martedì 3 aprile 2007

l'Unità 3.4.07
Welby, salviamo il dottor Riccio
di Furio Colombo


Ci sono molte ragioni - umane e civili - per non dimenticare il caso di Piergiorgio Welby, la sua sofferenza, la sua residua ma forte voce che non ha smesso richiedere agli esseri umani che gli stavano intorno di intervenire e di porre fine, per dovere morale e secondo la legge, al suo disumano dolore.
Qualcuno lo ha fatto. Lo ha fatto l’appello ostinato dei radicali, di Marco Cappato, a cui in molti ci siamo uniti, medici, giuristi, politici, cittadini di tutta Italia.
Uno di loro, uno di noi, il medico anestesista Mario Riccio, lo ha fatto.
Seguendo scrupolosamente il poco che le norme italiane indicano e consentono per rispettare la dignità e la volontà di una persona che non può più soffrire, il Dottor Riccio ha fermato la macchina-tortura che stava comunque portando Welby alla morte, però più lenta, più indecorosa, capace solo di alimentare un dolore sempre più grande.
Ora - nonostante la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale di Roma, il Tribunale della stessa città annuncia di voler processare il medico e lo accusa di omicidio di persona consenziente, cioè di reato gravissimo. Non diremo che la decisione annunciata - se presa - avrà un fondamento teologico e non giuridico, per il rispetto sempre dovuto alla Magistratura.
Diremo che è tempo per tutte le persone guidate da un senso di umanità e solidarietà di essere presenti, attive e impegnate a sostenere due cause: la dignità del malato Welby, che aveva chiesto a lungo e invano - come in un film dell’orrore - che si ponesse fine alla sua sofferenza.
E l’atto di umanità da medico e da cittadino, compiuto a nome di tutti noi, dal medico Riccio, in base alla sua conoscenza, competenza e coscienza.
Chi di noi ha provato gratitudine - e anche riscatto per la propria incapacità di accorrere in aiuto - quando il Dottor Riccio è intervenuto, adesso ha l’impegno di essergli accanto e sostenerlo.
È giusto scrivere queste cose sul giornale di quella sinistra che della solidarietà, del soccorso, della dignità, del rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre fatto la sua bandiera.
Propongo al nostro giornale di aprire una sottoscrizione: un fondo di difesa per sostenere al livello più alto le ragioni umane morali e civili che hanno guidato il Dottor Riccio nella sua decisione e nel suo intervento che ha posto fine al dolore.
In un mondo impegnato - anche con le sue migliori risorse tecnologiche - a creare dolore, occorre difendere Riccio ma anche il simbolo alto di ciò che ha fatto. Contribuisco a questo appello con 1000 euro. Ma anche un solo euro sarà contributo di testimonianza dovuta. È una buona, nobile, umanissima causa in cui nessuno deve tacere.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 3.4.07
Boselli: noi socialisti guardiamo anche al Correntone
Il congresso di Fiuggi avvierà «una costituente laica e socialdemocratica». La Rnp è rimasta un’alleanza elettorale
di Simone Collini


«UN COMPROMESSO storico formato bonsai non ci interessa», dice Enrico Boselli, che tra dieci giorni aprirà a Fiuggi il quinto congresso dello Sdi proponendo di «aprire il cantiere per far nascere in Italia una grande forza socialista, laica, liberale».
Al congresso di Genova avevate proposto la Casa dei riformisti, quando gli altri al massimo parlavano di federazione. Oggi dite no al Partito democratico: che succede onorevole Boselli?
«Non è la nostra proposta politica che è cambiata. Noi abbiamo sempre considerato con grande attenzione l’idea di creare una nuova formazione che desse al riformismo italiano quella vocazione maggioritaria che solo nel nostro paese non ha mai avuto. Dire che noi siamo contrari al Pd pregiudizialmente è una caricatura. Noi siamo contrari a questo Pd».
Per quali ragioni?
«Perché assomiglia a un compromesso storico formato bonsai, e soprattutto perché ha al proprio interno la Margherita di Rutelli, che da due anni si è distinta per una scelta molto chiara: quella di diventare la forza più proclive a sostenere l’integralismo clericale su tutte le grandi questioni».
Non penserà che in un soggetto che vuole riunire i diversi riformismi possa rimanere fuori un partito come la Margherita?
«Noi abbiamo sempre immaginato una grande forza riformista in grado di superare la divisione tra laici e cattolici, come ebbe a dire Prodi proprio al nostro congresso di Genova. La Margherita ha invece imboccato la strada di essere un Partito popolare un po’ più grande, un partito cattolico, e viene meno quella grande ambizione di contaminare i diversi riformismi, laici e cattolici, che era all’origine del progetto di Prodi. È sufficiente ascoltare le parole di Parisi, che è stato uno dei principali protagonisti di quella stagione, per rendersene conto».
Qual è allora la vostra proposta?
«Aprire il cantiere di una costituente socialista, laica, liberale. Noi sentiamo un vuoto nella sinistra italiana, quello appunto di una grande forza socialista, che verrebbe reso ancora più grande dalla nascita del Pd. La nostra proposta non è rivolta soltanto a coloro che facevano parte del Psi o del Psdi. Lavoriamo per la fine della diaspora, ma dovremo aprire oltre questi confini».
È per questo che lei cita nella sua mozione congressuale Mussi e Angius?
«Li ho citati perché parlano esplicitamente della necessità di una forza socialista, legata al Pse».
Qualcuno potrebbe accusarla di fomentare una scissione, non crede?
«No, non lo credo proprio. Noi al massimo le abbiamo sempre subite, le scissioni, mai fomentate. E non è certo per opera nostra che si può determinare una scissione nei Ds».
Però siete interessati ai movimenti delle minoranze della Quercia.
«Non siamo indifferenti, questo è chiaro. Staremo a guardare cosa succede».
Su diversi argomenti non siete però proprio sulle stesse posizioni, voi e la sinistra diessina. Potrete lavorare in uno stesso cantiere?
«Noi pensiamo ad un dialogo, poi quello che accadrà lo vedremo. E devo dire che trovo un po’ curioso che mi venga rimproverato questo dialogo con il Correntone Ds, perché chi lo ha fatto è anche chi dice ogni giorno che senza Mussi non può nascere il Pd. Se Mussi è fondamentale per il Pd non vedo perché io non debba discutere con lui».
Avete invitato Mussi e Angius al vostro congresso?
«Come abbiamo invitato leader e personalità di tutti i partiti e anche Prodi, Rasmussen, Schulz».
La minoranza Ds vuole lavorare alla riunificazione della sinistra, progetto su cui lavora anche Rifondazione, che parla di attualità del socialismo. Pensa che possa essere un cantiere unico il vostro e quello del Prc?
«Non ho chiaro il carattere del cantiere proposto da Rifondazione. Quel che è certo è che per me quando si parla di socialismo si parla di partiti socialdemocratici e socialdemocrazia».
Questo congresso segnerà la fine della Rosa nel pugno?
«Considero un’esperienza importante quella della Rosa nel pugno, perché un anno e mezzo fa abbiamo indicato alla sinistra italiana e anche al paese la necessità di riscoprire e difendere alcuni valori fondamentali, a cominciare dalla laicità dello Stato. Oggi i punti programmatici della Rnp sono entrati quasi completamente nell’agenda politica del paese e anche del governo. Questo lo rivendico come un risultato importante dell’alleanza con i radicali».
Però la Rnp non è diventata un partito.
«Questo è vero. Oggi c’è un gruppo parlamentare, c’è una delegazione al governo, ma non è diventata un partito».
Perché, secondo lei?
«Per una ragione molto semplice e anche molto vera: c’è un modo di fare politica molto diverso tra socialisti e radicali. Non siamo riusciti a trovare un punto comune, per questo è rimasta un’alleanza elettorale».

l'Unità 3.4.07
Sinistra e scissioni una storia infinita


COMINCIÒ A LIVORNO Anzi ancora prima con le complesse vicende del Psi primo novecentesco, con le sue espulsioni e le sue scissioni. La storia della sinistra è fatta anche di liti e separazioni. E le riunificazioni non sempre hanno funzionato, anzi. E oggi? C’è molto fair play, più da separazione che da scissione

Con l’arte della separazione la sinistra alla fine sembra avere imparato a convivere. Può darsi perché troppo costose sono state le sue tante rotture del passato. O forse perché, quando sono mutate per tutti le condizioni ideali e politiche dello stare insieme, è bene prenderne atto, senza eccessive demonizzazioni. Le buone maniere, che in fondo oggi accompagnano la diversificazione delle prospettive politiche tra le anime della Quercia, sono il segno dei tempi. La costruzione di altri sbocchi organizzativi per gli eredi dei Ds non attenua la consapevolezza che le delicate alleanze elettorali continuano ad essere cruciali e che c’è un governo da portare avanti se possibile senza inutili scosse.
Eppure il fair play di oggi non ha sempre prevalso nelle storie interrotte della sinistra in Italia. Quando nel ’21 un drappello di giovani comunisti (il più anziano era Bordiga che aveva 32 anni, Gramsci si fermava a 30, e Terracini a 26) abbandonò il Psi si aprirono lacerazioni profonde con rancori che durarono per decenni. Giunto ormai al tramonto della sua lunga esperienza politica, Terracini stupì molti asserendo che in quel lontano gennaio a Livorno fu commesso un errore e nella sostanza aveva ragione Turati. Del resto, lo stesso Pci ebbe bisogno di altre fondazioni rispetto a quella un po’ romantica e settaria del teatro livornese che lo vide divorziare dal rivoluzionario Serrati. C’era dell’assurdo in un addio definitivo a un partito che pure disse no alla guerra imperialista e aveva addirittura votato l’adesione in blocco all’internazionale di Lenin. Una volta Augusto del Noce ha scritto che il vero segreto del successo del Pci nel dopoguerra si trovava nelle pagine di Gramsci. E i Quaderni sono appunto una radicale autocritica sugli esiti catastrofici della crisi italiana risoltasi, contro ogni velleità di rivoluzione alle porte, con il trionfo del capo carismatico. E quando Togliatti lanciò il partito nuovo, più che a Livorno o all’ottobre , per il suo «partito comunista costituzionale», come lo ha definito Sassoon, guardò alla storia del socialismo italiano come a una solida eredità da recuperare.
Il socialismo italiano, appunto. Una storia infinita di abbandoni e drammi. Il suo leader più lucido Turati, veniva dai democratici e scelse di compiere un passo decisivo oltre il radicalismo e verso l’autonomia politica del mondo del lavoro. Fu, tra i capi socialisti, quello più pronto a cogliere la rilevanza di un partito di massa e la centralità del parlamento in una società di massa in ebollizione e bisognosa di un consolidamento democratico. Ma la sua politica modernizzatrice, ispirata all’incontro impossibile con Giolitti («un uomo che ci ha capito» scriveva Treves), non seppe arginare spinte centrifughe che esponevano febbrilmente il partito alla sua destra (con i riformisti di Bissolati e Bonomi espulsi nel 1912 all’indomani dell’impresa libica, o con quelli che ancora nell’ottobre del ’22 uscirono dal Psi) e alla sua sinistra (anarchismo, sovversivismo massimalista sempre all’agguato e portatore, scriveva Turati, «di una vena di ribellione impulsiva e di demagogismo»). Le scissioni caparbie in nome di sacri principi violati appartenevano alla grammatica del socialismo italiano e accanto alle esemplari espulsioni cruente dei reprobi ne hanno scandito la tormentata storia.
Anche all’indomani della liberazione questa tara occulta si è ripresentata con virulenza. A palazzo Barberini la rottura dell’unità socialista si consumò in nome di una sinistra più liberale e moderna, sensibile all’umanesimo marxista e refrattaria all’abbraccio ritenuto mortale con i comunisti in odor di stalinismo.
Agli albori del centro sinistra una nuova pesante cesura intervenne a tagliare le ali del Psi e fu motivata dalla denuncia di un’eccessiva autonomia rispetto ai comunisti e all’Urss (i "carristi" di Lussu, e la sinistra di Vecchietti e Basso furono i protagonisti della rottura). A nulla valse l’aperta avversione di Nenni verso il revisionismo di Bad Godesberg e la sua ripulsa del termine stesso di riformismo che si protrasse fino alla morte. Un partito esposto a mille venti, quello socialista che, quando cercò di riprendere un cammino di aggregazione e di ricucitura di strappi dolorosi, si risvegliò, all’indomani dell’unificazione con Saragat, frastornato dai colpi di una amara sconfitta.
Le ragioni dell’aggregazione di forze omogenee per competere con la Dc all’interno della stessa coalizione di governo, furono demolite impietosamente dall’economia dei consensi. Persino Riccardo Lombardi, che negli anni ’50 guidava una corrente che rivendicava autonomia culturale dal Pci, guardava con una qualche curiosità alla genesi dell’esperienza della sinistra indipendente. Non è stato agevole per il Psi trovare una rotta. Nella stagione di Craxi venne agitato il bastone del duello senza tregua a sinistra, per il riequilibrio dei consensi, e blandita la carota dell’unità socialista, per attutire i colpi entro una prospettiva palingenetica. Il tintinnio di manette ha sbrigato una pratica politica con il codice penale. Negli anni della cosiddetta seconda repubblica scompare di fatto la sigla del Psi e per i socialisti è iniziata solo una piccola storia. Una diaspora senza argini ha proposto anche immagini amare di congressi dei nuovi socialisti che intonavano l’Internazionale a sostegno di Storace o finivano alla resa dei conti con incontrollabili scazzottature.
Anche i tentativi più ambiziosi di rilanciare un suggestivo progetto radicalsocialista sono rifluiti tra fallimenti e recriminazioni. Una nuova costituente si annuncia come occasione per ridefinire una identità socialista non residuale.
Solo il partito nuovo di Togliatti ha saputo proteggersi da questo virus letale delle scissioni. Il segreto del suo successo stava in una riuscita miscela di radicamento sociale (che evitava scivolamenti nel vetero classismo e al tempo stesso con la strategia delle alleanze sociali difendeva dall’estremismo parolaio), di modello organizzativo (che assegnava un ruolo continuativo agli apparati e alle risorse della militanza e alleggeriva il peso dei notabili e degli eletti), di identità (che definiva i confini dell’appartenenza senza affogare gli spazi della cultura politica realista).
Per 40 anni questa creatura togliattiana ha retto, con radiazioni (il Manifesto), arroccamenti, espulisoni (Cucchi e Magnani), abbandoni (Giolitti e molti dei 101 nel 1956) ma senza vere, devastanti scissioni organizzate. Quando però il collasso dei regimi comunisti e la slavina della partitocrazia hanno lesionato l’edificio della repubblica, neanche la giraffa togliattiana è uscita indenne dal disastro. Dalle ceneri del Pci sono emersi, dopo scissioni e battaglie intestine, ben due partiti che riprendono la denominazione e i simboli comunisti. Lo spezzone più grande scaturito dal vecchio Pci, i Ds, hanno recuperato una certa base di massa e hanno svolto un ruolo politico di primo piano negli anni del bipolarismo. E tuttavia la sinistra nel suo complesso stenta ad emergere con le stesse dimensioni delle forze europee. Nelle consultazioni della prima repubblica, la somma dei voti raccolti dal Pci e dal Psi era in media attorno al 40 per cento dei consensi. Oggi tutte le formazioni della sinistra non superano il 27 per cento.
Un problema oggettivo esiste. A Firenze i Ds celebreranno il loro ultimo congresso. L’area del governo è stata raggiunta, ma sulla Quercia ricade ancora una antica maledizione che, a dispetto dei rapporti numerici tra i partiti dell’Unione, preclude a un suo leader la guida della coalizione. Dopo aver svolto la delicata funzione di partito coalizionale, che riesce a mettere assieme porzioni di centro moderato e le sinistre più radicali, i Ds avvertono che la loro storia si è esaurita. Una nuova formazione politica, alla quale si accede in forme individuali, è invocata per unire i diversi riformismi e mettere tutti i contraenti nella condizione di competere per la leadership senza imbarazzanti domande sulle loro identità. La scommessa è quella della "leadership contendibile", come viene chiamata, che gioca tutte le sue carte sulla costruzione di un asse centrale sul quale far ruotare il sistema politico. È evidente che questa operazione, che enfatizza il momento del riassetto del quadro politico (primarie, leadership), lascia spazio a grossi problemi identitari. Un partito democratico, che per molti significa compiere esattamente il passo inverso a quello fatto da Turati nell’800, apre grandi questioni di radicamento sociale. Quanto basta per settori della Quercia per muoversi alla ricerca di nuovi profili della sinistra di ispirazione socialista. Accanto a chi costruisce un nuovo soggetto politico attratto dalla prospettiva della "leadership contendibile" è del tutto fisiologico che emerga chi, con Pasolini, si richiama agli operai «che muti innalzano, il loro rosso straccio di speranza». Un altro progetto, variegate identità, diverse prospettive. Sono piuttosto due mondi che si ritrovano assai diversi uscendo dalla lunga condivisione dell’esperienza in uno stesso partito che rinuncia ad esistere. Due culture diverse si delineano con nettezza. E nel breve periodo seguono sentieri che non sono neppure in concorrenza tra loro.

il manifesto 3.4.07
Il piano B di Rifondazione
di Matteo Bartocci


«Il partito della sinistra europea è una buona base di partenza ma da qui bisogna iniziare un nuovo cammino, e non si tratta di fare un partito o un'altra diavoleria quanto di avere una capacità di iniziativa nei confronti della società». Così, in modo un po' obliquo, Fausto Bertinotti tre settimane fa da Berlino invitava Rifondazione a rimettersi di nuovo in mare aperto. Una navigazione che nelle intenzioni dell'ex segretario dovrà essere a ritmo sostenuto e guardare a tutta la sinistra ma soprattutto al maremoto politico innescato dai delusi del partito democratico: a partire dalla sinistra Ds e dai «socialisti» di Angius ma non solo. «Compagni» fondamentali sono pezzi di sindacato (Fiom e Fp Cgil ma anche tante camere del lavoro) e associazioni cattoliche e non come Arci, Libera o Pax Christi.
Se è in atto un processo dal basso sui beni comuni (vedi l'acqua) o su vertenze «glocal» (Tav o Vicenza) è dall'alto che qualcosa non va, come dimostra la crisi dell'Unione con il suo universo di riferimento a cominciare da movimenti e sindacati.
Come qualsiasi «piano B», la sortita di Bertinotti mira infatti a nascondere le sconfitte dietro le opportunità. La scelta del governo pare non aver convinto il «popolo della sinistra» cui guarda il Prc. Delusione e voglia di astensione che i sondaggi registrano facendo oscillare il partito sotto il 5,8% della camera. Senza contare la dolorosa crisi con i movimenti (bollati a caldo perfino come «antipolitica» dallo stesso Bertinotti dopo i fischi della Sapienza) e le difficoltà del progetto «Sinistra europea», iniziativa ambiziosa, anche sottovalutata nelle sue articolazioni a rete su nodi e per temi, ma finora mai decollata. Se questo è il quadro è quasi inevitabile che la «Se» sia più un punto di passaggio verso un «cantiere della sinistra» che un punto di arrivo.
Si dice che in prima battuta l'ennesima «mossa del cavallo» del presidente della camera non sia stata apprezzata dal segretario, che ne ha discusso con Bertinotti proprio nel volo verso Berlino. Ma dopo la quattro giorni di conferenza di organizzazione a Carrara, è ormai chiaro che il confronto nel gruppo dirigente «collettivo» nato un anno fa è forte ma per una volta non di «linea».
Sulla necessità di un processo di fusione a sinistra tutti d'accordo: nella maggioranza e non solo. A parte la Sinistra critica di Turigliatto e Cannavò, l'area dell'Ernesto (la più ampia delle minoranze del Prc) ha sposato la linea della segreteria. Ma in una platea di quadri come a Carrara è legittimo spirino istinti di conservazione e istanze identitarie. Si spiega così la prudenza di Giordano alla conferenza o nel dibattito pubblico. E' toccato soprattutto a Giovanni Russo Spena, Paolo Ferrero e Alfonso Gianni chiedere di affrettare il passo verso la «rifondazione della sinistra». «Il cantiere non ha davanti a sé tempi biblici», ha precisato Russo Spena. Le divisioni però appaiono più di «acceleratore» che di sostanza.
Ma in politica, si sa, lo scarto in velocità è fondamentale. Tra meno di venti giorni la sinistra Ds abbandonerà il partito democratico al suo destino. Nessuno sa o può dire cosa succederà da qui al 2008. Ma è difficile ed esiziale che tutto rimanga com'è: tre o quattro cespugli - Prc, Pdci, Verdi e sinistra Ds - sotto un Ulivo più grande. Che si voglia un'aggregazione più vasta lo hanno detto, con forme diverse, sia i dirigenti del Prc che quelli del Pdci (ancora in mezzo al guado i Verdi). E' opportuno perciò che non si perda tempo sul che cos'è questa nuova sinistra: il socialismo europeo di Mussi, quello delle origini di Folena, l'altermondialismo di Rifondazione o il comunismo tout court di Diliberto sono distinzioni interessanti fino a un certo punto. E' opportuno invece discutere soprattutto sul che cosa vuol fare questa sinistra. Se vuole una carta di identità vera deve innanzitutto misurarsi con il tema del lavoro, cioè, oggi, della precarietà. E se vuole essere realistica deve partire dalla crisi dei partiti, cioè di quelle forme della democrazia che per secoli hanno garantito la rappresentanza e che oggi sono ridotte a macchine di potere (come denunciato da Giordano proprio a Carrara). Altri temi si possono certo elencare: beni comuni, cittadinanza, politiche della differenza, etc. Ma è bene si cominci.

il manifesto 3.4.07
Scene di miseria dalle campagne cinesi
Edita da Marsilio, l'inchiesta di Chen Guidi e Wu Chuntao «Può la barca affondare l'acqua?» mette l'accento sulla corruzione delle autorità locali, sottovalutando le pesanti responsabilità di Pechino
di Edoarda Masi


Nel 2003 i giornalisti Chen Guidi e Wu Chuntao pubblicarono una «Inchiesta sui contadini cinesi» (Zhongguo nongmin diaocha) da loro condotta per tre anni nello Anhui. Il libro - un esempio fra i tanti dell'attività di giornalisti indipendenti, avvocati e studiosi che, pur fra mille difficoltà e qualche rischio personale, hanno deciso di mettersi «al servizio del popolo» - ebbe subito un grande successo e compare ora anche in Italia in una traduzione (dall'americano) col titolo Può la barca affondare l'acqua? Vita dei contadini cinesi (Marsilio 2007, pp. 237, euro 15).
Al centro dell'opera, in realtà, non sono le condizioni di vita dei contadini in generale, quanto gli abusi praticati in una delle regioni rurali più povere, in particolare rispetto alla pratica delle tassazioni illegali. Ma al di là del tema specifico (in gran parte superato, dal momento che le tasse sul reddito agricolo sono state soppresse), dall'inchiesta emerge un quadro di sopraffazione intollerabile da parte dei burocrati locali e di resistenza ostinata e coraggiosa dei contadini, che getta luce sulla situazione dell'intera fascia rurale - circa due terzi della popolazione cinese.
Gli abusi nella riscossione delle tasse non sono un fenomeno nuovo nella Cina rurale: anzi, evocano inevitabilmente quanto è avvenuto nel corso dei lunghi secoli della Cina imperiale, quando la base principale dell'economia era la rendita agraria e i liberi coltivatori erano soggetti alle angherie della classe dirigente locale. Fenomeni come questi - intrinseci all'esercizio di una gerarchia dispotica di cui proprietari e funzionari locali erano fra gli ultimi anelli - venivano però condannati come violazione dell'ordine morale confuciano, così come dell'ordine politico (il potere dello stato imperiale), ed erano indicati fra le cause della «perdita del mandato» e della caduta delle dinastie. La grande rivoluzione dello scorso secolo, che ha liberato i contadini dal peso della proprietà terriera, ha stabilito un nuovo mandato: non ha cancellato nel popolo una visione del mondo dove politica e morale sono intrecciate, e lo stato e i suoi funzionari fungono da garanti del bene comune. La bandiera rossa davanti alla quale i contadini dello Amhui si inginocchiano in piazza Tian'anmen, in un episodio di questo reportage, è simbolo del nuovo patto. La morale-politica è centrale nelle coscienze dei contadini, e anche degli autori del reportage, nella forma della tradizione ora fusa con elementi nuovi, in primo luogo il riferimento al comunismo.
Pur contenendo una verità, questa coscienza comune può ostacolare la comprensione piena della realtà attuale. Sembra perduta la memoria delle lotte politiche e teoriche dei primi trent'anni: la causa dei mali viene attribuita moralisticamente alla condotta degli individui, e sembrano ripetersi, in una antica e perenne maledizione, le condizioni di ricchezza e povertà, di soggezione e sopraffazione. L'intero periodo della Repubblica popolare appare qui senza storia, così che si cade in contraddizioni inevitabili. Nel capitolo «Breve storia del carico fiscale dei contadini cinesi», si rileva correttamente che dagli anni Cinquanta l'accumulazione del capitale avvenne a carico dell'agricoltura, ma si dà una versione forzata (vicina a quella oggi ufficiosa) della prima collettivizzazione in cooperative, omettendo però che, nel conflitto politico ai vertici del partito che l'accompagnò, la fazione favorevole all'accumulazione forzata era quella contraria alla collettivizzazione. E non si ricorda che il grande balzo (un grave errore, che portò alla carestia) avrebbe avuto come scopo il superamento dell'abisso che divideva i contadini dal mondo urbano. Anche le comuni agricole vengono presentate in termini del tutto negativi, ma nel capitolo «Tanti cappelli da funzionario», l'amministrazione locale nei primi trent'anni della Repubblica popolare viene invece descritta realisticamente, e positivamente, riconoscendo che lo smantellamento delle comuni segnò l'inizio del disastro.
Contrapponendo ai malvagi funzionari locali il moderno imperatore garante dei diritti (l'irraggiungibile Pechino), si nasconde il fatto che nell'ultima ventina d'anni al decentramento verso le unità produttive è stato sostituito, ad opera della dirigenza centrale, il decentramento verso le amministrazioni locali. E proprio grazie al confluire degli interessi degli amministratori locali con quelli del capitale privato interno e internazionale, si sono compiuti passi da gigante verso quel passaggio al neoliberismo che l'amministrazione centrale ha inteso favorire pur senza assumerlo in proprio. Lo sfruttamento estremo della mano d'opera nelle zone rurali non è la ripetizione di un antico male né un fenomeno residuale, ma la condizione primaria per i brillanti risultati del «socialismo di mercato».
È paradossale che a non rendersi conto di questa situazione siano degli intellettuali cinesi, quando proprio in Cina, negli anni Sessanta e Settanta, il conflitto fra le classi nel periodo «postmoderno» si era manifestato per la prima volta in forma esplicita. Nella critica al «socialismo reale» dell'Urss, che tendeva a ripetersi in Cina, i comunisti cinesi dell'ala sinistra avevano individuato la figura della classe in cui il capitale si incarna in coloro che lo gestiscono, piuttosto che in proprietari privati puramente nominali. L'assunzione della logica del capitale da parte dei suoi gestori, inclusi gli amministratori pubblici e statali, era apparsa chiara e aveva condotto a una frattura radicale fra i comunisti.
Morto Mao Zedong, la fazione dei dirigenti «sulla via del capitalismo» ebbe la meglio. Finché, un passo alla volta, proprietà e gestione privata e pubblica tendono a coincidere - ma nello smarrimento delle coscienze, di fronte alla drammatica contraddittorietà fra un regime che fa riferimento a una cultura politica socialista e la realtà di una strada, imboccata da tempo, che va in tutt'altra direzione. Nonostante la buona fede, mettere l'accento sulla corruzione degli amministratori locali in contrapposizione alle buone direttive del «centro», è un escamotage che cela carattere e funzione strutturali di comportamenti che formalmente appaiono come angherie. La ripetizione apparente di forme di oppressione proprie di sistemi di potere del passato, quali la tassazione abusiva (opportunamente corretta dal potere centrale) è solo uno dei casi in cui pratiche tradizionali sono acquisite e rese funzionali a fini «moderni» o postmoderni. Non dissimili da quelli propri dei luoghi ritenuti più «avanzati».

Corriere della Sera 3.4.07
Ingrao: sbagliai Si poteva cercare di salvare Moro
«Allora dissi un no netto, oggi la penso in modo diverso»
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Nelle pagine del suo ultimo libro, Volevo la luna, il dubbio affiora appena: davanti al cadavere di Aldo Moro, a «quel corpo rannicchiato, ormai irreparabilmente muto», il 9 maggio 1978 in via Caetani, «mi chiesi se la mia intransigenza non fosse stata un duro sbaglio». Il tempo ha lavorato e ieri Pietro Ingrao, nel giorno del novantaduesimo compleanno, si è dato una risposta. Lo dice con voce piana e limpida: «Eh sì, non c'è dubbio che sbagliai: potevamo salvarlo». A Napoli si presenta il suo libro, siede accanto ai senatori di Rifondazione Raffaele Tecce e Tommaso Sodano e il deputato Arturo Scotto della sinistra Ds, dice che al congresso della Quercia «c'è bisogno di una separazione chiara, netta, che i moderati facciano i moderati e gli altri dicano cosa sono». Ma si parla soprattutto delle sue memorie, il discorso cade sugli anni del compromesso storico, la morte di Moro come spartiacque, e quella telefonata che il 16 marzo dal Viminale gli fece Cossiga, «hanno rapito Moro». Ricordando quei giorni, l'allora presidente della Camera accenna alla fermezza, ai dubbi, a quello «sbaglio». E ora ripete al Corriere: «Riflettendo, col tempo e la distanza, ho modificato la mia opinione».
Nel suo libro ricorda che allora scrisse ai suoi familiari: se i brigatisti rapiscono me non bisogna negoziare, anche se lo invoco.
«Certo. Durante tutti i giorni della prigionia di Moro ho avuto una posizione chiara e netta perché non si accogliessero le sue richieste. Dicevo "no" ad ogni trattativa e fino all'ultimo ho difeso questa linea, che del resto era quella di Berlinguer e del Pci».
E quando Moro le scrisse?
«Non fu facile. Ma anche lì senza dubbio la mia risposta fu netta: dissi pubblicamente che non potevo acconsentire a quanto mi chiedeva».
E dove stava lo sbaglio?
«L'errore non era nell'impulso a dire "no" alle Br, a rifiutare un'intesa, un compromesso qualsiasi. Era ovvio che il Pci non potesse accettare e riconoscere quel modo di lotta politica, come il loro linguaggio chiuso, settario, violento...».
E allora?
«A distanza di anni, nella mia mente, si è affacciato un ragionamento diverso: forse era possibile cercare di salvare una vita, la sua vita, senza per questo rinunciare a combattere i brigatisti».
Come?
«Si poteva accettare una trattativa e magari cedere su un punto, considerare che non si poteva reggere quella situazione e poi riprendere la lotta al terrorismo in altro modo. Non sono sicuro che avremmo salvato il prigioniero, ma almeno tentare... Del resto ci sono ancora molte cose da chiarire».
In che senso?
«Tanti, troppi punti risultano ancora oscuri in quella vicenda. Ho molti dubbi, uno ha a che fare perfino con l'attuale presidente del Consiglio: intendo l'episodio della seduta spiritica bolognese nella quale saltò fuori il nome "Gradoli", la via d'uno dei covi Br che allora non fu controllato a dovere. Sa com'è, io non ho mai creduto allo spiritismo e non ci credo ancora adesso. Ma questo è solo un esempio...».
Altri?
«La figura di Mario Moretti non mi ha mai convinto. Ho dei dubbi sui suoi legami, ciò che lo muoveva, sull'iniziativa di rapire Moro e la decisione di ucciderlo. Tutta la verità su questa storia ancora non l'abbiamo conosciuta».

Corriere della Sera 3.4.07
Nella nuova edizione del saggio sui sistemi rappresentativi, Giovanni Sartori guarda al futuro del Terzo Mondo
Esportare la democrazia è possibile, ma l'ostacolo è il monoteismo
di Giovanni Sartori


Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po' dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell'acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. (...) A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia — e più esattamente la liberaldemocrazia — è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c'è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi?
Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi — liberale e democratico — che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Ilche può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l'attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere.
Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento — la demoprotezione o il demopotere — è il più importante? (...) L'importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell'insieme.
Se non c'è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c'è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è. Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura.
Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l'elemento necessario- minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l'elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare.
Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l'Italia fascista dall'Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco).
Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell'800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all'imperatore, e l'imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano. Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c'era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli.
Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale.
Ma il caso più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone. Le grandi religioni indiane sono, nell'ordine, l'induismo, il buddismo e l'islamismo. L'induismo definisce l'identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D'altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi. Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant'è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l'India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh. Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l'India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l'India è una democrazia è perché l'ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese.
Anche per l'India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani.
Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.

Corriere della Sera 3.4.07
Una popolazione isolata dell'Amazzonia accende il dibattito sull'esistenza di una grammatica universale innata
La tribù che sa contare fino a due
di Massimo Piattelli Palmarini


Hanno appena dieci fonemi e una sola parola per indicare padre e madre
NELLA SELVA I Piraha sono un gruppo etnico del Brasile che ha una popolazione di circa 8.100 individui. Vivono nello Stato di Amazonas, lungo il fiume Maici

Il linguaggio: dipende dai modi di vita o esiste una matrice mentale?
In questi ultimi anni, la lingua, la cultura e le credenze di un'isolata popolazione dell' Amazzonia, i Piraha, circa trecento individui distribuiti su otto villaggi lungo le sponde del fiume Maici, parevano aver tenuto in scacco la linguistica e l'antropologia. La vicenda aveva presto straripato ben oltre i confini accademici, trovando vasta eco anche sulla stampa. Il motivo di tanto scalpore è presto detto. Il linguista americano Daniel Everett, adesso professore all'Università dell'Illinois, dopo aver vissuto per lunghi anni a contatto con i Piraha, aveva riportato, nella sua tesi di dottorato e poi in vari articoli specialistici, alcuni dati sbalorditivi. Stando a quanto afferma Everett, la lingua dei Piraha avrebbe il più ristretto repertorio di suoni linguistici mai registrato (appena dieci fonemi), due sole parole per i colori (chiaro e scuro), nessuna parola per i numeri oltre uno e due (ma anche questi con un significato solo approssimativo), una sola parola per padre e madre, nessuna possibilità di esprimere una frase che contiene una frase subordinata, come «Ti ho detto che il bambino ha fame». La lista di queste radicali povertà linguistiche è lunga. I Piraha adulti sono strettamente monolingui e incapaci di apprendere qualsiasi altra lingua. Ma c'è ben di più. I Piraha non si curano di tracciare relazioni di parentela oltre quella con i propri fratelli e fratellastri, non hanno alcuna concezione che il mondo sia esistito prima che fossero nati i piu' anziani del villaggio, che una piroga e i suoi occupanti continuano ad esistere anche dopo aver svoltato la curva del fiume, sparendo dalla vista. Secondo Everett, gli stretti confini dell'esperienza immediata e diretta racchiudono il loro intero mondo mentale.
OGNI SERA — Inoltre Everett racconta che, insieme alla moglie Keren, anch'essa linguista, ogni sera, per mesi e mesi, su richiesta esplicita dei Piraha, ha tentato pazientemente di insegnare loro i numeri da uno a nove in portoghese brasiliano, dato che la loro lingua non ha i numeri. Dopo mesi di tale volontaria scuola serale, i Piraha adulti avrebbero dichiarato, con grande rammarico: «La nostra testa è troppo dura». I bimbi Piraha riescono ad imparare i numeri, ma non gli adulti. Nei loro scambi in natura con occasionali mercanti brasiliani i Piraha adottano criteri volubili. Uno stesso individuo, talvolta esige molta merce in contraccambio, ma talvolta si accontenta di molto meno, per prodotti identici. I Piraha hanno la netta sensazione che i mercanti si approfittino di loro, e vorrebbero poter imparare a far di conto, ma si sono rassegnati a non riuscirvi. Questi racconti degli Everett sono in netto disaccordo con moltissimi dati di altri linguisti ed antropologi, su popolazioni che anch'esse parlano lingue prive di un sistema di numeri (uno, due, tre, molti è il caso tipico). Il compianto linguista Kenneth Hale, del Mit, esperto di lingue aborigene australiane senza incertezza, raccontava, invece, che i parlanti di quelle lingue non hanno difficoltà ad imparare un sistema numerico estratto da altre lingue e poi riescono a far di conto, come tutti noi.
MESI — Lo psicologo Peter Gordon, della Columbia University, dopo aver passato alcuni mesi con i Piraha e aver sondato la loro ridotta capacità di stimare le quantità numeriche, ha pubblicato su «Science», nel 2004, un articolo intitolato «La vita senza i numeri». Gordon dichiara che, come i piccioni e i bimbi molto piccoli, i Piraha adulti non sanno contare oltre tre e stimano solo grossolanamente la differenza tra gruppi grandi e gruppi piccoli di oggetti. La loro lingua, del resto, stando agli Everett e a Gordon, non avrebbe nemmeno parole per esprimere i comparativi (tanto quanto, più di, meno di). In una recente intervista al «New Scientist», Everett non ha lesinato le parole: «La lingua dei Piraha è l'ultimo chiodo nella bara della teoria Chomskiana secondo la quale esisterebbe una grammatica universale innata». A dispetto dell'immenso seguito conquistato dalle teorie di Chomsky, alle quali lui stesso dice di essersi ispirato nel passato, Everett presenta i Piraha come prova vivente che la lingua e il pensiero sono interamente plasmati dalla cultura, dall'esperienza dei sensi e dai modi di vita.
Una netta reazione a queste sue tesi non ha tardato a farsi sentire. In questi giorni, un illustre linguista del Mit, David Pesetsky (titolare delle cattedra precedentemente occupata da Noam Chomsky, ancora attivissimo, ma ufficialmente in pensione), un giovane e valente fonologo di Harvard, Andrew Nevins e una linguista brasiliana, Cilene Rodrigues, esperta di sintassi comparata, hanno reso disponibile su Internet un testo di 60 dense pagine nelle quali confutano tutte le conclusioni di Everett, punto per punto (http://ling.auf.net/lingBuzz/000411).
Passando al setaccio i dati spesso contraddittorii dello stesso Everett, questi studiosi mostrano che alcune pretese limitazioni della lingua dei Piraha risultano puramente illusorie, mentre altre sono reali, ma presenti anche in lingue molto distanti dal Piraha, e distanti tra di loro, come il tedesco, il cinese, l'ebraico, il bengalese, la lingua degli indiani Wappo della California e quella parlata dai Circassi del Caucaso.
Trattandosi di popoli con culture e stili di vita diversissimi, queste particolarità linguistiche comuni non possono certo, con buona pace di Everett, essere state plasmate da fattori ambientali e sociali. Nessun chiodo e nessuna bara, bensì un'accurata nuova rivendicazione dell'ipotesi che le variazioni tra le lingue umane riflettono variazioni di una comune profonda matrice mentale, la quale, ovviamente, interfaccia con la cultura, ma non viene da essa plasmata.
IDEA SEDUCENTE Pesetsky, Nevins e Rodriques giustamente insistono su una lezione centrale: ciò che è universale e comune a tutte le lingue, compreso il Piraha, non sono l'una o l'altra specifica forma linguistica, bensì un menu fisso forme linguistiche alternative, menu dal quale ciascuna lingua sceglie quanto le aggrada. Nevins in particolare insiste su un punto: «La nostra analisi conferma il grande interesse del caso Piraha, non lo sminuisce certo. Molti trovano intuitivamente seducente l'idea che le lingue siano plasmate dalla cultura e dagli stili di vita. E' interessantissimo mostrare, invece, una volta di più, proprio con una lingua insolita e per noi remota come quella dei Piraha, che esistono profonde somiglianze sintattiche tra lingue di culture molto diverse».
L'antropologo brasiliano Marco Antonio Gonçalves ha raccolto tra i Piraha varie elaborate narrazioni. Eccone una, in sintesi: il demiurgo Igagai ha rigenerato il loro mondo dopo un diluvio e poi ha dato alle donne il fuoco per cuocere. Il mondo ha molti livelli, e' sempre esistito, ma viene anche ricostruito ogni giorno. Forse non sono miti in senso stretto, questi dei Piraha, forse sono semplici novelle. Ma come non fare paralleli con Noè, Sisifo, Prometeo, Eraclito. Forse anche per i miti esiste un menu fisso, dal quale tutta l'umanità via via sceglie ciò che (come diceva Claude Lévi-Strauss) «è buono da pensare».

il Riformista 3.4.07
Idee. Ferrero. «Il socialismo torni alle origini»
di Ettore Colombo


«Il nuovo processo di aggregazione delle soggettività della sinistra deve tenere assieme gli elementi di movimento del quadro politico (quelli in casa Ds i principali) con tutto quanto si muove sul piano sociale, da pezzi di sindacato a pezzi di associazionismo e della sinistra diffusa. L’elemento di identificazione di tutti questi percorsi è, a mio parere, una parola chiave, la parola “sinistra”». Il ministro di Rifondazione Paolo Ferrero, in questa conversazione con il Riformista, preferisce non usare la definizione “contenitore”, non foss’altro per «non anteporre le formule ai percorsi», ma è chiara la direzione cui tende: andare avanti per aggregare la sinistra italiana a sinistra del Pd. Senza preclusioni ma con un’ambizione: «guardare oltre l’orizzonte del capitalismo. Ecco perché a me piace parlare di sinistra d’alternativa: non dice di un’ideologia ma di una pratica politica che punta a un’idea di sviluppo alternativo. Il processo deve essere politico e sociale insieme e l’unico paletto che metto è di metodo: l’idea dell’autonomia del politico e l’idea dell’autonomia del sociale sono due errori da cui rifuggire. Bisogna mixare le modalità delle lotte in val di Susa e il saper contrattare misure redistributive a favore dei ceti popolari stando al governo». Il modello organizzativo per lui potrebbe essere quello dell’Flm degli anni ’70, e cioè dell’unità organizzativa di sindacati organizzati e di consigli di fabbrica, dal punto di vista della «formazione dell’unità tra diversi». Non a caso, più che Riccardo Lombardi, Ferrero preferisce citare Raniero Panzieri e la sua «radicale critica allo stalinismo e al partito unico unita alla radicalità politica e alla critica del capitalismo come a una pratica profondamente democratica, non settaria e alla capacità di costruire unità e iniziativa dal basso».
«In ogni caso, la cosa più importante è costruire un processo di relazioni tra diversi soggetti dove ci sarà chi fa riferimento al socialismo, chi al comunismo, come me, chi a nessuno dei due, chi all’ambientalismo e chi al solidarismo cattolico», dice Ferrero, per cui la «questione socialista» è «parte integrante» del processo in corso «ma non il principio ordinatore, come non lo è quella comunista. Penso a forme preesistenti la divisione del ’21 tra socialisti e comunisti, al movimento operaio delle origini, quando il socialismo era patrimonio di tutti. Non vuol dire tornare tutti socialisti o tutti comunisti ma confrontarsi in avanti».
«Soprattutto - prosegue - vedo un’idea di nuovo movimento operaio che faccia i conti con la crisi di questo modello di sviluppo e il fallimento del neoliberismo, che si confronti con la questione ambientale e sociale, la pace e la non violenza». La sogna anche «multiculturale e multietnica», la nuova sinistra, Ferrero, «perché se non è in grado di farsi attraversare dalla questione dei migranti che sinistra è?».
Il partito, naturalmente, ci deve stare e ci starà, in questo processo (cioè «Rifondazione non si scioglie»), «e in modo non settario». Sinistra europea, per Ferrero, è «un punto di partenza, ma il campo è ben più ampio. L’importante, ora, è aprire processi di scambio, discussione, iniziativa». Primo banco di prova concreto per tutte le forze della sinistra che vogliono riaggregarsi è, per il ministro, come redistribuire l’ormai famoso “tesoretto”: «c’è un problema enorme di redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso, sia sul piano dei trasferimenti monetari (dare cioè di più a salari e pensioni) sia sul piano della tenuta del sistema di welfare, dalle pensioni al piano-casa», spiega. «Su questo terreno la sinistra deve riprendere l’iniziativa e questo può essere un primo concreto terreno d’incontro non solo tra forze politiche ma anche con le forze sociali, sindacato in testa». Ferrero ci tiene in particolare non solo alla difesa delle pensioni, dove ribadisce posizioni note (no allo scalone e al taglio dei coefficienti), ma anche a rilanciare un vero piano casa, «un’emergenza drammatica in tutte le aree metropolitane che parla non solo di lotta alla povertà ma anche di possibile integrazione degli immigrati. Serve un piano di affitti degli alloggi pubblici a canoni abbordabili, un classico delle politiche di welfare, penso al piano Fanfani e alla politica abitativa del primo centrosinistra». Il piano-casa (insieme, ovvio, alla lotta alla precarietà) è per Ferrero un modo concreto per tenere assieme impianto riformatore, idea diversa di welfare e qualità dello sviluppo, «legando la redistribuzione del reddito a politiche di sicurezza sociale per gli strati più deboli della società».

Il Sole 24Ore 2.4.07
Bocciati i manicomi giudiziari
di Manuela Perrone


Sono il colpo di coda dei manicomi. Nelle intenzioni, carceri e ospedali; di fatto né carceri né ospedali. Ibridi e vetusti, carenti di operatori sanitari, buchi neri in cui cura e rieducazione restano un miraggio, nonostante gli sforzi di professionisti e volontari.

A restituire uno spaccato allarmante dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani è la relazione finale del gruppo di lavoro interministeriale, incaricato nel 2004 dalla commissione Giustizia Salutesulla sanità penitenziaria di proporre modelli innovativi per gestire i soggetti pericolosi affetti da patologie psichiatriche ricoverati negli Opg.

Dopo aver visitato le sei strutture — Aversa e Napoli in Campania, Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, Castiglione delle Stiviere in Lombardia,Montelupo Fiorentino in Toscana e Reggio Emilia in Emilia Romagna — la task force
di otto esperti, coordinata da Guido Vincenzo Ditta per la Salute e da Adolfo Ferraro per la Giustizia, ha inviato alla commissione le sue conclusioni. Limpide: nel lungo periodo l'assetto attuale va superato, «attraverso la realizzazione di un sistema integrato di psichiatria penitenziaria».

Nel breve, c'è molto da fare. Il satellite degli ospedali psichiatrici giudiziari è congelato da quasi un secolo, a parte il cambiamento del nome, nel 1975,da«manicomi criminali » a Opg. La legge Basaglia non li ha scalfiti, così come il Dlgs 230/1999, che ha stabilito il transito delle competenze sanitarie in carcere dall'amministrazione penitenziaria al Ssn. Risultato: gli Opg sono un calderone in cui finiscono "ospiti" eterogenei dal punto di vista clinico e giuridico, che invece necessitano di interventi differenziati.

Nitida la foto scattata nelle 25 pagine del documento: a fronte di 534 operatori sanitari e sociali (340 di ruolo e 194 a contratto), i ricoverati risultavano 1.057 (ma al 31 dicembre scorso erano saliti a 1.274), circa il 70% con una diagnosi di disturbo schizofrenico e al 65,2%provenienti da regioni diverse da quella dell'Opg. Il 49,2% è sottoposto a una misura disicurezza di due anni, il 16,5% di dieci anni. Nel 2004 sono entrate in Opg 817 persone e ne sono state dimesse 613. Il numero di chi entra è sempre maggiore del numero di chi esce. Le proroghe delle misure di sicurezza sono state 688 nel solo 2004. Castiglione dichiara il maggior numero di misure di contenzione (188 nel 2004, su 565 totali), ma i contenuti sono di più a Reggio Emilia (84, il 43,1% del totale).

«È un mondo a sé», spiega lo psichiatra Fabrizio Starace,direttore del coordinamento socio sanitario dell'Asl Caserta 2 e componente del gruppo di lavoro. «Comunità scientifica e opinione pubblica se ne occupano solo in occasione di drammi o casi limite. Come quello dei pazienti che passano la vita negli Opg soltanto perché, terminato il periodo loro comminato, i servizi per la salute mentale delle Asl di appartenenza dichiarano di non disporre di strutture idonee». Li chiamano "ergastoli bianchi". E vanno combattuti.

Come?Nell'immediato,i tecnici chiedono di applicare le sentenze 253/ 2003 e 367/2004 della Corte costituzionale, secondo cui l'internamento va limitato ai casi di reale pericolosità e la misura di sicurezza, quando possibile, va effettuata nelle carceri o sul territorio. Occorre poi potenziare le collaborazioni con i Dipartimenti di salute mentale e garantire la continuità terapeutica con i servizi territoriali al momento delle dimissioni. Perché,senza piani personalizzati di reinserimento, gli internati rischiano di restare tali per anni. Dimenticati.

lunedì 2 aprile 2007

Due risposte della redazione di Tempi dispari a chi chiedeva notizie della pubblicazione sul loro sito della loro intervista di Venerdì 30 a Massimo Fagioli:

Cara Licia, il nostro sito non consente l'inserimento on-line di files giornalieri superiori ai 10 minuti... e l'intervista a Fagioli dura ben 40 minuti. D'altro canto condensare una conversazione come quella in soli 10 minuti sarebbe un vero delitto. Ci spiace molto deluderti, ma pensiamo sia piu' giusto cosi' anche nei riguardi di uno studioso come Fagioli. Grazie dell'interessamento. Un caro saluto.
Redazione TEMPI DISPARI

Caro Fabio, abbiamo ritenuto impraticabile la realizzazione di una sintesi di soli 10 minuti dell'intervista a Fagioli (poiche' lo spazio concessoci on-line e' appunto di soli 10 minuti). La conversazione andava bene nella sua durata originale di 40 minuti e non e' proprio il caso di farne scempio tagliuzzandola tutta. Siamo certi che capirai questa nostra scelta. Grazie. Un caro saluto.
Redazione TEMPI DISPARI


l'Unità 2.4.07
Le minoranze ds a D’Alema: fermatevi
Bandoli e Angius rispondono all’appello lanciato su «l’Unità» dal ministro degli Esteri
«Preventiva è la scelta di fare il Pd». «Perdere lo spirito dell’Ulivo è errore catastrofico»
di s.c.

«Fermatevi». Le minoranze Ds replicano all’intervista di D’Alema pubblicata ieri su l’Unità e invitano i dirigenti della Quercia a non proseguire sulla strada verso il Partito democratico.
«Preventiva non è la nostra decisione di non aderire al Pd, semmai lo è stata la scelta di dar vita al nuovo partito in sedi extracongressuali come la riunione di Orvieto», dice Fulvia Bandoli, tra i primi firmatari della mozione Mussi.
«Non è vero che il Pd è il compimento dell’Ulivo», sostiene Gavino Angius. Il primo firmatario della terza mozione Ds dice anche che «senza un cambio di rotta la sinistra ne uscirà indebolita, non rafforzata».
Collini e Miserendino

«Ho apprezzato il tono dialogante, che purtroppo non ritroviamo sempre nei congressi di federazione,, e il fatto che abbia voluto soffermarsi sulle posizioni che la sinistra Ds ha portato nella discussione», dice Fulvia Bandoli parlando dell’intervista a D’Alema pubblicata ieri dall’Unità. «Non condivido invece - aggiunge l’esponente Ds che è tra i primi firmatari della mozione Mussi - le conclusioni e anche alcune delle sue analisi».
D’Alema vede delinearsi una “scissione senza pathos”.
«Intanto è sbagliato usare il termine scissione, perché nel momento in cui si scioglie un partito nessuno si scinde da qualcun altro. E per quanto riguarda il pathos, che secondo D’Alema mancherebbe alle posizioni della sinistra Ds, la passione manca alla politica tutta, e non da oggi, e questa è una delle ragioni della profonda crisi che la investe. Su questo dovremmo tutti interrogarci, sulla poca stima che i politici riscuotono tra i cittadini, sui crescenti personalismi, sulle decisioni prese nel chiuso delle stanze, sulla partecipazione che viene sistematicamente espulsa. E poi la passione mi pare manchi anche al percorso di costruzione del Pd, come hanno fatto notare sia Parisi sia Veltroni».
Ai congressi di sezione hanno votato 250 mila iscritti Ds, una buona prova di partecipazione, non crede?
«Sì, dopodiché nei congressi abbiamo tentato di portare il tema della perdita di consensi che il governo ha patito in questi mesi, il fatto che salari e stipendi in Italia sono i più bassi d’Europa, che molte delle riforme annunciate nel nostro programma non trovano concretizzazione: dalla lotta al precariato e la riforma della legge 30 all’abolizione dello scalone, da una piccola tassa sulle rendite che forse ci avrebbe evitato di aumentare la pressione fiscale anche su ceto medio e strati popolari all’abolizione delle leggi ad personam come il falso in bilancio. Ma l’unica risposta che ci è stata data è che il Pd sarà il rimedio di tutti i problemi. Risposta curiosa, consolatoria e inaccettabile».
E al riguardo, la vostra risposta è un addio, come dice D’Alema, “preventivo”.
«Preventiva non è la nostra decisione di non aderire al Pd, semmai è stata la scelta di dar vita al Pd in sedi extracongressuali, come fu l’assemblea degli eletti ad Orvieto, che tutto decise. Non dimentichiamoci che il congresso l’abbiamo voluto noi, come atto democratico dovuto, perché la maggioranza non vedeva che una ratifica alla fine della costituente».
Perché non vi convince l’invito di Fassino a fare la minoranza del Pd come fate la minoranza dei Ds?
«Non ci siamo mai mossi dai Ds, la nostra militanza dura da quaranta anni ed è stata leale. Questo è il congresso che scioglie il partito, è il congresso che dà mandato al segretario e al gruppo dirigente di fondersi con la Margherita. Nessuno può pensare che sia un obbligo aderire ad un nuovo partito se non si è convinti del suo profilo, dei suoi valori, della sua concezione della laicità, della sua appartenenza internazionale, del posto che viene attribuito al lavoro nella società. Sarebbe un centralismo democratico di ritorno in un partito che tra pochi mesi non esisterà più».
Quindi?
«L’adesione al Pd sarà individuale, libera, convinta. La nostra non adesione è altrettanto individuale, libera e convinta. Penso che nessuno di noi sia totalmente sereno in queste settimane. Sono scelte difficili entrambe. Più che gli appelli estremi lavorerei per un estremo rispetto delle scelte diverse e della nostra storia comune. E alla fine anche della nostra amicizia e delle nostre relazioni personali».
Fassino dice che non vede la vostra proposta alternativa.
«Bisogna riconoscere la legittimità di tutte le posizioni in campo, quella di chi vuole dar vita a un soggetto di centrosinistra, fondendosi con un partito di centro democratico, e quella di chi vuole continuare a stare a sinistra e tentare di unire tutta la sinistra che resterà fuori dal Pd, e che non è poca cosa. Non siamo di fronte ad un altro ‘89 e non va riprodotto quel clima, non vanno spinti i toni della drammatizzazione ma quelli del rispetto e della reciproca legittimazione».
Che vuole dire?
«Vorrei dalla maggioranza una risposta seria a questa domanda: potete sostenere con convinzione che riunificare la sinistra frammentata sia un compito e un obiettivo inutile, che non farebbe bene all’Italia e a tutto il centrosinistra? So che sarà difficile ma molto duro anche il compito di fare il Pd, e lo dico anche guardando ai congressi della Margherita, alle lotte di puro potere che in essi si esprimono, i reiterati no all’ingresso nel Pse».
Con che spirito andate a Firenze?
«Nei congressi dove annunciamo che non entreremo nel Pd facciamo gli auguri alla maggioranza, affinché la loro impresa possa avere buon esito. Vorremmo che prima o poi, magari proprio a Firenze, anche la maggioranza augurasse a noi di riuscire nell’impresa, forse minore ma non meno importante, di unire la sinistra che sta al governo ma che resta fuori dal Pd. Daremmo un esempio di politica più mite, meno fratricida, dove le strade possono separarsi senza scomuniche, salvando la stima e le relazioni. Forse un dibattito meno “maschio” piacerebbe di più anche ai nostri iscritti ed elettori. Ho guardato varie volte il forum dell’Unità on line sul Pd e vedo che un altissimo numero di lettori è molto critico sull’ipotesi uscita vincente dal congresso. Sono persone che non hanno votato ai congressi di sezione ma che voteranno nelle future elezioni».

l'Unità 2.4.07
«L’Ulivo? Non c’entra nulla. Insisto, fermatevi»
Angius: la sinistra esce indebolita e ormai tutti manifestano dubbi
di Simone Collini

«Non è vero che il Partito democratico è il compimento dell’esperienza politica e culturale che ha preso forma nell’Ulivo», dice Gavino Angius riprendendo parola per parola quanto detto da D’Alema nell’intervista di ieri all’Unità. «Può essere il suo Bignami, il suo riassunto, comunque un’altra cosa rispetto ad esso». Il primo firmatario della terza mozione Ds sottolinea che «il disegno originario dell’Ulivo teneva insieme tutte le forze del riformismo italiano, ma non in un solo partito, mentre oggi sono rimasti soltanto Ds e Margherita».
Tutti i sostenitori del Pd dicono che il nuovo soggetto non sarà semplicemente la somma di queste due forze.
«Sono allibito e ogni giorno di più mi convinco dell’errore catastrofico che stiamo compiendo, della strada sbagliata imboccata e del vicolo cieco in cui ci siamo infilati. Non c’è nessuno dei promotori del cosiddetto Pd che sia minimamente soddisfatto di come stanno andando le cose. Però nessuno fa niente per cambiare la rotta. Anzi, si dice che bisogna accelerare».
Si riferisce a quanto detto da Veltroni al congresso della federazione di Roma?
«Ma non solo. Noi abbiamo avanzato al segretario delle proposte, alcune integrative e altre correttive, ma nessuna è stata minimamente presa in considerazione. Neppure quella che abbiamo fatto alla chiusura dei congressi di sezione alla luce del risultato. Un partito non nasce per necessità ma per profonda convinzione. Cosa che oggi non vedo, mentre vedo un errato calcolo di convenienza. Dove sta scritto che non possiamo fermarci a valutare una situazione che è diversa da quella che ci si prefigurava?».
Per D’Alema la necessità è nel fatto che “i Ds non sono sufficienti a imperniare su di sé il bipolarismo italiano”.
«Non pensavo che noi avessimo una funzione di questo genere, ho sempre ritenuto che in Italia il bipolarismo fosse imperniato sulle coalizioni. Ma a parte questo, francamente non riesco a capire di cosa si stia discutendo. In alcuni momenti si dice che che la sinistra resta forte, che staremo nel Pse, in altri momenti si dice che tutto cambia, che bisogna andare oltre il socialismo. Come iscritto Ds mi sento preso in giro e vorrei che qualcuno mi spiegasse come stanno le cose. Restiamo agli ultimi due giorni: sul profilo identitario e la collocazione internazionale del Pd abbiamo sentito una opinione da Fassino, abbiamo sentito parole rassicuranti da D’Alema, Fioroni ha addirittura detto che i Ds devono uscire da Pse, Rutelli che il Pd non può entrare nel gruppo socialista europeo. Cioè, non c’è uno solo dei fautori del Pd che dica su una questione fondamentale come questa la stessa cosa».
D’Alema dice che si vuole dar vita a una più grande sinistra europea: la convince?
«Vorrei far notare che la parola sinistra nel documento fondativo del nuovo partito non è mai nominata. In quel documento ci sono i profili identitari di un partito che è più centrista che di sinistra. Si sta estinguendo ciò che c’è, cioè la più grande forza della sinistra italiana che è parte del socialismo europeo. Se l’appartenenza al Pse non è così importante, se bisogna andare oltre il socialismo, se a fronte di una violazione della Costituzione sollecitata da una Chiesa che pretende di dettare le leggi dello Stato si fa nascere un partito che ha un profilo identitario così incerto e precario, non stiamo rafforzando la sinistra, la stiamo indebolendo».
L’appello di D’Alema è di partecipare alla costruzione del nuovo soggetto: non crede che sarà nella fase costituente che si delineerà il profilo del Pd?
«Il profilo identitario si sta già connotando e la fase costituente riguarderà soltanto Ds e Margherita. Non ci saranno forze di ispirazione socialista, lo Sdi, i Verdi e le altre culture ambientaliste. Il disegno originario dell’unione dei riformismi italiani non c’è più, è sparito. C’è una lotta di potere, espressione non mia ma di Parisi, che si sta sempre più disvelando. Così come è chiaro che il 22 aprile i Ds si sciolgono, perché i gruppi dirigenti riceveranno il mandato di formare un nuovo partito. E allora perché meravigliarsi se a sinistra c’è chi vuole aggregare forze e culture diverse che fanno riferimento al socialismo democratico, all’ambientalismo, al femminismo, alla nonviolenza».
Forze e culture che Veltroni vedrebbe bene nel Pd.
«Dice cose vere, che può constatare chiunque. Mi domando però perché non ne tragga le conseguenze. Chi l’ha deciso che di fronte a un profilo politico che si sta delineando del tutto diverso da quello ipotizzato si debba comunque andare avanti? Anche Parisi: se il percorso si sta realizzando in modo diverso da quello programmato, perché non si prendono iniziative, non si corregge la rotta? Rischiamo di perdere forze tutti».
Causa una scissione?
«Qui non si scinde niente. Però ci sarà chi non aderisce, perché non convinto. Penso che sia responsabilità della maggioranza interloquire e accogliere le proposte avanzate dalle minoranze. E stranamente, molte di queste valutazioni corrispondono a quelle di alcuni dei più accalorati sostenitori del Pd. Non è che si possono fare richiami all’obbedienza, ognuno sarà libero di aderire o meno. Non vorrei che si rinverdissero i principi e le pratiche del centralismo democratico. Non si può chiedere a iscritti o dirigenti di aderire a un progetto che non si trova convincente».

l'Unità 2.4.07
IL RETROSCENAIL sindaco di Roma si candida a «garante» dei dubbiosi e guarda a un cantiere che recuperi chi oggi annuncia l’addio, magari attraverso una fondazione...
E Veltroni vuole tenere la porta aperta al dissenso della sinistra Ds
di Bruno Miserendino

Il partito democratico non c’è ancora, e già dovrebbe essere un’altra cosa. Convince l’obiettivo, non piace il processo che dovrebbe farlo nascere. È il paradosso di questi giorni. Anche chi l’ha sempre voluto, da tempi insospettabili, fino quasi a identificarsi con il progetto, dice che così non va, perchè quello che sta nascendo è un’altra cosa, comunque diversa da quella che aveva immaginato. Walter Veltroni ha lanciato l’altro giorno la sua provocazione al congresso romano dei Ds e la sortita ha lasciato il segno. Non tanto perchè temporalmente vicina alle critiche di un altro padre del partito democratico, l’iperulivista Parisi, e alla freddezza, almeno così viene descritta, di Romano Prodi, verso il processo in corso, ma perchè Veltroni si è fatto interprete di un clima diffuso.
C’è in giro un’aria strana, racconta chi ha sentito e parlato con Walter Veltroni, e lui ha voluto dare voce a chi teme che alla fine di questo processo nasca «un partito moderato e non vero ampio e ricco partito riformista». Lui ha detto così: «Il Pd non si può ridurre nella somma di due gruppi dirigenti che si mettono insieme, magari già divisi al loro interno, magari già attraversati da quel rischio che vedo in casa nostra: quello della costituzione di piccoli gruppi, piccoli poteri che si organizzano». Insomma: Ds e Dl, ormai alla vigilia dei loro congressi, vanno avanti verso il progetto, scontando liti, perplessità e rischi di scissione, ma alla generosità e all’impegno dei leader e dei militanti non corrisponde un entusiasmo del popolo dell’Ulivo. Per Veltroni «il partito democratico sembra nascere senza il partito democratico». Lui, dice chi ha visto crescere la sua preoccupazione negli ultimi tempi, vorrebbe proporsi come garante di tutti quelli che si aspettavano un cantiere diverso. Un cantiere che, tra l’altro, deve veder dentro persone e gruppi che non farebbero mai parte nè di Querce, nè di Margherite.
È vero, i sogni è facile averli e difficile realizzarli, ma attenzione, avvertono quelli che l’hanno sentito: l’obiettivo di Veltroni è prima di tutto aiutare Ds e Margherita, e scongiurare una scissione annunciata, quella di Fabio Mussi, contrario alla nascita del partito democratico. Il sindaco di Roma non si capacita di vedere un uomo come Mussi «lontano da lui e vicino a Bertinotti». Gliel’ha detto apertamente. Un appello fuori tempo massimo, che magari poteva essere fatto prima, come dice qualcuno al Botteghino?
«Non credo che cambierà le cose, ma di Veltroni apprezziamo i toni, molto diversi da quelli di altri», dice Carlo Leoni vicepresidente della Camera e esponente di spicco della sinistra Ds. «Credo - aggiunge - che Veltroni abbia voluto rappresentare il disagio di non pochi tra i sostenitori del PD, che giudicano deludente il modo in cui nasce questa formazione». Ma nel merito anche Leoni, che pure è per anni è stato molto vicino alle posizioni di Veltroni, considera non sufficiente l’appello del sindaco di Roma. Almeno per il momento. «Sottovaluta la questione dell’appartenenza al campo socialista». Al congresso Ds su questo punto Veltroni è stato abbastanza netto. «Dove arriverà il Pd a livello internazionale non è un problema fondamentale, non è una ragione discriminante». «È vero - ammette Leoni - l’appartenenza internazionale non è argomento di cui si discute sull’autobus tutte le mattine, ma nell’epoca della globalizzazione stare in una famiglia europea è fondamentale. Fassino e gli altri non dicono mai chiaramente che questo partito sarà lì. La Margherita è molto più perentoria e dice: lì mai. Per loro è una condizione, noi non abbiamo posto la condizione opposta». Conclusione di Leoni: «La cosa che sconcerta è che si dica: il partito democratico nasce, poi vedremo come sarà. La dice lunga sull’operazione». Appello inutile, allora, quello di Veltroni? Forse no. «Se viene nelle prossime settimane una riflessione del gruppo dirigente che porti a uno stop per ricominciare a discutere, noi siamo pronti».
Paradossalmente anche Veltroni sembra dire una cosa simile: serve una riflessione, un cambio di marcia rispetto alle modalità. Non è chiaro come lui, che del partito democratico si sente un antesignano, vorrà spendersi nelle prossime settimane. Magari, suggerisce qualcuno, dopo il congresso, un’associazione, una fondazione che possa raccogliere e coinvolgere anche gli scettici e i delusi, che includa e non escluda, potrebbe vederlo all’opera. Perchè non c’è cosa peggiore che avere un sogno, far di tutto per realizzarlo e scoprire che è diverso da come si era immaginato. Anche Bersani ieri ha lanciato un segnale a Mussi: «Nella mia testa quello che deve nascere è una grande forza della sinistra democratica, dove la parola sinistra deve avere piena cittadinanza».

l'Unità 2.4.07
Prc: «È ora di risarcimento sociale»
Giordano a Montezemolo: «Facile parlare a pancia piena». Migliore: «Da Prodi vogliamo atti concreti»
di Wanda Marra

RIVENDICA l’autonomia identitaria di Rifondazione Comunista.Come partito politico e partito di governo. Ammonisce Montezemolo («è semplice dire che non bisogna ridistribuire con la pancia piena») e Bagnasco («non è tempo di crociate»). Rilancia il percorso che porta
Rc verso la Sinistra europea, per poi arrivare a una nuova soggettività politica. Parla un’ora esatta, Franco Giordano, nelle sue conclusioni alla Conferenza di organizzazione di Rifondazione di Marina di Carrara. I temi di fondo sono due. il modo di Rc di stare al governo: «Non siamo al governo per necessità o per emergenza democratica. Il nostro starci è frutto di una condivisione di un programma e di un rapporto intenso con il popolo dell’Unione», E il futuro di Rifondazione, che appare scandito per tappe: prima la Sinistra europea, poi il Cantiere, luogo di confronto aperto a tutta la sinistra, verso una «nuova soggettività politica». «Il nostro percorso è autonomo, ma non può sfuggire l’enorme e positiva novità che emerge dalle scelte della sinistra Ds. Si mostra una disponibilità a costruire una nuova soggettività politica a sinistra dando al nostro progetto più grandi possibilità. Non ci lasceremo sfuggire questa occasione per costruire una sinistra alternativa», dichiara Giordano. Ma, «non abbiamo nessuna intenzione di sciogliere il Prc», né «vogliamo costruire un aggregato di resistenti al Pd».
La vera novità della Conferenza di organizzazione sta proprio qui, nell’aver indicato un approdo diverso, rispetto a quello che doveva essere il tema principale della discussione, la Se. Che si deve andare "oltre" ieri lo ribadisce, insieme a Giordano, il gruppo dirigente. «Dobbiamo andare verso un soggetto plurale della sinistra» dichiara Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera. «Per me, la strada è chiarissima: si deve fare subito la Se, poi il Cantiere, per arrivare a una nuova soggettività politica», afferma Giovanni Russo Spena, capogruppo in Senato. La proposta, dunque, è lanciata ufficialmente. Bisognerà vedere come reagirà il partito, che ad oggi appare tutt’altro che compatto. Ma per formule e soluzioni è ancora troppo presto.
E intanto, Giordano torna a scuotere il governo, a presentargli l’"agenda" del Prc: «Si è cercato di cancellare l’esperienza dei movimenti di massa, l’esperienza del conflitto sociale dalla scena politica e le rivolte delle comunità, contro la Tav, il Ponte sullo stretto, la base di Vicenza». In questi mesi, accusa, i "poteri forti", da Montezemolo alla Cei «hanno cercato di condizionare l’azione del governo. Montezemolo dice di non disperdere il ’tesoretto’ ma vorrei sapere se conosce la condizione di molti lavoratori. Sarebbe uno spreco diffondere queste risorse? A pancia piena è semplice dire che non bisogna redistribuire». Ma invece, deve iniziare «la stagione del risarcimento sociale». Contro le parole del Presidente di Confindustria si era scagliato anche Migliore nel suo intervento: «Montezemolo teme che ce la facciamo, per questo non basterà alzare la voce all’interno della maggioranza, dovremo ottenere dei risultati. Abbiamo già impedito che Padoa Schioppa si mettesse direttamente d’accordo con il Presidente di Confindustria per distribuire il ’tesoretto’». Durissima la risposta di Giordano anche alle ultime affermazioni di Bagnasco: «Non è tempo di crociate». E poi un avvertimento tutto interno al partito: «Venendo a contatto con le istituzioni, dobbiamo evitare la degenerazione morale». È un problema anche per Rifondazione come nel caso di Giuseppe Bevilacqua, segretario provinciale di Crotone, indagato nell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex assessore della Regione Calabria dell’Udc per corruzione e voto di scambio. O a chi accumula incarichi incompatibili o usa il partito. Giordano risponde a Parisi, sull’Afghanistan: «Abbiamo già segnato con un decreto e con una mozione che rappresenta l’impegno del Parlamento il nostro orientamento». Insomma,la natura della missione non si cambia. Nessuna sorpresa dal voto del documento finale della maggioranza: non partecipa Sinistra critica di Cannavò e Turigliatto. Vota diviso, (era già successo) l’Ernesto: con la maggioranza si schiera l’area guidata da Grassi e Burgio, mentre non partecipa al voto quella che fa riferimento a Giannini e Pegolo.

l'Unità 2.4.07
PROCESSO APPELLO
Delitto Cogne: oggi tocca alla difesa
La parola passa alla difesa oggi al processo d'appello per il delitto di Cogne. L'avvocato difensore Paola Savio e lo studio legale di Paolo Chicco nel quale lavora, hanno trascorso un fine settimana tra le carte processuali per confutare punto per punto la requisitoria della pubblica accusa, per salvare dal carcere Annamaria Franzoni, la mamma di Samuele, ucciso nel lettone dei genitori il 30 gennaio 2002. Il procuratore generale è stato inesorabile: è stata lei ad ammazzarlo, forse usando un pentolino e lo avrebbe fatto per punizione, perché lui piangeva e non le consentiva di accompagnare alla scuolabus l'altro figlio, Davide. Un omicidio in un momento di rabbia, in un raptus, niente affatto causato da una patologia. Anzi, Corsi ha sottolineato l'assoluta normalità della donna. I punti oscuri dell' inchiesta hanno, secondo lui, una spiegazione: il pigiama infilato al contrario, di fretta, perché Samuele non si accorgesse che la mamma stava uscendo e lo avrebbe lasciato solo, il calzino sparito perché utilizzato per afferrare l'arma del delitto e quindi gettati via entrambi. E su quei punti, sulle zone d'ombra si soffermerà la difesa che proporrà una ricostruzione tutta diversa della mattina dell'omicidio. D'altra parte è un processo tutto indiziario - dicono i legali - non ci sono prove certe, incontrovertibili. E soprattutto non c'è movente, non c'è arma del delitto e non c'è confessione da parte dell'imputata, ferma, decisa a sostenere la sua assoluta innocenza. All'arringa finale l'avvocato Paola Savio è arrivata studiando tutti i dettagli dell'inchiesta, ben sapendo che ha avuto a sua disposizione pochissimo tempo. «Il procuratore generale - ha detto ieri Paolo Chicco - sta lavorando al processo dal gennaio del 2005, noi da pochi mesi. Il rapporto è sbilanciato».

l'Unità 2.4.07
Welby, ora il gip dice «no»:
L'anestesista di nuovo sotto accusa
Respinta l’archiviazione chiesta dalla procura di Roma
Riccio: «Ho fatto quello che era giusto, lo dimostrerò»

IL GIP DI ROMA, Renato La Viola, ha rigettato la richiesta di archiviazione per Mario Riccio, l’anestesista che ha interrotto la ventilazione meccanica a Piergiorgio Welby. Lo ha reso noto l’avvocato difensore del medico, Giuseppe Rossodivita, che ha spiega-
to che ieri i carabinieri di Cremona hanno notificato a Riccio l’invito ad eleggere domicilio e nominare un difensore di fiducia in relazione al procedimento relativo alla morte di Welby, per il quale la Procura di Roma - proprio in ottemperanza a quanto disposto da La Viola - ha proceduto all’iscrizione del medico nel registro delle notizie di reato con l’ipotesi di «omicidio del consenziente» (art. 579 c.p.). Il gip, infatti, non ha ritenuto di «accettare» la richiesta di archiviazione avanzata il 6 marzo 2007 dal sostituto procuratore Gustavo de Marinis, controfirmata dal procuratore capo della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara ed ha ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’iscrizione di Riccio nel registro degli indagati. L’udienza camerale, ha spiegato il legale, verrà fissata nei prossimi giorni ed in seguito lo stesso gip deciderà se archiviare il procedimento, ordinare al pm di fare ulteriori indagini oppure ordinare di formulare l’imputazione coatta a carico del medico.
La procura di Roma, richiedendo l’archiviazione sulla morte di Welby, aveva ribadito che a proprio avviso - anche a seguito degli accertamenti compiuti in sede di consulenza collegiale medico-legale che avevano escluso qualsiasi rilievo causale della sedazione in relazione al decesso - non era ravvisabile alcuna ipotesi di reato nei fatti accaduti la sera del 20 dicembre 2006, quando Riccio sedò Piergiorgio Welby mentre procedeva al distacco del ventilatore respiratorio.
Secondo quanto emerso ieri a Piazzale Clodio, la procura di Roma sembra di nuovo orientata a chiedere l’archiviazione per il medico anestesista. Il procuratore Giovanni Ferrara ed il sostituto Gustavo De Marinis, firmatari della richiesta di archiviazione non accolta dal gip, rimangono dunque della loro idea: con l’interruzione della ventilazione meccanica a Welby praticata da Riccio - come scritto nel provvedimento inviato all’ufficio del gip il 6 marzo scorso - è stato attuato un diritto del paziente che «trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall’Ordinamento italiano e ribadito in fonte di grado secondario dal codice di deontologia medica».
Incredulo, Mario Riggio ha così appreso della inaspettata decisione del gip. «Non me l’aspettavo - ha commentato - ma resto della mia opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto. Sono mesi che vivo in una certa tensione ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Non ce lo aspettavamo - ha concluso - soprattutto visti i contenuti della richiesta di archiviazione, che erano molto netti anche rispetto a quanto detto nella perizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto quanto prima».
A difesa di Mario Riggio, ancora una volta, si sono immediatamente schierati i Radicali, con in testa Marco Cappato e Marco Pannella. «Non comprendiamo- hanno spiegato - quali considerazioni abbiano portato il gip La Viola a rigettare la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. Abbiamo lottato al fianco di Piero, in ogni sede e con le armi della nonviolenza. Se il dottor La Viola deciderà di formulare coattivamente l’imputazione, siamo pronti a continuare quella lotta nelle aule dei tribunali».
Ieri, intanto, Mina Welby è intervenuta durante il comitato nazionale dei Radicali Italiani per rilanciare le battaglie portate avanti assieme a suo marito. «La cosa importante è poter spingere gli italiani a partecipare alle battaglie radicali, perché tanti la pensano come Piergiorgio su una buona legge per l’assistenza della persona, per la fine della vita e per il testamento biologico». E poi sull’argomento laicità dello Stato ha detto: «Adesso la chiesa cattolica mette bocca su tutto: non solo istruisce i suoi fedeli ma vuole sopraffare la laicità dello Stato imponendo il suo magistero sui Dico, sugli omosessuali e sulla donna nelle sue scelte per la fecondazione assistità».

l'Unità 2.4.07
Il seme della follia e dell’arte
di Giuseppe Montesano

Che cosa hanno in comune arte e follia? La tentazione di rispondere: niente, è forte. In un secolo in cui l’estetismo narcisistico si è incarnato al suo massimo nei delitti di massa degli Hitler e degli Stalin, nel secolo che ha visto la body-art inseguire la pazzia delle mutilazioni fino all’estremo limite dell’autodistruzione, si vorrebbe tanto credere che l’arte vera sia solo un tranquillo e cristallino torrente d’alta quota e non anche l’acqua di una fogna popolata dalla peste della violenza su sé e gli altri. Ma è così? In questi giorni la Alet ha mandato in libreria lo straordinario Arte e follia in Adolf Wolffli dello psichiatra Walter Morgenthaler, e questo libro tormentoso e inquietante ci spinge di nuovo nello spazio ambiguo che taglia e unisce normalità e follia nell’artista. Wolffli era un molestatore di bambine e un violento che visse 35 anni chiuso in manicomio, e che incoraggiato da Morgenthaler creò una sterminata opera da grafomane e decoratore e autore di collage a proposito della quale Breton scrisse: «L’opera di Wolffli è tra le tre o quattro più importanti del Novecento». Wolffli fasciò letteralmente la sua esistenza in una secrezione organica di spartiti decorati come mandala, di labirintici grafismi, di poesie dove il linguaggio esplode come nei dadaisti, di collages che destrutturato il linguaggio dei segni: giungendo a eseguire le musiche da lui composte su pentagrammi di sei righe con una trombetta di carta: eseguendo partiture che sembrano anticipare quelle a macchie, a segni, a grappoli, a colori dei Cage, dei Donatoni e di tutto il movimento musicale post-dodecafonico. Totalmente incolto, Wolffli scrive poesie come Anche Dio ha un parco-cani gigante: «Dio-Padre, -buldogga! La culla n o, Grì!! È nero, ’na cialda, là lììì: O vatta ca stiiga!Germana, No nì!! Prendilo, smoralo! Nascondi lo stek…» Come commentare questo delirio che sembra un Morgenstern abbracciato a un Carroll ma tradotti entrambi nella lingua di rumori di Antonin Artaud in manicomio? (E a proposito di traduzione: un bravissima alla superba traduttrice Alessandra Pedrazzini, che davvero si vorrebbe vedere prima o poi al lavoro su Morgenstern…) Ma Arte e follia, tra l’altro accompagnato da un vero e proprio saggio di Michele Mari che vale la pena leggere come testo a sé, non è solo un racconto affascinante su un personaggio romanzesco, è un libro complesso e disturbante, e andrebbe letto da chiunque voglia capirne di più sull’intreccio tra arte e follia: su cui getta una luce forse unica. L’impressione che si ha leggendo Morgenthaler è che lo schema di dissolvimento delle forme prestabilite su cui si fonda l’arte, abbia moltissimo in comune con la dissoluzione dell’io della follia: ma che, come diceva già Novalis in un famoso frammento sull’ironia dei Romantici, il luogo chiave dell’arte stia nel fatto che ciò stesso che ha provocato la ferita sia poi, o pretenda di esserlo, il mezzo della guarigione. Cortocircuito logico, sì: ma come non vederlo all’opera nel lavoro artistico dei non-folli? Da meditate, da leggere e rileggere: ma ci vuole coraggio…
Su un’arte non certo «folle» ma sicuramente poco nota in Occidente parla invece un libro dell’antropologo Jean-loup Arselle: L’arte africana contemporanae, uno studio che mette in crisi lo statuto che «l’arte contemporanea» ha oggi nelle società avanzate, toccando questioni essenziali: «L’epoca attuale potrebbe dunque essere considerata come quella della non-distinzione tra il mondo della produzione industriale e il mondo dell’arte», ma anche aprendo uno spiraglio su un’arte che in parte potrebbe mandare in crisi questo modello globale, analizzata nei suoi autori e nella sua autentica originalità: «L’Africa occupa una posizione decisamente contraddittoria: la condizione di fatiscenza può apparire come un’autentica situazione di rigenerazione dell’arte contemporanea, ma allo stesso tempo è sotto una forma vetrificata che essa viene offerta allo sguardo occidentale»: l’Occidente tenta così di far valere dell’arte africana proprio ciò che è meno essenziale, il folclore e lo stupore compatitorio che ne nasce. Ma non è poi questo insistere su folclore come spettacolarità anche al centro del conformismo artistico attuale?
l'Unità 2.4.07
Arte e follia in Adolf Wolffli
Walther Morgenthaler
pp.232 (25 tav. a colori), euro 20,00 Alet

L’arte africana contemporanea
Jean-Loup Amselle
traduzione Fernanda Littardi
pp. 188 (16 ill. a colori), euro 19,00
Bollati Boringhieri

l'Unità 2.4.07
IL CASO Dai DICO al Disegno Intelligente si torna a parlare di ciò che sarebbe «naturale». Un libro di Orlando Franceschelli spiega perché non possiamo farlo
Secondo natura, contro natura
Dopo Darwin sono parole senza senso
di Pietro Greco

Il tema è ritornato di stringente attualità: si parli dei DICO o del Disegno Intelligente, delle relazioni omosessuali o dell’ingegneria genetica, non si fa altro che evocare il concetto di «natura» o della sua immagine speculare di «contro natura». Talvolta lei, la natura, ci è dipinta così potente (e coerente) da poter dettare le norme etiche del comportamento umano: per cui la vita in famiglia sarebbe «secondo natura» e la convivenza tra persone dello stesso sesso «contro natura». Talaltra ci viene dipinta così debole da essere incapace di generare l'uomo e/o così degenere da essere indegna di contenere l’uomo (di dare senso alla sua vita).
Cos’è, dunque, la natura? E quale ruolo l’uomo deve assegnare a se stesso nella natura? A queste domande risponde, in maniera molto pertinente, il nuovo libro che il filosofo Orlando Franceschelli ha fatto uscire per i tipi della Donzelli editore: «La natura dopo Darwin» (pagg. 200; euro 16,90). E già dal titolo Franceschelli ci dice che, dopo Charles Darwin, non è più possibile evocare a sproposito il concetto di natura.
Prima era possibile riconoscere una cesura netta e definitiva tra l’uomo e la natura, ed era possibile persino collocare «l’uomo fuori dalla natura», come fa gran parte del pensiero cristiano o come fanno, almeno in parte René Descartes (nella parte mentale) e Immanuel Kant (nella parte noumenica).
Prima era possibile considerare naturale l’ambiente che raccoglie le cose non prodotte dall’uomo e artificiale l’ambiente che accoglie le cose prodotte dall’uomo. Prima era possibile a qualcuno considerare l’uomo un sovrano ineffabile della natura contaminante e a qualche altro considerare l’uomo come il baco che corrompe la natura altrimenti incontaminata. Prima era dunque possibile immaginare sia un’«etica fuori dalla natura», capace di riscattare l’uomo dalla condizione di bestialità, sia al contrario immaginare un’«etica naturale» capace di indicare e sancire i comportamenti «contro natura».
Tutto questo, dopo Darwin e la pubblicazione nel 1859 dell’«Origine delle specie», semplicemente non è più possibile. Perché Darwin colloca definitivamente l’uomo «dentro la natura». Abbattendo in maniera definitiva sia il mito dell’«uomo sovrano della natura», sia il mito analogo e opposto dell’uomo «corruttore della natura». Di più: Darwin restituisce all’uomo la consapevolezza piena di essere prodotto e, insieme, attore di un processo di evoluzione della natura, parola che diventa semplicemente sinonimo di universo fisico. Quindi di totalità. La natura non è altro che il cosmo in cui l’uomo vive e di cui l’uomo è parte. Parte evolutiva. Parte che evolve.
Facendo questo, si dice che Darwin abbia detronizzato, contemporaneamente, l’uomo e Dio. Sottraendo al primo la condizione di «centro del mondo» e al secondo la condizione di «necessità per il mondo». In ogni caso, dopo Darwin abbiamo la consapevolezza che l’uomo agisce sempre «secondo natura», perché in tutte le sue dimensioni l’uomo è natura. E che, quindi, non esistono comportamenti «contro natura».
In natura non esiste un’etica. Non esiste un comportamento buono in assoluto che si distingue da uno cattivo in assoluto. Ma se non esiste un’«etica naturale», vengono per questo meno le basi della morale? Viene per questo meno la possibilità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male? Niente affatto. Anzi, al contrario la responsabilità umana ne viene esaltata. Nella prospettiva naturalistica - l’unica, ormai, possibile dopo Darwin - l’uomo diventa pienamente e totalmente responsabile delle sue azioni.
Il motivo è molto semplice. L’etica umana è un prodotto della cultura dell’uomo. Un prodotto, peraltro, evolutivo: cambia nel tempo e con le condizioni a contorno. Tuttavia sono state la selezione naturale e, più in generale, l’evoluzione biologica che hanno prodotto nell’uomo (e, forse, non solo nell’uomo) una capacità di formulare giudizi etici, di generare norme morali.
Se non esiste, dunque, un’«etica naturale», esiste però una naturale capacità dell’uomo di formulare un’etica (di formulare diverse griglie etiche). Per questo, lungi dal proporci un «mondo senza morale», la visione darwiniana ci propone un «naturalismo impegnativo»: l'uomo, con la sua biologia e la sua cultura, è capace di distinguere ciò che è bene e ciò che è male. E con questa sua capacità (essa sì naturale) può elaborare quei principi - che, in maniera molto profonda, Orlando Franceschelli chiama di «saggezza solidale» - su cui fondare le migliori relazioni con i suoi simili e con il resto della natura.

l'Unità Lettere 2.4.07
La Chiesa lasci perdere il concetto di natura e guardi alla propria storia
Cara Unità,
si ricorda di Lodovico, poi diventato padre Cristoforo, e del signore arrogante, dei Promessi sposi? Procedevano entrambi rasente al muro, e nessuno dei due voleva cedere il passo all'altro. In fondo a nessuno dei due importava realmente di staccarsi dalla muraglia: era solo una questione di puntiglio. Così, credo che alla gerarchia ecclesiastica, in realtà, non importi poi tanto del fatto in sé dei Dico; è diventata ormai questione di puntiglio. Non si spiega altrimenti l'esagerazione che ha spinto monsignor Bagnasco a mettere sullo stesso piano l'omosessualità, che grazie a Dio non è reato, e la pedofilia che è reato. La gerarchia sta perdendo l'orientamento; ed io a questo punto vorrei darle una mano, darle un consiglio spassionato: si calmi, si tranquillizzi e, soprattuitto, lasci perdere l'argomento «natura», perché finisce per darsi la zappa sui piedi. Ha detto Bagnasco: «Se cade il criterio antropologico dell'etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura... è difficile dire di no... al partito dei pedofili». Ora l'arcivescovo deve spiegare secondo quale criterio dovremmo giudicare oggi un giovane dai diciotto ai ventiquattro anni (l'età in cui i giovani ebrei prendevano moglie al tempo di Gesù) che si unisse ad una ragazzina di dodici anni e mezzo (l'età in cui si maritavano le ragazze). Secondo quale criterio giudicare Giuseppe, che sembra fosse uomo già maturo, sposo di Maria, ragazzina non ancora tredicenne.
Francesca Ribeiro

Repubblica 2.4.07
Ds, appelli contro la scissione Parisi: poco pathos per il Pd
Cresce il malessere degli ulivisti: dovranno contare i cittadini
Il ministro della Difesa: senza un coinvolgimento largo rischiamo di fare l´ennesimo partito
D´Alema e Bersani: "No ai divorzi preventivi, la nuova forza ha bisogno di tutti"
CARMELO LOPAPA

ROMA - Scende il sipario sui congressi locali di Ds e Margherita e i due partiti si preparano al passaggio cruciale delle assise nazionali in programma fra tre settimane che dovranno aprire la fase costituente del Partito democratico. Ma se dentro il partito di Rutelli tiene banco l´armistizio siglato tra l´area che fa capo al leader e i popolari, in casa diessina diventa un coro l´appello alla minoranza interna di Fabio Mussi perché venga scongiurata la «scissione preventiva».
È proprio «un ultimo appello» quello che lancia il presidente del partito Massimo D´Alema, in un´intervista a l´Unità. Dice: «Proviamo ancora una volta a lavorare insieme, a discutere, a confrontarci», perché «il Pd ha bisogno delle idee e della passione di tutti». Una scissione sarebbe «fredda, senza pathos». Ma è tutta la maggioranza del partito che ormai da giorni esercita un pressing costante, quanto privo di risultati (al momento), nei confronti della sinistra interna. Ieri il ministro per lo Sviluppo Pierluigi Bersani ha chiesto a Mussi di non abbandonare il partito per definire insieme «i tratti del volto» del nuovo soggetto in cui «la parola sinistra deve avere piena cittadinanza».
Per il partito che verrà c´è già un asse che si consolida e che raccoglie consensi crescenti: quello «ulivista» riconducibile sempre più all´asse Veltroni-Parisi. Tanto il sindaco diessino di Roma quanto il ministro della Difesa (Margherita) nel fine settimana avevano espresso tutte le loro perplessità sul cammino di costruzione del Pd, che «non potrà essere una sommatoria» di due gruppi dirigenti e dovrà lasciarsi alle spalle i vecchi equilibri di potere dei due partiti. Si dicono d´accordo in tanti, da Franco Monaco («Il Pd deve essere il partito dei cittadini e non degli apparati») al dipietrista Formisano («Hanno ragione Veltroni e Parisi, finalmente»). Il ministro guarda al futuro ma denuncia soprattutto le «risse di potere e diffusa illegalità» nei congressi del suo partito. Avverte: «Manca la tensione emotiva, il pathos, il senso della missione che dovrebbe accompagnare la nascita di un partito nuovo. Se non riusciamo a coinvolgere i cittadini, come quelli che hanno partecipato spontaneamente alle primarie, rischiamo di fare l´ennesimo partito». Se il ministro ulivista sarà al Congresso della Margherita del 20-22 aprile a Cinecittà resta un´incognita, che l´ultima battuta che i suoi gli sentono ripetere in questi giorni («Di certo in quei giorni parlerò, non ho deciso ancora dove») non contribuisce a svelare.
Più certa appare la «costituente» che un gruppo di ulivisti doc sta tentando di organizzare in contemporanea. Willer Bordon, presidente dell´Assemblea federale della Margherita e promotore dell´associazione «Libera l´Italia» col verde Boato, col dipietrista Formisano e con i colleghi Manzione e D´Amico, spiega: «Quel che ha detto Parisi è tragicamente vero. Allora occorre pensare se nei giorni del congresso non si debba organizzare una costituente, promossa da coloro che pensano che il Pd non possa risolversi nella sommatoria di due partiti». Se quell´appuntamento ci sarà, vedrà l´adesione di Mario Adinolfi (direttore di "Nessuna Tv" e editorialista di "Europa") e della sua «Generazione U», blogger dimargheritini. Il giornalista ricorda che i ricorsi pendenti nel partito riguardano «15 regioni», che c´è un «vulnus di legalità» e che «se Rutelli non farà chiarezza, noi non parteciperemo al congresso, andremo altrove». Un malessere che trova riscontro nello stato d´animo di intellettuali e saggi che lavorano al cantiere del Pd. Salvatore Vassallo, tra gli autori del «manifesto», condivide le critiche mosse da Parisi e Veltroni: «La mia impressione è che non ci sia una sufficiente chiarezza sulle modalità con le quali la dirigenza Ds e della Margherita intendano avviare la fase costituente del Pd: se lo facessero per quote sarebbe un travisamento della filosofia originaria». Il costituzionalista Stefano Ceccanti vedrebbe bene «la nascita di una componente ulivista», magari proprio sull´asse Veltroni-Parisi, che si affianchi a quelle dei due partiti, per aprire ad altri soggetti. Gregorio Gitti dell´Associazione per il Pd non la vuole chiamare corrente, ma confida in una «una componente liberal che vada oltre la retorica ulivista per condurre battaglie concrete su legalità, liberalizzazioni e pubblica amministrazione efficiente».

Repubblica 2.4.07
Il leader della "terza mozione": "Il Pd è solo il bignami dell´Ulivo"
Angius: "Tutto già deciso non so se sarò al congresso"
il nuovo partito Nasce senza un profilo identitario, senza idee sulla collocazione internazionale
GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - «Non è vero che il Partito democratico sia la continuazione dell´Ulivo, come dice D´Alema. Nel ‘96 c´erano tutti, oggi c´è una somma di apparati, di iscritti e di elettori di Quercia e Margherita. Il Pd quindi non l´Ulivo. È il suo bignami, un riassuntino». Gavino Angius è il capofila, con Mauro Zani e Alberto Nigra, della terza mozione dei Ds, la sorpresa del dibattito congressuale. Ha preso il 9% (quasi 25 mila voti) con un documento zeppo di dubbi e domande sul percorso del Pd. «E oggi va anche peggio - dice - . Perché Fassino accelera invece di cambiare strada». Angius non annuncia scissioni, ma guarda a un possibile Aventino in occasione del congresso di Firenze. «Dice bene Parisi: parlerò il giorno del congresso, ma non so dove. La penso allo stesso modo. Io comunque aspetto un ripensamento dei vertici, ci sono ancora venti giorni».
L´ipotesi scissione dunque non vi riguarda?
«Non so di quale scissione si parli. D´Alema sostiene che quello di Mussi è uno strappo preconcetto. Ma di preconcetto io vedo solo il Pd che deve nascere per forza, come una necessità. Un evento già deciso a tavolino e che si sta realizzando andando addirittura oltre la la mozione di Piero Fassino. C´è fretta, c´è un´accelerazione. Però non sappiamo di quale Pd stiamo parlando. Quello di Veltroni o quello di Fassino? Quello di Rutelli o quello di Parisi? Come semplice iscritto ai Ds mi sento preso in giro».
Sempre di nuovo soggetto parliamo, però.
«No. Qui parliamo di un caso unico al mondo. In genere si fonda un partito sulle ali di un forte convincimento, di uno spirito unitario. Invece a me sembra che ad animare una parte dei Ds e una parte della Margherita intervenga un altro spirito: appena è tutto fatto, a quelli con cui costruiamo la nuova forza gli spacchiamo le ossa. Non ha molto appeal un simile afflato».
L´alternativa di Mussi è costruire una nuova sinistra. E la sua?
«Penso che si stia seguendo una strada sbagliata. E non lo dico solo io, ma gli stessi protagonisti. Non c´è nessuno che sia soddisfatto di come procedono le cose. Però si va avanti. Sarebbe un gesto di saggezza ammettere di aver sbagliato, ma temo che non avverrà. Nella nostra mozione e nel nostro ultimo appello abbiamo chiesto delle risposte. Sul Pse, per esempio. Rutelli dice: non entreremo mai. Fioroni chiede ai Ds di uscirne. D´Alema e Fassino garantiscono: la nostra adesione al socialismo europeo non è in discussione e Veltroni considera l´argomento irrilevante. Mi si vuol dire di che cosa stiamo parlando? Un partito non può nascere senza un profilo identitario, senza un´idea sulla sua collocazione internazionale. Si dice: bisogna superare Ds e Margherita. D´accordo. Ma come? La risposta è che l´Ulivo esiste già da undici anni. Ma un Ulivo senza una componente socialista, una ecologista, un´altra nonviolenta per me non è pensabile. Senza tutto questo è impossibile realizzare un grande partito democratico».
Fuori dal Pd voi a chi guardate?
«Non ci sarebbe da stupirsi se sciogliendo i Ds e costruendo un partito che è più di centro che di sinistra nascesse un´aggregazione di forze che si richiamano al socialismo. Mi meraviglierei del contrario. I nostri elettori quando accettiamo le ingerenze della Chiesa e permettiamo alle gerarchie di violare la Costituzione non ci capiscono. Questo per fare un esempio».
Chi sono gli iscritti che hanno votato la vostra mozione?
«Quelli che hanno le nostre stesse inquietudini, gli stessi dubbi. Direi la maggioranza del partito. Poi ovviamente ci sono i richiami all´ordine, che danno molto fastidio. Roba da centralismo democratico. È difficile andare contro il segretario e il presidente. Quel 9% è una sorpresa, ma non per me».
Adesso dove li portate?
«Questi iscritti non vogliono frenare il Pd. Chiedono di cambiare direzione. Veltroni e Parisi hanno capito che il Pd è una cosa sgangherata. Ha ragione Walter quando dice che è assurdo un soggetto politico in cui nascono prima le correnti e poi il partito, le lotte di potere prima degli ideali o dei valori comuni. Dove gli stessi leader hanno idee una diversa dall´altra. Però sia lui sia Parisi non hanno il coraggio di dire chiaramente: fermatevi. Noi lo diciamo. Perché la nascita di questo Partito democratico non assomiglia affatto a un´impresa storica».

Repubblica 2.4.07
A Marghera raduno mondiale del movimento che cerca di superare la crisi con un nuovo "patto"
"Chi vota la guerra non è con noi" è rottura tra no global e sinistra. Tra i più duri col Prc Casarini e Cremaschi: le nostre strade divise. L´intervento di Strada
ROBERTO BIANCHIN
DAL NOSTRO INVIATO

MARGHERA - Non una «costituente» di qualcosa di indistinto, come oggi si usa, ma un «patto»: un «Patto per il Movimento». Questo lo strumento che cercherà di rivitalizzare i no global smarriti dopo Genova e Seattle, traditi dalla sinistra e delusi dal governo, perché «non ci sono governi amici». Un patto contro la «guerra globale permanente», contro tutte le guerre, non solo quelle combattute con le armi ma anche quelle che vanno in scena ogni giorno in città e paesi senza spargimento di sangue, quelle che tolgono il lavoro, chiudono gli spazi di libertà e democrazia, devastano il territorio. Perciò il movimento dei no global tenterà di rinnovarsi a partire soprattutto dalle esperienze dei comitati spontanei di cittadini sorti su varie questioni in varie parti d´Italia, come quelli del no alla Tav, del no alla base Usa di Vicenza, del no al Mose di Venezia, del no alle installazioni militari di Novara, alla base di Camp Darby in Toscana, alle grandi opere nelle Marche. Per dar vita, autonomi da ogni partito e da ogni governo, a un «nuovo ciclo di lotte e di conflitti sociali».
Sono queste le conclusioni del «Global Meeting» che per tre giorni ha visto riuniti, nel centro sociale «Rivolta», un migliaio di no global venuti dai cinque continenti per discutere il da farsi dopo la «crisi» che ha investito il movimento, non solo in Italia, e che oggi, secondo Toni Negri, il «padre» dell´Autonomia, che ha aperto i lavori, «non esiste più nelle forme in cui si è sviluppato». Di qui la ricerca di altre strade, della creazione di un «soggetto diverso» capace di battersi «contro un mondo imposto», dove «la guerra è la politica - dice il leader dei Disobbedienti Luca Casarini - e un esercizio continuo di privazione dei diritti». Sono venuti dagli Usa, dall´India, dalla Cina, da Argentina, Brasile, Equador, Bolivia, Messico, Colombia, Kurdistan, Turchia, Francia, Spagna, Germania, Grecia, Slovenia, Svezia, Danimarca, Finlandia. E c´erano personaggi come il responsabile del governo nazionale palestinese Moustafa Barghouti, come il sociologo americano Stanley Haronowitz, come il cinese Wang Hui, 8 anni ai lavori forzati per la rivolta di Tien An Men di cui fu uno dei promotori.
Il versante italiano, cui è stata dedicata l´ultima giornata del meeting, ha segnato l´addio del movimento al governo Prodi, e anche la fine dell´idillio che per un certo periodo c´era stato tra i no global e alcuni partiti della sinistra radicale, in primis Rifondazione. «Una parte della sinistra che era con noi, ora se ne sta al governo e in Parlamento vota per la guerra - ha spiegato Casarini - è chiaro che i nostri cammini si sono divisi». «Che se ne vadano pure tutti a casa», ha aggiunto, fra molti applausi, Tommaso Cacciari, nipote del sindaco filosofo, esponente del comitato veneziano «No Mose». A tentare di individuarli, con i rappresentanti dei vari comitati di cittadini e di associazioni, anche cattoliche, come Fabio Corazzina di Pax Christi, alcuni esponenti "anomali" di partiti della sinistra contrari alla missione in Afganistan, come Salvatore Cannavò e Paolo Cacciari (Prc), Gianfranco Bettin dei Verdi, e il sindacalista della Fiom Giorgio Cremaschi. «Non possiamo concedere a Prodi quello che non abbiamo concesso a Berlusconi» ha spiegato Cremaschi, giudicando che «non rappresenta più il paese» un Parlamento che al 98% vota a favore dell´intervento in Afganistan. E´ stato molto duro anche il fondatore di Emergency Gino Strada, che in un intervento telefonico ha giudicato la politica italiana afflitta da un male che «da Bertinotti a Pino Rauti ha un denominatore comune: il servilismo nei confronti degli Usa, un paese che negli ultimi 50 anni non ha fatto la guerra solo nei week-end». Una guerra, ha aggiunto il chirurgo, sempre più crudele e devastante: «L´ultima vittima, ieri, aveva solo 18 mesi».

Repubblica 2.4.07
L´allarme del segretario del Prc Giordano: subito nuove regole
"Compagni, fermiamo il partito degli assessori"
"Ci sono episodi di degenerazione morale anche al nostro interno"
UMBERTO ROSSI
DAL NOSTRO INVIATO

CARRARA - L´allarme l´ha lanciato dalla tribuna, davanti ai compagni e alle compagni arrivati per la chiusura della conferenza di organizzazione di Rifondazione comunista. Perché così il segretario Franco Giordano ha voluto dare il massimo risalto alla sua denuncia pubblica, «attenzione, ci sono stati episodi di degenerazione morale al nostro interno: fermiamoli subito». È la tentazione, che s´infiltra anche nelle file del Prc, del "partito degli assessori", della corsa ai comitati elettorali ad personam, alla scalata costruita secondo vecchie tecniche da notabili «per cui l´unica cosa che conta diventa acchiappare un posto nelle istituzioni». Casi ancora circoscritti, come precisa il capo dell´organizzazione Ciccio Ferrara, ma tali però da lanciare una campagna "correttiva". Una terapia d´urto che il comitato politico del Prc formalizzerà nei prossimi giorni in un pacchetto di regole e di divieti. Al primo punto dell´offensiva di "moralizzazione" c´è lo stop ai comitati elettorali personali che, negli ultimi tempi, nei circoli e nelle federazioni del partito hanno messo radici.
Soprattutto al Sud. Scavalcando la tradizione centralizzata delle campagne elettorali. Come funzionano? «Singoli candidati o piccoli gruppi - spiega Francesco Manna, il responsabile degli enti locali - usano le strutture del partito al servizio della propria corsa alle preferenze, finanziando la campagna anche con fondi personali, con il risultato che chi ha più mezzi ha più possibilità di farcela». Cominciò con le regionali del 2005, ma adesso il fenomeno è tale che in alcune zone si è rovesciato un vecchio vanto del Prc: molti più voti di preferenza che voto "secco" al partito, quello solo con la crocetta sul simbolo.
È ora di farla finita, hanno deciso i vertici: d´ora in poi, basta con le iniziative personali, i materiali stampati in proprio, i quattrini personali nei comitati elettorali, tutto dovrà essere concordato e centralizzato. E basta anche con il cumulo degli incarichi. Come nell´incredibile caso del consigliere pugliese Pietro Mita, che siede contemporamente alla Regione, al Comune e alla Provincia. E non è l´unico. In Liguria un altro esponente di Rifondazione comunista cumula l´incarico di assessore regionale con quello di assessore provinciale. Dovranno dimettersi, appena sarà approvato il nuovo decalogo di comportamento, che prevede anche rotazioni degli incarichi istituzionali e un tetto massimo di due mandati. Per stroncare sul nascere gli episodi più gravi.
Come quello dell´assessore regionale Egidio Masella che in Calabria ha preso come consulente la moglie o quello del consigliere provinciale messinese che ha fatto assumere il figlio.
(u.r.)

Repubblica 2.4.07
Il gip respinge la richiesta del procuratore, che insiste: quello commesso dall´anestesista Riccio non è reato
Caso Welby, no all´archiviazione
La moglie Mina:"Dopo tre mesi non ci hanno ancora reso la salma"
MARIO REGGIO

ROMA - Si riapre il caso Welby, mentre - dopo 100 giorni dalla morte - la salma non è stata ancora restituita alla famiglia. Il giudice per le indagini preliminari di Roma Renato Laviola ieri ha rigettato la richiesta di archiviazione della posizione di Mario Riccio, l´anestesista che accettò di rispettare la volontà di morire di Pier Giorgio Welby. Il Procuratore di Roma Giovanni Ferrara e il sostituto Gustavo De Marinis, firmatari della richiesta di archiviazione, hanno annunciato che non cambieranno la decisione: ribadiscono che con l´interruzione della ventilazione meccanica praticata da Mario Riccio a Welby è stato attuato un diritto del paziente che «trova la sua fonte nella Costituzione e nelle disposizioni internazionali recepite dall´Ordinamento italiano e ribadito dal codice di deontologia dell´Ordine dei Medici».
Il gip ha ordinato a Riccio di eleggere domicilio e nominare un legale di fiducia. Contemporaneamente, restituendo il fascicolo processuale all´ufficio del pubblico ministero, ha disposto la sua iscrizione nel registro degli indagati per l´ipotesi di reato di "omicidio del consenziente", riservandosi di fissare una camera di consiglio per la discussione del caso. Cosa può succedere adesso? Al termine del confronto con la Procura e l´indagato, il gip ha tre possibilità: archiviare il procedimento, ordinare al pubblico ministero ulteriori indagini oppure chiedere l´imputazione.
La decisione di Laviola ha colto di sorpresa Riccio: «Non mi aspettavo - ha detto - il rigetto della richiesta di archiviazione, ma resto dell´opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto. Sono mesi che vivo in una certa tensione - ha aggiunto - ma sono fiducioso nei confronti della giustizia. Siamo pronti a chiarire e dimostrare il percorso di legalità che abbiamo fatto. Avrei preferito che il gip avesse deciso per l´archiviazione, anche alla luce di tutti i passaggi della vicenda. A partire da quando Pier Giorgio Welby ha chiesto di ottenere il distacco della spina e rispetto anche alla posizione del Tribunale Civile di Roma».
Mina Welby, la vedova di Pier Giorgio, non nasconde il suo turbamento: «Lo sapevo da alcuni giorni. È la durata eccessiva di tutto l´iter che mi ha messo in agitazione. Sono convinta che dopo oltre tre mesi non ci possono essere altre novità rispetto a quello che è stato già accertato - afferma -. Nel frattempo la salma di Pier Giorgio non ci è stata ancora restituita, è ancora in attesa di essere cremata come lui aveva esplicitamente richiesto. Questa è un´occasione per girare il coltello nella piaga. La ritengo una prassi strana, dopo le indagini di laboratorio, comprese quelle tossicologiche, che hanno dimostrato che non è stato messo in atto nessun tentativo di provocarne la morte». Stupore è stato espresso dai radicali Marco Pannella e Marco Cappato. Nel ricordare che l´autopsia ha stabilito che la morte di Welby «è da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto» hanno aggiunto di «non comprendere la decisione del gip»; e hanno rinnovato a Mario Riccio il «profondo ringraziamento, anche a nome di Mina Welby, per aver accettato di fornire il suo contributo professionale ed umano».

Repubblica 2.4.07
MODERNI CONFORMISMI
Nel decennale della morte un testo inedito del filosofo greco-francese

È una riflessione sul ruolo che riveste la cultura "per tutti" nella società odierna
L´autore è stato uno dei più importanti studiosi e critici delle ideologie del nostro tempo
Nella creazione culturale si stanno avverando le profezie più pessimistiche
Ciò che accade è in stretto rapporto con l´inerzia e la passività sociale
L´arte moderna è democratica anche se non corrisponde al gusto popolare

di CORNELIUS CASTORIADIS

Da "Lettera Internazionale" in uscita in questi giorni anticipiamo una parte del saggio di , scomparso nel 1997
Che cosa c´è di più immediato, per coloro che ritengono di vivere in una società democratica, dell´interrogarsi sul ruolo che la cultura riveste nella società in cui vivono; tanto più che assistiamo con ogni evidenza a una diffusione senza precedenti di ciò che chiamiamo cultura e, contemporaneamente, all´intensificarsi delle istanze e delle critiche su ciò che viene diffuso e sulle modalità della sua diffusione?
C´è un modo di rispondere a questo interrogativo che è, in realtà, un modo per eluderlo. Da più di due secoli, si afferma che la specificità del ruolo della cultura in una società democratica - al contrario di quanto succedeva nelle società non democratiche - risiede nel fatto che la cultura è per tutti e non per questa o quella élite. Questo "per tutti", a sua volta, può essere inteso in un senso puramente quantitativo: la cultura di volta in volta esistente deve essere messa a disposizione di tutti, non solo "giuridicamente" (cosa che non succedeva, per esempio, nell´Egitto dei faraoni), ma anche sociologicamente, nel senso della sua effettiva accessibilità - cosa alla quale dovrebbero servire oggi sia l´istruzione universale, gratuita e obbligatoria, sia i musei, i concerti pubblici, e così via.(...)
Prendiamo in considerazione la fase propriamente moderna del mondo occidentale, a partire dalle grandi rivoluzioni della fine del XVIII secolo, democratiche e di fatto decristianizzatrici, fino a circa il 1950, data approssimativa a partire dalla quale mi pare sia nata una situazione nuova. Qual è il campo di significazioni che sottendono alla straordinaria creazione culturale che ha luogo nel corso di questo secolo e mezzo?
Dal punto di vista del creatore, possiamo probabilmente parlare di un sentimento intenso di libertà e di una ebbrezza lucida che lo accompagna. Ebbrezza dell´esplorazione di forme nuove, della libertà di crearle. Queste forme nuove sono ormai esplicitamente ricercate per se stesse, non sorgono per sovrappiù come in tutti i periodi precedenti. Ma questa libertà resta legata a un oggetto; essa è ricerca e instaurazione di un senso nella forma, o meglio, ricerca esplicita di una forma portatrice di un senso nuovo.
Certo, c´è anche un ritorno del kleos e del kudos antichi - della gloria e della rinomanza. Ma Proust lo ha già detto: l´atto stesso ci modifica così profondamente che finiamo per non attribuire più tanta importanza agli impulsi che lo hanno generato, come l´artista «che si è messo al lavoro per la gloria e nello stesso tempo si è distaccato dal desiderio della gloria».
Qui, l´attualizzazione della libertà è la libertà di creazione di norme, creazione esemplare (come dice Kant nella Critica del giudizio) e, per questo, destinata a durare. È il caso per eccellenza dell´arte moderna, che esplora e crea delle forme nel vero senso della parola. Con ciò, anche se è accettato con difficoltà dai suoi destinatari, e anche se non corrisponde al "gusto popolare", essa è democratica, cioè liberatrice. Ed è democratica anche quando i suoi rappresentanti sono politicamente reazionari, come lo sono stati Chateaubriand, Balzac, Dostoevskij, Degas e tanti altri. (...)
Il pubblico, dal canto suo, partecipa "per procura", per il tramite dell´artista, a questa libertà. Soprattutto, è preso dal senso nuovo dell´opera - e questo solo perché, nonostante le inerzie, i ritardi, le resistenze e le reazioni, è un pubblico esso stesso creatore. La recezione di una nuova grande opera non è mai, e mai può essere, semplice accettazione passiva, ma è sempre anche ri-creazione. E le società occidentali, dalla fine del XVIII secolo fino alla metà del XX, sono state società autenticamente creatrici. In altre parole, la libertà del creatore e suoi prodotti sono, di per sé, socialmente investiti.
Siamo ancora in questa situazione? Domanda rischiosa, pericolosa, alla quale tuttavia non cercherò di sottrarmi.
Penso che, nonostante le apparenze, la rottura della chiusura di senso instaurata dai grandi movimenti democratici rischi l´oscuramento. Sul piano del funzionamento sociale reale, il "potere del popolo" serve da paravento al potere del denaro, della tecnoscienza, della burocrazia dei partiti e dello Stato, dei media. Sul piano degli individui si va affermando una nuova chiusura, che assume la forma di conformismo generalizzato.
Ritengo che stiamo vivendo la fase più conformista della storia moderna. Si dice che ogni individuo è "libero", ma di fatto ognuno riceve passivamente il solo senso che l´istituzione e il campo sociale gli propongono e gli impongono: il tele-consumo, fatto di consumo, di televisione, di consumo simulato attraverso la televisione.
Mi soffermerò brevemente sul "piacere" del tele-consumatore contemporaneo. Al contrario di quello dello spettatore, uditore o lettore di un´opera d´arte, questo piacere comporta una sublimazione minima: è soddisfazione surrogata delle pulsioni attraverso un atto di voyeurismo, è un "piacere fisico" bidimensionale, accompagnato a un massimo di passività. Che ciò che la televisione presenta sia di per sé «bello» o «brutto», esso è recepito passivamente, nell´inerzia e nel conformismo.
Si è proclamato il trionfo della democrazia come trionfo dell´individualismo. Ma questo individualismo non è e non può essere forma vuota in cui gli individui "fanno ciò che vogliono" - non più di quanto la "democrazia" possa essere semplicemente procedurale. Le "procedure democratiche" sono di volta in volta intrise del carattere oligarchico della struttura sociale contemporanea - così come la forma "individualistica" è intrisa dell´immaginario sociale dominante, immaginario capitalistico della crescita illimitata della produzione e del consumo.
Sul piano della creazione culturale, dove di certo i giudizi sono più incerti e più contestabili, è impossibile sottovalutare l´aumento dell´eclettismo, del collage, del sincretismo invertebrato, e, soprattutto, non vedere la perdita dell´oggetto e di senso, che va di pari passo con l´abbandono della ricerca della forma, forma che è sempre molto più che forma, perché, come diceva Hugo, essa è il fondo che sale in superficie.
Si stanno avverando le profezie più pessimistiche - da Tocqueville e dalla "mediocrità" dell´individuo "democratico", passando per Nietzsche e il nichilismo, arrivando fino a Spengler, a Heidegger e oltre. Profezie teorizzate nel postmoderno con autocompiacimento arrogante e stupido.
Se queste constatazioni sono, anche solo parzialmente, esatte, la cultura in una società "democratica" corre grandi rischi - di certo non per quanto attiene alla sua forma erudita, museale o turistica, ma per quanto riguarda la sua essenza creatrice.
L´evoluzione attuale della cultura non è senza rapporto con l´inerzia e la passività sociale e politica che caratterizzano il nostro mondo, ma la rinascita della sua vitalità, se deve avvenire, sarà indissociabile da un nuovo grande movimento sociale-storico che riattiverà la democrazia e le darà di volta in volta la forma e i contenuti che il progetto di autonomia esige.
Siamo turbati dall´impossibilità d´immaginare concretamente il contenuto di una tale creazione - mentre è proprio questo il bello di ogni creazione. Clistene e i suoi compagni non potevano né dovevano "prevedere" la tragedia e il Partenone - non più di quanto i membri della Costituente o i Padri Fondatori non avrebbero potuto immaginare Stendhal, Balzac, Flaubert, Rimbaud, Manet, Proust o Poe, Melville, Whitman e Faulkner.
La filosofia ci mostra che sarebbe assurdo credere di avere ormai esaurito il pensabile, il fattibile, il formabile, così come sarebbe assurdo porre limiti alla potenza della formazione che sempre risiede nell´immaginazione psichica e nell´immaginario collettivo sociale-storico. Ma la stessa filosofia non ci invita a constatare che l´umanità ha attraversato periodi di cedimento e di letargia, tanto più insidiosi quanto più sono stati accompagnati da ciò che chiamiamo "benessere materiale". Ammesso che coloro che hanno un rapporto diretto e attivo con la cultura possano contribuire a far sì che questa fase di letargia sia quanto più possibile breve, ciò sarà possibile solo se il loro lavoro resterà fedele ai princìpi di libertà e di responsabilità.

Traduzione di
Rossana Simonetti
© per l´edizione italiana,
"Lettera Internazionale"

Repubblica 1.4.07
I BIMBI IMPARANO A RICONOSCERE LE PROPRIE OMBRE
di UMBERTO GALIMBERTI

Ottima iniziativa quella di iniziare una serie in cui Topolino, non è più quel simpatico personaggio dei fumetti che con il suo cuore buono e la sua mente astuta risolve tutti i problemi. Ottima scelta quello che lo prevede anche cattivo, dispettoso, antipatico. E sì, perché l´aspetto più diseducativo di tutte le favole e di tutti i fumetti per bambini è quello di presentare il protagonista buono e tutti gli altri cattivi. Identificandosi con il protagonista buono, i bambini imparano a proiettare fuori di loro, sugli altri, la cattiveria che c´è anche dentro di loro, dividendo così il mondo in due: buoni loro come Topolino e cattivi gli altri.
Questa separazione del bene dal male, che le favole pericolosamente alimentano, origina dalle religioni che identificano Dio col bene e il male col diavolo. E siccome le religioni sono il fondamento delle culture, va a finire che ogni cultura identifica sé col bene e guarda le altre con sospetto, diffidenza, quando non con odio, fino a identificare, con una propaganda alimentata ai massimi livelli, i diversi «imperi del male».
Finché non riconosciamo il male che c´è in noi e la cattiveria che ci appartiene, continueremo a proiettare l´uno e l´altra fuori di noi, col risultato di vivere inquieti in un mondo di presunti nemici, che di volta in volta identifichiamo nei nostri concorrenti, nei nostri competitori, negli stranieri, nei vicini di casa, creando così quel mondo inospitale che alimenta sospetti, diffidenze, le quali, quando si fanno insostenibili, finiscono con l´approdare anche a gesti truci.
Un «Topolino cattivo» è un ottimo insegnamento perché abitua i bambini che si identificano col protagonista a riconoscere la propria parte cattiva, la propria ombra, invece di proiettarla all´esterno creandosi nemici reali o immaginari. La nostra parte cattiva è carica di energia e, quando non è riconosciuta, si rivolta contro di noi facendo odiare noi stessi, prima degli altri. I risentimenti che ci rendono lividi e rabbiosi originano tutti dal fatto che ci riteniamo assolutamente buoni in un mondo di cattivi, come le favole infantili ci hanno insegnato.
Un Topolino cattivo allora è una vera benedizione, perché una figura del genere può essere d´aiuto ai bambini a cercare il male dentro di sé e non fuori di sé. E quando l´ombra, la nostra parte cattiva, si sente accettata, cede a noi in dono tutta l´energia che possiede, perché i forti non sono quelli che sottomettono gli altri, ma quelli che, guardandosi dentro, sanno vedere e accogliere la propria ombra. E non si scompongono quando gli altri gliela segnalano, perché quella parte livida e cattiva la conoscono e, senza rifiutarla, hanno la forza di accettarla e tradurla in loro alleata. Questa è la grandezza dei forti. Essi non proiettano il male sugli altri, ma, dopo averlo riconosciuto dentro di sé e accolto, si offrono agli altri con lo sguardo buono che è tipico di chi non ha rimosso la propria anima cattiva.