Chiesa e politica
È tornato il ’48?
di Bruno Gravagnuolo
Il dado è tratto e indietro tutta. Rotti gli argini di una «sfida etica» in parte ancora contenuta nei termini degli «ammonimenti», i Vescovi si appellano alla società civile. E scendono in piazza per interposti parroci. Infatti con le parole di Mons. Betori, segretario generale della Cei, non solo plaudono alle associazioni laicali cattoliche che guideranno a Roma il family day contro i Dico. Ma incoraggiano le parrocchie e i parroci a essere presenti. Pur escludendo ogni adesione vescovile in prima persona.
È un salto di qualità politico, non c’è dubbio. E un chiaro ritorno al protagonismo capillare e di massa della Chiesa sulle questioni civili. Come nel 1948, al tempo dei comitati civici di Gedda, delle scomuniche di Pio XII e dei cortei col Biancofiore. Con partecipazione di ecclesiastici nonché di icone sacre e Madonne pellegrine. E come al tempo del divorzio, battaglia persa nonostante la mobilitazione dei pulpiti.
Ora però si ricomincia e con supporto di teorie devote sul «diritto naturale» in tempi di evangelizzazione contro il «relativismo». La Chiesa, ci dicono Mons. Cafarra e prima ancora il Pontefice, coi teocon nostrani, deve essere un baluardo etico e razionale contro la deriva dei valori. Il saldo sostegno della verità universalmente umana e non dubitabile, che sta a base a degli ordinamenti civili. I quali in sè - recita il Magistero ecclesiale - sono deficitari, non reggono alla globalizzazione culturale e all’emergere dei diritti individuali su scala planetaria, fomite di arbitrio e possibile anarchia. Sicchè travolti i collateralismi di partito, la Chiesa non può che farsi agenzia «metapolitica». Punto di riferimento trasversale delle coscienze e della legislazione che diviene per questa via affare precipuo dei credenti, in quanto orientati dalla Chiesa.
Di più. Proprio questo Papa, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro teorizzò a chiare lettere che il pluralismo civile dei moderni era null’altro che un pluralismo tra Chiese, come avvenne negli Usa delle sette religiose. Dottrina confermata anche dal cardinal Scola, che ha ribadito in un suo saggio la sostanza fondativa della religione cristiana, in virtù della sua intima razionalità superiore e «cristiano-occidentale». Sempre del tutto in linea col Pontefice, che a Ratisbona celebrò la superiore razionalità «greco-cristiana», a petto della deficitaria ragione islamica così intrisa di violenza in Maometto. C’è dunque da meravigliarsi se a partire da queste «basi cognitive» e di milizia teologica la Chiesa scenda in piazza? E persino contro una realtà minimale e per nulla «epocale» come i Dico? Già, scende in piazza, anche se l’invito è rivolto solo in guisa di incoraggiamento ai parroci. Dopo le note ingerenze dirette sul referendum della fecondazione assistita. Dirette fin dentro la tecnica da adottare (l’astensione per far mancare il quorum). E dopo la nota promossa dalla Cei di Bagnasco sull’obbligo esplicito di votare in Parlamento contro i Dico, già essa ben altro che «richiamo pastorale», visto il pressing sulle coscienze dei parlamentari e il riferimento vincolante all’ultimo documento «ex cathedra» del Papa.
Di che si tratta stavolta con l’appello ai parroci di Betori? Di una ben precisa teoria dell’«egemonia», che usa un «concetto» conciliare per volgerlo nel suo esatto contrario. Questo: la Chiesa come articolazione orizzontale di comunità. E il punto vien fatto valere così. Le parrocchie per Betori «non sono proprietà del clero. E se i laici si appoggeranno alle parrocchie per organizzare la manifestazione, non si potrà impedire al parroco di partecipare con i fedeli»». Da un lato quindi si preserva la distinzione, dallo stato, dei rami alti: La Chiesa dei Vescovi. Dall’altro però la distinzione viene «agita» per dare impulso all’autonomia del clero e dei laici, dentro la società civile. È una mobilitazione dall’alto insomma. Che incalza da entrambi i lati la «res pubblica» e che recupera la «Chiesa di base», preventivamente pungolata all’obbedienza sui princìpi dottrinali. Lotta dal basso perciò, e pressione sulle Istituzioni laiche dall’alto. In uno con la pretesa che i contenuti della fede siano vincolanti per la legislazione civile, e per credenti e non. Perché proprio questa è la democrazia basata sul «consenso», come più volte ha teorizzato sempre il cardinal Scola. Attenzione però, solo formalmente la distinzione tra Stato e Chiesa è rispettata, in tale impostazione generale. Perché di fatto in questo caso la Chiesa di Roma si muove come una forza organizzata di massa, come un partito trans-politico che plasma dinamicamente la legislazione. Organizzando per via diretta e indiretta la mobilitazione attiva, e non già fornendo appigli alla coscienza dei credenti, o tracciando orientamenti generali per essa. Ne vien fuori uno stato laico pressato e in libertà vigilata. Dove lo sconfinamento della sfera religiosa è insieme diritto e fonte del diritto. Né vale l’argomento pedestre di quei devoti alla Della Loggia, che obiettano: «vanno bene gli ecclesiastici sulla mafia e la pace e non sui Dico?». Non vanno bene affatto. Perché un conto è l’intervento episodico o spontaneo su mali e beni universalmente sentiti, come il crimine, la guerra, la fame e le ingiustizie. Altro l’intervento sistematico e capillare sui singoli temi di legislazione, pungolato e organizzato dalla gerarchia: dalla società civile al Parlamento. E tramite il privilegio di un insediamento territoriale e di una sovraesposione mediatica a vantaggio della Chiesa, senza confronti con altri paesi. Infine e in conclusione. A che pro la Chiesa vuole oggi spaccare le coscienze e la società civile con la sua nuova mobilitazione capillare? Per conquistarsi un primato civile sulle ceneri della pace religiosa, e contro ruvide ondate anticlericali e magari «neoscismatiche»? Ce lo chiediamo sinceramente preoccupati. Ci pensino i buoni Pastori prima di raccogliere inattese tempeste.
l’Unità 4.4.07
Lo Stato laico e l’equilibrio spezzato
Morena Piccinini*
Non sono credente. Non è una notizia e non dovrebbe interessare nessuno, così come io non mi sono mai chiesta se le persone con le quali ho relazioni sono o no credenti, perché sono o dovrebbero essere altre le basi sulle quali instaurare rapporti di lavoro o di amicizia o di ogni altro tipo. Ho sempre pensato che questa forma di rispetto/riconoscimento/indifferenza reciproca fosse finalmente riconosciuta anche come base per la nostra società civile.
Ora comincio ad avere paura che rapidamente torni a rompersi questo equilibrio, e ripenso alla storia dei miei genitori che, giovanissimi, decisero di sposarsi con rito civile negli anni 50, quando i matrimoni civili erano ancora pochissimi, soprattutto nei piccoli paesi di provincia. Questo, unito al fatto che erano comunisti, sollevò la reprimenda pubblica del parroco del paese e le conseguenze si videro quando dopo pochi mesi, con la mia nascita, a mio padre fu negato il congedo dal servizio militare, nonostante la legge lo prescrivesse in caso di capofamiglia con figli a carico. Mio padre riuscì a vedermi, dopo due mesi dalla mia nascita, solo grazie a un chirurgo che accettò di operarlo di appendicectomia, nonostante stesse benissimo, consentendogli di ottenere una licenza per la convalescenza.
Quella ingiustizia non era stata dettata specificamente dal parroco, ma il comportamento «zelante» dei funzionari, militari e civili, interpretava quella stigmatizzazione pur essendo esplicitamente una indebita forzatura delle leggi del tempo.
Leggendo il documento della Cei sui Dico e sulla famiglia mi ha percorso un brivido, non per il precetto rivolto ai credenti, non nuovo, pienamente legittimo e da rispettare, quanto per l'appello/comando ai decisori politici, a partire dai parlamentari, perché traducano in leggi cogenti per tutti questi precetti. Questi continui anatemi verso comportamenti ritenuti non conformi (che oggi sono diretti in modo specifico alle convivenze, ma che hanno già prodotto devastanti effetti su altre grandi questioni, come la fecondazione medicalmente assistita) rischiano di condizionare non solo parlamentari che fanno dell'ossequio al precetto una pericolosissima corrente politica trasversale ai partiti di destra, di centro e di sinistra, ma anche di produrre di nuovo, come 50 anni fa, funzionari pubblici «zelanti» o compiacenti, o asserviti al punto tale da introdurre l'obiezione di coscienza anche dove non è permessa e arrivare a negare o condizionare o rendere difficilmente esigibili diritti tutelati dalla legge.
Per tutto ciò, questa Chiesa fa paura, o per meglio dire, fa paura chi nel Parlamento e nella società accetta di non distinguere tra reato e peccato e fa dei propri valori religiosi un principio assoluto non solo per sé medesimo, ma per tutta la società.
Ma, ancor più, indigna chi, nel medesimo Parlamento e nella politica, sottovaluta questo processo integralista in atto e lo tratta alla stregua di ogni altra bagarre politica del momento, che presto passa e presto si dimentica e traduce mentalmente in possibili voti in più o in meno la partecipazione al family day.
*segretaria confederale Cgil
Repubblica 4.4.07
Le false risposte del diritto naturale
di Gustavo Zarebelsky
Forse, la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. La filosofia, con la sua presunzione, ha distrutto la possibilità di ragionare così semplicemente. Ma più della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in cui perfino la "natura" dell´essere umano può essere il prodotto del suo "artificio" - potenza della genetica - ; il tempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l´oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana quella distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare così: anzi, ci aggrappiamo ancor di più a quella distinzione, come a un´assicurazione. Forse, ne abbiamo un bisogno "naturale", per non cadere preda della vertigine di un soggetto che, al tempo stesso, è oggetto di sé stesso; un soggetto avvolto e sprofondato così in un circolo vizioso esistenziale. Il pensiero religioso vede in ciò la bestemmia dell´uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare l´unico che, secondo un´interpretazione del libro dell´Esodo (3, 1-6), può dire di "essere colui che è" in forza solo della sua potenza.
Non stupisce dunque affatto che proprio quando è diventato insostenibile, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni umane, una norma che assegna al naturale il primato sull´artificiale, sinonimo di inganno, abuso, adulterazione.
Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie - diceva già Aristotele -, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi.
La storia del "diritto naturale" è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per morto. Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un momento di rinascita: quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro mutevoli convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno può alterare.
Così si fa da parte della Chiesa cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all´antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto, ecc. In questo modo, essa viene a proporsi come grande rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo- si dice - moralmente sfibrato dal famigerato "relativismo", sinonimo di puro edonismo, scetticismo antirazionalista, nascosto sotto i panni accattivanti della tolleranza.
Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l´avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?
Sennonché, qui incominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l´umanità intera in nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Al contrario, è il terreno dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la "natura" alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera del demonio. I primi ameranno la natura, come Dio ha amato il creato (Gen 1, 31: "E Dio vide che era cosa buona, molto") e trarranno la convinzione di dover rispettarla così com´è; i secondi la odieranno come cosa corrotta e faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua bassezza. Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la natura è madre benefica e per altri, matrigna malefica. La visione dell´illuminismo protoromantico era quella dell´armonia della vita naturale, guastata dalla civiltà, ma Giacomo Leopardi nutriva ogni genere di disperazione verso quella che "per costume e per istinto è carnefice impassibile e indifferente della sua propria famiglia, de´ suoi figliuoli e, per così dire, del suo sangue". "È funesto a chi nasce il dì natale", canta alla luna il pastore errante dell´Asia: e chi, nella sua vita, non ha mai pensato così?
Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici, il regno dell´uguaglianza e della dignità umana. I Padri della Chiesa svilupparono questa visione nell´idea di uguaglianza e fratellanza dei figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D´altra parte, Aristotele considerava la schiavitù conforme alla natura. Per i sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo Platone, "la natura vuole padroni e servi", la giustizia naturale essendo "l´utile del più forte". Spencer, il filosofo del cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava che solo la natura assicura i necessari ricambi. Se lo Stato interviene a favore dei bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere - a danno della collettività che li deve poi mantenere - i soggetti più deboli della razza umana", i "parassiti". Questa idea, applicata non agli uomini ma alle razze, ha permesso perfino di affermare che i razzisti sono i veri difensori del diritto naturale.
Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall´interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere differenti, spesso antitetici. Si discute, in questi tempi, di eutanasia. Il papa Benedetto XVI ripete instancabilmente la sua convinzione: "Nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principi che regolano il giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale"´ (12. 2. 2007). La "Esortazione apostolica" Sacramentum Caritatis del 15 marzo, ribadendo la "Nota" della Cei del 28 marzo, richiama ulteriormente il valore vincolante della "natura umana": insomma, un martellamento. Ma, leggiamo che cosa diceva un opuscolo nazista del 1940, dal titolo Du und dein Volk ("Tu e il tuo popolo"), in tema di "eliminazione dei malriusciti" e delle "razze decadenti": «Dovunque la natura sia rispettata, le creature che non possono competere con i più forti sono eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l´esistenza questi individui sono distrutti e non possono riprodursi. Questa è chiamata selezione naturale [...] Nel caso degli esseri umani, il completo rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili ed inaspettati. Un chiaro esempio è l´incremento delle malattie genetiche. In Germania, nel 1930, c´erano circa 150.000 persone in istituti psichiatrici e circa 70.000 criminali in carceri e prigioni. Essi erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un´enorme spesa da parte della società», che si traduce in danno per la parte sana, tanto più perché li si lascia liberi di riprodursi. "La carità diventa una piaga", concludeva quel testo, ispirato alla natura.
Noi leggiamo con orrore queste parole, ma non in nome della natura tradita; in nome invece della cultura, della civiltà, dell´umanità o della religione: tutte cose che non hanno a che vedere con la natura, intesa nella sua dura realtà; appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità. Che sia così, che la natura possa essere apprezzata solo dal punto di vista di qualche visione del mondo e non dal punto di vista di una pretesa essenza meramente esistenziale dell´essere umano, è riconosciuto nella relazione che il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio di quest´anno) al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall´Università del Papa, l´Università lateranense. In un passo finale, si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o sociologico bensì, con Tommaso d´Aquino, teologico. Che cosa è l´essere umano dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un´intuizione metafisica delle finalità dell´esistenza, un´intuizione di fede : "La realizzazione pratica dell´ethos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia". Fides et gratia, dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c´è di più "innaturale" di questa visione della natura, dal punto di vista di chi - legittimamente, si presume ancora - non è credente?
Ecco, come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l´aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. Al più, povero lui, per il suo bene gli si potrà proporre, cieco com´è di fronte all´autentica natura umana, la peregrina e umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la Chiesa stessa dice di Dio. Senza però - lo si è visto - che ne sia davvero capace, privo come è di grazia e fede.
Non c´è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare così i drammatici problemi dell´esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Un grande giurista del secolo scorso, cattolico per giunta, ha scritto che evocare il diritto naturale nelle nostre società, dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse, significa lanciare un grido di guerra civile. Aveva ragione. Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando, come di recente, si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questo incitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, è sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l´ardire di porsi unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione. La democrazia è sempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede questo potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e unilateralmente.
La rinascita del diritto naturale corrisponde a un´esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordare con facilità: che non tutto ciò che è materialmente possibile sia anche moralmente lecito. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia scorrono senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possa affermarsi. Ma non è la natura, l´ancora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa, ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La legge naturale che ne deriva è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: una legge dalla quale la Chiesa sembra allontanarsi vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura che sollevano sì dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della libertà.
Repubblica 4.4.07
Quando le tonache scendono dal pulpito
di Filippo Ceccarelli
«Questa sacra Repubblica pretina, dai muri nuovi o almen pare a vederli»... E in effetti, a quasi sessant´anni dal salace epigramma di Curzio Malaparte, e dalla vittoria nella crociata elettorale del 18 aprile 1948, preti in piazza se ne sono continuati a vedere. Gesuiti antimafia in Sicilia, lefebvriani nelle manifestazioni del Msi e poi della Lega, beati costruttori di pace sotto le bandiere arcobaleno; e don Gallo contro la repressione, don Benzi contro la prostituzione, don Vitaliano a Genova o al Gay Pride, don Gelmini a salutare la legge sugli stupefacenti con roghi festosi.
Non solo, ma se si estende il concetto di piazza al suo prolungamento elettronico, e cioè alla televisione, ecco che lì dentro preti e suore abbondano, spesso cantano, a volte ballano, di norma offrono al pubblico consigli o ricette, occhiatacce e speranze.
Comunque partecipano, ognuno nel modo che gli è più consono, al discorso pubblico: e valga per tutti il più gettonato, don Mazzi, e un po´ anche quella trasmissione significativamente intitolata «Mazzi vostri». A seguire il piccolo schermo con qualche diligenza, d´altra parte, c´è pure un prete dei Vip, don Santino Spartià, a cui le Iene fanno sempre tòc-tòc sulla testa, con le mani, fino al punto che quando lui le vede avvicinarsi se lo fa da solo, tòc-tòc. Questo per dire che gli ecclesiastici non sono mai incompatibili alla piazza, nelle sue varie tecno-accezioni.
E però, nel senso più strettamente ed eminentemente politico, per trovare un momento che richiami la magnitudine di sacerdoti attesi a San Giovanni per il Family day il prossimo 12 maggio, non si può che richiamare l´Italia «pretina» di Malaparte. Che poi era l´Italia uscita dal fascismo, e in questo senso si può anche rievocare quell´altro fulmineo epigramma dedicato da Mino Maccari all´ideale passaggio di consegne tra l´orbace alla tonaca: «Della camicia nera i tristi eredi/ se la sono allungata fino ai piedi».
Nell´immaginario letterario erano gli anni di don Camillo, che suonava le campane durante i comizi del sindaco comunista Peppone. Ma nella realtà socio-politica era la Chiesa che si impegnava in prima persona alla grande mobilitazione dei Comitati civici contro il comunismo. La «crociata», come la invocava Pio XII prima dello scontro elettorale decisivo: «Con Cristo o contro Cristo». E´ lì, è in quel momento, è in quel clima che le somiglianze con l´oggi cominciano a impressionare.
C´era allora un fervido movimentismo ecclesiale, una indubbia gagliardia piazzaiola. A Bologna, con la benedizione del cardinal Lercaro, furono anche sperimentati con qualche efficacia i cosiddetti «Frati volanti», spediti in gruppo nei comizi del Pci con l´obiettivo di confutare rumorosamente le tesi dell´oratore. Indimenticabile «caposquadra» Frate Tommaso Toschi, sempre pronto al contraddittorio: «Qualsiasi mezzo era buono per difendere la Chiesa - ha ricordato in tv qualche anno fa - bisognava controbattere colpo su colpo». Non di rado ci scappava la zuffa, e non è che questi religiosi, questi francescani per l´esattezza, si tirassero sempre indietro.
I frati volanti avevano anche delle «cappelle mobili», in pratica dei camioncini attrezzati in modo da poter celebrare messa, con cui battevano le campagne emiliane. Secondo la testimonianza di chi dopo tanti anni ha ricostruito la loro storia, si erano assunti il compito di segnalare non solo il peccato, ma anche i peccatori; per cui appiccicavano sulle case delle coppie non sposate in Chiesa delle strisce di carta con le parole: «Qui abitano dei concubini».
Altri tempi, ma fino a un certo punto. Era l´Italia della Madonna Pellegrina, sacra immagine itinerante d´importazione francese che le varie diocesi italiane avevano arruolato con scopi elettorali: «All´imbrunire, l´ora più suggestiva della giornata - la descrive Anna Bravo ne I luoghi della memoria (Laterza, 1996) - i fedeli arrivano in corteo, le donne divise dagli uomini, i bambini dagli adulti, gli sposati dai non sposati». L´Italia in cui circolava quella specie di santino - «Il messaggio della Regina» - che Edoardo Novelli riporta nella sua storia della comunicazione, La turbopolitica (Rizzoli, 2006), e che oggi sembra uno scherzo, ma a quei tempi non lo era affatto: «Quando il voto avrai tu dato/ allo Scudo ch´è Crociato,/ sentirai dentro del cuore/ che non hai commesso errore». E che così si conclude: «Stai sicuro che ad Alcide/ la Madonna gli sorride,/ che votar per lui ti dice/ la Potente Ausiliatrice».
Davvero lontano allora, il Concilio; così come un po´ comincia a sembrarlo oggi, per una Chiesa che sembra tornata in guerra con il mondo. Così il pensiero torna all´Italia di Luigi Gedda e dei baschi blu dell´Azione cattolica che cantavano «Siam gli araldi della Fede»; ai «comandamenti elettorali in otto punti» dell´arcivescovo di Genova Giuseppe Siri; ai manualetti «Sorgere e votare per la Croce di Cristo»; alla calda oratoria - «quasi sacra» la definisce Andreotti con un certo distacco nei suoi Diari - di padre Riccardo Lombardi, detto «il microfono di Dio». Per primo il tonante gesuita immaginò e mise in pratica un collegamento tra chiese e piazze da realizzarsi attraverso impianti telefonici e altoparlanti. Per la «Predicazione della Crociata», a Roma, furono connessi 200 location. Sono passati poco più di sessant´anni. Insieme troppi e troppo pochi.
Il Riformista 4.4.07
SINISTRA DS. LAVORIAMO ALL’UNITÀ DELLA SINISTRA
Buon lavoro ai compagni che sbagliano
Noi non faremo la riserva sterile del Pd
DI CARLO LEONI
L'appello che, come mozione «A sinistra per il socialismo europeo», abbiamo rivolto a Piero Fassino qualche giorno fa, propone una pausa che consenta una riflessione comune sull’immediato futuro.
Questa proposta non nasce certo dal fatto che si ignorano o si sottovalutano i risultati del congresso. I dati li conosciamo: la mozione presentata dal segretario ha vinto con ampio margine e ha ora la piena legittimazione ad andare avanti e a realizzare il proprio progetto politico. Nessuno mette in discussione l’esito di un processo democratico, che noi per primi abbiamo fortemente voluto e che, semmai, avrebbe dovuto svolgersi prima. Prima, cioè, che il gruppo dirigente dei Ds desse il suo assenso all’unificazione con la Margherita, senza un mandato degli iscritti. Ma questa è storia passata: svolti i congressi, la maggioranza può andare avanti. Il problema che noi abbiamo posto è di natura squisitamente politica: si stanno per superare i Ds, l’Italia sta per diventare l’unico paese europeo privo di una grande forza autonoma di sinistra e socialista. E i nodi politici dirimenti non sono stati ancora sciolti in nessun modo.
Primo: il Pd nascerà senza aver deciso preventivamente la propria collocazione internazionale. Considerare questo tema, nell’era della globalizzazione e delle grandi sfide mondiali, cosa da poco è, a mio avviso, un clamoroso abbaglio culturale, oltre che un grave errore politico. Secondo: sul tema della laicità dello Stato - mentre viene sferrato un attacco quasi senza precedenti a questo principio costituzionale - la confusione nel nascente Pd regna sovrana. Noi Ds eravamo a Piazza Farnese a difendere i Dico (un disegno di legge del governo Prodi), non pochi esponenti della Margherita dichiarano di voler aderire al Family Day, contro gli stessi Dico. E tra pochi mesi dovremmo essere non più solo alleati, ma membri dello stesso partito.
Si dice che il Pd andrà oltre la cultura del socialismo europeo. Oltre? Sui temi dei diritti civili e della libertà delle persone, la fusione tra il nostro partito e la Margherita costringerà - sta già costringendo - i Ds a una mediazione inevitabilmente più arretrata rispetto alle posizioni di qualunque partito di sinistra e socialista. Altro che modernità. Quell’operazione innovativa che tanti avevano intravisto nella suggestione del Pd si è ridotta alla mera fusione tra due partiti. I quali, piuttosto che affrontare il difficile e coraggioso impegno di rinnovare se stessi, hanno scelto semplicemente di mettere insieme la propria forza elettorale.
A Orvieto c’erano Ds e Margherita: non altri. I Ds e la Margherita hanno nominato gli estensori del Manifesto. Sono sempre e solo questi due partiti a svolgere i propri congressi e a decidere la data per la fusione. Non c’è altro. E dire che questo è solo l’atto iniziale, equivale - come ha scritto efficacemente Achille Occhetto sulle pagine del Riformista - «all’apertura dei giardini della reggia ai cittadini, quando tutto è già stato deciso».
La delusione per tutto questo si sta facendo sentire, anche tra i sostenitori della prima ora del progetto del Pd. E la distanza tra il Grande Ulivo del ’96 - nel quale ho molto creduto - e quest’esperienza è enorme, non solo quantitativamente. Vale dunque la pena di chiudere i Ds per ottenere così poco? Dividere e lacerare la nostra comunità per realizzare un’esperienza tanto precaria? Per questo abbiamo detto «fermatevi, raccontiamoci la verità e ragioniamo insieme». Ma fino a ora si è risposto, al contrario, con l’impegno ad accelerare rispetto ai tempi già stretti indicati nella mozione Fassino.
Non trovo giusto che si sia andati nei congressi di sezione a dire «Non preoccupatevi, abbiamo due anni di tempo, fino al 2009, per verificare»; e poi, una volta ottenuto il consenso, comunicare invece che già all’inizio del prossimo anno, cioè tra pochi mesi, i Ds non ci saranno più e nascerà il Partito democratico. Accelerare vuol dire che non si farà nessuna vera fase costituente, nessuna apertura esterna reale. A decidere tutto saranno gli attuali gruppi dirigenti dei due partiti. Può apparire forse rassicurante, certo: ma tutto questo non è né innovativo, né democratico.
Anche se le parole fino a oggi pronunciate da Fassino e da D’Alema sembrano chiudere ogni spiraglio, io continuo a sperare fino all’ultimo momento utile - fino, cioè, al congresso nazionale - che qualche novità intervenga, che si raccolga questo nostro appello. Certo che ha vinto la mozione Fassino, chi lo mette in dubbio? Ma il fatto che circa un quarto dei tanti che hanno votato nei congressi di sezione abbia espresso contrarietà o forti dubbi non conta proprio nulla? No, evidentemente. Conta talmente poco da far dire «Noi andiamo avanti come se voi non aveste detto nulla. Ma seguiteci e fate la minoranza (la minoranza, sia chiaro) nel futuro partito».
Abbiamo già detto con chiarezza che questo ruolo non ci convince e non ci appassiona. Che non siamo disponibili. Non ci convince perché sarebbe una collocazione del tutto inutile, improduttiva. Non solo per noi, ma per il centrosinistra italiano. Una riserva sterile. Saremmo in pochi e poco rappresentativi, perché comunque molti compagni faranno altre scelte. Dentro un partito nel quale non crediamo e, proprio per questo, impegnati solo in una funzione di freno, di intralcio, di interdizione. Ecco, sarebbe solo l’autotutela di una nicchia politica: non credo servirebbe neanche al Partito democratico.
Sarebbe meglio, questo ci siamo detti, metterci al servizio di un’idea più difficile e più ambiziosa. Lavorare, per tutto il tempo che ci vorrà, a un processo di rinnovamento e di unità nella sinistra italiana, per dare vita a una forza più grande e più innovativa di quelle attuali, legata al socialismo europeo. Una forza autonoma della sinistra di governo, alleata del Partito democratico, in un assetto del centrosinistra più razionale e più coeso di quello presente, così frammentato e così rissoso. Non sarebbe meglio per tutti? Io penso di sì.
Continuo dunque a sperare in un ripensamento, in una riflessione aggiornata e più matura. Che dia a noi e ai compagni della mozione Angius quelle risposte fin qui negate. Ma dico onestamente che se il Pd dovesse nascere, sebbene io non ne farò parte, non gli augurerò di deragliare, di andare a sbattere: perché mi stanno a cuore il centrosinistra e la tenuta della politica democratica italiana. Augurerò buon lavoro alle compagne e ai compagni che - secondo me sbagliando - sceglieranno quella strada. La cosa migliore da fare sarebbe tenere e rinnovare i Ds. Ma se questo sarà proprio impossibile, dalla nostra storia e dalla nostra esperienza politica vorrei che emergano non una fusione e una resa, non un accorpamento e una scissione: ma due processi costituenti, entrambi benefici per il centrosinistra e la democrazia italiana.
La sinistra non può ridursi né a essere a mala pena la corrente di un partito (così non è in nessun paese europeo), né una testimonianza di fede personale (del tipo «Ovunque io vada, resterò sempre di sinistra!»). La sinistra non può neanche essere un pulviscolo di formazioni residuali in conflitto tra di loro, perché è proprio questo uno dei fattori della crisi italiana. Serve unità e servono novità: culturali, prima ancora che politiche. Su questo avrebbero dovuto e dovrebbero impegnarsi i Ds. Se i Ds non ci saranno più, qualcuno si prenderà il carico di contribuire - senza spocchia né arroganza, ma con necessaria determinazione - a introdurre questa novità nel panorama politico italiano.
Vicepresidente della Camera, sinistra Ds
Unita.it 4.4.07
La piazza di Dio
di Bruno Ugolini
Era ora. Non se ne poteva più di questo silenzio sociale. Tacciono I metalmeccanici, i tessili, gli alimentaristi, gli elettrici, i braccianti, i pensionati, gli invalidi, i parenti dei morti sul lavoro, quelli tartassati del fisco direttamente sulle buste-paga, quelli che non hanno diritti nemmeno quello di scioperare o andare in ferie. E' da molto tempo che non manifestano. Forse si trovano bene così. Stanno zitti e buoni. Ora però tutto cambia. La Santa Madre Chiesa ha preso in mano le redini della protesta sociale. Scende in piazza. Ma che cosa inquieta questi uomini di preghiera trasformati in agitatori sociali? I contratti di lavoro che non vengono rinnovati? La media giornaliera dei morti in fabbriche e cantieri? No, l’obiettivo è impedire l'oscura e terribile minaccia dei Dico. Cardinali e monsignori sono preoccupati per questi poveri di spirito chiusi in coppie libertine. Non s’interessano dei poveri di pane e diritti. Sono i nuovi sindacalisti, in abito talare, contro il peccato dell’amore privo di tutti i crismi. Fra poco faranno staccare anche i peccaminosi lucchetti simbolici appesi dagli adolescenti a Ponte Milvio, in quel di Roma. Simboli del demonio. Hanno scatenato una moderna crociata contro il dilagare delle convivenze, magari anche tra persone dello stesso sesso. Concubini senza ritegno che vorrebbero perfino tutele legali, senza nemmeno pagare le spese spesso spropositate delle cerimonie matrimoniali. Sarebbe anche un colpo per le finanze dei poveri parroci. Non si meravigliano della mercificazione delle carni che imperversa in Vallettopoli o nel dilagare dell'affarismo politico. Oppure di situazioni imbarazzanti come quelle dei centri d’accoglienza dove si ammassano gli immigrati nelle metropoli. Dio non abita lì.
Repubblica 4.4.07
Lo psicologo è morto a Palo Alto. Aveva 85 anni
Watzlawick: se le idee si ammalano
di Umberto Galimberti
L'idea di una terapia che cambia non guarisce
Famose le sue "Istruzioni per rendersi infelici"
Paul Watzlawick, morto ieri nella sua casa di Palo Alto in California all´età di 85 anni, è lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero e quindi a sollevare le tematiche psicologiche al livello che a loro compete, perché ad «ammalarsi» non è solo la nostra anima, ma anche le nostre idee che, quando sono sbagliate, intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. E proprio Istruzioni per rendersi infelici, che Feltrinelli pubblicò nel 1984 facendo undici edizioni in due anni, è stato il libro che ha reso noto Watzlawick in Italia al grande pubblico.
Nato a Villach, in Austria, nel 1921, Watzlawick nel 1949 ha conseguito all´Università di Venezia la laurea in lingue moderne e filosofia. L´anno successivo prese a frequentare l´Istituto di Psicologia analitica di Zurigo dove nel 1954 conseguì il diploma di analista. Dal 1957 al 1960 ottenne la cattedra di psicoterapia presso l´Università di El Salvador e dal 1960 si trasferì al Mental Research Institute di Palo Alto dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra «immagine» del mondo, spesso dissonante con la «realtà» del mondo.
Le tesi centrali che sono alla base del pensiero di Watzlawick sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell´individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.
A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama «paradossale». Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare «follia». Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio-Ubaldini, 1971) non si limita a un´interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. «Paradossalmente» è proprio con l´iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la «prescrizione del sintomo» e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.
Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come «guarigione», ma come «cambiamento» a cui ha dedicato Il linguaggio del cambiamento (Feltrinelli 1980), Il codino del Barone di Münchhausen (Feltrinelli 1989) e, con Giorgio Nardone L´arte del cambiamento (Ponte alle Grazie, 1991). Secondo Watzlawick sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un´altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall´emisfero cerebrale sinistro che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l´attività dell´emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde.
Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull´emisfero destro perché in esso l´immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell´immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica.
La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita la realtà non può che essere «scoperta». No, dice Watzlawick ne La realtà inventata (Feltrinelli, 1988). Il costruttivismo, che è alla base della sua concezione sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un´interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l´esperienza. La realtà non verrebbe quindi «scoperta», ma «inventata».
Da queste invenzioni nascono «stili di vita» che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Con molti esempi Watzlawick mostra nei suoi libri come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere nuove «realtà». E così la psicologia incomincia a respirare. Oggi a raccogliere questo respiro è la consulenza filosofica che spero annoveri presto Watzlawick tra i suoi precursori e, sulla sua traccia, approfondisca quella terapia delle idee che, inosservate dalla psicologia, sono spesso la causa delle sofferenze dell´anima.
Avanti! 4.4.07
RÜDIGER SAFRANSKI, STORIA DEL MALE NELLA CULTURA OCCIDENTALE DALL’ANTICHITÀ AD OGGI
Quel vuoto fuori e dentro di noi
di Elio Matassi
Il “male” è solo un nome per designare ciò che ci minaccia: caos, violenza, barbarie, il vuoto fuori e dentro di noi. Personaggio chiave nel dramma della libertà umana, il male è una possibilità di tale libertà, anzi ne incarna esattamente il prezzo, non solo la società, ma ogni uomo è a rischio.
La riflessione sul male può attraversare i grandi miti, le religioni, l’intera storia della cultura e della politica: il peccato originale, Caino e Abele, Giobbe, Prometeo; i tentativi dell’antichità classica e del cristianesimo di fornire una risposta al problema: Platone ed Agostino; le strategie di arginamento, da Hobbes a Gehlen; i vani progetti tesi a migliorare l’uomo dall’illuminismo in poi; quella reversibilità tra filosofia della storia ed antropologia che ha caratterizzato l’illusione dell’idealismo classico tedesco; i ripetuti tentativi di costruire la torre di Babele. Il fascino sinistro esercitato dal male sull’arte, nella tragedia greca, in Sade, Baudelaire e Conrad. L’esperimento nichilistico di Nietzsche, Hitler, ossia la cupa follia del Novecento divenuta realtà. Una ricostruzione di questa avvincente storia del Male è quella, pubblicata di recente, da Rüdiger Safranski, “Il Male. La riflessione nella cultura occidentale dall’antichità ad oggi”, (Milano, Longanesi, 2006, 310 pp., 22,00 euro); Safranski è noto al grande pubblico come grande divulgatore e biografo di alcune tra le più rilevanti figure della filosofia tedesca da Schopenhauer, a Nietzsche e Heidegger. Il filo conduttore di tale ricostruzione sta nella stringente correlazione fra dimensione del male e libertà, il “prezzo della libertà”: “Il male non è un concetto, bensì un nome per designare la minaccia che la libera coscienza si trova ad affrontare, o che questa può arrecare ad un altro ente. Essa se la trova di fronte là dove la natura si preclude alla sua richiesta di senso: nel caos, nella contingenza, nell’entropia, nel mangiare e nell’essere mangiati; tanto nel vuoto dello spazio siderale quanto nel proprio io, il buco nero dell’esistenza. E la coscienza è capace di scegliere l’efferatezza, la distruzione. Le ragioni di ciò risiedono nell’abisso che si spalanca dentro l’uomo” (p.8). Il percorso comincia con alcune cosmogonie, con dei miti cioè che raccontano le catastrofi degli inizi e la nascita della libertà (capitolo I). Ma è poi capace l’uomo, in cui si sveglia la coscienza della libertà, di vivere secondo se stesso e fare da sé? Il pensiero antico ritiene di si (capitolo II), quello cristiano no. Il caso di Agostino dimostra (capitolo III) che la questione non è il vincolo morale, bensì se l’uomo sia in grado di serbarsi alla propria sete di trascendenza. Il tradimento della trascendenza, la trasformazione dell’uomo in un essere ad una dimensione sono per Agostino il vero male, il peccato contro la Spirito Santo. A questa concezione del mondo aderiscono anche Schelling e Schopenhauer (capitoli IV e V). Ambedue spiegano: chi rinnega il bisogno metafisico restringe drammaticamente le potenzialità umane abbandonandosi a conflitti privi di senso per l’autoaffermazione. Ma com’è possibile far si che l’uomo non si rinneghi? Come è possibile proteggerlo da se stesso? Agostino confida nella santa istituzione della Chiesa. Ma quand’anche il rapporto con Dio si dissolvesse, la fede nelle istituzioni può egualmente sussistere, come mostra il caso di Gehlen (capitolo VI). Le istituzioni danno alle concorrenze umane durevolezza, stabilità e limiti. Ed i limiti sono importanti perché nel dramma della libertà ha un gran ruolo anche la volontà di distinguersi. Distinguere significa tracciare dei limiti senza confine. Con la lotta per la distinzione e per i confini hanno inizio i rapporti elementari di inimicizia (capitolo VII). Noi e gli altri, l’impero ed i barbari: questa partizione condiziona la dinamica della storia, che è quindi anche una storia delle inimicizie. Ma anche il sogno dell’unione pacifica del genere umano è antico (capitolo VIII). Ce lo racconta la storia della fallita costruzione della torre di Babele. Kant ha sottoposto questo sogno all’esame della ragione: bisognerebbe, dice attenersi all’idea dell’unione pur senza dimenticare la sua distanza dalla realtà. Rousseau, invece, ha sognato con grande passione (capitolo IX). Egli immagina la società sotto forma di una grande comunione; siccome però l’altro resta sempre l’altro, l’aspirazione all’unità può repentinamente rovesciarsi nella comunione di essere circondato da nemici. Così è accaduto a Rousseau, che non ha accettato la sfida della pluralità. Il contrario ha fatto la tradizione del pensiero liberale, il cui programma contro il male suona così: non si possono migliorare gli uomini, bisogna invece investire nelle strutture (capitolo X). Non l’indole, bensì la natura dei loro legami reciproci deciderà il buono o il cattivo svolgimento della storia. Gli uni puntano sul mercato e sulla divisione dei poteri, gli altri sui rapporti di produzione. Ma non vi è dubbio che in entrambi i casi si sottovalutino i rischi della libertà. Vi sono abissi nei quali gli eccessi immaginari del marchese di Sade ci fanno spingere lo sguardo (capitolo XI). Il caso di Sade ci aiuta a scoprire quel male che, volendo se stesso, finisce per volere solamente il nulla. L’estetica del terrore ha poi esplorato quel nulla seducente e minaccioso (capitolo XII e XIII), finchè poi con Nietzsche il nichilismo perviene a perfetta consapevolezza facendo della volontà di potenza e del lavoro sul “materiale umano” il senso della “politica in grande” (capitolo XIV). Con Hitler la cupa follia del secolo si è fatta sanguinosa realtà (capitolo XV). Hitler rappresenta l’estrema caduta dei freni inibitori nell’età moderna. Da quel momento nessuno può più ignorare quanto sono profondi gli abissi della natura umana. Allorché si è smesso di credere in Dio, si è cercato un surrogato credendo nell’uomo. Il penultimo capitolo, dedicato a Giobbe (capitolo XVI), rintraccia nel suo caso un tipo di devozione che fa riflettere: devozione infondata e proprio perciò corrispondente all’abisso senza fondo dell’universo, che rivela altresì quale strana cosa sia la fiducia nell’ordine del mondo (capitolo XVII). Un percorso da cui si evince chiaramente che il male, in un modo o nell’altro, è sempre sulla cresta dell’onda.