mercoledì 4 aprile 2007

l’Unità 4.4.07
Chiesa e politica
È tornato il ’48?
di Bruno Gravagnuolo


Il dado è tratto e indietro tutta. Rotti gli argini di una «sfida etica» in parte ancora contenuta nei termini degli «ammonimenti», i Vescovi si appellano alla società civile. E scendono in piazza per interposti parroci. Infatti con le parole di Mons. Betori, segretario generale della Cei, non solo plaudono alle associazioni laicali cattoliche che guideranno a Roma il family day contro i Dico. Ma incoraggiano le parrocchie e i parroci a essere presenti. Pur escludendo ogni adesione vescovile in prima persona.
È un salto di qualità politico, non c’è dubbio. E un chiaro ritorno al protagonismo capillare e di massa della Chiesa sulle questioni civili. Come nel 1948, al tempo dei comitati civici di Gedda, delle scomuniche di Pio XII e dei cortei col Biancofiore. Con partecipazione di ecclesiastici nonché di icone sacre e Madonne pellegrine. E come al tempo del divorzio, battaglia persa nonostante la mobilitazione dei pulpiti.
Ora però si ricomincia e con supporto di teorie devote sul «diritto naturale» in tempi di evangelizzazione contro il «relativismo». La Chiesa, ci dicono Mons. Cafarra e prima ancora il Pontefice, coi teocon nostrani, deve essere un baluardo etico e razionale contro la deriva dei valori. Il saldo sostegno della verità universalmente umana e non dubitabile, che sta a base a degli ordinamenti civili. I quali in sè - recita il Magistero ecclesiale - sono deficitari, non reggono alla globalizzazione culturale e all’emergere dei diritti individuali su scala planetaria, fomite di arbitrio e possibile anarchia. Sicchè travolti i collateralismi di partito, la Chiesa non può che farsi agenzia «metapolitica». Punto di riferimento trasversale delle coscienze e della legislazione che diviene per questa via affare precipuo dei credenti, in quanto orientati dalla Chiesa.
Di più. Proprio questo Papa, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro teorizzò a chiare lettere che il pluralismo civile dei moderni era null’altro che un pluralismo tra Chiese, come avvenne negli Usa delle sette religiose. Dottrina confermata anche dal cardinal Scola, che ha ribadito in un suo saggio la sostanza fondativa della religione cristiana, in virtù della sua intima razionalità superiore e «cristiano-occidentale». Sempre del tutto in linea col Pontefice, che a Ratisbona celebrò la superiore razionalità «greco-cristiana», a petto della deficitaria ragione islamica così intrisa di violenza in Maometto. C’è dunque da meravigliarsi se a partire da queste «basi cognitive» e di milizia teologica la Chiesa scenda in piazza? E persino contro una realtà minimale e per nulla «epocale» come i Dico? Già, scende in piazza, anche se l’invito è rivolto solo in guisa di incoraggiamento ai parroci. Dopo le note ingerenze dirette sul referendum della fecondazione assistita. Dirette fin dentro la tecnica da adottare (l’astensione per far mancare il quorum). E dopo la nota promossa dalla Cei di Bagnasco sull’obbligo esplicito di votare in Parlamento contro i Dico, già essa ben altro che «richiamo pastorale», visto il pressing sulle coscienze dei parlamentari e il riferimento vincolante all’ultimo documento «ex cathedra» del Papa.
Di che si tratta stavolta con l’appello ai parroci di Betori? Di una ben precisa teoria dell’«egemonia», che usa un «concetto» conciliare per volgerlo nel suo esatto contrario. Questo: la Chiesa come articolazione orizzontale di comunità. E il punto vien fatto valere così. Le parrocchie per Betori «non sono proprietà del clero. E se i laici si appoggeranno alle parrocchie per organizzare la manifestazione, non si potrà impedire al parroco di partecipare con i fedeli»». Da un lato quindi si preserva la distinzione, dallo stato, dei rami alti: La Chiesa dei Vescovi. Dall’altro però la distinzione viene «agita» per dare impulso all’autonomia del clero e dei laici, dentro la società civile. È una mobilitazione dall’alto insomma. Che incalza da entrambi i lati la «res pubblica» e che recupera la «Chiesa di base», preventivamente pungolata all’obbedienza sui princìpi dottrinali. Lotta dal basso perciò, e pressione sulle Istituzioni laiche dall’alto. In uno con la pretesa che i contenuti della fede siano vincolanti per la legislazione civile, e per credenti e non. Perché proprio questa è la democrazia basata sul «consenso», come più volte ha teorizzato sempre il cardinal Scola. Attenzione però, solo formalmente la distinzione tra Stato e Chiesa è rispettata, in tale impostazione generale. Perché di fatto in questo caso la Chiesa di Roma si muove come una forza organizzata di massa, come un partito trans-politico che plasma dinamicamente la legislazione. Organizzando per via diretta e indiretta la mobilitazione attiva, e non già fornendo appigli alla coscienza dei credenti, o tracciando orientamenti generali per essa. Ne vien fuori uno stato laico pressato e in libertà vigilata. Dove lo sconfinamento della sfera religiosa è insieme diritto e fonte del diritto. Né vale l’argomento pedestre di quei devoti alla Della Loggia, che obiettano: «vanno bene gli ecclesiastici sulla mafia e la pace e non sui Dico?». Non vanno bene affatto. Perché un conto è l’intervento episodico o spontaneo su mali e beni universalmente sentiti, come il crimine, la guerra, la fame e le ingiustizie. Altro l’intervento sistematico e capillare sui singoli temi di legislazione, pungolato e organizzato dalla gerarchia: dalla società civile al Parlamento. E tramite il privilegio di un insediamento territoriale e di una sovraesposione mediatica a vantaggio della Chiesa, senza confronti con altri paesi. Infine e in conclusione. A che pro la Chiesa vuole oggi spaccare le coscienze e la società civile con la sua nuova mobilitazione capillare? Per conquistarsi un primato civile sulle ceneri della pace religiosa, e contro ruvide ondate anticlericali e magari «neoscismatiche»? Ce lo chiediamo sinceramente preoccupati. Ci pensino i buoni Pastori prima di raccogliere inattese tempeste.

l’Unità 4.4.07
Lo Stato laico e l’equilibrio spezzato
Morena Piccinini*


Non sono credente. Non è una notizia e non dovrebbe interessare nessuno, così come io non mi sono mai chiesta se le persone con le quali ho relazioni sono o no credenti, perché sono o dovrebbero essere altre le basi sulle quali instaurare rapporti di lavoro o di amicizia o di ogni altro tipo. Ho sempre pensato che questa forma di rispetto/riconoscimento/indifferenza reciproca fosse finalmente riconosciuta anche come base per la nostra società civile.
Ora comincio ad avere paura che rapidamente torni a rompersi questo equilibrio, e ripenso alla storia dei miei genitori che, giovanissimi, decisero di sposarsi con rito civile negli anni 50, quando i matrimoni civili erano ancora pochissimi, soprattutto nei piccoli paesi di provincia. Questo, unito al fatto che erano comunisti, sollevò la reprimenda pubblica del parroco del paese e le conseguenze si videro quando dopo pochi mesi, con la mia nascita, a mio padre fu negato il congedo dal servizio militare, nonostante la legge lo prescrivesse in caso di capofamiglia con figli a carico. Mio padre riuscì a vedermi, dopo due mesi dalla mia nascita, solo grazie a un chirurgo che accettò di operarlo di appendicectomia, nonostante stesse benissimo, consentendogli di ottenere una licenza per la convalescenza.
Quella ingiustizia non era stata dettata specificamente dal parroco, ma il comportamento «zelante» dei funzionari, militari e civili, interpretava quella stigmatizzazione pur essendo esplicitamente una indebita forzatura delle leggi del tempo.
Leggendo il documento della Cei sui Dico e sulla famiglia mi ha percorso un brivido, non per il precetto rivolto ai credenti, non nuovo, pienamente legittimo e da rispettare, quanto per l'appello/comando ai decisori politici, a partire dai parlamentari, perché traducano in leggi cogenti per tutti questi precetti. Questi continui anatemi verso comportamenti ritenuti non conformi (che oggi sono diretti in modo specifico alle convivenze, ma che hanno già prodotto devastanti effetti su altre grandi questioni, come la fecondazione medicalmente assistita) rischiano di condizionare non solo parlamentari che fanno dell'ossequio al precetto una pericolosissima corrente politica trasversale ai partiti di destra, di centro e di sinistra, ma anche di produrre di nuovo, come 50 anni fa, funzionari pubblici «zelanti» o compiacenti, o asserviti al punto tale da introdurre l'obiezione di coscienza anche dove non è permessa e arrivare a negare o condizionare o rendere difficilmente esigibili diritti tutelati dalla legge.
Per tutto ciò, questa Chiesa fa paura, o per meglio dire, fa paura chi nel Parlamento e nella società accetta di non distinguere tra reato e peccato e fa dei propri valori religiosi un principio assoluto non solo per sé medesimo, ma per tutta la società.
Ma, ancor più, indigna chi, nel medesimo Parlamento e nella politica, sottovaluta questo processo integralista in atto e lo tratta alla stregua di ogni altra bagarre politica del momento, che presto passa e presto si dimentica e traduce mentalmente in possibili voti in più o in meno la partecipazione al family day.
*segretaria confederale Cgil

Repubblica 4.4.07
Le false risposte del diritto naturale
di Gustavo Zarebelsky


Forse, la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. La filosofia, con la sua presunzione, ha distrutto la possibilità di ragionare così semplicemente. Ma più della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in cui perfino la "natura" dell´essere umano può essere il prodotto del suo "artificio" - potenza della genetica - ; il tempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l´oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana quella distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare così: anzi, ci aggrappiamo ancor di più a quella distinzione, come a un´assicurazione. Forse, ne abbiamo un bisogno "naturale", per non cadere preda della vertigine di un soggetto che, al tempo stesso, è oggetto di sé stesso; un soggetto avvolto e sprofondato così in un circolo vizioso esistenziale. Il pensiero religioso vede in ciò la bestemmia dell´uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare l´unico che, secondo un´interpretazione del libro dell´Esodo (3, 1-6), può dire di "essere colui che è" in forza solo della sua potenza.
Non stupisce dunque affatto che proprio quando è diventato insostenibile, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni umane, una norma che assegna al naturale il primato sull´artificiale, sinonimo di inganno, abuso, adulterazione.
Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie - diceva già Aristotele -, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi.
La storia del "diritto naturale" è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per morto. Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un momento di rinascita: quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro mutevoli convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno può alterare.
Così si fa da parte della Chiesa cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all´antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto, ecc. In questo modo, essa viene a proporsi come grande rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo- si dice - moralmente sfibrato dal famigerato "relativismo", sinonimo di puro edonismo, scetticismo antirazionalista, nascosto sotto i panni accattivanti della tolleranza.
Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l´avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?
Sennonché, qui incominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l´umanità intera in nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Al contrario, è il terreno dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la "natura" alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera del demonio. I primi ameranno la natura, come Dio ha amato il creato (Gen 1, 31: "E Dio vide che era cosa buona, molto") e trarranno la convinzione di dover rispettarla così com´è; i secondi la odieranno come cosa corrotta e faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua bassezza. Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la natura è madre benefica e per altri, matrigna malefica. La visione dell´illuminismo protoromantico era quella dell´armonia della vita naturale, guastata dalla civiltà, ma Giacomo Leopardi nutriva ogni genere di disperazione verso quella che "per costume e per istinto è carnefice impassibile e indifferente della sua propria famiglia, de´ suoi figliuoli e, per così dire, del suo sangue". "È funesto a chi nasce il dì natale", canta alla luna il pastore errante dell´Asia: e chi, nella sua vita, non ha mai pensato così?
Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici, il regno dell´uguaglianza e della dignità umana. I Padri della Chiesa svilupparono questa visione nell´idea di uguaglianza e fratellanza dei figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D´altra parte, Aristotele considerava la schiavitù conforme alla natura. Per i sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo Platone, "la natura vuole padroni e servi", la giustizia naturale essendo "l´utile del più forte". Spencer, il filosofo del cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava che solo la natura assicura i necessari ricambi. Se lo Stato interviene a favore dei bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere - a danno della collettività che li deve poi mantenere - i soggetti più deboli della razza umana", i "parassiti". Questa idea, applicata non agli uomini ma alle razze, ha permesso perfino di affermare che i razzisti sono i veri difensori del diritto naturale.
Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall´interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere differenti, spesso antitetici. Si discute, in questi tempi, di eutanasia. Il papa Benedetto XVI ripete instancabilmente la sua convinzione: "Nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principi che regolano il giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale"´ (12. 2. 2007). La "Esortazione apostolica" Sacramentum Caritatis del 15 marzo, ribadendo la "Nota" della Cei del 28 marzo, richiama ulteriormente il valore vincolante della "natura umana": insomma, un martellamento. Ma, leggiamo che cosa diceva un opuscolo nazista del 1940, dal titolo Du und dein Volk ("Tu e il tuo popolo"), in tema di "eliminazione dei malriusciti" e delle "razze decadenti": «Dovunque la natura sia rispettata, le creature che non possono competere con i più forti sono eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l´esistenza questi individui sono distrutti e non possono riprodursi. Questa è chiamata selezione naturale [...] Nel caso degli esseri umani, il completo rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili ed inaspettati. Un chiaro esempio è l´incremento delle malattie genetiche. In Germania, nel 1930, c´erano circa 150.000 persone in istituti psichiatrici e circa 70.000 criminali in carceri e prigioni. Essi erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un´enorme spesa da parte della società», che si traduce in danno per la parte sana, tanto più perché li si lascia liberi di riprodursi. "La carità diventa una piaga", concludeva quel testo, ispirato alla natura.
Noi leggiamo con orrore queste parole, ma non in nome della natura tradita; in nome invece della cultura, della civiltà, dell´umanità o della religione: tutte cose che non hanno a che vedere con la natura, intesa nella sua dura realtà; appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità. Che sia così, che la natura possa essere apprezzata solo dal punto di vista di qualche visione del mondo e non dal punto di vista di una pretesa essenza meramente esistenziale dell´essere umano, è riconosciuto nella relazione che il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio di quest´anno) al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall´Università del Papa, l´Università lateranense. In un passo finale, si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o sociologico bensì, con Tommaso d´Aquino, teologico. Che cosa è l´essere umano dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un´intuizione metafisica delle finalità dell´esistenza, un´intuizione di fede : "La realizzazione pratica dell´ethos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia". Fides et gratia, dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c´è di più "innaturale" di questa visione della natura, dal punto di vista di chi - legittimamente, si presume ancora - non è credente?
Ecco, come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l´aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. Al più, povero lui, per il suo bene gli si potrà proporre, cieco com´è di fronte all´autentica natura umana, la peregrina e umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la Chiesa stessa dice di Dio. Senza però - lo si è visto - che ne sia davvero capace, privo come è di grazia e fede.
Non c´è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare così i drammatici problemi dell´esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Un grande giurista del secolo scorso, cattolico per giunta, ha scritto che evocare il diritto naturale nelle nostre società, dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse, significa lanciare un grido di guerra civile. Aveva ragione. Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando, come di recente, si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questo incitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, è sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l´ardire di porsi unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione. La democrazia è sempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede questo potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e unilateralmente.
La rinascita del diritto naturale corrisponde a un´esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordare con facilità: che non tutto ciò che è materialmente possibile sia anche moralmente lecito. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia scorrono senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possa affermarsi. Ma non è la natura, l´ancora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa, ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La legge naturale che ne deriva è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: una legge dalla quale la Chiesa sembra allontanarsi vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura che sollevano sì dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della libertà.

Repubblica 4.4.07
Quando le tonache scendono dal pulpito
di Filippo Ceccarelli


«Questa sacra Repubblica pretina, dai muri nuovi o almen pare a vederli»... E in effetti, a quasi sessant´anni dal salace epigramma di Curzio Malaparte, e dalla vittoria nella crociata elettorale del 18 aprile 1948, preti in piazza se ne sono continuati a vedere. Gesuiti antimafia in Sicilia, lefebvriani nelle manifestazioni del Msi e poi della Lega, beati costruttori di pace sotto le bandiere arcobaleno; e don Gallo contro la repressione, don Benzi contro la prostituzione, don Vitaliano a Genova o al Gay Pride, don Gelmini a salutare la legge sugli stupefacenti con roghi festosi.
Non solo, ma se si estende il concetto di piazza al suo prolungamento elettronico, e cioè alla televisione, ecco che lì dentro preti e suore abbondano, spesso cantano, a volte ballano, di norma offrono al pubblico consigli o ricette, occhiatacce e speranze.
Comunque partecipano, ognuno nel modo che gli è più consono, al discorso pubblico: e valga per tutti il più gettonato, don Mazzi, e un po´ anche quella trasmissione significativamente intitolata «Mazzi vostri». A seguire il piccolo schermo con qualche diligenza, d´altra parte, c´è pure un prete dei Vip, don Santino Spartià, a cui le Iene fanno sempre tòc-tòc sulla testa, con le mani, fino al punto che quando lui le vede avvicinarsi se lo fa da solo, tòc-tòc. Questo per dire che gli ecclesiastici non sono mai incompatibili alla piazza, nelle sue varie tecno-accezioni.
E però, nel senso più strettamente ed eminentemente politico, per trovare un momento che richiami la magnitudine di sacerdoti attesi a San Giovanni per il Family day il prossimo 12 maggio, non si può che richiamare l´Italia «pretina» di Malaparte. Che poi era l´Italia uscita dal fascismo, e in questo senso si può anche rievocare quell´altro fulmineo epigramma dedicato da Mino Maccari all´ideale passaggio di consegne tra l´orbace alla tonaca: «Della camicia nera i tristi eredi/ se la sono allungata fino ai piedi».
Nell´immaginario letterario erano gli anni di don Camillo, che suonava le campane durante i comizi del sindaco comunista Peppone. Ma nella realtà socio-politica era la Chiesa che si impegnava in prima persona alla grande mobilitazione dei Comitati civici contro il comunismo. La «crociata», come la invocava Pio XII prima dello scontro elettorale decisivo: «Con Cristo o contro Cristo». E´ lì, è in quel momento, è in quel clima che le somiglianze con l´oggi cominciano a impressionare.
C´era allora un fervido movimentismo ecclesiale, una indubbia gagliardia piazzaiola. A Bologna, con la benedizione del cardinal Lercaro, furono anche sperimentati con qualche efficacia i cosiddetti «Frati volanti», spediti in gruppo nei comizi del Pci con l´obiettivo di confutare rumorosamente le tesi dell´oratore. Indimenticabile «caposquadra» Frate Tommaso Toschi, sempre pronto al contraddittorio: «Qualsiasi mezzo era buono per difendere la Chiesa - ha ricordato in tv qualche anno fa - bisognava controbattere colpo su colpo». Non di rado ci scappava la zuffa, e non è che questi religiosi, questi francescani per l´esattezza, si tirassero sempre indietro.
I frati volanti avevano anche delle «cappelle mobili», in pratica dei camioncini attrezzati in modo da poter celebrare messa, con cui battevano le campagne emiliane. Secondo la testimonianza di chi dopo tanti anni ha ricostruito la loro storia, si erano assunti il compito di segnalare non solo il peccato, ma anche i peccatori; per cui appiccicavano sulle case delle coppie non sposate in Chiesa delle strisce di carta con le parole: «Qui abitano dei concubini».
Altri tempi, ma fino a un certo punto. Era l´Italia della Madonna Pellegrina, sacra immagine itinerante d´importazione francese che le varie diocesi italiane avevano arruolato con scopi elettorali: «All´imbrunire, l´ora più suggestiva della giornata - la descrive Anna Bravo ne I luoghi della memoria (Laterza, 1996) - i fedeli arrivano in corteo, le donne divise dagli uomini, i bambini dagli adulti, gli sposati dai non sposati». L´Italia in cui circolava quella specie di santino - «Il messaggio della Regina» - che Edoardo Novelli riporta nella sua storia della comunicazione, La turbopolitica (Rizzoli, 2006), e che oggi sembra uno scherzo, ma a quei tempi non lo era affatto: «Quando il voto avrai tu dato/ allo Scudo ch´è Crociato,/ sentirai dentro del cuore/ che non hai commesso errore». E che così si conclude: «Stai sicuro che ad Alcide/ la Madonna gli sorride,/ che votar per lui ti dice/ la Potente Ausiliatrice».
Davvero lontano allora, il Concilio; così come un po´ comincia a sembrarlo oggi, per una Chiesa che sembra tornata in guerra con il mondo. Così il pensiero torna all´Italia di Luigi Gedda e dei baschi blu dell´Azione cattolica che cantavano «Siam gli araldi della Fede»; ai «comandamenti elettorali in otto punti» dell´arcivescovo di Genova Giuseppe Siri; ai manualetti «Sorgere e votare per la Croce di Cristo»; alla calda oratoria - «quasi sacra» la definisce Andreotti con un certo distacco nei suoi Diari - di padre Riccardo Lombardi, detto «il microfono di Dio». Per primo il tonante gesuita immaginò e mise in pratica un collegamento tra chiese e piazze da realizzarsi attraverso impianti telefonici e altoparlanti. Per la «Predicazione della Crociata», a Roma, furono connessi 200 location. Sono passati poco più di sessant´anni. Insieme troppi e troppo pochi.

Il Riformista 4.4.07
SINISTRA DS. LAVORIAMO ALL’UNITÀ DELLA SINISTRA 
Buon lavoro ai compagni che sbagliano
Noi non faremo la riserva sterile del Pd
DI CARLO LEONI


L'appello che, come mozione «A sinistra per il socialismo europeo», abbiamo rivolto a Piero Fassino qualche giorno fa, propone una pausa che consenta una riflessione comune sull’immediato futuro.
Questa proposta non nasce certo dal fatto che si ignorano o si sottovalutano i risultati del congresso. I dati li conosciamo: la mozione presentata dal segretario ha vinto con ampio margine e ha ora la piena legittimazione ad andare avanti e a realizzare il proprio progetto politico. Nessuno mette in discussione l’esito di un processo democratico, che noi per primi abbiamo fortemente voluto e che, semmai, avrebbe dovuto svolgersi prima. Prima, cioè, che il gruppo dirigente dei Ds desse il suo assenso all’unificazione con la Margherita, senza un mandato degli iscritti. Ma questa è storia passata: svolti i congressi, la maggioranza può andare avanti. Il problema che noi abbiamo posto è di natura squisitamente politica: si stanno per superare i Ds, l’Italia sta per diventare l’unico paese europeo privo di una grande forza autonoma di sinistra e socialista. E i nodi politici dirimenti non sono stati ancora sciolti in nessun modo.
Primo: il Pd nascerà senza aver deciso preventivamente la propria collocazione internazionale. Considerare questo tema, nell’era della globalizzazione e delle grandi sfide mondiali, cosa da poco è, a mio avviso, un clamoroso abbaglio culturale, oltre che un grave errore politico. Secondo: sul tema della laicità dello Stato - mentre viene sferrato un attacco quasi senza precedenti a questo principio costituzionale - la confusione nel nascente Pd regna sovrana. Noi Ds eravamo a Piazza Farnese a difendere i Dico (un disegno di legge del governo Prodi), non pochi esponenti della Margherita dichiarano di voler aderire al Family Day, contro gli stessi Dico. E tra pochi mesi dovremmo essere non più solo alleati, ma membri dello stesso partito.
Si dice che il Pd andrà oltre la cultura del socialismo europeo. Oltre? Sui temi dei diritti civili e della libertà delle persone, la fusione tra il nostro partito e la Margherita costringerà - sta già costringendo - i Ds a una mediazione inevitabilmente più arretrata rispetto alle posizioni di qualunque partito di sinistra e socialista. Altro che modernità. Quell’operazione innovativa che tanti avevano intravisto nella suggestione del Pd si è ridotta alla mera fusione tra due partiti. I quali, piuttosto che affrontare il difficile e coraggioso impegno di rinnovare se stessi, hanno scelto semplicemente di mettere insieme la propria forza elettorale.
A Orvieto c’erano Ds e Margherita: non altri. I Ds e la Margherita hanno nominato gli estensori del Manifesto. Sono sempre e solo questi due partiti a svolgere i propri congressi e a decidere la data per la fusione. Non c’è altro. E dire che questo è solo l’atto iniziale, equivale - come ha scritto efficacemente Achille Occhetto sulle pagine del Riformista - «all’apertura dei giardini della reggia ai cittadini, quando tutto è già stato deciso».
La delusione per tutto questo si sta facendo sentire, anche tra i sostenitori della prima ora del progetto del Pd. E la distanza tra il Grande Ulivo del ’96 - nel quale ho molto creduto - e quest’esperienza è enorme, non solo quantitativamente. Vale dunque la pena di chiudere i Ds per ottenere così poco? Dividere e lacerare la nostra comunità per realizzare un’esperienza tanto precaria? Per questo abbiamo detto «fermatevi, raccontiamoci la verità e ragioniamo insieme». Ma fino a ora si è risposto, al contrario, con l’impegno ad accelerare rispetto ai tempi già stretti indicati nella mozione Fassino.
Non trovo giusto che si sia andati nei congressi di sezione a dire «Non preoccupatevi, abbiamo due anni di tempo, fino al 2009, per verificare»; e poi, una volta ottenuto il consenso, comunicare invece che già all’inizio del prossimo anno, cioè tra pochi mesi, i Ds non ci saranno più e nascerà il Partito democratico. Accelerare vuol dire che non si farà nessuna vera fase costituente, nessuna apertura esterna reale. A decidere tutto saranno gli attuali gruppi dirigenti dei due partiti. Può apparire forse rassicurante, certo: ma tutto questo non è né innovativo, né democratico.
Anche se le parole fino a oggi pronunciate da Fassino e da D’Alema sembrano chiudere ogni spiraglio, io continuo a sperare fino all’ultimo momento utile - fino, cioè, al congresso nazionale - che qualche novità intervenga, che si raccolga questo nostro appello. Certo che ha vinto la mozione Fassino, chi lo mette in dubbio? Ma il fatto che circa un quarto dei tanti che hanno votato nei congressi di sezione abbia espresso contrarietà o forti dubbi non conta proprio nulla? No, evidentemente. Conta talmente poco da far dire «Noi andiamo avanti come se voi non aveste detto nulla. Ma seguiteci e fate la minoranza (la minoranza, sia chiaro) nel futuro partito».
Abbiamo già detto con chiarezza che questo ruolo non ci convince e non ci appassiona. Che non siamo disponibili. Non ci convince perché sarebbe una collocazione del tutto inutile, improduttiva. Non solo per noi, ma per il centrosinistra italiano. Una riserva sterile. Saremmo in pochi e poco rappresentativi, perché comunque molti compagni faranno altre scelte. Dentro un partito nel quale non crediamo e, proprio per questo, impegnati solo in una funzione di freno, di intralcio, di interdizione. Ecco, sarebbe solo l’autotutela di una nicchia politica: non credo servirebbe neanche al Partito democratico.
Sarebbe meglio, questo ci siamo detti, metterci al servizio di un’idea più difficile e più ambiziosa. Lavorare, per tutto il tempo che ci vorrà, a un processo di rinnovamento e di unità nella sinistra italiana, per dare vita a una forza più grande e più innovativa di quelle attuali, legata al socialismo europeo. Una forza autonoma della sinistra di governo, alleata del Partito democratico, in un assetto del centrosinistra più razionale e più coeso di quello presente, così frammentato e così rissoso. Non sarebbe meglio per tutti? Io penso di sì.
Continuo dunque a sperare in un ripensamento, in una riflessione aggiornata e più matura. Che dia a noi e ai compagni della mozione Angius quelle risposte fin qui negate. Ma dico onestamente che se il Pd dovesse nascere, sebbene io non ne farò parte, non gli augurerò di deragliare, di andare a sbattere: perché mi stanno a cuore il centrosinistra e la tenuta della politica democratica italiana. Augurerò buon lavoro alle compagne e ai compagni che - secondo me sbagliando - sceglieranno quella strada. La cosa migliore da fare sarebbe tenere e rinnovare i Ds. Ma se questo sarà proprio impossibile, dalla nostra storia e dalla nostra esperienza politica vorrei che emergano non una fusione e una resa, non un accorpamento e una scissione: ma due processi costituenti, entrambi benefici per il centrosinistra e la democrazia italiana.
La sinistra non può ridursi né a essere a mala pena la corrente di un partito (così non è in nessun paese europeo), né una testimonianza di fede personale (del tipo «Ovunque io vada, resterò sempre di sinistra!»). La sinistra non può neanche essere un pulviscolo di formazioni residuali in conflitto tra di loro, perché è proprio questo uno dei fattori della crisi italiana. Serve unità e servono novità: culturali, prima ancora che politiche. Su questo avrebbero dovuto e dovrebbero impegnarsi i Ds. Se i Ds non ci saranno più, qualcuno si prenderà il carico di contribuire - senza spocchia né arroganza, ma con necessaria determinazione - a introdurre questa novità nel panorama politico italiano.

Vicepresidente della Camera, sinistra Ds

Unita.it 4.4.07
La piazza di Dio
di Bruno Ugolini


Era ora. Non se ne poteva più di questo silenzio sociale. Tacciono I metalmeccanici, i tessili, gli alimentaristi, gli elettrici, i braccianti, i pensionati, gli invalidi, i parenti dei morti sul lavoro, quelli tartassati del fisco direttamente sulle buste-paga, quelli che non hanno diritti nemmeno quello di scioperare o andare in ferie. E' da molto tempo che non manifestano. Forse si trovano bene così. Stanno zitti e buoni. Ora però tutto cambia. La Santa Madre Chiesa ha preso in mano le redini della protesta sociale. Scende in piazza. Ma che cosa inquieta questi uomini di preghiera trasformati in agitatori sociali? I contratti di lavoro che non vengono rinnovati? La media giornaliera dei morti in fabbriche e cantieri? No, l’obiettivo è impedire l'oscura e terribile minaccia dei Dico. Cardinali e monsignori sono preoccupati per questi poveri di spirito chiusi in coppie libertine. Non s’interessano dei poveri di pane e diritti. Sono i nuovi sindacalisti, in abito talare, contro il peccato dell’amore privo di tutti i crismi. Fra poco faranno staccare anche i peccaminosi lucchetti simbolici appesi dagli adolescenti a Ponte Milvio, in quel di Roma. Simboli del demonio. Hanno scatenato una moderna crociata contro il dilagare delle convivenze, magari anche tra persone dello stesso sesso. Concubini senza ritegno che vorrebbero perfino tutele legali, senza nemmeno pagare le spese spesso spropositate delle cerimonie matrimoniali. Sarebbe anche un colpo per le finanze dei poveri parroci. Non si meravigliano della mercificazione delle carni che imperversa in Vallettopoli o nel dilagare dell'affarismo politico. Oppure di situazioni imbarazzanti come quelle dei centri d’accoglienza dove si ammassano gli immigrati nelle metropoli. Dio non abita lì.

Repubblica 4.4.07
Lo psicologo è morto a Palo Alto. Aveva 85 anni
Watzlawick: se le idee si ammalano
di Umberto Galimberti


L'idea di una terapia che cambia non guarisce
Famose le sue "Istruzioni per rendersi infelici"

Paul Watzlawick, morto ieri nella sua casa di Palo Alto in California all´età di 85 anni, è lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero e quindi a sollevare le tematiche psicologiche al livello che a loro compete, perché ad «ammalarsi» non è solo la nostra anima, ma anche le nostre idee che, quando sono sbagliate, intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. E proprio Istruzioni per rendersi infelici, che Feltrinelli pubblicò nel 1984 facendo undici edizioni in due anni, è stato il libro che ha reso noto Watzlawick in Italia al grande pubblico.
Nato a Villach, in Austria, nel 1921, Watzlawick nel 1949 ha conseguito all´Università di Venezia la laurea in lingue moderne e filosofia. L´anno successivo prese a frequentare l´Istituto di Psicologia analitica di Zurigo dove nel 1954 conseguì il diploma di analista. Dal 1957 al 1960 ottenne la cattedra di psicoterapia presso l´Università di El Salvador e dal 1960 si trasferì al Mental Research Institute di Palo Alto dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra «immagine» del mondo, spesso dissonante con la «realtà» del mondo.
Le tesi centrali che sono alla base del pensiero di Watzlawick sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell´individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.
A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama «paradossale». Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare «follia». Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio-Ubaldini, 1971) non si limita a un´interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. «Paradossalmente» è proprio con l´iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la «prescrizione del sintomo» e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.
Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come «guarigione», ma come «cambiamento» a cui ha dedicato Il linguaggio del cambiamento (Feltrinelli 1980), Il codino del Barone di Münchhausen (Feltrinelli 1989) e, con Giorgio Nardone L´arte del cambiamento (Ponte alle Grazie, 1991). Secondo Watzlawick sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un´altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall´emisfero cerebrale sinistro che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l´attività dell´emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde.
Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull´emisfero destro perché in esso l´immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell´immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica.
La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita la realtà non può che essere «scoperta». No, dice Watzlawick ne La realtà inventata (Feltrinelli, 1988). Il costruttivismo, che è alla base della sua concezione sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un´interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l´esperienza. La realtà non verrebbe quindi «scoperta», ma «inventata».
Da queste invenzioni nascono «stili di vita» che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Con molti esempi Watzlawick mostra nei suoi libri come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere nuove «realtà». E così la psicologia incomincia a respirare. Oggi a raccogliere questo respiro è la consulenza filosofica che spero annoveri presto Watzlawick tra i suoi precursori e, sulla sua traccia, approfondisca quella terapia delle idee che, inosservate dalla psicologia, sono spesso la causa delle sofferenze dell´anima.

Avanti! 4.4.07
RÜDIGER SAFRANSKI, STORIA DEL MALE NELLA CULTURA OCCIDENTALE DALL’ANTICHITÀ AD OGGI
Quel vuoto fuori e dentro di noi
di Elio Matassi


Il “male” è solo un nome per designare ciò che ci minaccia: caos, violenza, barbarie, il vuoto fuori e dentro di noi. Personaggio chiave nel dramma della libertà umana, il male è una possibilità di tale libertà, anzi ne incarna esattamente il prezzo, non solo la società, ma ogni uomo è a rischio.
La riflessione sul male può attraversare i grandi miti, le religioni, l’intera storia della cultura e della politica: il peccato originale, Caino e Abele, Giobbe, Prometeo; i tentativi dell’antichità classica e del cristianesimo di fornire una risposta al problema: Platone ed Agostino; le strategie di arginamento, da Hobbes a Gehlen; i vani progetti tesi a migliorare l’uomo dall’illuminismo in poi; quella reversibilità tra filosofia della storia ed antropologia che ha caratterizzato l’illusione dell’idealismo classico tedesco; i ripetuti tentativi di costruire la torre di Babele. Il fascino sinistro esercitato dal male sull’arte, nella tragedia greca, in Sade, Baudelaire e Conrad. L’esperimento nichilistico di Nietzsche, Hitler, ossia la cupa follia del Novecento divenuta realtà. Una ricostruzione di questa avvincente storia del Male è quella, pubblicata di recente, da Rüdiger Safranski, “Il Male. La riflessione nella cultura occidentale dall’antichità ad oggi”, (Milano, Longanesi, 2006, 310 pp., 22,00 euro); Safranski è noto al grande pubblico come grande divulgatore e biografo di alcune tra le più rilevanti figure della filosofia tedesca da Schopenhauer, a Nietzsche e Heidegger. Il filo conduttore di tale ricostruzione sta nella stringente correlazione fra dimensione del male e libertà, il “prezzo della libertà”: “Il male non è un concetto, bensì un nome per designare la minaccia che la libera coscienza si trova ad affrontare, o che questa può arrecare ad un altro ente. Essa se la trova di fronte là dove la natura si preclude alla sua richiesta di senso: nel caos, nella contingenza, nell’entropia, nel mangiare e nell’essere mangiati; tanto nel vuoto dello spazio siderale quanto nel proprio io, il buco nero dell’esistenza. E la coscienza è capace di scegliere l’efferatezza, la distruzione. Le ragioni di ciò risiedono nell’abisso che si spalanca dentro l’uomo” (p.8). Il percorso comincia con alcune cosmogonie, con dei miti cioè che raccontano le catastrofi degli inizi e la nascita della libertà (capitolo I). Ma è poi capace l’uomo, in cui si sveglia la coscienza della libertà, di vivere secondo se stesso e fare da sé? Il pensiero antico ritiene di si (capitolo II), quello cristiano no. Il caso di Agostino dimostra (capitolo III) che la questione non è il vincolo morale, bensì se l’uomo sia in grado di serbarsi alla propria sete di trascendenza. Il tradimento della trascendenza, la trasformazione dell’uomo in un essere ad una dimensione sono per Agostino il vero male, il peccato contro la Spirito Santo. A questa concezione del mondo aderiscono anche Schelling e Schopenhauer (capitoli IV e V). Ambedue spiegano: chi rinnega il bisogno metafisico restringe drammaticamente le potenzialità umane abbandonandosi a conflitti privi di senso per l’autoaffermazione. Ma com’è possibile far si che l’uomo non si rinneghi? Come è possibile proteggerlo da se stesso? Agostino confida nella santa istituzione della Chiesa. Ma quand’anche il rapporto con Dio si dissolvesse, la fede nelle istituzioni può egualmente sussistere, come mostra il caso di Gehlen (capitolo VI). Le istituzioni danno alle concorrenze umane durevolezza, stabilità e limiti. Ed i limiti sono importanti perché nel dramma della libertà ha un gran ruolo anche la volontà di distinguersi. Distinguere significa tracciare dei limiti senza confine. Con la lotta per la distinzione e per i confini hanno inizio i rapporti elementari di inimicizia (capitolo VII). Noi e gli altri, l’impero ed i barbari: questa partizione condiziona la dinamica della storia, che è quindi anche una storia delle inimicizie. Ma anche il sogno dell’unione pacifica del genere umano è antico (capitolo VIII). Ce lo racconta la storia della fallita costruzione della torre di Babele. Kant ha sottoposto questo sogno all’esame della ragione: bisognerebbe, dice attenersi all’idea dell’unione pur senza dimenticare la sua distanza dalla realtà. Rousseau, invece, ha sognato con grande passione (capitolo IX). Egli immagina la società sotto forma di una grande comunione; siccome però l’altro resta sempre l’altro, l’aspirazione all’unità può repentinamente rovesciarsi nella comunione di essere circondato da nemici. Così è accaduto a Rousseau, che non ha accettato la sfida della pluralità. Il contrario ha fatto la tradizione del pensiero liberale, il cui programma contro il male suona così: non si possono migliorare gli uomini, bisogna invece investire nelle strutture (capitolo X). Non l’indole, bensì la natura dei loro legami reciproci deciderà il buono o il cattivo svolgimento della storia. Gli uni puntano sul mercato e sulla divisione dei poteri, gli altri sui rapporti di produzione. Ma non vi è dubbio che in entrambi i casi si sottovalutino i rischi della libertà. Vi sono abissi nei quali gli eccessi immaginari del marchese di Sade ci fanno spingere lo sguardo (capitolo XI). Il caso di Sade ci aiuta a scoprire quel male che, volendo se stesso, finisce per volere solamente il nulla. L’estetica del terrore ha poi esplorato quel nulla seducente e minaccioso (capitolo XII e XIII), finchè poi con Nietzsche il nichilismo perviene a perfetta consapevolezza facendo della volontà di potenza e del lavoro sul “materiale umano” il senso della “politica in grande” (capitolo XIV). Con Hitler la cupa follia del secolo si è fatta sanguinosa realtà (capitolo XV). Hitler rappresenta l’estrema caduta dei freni inibitori nell’età moderna. Da quel momento nessuno può più ignorare quanto sono profondi gli abissi della natura umana. Allorché si è smesso di credere in Dio, si è cercato un surrogato credendo nell’uomo. Il penultimo capitolo, dedicato a Giobbe (capitolo XVI), rintraccia nel suo caso un tipo di devozione che fa riflettere: devozione infondata e proprio perciò corrispondente all’abisso senza fondo dell’universo, che rivela altresì quale strana cosa sia la fiducia nell’ordine del mondo (capitolo XVII). Un percorso da cui si evince chiaramente che il male, in un modo o nell’altro, è sempre sulla cresta dell’onda.

martedì 3 aprile 2007

l'Unità 3.4.07
Welby, salviamo il dottor Riccio
di Furio Colombo


Ci sono molte ragioni - umane e civili - per non dimenticare il caso di Piergiorgio Welby, la sua sofferenza, la sua residua ma forte voce che non ha smesso richiedere agli esseri umani che gli stavano intorno di intervenire e di porre fine, per dovere morale e secondo la legge, al suo disumano dolore.
Qualcuno lo ha fatto. Lo ha fatto l’appello ostinato dei radicali, di Marco Cappato, a cui in molti ci siamo uniti, medici, giuristi, politici, cittadini di tutta Italia.
Uno di loro, uno di noi, il medico anestesista Mario Riccio, lo ha fatto.
Seguendo scrupolosamente il poco che le norme italiane indicano e consentono per rispettare la dignità e la volontà di una persona che non può più soffrire, il Dottor Riccio ha fermato la macchina-tortura che stava comunque portando Welby alla morte, però più lenta, più indecorosa, capace solo di alimentare un dolore sempre più grande.
Ora - nonostante la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale di Roma, il Tribunale della stessa città annuncia di voler processare il medico e lo accusa di omicidio di persona consenziente, cioè di reato gravissimo. Non diremo che la decisione annunciata - se presa - avrà un fondamento teologico e non giuridico, per il rispetto sempre dovuto alla Magistratura.
Diremo che è tempo per tutte le persone guidate da un senso di umanità e solidarietà di essere presenti, attive e impegnate a sostenere due cause: la dignità del malato Welby, che aveva chiesto a lungo e invano - come in un film dell’orrore - che si ponesse fine alla sua sofferenza.
E l’atto di umanità da medico e da cittadino, compiuto a nome di tutti noi, dal medico Riccio, in base alla sua conoscenza, competenza e coscienza.
Chi di noi ha provato gratitudine - e anche riscatto per la propria incapacità di accorrere in aiuto - quando il Dottor Riccio è intervenuto, adesso ha l’impegno di essergli accanto e sostenerlo.
È giusto scrivere queste cose sul giornale di quella sinistra che della solidarietà, del soccorso, della dignità, del rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre fatto la sua bandiera.
Propongo al nostro giornale di aprire una sottoscrizione: un fondo di difesa per sostenere al livello più alto le ragioni umane morali e civili che hanno guidato il Dottor Riccio nella sua decisione e nel suo intervento che ha posto fine al dolore.
In un mondo impegnato - anche con le sue migliori risorse tecnologiche - a creare dolore, occorre difendere Riccio ma anche il simbolo alto di ciò che ha fatto. Contribuisco a questo appello con 1000 euro. Ma anche un solo euro sarà contributo di testimonianza dovuta. È una buona, nobile, umanissima causa in cui nessuno deve tacere.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 3.4.07
Boselli: noi socialisti guardiamo anche al Correntone
Il congresso di Fiuggi avvierà «una costituente laica e socialdemocratica». La Rnp è rimasta un’alleanza elettorale
di Simone Collini


«UN COMPROMESSO storico formato bonsai non ci interessa», dice Enrico Boselli, che tra dieci giorni aprirà a Fiuggi il quinto congresso dello Sdi proponendo di «aprire il cantiere per far nascere in Italia una grande forza socialista, laica, liberale».
Al congresso di Genova avevate proposto la Casa dei riformisti, quando gli altri al massimo parlavano di federazione. Oggi dite no al Partito democratico: che succede onorevole Boselli?
«Non è la nostra proposta politica che è cambiata. Noi abbiamo sempre considerato con grande attenzione l’idea di creare una nuova formazione che desse al riformismo italiano quella vocazione maggioritaria che solo nel nostro paese non ha mai avuto. Dire che noi siamo contrari al Pd pregiudizialmente è una caricatura. Noi siamo contrari a questo Pd».
Per quali ragioni?
«Perché assomiglia a un compromesso storico formato bonsai, e soprattutto perché ha al proprio interno la Margherita di Rutelli, che da due anni si è distinta per una scelta molto chiara: quella di diventare la forza più proclive a sostenere l’integralismo clericale su tutte le grandi questioni».
Non penserà che in un soggetto che vuole riunire i diversi riformismi possa rimanere fuori un partito come la Margherita?
«Noi abbiamo sempre immaginato una grande forza riformista in grado di superare la divisione tra laici e cattolici, come ebbe a dire Prodi proprio al nostro congresso di Genova. La Margherita ha invece imboccato la strada di essere un Partito popolare un po’ più grande, un partito cattolico, e viene meno quella grande ambizione di contaminare i diversi riformismi, laici e cattolici, che era all’origine del progetto di Prodi. È sufficiente ascoltare le parole di Parisi, che è stato uno dei principali protagonisti di quella stagione, per rendersene conto».
Qual è allora la vostra proposta?
«Aprire il cantiere di una costituente socialista, laica, liberale. Noi sentiamo un vuoto nella sinistra italiana, quello appunto di una grande forza socialista, che verrebbe reso ancora più grande dalla nascita del Pd. La nostra proposta non è rivolta soltanto a coloro che facevano parte del Psi o del Psdi. Lavoriamo per la fine della diaspora, ma dovremo aprire oltre questi confini».
È per questo che lei cita nella sua mozione congressuale Mussi e Angius?
«Li ho citati perché parlano esplicitamente della necessità di una forza socialista, legata al Pse».
Qualcuno potrebbe accusarla di fomentare una scissione, non crede?
«No, non lo credo proprio. Noi al massimo le abbiamo sempre subite, le scissioni, mai fomentate. E non è certo per opera nostra che si può determinare una scissione nei Ds».
Però siete interessati ai movimenti delle minoranze della Quercia.
«Non siamo indifferenti, questo è chiaro. Staremo a guardare cosa succede».
Su diversi argomenti non siete però proprio sulle stesse posizioni, voi e la sinistra diessina. Potrete lavorare in uno stesso cantiere?
«Noi pensiamo ad un dialogo, poi quello che accadrà lo vedremo. E devo dire che trovo un po’ curioso che mi venga rimproverato questo dialogo con il Correntone Ds, perché chi lo ha fatto è anche chi dice ogni giorno che senza Mussi non può nascere il Pd. Se Mussi è fondamentale per il Pd non vedo perché io non debba discutere con lui».
Avete invitato Mussi e Angius al vostro congresso?
«Come abbiamo invitato leader e personalità di tutti i partiti e anche Prodi, Rasmussen, Schulz».
La minoranza Ds vuole lavorare alla riunificazione della sinistra, progetto su cui lavora anche Rifondazione, che parla di attualità del socialismo. Pensa che possa essere un cantiere unico il vostro e quello del Prc?
«Non ho chiaro il carattere del cantiere proposto da Rifondazione. Quel che è certo è che per me quando si parla di socialismo si parla di partiti socialdemocratici e socialdemocrazia».
Questo congresso segnerà la fine della Rosa nel pugno?
«Considero un’esperienza importante quella della Rosa nel pugno, perché un anno e mezzo fa abbiamo indicato alla sinistra italiana e anche al paese la necessità di riscoprire e difendere alcuni valori fondamentali, a cominciare dalla laicità dello Stato. Oggi i punti programmatici della Rnp sono entrati quasi completamente nell’agenda politica del paese e anche del governo. Questo lo rivendico come un risultato importante dell’alleanza con i radicali».
Però la Rnp non è diventata un partito.
«Questo è vero. Oggi c’è un gruppo parlamentare, c’è una delegazione al governo, ma non è diventata un partito».
Perché, secondo lei?
«Per una ragione molto semplice e anche molto vera: c’è un modo di fare politica molto diverso tra socialisti e radicali. Non siamo riusciti a trovare un punto comune, per questo è rimasta un’alleanza elettorale».

l'Unità 3.4.07
Sinistra e scissioni una storia infinita


COMINCIÒ A LIVORNO Anzi ancora prima con le complesse vicende del Psi primo novecentesco, con le sue espulsioni e le sue scissioni. La storia della sinistra è fatta anche di liti e separazioni. E le riunificazioni non sempre hanno funzionato, anzi. E oggi? C’è molto fair play, più da separazione che da scissione

Con l’arte della separazione la sinistra alla fine sembra avere imparato a convivere. Può darsi perché troppo costose sono state le sue tante rotture del passato. O forse perché, quando sono mutate per tutti le condizioni ideali e politiche dello stare insieme, è bene prenderne atto, senza eccessive demonizzazioni. Le buone maniere, che in fondo oggi accompagnano la diversificazione delle prospettive politiche tra le anime della Quercia, sono il segno dei tempi. La costruzione di altri sbocchi organizzativi per gli eredi dei Ds non attenua la consapevolezza che le delicate alleanze elettorali continuano ad essere cruciali e che c’è un governo da portare avanti se possibile senza inutili scosse.
Eppure il fair play di oggi non ha sempre prevalso nelle storie interrotte della sinistra in Italia. Quando nel ’21 un drappello di giovani comunisti (il più anziano era Bordiga che aveva 32 anni, Gramsci si fermava a 30, e Terracini a 26) abbandonò il Psi si aprirono lacerazioni profonde con rancori che durarono per decenni. Giunto ormai al tramonto della sua lunga esperienza politica, Terracini stupì molti asserendo che in quel lontano gennaio a Livorno fu commesso un errore e nella sostanza aveva ragione Turati. Del resto, lo stesso Pci ebbe bisogno di altre fondazioni rispetto a quella un po’ romantica e settaria del teatro livornese che lo vide divorziare dal rivoluzionario Serrati. C’era dell’assurdo in un addio definitivo a un partito che pure disse no alla guerra imperialista e aveva addirittura votato l’adesione in blocco all’internazionale di Lenin. Una volta Augusto del Noce ha scritto che il vero segreto del successo del Pci nel dopoguerra si trovava nelle pagine di Gramsci. E i Quaderni sono appunto una radicale autocritica sugli esiti catastrofici della crisi italiana risoltasi, contro ogni velleità di rivoluzione alle porte, con il trionfo del capo carismatico. E quando Togliatti lanciò il partito nuovo, più che a Livorno o all’ottobre , per il suo «partito comunista costituzionale», come lo ha definito Sassoon, guardò alla storia del socialismo italiano come a una solida eredità da recuperare.
Il socialismo italiano, appunto. Una storia infinita di abbandoni e drammi. Il suo leader più lucido Turati, veniva dai democratici e scelse di compiere un passo decisivo oltre il radicalismo e verso l’autonomia politica del mondo del lavoro. Fu, tra i capi socialisti, quello più pronto a cogliere la rilevanza di un partito di massa e la centralità del parlamento in una società di massa in ebollizione e bisognosa di un consolidamento democratico. Ma la sua politica modernizzatrice, ispirata all’incontro impossibile con Giolitti («un uomo che ci ha capito» scriveva Treves), non seppe arginare spinte centrifughe che esponevano febbrilmente il partito alla sua destra (con i riformisti di Bissolati e Bonomi espulsi nel 1912 all’indomani dell’impresa libica, o con quelli che ancora nell’ottobre del ’22 uscirono dal Psi) e alla sua sinistra (anarchismo, sovversivismo massimalista sempre all’agguato e portatore, scriveva Turati, «di una vena di ribellione impulsiva e di demagogismo»). Le scissioni caparbie in nome di sacri principi violati appartenevano alla grammatica del socialismo italiano e accanto alle esemplari espulsioni cruente dei reprobi ne hanno scandito la tormentata storia.
Anche all’indomani della liberazione questa tara occulta si è ripresentata con virulenza. A palazzo Barberini la rottura dell’unità socialista si consumò in nome di una sinistra più liberale e moderna, sensibile all’umanesimo marxista e refrattaria all’abbraccio ritenuto mortale con i comunisti in odor di stalinismo.
Agli albori del centro sinistra una nuova pesante cesura intervenne a tagliare le ali del Psi e fu motivata dalla denuncia di un’eccessiva autonomia rispetto ai comunisti e all’Urss (i "carristi" di Lussu, e la sinistra di Vecchietti e Basso furono i protagonisti della rottura). A nulla valse l’aperta avversione di Nenni verso il revisionismo di Bad Godesberg e la sua ripulsa del termine stesso di riformismo che si protrasse fino alla morte. Un partito esposto a mille venti, quello socialista che, quando cercò di riprendere un cammino di aggregazione e di ricucitura di strappi dolorosi, si risvegliò, all’indomani dell’unificazione con Saragat, frastornato dai colpi di una amara sconfitta.
Le ragioni dell’aggregazione di forze omogenee per competere con la Dc all’interno della stessa coalizione di governo, furono demolite impietosamente dall’economia dei consensi. Persino Riccardo Lombardi, che negli anni ’50 guidava una corrente che rivendicava autonomia culturale dal Pci, guardava con una qualche curiosità alla genesi dell’esperienza della sinistra indipendente. Non è stato agevole per il Psi trovare una rotta. Nella stagione di Craxi venne agitato il bastone del duello senza tregua a sinistra, per il riequilibrio dei consensi, e blandita la carota dell’unità socialista, per attutire i colpi entro una prospettiva palingenetica. Il tintinnio di manette ha sbrigato una pratica politica con il codice penale. Negli anni della cosiddetta seconda repubblica scompare di fatto la sigla del Psi e per i socialisti è iniziata solo una piccola storia. Una diaspora senza argini ha proposto anche immagini amare di congressi dei nuovi socialisti che intonavano l’Internazionale a sostegno di Storace o finivano alla resa dei conti con incontrollabili scazzottature.
Anche i tentativi più ambiziosi di rilanciare un suggestivo progetto radicalsocialista sono rifluiti tra fallimenti e recriminazioni. Una nuova costituente si annuncia come occasione per ridefinire una identità socialista non residuale.
Solo il partito nuovo di Togliatti ha saputo proteggersi da questo virus letale delle scissioni. Il segreto del suo successo stava in una riuscita miscela di radicamento sociale (che evitava scivolamenti nel vetero classismo e al tempo stesso con la strategia delle alleanze sociali difendeva dall’estremismo parolaio), di modello organizzativo (che assegnava un ruolo continuativo agli apparati e alle risorse della militanza e alleggeriva il peso dei notabili e degli eletti), di identità (che definiva i confini dell’appartenenza senza affogare gli spazi della cultura politica realista).
Per 40 anni questa creatura togliattiana ha retto, con radiazioni (il Manifesto), arroccamenti, espulisoni (Cucchi e Magnani), abbandoni (Giolitti e molti dei 101 nel 1956) ma senza vere, devastanti scissioni organizzate. Quando però il collasso dei regimi comunisti e la slavina della partitocrazia hanno lesionato l’edificio della repubblica, neanche la giraffa togliattiana è uscita indenne dal disastro. Dalle ceneri del Pci sono emersi, dopo scissioni e battaglie intestine, ben due partiti che riprendono la denominazione e i simboli comunisti. Lo spezzone più grande scaturito dal vecchio Pci, i Ds, hanno recuperato una certa base di massa e hanno svolto un ruolo politico di primo piano negli anni del bipolarismo. E tuttavia la sinistra nel suo complesso stenta ad emergere con le stesse dimensioni delle forze europee. Nelle consultazioni della prima repubblica, la somma dei voti raccolti dal Pci e dal Psi era in media attorno al 40 per cento dei consensi. Oggi tutte le formazioni della sinistra non superano il 27 per cento.
Un problema oggettivo esiste. A Firenze i Ds celebreranno il loro ultimo congresso. L’area del governo è stata raggiunta, ma sulla Quercia ricade ancora una antica maledizione che, a dispetto dei rapporti numerici tra i partiti dell’Unione, preclude a un suo leader la guida della coalizione. Dopo aver svolto la delicata funzione di partito coalizionale, che riesce a mettere assieme porzioni di centro moderato e le sinistre più radicali, i Ds avvertono che la loro storia si è esaurita. Una nuova formazione politica, alla quale si accede in forme individuali, è invocata per unire i diversi riformismi e mettere tutti i contraenti nella condizione di competere per la leadership senza imbarazzanti domande sulle loro identità. La scommessa è quella della "leadership contendibile", come viene chiamata, che gioca tutte le sue carte sulla costruzione di un asse centrale sul quale far ruotare il sistema politico. È evidente che questa operazione, che enfatizza il momento del riassetto del quadro politico (primarie, leadership), lascia spazio a grossi problemi identitari. Un partito democratico, che per molti significa compiere esattamente il passo inverso a quello fatto da Turati nell’800, apre grandi questioni di radicamento sociale. Quanto basta per settori della Quercia per muoversi alla ricerca di nuovi profili della sinistra di ispirazione socialista. Accanto a chi costruisce un nuovo soggetto politico attratto dalla prospettiva della "leadership contendibile" è del tutto fisiologico che emerga chi, con Pasolini, si richiama agli operai «che muti innalzano, il loro rosso straccio di speranza». Un altro progetto, variegate identità, diverse prospettive. Sono piuttosto due mondi che si ritrovano assai diversi uscendo dalla lunga condivisione dell’esperienza in uno stesso partito che rinuncia ad esistere. Due culture diverse si delineano con nettezza. E nel breve periodo seguono sentieri che non sono neppure in concorrenza tra loro.

il manifesto 3.4.07
Il piano B di Rifondazione
di Matteo Bartocci


«Il partito della sinistra europea è una buona base di partenza ma da qui bisogna iniziare un nuovo cammino, e non si tratta di fare un partito o un'altra diavoleria quanto di avere una capacità di iniziativa nei confronti della società». Così, in modo un po' obliquo, Fausto Bertinotti tre settimane fa da Berlino invitava Rifondazione a rimettersi di nuovo in mare aperto. Una navigazione che nelle intenzioni dell'ex segretario dovrà essere a ritmo sostenuto e guardare a tutta la sinistra ma soprattutto al maremoto politico innescato dai delusi del partito democratico: a partire dalla sinistra Ds e dai «socialisti» di Angius ma non solo. «Compagni» fondamentali sono pezzi di sindacato (Fiom e Fp Cgil ma anche tante camere del lavoro) e associazioni cattoliche e non come Arci, Libera o Pax Christi.
Se è in atto un processo dal basso sui beni comuni (vedi l'acqua) o su vertenze «glocal» (Tav o Vicenza) è dall'alto che qualcosa non va, come dimostra la crisi dell'Unione con il suo universo di riferimento a cominciare da movimenti e sindacati.
Come qualsiasi «piano B», la sortita di Bertinotti mira infatti a nascondere le sconfitte dietro le opportunità. La scelta del governo pare non aver convinto il «popolo della sinistra» cui guarda il Prc. Delusione e voglia di astensione che i sondaggi registrano facendo oscillare il partito sotto il 5,8% della camera. Senza contare la dolorosa crisi con i movimenti (bollati a caldo perfino come «antipolitica» dallo stesso Bertinotti dopo i fischi della Sapienza) e le difficoltà del progetto «Sinistra europea», iniziativa ambiziosa, anche sottovalutata nelle sue articolazioni a rete su nodi e per temi, ma finora mai decollata. Se questo è il quadro è quasi inevitabile che la «Se» sia più un punto di passaggio verso un «cantiere della sinistra» che un punto di arrivo.
Si dice che in prima battuta l'ennesima «mossa del cavallo» del presidente della camera non sia stata apprezzata dal segretario, che ne ha discusso con Bertinotti proprio nel volo verso Berlino. Ma dopo la quattro giorni di conferenza di organizzazione a Carrara, è ormai chiaro che il confronto nel gruppo dirigente «collettivo» nato un anno fa è forte ma per una volta non di «linea».
Sulla necessità di un processo di fusione a sinistra tutti d'accordo: nella maggioranza e non solo. A parte la Sinistra critica di Turigliatto e Cannavò, l'area dell'Ernesto (la più ampia delle minoranze del Prc) ha sposato la linea della segreteria. Ma in una platea di quadri come a Carrara è legittimo spirino istinti di conservazione e istanze identitarie. Si spiega così la prudenza di Giordano alla conferenza o nel dibattito pubblico. E' toccato soprattutto a Giovanni Russo Spena, Paolo Ferrero e Alfonso Gianni chiedere di affrettare il passo verso la «rifondazione della sinistra». «Il cantiere non ha davanti a sé tempi biblici», ha precisato Russo Spena. Le divisioni però appaiono più di «acceleratore» che di sostanza.
Ma in politica, si sa, lo scarto in velocità è fondamentale. Tra meno di venti giorni la sinistra Ds abbandonerà il partito democratico al suo destino. Nessuno sa o può dire cosa succederà da qui al 2008. Ma è difficile ed esiziale che tutto rimanga com'è: tre o quattro cespugli - Prc, Pdci, Verdi e sinistra Ds - sotto un Ulivo più grande. Che si voglia un'aggregazione più vasta lo hanno detto, con forme diverse, sia i dirigenti del Prc che quelli del Pdci (ancora in mezzo al guado i Verdi). E' opportuno perciò che non si perda tempo sul che cos'è questa nuova sinistra: il socialismo europeo di Mussi, quello delle origini di Folena, l'altermondialismo di Rifondazione o il comunismo tout court di Diliberto sono distinzioni interessanti fino a un certo punto. E' opportuno invece discutere soprattutto sul che cosa vuol fare questa sinistra. Se vuole una carta di identità vera deve innanzitutto misurarsi con il tema del lavoro, cioè, oggi, della precarietà. E se vuole essere realistica deve partire dalla crisi dei partiti, cioè di quelle forme della democrazia che per secoli hanno garantito la rappresentanza e che oggi sono ridotte a macchine di potere (come denunciato da Giordano proprio a Carrara). Altri temi si possono certo elencare: beni comuni, cittadinanza, politiche della differenza, etc. Ma è bene si cominci.

il manifesto 3.4.07
Scene di miseria dalle campagne cinesi
Edita da Marsilio, l'inchiesta di Chen Guidi e Wu Chuntao «Può la barca affondare l'acqua?» mette l'accento sulla corruzione delle autorità locali, sottovalutando le pesanti responsabilità di Pechino
di Edoarda Masi


Nel 2003 i giornalisti Chen Guidi e Wu Chuntao pubblicarono una «Inchiesta sui contadini cinesi» (Zhongguo nongmin diaocha) da loro condotta per tre anni nello Anhui. Il libro - un esempio fra i tanti dell'attività di giornalisti indipendenti, avvocati e studiosi che, pur fra mille difficoltà e qualche rischio personale, hanno deciso di mettersi «al servizio del popolo» - ebbe subito un grande successo e compare ora anche in Italia in una traduzione (dall'americano) col titolo Può la barca affondare l'acqua? Vita dei contadini cinesi (Marsilio 2007, pp. 237, euro 15).
Al centro dell'opera, in realtà, non sono le condizioni di vita dei contadini in generale, quanto gli abusi praticati in una delle regioni rurali più povere, in particolare rispetto alla pratica delle tassazioni illegali. Ma al di là del tema specifico (in gran parte superato, dal momento che le tasse sul reddito agricolo sono state soppresse), dall'inchiesta emerge un quadro di sopraffazione intollerabile da parte dei burocrati locali e di resistenza ostinata e coraggiosa dei contadini, che getta luce sulla situazione dell'intera fascia rurale - circa due terzi della popolazione cinese.
Gli abusi nella riscossione delle tasse non sono un fenomeno nuovo nella Cina rurale: anzi, evocano inevitabilmente quanto è avvenuto nel corso dei lunghi secoli della Cina imperiale, quando la base principale dell'economia era la rendita agraria e i liberi coltivatori erano soggetti alle angherie della classe dirigente locale. Fenomeni come questi - intrinseci all'esercizio di una gerarchia dispotica di cui proprietari e funzionari locali erano fra gli ultimi anelli - venivano però condannati come violazione dell'ordine morale confuciano, così come dell'ordine politico (il potere dello stato imperiale), ed erano indicati fra le cause della «perdita del mandato» e della caduta delle dinastie. La grande rivoluzione dello scorso secolo, che ha liberato i contadini dal peso della proprietà terriera, ha stabilito un nuovo mandato: non ha cancellato nel popolo una visione del mondo dove politica e morale sono intrecciate, e lo stato e i suoi funzionari fungono da garanti del bene comune. La bandiera rossa davanti alla quale i contadini dello Amhui si inginocchiano in piazza Tian'anmen, in un episodio di questo reportage, è simbolo del nuovo patto. La morale-politica è centrale nelle coscienze dei contadini, e anche degli autori del reportage, nella forma della tradizione ora fusa con elementi nuovi, in primo luogo il riferimento al comunismo.
Pur contenendo una verità, questa coscienza comune può ostacolare la comprensione piena della realtà attuale. Sembra perduta la memoria delle lotte politiche e teoriche dei primi trent'anni: la causa dei mali viene attribuita moralisticamente alla condotta degli individui, e sembrano ripetersi, in una antica e perenne maledizione, le condizioni di ricchezza e povertà, di soggezione e sopraffazione. L'intero periodo della Repubblica popolare appare qui senza storia, così che si cade in contraddizioni inevitabili. Nel capitolo «Breve storia del carico fiscale dei contadini cinesi», si rileva correttamente che dagli anni Cinquanta l'accumulazione del capitale avvenne a carico dell'agricoltura, ma si dà una versione forzata (vicina a quella oggi ufficiosa) della prima collettivizzazione in cooperative, omettendo però che, nel conflitto politico ai vertici del partito che l'accompagnò, la fazione favorevole all'accumulazione forzata era quella contraria alla collettivizzazione. E non si ricorda che il grande balzo (un grave errore, che portò alla carestia) avrebbe avuto come scopo il superamento dell'abisso che divideva i contadini dal mondo urbano. Anche le comuni agricole vengono presentate in termini del tutto negativi, ma nel capitolo «Tanti cappelli da funzionario», l'amministrazione locale nei primi trent'anni della Repubblica popolare viene invece descritta realisticamente, e positivamente, riconoscendo che lo smantellamento delle comuni segnò l'inizio del disastro.
Contrapponendo ai malvagi funzionari locali il moderno imperatore garante dei diritti (l'irraggiungibile Pechino), si nasconde il fatto che nell'ultima ventina d'anni al decentramento verso le unità produttive è stato sostituito, ad opera della dirigenza centrale, il decentramento verso le amministrazioni locali. E proprio grazie al confluire degli interessi degli amministratori locali con quelli del capitale privato interno e internazionale, si sono compiuti passi da gigante verso quel passaggio al neoliberismo che l'amministrazione centrale ha inteso favorire pur senza assumerlo in proprio. Lo sfruttamento estremo della mano d'opera nelle zone rurali non è la ripetizione di un antico male né un fenomeno residuale, ma la condizione primaria per i brillanti risultati del «socialismo di mercato».
È paradossale che a non rendersi conto di questa situazione siano degli intellettuali cinesi, quando proprio in Cina, negli anni Sessanta e Settanta, il conflitto fra le classi nel periodo «postmoderno» si era manifestato per la prima volta in forma esplicita. Nella critica al «socialismo reale» dell'Urss, che tendeva a ripetersi in Cina, i comunisti cinesi dell'ala sinistra avevano individuato la figura della classe in cui il capitale si incarna in coloro che lo gestiscono, piuttosto che in proprietari privati puramente nominali. L'assunzione della logica del capitale da parte dei suoi gestori, inclusi gli amministratori pubblici e statali, era apparsa chiara e aveva condotto a una frattura radicale fra i comunisti.
Morto Mao Zedong, la fazione dei dirigenti «sulla via del capitalismo» ebbe la meglio. Finché, un passo alla volta, proprietà e gestione privata e pubblica tendono a coincidere - ma nello smarrimento delle coscienze, di fronte alla drammatica contraddittorietà fra un regime che fa riferimento a una cultura politica socialista e la realtà di una strada, imboccata da tempo, che va in tutt'altra direzione. Nonostante la buona fede, mettere l'accento sulla corruzione degli amministratori locali in contrapposizione alle buone direttive del «centro», è un escamotage che cela carattere e funzione strutturali di comportamenti che formalmente appaiono come angherie. La ripetizione apparente di forme di oppressione proprie di sistemi di potere del passato, quali la tassazione abusiva (opportunamente corretta dal potere centrale) è solo uno dei casi in cui pratiche tradizionali sono acquisite e rese funzionali a fini «moderni» o postmoderni. Non dissimili da quelli propri dei luoghi ritenuti più «avanzati».

Corriere della Sera 3.4.07
Ingrao: sbagliai Si poteva cercare di salvare Moro
«Allora dissi un no netto, oggi la penso in modo diverso»
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Nelle pagine del suo ultimo libro, Volevo la luna, il dubbio affiora appena: davanti al cadavere di Aldo Moro, a «quel corpo rannicchiato, ormai irreparabilmente muto», il 9 maggio 1978 in via Caetani, «mi chiesi se la mia intransigenza non fosse stata un duro sbaglio». Il tempo ha lavorato e ieri Pietro Ingrao, nel giorno del novantaduesimo compleanno, si è dato una risposta. Lo dice con voce piana e limpida: «Eh sì, non c'è dubbio che sbagliai: potevamo salvarlo». A Napoli si presenta il suo libro, siede accanto ai senatori di Rifondazione Raffaele Tecce e Tommaso Sodano e il deputato Arturo Scotto della sinistra Ds, dice che al congresso della Quercia «c'è bisogno di una separazione chiara, netta, che i moderati facciano i moderati e gli altri dicano cosa sono». Ma si parla soprattutto delle sue memorie, il discorso cade sugli anni del compromesso storico, la morte di Moro come spartiacque, e quella telefonata che il 16 marzo dal Viminale gli fece Cossiga, «hanno rapito Moro». Ricordando quei giorni, l'allora presidente della Camera accenna alla fermezza, ai dubbi, a quello «sbaglio». E ora ripete al Corriere: «Riflettendo, col tempo e la distanza, ho modificato la mia opinione».
Nel suo libro ricorda che allora scrisse ai suoi familiari: se i brigatisti rapiscono me non bisogna negoziare, anche se lo invoco.
«Certo. Durante tutti i giorni della prigionia di Moro ho avuto una posizione chiara e netta perché non si accogliessero le sue richieste. Dicevo "no" ad ogni trattativa e fino all'ultimo ho difeso questa linea, che del resto era quella di Berlinguer e del Pci».
E quando Moro le scrisse?
«Non fu facile. Ma anche lì senza dubbio la mia risposta fu netta: dissi pubblicamente che non potevo acconsentire a quanto mi chiedeva».
E dove stava lo sbaglio?
«L'errore non era nell'impulso a dire "no" alle Br, a rifiutare un'intesa, un compromesso qualsiasi. Era ovvio che il Pci non potesse accettare e riconoscere quel modo di lotta politica, come il loro linguaggio chiuso, settario, violento...».
E allora?
«A distanza di anni, nella mia mente, si è affacciato un ragionamento diverso: forse era possibile cercare di salvare una vita, la sua vita, senza per questo rinunciare a combattere i brigatisti».
Come?
«Si poteva accettare una trattativa e magari cedere su un punto, considerare che non si poteva reggere quella situazione e poi riprendere la lotta al terrorismo in altro modo. Non sono sicuro che avremmo salvato il prigioniero, ma almeno tentare... Del resto ci sono ancora molte cose da chiarire».
In che senso?
«Tanti, troppi punti risultano ancora oscuri in quella vicenda. Ho molti dubbi, uno ha a che fare perfino con l'attuale presidente del Consiglio: intendo l'episodio della seduta spiritica bolognese nella quale saltò fuori il nome "Gradoli", la via d'uno dei covi Br che allora non fu controllato a dovere. Sa com'è, io non ho mai creduto allo spiritismo e non ci credo ancora adesso. Ma questo è solo un esempio...».
Altri?
«La figura di Mario Moretti non mi ha mai convinto. Ho dei dubbi sui suoi legami, ciò che lo muoveva, sull'iniziativa di rapire Moro e la decisione di ucciderlo. Tutta la verità su questa storia ancora non l'abbiamo conosciuta».

Corriere della Sera 3.4.07
Nella nuova edizione del saggio sui sistemi rappresentativi, Giovanni Sartori guarda al futuro del Terzo Mondo
Esportare la democrazia è possibile, ma l'ostacolo è il monoteismo
di Giovanni Sartori


Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po' dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell'acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. (...) A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia — e più esattamente la liberaldemocrazia — è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c'è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi?
Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi — liberale e democratico — che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Ilche può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l'attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere.
Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento — la demoprotezione o il demopotere — è il più importante? (...) L'importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell'insieme.
Se non c'è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c'è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è. Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura.
Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l'elemento necessario- minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l'elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare.
Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l'Italia fascista dall'Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco).
Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell'800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all'imperatore, e l'imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano. Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c'era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli.
Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale.
Ma il caso più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone. Le grandi religioni indiane sono, nell'ordine, l'induismo, il buddismo e l'islamismo. L'induismo definisce l'identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D'altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi. Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant'è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l'India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh. Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l'India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l'India è una democrazia è perché l'ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese.
Anche per l'India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani.
Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.

Corriere della Sera 3.4.07
Una popolazione isolata dell'Amazzonia accende il dibattito sull'esistenza di una grammatica universale innata
La tribù che sa contare fino a due
di Massimo Piattelli Palmarini


Hanno appena dieci fonemi e una sola parola per indicare padre e madre
NELLA SELVA I Piraha sono un gruppo etnico del Brasile che ha una popolazione di circa 8.100 individui. Vivono nello Stato di Amazonas, lungo il fiume Maici

Il linguaggio: dipende dai modi di vita o esiste una matrice mentale?
In questi ultimi anni, la lingua, la cultura e le credenze di un'isolata popolazione dell' Amazzonia, i Piraha, circa trecento individui distribuiti su otto villaggi lungo le sponde del fiume Maici, parevano aver tenuto in scacco la linguistica e l'antropologia. La vicenda aveva presto straripato ben oltre i confini accademici, trovando vasta eco anche sulla stampa. Il motivo di tanto scalpore è presto detto. Il linguista americano Daniel Everett, adesso professore all'Università dell'Illinois, dopo aver vissuto per lunghi anni a contatto con i Piraha, aveva riportato, nella sua tesi di dottorato e poi in vari articoli specialistici, alcuni dati sbalorditivi. Stando a quanto afferma Everett, la lingua dei Piraha avrebbe il più ristretto repertorio di suoni linguistici mai registrato (appena dieci fonemi), due sole parole per i colori (chiaro e scuro), nessuna parola per i numeri oltre uno e due (ma anche questi con un significato solo approssimativo), una sola parola per padre e madre, nessuna possibilità di esprimere una frase che contiene una frase subordinata, come «Ti ho detto che il bambino ha fame». La lista di queste radicali povertà linguistiche è lunga. I Piraha adulti sono strettamente monolingui e incapaci di apprendere qualsiasi altra lingua. Ma c'è ben di più. I Piraha non si curano di tracciare relazioni di parentela oltre quella con i propri fratelli e fratellastri, non hanno alcuna concezione che il mondo sia esistito prima che fossero nati i piu' anziani del villaggio, che una piroga e i suoi occupanti continuano ad esistere anche dopo aver svoltato la curva del fiume, sparendo dalla vista. Secondo Everett, gli stretti confini dell'esperienza immediata e diretta racchiudono il loro intero mondo mentale.
OGNI SERA — Inoltre Everett racconta che, insieme alla moglie Keren, anch'essa linguista, ogni sera, per mesi e mesi, su richiesta esplicita dei Piraha, ha tentato pazientemente di insegnare loro i numeri da uno a nove in portoghese brasiliano, dato che la loro lingua non ha i numeri. Dopo mesi di tale volontaria scuola serale, i Piraha adulti avrebbero dichiarato, con grande rammarico: «La nostra testa è troppo dura». I bimbi Piraha riescono ad imparare i numeri, ma non gli adulti. Nei loro scambi in natura con occasionali mercanti brasiliani i Piraha adottano criteri volubili. Uno stesso individuo, talvolta esige molta merce in contraccambio, ma talvolta si accontenta di molto meno, per prodotti identici. I Piraha hanno la netta sensazione che i mercanti si approfittino di loro, e vorrebbero poter imparare a far di conto, ma si sono rassegnati a non riuscirvi. Questi racconti degli Everett sono in netto disaccordo con moltissimi dati di altri linguisti ed antropologi, su popolazioni che anch'esse parlano lingue prive di un sistema di numeri (uno, due, tre, molti è il caso tipico). Il compianto linguista Kenneth Hale, del Mit, esperto di lingue aborigene australiane senza incertezza, raccontava, invece, che i parlanti di quelle lingue non hanno difficoltà ad imparare un sistema numerico estratto da altre lingue e poi riescono a far di conto, come tutti noi.
MESI — Lo psicologo Peter Gordon, della Columbia University, dopo aver passato alcuni mesi con i Piraha e aver sondato la loro ridotta capacità di stimare le quantità numeriche, ha pubblicato su «Science», nel 2004, un articolo intitolato «La vita senza i numeri». Gordon dichiara che, come i piccioni e i bimbi molto piccoli, i Piraha adulti non sanno contare oltre tre e stimano solo grossolanamente la differenza tra gruppi grandi e gruppi piccoli di oggetti. La loro lingua, del resto, stando agli Everett e a Gordon, non avrebbe nemmeno parole per esprimere i comparativi (tanto quanto, più di, meno di). In una recente intervista al «New Scientist», Everett non ha lesinato le parole: «La lingua dei Piraha è l'ultimo chiodo nella bara della teoria Chomskiana secondo la quale esisterebbe una grammatica universale innata». A dispetto dell'immenso seguito conquistato dalle teorie di Chomsky, alle quali lui stesso dice di essersi ispirato nel passato, Everett presenta i Piraha come prova vivente che la lingua e il pensiero sono interamente plasmati dalla cultura, dall'esperienza dei sensi e dai modi di vita.
Una netta reazione a queste sue tesi non ha tardato a farsi sentire. In questi giorni, un illustre linguista del Mit, David Pesetsky (titolare delle cattedra precedentemente occupata da Noam Chomsky, ancora attivissimo, ma ufficialmente in pensione), un giovane e valente fonologo di Harvard, Andrew Nevins e una linguista brasiliana, Cilene Rodrigues, esperta di sintassi comparata, hanno reso disponibile su Internet un testo di 60 dense pagine nelle quali confutano tutte le conclusioni di Everett, punto per punto (http://ling.auf.net/lingBuzz/000411).
Passando al setaccio i dati spesso contraddittorii dello stesso Everett, questi studiosi mostrano che alcune pretese limitazioni della lingua dei Piraha risultano puramente illusorie, mentre altre sono reali, ma presenti anche in lingue molto distanti dal Piraha, e distanti tra di loro, come il tedesco, il cinese, l'ebraico, il bengalese, la lingua degli indiani Wappo della California e quella parlata dai Circassi del Caucaso.
Trattandosi di popoli con culture e stili di vita diversissimi, queste particolarità linguistiche comuni non possono certo, con buona pace di Everett, essere state plasmate da fattori ambientali e sociali. Nessun chiodo e nessuna bara, bensì un'accurata nuova rivendicazione dell'ipotesi che le variazioni tra le lingue umane riflettono variazioni di una comune profonda matrice mentale, la quale, ovviamente, interfaccia con la cultura, ma non viene da essa plasmata.
IDEA SEDUCENTE Pesetsky, Nevins e Rodriques giustamente insistono su una lezione centrale: ciò che è universale e comune a tutte le lingue, compreso il Piraha, non sono l'una o l'altra specifica forma linguistica, bensì un menu fisso forme linguistiche alternative, menu dal quale ciascuna lingua sceglie quanto le aggrada. Nevins in particolare insiste su un punto: «La nostra analisi conferma il grande interesse del caso Piraha, non lo sminuisce certo. Molti trovano intuitivamente seducente l'idea che le lingue siano plasmate dalla cultura e dagli stili di vita. E' interessantissimo mostrare, invece, una volta di più, proprio con una lingua insolita e per noi remota come quella dei Piraha, che esistono profonde somiglianze sintattiche tra lingue di culture molto diverse».
L'antropologo brasiliano Marco Antonio Gonçalves ha raccolto tra i Piraha varie elaborate narrazioni. Eccone una, in sintesi: il demiurgo Igagai ha rigenerato il loro mondo dopo un diluvio e poi ha dato alle donne il fuoco per cuocere. Il mondo ha molti livelli, e' sempre esistito, ma viene anche ricostruito ogni giorno. Forse non sono miti in senso stretto, questi dei Piraha, forse sono semplici novelle. Ma come non fare paralleli con Noè, Sisifo, Prometeo, Eraclito. Forse anche per i miti esiste un menu fisso, dal quale tutta l'umanità via via sceglie ciò che (come diceva Claude Lévi-Strauss) «è buono da pensare».

il Riformista 3.4.07
Idee. Ferrero. «Il socialismo torni alle origini»
di Ettore Colombo


«Il nuovo processo di aggregazione delle soggettività della sinistra deve tenere assieme gli elementi di movimento del quadro politico (quelli in casa Ds i principali) con tutto quanto si muove sul piano sociale, da pezzi di sindacato a pezzi di associazionismo e della sinistra diffusa. L’elemento di identificazione di tutti questi percorsi è, a mio parere, una parola chiave, la parola “sinistra”». Il ministro di Rifondazione Paolo Ferrero, in questa conversazione con il Riformista, preferisce non usare la definizione “contenitore”, non foss’altro per «non anteporre le formule ai percorsi», ma è chiara la direzione cui tende: andare avanti per aggregare la sinistra italiana a sinistra del Pd. Senza preclusioni ma con un’ambizione: «guardare oltre l’orizzonte del capitalismo. Ecco perché a me piace parlare di sinistra d’alternativa: non dice di un’ideologia ma di una pratica politica che punta a un’idea di sviluppo alternativo. Il processo deve essere politico e sociale insieme e l’unico paletto che metto è di metodo: l’idea dell’autonomia del politico e l’idea dell’autonomia del sociale sono due errori da cui rifuggire. Bisogna mixare le modalità delle lotte in val di Susa e il saper contrattare misure redistributive a favore dei ceti popolari stando al governo». Il modello organizzativo per lui potrebbe essere quello dell’Flm degli anni ’70, e cioè dell’unità organizzativa di sindacati organizzati e di consigli di fabbrica, dal punto di vista della «formazione dell’unità tra diversi». Non a caso, più che Riccardo Lombardi, Ferrero preferisce citare Raniero Panzieri e la sua «radicale critica allo stalinismo e al partito unico unita alla radicalità politica e alla critica del capitalismo come a una pratica profondamente democratica, non settaria e alla capacità di costruire unità e iniziativa dal basso».
«In ogni caso, la cosa più importante è costruire un processo di relazioni tra diversi soggetti dove ci sarà chi fa riferimento al socialismo, chi al comunismo, come me, chi a nessuno dei due, chi all’ambientalismo e chi al solidarismo cattolico», dice Ferrero, per cui la «questione socialista» è «parte integrante» del processo in corso «ma non il principio ordinatore, come non lo è quella comunista. Penso a forme preesistenti la divisione del ’21 tra socialisti e comunisti, al movimento operaio delle origini, quando il socialismo era patrimonio di tutti. Non vuol dire tornare tutti socialisti o tutti comunisti ma confrontarsi in avanti».
«Soprattutto - prosegue - vedo un’idea di nuovo movimento operaio che faccia i conti con la crisi di questo modello di sviluppo e il fallimento del neoliberismo, che si confronti con la questione ambientale e sociale, la pace e la non violenza». La sogna anche «multiculturale e multietnica», la nuova sinistra, Ferrero, «perché se non è in grado di farsi attraversare dalla questione dei migranti che sinistra è?».
Il partito, naturalmente, ci deve stare e ci starà, in questo processo (cioè «Rifondazione non si scioglie»), «e in modo non settario». Sinistra europea, per Ferrero, è «un punto di partenza, ma il campo è ben più ampio. L’importante, ora, è aprire processi di scambio, discussione, iniziativa». Primo banco di prova concreto per tutte le forze della sinistra che vogliono riaggregarsi è, per il ministro, come redistribuire l’ormai famoso “tesoretto”: «c’è un problema enorme di redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso, sia sul piano dei trasferimenti monetari (dare cioè di più a salari e pensioni) sia sul piano della tenuta del sistema di welfare, dalle pensioni al piano-casa», spiega. «Su questo terreno la sinistra deve riprendere l’iniziativa e questo può essere un primo concreto terreno d’incontro non solo tra forze politiche ma anche con le forze sociali, sindacato in testa». Ferrero ci tiene in particolare non solo alla difesa delle pensioni, dove ribadisce posizioni note (no allo scalone e al taglio dei coefficienti), ma anche a rilanciare un vero piano casa, «un’emergenza drammatica in tutte le aree metropolitane che parla non solo di lotta alla povertà ma anche di possibile integrazione degli immigrati. Serve un piano di affitti degli alloggi pubblici a canoni abbordabili, un classico delle politiche di welfare, penso al piano Fanfani e alla politica abitativa del primo centrosinistra». Il piano-casa (insieme, ovvio, alla lotta alla precarietà) è per Ferrero un modo concreto per tenere assieme impianto riformatore, idea diversa di welfare e qualità dello sviluppo, «legando la redistribuzione del reddito a politiche di sicurezza sociale per gli strati più deboli della società».

Il Sole 24Ore 2.4.07
Bocciati i manicomi giudiziari
di Manuela Perrone


Sono il colpo di coda dei manicomi. Nelle intenzioni, carceri e ospedali; di fatto né carceri né ospedali. Ibridi e vetusti, carenti di operatori sanitari, buchi neri in cui cura e rieducazione restano un miraggio, nonostante gli sforzi di professionisti e volontari.

A restituire uno spaccato allarmante dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani è la relazione finale del gruppo di lavoro interministeriale, incaricato nel 2004 dalla commissione Giustizia Salutesulla sanità penitenziaria di proporre modelli innovativi per gestire i soggetti pericolosi affetti da patologie psichiatriche ricoverati negli Opg.

Dopo aver visitato le sei strutture — Aversa e Napoli in Campania, Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, Castiglione delle Stiviere in Lombardia,Montelupo Fiorentino in Toscana e Reggio Emilia in Emilia Romagna — la task force
di otto esperti, coordinata da Guido Vincenzo Ditta per la Salute e da Adolfo Ferraro per la Giustizia, ha inviato alla commissione le sue conclusioni. Limpide: nel lungo periodo l'assetto attuale va superato, «attraverso la realizzazione di un sistema integrato di psichiatria penitenziaria».

Nel breve, c'è molto da fare. Il satellite degli ospedali psichiatrici giudiziari è congelato da quasi un secolo, a parte il cambiamento del nome, nel 1975,da«manicomi criminali » a Opg. La legge Basaglia non li ha scalfiti, così come il Dlgs 230/1999, che ha stabilito il transito delle competenze sanitarie in carcere dall'amministrazione penitenziaria al Ssn. Risultato: gli Opg sono un calderone in cui finiscono "ospiti" eterogenei dal punto di vista clinico e giuridico, che invece necessitano di interventi differenziati.

Nitida la foto scattata nelle 25 pagine del documento: a fronte di 534 operatori sanitari e sociali (340 di ruolo e 194 a contratto), i ricoverati risultavano 1.057 (ma al 31 dicembre scorso erano saliti a 1.274), circa il 70% con una diagnosi di disturbo schizofrenico e al 65,2%provenienti da regioni diverse da quella dell'Opg. Il 49,2% è sottoposto a una misura disicurezza di due anni, il 16,5% di dieci anni. Nel 2004 sono entrate in Opg 817 persone e ne sono state dimesse 613. Il numero di chi entra è sempre maggiore del numero di chi esce. Le proroghe delle misure di sicurezza sono state 688 nel solo 2004. Castiglione dichiara il maggior numero di misure di contenzione (188 nel 2004, su 565 totali), ma i contenuti sono di più a Reggio Emilia (84, il 43,1% del totale).

«È un mondo a sé», spiega lo psichiatra Fabrizio Starace,direttore del coordinamento socio sanitario dell'Asl Caserta 2 e componente del gruppo di lavoro. «Comunità scientifica e opinione pubblica se ne occupano solo in occasione di drammi o casi limite. Come quello dei pazienti che passano la vita negli Opg soltanto perché, terminato il periodo loro comminato, i servizi per la salute mentale delle Asl di appartenenza dichiarano di non disporre di strutture idonee». Li chiamano "ergastoli bianchi". E vanno combattuti.

Come?Nell'immediato,i tecnici chiedono di applicare le sentenze 253/ 2003 e 367/2004 della Corte costituzionale, secondo cui l'internamento va limitato ai casi di reale pericolosità e la misura di sicurezza, quando possibile, va effettuata nelle carceri o sul territorio. Occorre poi potenziare le collaborazioni con i Dipartimenti di salute mentale e garantire la continuità terapeutica con i servizi territoriali al momento delle dimissioni. Perché,senza piani personalizzati di reinserimento, gli internati rischiano di restare tali per anni. Dimenticati.