lunedì 2 aprile 2007

Due risposte della redazione di Tempi dispari a chi chiedeva notizie della pubblicazione sul loro sito della loro intervista di Venerdì 30 a Massimo Fagioli:

Cara Licia, il nostro sito non consente l'inserimento on-line di files giornalieri superiori ai 10 minuti... e l'intervista a Fagioli dura ben 40 minuti. D'altro canto condensare una conversazione come quella in soli 10 minuti sarebbe un vero delitto. Ci spiace molto deluderti, ma pensiamo sia piu' giusto cosi' anche nei riguardi di uno studioso come Fagioli. Grazie dell'interessamento. Un caro saluto.
Redazione TEMPI DISPARI

Caro Fabio, abbiamo ritenuto impraticabile la realizzazione di una sintesi di soli 10 minuti dell'intervista a Fagioli (poiche' lo spazio concessoci on-line e' appunto di soli 10 minuti). La conversazione andava bene nella sua durata originale di 40 minuti e non e' proprio il caso di farne scempio tagliuzzandola tutta. Siamo certi che capirai questa nostra scelta. Grazie. Un caro saluto.
Redazione TEMPI DISPARI


l'Unità 2.4.07
Le minoranze ds a D’Alema: fermatevi
Bandoli e Angius rispondono all’appello lanciato su «l’Unità» dal ministro degli Esteri
«Preventiva è la scelta di fare il Pd». «Perdere lo spirito dell’Ulivo è errore catastrofico»
di s.c.

«Fermatevi». Le minoranze Ds replicano all’intervista di D’Alema pubblicata ieri su l’Unità e invitano i dirigenti della Quercia a non proseguire sulla strada verso il Partito democratico.
«Preventiva non è la nostra decisione di non aderire al Pd, semmai lo è stata la scelta di dar vita al nuovo partito in sedi extracongressuali come la riunione di Orvieto», dice Fulvia Bandoli, tra i primi firmatari della mozione Mussi.
«Non è vero che il Pd è il compimento dell’Ulivo», sostiene Gavino Angius. Il primo firmatario della terza mozione Ds dice anche che «senza un cambio di rotta la sinistra ne uscirà indebolita, non rafforzata».
Collini e Miserendino

«Ho apprezzato il tono dialogante, che purtroppo non ritroviamo sempre nei congressi di federazione,, e il fatto che abbia voluto soffermarsi sulle posizioni che la sinistra Ds ha portato nella discussione», dice Fulvia Bandoli parlando dell’intervista a D’Alema pubblicata ieri dall’Unità. «Non condivido invece - aggiunge l’esponente Ds che è tra i primi firmatari della mozione Mussi - le conclusioni e anche alcune delle sue analisi».
D’Alema vede delinearsi una “scissione senza pathos”.
«Intanto è sbagliato usare il termine scissione, perché nel momento in cui si scioglie un partito nessuno si scinde da qualcun altro. E per quanto riguarda il pathos, che secondo D’Alema mancherebbe alle posizioni della sinistra Ds, la passione manca alla politica tutta, e non da oggi, e questa è una delle ragioni della profonda crisi che la investe. Su questo dovremmo tutti interrogarci, sulla poca stima che i politici riscuotono tra i cittadini, sui crescenti personalismi, sulle decisioni prese nel chiuso delle stanze, sulla partecipazione che viene sistematicamente espulsa. E poi la passione mi pare manchi anche al percorso di costruzione del Pd, come hanno fatto notare sia Parisi sia Veltroni».
Ai congressi di sezione hanno votato 250 mila iscritti Ds, una buona prova di partecipazione, non crede?
«Sì, dopodiché nei congressi abbiamo tentato di portare il tema della perdita di consensi che il governo ha patito in questi mesi, il fatto che salari e stipendi in Italia sono i più bassi d’Europa, che molte delle riforme annunciate nel nostro programma non trovano concretizzazione: dalla lotta al precariato e la riforma della legge 30 all’abolizione dello scalone, da una piccola tassa sulle rendite che forse ci avrebbe evitato di aumentare la pressione fiscale anche su ceto medio e strati popolari all’abolizione delle leggi ad personam come il falso in bilancio. Ma l’unica risposta che ci è stata data è che il Pd sarà il rimedio di tutti i problemi. Risposta curiosa, consolatoria e inaccettabile».
E al riguardo, la vostra risposta è un addio, come dice D’Alema, “preventivo”.
«Preventiva non è la nostra decisione di non aderire al Pd, semmai è stata la scelta di dar vita al Pd in sedi extracongressuali, come fu l’assemblea degli eletti ad Orvieto, che tutto decise. Non dimentichiamoci che il congresso l’abbiamo voluto noi, come atto democratico dovuto, perché la maggioranza non vedeva che una ratifica alla fine della costituente».
Perché non vi convince l’invito di Fassino a fare la minoranza del Pd come fate la minoranza dei Ds?
«Non ci siamo mai mossi dai Ds, la nostra militanza dura da quaranta anni ed è stata leale. Questo è il congresso che scioglie il partito, è il congresso che dà mandato al segretario e al gruppo dirigente di fondersi con la Margherita. Nessuno può pensare che sia un obbligo aderire ad un nuovo partito se non si è convinti del suo profilo, dei suoi valori, della sua concezione della laicità, della sua appartenenza internazionale, del posto che viene attribuito al lavoro nella società. Sarebbe un centralismo democratico di ritorno in un partito che tra pochi mesi non esisterà più».
Quindi?
«L’adesione al Pd sarà individuale, libera, convinta. La nostra non adesione è altrettanto individuale, libera e convinta. Penso che nessuno di noi sia totalmente sereno in queste settimane. Sono scelte difficili entrambe. Più che gli appelli estremi lavorerei per un estremo rispetto delle scelte diverse e della nostra storia comune. E alla fine anche della nostra amicizia e delle nostre relazioni personali».
Fassino dice che non vede la vostra proposta alternativa.
«Bisogna riconoscere la legittimità di tutte le posizioni in campo, quella di chi vuole dar vita a un soggetto di centrosinistra, fondendosi con un partito di centro democratico, e quella di chi vuole continuare a stare a sinistra e tentare di unire tutta la sinistra che resterà fuori dal Pd, e che non è poca cosa. Non siamo di fronte ad un altro ‘89 e non va riprodotto quel clima, non vanno spinti i toni della drammatizzazione ma quelli del rispetto e della reciproca legittimazione».
Che vuole dire?
«Vorrei dalla maggioranza una risposta seria a questa domanda: potete sostenere con convinzione che riunificare la sinistra frammentata sia un compito e un obiettivo inutile, che non farebbe bene all’Italia e a tutto il centrosinistra? So che sarà difficile ma molto duro anche il compito di fare il Pd, e lo dico anche guardando ai congressi della Margherita, alle lotte di puro potere che in essi si esprimono, i reiterati no all’ingresso nel Pse».
Con che spirito andate a Firenze?
«Nei congressi dove annunciamo che non entreremo nel Pd facciamo gli auguri alla maggioranza, affinché la loro impresa possa avere buon esito. Vorremmo che prima o poi, magari proprio a Firenze, anche la maggioranza augurasse a noi di riuscire nell’impresa, forse minore ma non meno importante, di unire la sinistra che sta al governo ma che resta fuori dal Pd. Daremmo un esempio di politica più mite, meno fratricida, dove le strade possono separarsi senza scomuniche, salvando la stima e le relazioni. Forse un dibattito meno “maschio” piacerebbe di più anche ai nostri iscritti ed elettori. Ho guardato varie volte il forum dell’Unità on line sul Pd e vedo che un altissimo numero di lettori è molto critico sull’ipotesi uscita vincente dal congresso. Sono persone che non hanno votato ai congressi di sezione ma che voteranno nelle future elezioni».

l'Unità 2.4.07
«L’Ulivo? Non c’entra nulla. Insisto, fermatevi»
Angius: la sinistra esce indebolita e ormai tutti manifestano dubbi
di Simone Collini

«Non è vero che il Partito democratico è il compimento dell’esperienza politica e culturale che ha preso forma nell’Ulivo», dice Gavino Angius riprendendo parola per parola quanto detto da D’Alema nell’intervista di ieri all’Unità. «Può essere il suo Bignami, il suo riassunto, comunque un’altra cosa rispetto ad esso». Il primo firmatario della terza mozione Ds sottolinea che «il disegno originario dell’Ulivo teneva insieme tutte le forze del riformismo italiano, ma non in un solo partito, mentre oggi sono rimasti soltanto Ds e Margherita».
Tutti i sostenitori del Pd dicono che il nuovo soggetto non sarà semplicemente la somma di queste due forze.
«Sono allibito e ogni giorno di più mi convinco dell’errore catastrofico che stiamo compiendo, della strada sbagliata imboccata e del vicolo cieco in cui ci siamo infilati. Non c’è nessuno dei promotori del cosiddetto Pd che sia minimamente soddisfatto di come stanno andando le cose. Però nessuno fa niente per cambiare la rotta. Anzi, si dice che bisogna accelerare».
Si riferisce a quanto detto da Veltroni al congresso della federazione di Roma?
«Ma non solo. Noi abbiamo avanzato al segretario delle proposte, alcune integrative e altre correttive, ma nessuna è stata minimamente presa in considerazione. Neppure quella che abbiamo fatto alla chiusura dei congressi di sezione alla luce del risultato. Un partito non nasce per necessità ma per profonda convinzione. Cosa che oggi non vedo, mentre vedo un errato calcolo di convenienza. Dove sta scritto che non possiamo fermarci a valutare una situazione che è diversa da quella che ci si prefigurava?».
Per D’Alema la necessità è nel fatto che “i Ds non sono sufficienti a imperniare su di sé il bipolarismo italiano”.
«Non pensavo che noi avessimo una funzione di questo genere, ho sempre ritenuto che in Italia il bipolarismo fosse imperniato sulle coalizioni. Ma a parte questo, francamente non riesco a capire di cosa si stia discutendo. In alcuni momenti si dice che che la sinistra resta forte, che staremo nel Pse, in altri momenti si dice che tutto cambia, che bisogna andare oltre il socialismo. Come iscritto Ds mi sento preso in giro e vorrei che qualcuno mi spiegasse come stanno le cose. Restiamo agli ultimi due giorni: sul profilo identitario e la collocazione internazionale del Pd abbiamo sentito una opinione da Fassino, abbiamo sentito parole rassicuranti da D’Alema, Fioroni ha addirittura detto che i Ds devono uscire da Pse, Rutelli che il Pd non può entrare nel gruppo socialista europeo. Cioè, non c’è uno solo dei fautori del Pd che dica su una questione fondamentale come questa la stessa cosa».
D’Alema dice che si vuole dar vita a una più grande sinistra europea: la convince?
«Vorrei far notare che la parola sinistra nel documento fondativo del nuovo partito non è mai nominata. In quel documento ci sono i profili identitari di un partito che è più centrista che di sinistra. Si sta estinguendo ciò che c’è, cioè la più grande forza della sinistra italiana che è parte del socialismo europeo. Se l’appartenenza al Pse non è così importante, se bisogna andare oltre il socialismo, se a fronte di una violazione della Costituzione sollecitata da una Chiesa che pretende di dettare le leggi dello Stato si fa nascere un partito che ha un profilo identitario così incerto e precario, non stiamo rafforzando la sinistra, la stiamo indebolendo».
L’appello di D’Alema è di partecipare alla costruzione del nuovo soggetto: non crede che sarà nella fase costituente che si delineerà il profilo del Pd?
«Il profilo identitario si sta già connotando e la fase costituente riguarderà soltanto Ds e Margherita. Non ci saranno forze di ispirazione socialista, lo Sdi, i Verdi e le altre culture ambientaliste. Il disegno originario dell’unione dei riformismi italiani non c’è più, è sparito. C’è una lotta di potere, espressione non mia ma di Parisi, che si sta sempre più disvelando. Così come è chiaro che il 22 aprile i Ds si sciolgono, perché i gruppi dirigenti riceveranno il mandato di formare un nuovo partito. E allora perché meravigliarsi se a sinistra c’è chi vuole aggregare forze e culture diverse che fanno riferimento al socialismo democratico, all’ambientalismo, al femminismo, alla nonviolenza».
Forze e culture che Veltroni vedrebbe bene nel Pd.
«Dice cose vere, che può constatare chiunque. Mi domando però perché non ne tragga le conseguenze. Chi l’ha deciso che di fronte a un profilo politico che si sta delineando del tutto diverso da quello ipotizzato si debba comunque andare avanti? Anche Parisi: se il percorso si sta realizzando in modo diverso da quello programmato, perché non si prendono iniziative, non si corregge la rotta? Rischiamo di perdere forze tutti».
Causa una scissione?
«Qui non si scinde niente. Però ci sarà chi non aderisce, perché non convinto. Penso che sia responsabilità della maggioranza interloquire e accogliere le proposte avanzate dalle minoranze. E stranamente, molte di queste valutazioni corrispondono a quelle di alcuni dei più accalorati sostenitori del Pd. Non è che si possono fare richiami all’obbedienza, ognuno sarà libero di aderire o meno. Non vorrei che si rinverdissero i principi e le pratiche del centralismo democratico. Non si può chiedere a iscritti o dirigenti di aderire a un progetto che non si trova convincente».

l'Unità 2.4.07
IL RETROSCENAIL sindaco di Roma si candida a «garante» dei dubbiosi e guarda a un cantiere che recuperi chi oggi annuncia l’addio, magari attraverso una fondazione...
E Veltroni vuole tenere la porta aperta al dissenso della sinistra Ds
di Bruno Miserendino

Il partito democratico non c’è ancora, e già dovrebbe essere un’altra cosa. Convince l’obiettivo, non piace il processo che dovrebbe farlo nascere. È il paradosso di questi giorni. Anche chi l’ha sempre voluto, da tempi insospettabili, fino quasi a identificarsi con il progetto, dice che così non va, perchè quello che sta nascendo è un’altra cosa, comunque diversa da quella che aveva immaginato. Walter Veltroni ha lanciato l’altro giorno la sua provocazione al congresso romano dei Ds e la sortita ha lasciato il segno. Non tanto perchè temporalmente vicina alle critiche di un altro padre del partito democratico, l’iperulivista Parisi, e alla freddezza, almeno così viene descritta, di Romano Prodi, verso il processo in corso, ma perchè Veltroni si è fatto interprete di un clima diffuso.
C’è in giro un’aria strana, racconta chi ha sentito e parlato con Walter Veltroni, e lui ha voluto dare voce a chi teme che alla fine di questo processo nasca «un partito moderato e non vero ampio e ricco partito riformista». Lui ha detto così: «Il Pd non si può ridurre nella somma di due gruppi dirigenti che si mettono insieme, magari già divisi al loro interno, magari già attraversati da quel rischio che vedo in casa nostra: quello della costituzione di piccoli gruppi, piccoli poteri che si organizzano». Insomma: Ds e Dl, ormai alla vigilia dei loro congressi, vanno avanti verso il progetto, scontando liti, perplessità e rischi di scissione, ma alla generosità e all’impegno dei leader e dei militanti non corrisponde un entusiasmo del popolo dell’Ulivo. Per Veltroni «il partito democratico sembra nascere senza il partito democratico». Lui, dice chi ha visto crescere la sua preoccupazione negli ultimi tempi, vorrebbe proporsi come garante di tutti quelli che si aspettavano un cantiere diverso. Un cantiere che, tra l’altro, deve veder dentro persone e gruppi che non farebbero mai parte nè di Querce, nè di Margherite.
È vero, i sogni è facile averli e difficile realizzarli, ma attenzione, avvertono quelli che l’hanno sentito: l’obiettivo di Veltroni è prima di tutto aiutare Ds e Margherita, e scongiurare una scissione annunciata, quella di Fabio Mussi, contrario alla nascita del partito democratico. Il sindaco di Roma non si capacita di vedere un uomo come Mussi «lontano da lui e vicino a Bertinotti». Gliel’ha detto apertamente. Un appello fuori tempo massimo, che magari poteva essere fatto prima, come dice qualcuno al Botteghino?
«Non credo che cambierà le cose, ma di Veltroni apprezziamo i toni, molto diversi da quelli di altri», dice Carlo Leoni vicepresidente della Camera e esponente di spicco della sinistra Ds. «Credo - aggiunge - che Veltroni abbia voluto rappresentare il disagio di non pochi tra i sostenitori del PD, che giudicano deludente il modo in cui nasce questa formazione». Ma nel merito anche Leoni, che pure è per anni è stato molto vicino alle posizioni di Veltroni, considera non sufficiente l’appello del sindaco di Roma. Almeno per il momento. «Sottovaluta la questione dell’appartenenza al campo socialista». Al congresso Ds su questo punto Veltroni è stato abbastanza netto. «Dove arriverà il Pd a livello internazionale non è un problema fondamentale, non è una ragione discriminante». «È vero - ammette Leoni - l’appartenenza internazionale non è argomento di cui si discute sull’autobus tutte le mattine, ma nell’epoca della globalizzazione stare in una famiglia europea è fondamentale. Fassino e gli altri non dicono mai chiaramente che questo partito sarà lì. La Margherita è molto più perentoria e dice: lì mai. Per loro è una condizione, noi non abbiamo posto la condizione opposta». Conclusione di Leoni: «La cosa che sconcerta è che si dica: il partito democratico nasce, poi vedremo come sarà. La dice lunga sull’operazione». Appello inutile, allora, quello di Veltroni? Forse no. «Se viene nelle prossime settimane una riflessione del gruppo dirigente che porti a uno stop per ricominciare a discutere, noi siamo pronti».
Paradossalmente anche Veltroni sembra dire una cosa simile: serve una riflessione, un cambio di marcia rispetto alle modalità. Non è chiaro come lui, che del partito democratico si sente un antesignano, vorrà spendersi nelle prossime settimane. Magari, suggerisce qualcuno, dopo il congresso, un’associazione, una fondazione che possa raccogliere e coinvolgere anche gli scettici e i delusi, che includa e non escluda, potrebbe vederlo all’opera. Perchè non c’è cosa peggiore che avere un sogno, far di tutto per realizzarlo e scoprire che è diverso da come si era immaginato. Anche Bersani ieri ha lanciato un segnale a Mussi: «Nella mia testa quello che deve nascere è una grande forza della sinistra democratica, dove la parola sinistra deve avere piena cittadinanza».

l'Unità 2.4.07
Prc: «È ora di risarcimento sociale»
Giordano a Montezemolo: «Facile parlare a pancia piena». Migliore: «Da Prodi vogliamo atti concreti»
di Wanda Marra

RIVENDICA l’autonomia identitaria di Rifondazione Comunista.Come partito politico e partito di governo. Ammonisce Montezemolo («è semplice dire che non bisogna ridistribuire con la pancia piena») e Bagnasco («non è tempo di crociate»). Rilancia il percorso che porta
Rc verso la Sinistra europea, per poi arrivare a una nuova soggettività politica. Parla un’ora esatta, Franco Giordano, nelle sue conclusioni alla Conferenza di organizzazione di Rifondazione di Marina di Carrara. I temi di fondo sono due. il modo di Rc di stare al governo: «Non siamo al governo per necessità o per emergenza democratica. Il nostro starci è frutto di una condivisione di un programma e di un rapporto intenso con il popolo dell’Unione», E il futuro di Rifondazione, che appare scandito per tappe: prima la Sinistra europea, poi il Cantiere, luogo di confronto aperto a tutta la sinistra, verso una «nuova soggettività politica». «Il nostro percorso è autonomo, ma non può sfuggire l’enorme e positiva novità che emerge dalle scelte della sinistra Ds. Si mostra una disponibilità a costruire una nuova soggettività politica a sinistra dando al nostro progetto più grandi possibilità. Non ci lasceremo sfuggire questa occasione per costruire una sinistra alternativa», dichiara Giordano. Ma, «non abbiamo nessuna intenzione di sciogliere il Prc», né «vogliamo costruire un aggregato di resistenti al Pd».
La vera novità della Conferenza di organizzazione sta proprio qui, nell’aver indicato un approdo diverso, rispetto a quello che doveva essere il tema principale della discussione, la Se. Che si deve andare "oltre" ieri lo ribadisce, insieme a Giordano, il gruppo dirigente. «Dobbiamo andare verso un soggetto plurale della sinistra» dichiara Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera. «Per me, la strada è chiarissima: si deve fare subito la Se, poi il Cantiere, per arrivare a una nuova soggettività politica», afferma Giovanni Russo Spena, capogruppo in Senato. La proposta, dunque, è lanciata ufficialmente. Bisognerà vedere come reagirà il partito, che ad oggi appare tutt’altro che compatto. Ma per formule e soluzioni è ancora troppo presto.
E intanto, Giordano torna a scuotere il governo, a presentargli l’"agenda" del Prc: «Si è cercato di cancellare l’esperienza dei movimenti di massa, l’esperienza del conflitto sociale dalla scena politica e le rivolte delle comunità, contro la Tav, il Ponte sullo stretto, la base di Vicenza». In questi mesi, accusa, i "poteri forti", da Montezemolo alla Cei «hanno cercato di condizionare l’azione del governo. Montezemolo dice di non disperdere il ’tesoretto’ ma vorrei sapere se conosce la condizione di molti lavoratori. Sarebbe uno spreco diffondere queste risorse? A pancia piena è semplice dire che non bisogna redistribuire». Ma invece, deve iniziare «la stagione del risarcimento sociale». Contro le parole del Presidente di Confindustria si era scagliato anche Migliore nel suo intervento: «Montezemolo teme che ce la facciamo, per questo non basterà alzare la voce all’interno della maggioranza, dovremo ottenere dei risultati. Abbiamo già impedito che Padoa Schioppa si mettesse direttamente d’accordo con il Presidente di Confindustria per distribuire il ’tesoretto’». Durissima la risposta di Giordano anche alle ultime affermazioni di Bagnasco: «Non è tempo di crociate». E poi un avvertimento tutto interno al partito: «Venendo a contatto con le istituzioni, dobbiamo evitare la degenerazione morale». È un problema anche per Rifondazione come nel caso di Giuseppe Bevilacqua, segretario provinciale di Crotone, indagato nell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex assessore della Regione Calabria dell’Udc per corruzione e voto di scambio. O a chi accumula incarichi incompatibili o usa il partito. Giordano risponde a Parisi, sull’Afghanistan: «Abbiamo già segnato con un decreto e con una mozione che rappresenta l’impegno del Parlamento il nostro orientamento». Insomma,la natura della missione non si cambia. Nessuna sorpresa dal voto del documento finale della maggioranza: non partecipa Sinistra critica di Cannavò e Turigliatto. Vota diviso, (era già successo) l’Ernesto: con la maggioranza si schiera l’area guidata da Grassi e Burgio, mentre non partecipa al voto quella che fa riferimento a Giannini e Pegolo.

l'Unità 2.4.07
PROCESSO APPELLO
Delitto Cogne: oggi tocca alla difesa
La parola passa alla difesa oggi al processo d'appello per il delitto di Cogne. L'avvocato difensore Paola Savio e lo studio legale di Paolo Chicco nel quale lavora, hanno trascorso un fine settimana tra le carte processuali per confutare punto per punto la requisitoria della pubblica accusa, per salvare dal carcere Annamaria Franzoni, la mamma di Samuele, ucciso nel lettone dei genitori il 30 gennaio 2002. Il procuratore generale è stato inesorabile: è stata lei ad ammazzarlo, forse usando un pentolino e lo avrebbe fatto per punizione, perché lui piangeva e non le consentiva di accompagnare alla scuolabus l'altro figlio, Davide. Un omicidio in un momento di rabbia, in un raptus, niente affatto causato da una patologia. Anzi, Corsi ha sottolineato l'assoluta normalità della donna. I punti oscuri dell' inchiesta hanno, secondo lui, una spiegazione: il pigiama infilato al contrario, di fretta, perché Samuele non si accorgesse che la mamma stava uscendo e lo avrebbe lasciato solo, il calzino sparito perché utilizzato per afferrare l'arma del delitto e quindi gettati via entrambi. E su quei punti, sulle zone d'ombra si soffermerà la difesa che proporrà una ricostruzione tutta diversa della mattina dell'omicidio. D'altra parte è un processo tutto indiziario - dicono i legali - non ci sono prove certe, incontrovertibili. E soprattutto non c'è movente, non c'è arma del delitto e non c'è confessione da parte dell'imputata, ferma, decisa a sostenere la sua assoluta innocenza. All'arringa finale l'avvocato Paola Savio è arrivata studiando tutti i dettagli dell'inchiesta, ben sapendo che ha avuto a sua disposizione pochissimo tempo. «Il procuratore generale - ha detto ieri Paolo Chicco - sta lavorando al processo dal gennaio del 2005, noi da pochi mesi. Il rapporto è sbilanciato».

l'Unità 2.4.07
Welby, ora il gip dice «no»:
L'anestesista di nuovo sotto accusa
Respinta l’archiviazione chiesta dalla procura di Roma
Riccio: «Ho fatto quello che era giusto, lo dimostrerò»

IL GIP DI ROMA, Renato La Viola, ha rigettato la richiesta di archiviazione per Mario Riccio, l’anestesista che ha interrotto la ventilazione meccanica a Piergiorgio Welby. Lo ha reso noto l’avvocato difensore del medico, Giuseppe Rossodivita, che ha spiega-
to che ieri i carabinieri di Cremona hanno notificato a Riccio l’invito ad eleggere domicilio e nominare un difensore di fiducia in relazione al procedimento relativo alla morte di Welby, per il quale la Procura di Roma - proprio in ottemperanza a quanto disposto da La Viola - ha proceduto all’iscrizione del medico nel registro delle notizie di reato con l’ipotesi di «omicidio del consenziente» (art. 579 c.p.). Il gip, infatti, non ha ritenuto di «accettare» la richiesta di archiviazione avanzata il 6 marzo 2007 dal sostituto procuratore Gustavo de Marinis, controfirmata dal procuratore capo della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara ed ha ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’iscrizione di Riccio nel registro degli indagati. L’udienza camerale, ha spiegato il legale, verrà fissata nei prossimi giorni ed in seguito lo stesso gip deciderà se archiviare il procedimento, ordinare al pm di fare ulteriori indagini oppure ordinare di formulare l’imputazione coatta a carico del medico.
La procura di Roma, richiedendo l’archiviazione sulla morte di Welby, aveva ribadito che a proprio avviso - anche a seguito degli accertamenti compiuti in sede di consulenza collegiale medico-legale che avevano escluso qualsiasi rilievo causale della sedazione in relazione al decesso - non era ravvisabile alcuna ipotesi di reato nei fatti accaduti la sera del 20 dicembre 2006, quando Riccio sedò Piergiorgio Welby mentre procedeva al distacco del ventilatore respiratorio.
Secondo quanto emerso ieri a Piazzale Clodio, la procura di Roma sembra di nuovo orientata a chiedere l’archiviazione per il medico anestesista. Il procuratore Giovanni Ferrara ed il sostituto Gustavo De Marinis, firmatari della richiesta di archiviazione non accolta dal gip, rimangono dunque della loro idea: con l’interruzione della ventilazione meccanica a Welby praticata da Riccio - come scritto nel provvedimento inviato all’ufficio del gip il 6 marzo scorso - è stato attuato un diritto del paziente che «trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall’Ordinamento italiano e ribadito in fonte di grado secondario dal codice di deontologia medica».
Incredulo, Mario Riggio ha così appreso della inaspettata decisione del gip. «Non me l’aspettavo - ha commentato - ma resto della mia opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto. Sono mesi che vivo in una certa tensione ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Non ce lo aspettavamo - ha concluso - soprattutto visti i contenuti della richiesta di archiviazione, che erano molto netti anche rispetto a quanto detto nella perizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto quanto prima».
A difesa di Mario Riggio, ancora una volta, si sono immediatamente schierati i Radicali, con in testa Marco Cappato e Marco Pannella. «Non comprendiamo- hanno spiegato - quali considerazioni abbiano portato il gip La Viola a rigettare la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. Abbiamo lottato al fianco di Piero, in ogni sede e con le armi della nonviolenza. Se il dottor La Viola deciderà di formulare coattivamente l’imputazione, siamo pronti a continuare quella lotta nelle aule dei tribunali».
Ieri, intanto, Mina Welby è intervenuta durante il comitato nazionale dei Radicali Italiani per rilanciare le battaglie portate avanti assieme a suo marito. «La cosa importante è poter spingere gli italiani a partecipare alle battaglie radicali, perché tanti la pensano come Piergiorgio su una buona legge per l’assistenza della persona, per la fine della vita e per il testamento biologico». E poi sull’argomento laicità dello Stato ha detto: «Adesso la chiesa cattolica mette bocca su tutto: non solo istruisce i suoi fedeli ma vuole sopraffare la laicità dello Stato imponendo il suo magistero sui Dico, sugli omosessuali e sulla donna nelle sue scelte per la fecondazione assistità».

l'Unità 2.4.07
Il seme della follia e dell’arte
di Giuseppe Montesano

Che cosa hanno in comune arte e follia? La tentazione di rispondere: niente, è forte. In un secolo in cui l’estetismo narcisistico si è incarnato al suo massimo nei delitti di massa degli Hitler e degli Stalin, nel secolo che ha visto la body-art inseguire la pazzia delle mutilazioni fino all’estremo limite dell’autodistruzione, si vorrebbe tanto credere che l’arte vera sia solo un tranquillo e cristallino torrente d’alta quota e non anche l’acqua di una fogna popolata dalla peste della violenza su sé e gli altri. Ma è così? In questi giorni la Alet ha mandato in libreria lo straordinario Arte e follia in Adolf Wolffli dello psichiatra Walter Morgenthaler, e questo libro tormentoso e inquietante ci spinge di nuovo nello spazio ambiguo che taglia e unisce normalità e follia nell’artista. Wolffli era un molestatore di bambine e un violento che visse 35 anni chiuso in manicomio, e che incoraggiato da Morgenthaler creò una sterminata opera da grafomane e decoratore e autore di collage a proposito della quale Breton scrisse: «L’opera di Wolffli è tra le tre o quattro più importanti del Novecento». Wolffli fasciò letteralmente la sua esistenza in una secrezione organica di spartiti decorati come mandala, di labirintici grafismi, di poesie dove il linguaggio esplode come nei dadaisti, di collages che destrutturato il linguaggio dei segni: giungendo a eseguire le musiche da lui composte su pentagrammi di sei righe con una trombetta di carta: eseguendo partiture che sembrano anticipare quelle a macchie, a segni, a grappoli, a colori dei Cage, dei Donatoni e di tutto il movimento musicale post-dodecafonico. Totalmente incolto, Wolffli scrive poesie come Anche Dio ha un parco-cani gigante: «Dio-Padre, -buldogga! La culla n o, Grì!! È nero, ’na cialda, là lììì: O vatta ca stiiga!Germana, No nì!! Prendilo, smoralo! Nascondi lo stek…» Come commentare questo delirio che sembra un Morgenstern abbracciato a un Carroll ma tradotti entrambi nella lingua di rumori di Antonin Artaud in manicomio? (E a proposito di traduzione: un bravissima alla superba traduttrice Alessandra Pedrazzini, che davvero si vorrebbe vedere prima o poi al lavoro su Morgenstern…) Ma Arte e follia, tra l’altro accompagnato da un vero e proprio saggio di Michele Mari che vale la pena leggere come testo a sé, non è solo un racconto affascinante su un personaggio romanzesco, è un libro complesso e disturbante, e andrebbe letto da chiunque voglia capirne di più sull’intreccio tra arte e follia: su cui getta una luce forse unica. L’impressione che si ha leggendo Morgenthaler è che lo schema di dissolvimento delle forme prestabilite su cui si fonda l’arte, abbia moltissimo in comune con la dissoluzione dell’io della follia: ma che, come diceva già Novalis in un famoso frammento sull’ironia dei Romantici, il luogo chiave dell’arte stia nel fatto che ciò stesso che ha provocato la ferita sia poi, o pretenda di esserlo, il mezzo della guarigione. Cortocircuito logico, sì: ma come non vederlo all’opera nel lavoro artistico dei non-folli? Da meditate, da leggere e rileggere: ma ci vuole coraggio…
Su un’arte non certo «folle» ma sicuramente poco nota in Occidente parla invece un libro dell’antropologo Jean-loup Arselle: L’arte africana contemporanae, uno studio che mette in crisi lo statuto che «l’arte contemporanea» ha oggi nelle società avanzate, toccando questioni essenziali: «L’epoca attuale potrebbe dunque essere considerata come quella della non-distinzione tra il mondo della produzione industriale e il mondo dell’arte», ma anche aprendo uno spiraglio su un’arte che in parte potrebbe mandare in crisi questo modello globale, analizzata nei suoi autori e nella sua autentica originalità: «L’Africa occupa una posizione decisamente contraddittoria: la condizione di fatiscenza può apparire come un’autentica situazione di rigenerazione dell’arte contemporanea, ma allo stesso tempo è sotto una forma vetrificata che essa viene offerta allo sguardo occidentale»: l’Occidente tenta così di far valere dell’arte africana proprio ciò che è meno essenziale, il folclore e lo stupore compatitorio che ne nasce. Ma non è poi questo insistere su folclore come spettacolarità anche al centro del conformismo artistico attuale?
l'Unità 2.4.07
Arte e follia in Adolf Wolffli
Walther Morgenthaler
pp.232 (25 tav. a colori), euro 20,00 Alet

L’arte africana contemporanea
Jean-Loup Amselle
traduzione Fernanda Littardi
pp. 188 (16 ill. a colori), euro 19,00
Bollati Boringhieri

l'Unità 2.4.07
IL CASO Dai DICO al Disegno Intelligente si torna a parlare di ciò che sarebbe «naturale». Un libro di Orlando Franceschelli spiega perché non possiamo farlo
Secondo natura, contro natura
Dopo Darwin sono parole senza senso
di Pietro Greco

Il tema è ritornato di stringente attualità: si parli dei DICO o del Disegno Intelligente, delle relazioni omosessuali o dell’ingegneria genetica, non si fa altro che evocare il concetto di «natura» o della sua immagine speculare di «contro natura». Talvolta lei, la natura, ci è dipinta così potente (e coerente) da poter dettare le norme etiche del comportamento umano: per cui la vita in famiglia sarebbe «secondo natura» e la convivenza tra persone dello stesso sesso «contro natura». Talaltra ci viene dipinta così debole da essere incapace di generare l'uomo e/o così degenere da essere indegna di contenere l’uomo (di dare senso alla sua vita).
Cos’è, dunque, la natura? E quale ruolo l’uomo deve assegnare a se stesso nella natura? A queste domande risponde, in maniera molto pertinente, il nuovo libro che il filosofo Orlando Franceschelli ha fatto uscire per i tipi della Donzelli editore: «La natura dopo Darwin» (pagg. 200; euro 16,90). E già dal titolo Franceschelli ci dice che, dopo Charles Darwin, non è più possibile evocare a sproposito il concetto di natura.
Prima era possibile riconoscere una cesura netta e definitiva tra l’uomo e la natura, ed era possibile persino collocare «l’uomo fuori dalla natura», come fa gran parte del pensiero cristiano o come fanno, almeno in parte René Descartes (nella parte mentale) e Immanuel Kant (nella parte noumenica).
Prima era possibile considerare naturale l’ambiente che raccoglie le cose non prodotte dall’uomo e artificiale l’ambiente che accoglie le cose prodotte dall’uomo. Prima era possibile a qualcuno considerare l’uomo un sovrano ineffabile della natura contaminante e a qualche altro considerare l’uomo come il baco che corrompe la natura altrimenti incontaminata. Prima era dunque possibile immaginare sia un’«etica fuori dalla natura», capace di riscattare l’uomo dalla condizione di bestialità, sia al contrario immaginare un’«etica naturale» capace di indicare e sancire i comportamenti «contro natura».
Tutto questo, dopo Darwin e la pubblicazione nel 1859 dell’«Origine delle specie», semplicemente non è più possibile. Perché Darwin colloca definitivamente l’uomo «dentro la natura». Abbattendo in maniera definitiva sia il mito dell’«uomo sovrano della natura», sia il mito analogo e opposto dell’uomo «corruttore della natura». Di più: Darwin restituisce all’uomo la consapevolezza piena di essere prodotto e, insieme, attore di un processo di evoluzione della natura, parola che diventa semplicemente sinonimo di universo fisico. Quindi di totalità. La natura non è altro che il cosmo in cui l’uomo vive e di cui l’uomo è parte. Parte evolutiva. Parte che evolve.
Facendo questo, si dice che Darwin abbia detronizzato, contemporaneamente, l’uomo e Dio. Sottraendo al primo la condizione di «centro del mondo» e al secondo la condizione di «necessità per il mondo». In ogni caso, dopo Darwin abbiamo la consapevolezza che l’uomo agisce sempre «secondo natura», perché in tutte le sue dimensioni l’uomo è natura. E che, quindi, non esistono comportamenti «contro natura».
In natura non esiste un’etica. Non esiste un comportamento buono in assoluto che si distingue da uno cattivo in assoluto. Ma se non esiste un’«etica naturale», vengono per questo meno le basi della morale? Viene per questo meno la possibilità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male? Niente affatto. Anzi, al contrario la responsabilità umana ne viene esaltata. Nella prospettiva naturalistica - l’unica, ormai, possibile dopo Darwin - l’uomo diventa pienamente e totalmente responsabile delle sue azioni.
Il motivo è molto semplice. L’etica umana è un prodotto della cultura dell’uomo. Un prodotto, peraltro, evolutivo: cambia nel tempo e con le condizioni a contorno. Tuttavia sono state la selezione naturale e, più in generale, l’evoluzione biologica che hanno prodotto nell’uomo (e, forse, non solo nell’uomo) una capacità di formulare giudizi etici, di generare norme morali.
Se non esiste, dunque, un’«etica naturale», esiste però una naturale capacità dell’uomo di formulare un’etica (di formulare diverse griglie etiche). Per questo, lungi dal proporci un «mondo senza morale», la visione darwiniana ci propone un «naturalismo impegnativo»: l'uomo, con la sua biologia e la sua cultura, è capace di distinguere ciò che è bene e ciò che è male. E con questa sua capacità (essa sì naturale) può elaborare quei principi - che, in maniera molto profonda, Orlando Franceschelli chiama di «saggezza solidale» - su cui fondare le migliori relazioni con i suoi simili e con il resto della natura.

l'Unità Lettere 2.4.07
La Chiesa lasci perdere il concetto di natura e guardi alla propria storia
Cara Unità,
si ricorda di Lodovico, poi diventato padre Cristoforo, e del signore arrogante, dei Promessi sposi? Procedevano entrambi rasente al muro, e nessuno dei due voleva cedere il passo all'altro. In fondo a nessuno dei due importava realmente di staccarsi dalla muraglia: era solo una questione di puntiglio. Così, credo che alla gerarchia ecclesiastica, in realtà, non importi poi tanto del fatto in sé dei Dico; è diventata ormai questione di puntiglio. Non si spiega altrimenti l'esagerazione che ha spinto monsignor Bagnasco a mettere sullo stesso piano l'omosessualità, che grazie a Dio non è reato, e la pedofilia che è reato. La gerarchia sta perdendo l'orientamento; ed io a questo punto vorrei darle una mano, darle un consiglio spassionato: si calmi, si tranquillizzi e, soprattuitto, lasci perdere l'argomento «natura», perché finisce per darsi la zappa sui piedi. Ha detto Bagnasco: «Se cade il criterio antropologico dell'etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura... è difficile dire di no... al partito dei pedofili». Ora l'arcivescovo deve spiegare secondo quale criterio dovremmo giudicare oggi un giovane dai diciotto ai ventiquattro anni (l'età in cui i giovani ebrei prendevano moglie al tempo di Gesù) che si unisse ad una ragazzina di dodici anni e mezzo (l'età in cui si maritavano le ragazze). Secondo quale criterio giudicare Giuseppe, che sembra fosse uomo già maturo, sposo di Maria, ragazzina non ancora tredicenne.
Francesca Ribeiro

Repubblica 2.4.07
Ds, appelli contro la scissione Parisi: poco pathos per il Pd
Cresce il malessere degli ulivisti: dovranno contare i cittadini
Il ministro della Difesa: senza un coinvolgimento largo rischiamo di fare l´ennesimo partito
D´Alema e Bersani: "No ai divorzi preventivi, la nuova forza ha bisogno di tutti"
CARMELO LOPAPA

ROMA - Scende il sipario sui congressi locali di Ds e Margherita e i due partiti si preparano al passaggio cruciale delle assise nazionali in programma fra tre settimane che dovranno aprire la fase costituente del Partito democratico. Ma se dentro il partito di Rutelli tiene banco l´armistizio siglato tra l´area che fa capo al leader e i popolari, in casa diessina diventa un coro l´appello alla minoranza interna di Fabio Mussi perché venga scongiurata la «scissione preventiva».
È proprio «un ultimo appello» quello che lancia il presidente del partito Massimo D´Alema, in un´intervista a l´Unità. Dice: «Proviamo ancora una volta a lavorare insieme, a discutere, a confrontarci», perché «il Pd ha bisogno delle idee e della passione di tutti». Una scissione sarebbe «fredda, senza pathos». Ma è tutta la maggioranza del partito che ormai da giorni esercita un pressing costante, quanto privo di risultati (al momento), nei confronti della sinistra interna. Ieri il ministro per lo Sviluppo Pierluigi Bersani ha chiesto a Mussi di non abbandonare il partito per definire insieme «i tratti del volto» del nuovo soggetto in cui «la parola sinistra deve avere piena cittadinanza».
Per il partito che verrà c´è già un asse che si consolida e che raccoglie consensi crescenti: quello «ulivista» riconducibile sempre più all´asse Veltroni-Parisi. Tanto il sindaco diessino di Roma quanto il ministro della Difesa (Margherita) nel fine settimana avevano espresso tutte le loro perplessità sul cammino di costruzione del Pd, che «non potrà essere una sommatoria» di due gruppi dirigenti e dovrà lasciarsi alle spalle i vecchi equilibri di potere dei due partiti. Si dicono d´accordo in tanti, da Franco Monaco («Il Pd deve essere il partito dei cittadini e non degli apparati») al dipietrista Formisano («Hanno ragione Veltroni e Parisi, finalmente»). Il ministro guarda al futuro ma denuncia soprattutto le «risse di potere e diffusa illegalità» nei congressi del suo partito. Avverte: «Manca la tensione emotiva, il pathos, il senso della missione che dovrebbe accompagnare la nascita di un partito nuovo. Se non riusciamo a coinvolgere i cittadini, come quelli che hanno partecipato spontaneamente alle primarie, rischiamo di fare l´ennesimo partito». Se il ministro ulivista sarà al Congresso della Margherita del 20-22 aprile a Cinecittà resta un´incognita, che l´ultima battuta che i suoi gli sentono ripetere in questi giorni («Di certo in quei giorni parlerò, non ho deciso ancora dove») non contribuisce a svelare.
Più certa appare la «costituente» che un gruppo di ulivisti doc sta tentando di organizzare in contemporanea. Willer Bordon, presidente dell´Assemblea federale della Margherita e promotore dell´associazione «Libera l´Italia» col verde Boato, col dipietrista Formisano e con i colleghi Manzione e D´Amico, spiega: «Quel che ha detto Parisi è tragicamente vero. Allora occorre pensare se nei giorni del congresso non si debba organizzare una costituente, promossa da coloro che pensano che il Pd non possa risolversi nella sommatoria di due partiti». Se quell´appuntamento ci sarà, vedrà l´adesione di Mario Adinolfi (direttore di "Nessuna Tv" e editorialista di "Europa") e della sua «Generazione U», blogger dimargheritini. Il giornalista ricorda che i ricorsi pendenti nel partito riguardano «15 regioni», che c´è un «vulnus di legalità» e che «se Rutelli non farà chiarezza, noi non parteciperemo al congresso, andremo altrove». Un malessere che trova riscontro nello stato d´animo di intellettuali e saggi che lavorano al cantiere del Pd. Salvatore Vassallo, tra gli autori del «manifesto», condivide le critiche mosse da Parisi e Veltroni: «La mia impressione è che non ci sia una sufficiente chiarezza sulle modalità con le quali la dirigenza Ds e della Margherita intendano avviare la fase costituente del Pd: se lo facessero per quote sarebbe un travisamento della filosofia originaria». Il costituzionalista Stefano Ceccanti vedrebbe bene «la nascita di una componente ulivista», magari proprio sull´asse Veltroni-Parisi, che si affianchi a quelle dei due partiti, per aprire ad altri soggetti. Gregorio Gitti dell´Associazione per il Pd non la vuole chiamare corrente, ma confida in una «una componente liberal che vada oltre la retorica ulivista per condurre battaglie concrete su legalità, liberalizzazioni e pubblica amministrazione efficiente».

Repubblica 2.4.07
Il leader della "terza mozione": "Il Pd è solo il bignami dell´Ulivo"
Angius: "Tutto già deciso non so se sarò al congresso"
il nuovo partito Nasce senza un profilo identitario, senza idee sulla collocazione internazionale
GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - «Non è vero che il Partito democratico sia la continuazione dell´Ulivo, come dice D´Alema. Nel ‘96 c´erano tutti, oggi c´è una somma di apparati, di iscritti e di elettori di Quercia e Margherita. Il Pd quindi non l´Ulivo. È il suo bignami, un riassuntino». Gavino Angius è il capofila, con Mauro Zani e Alberto Nigra, della terza mozione dei Ds, la sorpresa del dibattito congressuale. Ha preso il 9% (quasi 25 mila voti) con un documento zeppo di dubbi e domande sul percorso del Pd. «E oggi va anche peggio - dice - . Perché Fassino accelera invece di cambiare strada». Angius non annuncia scissioni, ma guarda a un possibile Aventino in occasione del congresso di Firenze. «Dice bene Parisi: parlerò il giorno del congresso, ma non so dove. La penso allo stesso modo. Io comunque aspetto un ripensamento dei vertici, ci sono ancora venti giorni».
L´ipotesi scissione dunque non vi riguarda?
«Non so di quale scissione si parli. D´Alema sostiene che quello di Mussi è uno strappo preconcetto. Ma di preconcetto io vedo solo il Pd che deve nascere per forza, come una necessità. Un evento già deciso a tavolino e che si sta realizzando andando addirittura oltre la la mozione di Piero Fassino. C´è fretta, c´è un´accelerazione. Però non sappiamo di quale Pd stiamo parlando. Quello di Veltroni o quello di Fassino? Quello di Rutelli o quello di Parisi? Come semplice iscritto ai Ds mi sento preso in giro».
Sempre di nuovo soggetto parliamo, però.
«No. Qui parliamo di un caso unico al mondo. In genere si fonda un partito sulle ali di un forte convincimento, di uno spirito unitario. Invece a me sembra che ad animare una parte dei Ds e una parte della Margherita intervenga un altro spirito: appena è tutto fatto, a quelli con cui costruiamo la nuova forza gli spacchiamo le ossa. Non ha molto appeal un simile afflato».
L´alternativa di Mussi è costruire una nuova sinistra. E la sua?
«Penso che si stia seguendo una strada sbagliata. E non lo dico solo io, ma gli stessi protagonisti. Non c´è nessuno che sia soddisfatto di come procedono le cose. Però si va avanti. Sarebbe un gesto di saggezza ammettere di aver sbagliato, ma temo che non avverrà. Nella nostra mozione e nel nostro ultimo appello abbiamo chiesto delle risposte. Sul Pse, per esempio. Rutelli dice: non entreremo mai. Fioroni chiede ai Ds di uscirne. D´Alema e Fassino garantiscono: la nostra adesione al socialismo europeo non è in discussione e Veltroni considera l´argomento irrilevante. Mi si vuol dire di che cosa stiamo parlando? Un partito non può nascere senza un profilo identitario, senza un´idea sulla sua collocazione internazionale. Si dice: bisogna superare Ds e Margherita. D´accordo. Ma come? La risposta è che l´Ulivo esiste già da undici anni. Ma un Ulivo senza una componente socialista, una ecologista, un´altra nonviolenta per me non è pensabile. Senza tutto questo è impossibile realizzare un grande partito democratico».
Fuori dal Pd voi a chi guardate?
«Non ci sarebbe da stupirsi se sciogliendo i Ds e costruendo un partito che è più di centro che di sinistra nascesse un´aggregazione di forze che si richiamano al socialismo. Mi meraviglierei del contrario. I nostri elettori quando accettiamo le ingerenze della Chiesa e permettiamo alle gerarchie di violare la Costituzione non ci capiscono. Questo per fare un esempio».
Chi sono gli iscritti che hanno votato la vostra mozione?
«Quelli che hanno le nostre stesse inquietudini, gli stessi dubbi. Direi la maggioranza del partito. Poi ovviamente ci sono i richiami all´ordine, che danno molto fastidio. Roba da centralismo democratico. È difficile andare contro il segretario e il presidente. Quel 9% è una sorpresa, ma non per me».
Adesso dove li portate?
«Questi iscritti non vogliono frenare il Pd. Chiedono di cambiare direzione. Veltroni e Parisi hanno capito che il Pd è una cosa sgangherata. Ha ragione Walter quando dice che è assurdo un soggetto politico in cui nascono prima le correnti e poi il partito, le lotte di potere prima degli ideali o dei valori comuni. Dove gli stessi leader hanno idee una diversa dall´altra. Però sia lui sia Parisi non hanno il coraggio di dire chiaramente: fermatevi. Noi lo diciamo. Perché la nascita di questo Partito democratico non assomiglia affatto a un´impresa storica».

Repubblica 2.4.07
A Marghera raduno mondiale del movimento che cerca di superare la crisi con un nuovo "patto"
"Chi vota la guerra non è con noi" è rottura tra no global e sinistra. Tra i più duri col Prc Casarini e Cremaschi: le nostre strade divise. L´intervento di Strada
ROBERTO BIANCHIN
DAL NOSTRO INVIATO

MARGHERA - Non una «costituente» di qualcosa di indistinto, come oggi si usa, ma un «patto»: un «Patto per il Movimento». Questo lo strumento che cercherà di rivitalizzare i no global smarriti dopo Genova e Seattle, traditi dalla sinistra e delusi dal governo, perché «non ci sono governi amici». Un patto contro la «guerra globale permanente», contro tutte le guerre, non solo quelle combattute con le armi ma anche quelle che vanno in scena ogni giorno in città e paesi senza spargimento di sangue, quelle che tolgono il lavoro, chiudono gli spazi di libertà e democrazia, devastano il territorio. Perciò il movimento dei no global tenterà di rinnovarsi a partire soprattutto dalle esperienze dei comitati spontanei di cittadini sorti su varie questioni in varie parti d´Italia, come quelli del no alla Tav, del no alla base Usa di Vicenza, del no al Mose di Venezia, del no alle installazioni militari di Novara, alla base di Camp Darby in Toscana, alle grandi opere nelle Marche. Per dar vita, autonomi da ogni partito e da ogni governo, a un «nuovo ciclo di lotte e di conflitti sociali».
Sono queste le conclusioni del «Global Meeting» che per tre giorni ha visto riuniti, nel centro sociale «Rivolta», un migliaio di no global venuti dai cinque continenti per discutere il da farsi dopo la «crisi» che ha investito il movimento, non solo in Italia, e che oggi, secondo Toni Negri, il «padre» dell´Autonomia, che ha aperto i lavori, «non esiste più nelle forme in cui si è sviluppato». Di qui la ricerca di altre strade, della creazione di un «soggetto diverso» capace di battersi «contro un mondo imposto», dove «la guerra è la politica - dice il leader dei Disobbedienti Luca Casarini - e un esercizio continuo di privazione dei diritti». Sono venuti dagli Usa, dall´India, dalla Cina, da Argentina, Brasile, Equador, Bolivia, Messico, Colombia, Kurdistan, Turchia, Francia, Spagna, Germania, Grecia, Slovenia, Svezia, Danimarca, Finlandia. E c´erano personaggi come il responsabile del governo nazionale palestinese Moustafa Barghouti, come il sociologo americano Stanley Haronowitz, come il cinese Wang Hui, 8 anni ai lavori forzati per la rivolta di Tien An Men di cui fu uno dei promotori.
Il versante italiano, cui è stata dedicata l´ultima giornata del meeting, ha segnato l´addio del movimento al governo Prodi, e anche la fine dell´idillio che per un certo periodo c´era stato tra i no global e alcuni partiti della sinistra radicale, in primis Rifondazione. «Una parte della sinistra che era con noi, ora se ne sta al governo e in Parlamento vota per la guerra - ha spiegato Casarini - è chiaro che i nostri cammini si sono divisi». «Che se ne vadano pure tutti a casa», ha aggiunto, fra molti applausi, Tommaso Cacciari, nipote del sindaco filosofo, esponente del comitato veneziano «No Mose». A tentare di individuarli, con i rappresentanti dei vari comitati di cittadini e di associazioni, anche cattoliche, come Fabio Corazzina di Pax Christi, alcuni esponenti "anomali" di partiti della sinistra contrari alla missione in Afganistan, come Salvatore Cannavò e Paolo Cacciari (Prc), Gianfranco Bettin dei Verdi, e il sindacalista della Fiom Giorgio Cremaschi. «Non possiamo concedere a Prodi quello che non abbiamo concesso a Berlusconi» ha spiegato Cremaschi, giudicando che «non rappresenta più il paese» un Parlamento che al 98% vota a favore dell´intervento in Afganistan. E´ stato molto duro anche il fondatore di Emergency Gino Strada, che in un intervento telefonico ha giudicato la politica italiana afflitta da un male che «da Bertinotti a Pino Rauti ha un denominatore comune: il servilismo nei confronti degli Usa, un paese che negli ultimi 50 anni non ha fatto la guerra solo nei week-end». Una guerra, ha aggiunto il chirurgo, sempre più crudele e devastante: «L´ultima vittima, ieri, aveva solo 18 mesi».

Repubblica 2.4.07
L´allarme del segretario del Prc Giordano: subito nuove regole
"Compagni, fermiamo il partito degli assessori"
"Ci sono episodi di degenerazione morale anche al nostro interno"
UMBERTO ROSSI
DAL NOSTRO INVIATO

CARRARA - L´allarme l´ha lanciato dalla tribuna, davanti ai compagni e alle compagni arrivati per la chiusura della conferenza di organizzazione di Rifondazione comunista. Perché così il segretario Franco Giordano ha voluto dare il massimo risalto alla sua denuncia pubblica, «attenzione, ci sono stati episodi di degenerazione morale al nostro interno: fermiamoli subito». È la tentazione, che s´infiltra anche nelle file del Prc, del "partito degli assessori", della corsa ai comitati elettorali ad personam, alla scalata costruita secondo vecchie tecniche da notabili «per cui l´unica cosa che conta diventa acchiappare un posto nelle istituzioni». Casi ancora circoscritti, come precisa il capo dell´organizzazione Ciccio Ferrara, ma tali però da lanciare una campagna "correttiva". Una terapia d´urto che il comitato politico del Prc formalizzerà nei prossimi giorni in un pacchetto di regole e di divieti. Al primo punto dell´offensiva di "moralizzazione" c´è lo stop ai comitati elettorali personali che, negli ultimi tempi, nei circoli e nelle federazioni del partito hanno messo radici.
Soprattutto al Sud. Scavalcando la tradizione centralizzata delle campagne elettorali. Come funzionano? «Singoli candidati o piccoli gruppi - spiega Francesco Manna, il responsabile degli enti locali - usano le strutture del partito al servizio della propria corsa alle preferenze, finanziando la campagna anche con fondi personali, con il risultato che chi ha più mezzi ha più possibilità di farcela». Cominciò con le regionali del 2005, ma adesso il fenomeno è tale che in alcune zone si è rovesciato un vecchio vanto del Prc: molti più voti di preferenza che voto "secco" al partito, quello solo con la crocetta sul simbolo.
È ora di farla finita, hanno deciso i vertici: d´ora in poi, basta con le iniziative personali, i materiali stampati in proprio, i quattrini personali nei comitati elettorali, tutto dovrà essere concordato e centralizzato. E basta anche con il cumulo degli incarichi. Come nell´incredibile caso del consigliere pugliese Pietro Mita, che siede contemporamente alla Regione, al Comune e alla Provincia. E non è l´unico. In Liguria un altro esponente di Rifondazione comunista cumula l´incarico di assessore regionale con quello di assessore provinciale. Dovranno dimettersi, appena sarà approvato il nuovo decalogo di comportamento, che prevede anche rotazioni degli incarichi istituzionali e un tetto massimo di due mandati. Per stroncare sul nascere gli episodi più gravi.
Come quello dell´assessore regionale Egidio Masella che in Calabria ha preso come consulente la moglie o quello del consigliere provinciale messinese che ha fatto assumere il figlio.
(u.r.)

Repubblica 2.4.07
Il gip respinge la richiesta del procuratore, che insiste: quello commesso dall´anestesista Riccio non è reato
Caso Welby, no all´archiviazione
La moglie Mina:"Dopo tre mesi non ci hanno ancora reso la salma"
MARIO REGGIO

ROMA - Si riapre il caso Welby, mentre - dopo 100 giorni dalla morte - la salma non è stata ancora restituita alla famiglia. Il giudice per le indagini preliminari di Roma Renato Laviola ieri ha rigettato la richiesta di archiviazione della posizione di Mario Riccio, l´anestesista che accettò di rispettare la volontà di morire di Pier Giorgio Welby. Il Procuratore di Roma Giovanni Ferrara e il sostituto Gustavo De Marinis, firmatari della richiesta di archiviazione, hanno annunciato che non cambieranno la decisione: ribadiscono che con l´interruzione della ventilazione meccanica praticata da Mario Riccio a Welby è stato attuato un diritto del paziente che «trova la sua fonte nella Costituzione e nelle disposizioni internazionali recepite dall´Ordinamento italiano e ribadito dal codice di deontologia dell´Ordine dei Medici».
Il gip ha ordinato a Riccio di eleggere domicilio e nominare un legale di fiducia. Contemporaneamente, restituendo il fascicolo processuale all´ufficio del pubblico ministero, ha disposto la sua iscrizione nel registro degli indagati per l´ipotesi di reato di "omicidio del consenziente", riservandosi di fissare una camera di consiglio per la discussione del caso. Cosa può succedere adesso? Al termine del confronto con la Procura e l´indagato, il gip ha tre possibilità: archiviare il procedimento, ordinare al pubblico ministero ulteriori indagini oppure chiedere l´imputazione.
La decisione di Laviola ha colto di sorpresa Riccio: «Non mi aspettavo - ha detto - il rigetto della richiesta di archiviazione, ma resto dell´opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto. Sono mesi che vivo in una certa tensione - ha aggiunto - ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto. Avrei preferito che il gip avesse deciso per l´archiviazione, anche alla luce di tutti i passaggi della vicenda. A partire da quando Pier Giorgio Welby ha chiesto di ottenere il distacco della spina e rispetto anche alla posizione del Tribunale Civile di Roma».
Mina Welby, la vedova di Pier Giorgio, non nasconde il suo turbamento: «Lo sapevo da alcuni giorni. È la durata eccessiva di tutto l´iter che mi ha messo in agitazione. Sono convinta che dopo oltre tre mesi non ci possono essere altre novità rispetto a quello che è stato già accertato - afferma -. Nel frattempo la salma di Pier Giorgio non ci è stata ancora restituita, è ancora in attesa di essere cremata come lui aveva esplicitamente richiesto. Questa è un´occasione per girare il coltello nella piaga. La ritengo una prassi strana, dopo le indagini di laboratorio, comprese quelle tossicologiche, che hanno dimostrato che non è stato messo in atto nessun tentativo di provocarne la morte». Stupore è stato espresso dai radicali Marco Pannella e Marco Cappato. Nel ricordare che l´autopsia ha stabilito che la morte di Welby «è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto» hanno aggiunto di «non comprendere la decisione del gip»; e hanno rinnovato a Mario Riccio il «profondo ringraziamento, anche a nome di Mina Welby, per aver accettato di fornire il suo contributo professionale ed umano».

Repubblica 2.4.07
MODERNI CONFORMISMI
Nel decennale della morte un testo inedito del filosofo greco-francese

È una riflessione sul ruolo che riveste la cultura "per tutti" nella società odierna
L´autore è stato uno dei più importanti studiosi e critici delle ideologie del nostro tempo
Nella creazione culturale si stanno avverando le profezie più pessimistiche
Ciò che accade è in stretto rapporto con l´inerzia e la passività sociale
L´arte moderna è democratica anche se non corrisponde al gusto popolare

di CORNELIUS CASTORIADIS

Da "Lettera Internazionale" in uscita in questi giorni anticipiamo una parte del saggio di , scomparso nel 1997
Che cosa c´è di più immediato, per coloro che ritengono di vivere in una società democratica, dell´interrogarsi sul ruolo che la cultura riveste nella società in cui vivono; tanto più che assistiamo con ogni evidenza a una diffusione senza precedenti di ciò che chiamiamo cultura e, contemporaneamente, all´intensificarsi delle istanze e delle critiche su ciò che viene diffuso e sulle modalità della sua diffusione?
C´è un modo di rispondere a questo interrogativo che è, in realtà, un modo per eluderlo. Da più di due secoli, si afferma che la specificità del ruolo della cultura in una società democratica - al contrario di quanto succedeva nelle società non democratiche - risiede nel fatto che la cultura è per tutti e non per questa o quella élite. Questo "per tutti", a sua volta, può essere inteso in un senso puramente quantitativo: la cultura di volta in volta esistente deve essere messa a disposizione di tutti, non solo "giuridicamente" (cosa che non succedeva, per esempio, nell´Egitto dei faraoni), ma anche sociologicamente, nel senso della sua effettiva accessibilità - cosa alla quale dovrebbero servire oggi sia l´istruzione universale, gratuita e obbligatoria, sia i musei, i concerti pubblici, e così via.(...)
Prendiamo in considerazione la fase propriamente moderna del mondo occidentale, a partire dalle grandi rivoluzioni della fine del XVIII secolo, democratiche e di fatto decristianizzatrici, fino a circa il 1950, data approssimativa a partire dalla quale mi pare sia nata una situazione nuova. Qual è il campo di significazioni che sottendono alla straordinaria creazione culturale che ha luogo nel corso di questo secolo e mezzo?
Dal punto di vista del creatore, possiamo probabilmente parlare di un sentimento intenso di libertà e di una ebbrezza lucida che lo accompagna. Ebbrezza dell´esplorazione di forme nuove, della libertà di crearle. Queste forme nuove sono ormai esplicitamente ricercate per se stesse, non sorgono per sovrappiù come in tutti i periodi precedenti. Ma questa libertà resta legata a un oggetto; essa è ricerca e instaurazione di un senso nella forma, o meglio, ricerca esplicita di una forma portatrice di un senso nuovo.
Certo, c´è anche un ritorno del kleos e del kudos antichi - della gloria e della rinomanza. Ma Proust lo ha già detto: l´atto stesso ci modifica così profondamente che finiamo per non attribuire più tanta importanza agli impulsi che lo hanno generato, come l´artista «che si è messo al lavoro per la gloria e nello stesso tempo si è distaccato dal desiderio della gloria».
Qui, l´attualizzazione della libertà è la libertà di creazione di norme, creazione esemplare (come dice Kant nella Critica del giudizio) e, per questo, destinata a durare. È il caso per eccellenza dell´arte moderna, che esplora e crea delle forme nel vero senso della parola. Con ciò, anche se è accettato con difficoltà dai suoi destinatari, e anche se non corrisponde al "gusto popolare", essa è democratica, cioè liberatrice. Ed è democratica anche quando i suoi rappresentanti sono politicamente reazionari, come lo sono stati Chateaubriand, Balzac, Dostoevskij, Degas e tanti altri. (...)
Il pubblico, dal canto suo, partecipa "per procura", per il tramite dell´artista, a questa libertà. Soprattutto, è preso dal senso nuovo dell´opera - e questo solo perché, nonostante le inerzie, i ritardi, le resistenze e le reazioni, è un pubblico esso stesso creatore. La recezione di una nuova grande opera non è mai, e mai può essere, semplice accettazione passiva, ma è sempre anche ri-creazione. E le società occidentali, dalla fine del XVIII secolo fino alla metà del XX, sono state società autenticamente creatrici. In altre parole, la libertà del creatore e suoi prodotti sono, di per sé, socialmente investiti.
Siamo ancora in questa situazione? Domanda rischiosa, pericolosa, alla quale tuttavia non cercherò di sottrarmi.
Penso che, nonostante le apparenze, la rottura della chiusura di senso instaurata dai grandi movimenti democratici rischi l´oscuramento. Sul piano del funzionamento sociale reale, il "potere del popolo" serve da paravento al potere del denaro, della tecnoscienza, della burocrazia dei partiti e dello Stato, dei media. Sul piano degli individui si va affermando una nuova chiusura, che assume la forma di conformismo generalizzato.
Ritengo che stiamo vivendo la fase più conformista della storia moderna. Si dice che ogni individuo è "libero", ma di fatto ognuno riceve passivamente il solo senso che l´istituzione e il campo sociale gli propongono e gli impongono: il tele-consumo, fatto di consumo, di televisione, di consumo simulato attraverso la televisione.
Mi soffermerò brevemente sul "piacere" del tele-consumatore contemporaneo. Al contrario di quello dello spettatore, uditore o lettore di un´opera d´arte, questo piacere comporta una sublimazione minima: è soddisfazione surrogata delle pulsioni attraverso un atto di voyeurismo, è un "piacere fisico" bidimensionale, accompagnato a un massimo di passività. Che ciò che la televisione presenta sia di per sé «bello» o «brutto», esso è recepito passivamente, nell´inerzia e nel conformismo.
Si è proclamato il trionfo della democrazia come trionfo dell´individualismo. Ma questo individualismo non è e non può essere forma vuota in cui gli individui "fanno ciò che vogliono" - non più di quanto la "democrazia" possa essere semplicemente procedurale. Le "procedure democratiche" sono di volta in volta intrise del carattere oligarchico della struttura sociale contemporanea - così come la forma "individualistica" è intrisa dell´immaginario sociale dominante, immaginario capitalistico della crescita illimitata della produzione e del consumo.
Sul piano della creazione culturale, dove di certo i giudizi sono più incerti e più contestabili, è impossibile sottovalutare l´aumento dell´eclettismo, del collage, del sincretismo invertebrato, e, soprattutto, non vedere la perdita dell´oggetto e di senso, che va di pari passo con l´abbandono della ricerca della forma, forma che è sempre molto più che forma, perché, come diceva Hugo, essa è il fondo che sale in superficie.
Si stanno avverando le profezie più pessimistiche - da Tocqueville e dalla "mediocrità" dell´individuo "democratico", passando per Nietzsche e il nichilismo, arrivando fino a Spengler, a Heidegger e oltre. Profezie teorizzate nel postmoderno con autocompiacimento arrogante e stupido.
Se queste constatazioni sono, anche solo parzialmente, esatte, la cultura in una società "democratica" corre grandi rischi - di certo non per quanto attiene alla sua forma erudita, museale o turistica, ma per quanto riguarda la sua essenza creatrice.
L´evoluzione attuale della cultura non è senza rapporto con l´inerzia e la passività sociale e politica che caratterizzano il nostro mondo, ma la rinascita della sua vitalità, se deve avvenire, sarà indissociabile da un nuovo grande movimento sociale-storico che riattiverà la democrazia e le darà di volta in volta la forma e i contenuti che il progetto di autonomia esige.
Siamo turbati dall´impossibilità d´immaginare concretamente il contenuto di una tale creazione - mentre è proprio questo il bello di ogni creazione. Clistene e i suoi compagni non potevano né dovevano "prevedere" la tragedia e il Partenone - non più di quanto i membri della Costituente o i Padri Fondatori non avrebbero potuto immaginare Stendhal, Balzac, Flaubert, Rimbaud, Manet, Proust o Poe, Melville, Whitman e Faulkner.
La filosofia ci mostra che sarebbe assurdo credere di avere ormai esaurito il pensabile, il fattibile, il formabile, così come sarebbe assurdo porre limiti alla potenza della formazione che sempre risiede nell´immaginazione psichica e nell´immaginario collettivo sociale-storico. Ma la stessa filosofia non ci invita a constatare che l´umanità ha attraversato periodi di cedimento e di letargia, tanto più insidiosi quanto più sono stati accompagnati da ciò che chiamiamo "benessere materiale". Ammesso che coloro che hanno un rapporto diretto e attivo con la cultura possano contribuire a far sì che questa fase di letargia sia quanto più possibile breve, ciò sarà possibile solo se il loro lavoro resterà fedele ai princìpi di libertà e di responsabilità.

Traduzione di
Rossana Simonetti
© per l´edizione italiana,
"Lettera Internazionale"

Repubblica 1.4.07
I BIMBI IMPARANO A RICONOSCERE LE PROPRIE OMBRE
di UMBERTO GALIMBERTI

Ottima iniziativa quella di iniziare una serie in cui Topolino, non è più quel simpatico personaggio dei fumetti che con il suo cuore buono e la sua mente astuta risolve tutti i problemi. Ottima scelta quello che lo prevede anche cattivo, dispettoso, antipatico. E sì, perché l´aspetto più diseducativo di tutte le favole e di tutti i fumetti per bambini è quello di presentare il protagonista buono e tutti gli altri cattivi. Identificandosi con il protagonista buono, i bambini imparano a proiettare fuori di loro, sugli altri, la cattiveria che c´è anche dentro di loro, dividendo così il mondo in due: buoni loro come Topolino e cattivi gli altri.
Questa separazione del bene dal male, che le favole pericolosamente alimentano, origina dalle religioni che identificano Dio col bene e il male col diavolo. E siccome le religioni sono il fondamento delle culture, va a finire che ogni cultura identifica sé col bene e guarda le altre con sospetto, diffidenza, quando non con odio, fino a identificare, con una propaganda alimentata ai massimi livelli, i diversi «imperi del male».
Finché non riconosciamo il male che c´è in noi e la cattiveria che ci appartiene, continueremo a proiettare l´uno e l´altra fuori di noi, col risultato di vivere inquieti in un mondo di presunti nemici, che di volta in volta identifichiamo nei nostri concorrenti, nei nostri competitori, negli stranieri, nei vicini di casa, creando così quel mondo inospitale che alimenta sospetti, diffidenze, le quali, quando si fanno insostenibili, finiscono con l´approdare anche a gesti truci.
Un «Topolino cattivo» è un ottimo insegnamento perché abitua i bambini che si identificano col protagonista a riconoscere la propria parte cattiva, la propria ombra, invece di proiettarla all´esterno creandosi nemici reali o immaginari. La nostra parte cattiva è carica di energia e, quando non è riconosciuta, si rivolta contro di noi facendo odiare noi stessi, prima degli altri. I risentimenti che ci rendono lividi e rabbiosi originano tutti dal fatto che ci riteniamo assolutamente buoni in un mondo di cattivi, come le favole infantili ci hanno insegnato.
Un Topolino cattivo allora è una vera benedizione, perché una figura del genere può essere d´aiuto ai bambini a cercare il male dentro di sé e non fuori di sé. E quando l´ombra, la nostra parte cattiva, si sente accettata, cede a noi in dono tutta l´energia che possiede, perché i forti non sono quelli che sottomettono gli altri, ma quelli che, guardandosi dentro, sanno vedere e accogliere la propria ombra. E non si scompongono quando gli altri gliela segnalano, perché quella parte livida e cattiva la conoscono e, senza rifiutarla, hanno la forza di accettarla e tradurla in loro alleata. Questa è la grandezza dei forti. Essi non proiettano il male sugli altri, ma, dopo averlo riconosciuto dentro di sé e accolto, si offrono agli altri con lo sguardo buono che è tipico di chi non ha rimosso la propria anima cattiva.

domenica 1 aprile 2007

il Riformista 31.3.07
CONVEGNI
L'attualità di Lombardi


Tornano d'attualità - nell'ambito di una sinistra che si pone il tema della riproposizione di una forza politica dai connotati e dall'ispirazione socialista e la stessa necessità che non scompaia la parola «sinistra», in Italia, a causa dell'imminente nascita del Partito democratico - figure politiche che potevano apparire, fino a ieri, del tutto inattuali. Come quella del socialista Riccardo Lombardi, che già ha visto una notevole ripresa d'attenzione da parte di studiosi e uomini politici e a cui ieri hanno dedicato un convegno dal titolo «A 60 anni dalla Costituente. Il pensiero di Riccardo Lombardi per una sinistra di governo» tre associazioni politico-culturali della sinistra italiana (Uniti a sinistra, Ars e Associazione rosso-verde). Inviso a destra (Montanelli lo definì «notturno e temporalesco»), mal sopportato a sinistra, dentro il suo partito, il Psi, dove era ritenuto un bastian contrario, e nel Pci che rifiutava la sua idea dell'alternativa di sinistra quando stava per lanciarsi nella politica del compromesso storico, Lombardi aveva caratteristiche oggi ben difficili a trovarsi, in un uomo politico. La serietà dell'approfondimento culturale e della riflessione teorica e la capacità di collegare la fermezza sui principi alle necessarie alleanze di governo e ai necessari compromessi politici, sono infatti oggi qualità rare, è stato il giudizio di diversi relatori. Azionista prima, socialista poi, fautore dei processi di decolonizzazione quanto dell'affrancamento della sinistra dall'Urss dopo i fatti d'Ungheria, Lombardi spese le sue energie migliori per imprimere una svolta riformatrice al primo centrosinistra, coniando un termine - «riforme di struttura» - che presto entrò nel linguaggio politico e poi, una volta esauritasi la spinta di quello, lavorando per dare una reale possibilità di «alternativa socialista» alla sinistra italiana. Ma non bisogna neanche dimenticare o sottacere, come hanno notato ieri l'economista Paolo Leon e il deputato ds Peppino Caldarola, il Lombardi che appoggiò la svolta del Midas di Bettino Craxi e il tentativo di restituire dignità all'autonomismo socialista, minacciato di stritolamento dalla politica del compromesso storico.
Ieri, peraltro, diversi relatori hanno sollecitato la sinistra a riconsiderare e rivalutare anche la figura di Bettino Craxi, che pose con forza il tema dell'identità socialista. E hanno evidenziato l'attualità di Lombardi che poneva il problema delle riforme di struttura, della programmazione economica e dell'intervento dello stato in economia, idee-forza care anche a un altro lombardiano d'antan, il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Scelte che ponevano il problema del superamento del capitalismo, come dicevano anche molte socialdemocrazie europee e i laburisti inglesi, ma in forme diverse da quelle classicamente marxiste proposte dal Pci. «Cambiare il motore della macchina del capitalismo mentre la macchina è in corso», era un motto di Lombardi. Oggi, dunque, tutto quel vasto arco di forze che intende ragionare di nuova attualità della questione socialista in Italia e di rilancio dell'idea stessa di sinistra, al di là delle formule politiche e organizzative con cui intenderà affrontare la sfida, non può non riscoprire quella figura.

il manifesto 1.4.07
Il cielo stellato sotto il segno di Sigmund Freud
Il primo aprile di 50 anni fa, da una costola delle «edizioni scientifiche» Einaudi, Paolo Boringhieri inaugurò la sua casa editrice. E siglò con il figlio del fondatore della psicoanalisi un accordo per l'edizione di tutte le sue opere. Al progetto si associarono via via collaboratori preziosi, tra cui Giorgio Colli e Mazzino Montinari uniti dall'idea di pubblicare testi che ricalcassero le letture fatte da Nietzsche sull'onda di Schopenhauer Nel 1987 Paolo Boringhieri cede
di Marco Dotti


Nei primi anni Cinquanta, anche in Italia sembrò che stessero maturando i tempi per realizzare un'edizione completa delle opere di Sigmund Freud. Era una ipotesi di riflesso, che veniva avanzata sull'onda della inglese «Standard edition», della quale i primi volumi, a lungo progettati, erano apparsi nel 1953 a cura di James Strachey, un allievo di Ernst Jones che fu tra i primi a doversi confrontare col problema della sistemazione del corpus freudiano. Solo a tratti, e di certo a fatica, in Italia si stava facendo strada la consapevolezza di quanti veti gravassero ancora sull'opera del medico viennese, il cui nome - al pari di quelli di Spinoza, Einstein o Bergson - era stato oggetto di ripetuti ostracismi da parte dei solerti funzionari del Ministero della cultura popolare fascista; funzionari che, senza grandi sforzi, erano riusciti a imporre a influenti collaboratori delle terze pagine e agli editori il divieto di pronunciarsi favorevolmente nei confronti delle sue opere, bloccandone di fatto la ricezione e il dibattito.
Frenato dallo scetticismo
Persino Cesare Musatti, che pure aveva assistito con entusiasmo a una conferenza di Strachey, decise ben presto di accantonare i suoi buoni propositi. Benché si fosse inizialmente convinto della necessità di suggerire agli editori a lui vicini un'edizione impostata su un criterio tematico (come, di fatto, era stata quella delle Gesammelte Schriften, pubblicata da Freud stesso), più che su quello cronologico scelto dall'inglese, si limitò poi a constatare che i tempi erano sì maturi per riavviare e riprendere il filo di un discorso scientificamente e filologicamente fondato su Freud e interrotto dagli anni neri del fascismo, ma il «mercato» editoriale non mostrava ancora altrettanta maturità. E comunque, a tutto sembrava disposto Musatti fuorché a sobbarcarsi un progetto che avrebbe comportato l'impiego di grandi risorse di tempo, e sforzi non indifferenti anche dal punto di vista economico. Soprattutto, a una simile impresa bisognava credere, e pochi sembravano disposti a farlo. Nel 1949, Musatti aveva pubblicato i due volumi del proprio Trattato di psicoanalisi nei «Manuali» Einaudi - una delle collane destinate, con la «Biblioteca di cultura scientifica», la «Biblioteca di cultura economica» e, soprattutto, la «collana viola», già diretta da Cesare Pavese e Ernesto de Martino, a costituire l'ossatura della futura casa editrice di Paolo Boringhieri, che sulla scommessa di pubblicare integralmente Freud avrebbe costruito gran parte della sua fortuna editoriale.
Le sollecitazioni di Pavese
Senza troppi imbarazzi, Musatti dovette costatare che i libri di Freud, sottoposti al vaglio della «pubblicabilità», passavano regolarmente fra le mani dei redattori, i quali però sembravano preoccupati soltanto di togliere importanti volumi alla concorrenza, o se dimostravano interesse lo dimostravano per quegli studi più riconducibili a contesti diversi dall'ambito specificamente psicoanalitico, quali la storia delle religioni o l'antropologia. In assenza di un interlocutore attento alle sue richieste, per la verità non troppo pressanti, Musatti si trovò dunque a rispondere alle sollecitazioni di Cesare Pavese, il quale gli aveva scritto: «Noi facciamo una collezione di etnologia e psicologia dove già appare un libro di Jung: I rapporti tra l'Io e l'Inconscio, e vorremmo includervi uno o due libri di Freud. Lei certamente è al corrente di quello che si è già fatto in Italia e potrà suggerirci qualche titolo libero, preferibilmente delle ricerche più antiche». Fra le richieste di Pavese vi fu anche quella di reperire opere anteriori al 1921, libere da vincoli editoriali. A quel punto Musatti non si fece pregare e pochi giorni dopo la richiesta di Pavese, a stretto giro di posta, gli replicò che, viste le sue esigenze, forse sarebbe stato opportuno valutare sia La psicopatologia della vita quotidiana, «l'opera di Freud che ha avuto maggior diffusione all'estero», sia i Casi clinici - effettivamente pubblicato nel 1952, per le Edizioni Scientifiche Einaudi, nella traduzione di Mauro Lucentini - ognuno dei quali, osservava lo psicoanalista triestino, «costituisce un vero piccolo romanzo, perché viene descritto il progressivo svilupparsi dell'analisi in forma per lo più assai brillante e suggestiva». A Giulio Einaudi, particolarmente preoccupato di non farsi «battere da Astrolabio sul tempo» - come avvenne per L'interpretazione dei sogni apparso per la casa editrice romana nel 1952 - Musatti aveva consigliato di riprendere «l'ultima notevole opera di Freud», Inibizione, sintomo e angoscia, già disponibile nella traduzione di Servadio. Eppure, come avrebbe osservato Paolo Boringhieri, al tempo ancora redattore della Einaudi, se pure «il seme gettato da Musatti non fruttificherà immediatamente», esso segnalerà da subito «una vera necessità culturale» destinata, nel giro di pochi anni, a concretizzarsi in una delle più importanti imprese editoriali del dopoguerra: l'edizione delle Opere di Freud.
Impostate secondo un criterio cronologico, anche se quello tematico a suo tempo suggerito da Musatti veniva recuperato nel «corpus freudiano minore» rappresentato dalle opere scelte e via via presentate nell'Universale scientifica Boringhieri, il corpus delle opere freudiane sarebbe uscito in libreria soltanto nel 1966, con la pubblicazione del terzo volume, L'interpretazione dei sogni, curato da Elvio Fachinelli, dopo un lavoro di revisione e uniformazione linguistica durato molti anni, presso le edizioni che nel frattempo erano state fondate dallo stesso Boringhieri.
L'atto di nascita
Il primo aprile del 1957, infatti, da una costola delle Edizioni Scientifiche Einaudi da lui dirette, Paolo Boringhieri aveva dato formalmente vita alla casa editrice che portava il suo nome. Riprendendo il filo di un discorso per lui mai interrotto, nel 1959 Boringhieri aveva raccolto la sfida e siglato un accordo con Ernst Freud, figlio di Sigmund, per un'edizione delle opere del padre. E dichiarò, allora, di non aver mai nutrito alcun dubbio sulla necessità indicata da Musatti di provvedere a una edizione «definitiva», intendendo con ciò «non un'edizione affrettata per far conoscere il più rapidamente possibile l'opera di Freud, ma l'edizione che per decenni potesse costituire il punto di riferimento per gli studiosi»: una convinzione, questa, che aveva maturato, a un certo punto, «per esperienza di mestiere», certo anche «che il mercato l'avrebbe resa possibile» e, probabilmente, persino redditizia.
I fatti gli diedero ragione. Peraltro, Boringhieri era talmente persuaso della «bontà» del progetto che vi prestò le sue competenze linguistiche, nascondendosi con lo pseudonimo di «Ermanno Sagitario» fra i ventisette traduttori impegnati per oltre quindici anni nell'opera. Era nato a Torino nel 1921, la sua famiglia, proprietaria di uno dei più importati stabilimenti per la distillazione della birra, era originaria dell'Engadina, e faceva l'ingegnere quando a ventotto anni venne assunto da Luigi Einaudi con il preciso compito di occuparsi della cosiddetta «collana azzurra», dedicata alle scienze. Appassionato di filosofia, definito dai colleghi «il lavoratore cristiano», Boringhieri legò particolarmente con Felice Balbo, del quale, nel 1966, avrebbe pubblicato le Opere. Quando diede inizio alla propria attività come editore in proprio, Boringhieri aprì una sede in via Brofferio 3; tuttavia, per una parte della sua produzione mentenne ancora, almeno fino al 1960, il marchio delle Edizioni scientifiche Einaudi. Fu grazie al suggerimento di Giulio Bollati (per anni suo collega di studio e lavoro, che nel 1987 sarebbe divenuto, passata di mano la proprietà, direttore editoriale della casa editrice, da allora Bollati-Boringhieri) che Paolo Boringhieri inaugurò per i suoi libri un nuovo marchio, quella incisione quattrocentesca affiancata dal motto «Celum stellatum» che ancora oggi contraddistingue la casa editrice.
Come scrive l'attuale direttore editoriale, Francesco Cataluccio, nella sua premessa alla riedizione del Catalogo generale Bollati Boringhieri, fu negli anni trascorsi alla Einaudi che Boringhieri rafforzò le proprie idee sul fatto che la modernizzazione della società italiana non potesse compiersi se non attraverso la divulgazione della scienza; e la scienza andava promossa - fatto al tempo assolutamente innovativo - «non in non in antitesi ma accanto alle scienze umane». È chiaro come Boringhieri intendesse la questione in una accezione assai ampia e mai dogmatica: lo testimoniarono, del resto, la pubblicazione (concomitante a quella di Freud) dell'opera di Jung - condotta sulla base dell'edizione svizzera in diciannove volumi, e affidata alla direzione di Luigi Aurigemma - ma anche dei lavori di Marie Louise von Franz, di Jacobi, di Adler, di Abraham o di Pavlov, oltre alla prosecuzione della linea a suo tempo delineata da De Martino e Pavese, con la discussa «collana viola» a cui si sarebbero affiancate le opere di Heinsemberg e di Pauli fino alla pubblicazione, nel 1959, dell' Origine delle specie di Charles Darwin.
Particolarmente significativa fu poi la collana «Enciclopedia di autori classici», diretta a partire dal 1958 da Giorgio Colli, il brillante allievo di Gioele Solari, già condirettore con Balbo e Bobbio dell'einaudiana collana dei «Classici della filosofia».
In soli nove anni, dal 1958 al 1967, trovarono spazio nell'«Enciclopedia» ben novanta titoli, un risultato imponente raggiunto grazie al clima ottimale in cui lavorava un gruppo di ricerca affiatato, composto da allievi e studiosi che in gran parte avevano già seguito Giorgio Colli nell'esperienza alla Einaudi, e ai quali ora si affiancava la significativa figura di Mazzino Montinari.
Confortati da Boringhieri, Colli e i suoi collaboratori si ritrovarono uniti da un progetto comune e ambizioso, quello di pubblicare una serie di testi che in qualche modo ricalcassero le letture fatte da Nietzsche sull'onda di Schopenhauer, affiancando così alla proposta di testi chiave delle religioni orientali, la riproposta di un numero rilevante di classici della scienza e del pensiero europeo. Proprio Montinari, rievocando il clima e l'esperienza dell'«Enciclopedia» avrebbe poi ricordato come si fosse trattato, in primo luogo, di «formare una sorta di nuova comunità di lettori e collaboratori, pubblicando dei testi che all'intellettualità accademico-politico dominante non potevano che risultare inattuali e fuori moda, anzi in certi casi addirittura irritanti e scandalosi». Accanto a scritti di Ippocrate e Fermat, Platone e Leibnitz, Darwin e Newton, trovarono posto il Pascal del Trattato sull'equilibrio dei liquidi e l'Adam Smith della Ricchezza delle nazioni, lo Stendhal della Filosofia nova e lo Spinoza dell'Etica.
Una infilata di nuove collane
Alla collana diretta da Colli si affiancarono ben presto quelle dei «Classici della scienza», dei «Testi della fisica contemporanea», dal 1964, diretta da Pier Francesco Galli, il «Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia» e, dal 1965, l'«Universale scientifica» - forse la più riconoscibile, anche graficamente - che in poco tempo permise a Paolo Boringhieri di presentarsi come uno degli editori più all'avanguardia ma al tempo stesso più attenti - lo si legge nell'introduzione al catalogo del 1960 - «a ogni livello di preparazione», interessandosi a «quasi tutti i campi della scienza». Egli - si legge ancora, in quella che rimane forse la migliore descrizione del suo programma etico, oltre che editoriale - «cerca un terreno d'incontro tra gli specialisti e i non specialisti, e nel far ciò, la considerazione scientifica delle cose viene confrontata con quella umanistica, attraverso i classici. L'interesse editoriale non è soltanto rapsodico, ma formativo, nella ricerca di un'unità della cultura e di prospettive vivificanti».
Nel 1987, sette anni dopo aver portato a termine la pubblicazione dell'Opera di Freud, Paolo Boringhieri (scomparso lo scorso agosto) cedette all'amica Romilda Bollati le azioni di controllo della casa editrice, che assunse il nome di Bollati Boringhieri. Era dunque arrivato il momento di ritirarsi a vita privata. La direzione fu assunta da Giulio Bollati, assistito fino al 1993 da Armando Marchi, che si prodigò nel promuovere una sorta di «rinnovamento nella continuità», aprendo nuove collane - «Temi», «Varianti»e, dal 1991, le «Variantine», segnate dal successo editoriale del Servabo di Luigi Pintor, «Nuova Cultura», che ospitò il discusso saggio di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile e «Pantheon».
L'apertura a altri temi
Erano tutte collane indirizzate al potenziamento dei settori dell'arte e della letteratura, oltre che della storia e delle scienze sociali, e per la prima volta nel catalogo vennero introdotti anche libri dedicati alla fotografia. «Non vedo perché», dichiarava Bollati rispondendo a chi gli rimproverava di aver virato troppo sul versante delle letteratura, una casa editrice scientifica sia condannata a esprimersi «per formule e per cifre». «La scrittura è uno strumento conoscitivo: vogliamo lasciarla fuori dalla porta per un vieto ossequio ai generi, alle specializzazioni? Una casa editrice scientifica deve assolutamente occuparsi del linguaggio... Nella scoperta scientifica c'è gioco, ma c'è anche espressione, c'è anche stile, c'è anche fantasia».

Festeggiamenti
La presentazione del catalogo, mostre, concerti
In occasione del cinquantenario della sua inaugurazione da parte di Paolo Boringhieri e del suo ventennale come Bollati Boringhieri la casa editrice torinese ha in programma una serie di iniziative speciali distribuite nell'arco di tutto il 2007. L'8 maggio, a Roma, verrà presentato quel prezioso patrimonio della nostra cultura che è il Catalogo Storico. Inoltre, sarà inaugurata una mostra itinerante con tavole originali disegnate da Enzo Mari per le copertine dell'Universale Scientifica Boringhieri: sarà possibile vederle nelle librerie Feltrinelli di diverse città, da Udine a Napoli, da Firenze a Mantova, da Roma, a Bologna e Milano; a ogni inaugurazione saranno presenti autori, redattori e collaboratori della casa editrice. Ancora a maggio, l'assegnazione dell'annuale premio per l'editoria intitolato a Giulio Bollati sarà l'occasione per un convegno sull'editoria scientifica al quale prenderanno parte editori e autori italiani e stranieri. Infine, il 17 settembre, in occasione del Settebremusica torinese, Helene Grimaud, la celebre pianista che ha esteso la sua fama raccontando in «Variazioni selvagge» la sua vita insieme ai lupi dai lei allevati, terrà un concerto durante il quale verranno ricordati i cinquan'anni della casa editrice

il manifesto 1.4.07
Prc, la paura di non avere confini
Alla conferenza d'organizzazione di Rifondazione entra nel vivo il dibattito sul futuro del partito, della Sinistra europea e del «cantiere». Tra il fascino della sfida e il timore di perdersi in un territorio troppo vasto
di Matteo Bartocci


«C'è un grande disagio tra di noi ma io credo che sia il frutto di una vittoria. Se emergono contraddizioni nei Ds non dobbiamo essere preoccupati». Può stupire ma quando Paolo Ferrero prende la parola dal palco di Carrara è dopo tre giorni di dibattito che finalmente emerge con chiarezza il non detto che da giovedì divide e preoccupa la conferenza di organizzazione di Rifondazione: la nascita di un soggetto politico unitario della sinistra senza aggettivi. Un fantasma che per la prima volta dall'89 torna ad aggirarsi in Italia se non in Europa.
Su come conciliare Rifondazione, la Sinistra europea e la new entry «cantiere della sinistra» ovvero un soggetto politico nuovo, la conferenza di Carrara ha sorvolato. «Il futuro della sinistra alternativa - insiste invece Ferrero - è fatto di forme di aggregazione che mettono assieme i diversi senza ricondurli a uno solo. Non è più tempo di partiti unici, il Prc c'era, c'è e ci sarà, continuerà a lavorare nella Sinistra europea ma contribuirà ad allargare il campo lavorando nel 'cantiere' con quelli che comunisti non sono o non hanno un partito ma fanno le battaglie con noi. Quello che diciamo della società multietnica, multiculturale, aperta, deve valere anche per la politica».
Il re è nudo. In tempi di crisi della rappresentanza non sarà un partito unico né una confederazione di partiti come proposto con testardaggine da Oliviero Diliberto e dal Pdci. Sarà però un soggetto politico nuovo senza confini. Per ora avanti con prudenza, con una certa «doppiezza» che consenta di parlarne tutelando soprattutto l'unità del partito.
Il disorientamento è comprensibile. «Nella triangolazione tra Prc, Se e 'cantiere' bisogna fare un passo in avanti.Il gruppo dirigente non ha fornito un quadro analitico all'altezza della sfida che abbiamo di fronte», butta lì Elettra Deiana, anche lei a disagio per una discussione fin qui molto identitaria. Più netto ancora Alfonso Gianni: «L'oggetto di queste giornate è la nascita di un nuovo soggetto politico, siamo chiamati a decidere il cosa, il come e il quando. E' a noi comunisti che spetta il compito di ricostruire l'intera sinistra, senza aggettivi e capace di raccogliere superandola il meglio della sinistra del secolo alle spalle».
Parole non smentite nelle conclusioni che pronuncerà stamattina Franco Giordano. Il segretario sarà però molto più prudente: rinnoverà la grande apertura verso la sinistra Ds fino a ventilare una «soggettività politica» più larga della sola Rifondazione ma terrà ben distinti i piani mantenendo intatta «l'anomalia Prc».
Infatti se da fuori può apparire poca cosa, la Sinistra europea è in realtà vissuta con fatica dal corpo del partito, quella platea di quadri che è il cuore della conferenza di organizzazione, dove in tanti criticano i contorni confusi della Linke all'italiana (Gianluigi Pegolo) oppure il mito dell'unità a sinistra che è evocato da decenni ma «tanti danni ha provocato» (Ramon Mantovani). «Basta con la distinzione tra le due sinistre - dice invece senza mezzi termini Pietro Folena - basta con la contrapposizione di bandiere del '900». Affermazioni respinte da una parte importante del partito, anche della maggioranza. Milziade Caprili per esempio critica una improbabile «rifondazione socialista» ma invita a mettere da parte la «rassegnazione» e a uscire in mare aperto a partire da quello che c'è: «Una conferenza di organizzazione - aggiunge con prudenza - non si fa per sciogliere un partito ma per superare i limiti di quello che c'è».
Al di là delle dichiarazioni però la Sinistra europea è contemporaneamente un punto di arrivo e un punto di partenza per Rifondazione. Un punto di arrivo perché è un esperimento limitato, parziale ma reale di innovazione della militanza e di forme della partecipazione politica non organiche a un partito. «Una soggettività plurale e a rete, una confederazione unitaria articolata su nodi e case della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Walter De Cesaris nella sua relazione introduttiva indicando le prossime tappe: a giugno l'assemblea nazionale e in estate la nascita delle «case della sinistra». E' un'innovazione della forma partito nel dialogo con associazioni e individui che avrebbero più difficoltà a interagire con il Prc in quanto tale (Fiom o Arci per esempio).
Ma è innegabilmente anche un punto di partenza. Per paradosso, la Sinistra europea con tutte le sue difficoltà è una sorta di polizza vita del Prc. Senza di essa il partito arriverebbe al «cantiere» senza altra ipotesi che lo scioglimento o la condanna all'autoreferenzialità. E' un terreno medio e parziale ma necessario.
La prudenza di Giordano è comprensibile. Il dialogo con tutta la sinistra è la precondizione per fare blocco su alcuni punti irrinunciabili, basti pensare ai Dico - terreno su cui Fassino non può essere lasciato solo di fronte a Rutelli o all'offensiva dei Cei - o alle pensioni - in cui la Cgil deve trovare una leva nella maggioranza. Ma al di là delle cortine fumogene è innegabilmente alla sinistra fuori dal Pd che si guarda con occhi «unitari».
A chi dice che è un passo troppo piccolo rispetto alla fase nuova, gli uomini di Giordano rispondono che intanto è un passo. Il cantiere del partito democratico in fondo è aperto da 11 anni e non ha ancora messo su la prima pietra.4
l’Unità 1.4.07
«Rifondazione riunirà la sinistra in poco tempo»
Il senso del Cantiere. Ferrero: multiculturali e multietnici
Falce e martello addio? «È ancora troppo presto»
di Wanda Marra


«RIFONDAZIONE c’era ieri, c’è oggi e ci sarà domani. Continuiamo a lavorare alla Sinistra europea, ma non siamo portatori di nessuna forma settaria, per cui continuiamo ad allargare con il Cantiere della sinistra. Ma non è più il tempo dei partiti unici, né al
governo né all'opposizione. Servono forme di aggregazione, che mettano insieme elementi diversi, senza l'idea di ricondurli ad uno solo. Quello che diciamo per la società, che intendiamo multietnica e multiculturale, deve valere per le forme della politica. Questo è il futuro di una politica di alternativa”. E’ forse il più applaudito della giornata Paolo Ferrero, che intervenendo nel pomeriggio alla Conferenza di organizzazione del Prc di Marina di Carrara, prova con queste parole a delimitare i paletti della discussione in corso, a trovare una sintesi. Mettendo insieme non solo il futuro di Rifondazione come partito, ma anche come partito di governo: ”Basta stare a guardare che il governo faccia qualcosa e dare dei voti. Il ruolo di Rifondazione è duplice: dobbiamo lavorare per modificare i rapporti di forza e rompere l'impotenza che regna tra la nostra gente. Dobbiamo contrattare ma non appiattirci». E avverte: «Il 'Tesoretto' per la ridistribuzione del reddito è la parola d'ordine. Le prossime settimane sono il punto decisivo».
Quella di Ferrero è però una delle sintesi possibili, dopo tre giorni di dibattito, che almeno un dato l’hanno evidenziato con forza: il Prc a questo punto è davanti a un passaggio non secondario e anche difficile, come molti sottolineano dal palco, di cui si vede l’inizio, ma non l’approdo finale. C’è un progetto a breve termine, la Se, che si va definendo come esperienza “confederativa”. Poi c’è l’idea, lanciata da Bertinotti, e ribadita da Giordano, di un Cantiere della sinistra, aperto a tutti. Nel frattempo, lo scenario politico è in movimento, con Mussi e i suoi, che nel Pd non entreranno e mostrano interesse per un soggetto a sinistra. E con loro Rc si deve confrontare (già domani alcuni dei suoi dirigenti saranno insieme a qualche esponente della sinistra Ds in un incontro sul futuro della sinistra in Europa): attraverso una nuova “soggettività politica”, come adombrato da Giordano? E con quali forme? Inutile negare, allora, che la Se appare più un passaggio, che un punto d’arrivo. «Dovrà essere una soggettività confederativa. E c’è spazio poi per un discorso più ampio a sinistra”, spiega il coordinatore della segreteria, De Cesaris, in apertura di giornata.
Ma a dire chiaramente che bisogna andare oltre è il Sottosegretario, Alfonso Gianni: «Dobbiamo andare più in là, anche dello stesso progetto della Se. Nel nostro paese il problema non è aprire cantieri, è chiuderli con un prodotto finito, visibile e fruibile. Abbiamo tempi brevi per farlo: mesi, non anni. Bisogna porre il tema della costruzione di un nuovo soggetto politico: tocca ai comunisti, liberamente comunisti quali noi siamo, il compito di ricostruire l'intera sinistra». Una sinistra “senza aggettivi” la definisce Gianni.
Ma anche sugli aggettivi si differenziano le posizioni. Con Folena, che afferma la necessità di tornare al «socialismo delle origini». E il vicepresidente del Senato, Caprili, che rimanda al mittente questo consiglio: «Noi siamo un’altra cosa. Siamo comunisti. Va bene guardare alla Se, al Cantiere, all’emergenza politica. Ma partendo da Rifondazione comunista». L’autonomia e la simbologia del Prc non sono in discussione, ha chiarito Giordano. Insomma, Falce e Martello non si toccano. Questo sicuramente per oggi, ma per domani? «Non è in discussione ora se abbandonare questa forma del partito, ma come riformarla, rafforzarne il radicamento – dichiara un vecchio “compagno”, Peppe Tazzese, responsabile del Tesseramento di Rc – ma verrà un momento in cui sarà attuale. E si discuterà su come riusciremo a metterci insieme in un corpo più ampio. Se un giorno Falce e Martello dovessero scomparire non piangeremo». «Non mi pare si stia andando verso il socialismo. Ma in ogni modo sia chiaro che non sono disposta a rinunciare alla mia identità comunista», avverte invece Bianca Bracci Torsi, che viene dalla Resistenza. Un approccio più laico arriva dai più giovani: «Non credo tanto nei simboli. Ma la Falce e Martello rappresenta una parte importante della nostra storia e della nostra cultura. Ora però, bisogna discutere come ci si rapporta allo spazio lasciato libero a sinistra dal Pd», spiega Michele Piras, segretario regionale della Sardegna.

l’Unità 1.4.07
Bagnasco senza freni accomuna Dico, pedofilia e incesto


È bufera sulle parole del capo della Conferenza episcopale. Poi la Cei tenta una marcia indietro: è stato male interpretato
L’attacco quotidiano ai Dico arriva per voce dell’arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente Cei, che sulla scia della guerra di Ruini dice: «Se cade l’etica, poi è difficile dire no anche a incesto e pedofilia, come è accaduto in Inghilterra e Olanda».
Parole che provocano una bufera politica. Concetti difesi dalla destra e da Mastella, attaccati dai ministri Pollastrini e Pecoraro Scanio. Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, cattolica e credente, è sconcertata: «Certi vescovi dovrebbero andare in missione e rendersi conto di cosa significa sostenere davvero le famiglie italiane». E solo a tarda sera la Cei tenta una marcia indietro. Le parole di Bagnasco sarebbero state male interpretate.

I DICO equiparati all'incesto o alla pedofilia: aberrazioni. Per paradosso o per convinzione il presidente della Cei, l'arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco parlando venerdì sera ai «comunicatori» della sua diocesi spiega la Nota dei vescovi indirizzata ai politi-
ci sulle coppie di fatto. Parla di senso comune, libertà individuale e dei criteri antropologici dei valori etici, di un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male. Invita ad utilizzare gli argomenti della ragione, comprensibili da tutti. E a farlo con rispetto e moderazione. Poi a proposito delle coppie di fatto arrivano le parole forti. Almeno stando ai resoconti dei quotidiani genovesi e delle agenzie di stampa. «Perché dire di no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia. Perché dire di no?» si domanda retoricamente. E passa ad una serie di equiparazioni: «Perché dire di no all'incesto come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? Perché dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? Sono situazioni limite, usate in senso paradossale o accostamenti arditi per spiegare i no della Chiesa ad una possibile deriva etica? «Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l'uomo nella sua libertà di scelta, ma nel suo dato di natura». Insiste l'arcivescovo di Genova: «La questione problematica che ci ha consegnato il Novecento è non sapere più chi è la persona umana».
Quell’accostamento dell’incesto e della pedofilia alle coppie di fatto è ritenuta «inaccettabile» e «incredibile» da politici del centrosinistra e dai movimenti omosessuali. Dura la reazione del ministro per le Pari opportunità, Barbara Pollastrini che di dice «stupefatta» dall'utilizzo di espressioni «che trascendono il dissenso legittimo» dalla proposta di legge sui Dico e che finiscono «con il ferire la dignità delle persone». Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio spera in un equivoco e auspica un chiarimento, perché «il paragone tra le convivenze e la pedofilia o l'incesto è gravissimo». L'Arcigay, con il segretario Aurelio Mancuso, suggeriscono al presidente della Cei di fare «mea culpa» per «le aberrazioni di cui si macchiano tanti sacerdoti» a danno di bambini e bambine. Plaude all’arcivescovo il centrodestra. Commenta Francesco Storace (An): «Oggi Bagnasco ha detto elementari verità». Mentre il ministro Mastella osserva: «Non è possibile che ogni volta che qualche vescovo interviene su cose normali, di buon senso religioso e laico, ci siano intemperanze, atteggiamenti un po’ isterici».
La eco delle reazioni arriva sino a Macerata, dove il presidente della Cei, con il cardinale Ruini, partecipa all’ordinazione a vescovo della città di monsignor Claudio Giuliadori. In un primo tempo Bagnasco si limita a dire: «Bisogna vedere come le mie parole sono state riportate. Non ho avuto modo di vedere le agenzie...». Poi, nel pomeriggio, arriva la puntualizzazione affidata all'arcidiocesi di Genova: fa testo quanto scritto da Avvenire. L’arcivescovo è stato mal interpretato: «Nessuna equiparazione, nelle sue parole, tra i Dico e l'incesto o la pedofilia». Lo sottolinerà anche il quotidiano della Cei. Sotto accusa le sintesi giornalistiche, definite «parziali e fuorvianti». Sarebbe diverso il contesto delle affermazioni sotto accusa. Si dà conto di un Bagnasco che invita a «comunicare» facendo riferimento al retto uso della ragione e a una «corretta antropologia». Che parla di «confronto retto, onesto, il più possibile pacato e rispettoso». Ci sono pure quelle citazioni sull’incesto e sulla pedofilia, ma per segnalare il rischio della mancanza di «un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male». Quegli accostamenti, però, continuano a bruciare.

l’Unità Lettere 1.4.07
Il cardinale Scola, arcivescovo di Venezia, ha affermato che «nella società italiana manca una dialettica rispettosa delle opinioni di tutti». Paradossalmente ha ragione. Infatti nella sfera genericamente politica i media pubblici e privati consentono bene o male una pluralità di informazioni disegualmente divisa in cinque : un quinto di politici laici, due quinti di politici dichiaratamente cattolici (di destra e sinistra), e due quinti di prelati che fanno politica. Nella sfera genericamente culturale dedicata alle concezioni del mondo, religiose e non, il 99 % dello spazio è dedicato alla religione cattolica e a tutto il suo indotto parrocchiale e associazionistico, e l' 1 % a protestanti ed ebrei. Ma questi ultimi in TV solo dopo le due di notte. Zero agli atei e alle loro organizzazioni rappresentative. Eppure l' on.le Casini aggiunge che se la chiesa viene privata del diritto di parola rischia di tornare nelle catacombe. Ma qui il problema è che nelle catacombe ci sono solo gli atei. Nessuno in Italia vuole togliere la parola alla chiesa cattolica che afferma in ogni momento di essere l' unica a detenere la verità assoluta. Il vero e unico problema è che solo la chiesa cattolica esercita pienamente il diritto di parola in questo Paese. E lo esercita per contestare i valori espressi da tutte le altre componenti sociali e culturali, senza che ad esse venga dato nemmeno uno spazio minimo di contraddittorio. Non possiamo accettare che laicità dello Stato si affermi solo nel consentire ad un unico soggetto la piena libertà d' espressione, perchè così facendo appare come uno Stato totalitario e teocratico. Non garantendo il pluralismo dell' informazione (nemmeno nei media pubblici dove è tenuto per legge), lo Stato impone di fatto la segregazione e l' apartheid mediatico, soprattutto degli atei .
Giulio C. Vallocchia

l’Unità 1.4.07
Cézanne a Firenze, il collezionismo senza scuola
di Renato Barilli


ANTOLOGIE A Palazzo Strozzi trenta opere del grande «provenzale» tornano nella città che le capì e le acquistò per la prima volta, ma che non riuscì a mutarne il fascino in ispirazione per altri artisti

Una mostra come Cézanne a Firenze, in atto a Palazzo Strozzi (a cura di Francesca Bardazzi) appare, al tempo stesso, esaltante e deprimente. Esaltante, perché non succede tutti i giorni di vedere una trentina di opere del padre incontestato dell’arte contemporanea, e per giunta riunite con giustificato motivo, in quanto acquistate, in epoche assolutamente pionieristiche, da «due collezionisti», come precisa il sottotitolo della rassegna fiorentina. Uno di essi, Egisto Fabbri (1866-1933), era nato proprio sotto il campanile di Giotto, anche se i casi della vita lo avevano portato a un destino internazionale. Adottato in pratica da uno zio facoltoso, il nipote, che lo ripeteva nel nome, poté svolgere i propri raffinati gusti di pittore in prima persona e di avveduto collezionista, essendo così tra i primi a intuire il genio cézanniano, avendo a fianco in tale scoperta un altro personaggio di gusti ugualmente raffinati, tedesco di origine, Charles Alex Loeser. I due, buoni amici nella vita elegante che conducevano presso la colonia anglofona di Firenze, spartirono anche l’amore coraggioso per i dipinti del grande Provenzale, e dunque questa attuale fedele ricostruzione delle loro scelte ci offre, sulle pareti di Palazzo Stozzi, una buona campionatura del genio cézanniano. C’è perfino un dipinto giovanile degli anni Sessanta dell’Ottocento, I ladri e l’asino, quando l’artista da giovane usava uno stile contorto, sbisciolato, in cui era già l’intuizione che l’universo contemporaneo tale è in quanto percorso da energie radianti, da «onde». Era il drastico rifiuto di quegli atomi sensoriali, allineati come in un diligente pallottoliere, cui invece ricorrevano i coetanei del Nostro, gli Impressionisti. Anche se poi lo stesso Cézanne doveva ammettere la necessità che a quel fare pulsante, a onde sferoidali, succedesse una sorta di «rettificazione» affidata alle faccette di un poliedro, e nasceva così la tipica sua maniera, consistente in una sventagliata di pennellate sicure di sé, autonome, pronte ad aprirsi a carciofo nello spazio, da cui sarebbero poi derivati il Cubismo e ogni altra ipotesi costruttivista. Di questi entusiasmanti esperimenti e primi passi nell’avventura spaziale del nostro tempo la mostra fiorentina offre un’antologia ristretta ma essenziale, limpidamente didattica, e di riflesso va dato il giusto merito ai due collezionisti andati in avanscoperta.
Ma, si diceva, ci sono pure ragioni di malinconia, di rimpianto per occasioni perdute, in quanto di tutto questo ben di Dio nulla è rimasto alla Città del Giglio: i due rabdomanti, dopo aver conservato con orgoglio le tele preziose per alcuni decenni nelle belle dimore che si erano procurati a Firenze e dintorni, andarono progressivamente disfacendosene, per ragioni varie. E dunque, se ora per un momento questi dipinti ricompaiono sulle rive dell’Arno, ciò avviene con provenienza dai quattro angoli del mondo, dove ritorneranno lasciandosi alle spalle un vuoto assoluto.
Ma ancor più triste, se ritorniamo al caso del collezionista fiorentino, Egisto Fabbri, dover constatare che questo interesse encomiabile per le innovazioni cézanniane rimase senza tracce nella sua personale attività artistica, qui utilmente documentata. Egli fu un buon ritrattista, con dipinti dedicati a soggetti di famiglia, ma sulle orme di un artista assolutamente distante dalle orme del genio di Provenza, e invece buon rappresentante di modalità assai più convenzionali, anche se oggi pure a lui si riconosce qualche grado di eccellenza, John Singer Sargent, con quelle sue pennellate solide, ariose, mirabili nell’inquadrare volti, sagome, abiti, ma pur sempre nel rispetto di un codice di normale naturalismo. Nulla a che spartire con le scansioni condotte dall’interno, con le indagini strutturali che consentivano all’artista francese di sovvertire i vecchi canoni di un mimetismo speculare. E se non guardava a Sargent, il nostro Fabbri si ispirava ad altri campioni della sfera impressionista, seppure di specie nordamericana, come Julian Weir o John La Farge, o consuonava con alcuni suoi coetanei toscani quali Alfredo Muller e Eduardo Gordigiani.
E neppure si può dire che quella miracolosa presenza di dipinti del fondatore della contemporaneità riuscisse ad esercitare un’azione fecondante, sull’arte fiorentina dei primi due decenni del secolo. Uno dei compiti aggiunti della mostra a Palazzo Strozzi, come indicato da un seconda metà del sottotitolo, sta nel ricostruire La mostra dell’Impressionismo del 1910, che appunto presso la città del Giglio si tenne in quell’anno, sotto la regia di Ardengo Soffici. Ma, come in ogni azione di questa contraddittoria figura, vi fu espressa una scelta incerta, esitante, sostanzialmente confusa, visto che accanto a un impressionista autentico come Pissarro vi comparvero pure Van Gogh, Matisse, Medardo Rosso, cioè nomi che «sparavano» in direzioni difformi. Fu un bagno nell’attualità, ma in modi indiscriminati. L’unico toscano che allora capì davvero la lezione di Cézanne, Amedeo Modigliani, dovette però andare a Parigi per apprenderla. E ci fu anche un altro giovane di quegli anni che ne ebbe un’efficace intuizione, seppure attraverso cattive riproduzioni in bianco e nero. Alludo a Morandi, che nella vicina Bologna andava componendo dei paesaggi i cui dati, proprio come nella lezione cézanniana, «facevano muro» in primo piano.