie così, in alcune delle quali il marito uccide la moglie, la moglie uccide il marito, il marito uccide la moglie e i figli e qualche volta i figli uccidono entrambi. Se si rifanno le storie, i nomi sarebbero tanti, ma i ritratti si assomiglierebbero. Dopo la fine, nella villetta di Cogne, del piccolo Samuele, quanti neonati o bimbetti, fratelline e sorelline, sono morti, affogati nei laghetti o soffocati nelle lavatrici.
Secondo un rapporto dell’Eures nel 2006 il numero di omicidi maturati all’interno della famiglia e dei "rapporti di prossimità" (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavità e alla criminalità organizzata. L’ambito familiare, con 174 vittime (pari al 29,5 per cento del totale, s’è confermato quello più a rischio, superando in misura rilevante le vittime della criminalità mafiosa (146, pari al 24,4 per cento). Al secondo posto gli omicidi tra conoscenti: 59 vittime, cioè il 9,9 per cento.
Gianfranco Bettin, ex prosindaco di Venezia con Massimo Cacciari sindaco ed ora consigliere regionale, in un libro molto bello (L’erede, pubblicato da Feltrinelli nel 1992) aveva ricostruito alla maniera di Truman Capote (A sangue freddo) il delitto di Montecchia di Crosara, i primi monti della pianura del Nordest, provincia di Verona. Dove, in una notte infernale, Pietro Maso aveva massacrato i genitori a padellate con l’aiuto di alcuni amici del paese. Voleva i soldi, Pietro, per comprarsi la macchina, probabilmente una Delta Alfa Romeo Rossa. Il patto con i complici l’aveva stabilito nel bar del paese, a un tavolo all’angolo. Alla fine s’era alzato annunciando: «G’avemo da copar gente». Perchè? «Pei schei».
Gianfranco Bettin ha ripreso il libro, ha cambiato il titolo che è diventato Eredi (sempre per Feltrinelli), dopo aver aggiunto la storia, questa volta in poche pagine, di un altro delitto: quello appunto di Erika, che in compagnia di Omar, uccide la madre Susy Cassini e il fratellino.
Due famiglie molto diverse diverse, dieci anni tra una strage e l’altra non sono pochi. La famiglia di Maso è tradizionale e tradizionalista, radicata nella sua cultura contadina, conosce il benessere, ma osserva con prudenza il proprio futuro, vive il consumismo ma non si è ancora lasciata prendere dal consumismo. La famiglia di Erika prende sul serio il mondo del Mulino Bianco e si specchia in quel panorama e nella sua paccottiglia: nel senso dello spot, dove i genitori appaiono giovani e belli ancora, fanno colazione al mattino con i figli, due figli in perfetto equilibrio, un maschio e una femmina, si capisce che non avvertono difficoltà economiche. Erika ha un fratello: Il padre, immigrato dal sud, fa carriera nell’azienda più importante della zona, entra nel Rotary, è un uomo in vista. Anche la moglie tiene al decoro. Va in palestra con la figlia, le parla molto, si scambiano i vestiti, fanno spese insieme. Non vivono l’immaginario del consumismo: sono precipitati nel consumismo.
A Montecchia di Crosara si prospera ancora nel Veneto contadino e il delitto di Pietro Maso ha qualcosa di arcaico. A Novi il trapasso è avvenuto: la cultura televisiva domina con i suoi modelli, i gusti sono plasmati dalla pubblicità, che diventa riferimento della rispettabilità e della moralità. Ma sono la rispettabilità e la moralità dei genitori, che cercano di imporle, nelle stesse identità, ai figli. Se i figli danno la sensazione di uno scarto, allora li si compra: se la figlia va male a scuola, la si perdona quando promette che il brutto voto non si ripeterà più, se invece si ripeterà si cerca un’altra scuola che si immagina più adatta a lei, per incoraggiarla le si regala l’ultimo modello dei jeans. Si compiacciono i figli. Ci si consola leggendo nel loro malessere solo un capriccio. I figli sembrano vicinissimi, ma la distanza si è già fatta incolmabile. La contraddizione vera non esplode mai. Erika, come tutti, si scava una nicchia tra gli amici e il fidanzatino Omar. Quando la nicchia non basta più, uccide. La sua fantasia è proiettata verso un futuro senza costrizioni. Pochi giorni prima del delitto in un tema aveva scritto: «La mia famiglia è magica e immensa...». Erika, il padre e la madre condividono lo stesso orizzonte. Aveva scritto Erika di sua madre: «Come due sorelle». Al contrario di Pietro Maso, che è un’altra vita rispetto a quella del padre. Erika, la madre e il padre sono uguali. Nella falsità di questa apparente omogeneità la famiglia soffoca. Erika uccide per sentirsi libera. Per questo il suo delitto è un delitto senza tempo.
Chi, tra i magistrati, ascolterà le parole di Erika e del padre, “intercettati” nella caserma dei carabinieri di Novi Ligure, commenterà: «È sembrato che ciascuno gestisse da solo il proprio sconvolgimento (anche Erika a modo suo) e la vicinanza nella stanza della caserma era soprattutto contiguità fisica».
«E QUANDO QUELLA PARTORISCE, tu subito ci vai, in chiesa o in comune, tu ci vai e ci metti la firma».
«Sì mamma, se mi prendi il vestito di Dolce e Gabbana».
VILLE SUL LAGO e filatori rivali, traffici d’armi e amori che corrono da una parte all’altra, barche a vela e bonarie trattorie d’altri tempi sulla darsena che pare un quadretto dell’Ottocento. Papà industriale con l’ex moglie di gagliardo quarantenne di successo, che perde la testa per la vivace studentessa in legge che profittando della propria avvenenenza arrotonda tramite agenzia compiacente e che, per completare tesi di laurea, frequenta la locale questura, dove presta la propria opera il figliolo poliziotto del gagliardo quarantenne: colpo di fulmine e la bella, sincera amante e riamata, molla il padre per il figlio ignaro... Mentre la figlia dello stesso quarantenne prima spasima per un severo medico, poi incrocia per caso il fratello e non resiste alla tentazione di provare anche lui... Persino l’attempata moglie del simpatico e solare trattore non resiste alla tentazione di rinvigorire un’antica passione per un mago terapeuta argentino, tenebroso cialtrone che finisce il galera. Non basta una vita a raccontare “Vivere”, soap opera al settimo anno d’esistenza nell’etere di Canale 5, tra le più seguite, ogni giorno tranne il sabato e la domenica a partire da mezzogiorno e mezzo. Tante storie senza una famiglia che sia una: niente, solo disastri dentro casa...
«Eppure Vivere - racconta Davide Sala, caposcrittura, responsabile insomma del manipolo di sceneggiatori che di giorno in giorno inventano personaggi, dialoghi e situazioni - era nata come soap opera delle famiglie, risposta a “Un posto al sole”, tra protagonisti di un livello sociale un po’ più alto, presentando appunto tre famiglie in una provincia italiana che il benessere l’aveva già raggiunto».
Peccato che nel giro di sette anni di famiglia, padre, madre, figli, nipoti, nonni, non ne sia rimasta in piedi una...
«La prima responsabilità è degli attori che se ne vanno, che scelgono altri impegni. Insomma questioni produttive hanno un effetto disgregante sulle famiglie...».
Magico intreccio realtà finzione...
«Adesso stiamo cercando di ricostruirle».
Il bravo poliziotto vuole mettere su casa con l’ex amante del padre, che sembra non mollare la presa e s’offre di pagare l’affitto...
«Dalla disgregazione alla ricomposizione dell’unità familiare, rapporti conflittuali attraverso i quali matura di nuovo l’identità della famiglia».
Tutto il contrario della famiglia salda e quadrata di fronte ad ogni avversità, di “Raccontami”, lo sceneggiato di Raiuno con i bravissimi Massimo Ghini e Lunetta Savino: a Roma il quadretto dell’Italia anni sessanta e sulle rive del lago invece gli anni nostri... Italia fiduciosa in cerca di benessere e felicità, Italia viziata, senza ideali, senza morale... Non è che proprio quest’Italia, più realistica in fondo al di là dei colori pastello della soap, alla fine intrighi di più lo spettattore e faccia più audience?
«Il pubblico preferisce la famiglia tradizionale di “Raccontami”, perchè c’è malgrado tutto una gran voglia di famiglia, si guarda con nostalgia al passato, il presente mette paura, si cerca di ritrovare le radici. Ma la famiglia è esposta alle dinamiche della modernità... E molte fiction, soprattutto americane, di grande successo, rappresentano questa difficoltà, lo scontro-incontro con un tessuto sociale che minaccia il nucleo familiare compatto».
Ma la nostalgia riguarda la famiglia come centro organizzato, sede istituzionalizzata di protezioni reciproche?
«Riguarda la famiglia, perchè si crede nella famiglia come luogo dei sentimenti. Non conta la cornice. Contano i legami sentimentali che la famiglia può esprimere. Contano il cuore, gli affetti, la solidarietà...».
Quindi vale la famiglia benedetta in chiesa esattamente quanto la famiglia dei conviventi e lo coppia gay. Metterebbe in scena la convivenza di una coppia omosessuale?
«La prima volta di una coppia omosessuale in una fiction risale al 1974. Una fiction australiana. Insomma non sarebbe una apparizione rivoluzionaria. A chi guarda la tv piace una storia dove i sentimenti appaiono forti. Anche i sentimenti dei cattivi: all’interno di una logica, ovviamente, non per il puro gusto di far del male».

Repubblica 26.3.07
"Ci finisce chi rifiuta Dio"
Il Papa "L'Inferno esiste ed è eterno"
di AUGUSTO PARAVICINI BAGLIANI


DAL TARTARO ALLA GEENNA GLI ANTENATI DELLA DANNAZIONE
Il luogo cristiano della pena affonda le sue radici nelle antiche civiltà

IL papa ha ragione. Nella cultura contemporanea, anche cristiana, l´inferno sembra essersi fatto da parte. Eppure la sua esistenza accompagna il Cristianesimo fin dalla sua nascita, con un´evoluzione che non è però affatto lineare. La concezione cristiana dell´Inferno affonda le sue radici nelle antiche civiltà (Egitto, Mesopotamia, Grecia ecc.). Per i Greci il tenebroso Hades, confuso con il sinistro Tartaro, aveva il compito di accogliere tutti gli iniqui. I concetti ebraici di Geenna e Sheol crearono un luogo sotterraneo di tormento, dimora del Diavolo e dei suoi demoni.
L´inferno è già presente nel Nuovo Testamento. Il Vangelo di Matteo (25, 41) menziona «il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli», ed anche l´Apocalisse (19,20) parla dello «stagno di fuoco, ardente di zolfo».
Ma la credenza all´inferno pose questioni importanti. Le pene erano corporali ed eterne? Su questi aspetti, i Padri della Chiesa non la pensavano allo stesso modo. Per sant´Ambrogio e san Girolamo (IV secolo), le pene erano di natura spirituale e i cristiani erano salvati dalla virtù del loro battesimo. Agostino dedicò però un intero libro della "Città di Dio" per rifiutare l´idea di un ritorno finale di tutte le creature a Dio e diede così un impulso decisivo alla dottrina della eternità e della corporeità delle pene.
Dal XII secolo in poi, la minaccia della dannazione eterna è sempre più presente nella predicazione e nella pastorale, a tal punto che si è parlato di un "cristianesimo della paura" (J. Delumeau). E´ il periodo in cui nasce anche una vera e propria iconografia dell´inferno. Al nord delle Alpi, l´inferno viene rappresentato come Leviatano, il mostro che divora i dannati. In Italia si impone la rappresentazione dell´inferno come zona di fuoco dove i dannati bruciano intorno a Satana seduto in trono. Dal Trecento in poi (Camposanto di Pisa) i supplizi aumentano sempre di più e si accentua la corrispondenza fra la natura della pena e il genere di peccato: i golosi vengono raffigurati davanti ad una tavola imbandita senza avere la possibilità di mangiare, gli avari vengono ingozzati d´oro, i lussuriosi uniti in un abbraccio eterno. Come nell´Inferno di Dante…
Il XII secolo introduce un´altra grande novità, il purgatorio come luogo geografico. L´idea di un purgatorio è presente nel cristianesimo antico, ma veniva definito con un aggettivo, il "fuoco purgatorio". Intorno al 1100, l´aggettivo si trasforma in sostantivo. Si tratta di una "rivoluzione spirituale" (J. Le Goff). Il purgatorio come luogo spezza il vecchio mondo bipolare dell´alto Medio Evo, e l´aldilà si arricchisce di un luogo che corrisponde ad uno strumento di salvezza. Preghiere e suffragi possono accorciare le pene, per i peccati veniali e per i peccati confessati per i quali la penitenza non è avvenuta.
Le storie dell´inferno e del purgatorio sono inscindibili, anche per quanto riguarda il declino che questi due luoghi della geografia cristiana dell´aldilà hanno subìto da un secolo, in coincidenza con l´affievolimento dell´idea di peccato e della credenza al demonio. Il declino riflette la progressiva scristianizzazione della cultura contemporanea. Ma vi contribuirono anche gli avvenimenti bellici del Novecento: i milioni di morti della prima guerra mondiale hanno preso il posto delle anime del Purgatorio, e gli orrori del nazismo hanno portato l´inferno sulla terra. «L´enfer c´est les autres», dirà Sartre verso la fine del 1943, perchè ogni uomo può essere il giustiziere di un altro uomo e condannarlo, per così dire, a morte…

IL PAPA E LA SOCIETÀ
Il papa in una parrocchia romana evoca la figura del demonio. Gli scenari delineati nel nuovo Catechismo
"Non se ne parla ma l'Inferno c´è"
Ratzinger: pene eterne per chi pecca e non si pente
di ORAZIO LA ROCCA

CITTÀ DEL VATICANO - «L´Inferno esiste ed è eterno, anche se non ne parla quasi più nessuno». Papa Ratzinger torna a rilanciare il luogo della dannazione eterna evocato da secoli dalla tradizione cristiana, declassato, però, negli ultimi tempi ad argomento di serie b nell´immaginario collettivo del popolo dei credenti. Il posto scelto per ribadire l´attuale «pericolosità» di Satana non è la scenografica basilica di San Pietro, ma una anonima parrocchia della periferia romana - la chiesa di Santa Felicita e Figli Martiri della borgata di Fidene - visitata ieri mattina da Benedetto XVI nella sua veste di vescovo di Roma. Nell´omelia, come un vecchio parroco, il pontefice tiene una ferma lezione di teologia partendo dal significato del «perdono cristiano così come ci è stato insegnato nel Vangelo attraverso la parabola dell´adultera», la donna salvata dalla lapidazione dalla famosa frase «chi è senza peccato scagli la prima pietra» rivolta da Gesù ai suoi accusatori. Uno dei più noti episodi evangelici dal quale il Papa parte per mettere in guardia i cattolici dalle «insidie» del demonio «se non si pentiranno dei peccati e non chiederanno il perdono divino».
«La fede cristiana - è il ragionamento di Ratzinger - è un annuncio, una offerta all´uomo, mai una imposizione». Ogni persona - «se vuole», sottolinea il Pontefice - può «accettarla spontaneamente» con «tutta la sua carica salvifica che ci viene da Dio, il nostro Padre misericordioso che è sempre pronto ad aiutarci, ad accoglierci, anche quando sbagliamo». «Perdono e salvezza divina» intesi, quindi, come «doni» che ogni uomo nel corso della sua vita ha la possibilità di accettare, a patto che - avverte Ratzinger - «ammetta le sue colpe e prometta di non peccare più». E quanti continuano a peccare senza mostrare nessuna forma di pentimento? Per questi - rammenta Benedetto XVI - la prospettiva è la dannazione eterna, l´Inferno, perché «l´attaccamento al peccato può condurci al fallimento della nostra esistenza». Tragico destino che spetta a chi «vive nel peccato senza invocare Dio» perché - è la spiegazione del Papa - «solo il perdono divino ci dà la forza di resistere al male e non peccare più». Ecco perché Benedetto XVI ricorda, a conclusione dell´omelia nella parrocchia periferica romana, che «Gesù è venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l´Inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore».
Si tratta - in sostanza - degli stessi scenari previsti nel Compendio del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica alla voce Inferno firmato da Ratzinger poco tempo dopo la sua elezione pontificia. L´Inferno - vi si legge tra l´altro - «consiste nella dannazione eterna di quanti muoiono per libera scelta in peccato mortale» e «la pena principale dell´Inferno sta nella separazione eterna da Dio». Su questo insegnamento si è sempre mosso il teologo Joseph Ratzinger, sia da vescovo che da cardinale. In perfetta sintonia con papa Wojtyla, che durante il suo lungo pontificato in più occasioni ha invitato i cattolici «a pregare Dio perché nessuno sia o vada all´Inferno», spiegando che al luogo della dannazione eterna sono destinati coloro i quali «usano male la libertà offerta loro da Dio». Ma uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Urs Hans von Balthasar, ha teorizzato che «l´Inferno c´è, ma potrebbe anche essere vuoto» perché «la misericordia di Dio è infinita come il suo perdono».

Repubblica 26.3.07
La guerra al terrore ha snaturato gli Usa
di ZBIGNIEW BRZEZINSKI


L'ex consigliere di Jimmy Carter analizza i danni prodotti dalla reazione all'11 settembre
"Bush ha colpito i diritti civili e ridotto il nostro ruolo internazionale"
Così la "Guerra al terrore" ha snaturato l'America


La «Guerra al terrorismo» ha dato vita in America a una cultura della paura. L´elevazione di queste tre parolette a mantra nazionale da parte dell´Amministrazione Bush, dopo i terribili eventi dell´11 settembre, ha avuto un effetto deleterio sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli Stati Uniti nel mondo. L´utilizzo di questa formula ha di fatto pregiudicato la nostra capacità di affrontare in modo efficace le vere sfide che ci impongono i fanatici che potrebbero utilizzare il terrorismo contro di noi. Il danno inferto da queste tre parole - la classica ferita che ci si infligge da soli - è infinitamente più grande di qualsiasi sfrenata aspirazione avessero in mente i fanatici che hanno perpetrato gli attentati dell´11 settembre allorché complottavano contro di noi nelle remote caverne dell´Afghanistan.
In sé e per sé la formula è priva di significato: non definisce con precisione né un ambito geografico né il nostro presunto nemico. Il terrorismo non è un nemico, bensì una tecnica di guerra: è l´intimidazione politica attuata con l´uccisione di esseri umani disarmati.
Può anche essere che l´indeterminatezza della frase sia stata intenzionalmente (o istintivamente) calcolata dai suoi sostenitori. Il costante riferimento a una «guerra al terrorismo» ha di fatto conseguito un obiettivo primario, quello di favorire l´affermarsi di una cultura della paura. La paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare l´opinione pubblica nell´interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire. Senza quel legame psicologico instaurato tra lo shock dell´11 settembre e la presunta esistenza di armi irachene di distruzione di massa, la guerra in Iraq non avrebbe mai conseguito il supporto del Congresso di fatto ottenuto. Anche il sostegno al presidente Bush nelle elezioni del 2004 è stato almeno in parte incamerato grazie al principio secondo cui «una nazione in guerra» non cambia il proprio comandante in capo nel bel mezzo dell´azione. Una sensazione di intenso pericolo, per altri versi del tutto imprecisato, è stata quindi inculcata in una direzione politicamente opportuna dall´appello mobilizzante dell´essere «in guerra».
La cultura della paura è come il genio fatto uscire dalla lampada: acquisisce vita propria e può diventare demoralizzante.
Che l´America sia diventata insicura e molto più paranoica è difficilmente contestabile. Da un recente studio è emerso che nel 2003 il Congresso aveva individuato 160 località che potevano diventare obiettivi potenzialmente importanti a livello nazionale per i presunti terroristi. Grazie al peso di varie lobby, alla fine di quell´anno l´elenco dei luoghi-bersaglio era già salito a 1.849. Alla fine del 2004 ha raggiunto i 28.360 e alla fine del 2005 i 77.769. Oggi l´archivio nazionale dei possibili obiettivi di un attentato terroristico comprende 300.000 località circa. Tra di esse figurano la Sears Tower di Chicago e una Sagra della mela e del maiale dell´Illinois.
Proprio la settimana scorsa, qui a Washington, mentre mi recavo in visita a uno studio giornalistico, ho dovuto passare attraverso uno di quegli assurdi "controlli di sicurezza" proliferati in quasi tutti gli edifici privati di uffici della capitale e della città di New York. Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, di mostrare un documento di identità e nel caso specifico di spiegare gli scopi della mia visita. Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto di voler «far saltare in aria l´edificio»? E la guardia, sarebbe effettivamente in grado di fermare un aspirante attentatore suicida disposto ad autodenunciarsi? A rendere le cose ancora più paradossali, c´è il fatto che i grandi magazzini, con tutte le loro folle di acquirenti, sono esentati da procedure simili. Né del resto queste sono previste per gli auditorium o i cinema. Ciò nonostante, queste "procedure di sicurezza" sono diventate routine, comportano uno spreco di centinaia di milioni di dollari e danno un ulteriore contributo a far affermare questa mentalità di assedio permanente.
L´atmosfera generata dalla "guerra al terrorismo" ha incoraggiato la vessazione legale e politica degli arabo-americani. La discriminazione sociale, per esempio quella nei confronti dei musulmani che viaggiano in aereo, è anch´essa una conseguenza collaterale involontaria: non deve stupire il fatto che il risentimento nei confronti degli Stati Uniti sia cresciuto perfino tra musulmani per altro non particolarmente interessati al Medio Oriente, mentre la reputazione dell´America di leader nel promuovere rapporti costruttivi interrazziali e interreligiosi ne ha gravemente sofferto.
Questo risultato è ancora più preoccupante nell´area più generale dei diritti civili. La cultura della paura ha alimentato l´intolleranza, il sospetto nei confronti degli stranieri, l´adozione di procedure legali che sono deleterie per i principi fondamentali della giustizia. Il principio secondo il quale si è innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è stemperato, se già non si è dissolto del tutto, e alcune persone - anche cittadini statunitensi - sono incarcerate per lunghi periodi senza un giusto processo. Non vi è alcuna prova sicura di cui si abbia testimonianza che un simile eccesso ha effettivamente scongiurato qualche significativo attentato terroristico, né che gli arresti di presunti terroristi di qualsivoglia tipo siano serviti a qualcosa. Un giorno gli americani si vergogneranno di tutto ciò.
Nel frattempo, però, la «guerra al terrorismo» ha gravemente pregiudicato gli Stati Uniti a livello internazionale. Il risentimento non si limita ai musulmani: un recente sondaggio condotto dalla Bbc presso 28.000 persone di 27 paesi, per capire in che modo si valuti il ruolo dei vari Stati nelle questioni internazionali, ha evidenziato che Israele, Iran e Stati Uniti (in questo ordine) sono considerati i paesi che hanno «la peggiore influenza negativa al mondo».
Quanto accaduto l´11 settembre avrebbe potuto portare a una solidarietà davvero globale contro l´estremismo e il terrorismo. Un´alleanza globale dei moderati, inclusi quelli musulmani, impegnata in una campagna dichiarata volta a estirpare i network specificatamente terroristici e a porre fine ai conflitti politici che alimentano il terrorismo sarebbe stata molto più fruttuosa di una «guerra al terrorismo» contro il «fascismo islamico» proclamata demagogicamente e pressoché unilateralmente dagli Stati Uniti. Soltanto un´America fiduciosamente determinata e raziocinante potrà promuovere un´autentica sicurezza internazionale che non lascia più spazio al terrorismo.
Dov´è il leader degli Stati Uniti disposto a dire: «Basta con queste isterie, poniamo fine a questa paranoia»? Anche posti di fronte a futuri attentati terroristici, la probabilità dei quali non può essere negata, cerchiamo di dimostrare un po´ di buonsenso. Cerchiamo di rimanere fedeli alle nostre tradizioni.
Copyright The Washington Post/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 26.3.07
Davanti alla morte come bambini
La paura, le scuse, i ricordi felici: le lettere dall'Iraq dei soldati Usa
di VITTORIO ZUCCONI

Dicono i medici nei reparti di terapia intensiva che i pazienti arrivati alla fine spesso mormorano il nome della mamma quando capiscono di morire. E possono essere anche ragazzoni americani armati fino agli occhi, guerrieri fasciati in carapace di plastica e di acciaio, ma in quella che la preghiera dei cattolici alla Madre - appunto - chiama «l´ora della nostra morte», dietro gli occhiali da sole e i visori notturni a infrarossi spunta lo sguardo di un bambino che ha paura e che perciò pensa alla mamma.
Non c´è bisogno di essere pacifisti o guerrafondai, falchi o colombe, basta essere umani per risentire e rileggere nelle lettere di soldati mandati a morire per conquistare un altro scatolone di sabbia e di petrolio, l´eco di tutte le lettere dall´oltretomba dei soldati morti nelle guerre per «mettere fine a tutte le guerre», come ripete l´eterna menzogna dei condottieri. E avvertire la spossante tristezza della frase, quella scritta dal caporalmaggiore dei Marines, Anthony Butterfield, che prima di morire non si ricorda di Bush, dell´Occidente, della Guerra al Terrore, delle dottrine e degli scenari, ma «del bicchiere di latte al cioccolato con il coperchio forato e la cannuccia» che, e chi altro?, la madre gli versava per consolarlo quando si faceva male.
Proprio come i bambini che tutti loro sono, anche quando si travestono da Rambo e da eroi di video game, domandano scusa, si colpevolizzano, «I am so sorry, Mom», per il dolore che hanno provocato a casa facendosi ammazzare. Non capiscono, «non avrei mai creduto di dover scrivere una lettera come questa». Stanno sospesi in quell´attimo di sbigottimento che vediamo sul volto dei bambini quando cadono e trattengono il fiato, incerti ancora se scoppiare a piangere.
«Qualcosa è andato storto, molto storto», scrive uno di loro per tutti, uomini e donne arruolati per sfuggire alla noia, per trovare un lavoro, per patriottismo, per ansia di sistemare i conti con gli assassini dell´11 settembre, perché questo gli avevano detto il loro Presidente e il sottufficiale in alta uniforme blu nell´ufficio del Lucignolo reclutatore tra la pizzeria e la sala giochi nel centro commerciale, con la promessa di una gloriosa avventura oltremare, da raccontare a figli e nipoti, come i padri e i nonni avevano raccontato l´epopea della «Grande Generazione» dei Soldati Ryan, in Normandia, a Okinawa, ad Anzio, senza sapere che i loro nipoti li dimenticheranno, come li sta ignorando, dietro l´iprocrisia delle decalcomanie da paraurti, una nazione, perché sono volontari, non coscritti, e dunque, sotto sotto, «se la sono cercata loro».
Arrivati all´ora della loro morte, al momento di scrivere sotto una tenda nel mezzo di un nulla polveroso che neppure sapevano che esistesse o dove fosse, non rinnegano, non tradiscono, non sognano di disertare, non maledicono i falchi ottusi che ne hanno fatto prede per le loro saccenti dottrine concepite in uffici con l´aria condizionata. Accettano, come tutti i soldati, sempre, e vanno ad ammazzare e farsi ammazzare, con in bocca il rimpianto del latte al cioccolato che non berranno più.

GLI USA E L'IRAQ
ULTIME LETTERE DAL FRONTE

Le corrispondenze di guerra di chi ha perso la vita nel deserto iracheno
Quattro anni dopo l´invasione, gli americani morti sono più di 3.300

«Sono stanco, bambina, esausto davvero», scrive accucciato su chissà quale branda il maggiore dell´esercito Usa, il sudore - racconta - che gli sgocciola dalla fronte e gli rimbalza sul mento, sotto i 45 gradi del deserto iracheno piatto come un tavolo da biliardo. Alla figlia Eddie, che lui non rivedrà com´è destino di almeno 3.230 americani morti in Iraq, il maggiore cerca di spiegare in poche righe vergate con bella calligrafia su un taccuino d´ordinanza cos´è questa «strana guerra al terrore»: «Non immaginare grandi manovre con centinaia di carri che straboccano oltre le frontiere. È una lotta fatta di dieci uomini nel buio della notte, di imboscate e cecchini e bombe artigianali»: bombe che lo colpiscono il 5 gennaio, a Fallujah.
Questa è una delle cento lettere pubblicate dalla rivista Newsweek in un numero speciale dedicato alla "strana guerra" d´Iraq, nel quarto anno dall´invasione anglo-americana. Sono messaggi e-mail estemporanei, più spesso testi preparati con cura, destinati ad essere letti dopo la morte dell´autore. Ultime parole indirizzate ai propri cari da uomini arruolatisi tutti volontari, «e questo per la prima volta nella storia moderna americana - ricorda l´editoriale del magazine - mentre la grande maggioranza dei cittadini se ne sta al riparo dalla linea di fuoco».
(a. v. b.)

Repubblica 26.3.07
GLI ENIGMI DEL PENSIERO
In un nuovo saggio George Steiner analizza le ragioni della tristezza
di FRANCO MARCOALDI


Al centro è ancora la malinconia una condizione che può rendere anche creativi e vitali
Filosofia, poesia, neurofisiologia concorrono a edificare questo suo inclassificabile libro
La pesantezza dell'animo è fatta di dubbio e frustrazione
L'incompiutezza marca a fuoco ogni esistenza umana


Quanti hanno scelto lo schermo televisivo come ideale specchio del mondo, potrebbero anche credere che esistano soltanto uomini e donne garruli, contenti, spensierati. Basta seguire una qualunque trasmissione di intrattenimento per verificare come nove volte su dieci presentatori, attrici e personaggi pubblici a vario titolo, (compresa la moltitudine di anonimi colti nel loro effimero momento di gloria), esibiscono un immancabile sorriso, vagamente beota, stampato sulle labbra. La legge televisiva appare chiara: bisogna offrire un´immagine di sé improntata alla felicità. Senza ombre di sorta.
Basta però passare dal mondo virtuale a quello reale, prendere un tram o fare la spesa al supermercato, per incontrare altrettante facce con espressioni tutt´affatto diverse. E verificare così come la malinconia e la tristezza siano al contrario moneta corrente; cosa, del resto, che ciascuno di noi verifica puntualmente nella propria intimità.
Il filosofo tedesco Friedrich Schelling si spinse oltre, sostenendo che è proprio questo doppio malessere a marcare a fuoco ogni esistenza umana, contrassegnata dall´incompiutezza: «Donde il velo di tristezza, che si stende su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di ogni vita». Questo brano di Schelling compare nel saggio Ricerche filosofiche sull´essenza della libertà umana e precede un´altra frase che suona: «Solo nella personalità è la vita: e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza».
Poste entrambe le affermazioni ad esergo di uno smilzo libretto, il famoso critico George Steiner le utilizza come volano di una sua ulteriore ed ennesima avventura mentale, volta a spiegare le Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (traduzione di Stefano Velotti, Garzanti, pagg. 87, euro 11).
Ora, basta scorrere i titoli dei libri pubblicati dal critico inglese con l´editore Garzanti (dal vecchio Tolstoj o Dostoevskij al romanzo breve Il correttore, dall´autobiografia Errata al più recente Una certa idea di Europa), per verificare una volta di più quanto la scorribanda intellettuale sia consustanziale alla sua scrittura e al suo ordine di discorso.
Ma qui la natura di impareggiabile guastatore dei rigidi confini disciplinari pare raggiungere il suo acme: filosofia, poesia, neurofisiologia e cosmologia concorrono ciascuna, a diverso titolo e con diverso peso, a edificare un inclassificabile saggio, il cui esiguo numero di pagine (87) è inversamente proporzionale alla densità del contenuto.
Il procedimento adottato è lineare. Steiner ha deciso di analizzare dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero. E così farà, enumerandole una per una, in altrettanti capitoletti. Talvolta le argomentazioni si sovrappongono e si ripetono, ma i punti salienti sbalzano nitidamente dalla pagina.
Pensare il pensiero è la prima, insormontabile difficoltà. Perché trattenere il pensiero è più difficile che trattenere il respiro e dunque siamo perennemente immersi in una attività che risulta pressoché impossibile osservare dal di fuori. Eppure questa tendenziale infinità del pensiero non garantisce affatto risposte sicure o quantomeno soddisfacenti: «Ascoltate con attenzione il corso del pensiero: sentirete, nel suo centro inviolato, dubbio e frustrazione. Questo è un primo motivo di "Schwermut", di pesantezza dell´animo».
Il pensiero inoltre, in quanto inarrestabile, è perciò stesso incontrollabile. Si danno, è vero, rari casi in cui il giocatore di scacchi, il matematico o il maestro di meditazione, riescono a chiamarsi fuori dal mondo per un certo lasso di tempo. Ma nella norma tutti sappiamo quanto il corso del pensiero sia «intorbidato, perturbato, incessantemente deviato» da una serie illimitata di fattori esterni e interni di più vario genere. A ciò va sommato l´immenso, vano dispendio di un´attività che solo in piccolissima parte si cristallizza in ragionamenti compiuti, raggiungendo la meta. Tutto il resto, che, baluginato davanti agli occhi o apparso in sogno sembrava tanto interessante, si volatilizza nell´aria. Ricordate Pascal? «Pensiero sfuggito, io lo volevo scrivere; scrivo, invece, che mi è sfuggito».
Ecco dunque due nuove ragioni di tristezza: «il pensiero ordinario è un´impresa pasticciata, dilettantesca» e inoltre è talmente «dispendiosa e rovinosa» da impedirci di misurare la gravità del deficit. Per contro, è pur vero che «pensare a noi stessi è l´ingrediente principale dell´identità personale». Ma proprio da qui discende una conseguenza la cui enormità, secondo Steiner, «è stranamente data per scontata». Nessuna vicinanza spirituale, amorosa, intellettuale, permette infatti di penetrare nell´intimità dell´altro, di scalfire la sua monade. E tutto ciò si accompagna, paradossalmente, al fatto che «il nucleo inaccessibile della nostra singolarità», altro non è che «un luogo comune moltiplicato per miliardi», visto che la germinazione di pensieri nuovi, davvero originali, è la merce più rara (Einstein, a dispetto della sua genialità, «sosteneva di aver avuto soltanto due idee genuine in tutta la sua vita»).
Insomma, mentre il pensare «è sepolto nella privatezza più intima del nostro essere, è anche il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Senza contare la perenne discrasia tra ciò che abbiamo concepito e la mediocre realtà del risultato raggiunto; ciò che induce Steiner ad avanzare la drastica proposta di uno «sperare contro ogni speranza».
E con questo, se non sbaglio, siamo giunti più o meno alla metà del decalogo: le rimanenti fonti di «tristitia» e «melancholia» le scoprirete da voi, leggendo il libro. Prima di chiudere, però, vorrei accennare a un altro paio di questioni. Il critico inglese insiste molto su un linguaggio preconfezionato che finisce per "democratizzare l´intimità" e per impedire la massima espansione di tutte le potenzialità immaginative del pensiero. Aggiungendo inoltre che, saturo com´è di ambiguità, il linguaggio per sua stessa natura si «ribella all´ideale monocromo della verità». D´altronde, nel corso del tempo si sono susseguite talmente tante e diverse verità, «soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione», che forse il massimo a cui può ambire il pensiero sono le «finzioni supreme» a cui alludeva il grande poeta americano Wallace Stevence. Di più: forse che l´impotenza del pensiero di fronte alla verità, non si manifesta anche di fronte alla morte, o all´esistenza di Dio?
Qui il pessimismo di Steiner si fa radicale: «Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell´enigma della natura - o dello scopo, se ce n´è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte o alla possibile presenza o assenza di Dio. Potremmo anche essercene allontanati».
Poiché però il critico inglese non dimentica le tracce da cui ha preso le mosse, ovvero lo Shelling che ricordava come la tristezza, la pesantezza dell´anima è anche creativa e proprio affondando nella melanconia si accende la forza vitale in grado di superarla, finisce per affidare l´azzardo supremo del pensiero, più che alla filosofia e alla teologia, alla musica: «questo tormentoso medium dell´intuizione rivelata al di là delle parole, al di là del bene e del male, in cui il ruolo del pensiero, per quanto possiamo afferrarlo, resta profondamente elusivo. Pensieri troppo profondi non tanto per le lacrime, ma per il pensiero stesso».
Non si tratta di uno zuccherino finale volto a rincuorare il lettore. Lo stesso Schelling, infatti, proseguiva la prima delle sue osservazioni con altre due righe che nell´esergo del libro di Steiner non compaiono: «la gioia deve accogliere il dolore, il dolore deve essere trasfigurato nella gioia». Fors´anche del pensiero, aggiungo; se se ne contiene la versione "dispotica" e lo si immagina come una corrente impersonale che usa le nostre menti come fossero altrettanti veicoli. Ciò che consentì a Goethe di scrivere: «Io so che nulla m´appartiene/ Se non il pensiero che imperturbato/ Dalla mia anima fluisce».

Corriere della Sera 26.3.07
Intervista con Franco Giordano
«Le regole sono già scritte e non possono cambiare»
di Monica Guerzoni


Spinte neocentriste mai sopite e per certi versi legittime sarebbero drammatiche
Siamo leali ma se Mastella o altri fanno giochini sapremo rispondere


ROMA — Segretario Franco Giordano, che accade se il governo va sotto sull'Afghanistan?
«Credo che questo decreto una maggioranza ce l'abbia, i senatori a vita hanno diritto di votare a tutti gli effetti. E i nostri 26 voti non sono in discussione».
Nemmeno i 20 voti dell'Udc lo sono. Ma in cambio Casini vi chiede di cambiare le regole d'ingaggio.
«Siamo contrari a un odg che stravolga le regole di ingaggio. Ma poiché è nel decreto che sono scritte le regole per le missioni, mi sento sereno. L'articolo 11 della Costituzione impedisce un comportamento offensivo delle nostre truppe. E poi l'odg dell'Udc dovrebbe essere acquisito e tradotto in un intervento legislativo del governo...».
Adesso le vanno bene anche i voti centristi? Non teme più che nuove maggioranze possano fare fuori il Prc?
«Non ci sono le condizioni per maggioranze variabili. In questo caso i voti sono aggiuntivi e comunque sono cose che riguardano la politica interna, in politica estera per me vale il merito».
La Cdl chiede di rafforzare gli armamenti. Che ne pensa un pacifista come lei?
«Sono contrario allo spostamento delle truppe, ma i militari devono poter lavorare in assoluta sicurezza. Ho trovato grande saggezza e responsabilità nelle parole dei giorni scorsi del generale Satta, secondo il quale i nostri soldati sono in condizione di tutelarsi e hanno il meglio degli armamenti ».
Al partito dei «rafforzatori» non basta. Mastella voterà il documento dell'Udc e così potrebbero fare i filoatlantici della Margherita, da Dini a Fisichella.
«Spero che non accada e faccio valere con forza la lealtà del Prc, che dopo la costruzione di un accordo sul decreto voterà a favore. Sono altri che giocano a un mutamento delle proprie posizioni, definite col voto positivo della Camera. Cercare giochini sul tema della pace e della guerra, ai soli fini di politica interna, è frutto di una cultura gretta e provinciale e di un alto tasso di cinismo».
Russo Spena ha detto che Mastella gioca col fuoco.
«Vero. Spinte neocentriste, mai sopite e per certi versi legittime, sarebbero drammatiche. E se ci comportassimo noi così? Se il Prc cominciasse a determinare dei distinguo?».
Potrebbe accadere. Se arrivano più armi Giannini non vota.
«Sono sicuro che sul decreto tutti i nostri compagni voteranno in maniera conforme e invito le altre forze politiche a tenere lo stesso comportamento».
Perfino Fassino è disposto a inviare più mezzi.
«Qui è un punto delicato. Una cosa è la sicurezza, un'altra la modifica del nostro ruolo, che non può essere offensivo. Piuttosto dovremmo avere un ruolo efficace nella conferenza di pace, unico strumento alternativo alla regola bellica».
Manifesto e Liberazione hanno parlato di «resa» agli Usa, avete cambiato giudizio sulla politica estera di D'Alema?
«Il mio giornale non l'ha detto. Per la vita umana non si guarda in faccia a nessuno e la vicenda Mastrogiacomo testimonia un atteggiamento che io ho condiviso».
Le nuove regole di ingaggio non saranno una contropartita per la liberazione?
«Non siamo a questo, il decreto non prevede nulla del genere. Una cosa è che i militari si devono poter difendere, altra cosa è cambiare le regole di ingaggio».
Il rutelliano Antonio Polito dice che lei vuole fiori nelle canne dei fucili e la invita a ripassare il mandato Onu.
«Non capisco questa asprezza politica. Mettere fiori nei cannoni è aspirazione nobile e mi inquieta che qualcuno nella nostra coalizione non lo ritenga tale. Mi auguro che dietro le manovre d'Aula sull'Afghanistan non ci siano giochi di forza interni al Partito democratico. Significherebbe che per interessi privati alcune forze politiche rischiano di minare il governo o di alimentare una instabilità permanente».