venerdì 6 aprile 2007

i contatti con "segnalazioni" nel mese di Marzo 2007

1. Italy 42.570 91,31%
2. France 704 1,51%
3. United States 695 1,49%
4. Sweden 448 0,96%
5. Other 418 0,90%
6. Germany 378 0,81%
7. United Kingdom 179 0,38%
8. China 174 0,37%
9. Spain 168 0,36%
10. Portugal 148 0,32%
11. Switzerland 132 0,28%
12. Hong Kong 79 0,17%
13. Belgium 55 0,12%
14. India 44 0,09%
15. Netherlands 44 0,09%
16. Canada 42 0,09%
17. Brazil 26 0,06%
18. Turkey 20 0,04%
19. Uruguay 20 0,04%
20. Austria 19 0,04%
21. Australia 16 0,03%
22. Norway 16 0,03%
23. Mexico 16 0,03%
24. Japan 16 0,03%
25. Greece 14 0,03%
26. Singapore 12 0,03%
27. Czech Republic 10 0,02%
28. Romania 9 0,02%
29. Malaysia 9 0,02%
30. Egypt 8 0,02%
31. Bahamas 8 0,02%
32. Chile 7 0,02%
33. Russian Federation 7 0,02%
34. Indonesia 7 0,02%
35. Ireland 7 0,02%
36. New Zealand 6 0,01%
37. Serbia Montenegro 6 0,01%
38. Argentina 6 0,01%
39. United Arab Emirates 5 0,01%
40. Taiwan 5 0,01%
41. Korea (South) 5 0,01%
42. Burundi 4 0,01%
43. Colombia 3 0,01%
44. Finland 3 0,01%
45. Estonia 3 0,01%
46. Morocco 3 0,01%
47. Israel 3 0,01%
48. Hungary 3 0,01%
49. Poland 3 0,01%
50. South Africa 3 0,01%
51. San Marino 2 0,00%
52. Nepal 2 0,00%
53. Guatemala 2 0,00%
54. Ethiopia 2 0,00%
55. Costa Rica 2 0,00%
56. Dominican Republic 2 0,00%
57. Bolivia 2 0,00%
58. Cook Islands 2 0,00%
59. Belarus 1 0,00%
60. Brunei Darussalam 1 0,00%
61. Bulgaria 1 0,00%
62. Azerbaijan 1 0,00%
63. Bosnia and Herzegovina 1 0,00%
64. Cuba 1 0,00%
65. Georgia 1 0,00%
66. Croatia (Hrvatska) 1 0,00%
67. Iran 1 0,00%
68. Mauritius 1 0,00%
69. Jordan 1 0,00%
70. Lithuania 1 0,00%
71. Latvia 1 0,00%
72. Peru 1 0,00%
73. Ukraine 1 0,00%
74. Slovak Republic 1 0,00%
75. Saudi Arabia 1 0,00%
76. Qatar 1 0,00%
77. Thailand 1 0,00%
78. Vatican City State (Holy See) 1 0,00%
79. Venezuela 1 0,00%
Total 46.623 100,00%
Apc 5.4.07GOVERNO/GIORDANO: ASSEDIATO DA POTERI FORTI MA NON HA ALTERNATIVE
Non è complotto, Confindustria e Cei lottano alla luce del sole


Roma, 5 apr. (APCom) - Secondo Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, non c'è nessun complotto contro il governo Prodi, ma 'poteri forti' che operano alla luce del sole come la Confindustria e la Cei.
"Ritengo sia impossibile - dice il leader del Prc in una intervista a 'Left' - un'alternativa all'attuale governo. Dopodiché è dall'inizio di questa esperienza che c'è stato un condizionamento sistematico di alcuni poteri, che noi abbiamo sempre chiamato 'forti', dell'impianto del programma e anche delle forme di questa coalizione. E' ovvio che c'è intolleranza verso la presenza di Rifondazione".
Non si tratta però di un "complotto", spiega Giordano al settimanale: "No, tutto alla luce del sole. Quando Confindustria dice che non bisogna ridistribuire il salario in pensioni, non lo dice clandestinamente. Entra attivamente. E quando monsignor Bagnasco afferma che le coppie omosessuali, le coppie di fatto sono come la pedofilia o l'incesto, in realtà entra a gamba tesa nella produzione legislativa autonoma e sulla laicità del nostro Paese. Questo è il punto".
"Però è bene che sia chiaro - conclude - che tutti i tentativi di crisi vengono da questi settori, da chi li interpreta e ne è permeabile".

ANSA 5.4.07
PRC: GIORDANO, A GIUGNO ASSEMBLEA FONDATIVA SOGGETTO SINISTRA

(ANSA) - ROMA, 5 APR - ''Rifondazione ha avuto una grandissima intuizione. Ha lavorato in questi anni per un nuovo soggetto politico della sinistra che non a caso si costruisce nello spazio europeo, spazio in cui far emergere una soggettivita' politica di forte partecipazione. Intuizione che si sta rivelando particolarmente feconda. A giugno costituiremo questo soggetto con un'assemblea fondativa. Ma siamo aperti anche alla scelta significativa e importante che fara' la sinistra Ds''. Lo afferma Franco Giordano, segretario del Prc, che in un'intervista a ''Left'' in edicola domani, analizza l'attuale fase politica nell'imminenza del congresso dei Ds e del probabile arrivo della sinistra Ds sulle sponde del Prc. ''Naturalmente - spiega - non chiediamo a nessuno di negare le proprie identita' e quindi nessuno puo' chiedere di negare la nostra idea di Rifondazione comunista. La nostra autonomia politica e organizzativa e' fuori discussione''. Quanto ai cambiamenti che potrebbero derivare al simbolo Giordano sottolinea: ''abbiamo un bellissimo simbolo al quale teniamo. Ma mi piace discutere di contenuti e non di contenitori, senno' siamo al teatrino. Il Pd - dice - e' una fusione a freddo fatta nel limbo dell'autonomia della politica. Noi contrastiamo la deriva americana della passivita', di un modello sociale tutto fondato sulla bassa socializzazione della politica. Dobbiamo ricostruire una passione, questa e' la sfida. E dobbiamo costruire anche modelli di identita' per la societa'. Come dice Amarthya Sen, 'io non incontro mai l Islam o la religione cattolica o la religione ebraica, io incontro uomini e donne con una molteplicita' di identita'''.

Apc 5.4.07
TELECOM/ GIORDANO: CAPITALISTI COME TOTO' CHE VENDE FONTANA TREVI
Azienda di interesse nazionale, serve governo pubblico delle reti

Roma, 5 apr. (APCom) - "Il nostro è un capitalismo fortemente assistito. Siamo al saldo di una politica di privatizzazione su Telecom francamente sbagliata, drammatica, perché Tronchetti Provera ha acquisito Telecom con poche risorse e adesso la rivende - rivende la rete, oltre alla proprietà della struttura - producendo speculazione finanziaria". E' quanto sostiene il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, in una intervista a 'Left' che è stata anticipata dal settimanale.
"Mi verrebbe da fare una riflessione, amaramente divertente, sul fatto - dice ancora il leader del Prc - che mentre le imprese chiedono a noi, allo Stato, di avviare una politica di risanamento dei risparmi e pur in presenza di un debito molto forte - Telecom in tutti questi anni ha ripartito i dividendi. E' incredibile, sono rigorosi con noi e invece quando si tratta di ripartire sono molto benevoli".
Per Giordano "Telecom è di interesse nazionale. Tutte le grandi aziende a tecnologia così elevata, in quasi tutti i Paesi, hanno un governo delle reti pubbliche e investono strategicamente sulla loro pubblicità: Francia, Germania, ma anche il Messico, che investe oggi su Telecom avendo alle spalle una forte dimensione pubblica. Tanto da farne il grimaldello di una politica industriale tonificante sul proprio territorio nazionale. Vedo qui da noi, invece, una difficoltà strutturale della programmazione, parola che un tempo andava di moda, a investire strategicamente su questo settore".
Alla domanda su quanti imprenditori italiani passerebbero l'esame della meritocrazia, Giordano risponde: "Non sono abituato a dar pagelle, ma vedo che gli imprenditori hanno avuto vita facile. Uno è il caso Telecom, l'altro il sistema autostrade. Dove Benetton ha acquisito la gestione della rete e adesso vuole addirittura venderla agli spagnoli. Una roba che non è sua. Siamo quasi a Totò che vende la fontana di Trevi. E avendo promesso investimenti sulla rete mai fatti".

Adnkronos 5.4.07
TELECOM: GIORDANO, ABBIAMO CAPITALISMO FORTEMENTE ASSISTITO
IMPRENDITORI QUASI COME TOTO' CHE VENDE FONTANA DI TREVI

Roma, 5 apr. - (Adnkronos) - "Il nostro e' un capitalismo fortemente assistito. Siamo al saldo di una politica di privatizzazione su Telecom francamente sbagliata, drammatica, perche' Tronchetti Provera ha acquisito Telecom con poche risorse e adesso la rivende -rivende la rete, oltre alla proprieta' della struttura- producendo speculazione finanziaria". LO dice il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano in un'intervista a 'Left'.
"Mi verrebbe da fare una riflessione, amaramente divertente, sul fatto -aggiunge il leader del Prc- che mentre le imprese chiedono a noi, allo Stato, di avviare una politica di risanamento dei risparmi e pur in presenza di un debito molto forte, Telecom in tutti questi anni ha ripartito i dividendi. E' incredibile, sono rigorosi con noi e invece quando si tratta di ripartire sono molto benevoli. Telecom e' di interesse nazionale. Tutte le grandi aziende a tecnologia cosi' elevata, in quasi tutti i Paesi, hanno un governo delle reti pubbliche e investono strategicamente sulla loro pubblicita': Francia, Germania, ma anche il Messico, che investe oggi su Telecom avendo alle spalle una forte dimensione pubblica. Tanto da farne il grimaldello di una politica industriale tonificante sul proprio territorio nazionale. Vedo qui da noi, invece, una difficolta' strutturale della programmazione, parola che un tempo andava di moda, a investire strategicamente su questo settore".
"Vedo -conclude Giordano- che gli imprenditori hanno avuto vita facile. Uno e' il caso Telecom, l'altro il sistema autostrade. Dove Benetton ha acquisito la gestione della rete e adesso vuole addirittura venderla agli spagnoli. Una roba che non e' sua. Siamo quasi a Toto' che vende la fontana di Trevi. E avendo promesso investimenti sulla rete mai fatti".

ANSA 5.4.07
GOVERNO: GIORDANO, POTERI FORTI VOGLIONO CONDIZIONARLO

(ANSA) - ROMA, 5 APR - ''Ritengo sia impossibile un'alternativa all'attuale governo. Dopodiche' e' dall'inizio di questa esperienza che c'e' stato un condizionamento sistematico di alcuni poteri, che noi abbiamo sempre chiamato 'forti', dell'impianto del programma e anche delle forme di questa coalizione. E' ovvio che c'e' intolleranza verso la presenza di Rifondazione'': lo afferma il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano, intervistato da ''Left'' in edicola domani. Un complotto? ''No - risponde - tutto alla luce del sole. Quando Confindustria dice che non bisogna ridistribuire il salario in pensioni, non lo dice clandestinamente. Entra attivamente. E quando monsignor Bagnasco afferma che le coppie omosessuali, le coppie di fatto sono come la pedofilia o l'incesto, in realta' entra a gamba tesa nella produzione legislativa autonoma e sulla laicita' del nostro Paese. Questo e' il punto. Pero' e' bene che sia chiaro che tutti i tentativi di crisi vengono da questi settori, da chi li interpreta e ne e' permeabile''.

l’Unità 6.4.07
Mussi a D’Alema: «Non cancello le tracce...»
«È un errore concepire il passato come qualcosa di cui si può fare a meno»


«TEMPO FA D’Alema, polemizzando sulla mia presa di distanza dal Partito democratico mi scriveva sui giornali: “Caro Fabio, i partiti di cui tu parli co-
sa vuoi che dicano a un giovane che avrà 20 anni nel 2010?” Questa non è una semplice affermazione, è una dottrina, quella di cancellare le tracce».
Fabio Mussi che ha partecipato ad un dibattito sulla raccolta di un anno di numeri della rivista «News Left Review» critica il ministro degli Esteri sostenendo che è un errore concepire il passato come un qualcosa di cui si può fare a meno acuendo così la polemica in vista del congresso dei Ds a Firenze.
«Il nuovo - osserva il leader della sinistra della Quercia - ha assunto così una forma assoluta e il passato è un peso di cui liberarsi, questo lo ritengo sbagliatissimo. Nei quaderni dal carcere di Gramsci c’e un continuo confrontarsi e mettere in relazione il passato con il presente».
«Appartengo - aggiunge Mussi - ad una generazione che non ha avuto paura ad aprirsi alle dinamiche del mondo, ma non rompendo il collegamento con il passato e senza incitare i giovani a tagliare i rapporti con il Movimento operaio».
Mussi mantiene il punto sulla sua scelta di non far parte della nuova formazione politica. «Non mi rassegno - spiega - all’idea che la sinistra, pur attraverso travagli e ripensamenti tardivi come quello dell’89, si riduca oggi a un grumo di correnti in un partito di incerta identità in un ventaglio di forze minori radicalizzanti, in competizione tra loro». «Sarebbe - conclude il leader della minoranza Ds - un esito deludente per una lunga storia».
«È una cosa un po’ grossolana, io non voglio scivolare lungo il piano inclinato delle accuse grossier. Filippeschi dovrebbe anzitutto rispettare la posizione di una parte dei Ds che ha preso 37.000 voti ai congressi di base», ha detto sempre Fabio Mussi rispondendo al responsabile Istituzioni del partito che oggi, in una dichiarazione, ha esortato i leader della minoranza interna a rispettare il pronunciamento dei 200.000 iscritti che hanno dato il via libera alla costruzione del Pd. «La nostra posizione -aggiunge Mussi replicando a Marco Filippeschi- è chiara fin dall’inizio. La maggioranza sapeva che noi eravamo contrari e che, quindi, quando ha deciso di accelerare ha certamente tenuto in conto che una parte del partito non era d’accordo con la costruzione del Pd».

l’Unità 6.4.07
Bruno Pontecorvo, un Enigma di troppo
di Adriano Guerra


Realizzare una serie di trasmissioni televisive sotto il segno degli «enigmi» comporta inevitabilmente uno sforzo non lieve per conservare e anche alimentare interrogativi presenti in eventi del passato giunti a noi avvolti in parte o in tutto dal mistero. Il «caso Pontecorvo» - l'improvvisa scomparsa da Stoccolma nel 1950 del famoso fisico e la sua altrettanto improvvisa ricomparsa nell'Unione sovietica cinque anni dopo - si presta come pochi altri ad uno spettacolare trattamento. Gli ingredienti - come ci ha mostrato ieri sera Corrado Augias su Rai3 - ci sono tutti.
C’è la guerra fredda, che è in gran parte guerra di spie, e che pareva dovesse precipitare in quei primi anni '50 verso il terzo conflitto mondiale. C'è l'Unione sovietica, impegnata a strappare agli Stati uniti il monopolio della bomba atomica. C'è, infine, Pontecorvo, fisico atomico, che a Roma è stato allievo, anzi collaboratore, di Enrico Fermi, e cioè di uno degli scienziati che hanno lavorato a Los Alamos per costruire la prima bomba atomica americana.
Si aggiunga che Pontecorvo non solo è, come tutti gli scienziati - per dirla con Ernesto Galli Della Loggia - del tutto negato alla politica, ma è anche un comunista. E non un comunista normale, di quelli che guardano con ammirazione all'Urss di Stalin ma pensano che a casa propria non si debba «fare come la Russia», e cioè considerare quest'ultima un «paese guida» e un «modello». No: Pontecorvo è filosovietico al punto tale che - la testimonianza è del fratello Gillo, comunista, ma di un comunismo «diverso» - trova quiete soltanto quando da una misteriosa radio può ascoltare le campane del Cremlino.
Come dunque non pensare a lui come all'uomo che dopo avere, forse, fornito all'Urss dal Canada o dall'Inghilterra dati segreti per la fabbricazione della bomba atomica ha poi raggiunto Mosca per mettere al servizio della «patria del socialismo» le sue capacità di scienziato?
Interrogativi legittimi, si dirà. Ai quali una serie di risposte sono state però date. Dallo stesso Pontecorvo intanto, durante i suoi viaggi in Italia, visibilmente impacciato nel momento in cui veniva chiamato a rispondere di una sua scelta di tanti anni prima.
Da Miriam Mafai che nella biografia dello scienziato ci ha mostrato aspetti fondamentali della vicenda: il carattere del tutto particolare del comunismo e del rapporto con l'Unione sovietica di Pontecorvo, e dunque le ragioni verosimili, sentimentali e politiche, della sua fuga dall'Occidente.
E ancora la specifica natura del suo lavoro di scienziato (che non riguardava in nessun caso le armi atomiche e nucleari). A queste risposte ne va aggiunta ora un' altra, ultima e definitiva, proveniente da Mosca e che è purtroppo sfuggita a Corrado Augias. Si tratta di notizie che qui riprendiamo dal Corriere della sera del 13 febbraio 2007 e che possono essere così sintetizzate: In nessuno dei cinque volumi che raccolgono i documenti sulla storia del nucleare sovietico dal 1938 al 1954 vi è traccia di attività spionistica da parte di Pontecorvo. Dalle memorie di un fisico, Boris Ioffe si è anzi saputo che poco dopo il suo arrivo nell'Urss Pontecorvo è stato sottoposto ad un interrogatorio da parte di diversi fisici «per estrarre» da lui tutte le informazioni possibili. L'interrogatorio; che il Corriere ha definito «processo» si è concluso con un nulla di fatto perché «essendo principalmente un esperto di particelle elementari Pontecorvo era lontanissimo dalla problematica della progettazione dei reattori e delle bombe».
Punto e basta. L'enigma è risolto. Pontecorvo non era una spia e nell'Urss andò per una scelta che ad Augias come ad altri può apparire «sbagliata», ma che risulta essere stata - seppure avvolta dapprima dal mistero e poi dalla crisi nata dal crollo delle illusioni - pulita, politica e di lavoro.
Non è escluso - così finiva la nota del Corriere a firma Lanfranco Belloni - che proprio l'esito dell’interrogatorio, «risultato deludente per gli uomini del Cremlino, sia stato all'origine delle difficoltà, in seguito incontrate da Bruno Maksimovic nella patria del socialismo».

l’Unità 6.4.07
COMUNICATO SINDACALE

Dopo mesi di lotte e scarse informazioni sul futuro dell’Unità l’assemblea di redazione prende atto del comunicato del 2 aprile in cui il consiglio di amministrazione della Nie ribadisce che le linee generali del piano industriale «sono ispirate al rafforzamento dell’identità acquisita in questi anni dall’Unità quale autorevole quotidiano nazionale», con il mantenimento delle sette uscite la settimana e la permanenza delle cronache locali di Firenze, Bologna e Roma.
L’assemblea di redazione ritiene queste affermazioni impegnative e formali, frutto della responsabile battaglia sindacale condotta in questi difficili mesi di concerto con la Fnsi per il mantenimento dell’Unità quale grande giornale nazionale di informazione, autonomo e indipendente.
Un risultato per nulla scontato.
L’assemblea di redazione ritiene queste dichiarazioni di principio della proprietà comunque tutte da verificare nei fatti, restando per la sua massima parte oscuro, cornice a parte, il contenuto del piano industriale che, si dice, «sarà diffuso ed illustrato in modo ufficiale dopo il suo completamento con l’inserimento del piano editoriale», affidato alla direzione del giornale.
L’assemblea di redazione ritiene tutto ciò, dunque, solo un punto di partenza, e valuta quel che ora è noto insufficiente per prefigurare lo sviluppo e il rilancio del giornale, e non rispondente agli «otto punti per lo sviluppo» avanzati da tempo dal Cdr.
La mobilitazione e lo stato di agitazione restano.
Le giornaliste e i giornalisti dell’Unità chiedono alla proprietà e alla direzione giornalistica di aprire da subito un confronto finalizzato ad un effettivo rilancio del giornale e ribadiscono che qualsiasi prospettiva di rilancio deve partire da una intangibilità degli attuali livelli occupazionali e salariali, e da una risposta positiva alla necessità, più volte sottolineata, di sanare le posizioni di precariato tuttora esistenti.
La redazione dell’Unità non abbassa la vigilanza in attesa di risposte certe ed efficaci.

Repubblica 5.4.07
Su "Quaderni di storia" la vicenda di un articolo antisemita
Un segreto di Mussolini
De Felice lo conosceva ma non ne parlò
Uscì anonimo perché rivelava imbarazzo
di Simonetta Fiori


Per settant´anni è rimasto un documento anonimo, soltanto ora ha acquistato una paternità che ne fa un caso storiografico. Si tratta dell´articolo antisemita comparso il 6 agosto del 1938 sul primo numero della Difesa della razza, il rotocalco diretto da Telesio Interlandi. Razza e percentuale - questo il titolo dell´intervento - non aveva firma, ma apprendiamo oggi da un saggio di Quaderni di storia che fu scritto dallo stesso Benito Mussolini. A rendere la vicenda più complessa s´aggiunga che l´autografo mussoliniano è rimasto per anni nelle mani di Renzo De Felice, il quale però non ne fa cenno nei suoi libri. L´artefice dell´attribuzione è Giorgio Fabre, già autore per Garzanti del poderoso volume Mussolini razzista, che retrodata l´antisemitismo del duce alla fine degli anni Venti e ne mostra una progressione autonoma rispetto alla furia nazista.
La certezza della paternità proviene dalla copia manoscritta dell´articolo, conservata nel fondo di Renzo De Felice versato dagli eredi all´Archivio Centrale dello Stato. Perché Mussolini non abbia voluto firmare l´articolo è spiegato da Fabre in questi termini: lo scritto mette in luce "un nervo scoperto" del Duce ed è interamente difensivo. Quale sia "il nervo scoperto" lo si scopre leggendo l´intervento, che prende nettamente le distanze dal "Mussolini buono" consegnato sei anni prima all´intervistatore Ludwig in un libro per Mondadori. Nei Colloqui di Ludwig il Duce s´era distaccato dal delirio razzista del Führer, affermando che in Italia non esisteva l´antisemitismo. Nell´estate del 1938 il capo del fascismo ha la necessità di smentire quel leader "illuminato" per il quale non esistono le razze, ribadendo al contrario che «le razze esistono sotto l´aspetto biologico e spirituale». Dunque - questo in sostanza dice il Mussolini del ‘38 - non s´illudano gli ebrei italiani e non italiani «afferrandosi a quella tavola della salvezza che sono le dichiarazioni rese da Mussolini a Ludwig nel 1932». Da allora molte cose sono cambiate, «è sorto l´impero di Roma e l´antifascismo mondiale è di marca ebrea». E se nel 1932 l´antisemitismo in Italia non esisteva, conclude il Duce, «da allora a oggi è sorto il semitismo in Italia e nel mondo». Capriola acrobatica per dimostrare che, nella coscienza e nell´azione politica del fondatore del fascismo, non esistevano crepe di incoerenza.
Dimostrare la "coerenza razzista" di Mussolini era uno dei problemi politici di quei giorni. Non a caso una velina del Minculpop impose ai principali quotidiani di recuperare tutti i riferimenti razzisti fatti dal Duce «dal 1917 a oggi». Appello accolto con prevedibile zelo dalla stampa italiana. Dietro, la regia occulta e meticolosa dello stesso Mussolini.
Alla fine del saggio di Quaderni di storia, Fabre muove alcuni rilievi a De Felice, accusato di non aver compreso che quella martellante campagna di stampa non fu frutto di un´iniziativa spontanea ma d´una precisa direttiva del Duce. «Riferendosi a quest´episodio», scrive Fabre, «De Felice ha in sostanza alleggerito la responsabilità di Mussolini perfino nella sua ricostruzione della storia del proprio razzismo. Come si sa è un´operazione che lo storico ha compiuto più volte nella Storia degli ebrei italiani a proposito del razzismo mussoliniano». Pur disponendo dell´originale di Razza e percentuale, il biografo di Mussolini non ne ha mai parlato: né nell´edizione del 1988 della Storia degli ebrei italiani né in quella successiva del 1993. «Non c´è dubbio», aggiunge maliziosamente Fabre, «che questo testo metta in discussione le reiterate affermazioni defeliciane sulla mancanza di razzismo e di antisemitismo nel pensiero di Mussolini prima delle leggi razziali: se non altro perché qui era lo stesso Mussolini ad affermare il contrario».
Quanto all´imbarazzante libro di Ludwig, provvide Dino Alfieri a toglierlo di mezzo. L´11 agosto diede un ordine riservato a Mondadori di non ristampare più i Colloqui. Di lì a poco, a smentire definitivamente quel "duce buono", sarebbero arrivate le leggi razziali.

Luciano Canfora, Storico: Caro Direttore, ho visto con molto piacere l'intervento di Simonetta Fiori su «Repubblica» di ieri (Un segreto di Mussolini), come sempre preciso ed efficace. Per una omissione, immagino tipografica, è saltata l'indicazione, dopo la testata «Quaderni di storia» del numero del fascicolo. Si tratta di: «Quaderni di storia», n. 65, Edizioni Dedalo. (Rep 6.4.07)

il manifesto 6.4.07
Falsi storici
Le ossa di Giovanna d'Arco sono di una mummia egizia


Non appartengono a Giovanna d'Arco ma - sorpresa - a una mummia egizia i resti conservati nel museo di Chinon dedicato alla vita e alle gesta della Pulzella d'Orléans. In seguito a una indagine scientifica, i cui risultati sono stati pubblicati su «Nature», l'anatomopatologo Philippe Charlier è infatti giunto alla conclusione che le «preziose» reliquie, ritrovate nella soffitta di una farmacia parigina nel 1867 insieme a un cartiglio che le ricollegava appunto all'eroina francese, risalgono in realtà a un periodo databile fra il sesto e il terzo secolo avanti Cristo, circa duemila anni prima che Giovanna venisse condannata per eresia a morire sul rogo, appena diciannovenne, nel 1431. I resti, che consistono in ossa umane all'apparenza carbonizzate, in pezzi di legno annerito, in un frammento di stoffa e infine in un osso di gatto (nell'Europa medievale era consuetudine gettare gatti neri sui roghi delle streghe), sono stati analizzati negli ultimi mesi da Chartier e dalla sua équipe con strumenti scientifici sofisticati. A sostegno di una datazione diversa, i ricercatori hanno trovate polline di pino, albero inesistente nella Normandia medievale, ma invece ben presente nell'antico Egitto dove la sua resina veniva usata abitualmente per le imbalsamazioni. Secondo gli studiosi, il falso venne organizzato nell'Ottocento, con ogni probabilità per sostenere il processo di beatificazione di Giovanna d'Arco, che si sarebbe concluso nel 1909. La Pulzella d'Orléans venne poi proclamata santa nel 1920 da papa Benedetto XV.

il manifesto 6.4.07
Esperimenti in corso sul libero arbitrio
In «Mind Time», uscito per Cortina, il neuroscienziato Benjamin Libet individua nel cervello l'autore delle nostre decisioni. Una ipotesi interessante dal punto di vista neurologico, ma assurda perché separa il cervello dall'io cosciente
di Felice Cimatti


È giunto il tempo - sostiene il neuroscienziato Benjamin Libet nel libro appena tradotto dall'editore Raffaello Cortina, Mind time. Il fattore temporale della coscienza (pp. 246, euro 23,80) - di studiare «sperimentalmente» il libero arbitrio, per sottrarlo alle «speculazioni teoriche» dei soliti inconcludenti filosofi e affidarsi, finalmente ai «dati fattuali».
Ora, quali sono questi dati, e che ci dicono, di nuovo, sul libero arbitrio? In realtà, almeno a prima vista, sembrano dati piuttosto avvilenti, per l'immagine che abbiamo di noi come agenti liberi e responsabili. In una serie di esperimenti famosi Libet ha scoperto che esiste un intervallo di diverse centinaia di millisecondi (un tempo lunghissimo, a livello cerebrale) fra l'istante in cui il cervello comincia a prepararsi a una azione, ad esempio sollevare il braccio destro, e il momento in cui abbiamo coscienza della volontà di alzare quel braccio: «il primo processo» scrive Libet, «cui il cervello dà inizio è quello volontario. Il soggetto in seguito diventa consapevole in modo cosciente del bisogno o desiderio di agire, circa 350-400 millisecondi dopo l'insorgenza dei PP (potenziali di prontezza) prodotti dal cervello».
Come interpreta questi dati Libet? Se libero arbitrio significa decisione volontaria del soggetto di compiere una certa azione, allora il libero arbitrio non esiste. Quando infatti ci sembra di decidere coscientemente di compiere una certa azione, in realtà il cervello è già attivo per conto suo (una attivazione di cui non siamo coscienti), prima della nostra decisione cosciente. In un certo senso, ma è tutto qui il problema, è il cervello che decide, e poi, qualche centinaia di millisecondi dopo, diventiamo consapevoli di una decisione che non siamo stati noi a prendere.
In questo senso quella del libero arbitrio sarebbe una illusione. Con il risultato paradossale che il libero arbitrio non ce l'ho io che scrivo queste note, bensì il «mio» (per modo di dire, a questo punto) cervello. In effetti, se è «lui» che decide, e io non posso fare altro che prendere atto delle «sue» decisioni, «lui» è libero, io no. O meglio, Libet ritaglia una nicchia per il soggetto cosciente, che anche se non può dare inizio all'azione, può però «imporre un veto attivo al processo volontario impedendo l'azione o, viceversa, può innescare l'azione permettendole di procedere».
Come dire, l'azione la decide il cervello, ma se io non sono d'accordo la posso almeno fermare. Sembra una buona notizia, in effetti. In realtà, però, questa via di scampo non è tanto sicura, perché quello che Libet ha scoperto per l'azione volontaria può applicarsi anche a questa azione di «veto». Poniamo che, come pensa Libet (o il suo cervello?), sia proprio «io» a bloccare l'esecuzione di un'azione in realtà «decisa» dal mio cervello. D'accordo, ma proprio per quello che Libet ha scoperto, dobbiamo supporre che la coscienza del «veto» sia preceduta da una azione cerebrale di cui sono del tutto inconsapevole, e così non solo l'azione la decide il cervello, ma anche l'eventualità di bloccarla.
Anche quella del «veto», allora, sarebbe un'illusione, e sarebbe sempre lo stesso cervello, indipendentemente dalla mia volontà, che decide di agire e talvolta «cambia idea». A Libet questa storia non piace, perché lo porterebbe a negare quel che voleva studiare, il libero arbitrio, ed allora è costretto a escogitare una di quelle supposizioni che, all'inizio, tanto disdegnava: «non è esclusa la possibilità che i fattori su cui si basa la decisione di porre il veto si sviluppino attraverso processi inconsci che precedono il veto. Tuttavia, la decisione cosciente di mettere il veto potrebbe comunque essere presa senza che i processi inconsci precedenti forniscano una indicazione specifica e diretta per quella decisione». Che cos'è questa se non un'ipotesi del tutto ingiustificata, proprio come quelle dei filosofi? Perché il «veto» dovrebbe essere così speciale rispetto alla decisione di cominciare un'azione?
In realtà tutta l'analisi di Libet, per quanto molto interessante da un punto di vista neurologico, sembra piuttosto confusa. Se infatti la prendiamo alla lettera (questo, di solito, fanno i filosofi), e quindi consideriamo il libero arbitrio una caratteristica del cervello, e non della coscienza, allora - a rigor di logica - dovremmo mandare in prigione, ad esempio, non l'autore dell'omicidio, ma soltanto il suo cervello. Ma questa è una assurdità, perché il cervello - di suo - non fa proprio niente, e tantomeno spara; anche perché che diavolo di entità sarebbe un «io cosciente» separato dal suo cervello?
Il problema è che Libet sembra credere che alla parola «libero arbitrio» debba corrispondere qualcosa nel cervello, così come alla parola «topo» corrisponde il simpatico animaletto. Ma i filosofi questo errore non lo fanno più. Propriamente diciamo che una certa persona è dotata di libero arbitrio se, ad esempio, sa fornirci le ragioni delle sue azioni, se sa distinguere quello che in una certa comunità è lecito fare da quello che viene considerato illecito, se non ha evidenti e gravi problemi mentali, e così via. Ora, come si vede anche da questo breve e incompleto elenco di caratteristiche, il «libero arbitrio» non è una cosa o tantomeno un qualche tipo di processo, bensì è una proprietà di una persona. E una persona è un'entità sociale, sia nel senso che si diventa persone crescendo in una società, sia che i criteri che permettono di stabilire chi è una persona sono, come quelli che abbiamo appena ricordato, anch'essi sociali. Ma allora il «libero arbitrio» non è una proprietà del cervello, perché il cervello non è una persona. Tante volte i filosofi scrivono delle sciocchezze, e accade soprattutto quando provano a fare gli scienziati, ma ci sono delle volte in cui andrebbero ascoltati. Forse questa è una di quelle volte.

il Riformista 6.4.07
Per il Vaticano il malato non conta
di Anna Meldolesi


Fiorenza Bassoli merita i nostri migliori auguri. Dopo Pasqua la senatrice diessina dovrà trovare una sintesi tra le otto proposte di legge sul testamento biologico all'esame della Commissione sanità. Ma per riuscire a fare lo slalom tra i paletti posti dalla Chiesa avrebbe bisogno di un paio di sci miracolosi.
La scorsa settimana i commenti rilasciati a margine del convegno organizzato dalla presidenza del Senato avevano una coloritura ottimistica. Forse sono stati i toni affabili usati dal cardinale Barragan nel suo intervento, forse l'atmosfera interreligiosa che si respirava nel Convento di Santa Maria sopra Minerva. Fatto sta che il wishful thinking ha finito per contagiare i presenti, indorando l'amara pillola offerta da Barragan. Quella pillola però conteneva già in sé il messaggio di chiusura riproposto tre giorni dopo da monsignor Betori: le direttive anticipate otterranno la benedizione della Santa Sede solo se saranno svuotate di gran parte del loro significato.
Barragan ha enumerato sei condizioni che possono suonare ragionevoli solo a chi non conosce i tranelli del dibattito. Per cominciare chiede che il testamento biologico sia unito «alla decisione del medico curante di evitare sempre l'eutanasia e di rinunciare all'accanimento terapeutico». Il primo problema è ciò che la Chiesa intende con la parola eutanasia. Barragan ha spiegato che interrompere la nutrizione artificiale è un atto eutanasico. Betori ha emesso lo stesso giudizio sulla sospensione della ventilazione artificiale. Dunque, in assoluta controtendenza rispetto alle leggi sul testamento biologico approvate nel resto del mondo, in Italia il paziente non dovrebbe pronunciarsi sui trattamenti sostitutivi, quelli messi in atto per rimediare al deterioramento di funzioni complesse come la respirazione e l'alimentazione. E chissà che domani qualcuno non menzioni anche l'emodialisi. A quali terapie potremmo rinunciare, dunque? (...)

Repubblica Napoli 6.4.07
Nuovo libro del critico napoletano sul filosofo tedesco: una raccolta di prefazioni arricchita da uno scritto inedito
Quel moralista di Friedrich
Giametta alle prese con la "dinamite" del pensiero nicciano
Il nichilismo libera l'uomo da vincoli esterni lo riconsegna alla libertà ma non funziona come dottrina positiva
di Marco Lombardi


Apparentemente, "Nietzsche. Il pensiero come dinamite" (Rizzoli, pagg.272, 9,60 euro) di Sossio Giametta è un libro di servizio. Raccoglie le prefazioni per altrettante opere nicciane, che Giametta ha curato negli ultimi anni. Ci muoviamo, sembrerebbe, sul terreno solido della filologia: Giametta editore è una garanzia, signoreggia la lingua come altri il dialetto; il suo nome non sfigura accanto a Colli e Montinari, citando due studiosi italiani novecenteschi padroni indiscussi della materia. Giametta, però, sa che pensare con Nietzsche significa, prima o poi, pensare contro di lui. Nessun timore reverenziale dovrebbe attanagliare chi non voglia imbalsamarlo dentro comode interpretazioni, che lo ripongono nel museo delle idee ricevute.
Nietzsche (1844-1900) ha bombardato il quartier generale della cultura occidentale, annichilendone difese e sicurezze: un attacco morale e concettuale all´etica ebreo-cristiana e alla conoscenza che si spacci per definitiva. Occorre onorarne in modo maschio la lezione, rivelando gli inevitabili punti deboli della sua strategia. Ecco perché la filologia cede il passo alla filosofia: un territorio friabile, per nulla rassicurante, decisamente esaltante. Passaggio di testimone, da Giametta certificato in ventuno mirabili pagine introduttive, dalle quali estraggo un brano che sono sicuro farà rizzare i capelli a molti nicciani, soprattutto di fede progressista: «È destino dei pensatori non dotati per la filosofia sistematica, che però si occupano di filosofia, di cadere nella cattiva sistematicità. Nietzsche era un moralista con sfondo poetico, non era un filosofo sistematico. Tutte le sue enunciazioni hanno carattere morale. Se sono prese come forme di ribellione alla falsità e all´ipocrisia, sono vere; se sono prese come filosofemi, sono sbagliate. (�) Il nichilismo libera l´uomo da vincoli esterni, inautentici, riconsegnandolo a se stesso, alla sua libertà e responsabilità creativa, ma non funziona come dottrina positiva, fondante. (�) Diventa così il cuore della conservazione reazionaria, destinata a precipitare fatalmente (non determinata, ma solo attizzata dal comunismo) nel nazionalsocialismo».
Un revisionismo inconsueto, coraggioso fino alla temerarietà. Spuntare i baffoni di Friedrich significa ridurli alle dimensioni dei baffetti di Adolf (Hitler): un sacrilegio. Passi per il Nietzsche saggista più che teoreta, psicologo-moralista piuttosto che sistematizzatore, fratello di Montaigne e Leopardi invece che sodale di Kant o Hegel. Ma Nietzsche vate del nazismo è decisamente troppo, pure in questi tempi anemici, dissanguati dal politicamente corretto.
I nazisti che incendiano i luoghi già ridotti a ruderi, sui quali si era abbattuta la furia demolitrice dei suoi scritti. Un gigantesco falò, nel quale brucia l´umanesimo, conferendo al nostro paesaggio interiore ed esteriore quel tratto spento e disperato che riassume la contemporaneità. Non lo conoscessi, direi: Giametta rispolvera un vecchio libro di György Lukács, "La distruzione della ragione". La bibbia di cinquant´anni fa per una sinistra ringhiosamente marxista che considerava Nietzsche l´irrazionalista per eccellenza, il profeta dei campi di sterminio.
In realtà, il napoletano Giametta guarda a Croce come antidoto. Croce che nel caos primordiale della natura, nella lotta incessante degli istinti dove sguazza Nietzsche, intravede la forza pervasiva dello spirito. Il motore del senso; ciò che interrompe, attraverso l´ordine della storia, il ciclo eterno di distruzione e morte nel quale altrimenti precipita l´universo nicciano. Croce controveleno per il nichilismo, altro esempio dell´acuto revisionismo di Giametta, che guarda i testi altrui con perizia filologica e sfrontatezza filosofica. Al servizio della speranza.

giovedì 5 aprile 2007

Repubblica 5.4.07
L’offensiva della Chiesa
di Paolo Flores D’Arcais


La modernità che conosciamo, la modernità occidentale che porta alla democrazia, si fonda sull´idea di autonomia dell´uomo. Autos nomos, l´uomo che è legge (nomos) a se stesso (autos). L´uomo è dunque sovrano, stabilisce la propria legge, anziché riceverla dall´Alto e dall´Altro, da un Dio trascendente. L´uomo è libero proprio perché non è più costretto ad obbedire a norme che gli vengono imposte dall´esterno (eteros nomos, eteronomia), ma in realtà dai poteri terreni che quella volontà divina pretendono di incarnare (Papi e/o Re). La premessa della modernità è l´autonomia, la sua promessa è la sovranità dell´autogoverno.
Il lungo papato di Karol Wojtyla ha costituito una ininterrotta denuncia e critica di questa modernità (modernità incompiuta, si badi: le democrazie realmente esistenti sono ben lungi dal realizzare la sovranità dei cittadini). Il Papa polacco ha denunciato l´illuminismo come l´alambicco che ha prodotto - proprio a partire dalla pretesa dell´autonomia dell´uomo - il nichilismo morale e di conseguenza i totalitarismi del XX secolo e i loro omicidi di massa. Voltaire all´origine dei Lager e del Gulag, insomma!
Tanto Wojtyla quanto il suo successore hanno fatto dunque propria la celebre frase di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Joseph Ratzinger, che di Papa Wojtyla è stato del resto il principale ideologo, sta solo radicalizzando l´anatema di Giovanni Paolo II contro la modernità, e lo sta inquadrando in una vera strategia culturale e politica. In una efficace crociata oscurantista, che ha oggi nuove possibilità di successo (almeno parziale) grazie anche al clima di fondamentalismo cristiano che sta accompagnando negli Usa la presidenza Bush.
La chiave di volta di questa strategia è l´idea che - di fronte alla crisi di valori che sta portando il mondo globalizzato al tracollo, attraverso conflitti incontrollabili e sfiducia delle democrazie in se stesse - "solo un Dio ci può salvare". Il vero scontro di civiltà vede dunque da una parte le religioni nel loro insieme, e dall´altra l´inevitabile deriva nichilista di ogni società che voglia fare a meno di Dio (e di una "legge naturale" che coincide però puntualmente con la legge di Dio).
Il discorso di Ratisbona, che ha spinto più di un governo islamico a scatenare contro il Papa il fanatismo delle folle, era in realtà un invito ai monoteismi (Islam compreso, e anzi Islam più che mai) a fare fronte comune contro la vera minaccia che incombe sulla civiltà: l´ateismo e l´indifferenza, e insomma un laicismo che pretende di escludere Dio dalla sfera pubblica e dalla elaborazione delle leggi. Ratzinger ovviamente non mette tutte le religioni monoteiste sullo stesso piano: alla religione cristiana nella sua versione "cattolica apostolica romana" riserva il primato che gli verrebbe dalla capacità, che solo il cattolicesimo realizza in modo compiuto, di essere una religione non solo della fede ma anche del logos. Una religione, cioè, capace non solo di assumere la rivelazione divina ma anche di inverare in sé la ragione umana e la sua tradizione, da Socrate in avanti. Una religione del vero illuminismo, della ragione "rettamente intesa".
Ma se la dottrina della Chiesa di Roma e del suo Sommo Pontefice costituiscono una Verità che non è solo di fede ma anche di ragione, ne consegue la pretesa che parlamenti e governi non promulghino leggi in conflitto con tale dottrina, poiché sarebbero leggi in violazione della "natura umana", di quell´animale razionale che è e deve essere l´uomo. E contro natura, come sappiamo, sono secondo la Chiesa cattolica l´aborto, la contraccezione (compreso il preservativo), il divorzio, la ricerca scientifica con cellule staminali, l´omosessualità, e ovviamente l´eutanasia (cioè la decisione di un malato terminale, sottoposto a sofferenze inenarrabili, che la sua tortura non venga prolungata).
In tutti questi ambiti, che con il progresso scientifico vanno allargandosi, Ratzinger continua a ripetere che un parlamento e un governo, che approvassero leggi "contro natura", diventerebbero ipso facto illegittimi, anche se eletti con tutti i crismi della democrazia costituzionale. E´ la stessa posizione che Wojtyla aveva già affermato di fronte al parlamento polacco (il primo eletto democraticamente dopo mezzo secolo!), arrivando a definire l´aborto "il genocidio dei nostri giorni". Pronunciate nel contesto polacco, parole del genere stabiliscono una raccapricciante equazione tra olocausto e aborto, tra una donna che abortisce e una Ss che getta un bambino ebreo in un forno crematorio.
Queste cose venivano - ahimè - perdonate a Wojtyla (anche dal mondo laico) per via del suo "pacifismo". Joseph Ratzinger ha invece avviato una fase nuova: è convinto che la crisi delle democrazie offra alla Chiesa maggiori e insperati spazi di influenza, sia presso la classe politica sia presso i cittadini. La strategia è esplicita anche nei tempi e nei luoghi: l´Italia è considerata l´anello debole, dove sperimentare inizialmente questa vera e propria "riconquista", per passare poi alla Spagna, senza perdere le speranze per una futura azione in Germania. La Francia, allo stato attuale, sembra ancora troppo radicata nella sua laicità repubblicana, perché una crociata culturale e politica oscurantista sia ipotizzabile.
Il cuore di questa strategia, cioè il fronte comune delle religioni contro l´illuminismo dell´uomo autonomo, è destinata all´insuccesso. Ogni religione pretende di essere "più vera" delle altre, il conflitto seguito al discorso di Ratisbona non resterà l´unico.
Ma i danni che questa nuova santa alleanza cattolico-islamica (e di parti crescenti dell´ebraismo, oltre che dei protestantesimi di nord e sud America) sta producendo nella sua pars destruens contro la democrazia sono già ingenti. In Italia il 70% dei cittadini si è dichiarato a favore dell´eutanasia, ma la Chiesa è riuscita a bloccare perfino una legge incredibilmente moderata sulle coppie di fatto. E per il 12 maggio è prevista una gigantesca manifestazione clericale di massa benedetta dalla conferenza episcopale italiana. E come da copione, anche quella spagnola annuncia una nuova fase offensiva. Mentre il mondo laico, per disattenzione o per opportunismo, tace (e l´attacco contro la scienza darwiniana intanto dilaga, dalla Casa Bianca alla cattedrale di Vienna).

Il manifesto 5.4.07
Sì della camera all'«authority» per i diritti umani nelle carceri e nei Cpt
Detenuti, ecco il garante
di Matteo Bartocci


Roma Un sì atteso da 14 anni. L'aula di Montecitorio ha approvato ieri con il solo voto contrario della Lega la «Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani». Si tratta di una vera e propria authority con poteri ispettivi, di indirizzo e di controllo per i diritti umani e tutte le persone private della libertà analoghi a quelli delle altre autorità di garanzia presenti nel nostro paese (privacy, concorrenza, etc.). E' composta da quattro membri eletti da camera e senato (due donne e due uomini, una novità) e sarà presieduta da una personalità indipendente nominata dai vertici delle due camere.
La commissione, che avrà un organico massimo di 100 dipendenti, svolgerà un «monitoraggio» del rispetto dei diritti umani in Italia e all'estero, potrà formulare pareri e raccomandazioni al governo, al parlamento e alle altre amministrazioni dello stato e, come specifica autorità di garanzia delle persone private della libertà, potrà svolgere ispezioni incondizionate e non annunciate in carceri, Cpt, aeroporti, camere di sicurezza, commissariati, ospedali psichiatrici, comunità per minori e in generale ovunque vi siano persone private della libertà. «Tutti i detenuti e gli altri soggetti comunque privati della libertà personale possono rivolgersi al Garante senza vincoli di forma», recita l'articolo 12 del ddl approvato ieri, che salvaguarda comunque i compiti e l'autorità ultima della magistratura di sorveglianza.
Per i suoi compiti l'ufficio del garante nazionale potrà avvalersi della collaborazione dei tanti garanti dei detenuti locali istituiti in questi anni presso regioni e comuni. Una lunga sperimentazione che ha avuto successo e che, come ha annunciato il sottosegretario alla giustizia Luigi Manconi, il governo si è impegnato ora a istituzionalizzare con una legge ad hoc.
La Commissione dà attuazione dopo 14 anni a un trattato delle Nazioni unite che l'Italia finora non aveva mai rispettato. «Eravamo ultimi in Europa - commenta soddisfatta la relatrice del provvedimento Graziella Mascia (Prc) - da questo punto di vista il nostro paese può finalmente candidarsi al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite. La figura del Garante dei detenuti - conclude invece Mascia - colma una lacuna del nostro ordinamento penitenziario istituendo finalmente un organismo indipendente dall'amministrazione della giustizia e una nuova procedura di garanzia per i diritti dei detenuti».
Soddisfazione dalla Cgil e da Antigone, da sempre convinte della necessità di questa figura nuova soltanto per il nostro paese. «E' un passo importante nel percorso di ridefinizione di un sistema delle pene più razionale, più sicuro, più umano - commenta il responsabile nazionale Fp Cgil del settore Fabrizio Rossetti - un atto giusto che offre una nuova speranza al sistema carcerario italiano, spesso troppo sollecitato nell'esasperata interpretazione meramente custodiale del suo mandato». «Un atto di civiltà giuridica che ci avvicina agli altri paesi europei», aggiunge il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, che auspica ora una rapida approvazione anche da parte del senato.
La norma, inutile dirlo, ha avuto un iter assai tormentato. I malumori dell'Idv hanno rallentato il ddl almeno fino al momento in cui il presidente della commissione affari costituzionali Luciano Violante ha proposto di aggiungere al garante dei detenuti la (doverosa) commissione per i diritti umani che ha consentito alla fine una rapida approvazione della legge. E' però soprattutto l'astensione dell'Udc a destare stupore, considerando l'impegno personale dell'allora presidente Casini nella precedente legislatura e soprattutto perché è stata proprio la responsabile giustizia del partito centrista, Erminia Mazzoni, ad aver firmato la proposta di legge alla base della norma approvata ieri. E' dunque auspicabile che nell'arena di palazzo Madama, dove l'astensione vale voto contrario, ci sia più chiarezza nelle intenzioni in aula.

La legge
Una norma richiesta dalle Nazioni Unite
La «Commissione nazionale per la tutela dei diritti umani» avrà una sezione specifica che farà da Garante dei diritti e delle persone private della libertà personale. I cinque commissari durano in carica 4 anni e saranno scelti tra chi ha «esperienza pluriennale nel campo dei diritti umani» o «riconosciuta competenza nelle materie giuridiche afferenti alla salvaguardia dei diritti umani».
Il Garante vigila per assicurare che la custodia sia attuata in conformità alla Costituzione e alle convenzioni internazionali.

il manifesto 5.4.07
Tre garanzie decisive per le persone detenute

Un voto atteso «Passo in avanti fondamentale. L'Italia ratifichi il Protocollo Onu contro la tortura»
di Mauro Palma


Dare visibilità a luoghi per necessità, cultura e consuetudini, tenuti al riparo da sguardi indiscreti è il miglior modo per prevenire che essi possano diventare luoghi opachi, alle cui soglie il diritto rischia di arretrare e al cui interno il sistema a tutela dei diritti fondamentali rischia di non funzionare.
Per questo tutte le Convenzioni che in ambito internazionale sono state definite per prevenire ogni forma di maltrattamento delle persone private della libertà hanno ben chiaro un duplice aspetto: la prevenzione dei trattamenti «inumani e degradanti» di chi è, appunto, oggetto di tale privazione e la prevenzione delle false denunce verso chi ha correttamente operato. Lo strumento più idoneo per questo duplice obiettivo è stato da tempo individuato nella possibilità di designare un comitato indipendente che abbia accesso, in maniera ampia e non annunciata, a tali luoghi e alle persone che vi sono ristrette e che, senza nulla togliere al doveroso esercizio di controllo amministrativo e giudiziario, rappresenti un occhio esterno che continuamente monitori il sistema e individui i suoi punti di criticità.
In ambito europeo tale compito è affidato al Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e pene inumani o degradanti, che, con sede a Strasburgo, opera da quasi vent'anni conducendo continue visite nei più disparati luoghi del territorio del vecchio continente. Nel più generale ambito delle Nazioni Unite, un Comitato con analoghi poteri ha iniziato a muovere i primi passi quest'anno. Ma proprio l'allargamento della possibile tutela e la sua effettività rendono evidente la necessità di poter contare su una rete nazionale di organismi con analoghi poteri; di Comitati nazionali, quindi, che continuamente e in modo autonomo e autorevole, svolgano il lavoro di visita, ispezione, controllo e indirizzino conseguenti raccomandazioni ai governi. Per questo il Protocollo delle Nazioni Unite che ha istituito il nuovo organismo stabilisce che gli stati aderenti debbano istituire entro un anno dalla ratifica un meccanismo nazionale di controllo sui luoghi di privazione della libertà, con le caratteristiche di incisività e autonomia di cui si è detto.
L'Italia non ha ancora ratificato il Protocollo e si spera provveda in tempi brevi. Tuttavia la camera dei deputati ha inviato ieri un segnale molto positivo in tale direzione, con l'approvazione del disegno di legge che istituisce la «Commissione per la promozione e la tutela dei diritti umani» e affida a essa tale compito di monitoraggio. Viene così a un primo compimento un percorso che in via sperimentale si era già avviato, sulla spinta dell'associazionismo che si occupa di carcere e penalità, in primo luogo Antigone, attraverso l'introduzione della figura del «garante dei detenuti», già istituita in molte amministrazioni locali.
Tre elementi modificano, rafforzandole, le connotazioni della sperimentazione fin qui condotta. Il primo è che il disegno di legge approvato non si limita al solo mondo carcerario, ma considera tutte le forme della privazione della libertà: dalla custodia nei vari luoghi della polizia, della guardia di finanza o dei carabinieri, ai centri di permanenza temporanea per immigrati, alle comunità per minori, alle strutture che ospitano in convenzione coloro che usufruiscono di misure alternative alla detenzione.
Il secondo elemento è che, una volta in vigore la legge, l'accesso ai luoghi non sarà più richiesto alle amministrazioni e da esse autorizzato, così come è per gli attuali «garanti» ma sarà un autonomo e doveroso esercizio del proprio mandato da parte della Commissione. Il terzo è che tale funzione sarà parte, ben specifica e definita, di un più ampio compito della Commissione stessa, volto all'effettiva tutela dei diritti fondamentali delle persone, all'individuazione di situazioni a rischio e di necessità formative degli operatori, alla formulazione di proposte da rivolgere al governo e al parlamento. In sostanza un compito non solo ispettivo, ma anche di indirizzo.
Un buon passo in avanti, quindi, che si affianca a quello dell'inserimento del reato di tortura nel codice penale, in esame al senato dopo l'approvazione della camera. Entrambi potrebbero - ci auguriamo - giungere al termine del proprio iter legislativo in breve, inviando un messaggio di capacità della politica nel suo complesso di dare indicazioni e costruire cultura in ambiti non sempre produttori di immediato, facile, consenso.
o Presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura

Il manifesto 5.4.07
Varianti del nichilismo incarnate nei personaggi di Dostoevskij
Fonti filosofiche. Un saggio di Sergio Givone per Laterza sulla Weltanschauung del grande scrittore russo
di Mario Pezzella


È concepibile una decisione morale se Dio non esiste? È l'interrogativo di molti personaggi di Dostoevskij, e in particolare di Ivan Karamazov, come ricorda Sergio Givone nel suo libro, Dostoevskij e la filosofia (Laterza). L'inesistenza di Dio è provata, secondo Ivan, dalla sofferenza gratuita e inutile delle creature e in particolare di quelle più innocenti, i bambini.
Simile alla concezione nietzschiana del nichilismo, quella di Dostoevskij giunge però a un esito diverso, componendosi di tre elementi decisivi. Intanto, lo splendore dell'istante, che caratterizza la sua estetica, e che è espresso in primo luogo da Kirillov, nei Dèmoni: se Dio non esiste, ogni istante è affidato irreversibilmente alla sua unicità e caducità, confrontato immediatamente con la sua prossima morte. Di fronte al destino che lo sovrasta e lo cancella, ogni istante - anche il più doloroso - assume allora il fascino dell'irrevocabile, una giustificazione che rende superfluo ogni rinvio a un senso della vita, al di là della vita stessa. Il secondo carattere è la decisione senza fondamento, variante etica del nichilismo espressa soprattutto da Raskolnikov, in Delitto e castigo. Se non c'è più senso della vita oltre la vita stessa, allora siamo noi a creare qui e ora il senso del presente, con la nostra azione. Nulla può orientarci verso un contenuto piuttosto che un altro: conta piuttosto l'efficacia e l'energia della risoluzione, la volontà di potenza che essa è capace di esprimere. Come la decisione di cui parleranno Schmitt e Jünger, «immediatamente, la decisione vuole se stessa. Il suo contenuto le è indifferente» - scrive Givone.
Quanto al piano teoretico-politico, un ulteriore aspetto del nichilismo sta nel totalitarismo. La sua descrizione più compiuta si trova nella leggenda del Santo Inquisitore, raccontata nei Fratelli Karamazov. Se non c'è più alcun Dio, e dunque alcuna redenzione dal dolore presente, questo mondo diviene infinitamente mutabile e manipolabile: l'uomo senza Dio può concentrarsi nella creazione di uno Stato o di una Chiesa, compiutamente immanenti, da cui sia esclusa la causa maggiore di ogni infelicità: il tragico peso della libertà, la possibilità di compiere il male piuttosto che il bene. Infine, c'è una versione debole e derivata del nichilismo, quella esposta da Versilov nell'Adolescente, che Givone definisce «un cimiteriale rapporto con la tradizione», dove si dà per scontato il fallimento delle altre forme di nichilismo, mostrato da Dostoevskij a conclusione della parabola dei suoi personaggi: lo splendore dell'istante è un fantasma che coincide con l'imminenza del suicidio e della malattia; la decisione infondata si rivela in realtà sorretta da una inconsapevole coazione a ripetere; lo stato totalitario si afferma come regno del Terrore. Di fronte a ciò, Versiliov si rifugia nella contemplazione malinconica e disincantata del passato, sperando che la riconosciuta insensatezza del mondo porti almeno allo stemperarsi dei conflitti e a una accettazione pacifica della mediocrità umana. Il senso della vita non c'è, può essere solo decostruito quando pretende di presentarsi come tale: ma la soluzione «debole» di Versilov è solo una pausa di stanchezza, che prelude al ripresentarsi ciclico delle altre forme di nichilismo e della sua ratio fondamentale: la manipolabilità illimitata e arbitraria del vivente.
Secondo Givone, il fallimento del nichilismo è mostrato da Dostoevskij non meno del suo dispiegamento, e dipende dalla cancellazione di ogni senso dell'alterità e del possibile. L'istante eternizzato di Kirillov, la decisione infondata di Raskolnikov, lo Stato totalitario di Sigalev, suppongono un abbandono radicale alla situazione e all'essere nella sua attualità inalterabile. Che si può manipolare e mutare indefinitamente, nella sua sempre uguale opacità. Protesta estrema e radicale di questa alterità è la fede di Dostoevskij in un Dio che assuma radicalmente su di sè il carico dell'oscurità e del male; fino a laciar supporre un fondo oscuro e antinomico nella sua stessa essenza, una compresenza del male e della libertà nella sua stessa natura.
Il più enigmatico dei personaggi di Dostoevskij, il principe Myskin dell'Idiota, viene paragonato in alcune note preparatorie e in qualche lettera di Dostoevskij a Cristo stesso; ma anche a Don Chisciotte. Sembra animato da una forza che pur volendo costantemente il bene, produce immancabilmente il male. Nonostante la sua assoluta bontà, o forse proprio perciò, il principe Myskin non può evitare la catastrofe che colpisce tutte le altre figure del romanzo. La sua non-violenza, la sua incapacità ad assumere la più lieve colpa, la sua radicale forma di non resistenza al male, si traducono paradossalmente nell'accettazione dell'accadere in tutta la sua negatività. Anch'egli è affascinato dallo «splendore dell'istante», che però gli viene concesso unicamente dalla malattia di cui soffre. Privo di colpe, egli è però anche incapace di un'azione responsabile, che potrebbe interrompere la catena fatale degli eventi.

Repubblica 5.4.07
Kafka e l’amico Max
Torna l’epistolario tra lo scrittore e Brod con diversi inediti
di Franco Volpi


Ma il loro rapporto, come notò Benjamin scrivendo a Scholem, risultò piuttosto enigmatico
Brod pubblicò i romanzi che Franz gli aveva chiesto di bruciare e divenne il suo primo biografo

Il 23 ottobre 1902 Kafka assistette in un circolo studentesco dell´università tedesca di Praga - dove studiava giurisprudenza - a una conferenza su Schopenhauer di Max Brod, anche lui giovane giurista e letterato di belle speranze. Ne nacque un lungo sodalizio, e alla morte, come si sa, Kafka affidò all´amico i suoi manoscritti con la disposizione di distruggerli. Ma Brod - con una decisione che avrebbe cambiato le sorti della letteratura del Novecento - non rispettò la volontà testamentaria di Kafka. Nel 1925 pubblicò Il processo, nel 1926 Il castello, nel 1927 America. E nel 1939, poco prima che i nazisti arrivassero a Praga, fuggì con il suo tesoro letterario in Palestina, salvando una seconda volta quelle mirabili carte, oggi conservate nella Bodleian Library a Oxford. Brod scrisse anche la prima biografia di Kafka (1937), e intrattenne con lui un fitto carteggio, fonte indispensabile di informazioni. Il lettore italiano, tuttavia, ne conosceva finora soltanto la metà, cioè le missive di Kafka. Una curiosa mutilazione editoriale, giacché un elementare criterio ermeneutico insegna che una lettera non si capisce se non conoscendo quella a cui essa risponde. È dunque un piccolo evento letterario la traduzione dell´intero carteggio curata da Marco Rispoli e Luca Zenobi per Neri Pozza.
Come scriveva Walter Benjamin a Gershom Scholem, l´amicizia tra Kafka e Brod è un «enigma». Del resto, lo stesso Kafka confessava: «A Max non risulto chiaro, e dove gli risulto chiaro, si sbaglia». Effettivamente queste lettere mostrano che la loro amicizia si nutriva, più che di sintonie, di incomprensioni e divergenze. I due hanno per esempio una diversa visione della malattia: Brod esorta l´amico a sopportarla in vista di una speranza, un fine comune più alto; Kafka invece la ritiene inesplicabile e assurda, quasi simbolo di un disagio esistenziale, della discrasia tra la sua condizione di scrittore e la comunità. Tanto da raffigurarla come un male mentale prima ancora che fisico: «Così non si va avanti - ha detto il cervello - e il polmone si è dichiarato pronto ad aiutare». Li divide anche una diversa concezione dell´eros, e della sua sublimazione letteraria. Ma soprattutto l´ebraismo. Influenzato da Martin Buber, Brod è sionista convinto, e la letteratura fa per lui tutt´uno con la sua causa. Invece l´esistenza insulare di scrittore preserva Kafka da ogni impegno e ogni strumentalizzazione della parola. Per lui l´inchiostro è sangue. Il dialogo che ne nasce è asimmetrico, ma scava nel profondo della loro simbiotica esistenza, là dove la letteratura sgorga dalla potenza oscura della vita.

Pubblichiamo una parte inedita del carteggio
Caro Max, da tempo non ero così infelice

Ieri sono stato in un hotel con una prostituta, cercavo un po' di dolcezza
La cosa strana è che tutte le persone sono buone con me

Da "Un altro scrivere" (Neri Pozza, pagg. 448, euro 40) anticipiamo due lettere inedite di Franz Kafka e, in parte, una di Max Brod.

Praga, settembre 1908
Mio caro Max - sono le 12 e 30 di notte, dunque un´ora insolita per scrivere lettere anche quando la notte è così calda come oggi. Nemmeno le falene si avvicinano alla luce.
Dopo gli 8 giorni felici nella selva boema - le farfalle lì volano alte come le rondini da noi - ora sono da 4 giorni a Praga e così inerme. Nessuno mi può soffrire e io non posso soffrire nessuno, ma la seconda cosa è solo la conseguenza della prima; soltanto il tuo libro, che ora finalmente sto leggendo difilato, mi fa bene. Così profondamente infelice, senza una motivazione, non lo ero da tempo. Finché lo leggo mi ci aggrappo, anche se non vuole affatto essere d´aiuto agli infelici; altrimenti devo cercare qualcuno che mi tocchi anche soltanto con dolcezza, ed è una necessità così pressante che ieri sono stato in hotel con una prostituta. E´ troppo vecchia per essere ancora melanconica, solo le dispiace, seppure non la meraviglia, che non si sia così gentili con le prostitute come lo si è in una relazione. Non l´ho consolata, poiché nemmeno lei ha consolato me.
Saluti cordiali a te, tua moglie e a tutti, in particolare a Oskar, cui non ho ancora scritto: nonostante non sussista alcun impedimento, mi decido così difficilmente a scrivere lettere necessariamente pubbliche.
Tuo F.

Merano, fine maggio/inizio giugno 1920
Carissimo Max, cosa hai voluto dire sulle scale - ti ricordi? - con il tuo ultimo desiderio di viaggio? Se lo intendevi come un esame, temo che non lo supererò. Gli esami non mi temprano, quando le prendo non rimango al mio posto, ma corro via e scompaio dietro le botte. Devo essere lieto del fatto di non essere riuscito a sposarmi? Allora sarai divenuto immediatamente ciò che ora sto diventando per gradi: pazzo. Con pause di rinsavimento più e più brevi durante le quali, non io, ma l´altro raccoglie le forze.
La cosa strana sulla quale finalmente potrei porre la mia attenzione, è che tutte le persone nei miei confronti sono oltre misura buone e, se voglio, immediatamente pronte al sacrificio, da quella per me meno significativa a quella più eccelsa. Da ciò ho tratto delle conclusioni sulla natura umana in genere e mi sono sentito ancora più oppresso. Ma probabilmente non è giusto, gli uomini si comportano in questa maniera solo nei confronti di quell´individuo che non riescono in nessun modo ad aiutare.
Un particolare senso dell´olfatto rivela loro la presenza di un caso del genere. Anche nei tuoi confronti Max, molte persone (non tutte) sono buone e pronte al sacrificio, ma tu poi ricambi il mondo in maniera incessante, è una vera e propria partita di giro (per questo tu puoi anche bilanciare umanamente cose che io a malapena posso toccare), io invece non pago niente o almeno non agli uomini.
Franz

Praga, 9-6-1920
Carissimo Franz
(...) Mi scrivi con tristezza. Io però non ti ho risposto per così tanto tempo solo perché ti avrei scritto con ancora maggiore tristezza. Dentro di me c´è un vuoto come non accadeva da anni. La delusione avuta dalla signora di Brno è molto più profonda di quanto non avessi pensato, anche se ho sofferto molto fin dal principio. Quell´enigma tormentoso non mi esce dalla testa. Tutto mi sembra al cospetto così grigio, così poco sincero. Alla nostra età non si può aprire fino in fondo il proprio cuore senza pagarne le conseguenze. Può essere un evento fortunato, e così sembrava nel mio caso. Ma il contraccolpo, quando arriva, ha un effetto spaventoso, addirittura devastante.
Non ho voglia di nulla, e questo proprio adesso quando avrei tempo libero come mai prima d´ora. Comunque il momento peggiore è forse già passato. Nelle ultime due settimane ho di nuovo preso in mano il mio libro teorico e ci lavoro ogni giorno tenacemente, qua e là mi riesce un passaggio, e tutto è già più sopportabile di quei tremendi pomeriggi inoperosi di maggio. In ogni caso mi manchi molto. Non ho nessuno con cui poter parlare di queste cose.
(...) Non potrei scrivere proprio nulla se non sapessi che la prossima settimana sarò a Brno per il nostro congresso politico. Questo mi dà un po´ di coraggio. Forse giungerò ad avere un «sì» o un «no» chiaro, ma non è sicuro, non c´è bisogno che te lo dica.
Paul Adler è stato qua, una volta sono andato a fare una passeggiata con Camill Hoffmann, ho visto il parlamento, ho parlato con Hasenclever, ho scritto su Borchardt: il lavoro va avanti ma dentro si è spalancata una tomba.
Qui è accaduta una storia strana, che ti riferisco almeno per sommi capi. Reiner, un giovane redattore della Tribuna (a quanto si dice in giro, un uomo molto fine e davvero esageratamente giovane, forse di 20 anni), si è avvelenato. Questo avveniva quando tu eri ancora a Praga, credo. Ora si è capito il perché: Willy Haas aveva una relazione con sua moglie (...), una relazione che però dovrebbe essere rimasta su un piano spirituale. Quindi, non è che i due siano stati sorpresi, sul fatto o cose del genere, ma la donna ha tormentato con le proprie parole e con il proprio comportamento il marito, che conosceva già da diversi anni prima del matrimonio, a tal punto che quest´ultimo si è ucciso in redazione.
(...) Non so perché ti ho scritto questa storia crudele. Forse perché noi soffriamo dello stesso demone e quindi la storia è nostra, allo stesso modo in cui noi siamo suoi. Dai tuoi cenni non riesco a figurarmi nulla di preciso. Ma credo soltanto che tu debba guarire, che tu debba diventare fisicamente saldo. Allora sopporterai meglio le cose. E se credi davvero che il problema stia solo in te, non nell´altra che ti ama, riesco a immaginare a fatica quanto bene mi sentirei in una situazione del genere, in cui l´amore mi arriva davvero. Così è stato per tre giorni.
Tuo Max

mercoledì 4 aprile 2007

l’Unità 4.4.07
Chiesa e politica
È tornato il ’48?
di Bruno Gravagnuolo


Il dado è tratto e indietro tutta. Rotti gli argini di una «sfida etica» in parte ancora contenuta nei termini degli «ammonimenti», i Vescovi si appellano alla società civile. E scendono in piazza per interposti parroci. Infatti con le parole di Mons. Betori, segretario generale della Cei, non solo plaudono alle associazioni laicali cattoliche che guideranno a Roma il family day contro i Dico. Ma incoraggiano le parrocchie e i parroci a essere presenti. Pur escludendo ogni adesione vescovile in prima persona.
È un salto di qualità politico, non c’è dubbio. E un chiaro ritorno al protagonismo capillare e di massa della Chiesa sulle questioni civili. Come nel 1948, al tempo dei comitati civici di Gedda, delle scomuniche di Pio XII e dei cortei col Biancofiore. Con partecipazione di ecclesiastici nonché di icone sacre e Madonne pellegrine. E come al tempo del divorzio, battaglia persa nonostante la mobilitazione dei pulpiti.
Ora però si ricomincia e con supporto di teorie devote sul «diritto naturale» in tempi di evangelizzazione contro il «relativismo». La Chiesa, ci dicono Mons. Cafarra e prima ancora il Pontefice, coi teocon nostrani, deve essere un baluardo etico e razionale contro la deriva dei valori. Il saldo sostegno della verità universalmente umana e non dubitabile, che sta a base a degli ordinamenti civili. I quali in sè - recita il Magistero ecclesiale - sono deficitari, non reggono alla globalizzazione culturale e all’emergere dei diritti individuali su scala planetaria, fomite di arbitrio e possibile anarchia. Sicchè travolti i collateralismi di partito, la Chiesa non può che farsi agenzia «metapolitica». Punto di riferimento trasversale delle coscienze e della legislazione che diviene per questa via affare precipuo dei credenti, in quanto orientati dalla Chiesa.
Di più. Proprio questo Papa, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro teorizzò a chiare lettere che il pluralismo civile dei moderni era null’altro che un pluralismo tra Chiese, come avvenne negli Usa delle sette religiose. Dottrina confermata anche dal cardinal Scola, che ha ribadito in un suo saggio la sostanza fondativa della religione cristiana, in virtù della sua intima razionalità superiore e «cristiano-occidentale». Sempre del tutto in linea col Pontefice, che a Ratisbona celebrò la superiore razionalità «greco-cristiana», a petto della deficitaria ragione islamica così intrisa di violenza in Maometto. C’è dunque da meravigliarsi se a partire da queste «basi cognitive» e di milizia teologica la Chiesa scenda in piazza? E persino contro una realtà minimale e per nulla «epocale» come i Dico? Già, scende in piazza, anche se l’invito è rivolto solo in guisa di incoraggiamento ai parroci. Dopo le note ingerenze dirette sul referendum della fecondazione assistita. Dirette fin dentro la tecnica da adottare (l’astensione per far mancare il quorum). E dopo la nota promossa dalla Cei di Bagnasco sull’obbligo esplicito di votare in Parlamento contro i Dico, già essa ben altro che «richiamo pastorale», visto il pressing sulle coscienze dei parlamentari e il riferimento vincolante all’ultimo documento «ex cathedra» del Papa.
Di che si tratta stavolta con l’appello ai parroci di Betori? Di una ben precisa teoria dell’«egemonia», che usa un «concetto» conciliare per volgerlo nel suo esatto contrario. Questo: la Chiesa come articolazione orizzontale di comunità. E il punto vien fatto valere così. Le parrocchie per Betori «non sono proprietà del clero. E se i laici si appoggeranno alle parrocchie per organizzare la manifestazione, non si potrà impedire al parroco di partecipare con i fedeli»». Da un lato quindi si preserva la distinzione, dallo stato, dei rami alti: La Chiesa dei Vescovi. Dall’altro però la distinzione viene «agita» per dare impulso all’autonomia del clero e dei laici, dentro la società civile. È una mobilitazione dall’alto insomma. Che incalza da entrambi i lati la «res pubblica» e che recupera la «Chiesa di base», preventivamente pungolata all’obbedienza sui princìpi dottrinali. Lotta dal basso perciò, e pressione sulle Istituzioni laiche dall’alto. In uno con la pretesa che i contenuti della fede siano vincolanti per la legislazione civile, e per credenti e non. Perché proprio questa è la democrazia basata sul «consenso», come più volte ha teorizzato sempre il cardinal Scola. Attenzione però, solo formalmente la distinzione tra Stato e Chiesa è rispettata, in tale impostazione generale. Perché di fatto in questo caso la Chiesa di Roma si muove come una forza organizzata di massa, come un partito trans-politico che plasma dinamicamente la legislazione. Organizzando per via diretta e indiretta la mobilitazione attiva, e non già fornendo appigli alla coscienza dei credenti, o tracciando orientamenti generali per essa. Ne vien fuori uno stato laico pressato e in libertà vigilata. Dove lo sconfinamento della sfera religiosa è insieme diritto e fonte del diritto. Né vale l’argomento pedestre di quei devoti alla Della Loggia, che obiettano: «vanno bene gli ecclesiastici sulla mafia e la pace e non sui Dico?». Non vanno bene affatto. Perché un conto è l’intervento episodico o spontaneo su mali e beni universalmente sentiti, come il crimine, la guerra, la fame e le ingiustizie. Altro l’intervento sistematico e capillare sui singoli temi di legislazione, pungolato e organizzato dalla gerarchia: dalla società civile al Parlamento. E tramite il privilegio di un insediamento territoriale e di una sovraesposione mediatica a vantaggio della Chiesa, senza confronti con altri paesi. Infine e in conclusione. A che pro la Chiesa vuole oggi spaccare le coscienze e la società civile con la sua nuova mobilitazione capillare? Per conquistarsi un primato civile sulle ceneri della pace religiosa, e contro ruvide ondate anticlericali e magari «neoscismatiche»? Ce lo chiediamo sinceramente preoccupati. Ci pensino i buoni Pastori prima di raccogliere inattese tempeste.

l’Unità 4.4.07
Lo Stato laico e l’equilibrio spezzato
Morena Piccinini*


Non sono credente. Non è una notizia e non dovrebbe interessare nessuno, così come io non mi sono mai chiesta se le persone con le quali ho relazioni sono o no credenti, perché sono o dovrebbero essere altre le basi sulle quali instaurare rapporti di lavoro o di amicizia o di ogni altro tipo. Ho sempre pensato che questa forma di rispetto/riconoscimento/indifferenza reciproca fosse finalmente riconosciuta anche come base per la nostra società civile.
Ora comincio ad avere paura che rapidamente torni a rompersi questo equilibrio, e ripenso alla storia dei miei genitori che, giovanissimi, decisero di sposarsi con rito civile negli anni 50, quando i matrimoni civili erano ancora pochissimi, soprattutto nei piccoli paesi di provincia. Questo, unito al fatto che erano comunisti, sollevò la reprimenda pubblica del parroco del paese e le conseguenze si videro quando dopo pochi mesi, con la mia nascita, a mio padre fu negato il congedo dal servizio militare, nonostante la legge lo prescrivesse in caso di capofamiglia con figli a carico. Mio padre riuscì a vedermi, dopo due mesi dalla mia nascita, solo grazie a un chirurgo che accettò di operarlo di appendicectomia, nonostante stesse benissimo, consentendogli di ottenere una licenza per la convalescenza.
Quella ingiustizia non era stata dettata specificamente dal parroco, ma il comportamento «zelante» dei funzionari, militari e civili, interpretava quella stigmatizzazione pur essendo esplicitamente una indebita forzatura delle leggi del tempo.
Leggendo il documento della Cei sui Dico e sulla famiglia mi ha percorso un brivido, non per il precetto rivolto ai credenti, non nuovo, pienamente legittimo e da rispettare, quanto per l'appello/comando ai decisori politici, a partire dai parlamentari, perché traducano in leggi cogenti per tutti questi precetti. Questi continui anatemi verso comportamenti ritenuti non conformi (che oggi sono diretti in modo specifico alle convivenze, ma che hanno già prodotto devastanti effetti su altre grandi questioni, come la fecondazione medicalmente assistita) rischiano di condizionare non solo parlamentari che fanno dell'ossequio al precetto una pericolosissima corrente politica trasversale ai partiti di destra, di centro e di sinistra, ma anche di produrre di nuovo, come 50 anni fa, funzionari pubblici «zelanti» o compiacenti, o asserviti al punto tale da introdurre l'obiezione di coscienza anche dove non è permessa e arrivare a negare o condizionare o rendere difficilmente esigibili diritti tutelati dalla legge.
Per tutto ciò, questa Chiesa fa paura, o per meglio dire, fa paura chi nel Parlamento e nella società accetta di non distinguere tra reato e peccato e fa dei propri valori religiosi un principio assoluto non solo per sé medesimo, ma per tutta la società.
Ma, ancor più, indigna chi, nel medesimo Parlamento e nella politica, sottovaluta questo processo integralista in atto e lo tratta alla stregua di ogni altra bagarre politica del momento, che presto passa e presto si dimentica e traduce mentalmente in possibili voti in più o in meno la partecipazione al family day.
*segretaria confederale Cgil

Repubblica 4.4.07
Le false risposte del diritto naturale
di Gustavo Zarebelsky


Forse, la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. La filosofia, con la sua presunzione, ha distrutto la possibilità di ragionare così semplicemente. Ma più della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in cui perfino la "natura" dell´essere umano può essere il prodotto del suo "artificio" - potenza della genetica - ; il tempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l´oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana quella distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare così: anzi, ci aggrappiamo ancor di più a quella distinzione, come a un´assicurazione. Forse, ne abbiamo un bisogno "naturale", per non cadere preda della vertigine di un soggetto che, al tempo stesso, è oggetto di sé stesso; un soggetto avvolto e sprofondato così in un circolo vizioso esistenziale. Il pensiero religioso vede in ciò la bestemmia dell´uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare l´unico che, secondo un´interpretazione del libro dell´Esodo (3, 1-6), può dire di "essere colui che è" in forza solo della sua potenza.
Non stupisce dunque affatto che proprio quando è diventato insostenibile, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni umane, una norma che assegna al naturale il primato sull´artificiale, sinonimo di inganno, abuso, adulterazione.
Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie - diceva già Aristotele -, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi.
La storia del "diritto naturale" è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per morto. Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un momento di rinascita: quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro mutevoli convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno può alterare.
Così si fa da parte della Chiesa cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all´antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto, ecc. In questo modo, essa viene a proporsi come grande rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo- si dice - moralmente sfibrato dal famigerato "relativismo", sinonimo di puro edonismo, scetticismo antirazionalista, nascosto sotto i panni accattivanti della tolleranza.
Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l´avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?
Sennonché, qui incominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l´umanità intera in nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Al contrario, è il terreno dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la "natura" alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera del demonio. I primi ameranno la natura, come Dio ha amato il creato (Gen 1, 31: "E Dio vide che era cosa buona, molto") e trarranno la convinzione di dover rispettarla così com´è; i secondi la odieranno come cosa corrotta e faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua bassezza. Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la natura è madre benefica e per altri, matrigna malefica. La visione dell´illuminismo protoromantico era quella dell´armonia della vita naturale, guastata dalla civiltà, ma Giacomo Leopardi nutriva ogni genere di disperazione verso quella che "per costume e per istinto è carnefice impassibile e indifferente della sua propria famiglia, de´ suoi figliuoli e, per così dire, del suo sangue". "È funesto a chi nasce il dì natale", canta alla luna il pastore errante dell´Asia: e chi, nella sua vita, non ha mai pensato così?
Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici, il regno dell´uguaglianza e della dignità umana. I Padri della Chiesa svilupparono questa visione nell´idea di uguaglianza e fratellanza dei figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D´altra parte, Aristotele considerava la schiavitù conforme alla natura. Per i sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo Platone, "la natura vuole padroni e servi", la giustizia naturale essendo "l´utile del più forte". Spencer, il filosofo del cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava che solo la natura assicura i necessari ricambi. Se lo Stato interviene a favore dei bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere - a danno della collettività che li deve poi mantenere - i soggetti più deboli della razza umana", i "parassiti". Questa idea, applicata non agli uomini ma alle razze, ha permesso perfino di affermare che i razzisti sono i veri difensori del diritto naturale.
Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall´interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere differenti, spesso antitetici. Si discute, in questi tempi, di eutanasia. Il papa Benedetto XVI ripete instancabilmente la sua convinzione: "Nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principi che regolano il giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale"´ (12. 2. 2007). La "Esortazione apostolica" Sacramentum Caritatis del 15 marzo, ribadendo la "Nota" della Cei del 28 marzo, richiama ulteriormente il valore vincolante della "natura umana": insomma, un martellamento. Ma, leggiamo che cosa diceva un opuscolo nazista del 1940, dal titolo Du und dein Volk ("Tu e il tuo popolo"), in tema di "eliminazione dei malriusciti" e delle "razze decadenti": «Dovunque la natura sia rispettata, le creature che non possono competere con i più forti sono eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l´esistenza questi individui sono distrutti e non possono riprodursi. Questa è chiamata selezione naturale [...] Nel caso degli esseri umani, il completo rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili ed inaspettati. Un chiaro esempio è l´incremento delle malattie genetiche. In Germania, nel 1930, c´erano circa 150.000 persone in istituti psichiatrici e circa 70.000 criminali in carceri e prigioni. Essi erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un´enorme spesa da parte della società», che si traduce in danno per la parte sana, tanto più perché li si lascia liberi di riprodursi. "La carità diventa una piaga", concludeva quel testo, ispirato alla natura.
Noi leggiamo con orrore queste parole, ma non in nome della natura tradita; in nome invece della cultura, della civiltà, dell´umanità o della religione: tutte cose che non hanno a che vedere con la natura, intesa nella sua dura realtà; appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità. Che sia così, che la natura possa essere apprezzata solo dal punto di vista di qualche visione del mondo e non dal punto di vista di una pretesa essenza meramente esistenziale dell´essere umano, è riconosciuto nella relazione che il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio di quest´anno) al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall´Università del Papa, l´Università lateranense. In un passo finale, si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o sociologico bensì, con Tommaso d´Aquino, teologico. Che cosa è l´essere umano dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un´intuizione metafisica delle finalità dell´esistenza, un´intuizione di fede : "La realizzazione pratica dell´ethos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia". Fides et gratia, dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c´è di più "innaturale" di questa visione della natura, dal punto di vista di chi - legittimamente, si presume ancora - non è credente?
Ecco, come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l´aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. Al più, povero lui, per il suo bene gli si potrà proporre, cieco com´è di fronte all´autentica natura umana, la peregrina e umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la Chiesa stessa dice di Dio. Senza però - lo si è visto - che ne sia davvero capace, privo come è di grazia e fede.
Non c´è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare così i drammatici problemi dell´esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Un grande giurista del secolo scorso, cattolico per giunta, ha scritto che evocare il diritto naturale nelle nostre società, dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse, significa lanciare un grido di guerra civile. Aveva ragione. Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando, come di recente, si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questo incitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, è sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l´ardire di porsi unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione. La democrazia è sempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede questo potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e unilateralmente.
La rinascita del diritto naturale corrisponde a un´esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordare con facilità: che non tutto ciò che è materialmente possibile sia anche moralmente lecito. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia scorrono senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possa affermarsi. Ma non è la natura, l´ancora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa, ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La legge naturale che ne deriva è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: una legge dalla quale la Chiesa sembra allontanarsi vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura che sollevano sì dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della libertà.

Repubblica 4.4.07
Quando le tonache scendono dal pulpito
di Filippo Ceccarelli


«Questa sacra Repubblica pretina, dai muri nuovi o almen pare a vederli»... E in effetti, a quasi sessant´anni dal salace epigramma di Curzio Malaparte, e dalla vittoria nella crociata elettorale del 18 aprile 1948, preti in piazza se ne sono continuati a vedere. Gesuiti antimafia in Sicilia, lefebvriani nelle manifestazioni del Msi e poi della Lega, beati costruttori di pace sotto le bandiere arcobaleno; e don Gallo contro la repressione, don Benzi contro la prostituzione, don Vitaliano a Genova o al Gay Pride, don Gelmini a salutare la legge sugli stupefacenti con roghi festosi.
Non solo, ma se si estende il concetto di piazza al suo prolungamento elettronico, e cioè alla televisione, ecco che lì dentro preti e suore abbondano, spesso cantano, a volte ballano, di norma offrono al pubblico consigli o ricette, occhiatacce e speranze.
Comunque partecipano, ognuno nel modo che gli è più consono, al discorso pubblico: e valga per tutti il più gettonato, don Mazzi, e un po´ anche quella trasmissione significativamente intitolata «Mazzi vostri». A seguire il piccolo schermo con qualche diligenza, d´altra parte, c´è pure un prete dei Vip, don Santino Spartià, a cui le Iene fanno sempre tòc-tòc sulla testa, con le mani, fino al punto che quando lui le vede avvicinarsi se lo fa da solo, tòc-tòc. Questo per dire che gli ecclesiastici non sono mai incompatibili alla piazza, nelle sue varie tecno-accezioni.
E però, nel senso più strettamente ed eminentemente politico, per trovare un momento che richiami la magnitudine di sacerdoti attesi a San Giovanni per il Family day il prossimo 12 maggio, non si può che richiamare l´Italia «pretina» di Malaparte. Che poi era l´Italia uscita dal fascismo, e in questo senso si può anche rievocare quell´altro fulmineo epigramma dedicato da Mino Maccari all´ideale passaggio di consegne tra l´orbace alla tonaca: «Della camicia nera i tristi eredi/ se la sono allungata fino ai piedi».
Nell´immaginario letterario erano gli anni di don Camillo, che suonava le campane durante i comizi del sindaco comunista Peppone. Ma nella realtà socio-politica era la Chiesa che si impegnava in prima persona alla grande mobilitazione dei Comitati civici contro il comunismo. La «crociata», come la invocava Pio XII prima dello scontro elettorale decisivo: «Con Cristo o contro Cristo». E´ lì, è in quel momento, è in quel clima che le somiglianze con l´oggi cominciano a impressionare.
C´era allora un fervido movimentismo ecclesiale, una indubbia gagliardia piazzaiola. A Bologna, con la benedizione del cardinal Lercaro, furono anche sperimentati con qualche efficacia i cosiddetti «Frati volanti», spediti in gruppo nei comizi del Pci con l´obiettivo di confutare rumorosamente le tesi dell´oratore. Indimenticabile «caposquadra» Frate Tommaso Toschi, sempre pronto al contraddittorio: «Qualsiasi mezzo era buono per difendere la Chiesa - ha ricordato in tv qualche anno fa - bisognava controbattere colpo su colpo». Non di rado ci scappava la zuffa, e non è che questi religiosi, questi francescani per l´esattezza, si tirassero sempre indietro.
I frati volanti avevano anche delle «cappelle mobili», in pratica dei camioncini attrezzati in modo da poter celebrare messa, con cui battevano le campagne emiliane. Secondo la testimonianza di chi dopo tanti anni ha ricostruito la loro storia, si erano assunti il compito di segnalare non solo il peccato, ma anche i peccatori; per cui appiccicavano sulle case delle coppie non sposate in Chiesa delle strisce di carta con le parole: «Qui abitano dei concubini».
Altri tempi, ma fino a un certo punto. Era l´Italia della Madonna Pellegrina, sacra immagine itinerante d´importazione francese che le varie diocesi italiane avevano arruolato con scopi elettorali: «All´imbrunire, l´ora più suggestiva della giornata - la descrive Anna Bravo ne I luoghi della memoria (Laterza, 1996) - i fedeli arrivano in corteo, le donne divise dagli uomini, i bambini dagli adulti, gli sposati dai non sposati». L´Italia in cui circolava quella specie di santino - «Il messaggio della Regina» - che Edoardo Novelli riporta nella sua storia della comunicazione, La turbopolitica (Rizzoli, 2006), e che oggi sembra uno scherzo, ma a quei tempi non lo era affatto: «Quando il voto avrai tu dato/ allo Scudo ch´è Crociato,/ sentirai dentro del cuore/ che non hai commesso errore». E che così si conclude: «Stai sicuro che ad Alcide/ la Madonna gli sorride,/ che votar per lui ti dice/ la Potente Ausiliatrice».
Davvero lontano allora, il Concilio; così come un po´ comincia a sembrarlo oggi, per una Chiesa che sembra tornata in guerra con il mondo. Così il pensiero torna all´Italia di Luigi Gedda e dei baschi blu dell´Azione cattolica che cantavano «Siam gli araldi della Fede»; ai «comandamenti elettorali in otto punti» dell´arcivescovo di Genova Giuseppe Siri; ai manualetti «Sorgere e votare per la Croce di Cristo»; alla calda oratoria - «quasi sacra» la definisce Andreotti con un certo distacco nei suoi Diari - di padre Riccardo Lombardi, detto «il microfono di Dio». Per primo il tonante gesuita immaginò e mise in pratica un collegamento tra chiese e piazze da realizzarsi attraverso impianti telefonici e altoparlanti. Per la «Predicazione della Crociata», a Roma, furono connessi 200 location. Sono passati poco più di sessant´anni. Insieme troppi e troppo pochi.

Il Riformista 4.4.07
SINISTRA DS. LAVORIAMO ALL’UNITÀ DELLA SINISTRA 
Buon lavoro ai compagni che sbagliano
Noi non faremo la riserva sterile del Pd
DI CARLO LEONI


L'appello che, come mozione «A sinistra per il socialismo europeo», abbiamo rivolto a Piero Fassino qualche giorno fa, propone una pausa che consenta una riflessione comune sull’immediato futuro.
Questa proposta non nasce certo dal fatto che si ignorano o si sottovalutano i risultati del congresso. I dati li conosciamo: la mozione presentata dal segretario ha vinto con ampio margine e ha ora la piena legittimazione ad andare avanti e a realizzare il proprio progetto politico. Nessuno mette in discussione l’esito di un processo democratico, che noi per primi abbiamo fortemente voluto e che, semmai, avrebbe dovuto svolgersi prima. Prima, cioè, che il gruppo dirigente dei Ds desse il suo assenso all’unificazione con la Margherita, senza un mandato degli iscritti. Ma questa è storia passata: svolti i congressi, la maggioranza può andare avanti. Il problema che noi abbiamo posto è di natura squisitamente politica: si stanno per superare i Ds, l’Italia sta per diventare l’unico paese europeo privo di una grande forza autonoma di sinistra e socialista. E i nodi politici dirimenti non sono stati ancora sciolti in nessun modo.
Primo: il Pd nascerà senza aver deciso preventivamente la propria collocazione internazionale. Considerare questo tema, nell’era della globalizzazione e delle grandi sfide mondiali, cosa da poco è, a mio avviso, un clamoroso abbaglio culturale, oltre che un grave errore politico. Secondo: sul tema della laicità dello Stato - mentre viene sferrato un attacco quasi senza precedenti a questo principio costituzionale - la confusione nel nascente Pd regna sovrana. Noi Ds eravamo a Piazza Farnese a difendere i Dico (un disegno di legge del governo Prodi), non pochi esponenti della Margherita dichiarano di voler aderire al Family Day, contro gli stessi Dico. E tra pochi mesi dovremmo essere non più solo alleati, ma membri dello stesso partito.
Si dice che il Pd andrà oltre la cultura del socialismo europeo. Oltre? Sui temi dei diritti civili e della libertà delle persone, la fusione tra il nostro partito e la Margherita costringerà - sta già costringendo - i Ds a una mediazione inevitabilmente più arretrata rispetto alle posizioni di qualunque partito di sinistra e socialista. Altro che modernità. Quell’operazione innovativa che tanti avevano intravisto nella suggestione del Pd si è ridotta alla mera fusione tra due partiti. I quali, piuttosto che affrontare il difficile e coraggioso impegno di rinnovare se stessi, hanno scelto semplicemente di mettere insieme la propria forza elettorale.
A Orvieto c’erano Ds e Margherita: non altri. I Ds e la Margherita hanno nominato gli estensori del Manifesto. Sono sempre e solo questi due partiti a svolgere i propri congressi e a decidere la data per la fusione. Non c’è altro. E dire che questo è solo l’atto iniziale, equivale - come ha scritto efficacemente Achille Occhetto sulle pagine del Riformista - «all’apertura dei giardini della reggia ai cittadini, quando tutto è già stato deciso».
La delusione per tutto questo si sta facendo sentire, anche tra i sostenitori della prima ora del progetto del Pd. E la distanza tra il Grande Ulivo del ’96 - nel quale ho molto creduto - e quest’esperienza è enorme, non solo quantitativamente. Vale dunque la pena di chiudere i Ds per ottenere così poco? Dividere e lacerare la nostra comunità per realizzare un’esperienza tanto precaria? Per questo abbiamo detto «fermatevi, raccontiamoci la verità e ragioniamo insieme». Ma fino a ora si è risposto, al contrario, con l’impegno ad accelerare rispetto ai tempi già stretti indicati nella mozione Fassino.
Non trovo giusto che si sia andati nei congressi di sezione a dire «Non preoccupatevi, abbiamo due anni di tempo, fino al 2009, per verificare»; e poi, una volta ottenuto il consenso, comunicare invece che già all’inizio del prossimo anno, cioè tra pochi mesi, i Ds non ci saranno più e nascerà il Partito democratico. Accelerare vuol dire che non si farà nessuna vera fase costituente, nessuna apertura esterna reale. A decidere tutto saranno gli attuali gruppi dirigenti dei due partiti. Può apparire forse rassicurante, certo: ma tutto questo non è né innovativo, né democratico.
Anche se le parole fino a oggi pronunciate da Fassino e da D’Alema sembrano chiudere ogni spiraglio, io continuo a sperare fino all’ultimo momento utile - fino, cioè, al congresso nazionale - che qualche novità intervenga, che si raccolga questo nostro appello. Certo che ha vinto la mozione Fassino, chi lo mette in dubbio? Ma il fatto che circa un quarto dei tanti che hanno votato nei congressi di sezione abbia espresso contrarietà o forti dubbi non conta proprio nulla? No, evidentemente. Conta talmente poco da far dire «Noi andiamo avanti come se voi non aveste detto nulla. Ma seguiteci e fate la minoranza (la minoranza, sia chiaro) nel futuro partito».
Abbiamo già detto con chiarezza che questo ruolo non ci convince e non ci appassiona. Che non siamo disponibili. Non ci convince perché sarebbe una collocazione del tutto inutile, improduttiva. Non solo per noi, ma per il centrosinistra italiano. Una riserva sterile. Saremmo in pochi e poco rappresentativi, perché comunque molti compagni faranno altre scelte. Dentro un partito nel quale non crediamo e, proprio per questo, impegnati solo in una funzione di freno, di intralcio, di interdizione. Ecco, sarebbe solo l’autotutela di una nicchia politica: non credo servirebbe neanche al Partito democratico.
Sarebbe meglio, questo ci siamo detti, metterci al servizio di un’idea più difficile e più ambiziosa. Lavorare, per tutto il tempo che ci vorrà, a un processo di rinnovamento e di unità nella sinistra italiana, per dare vita a una forza più grande e più innovativa di quelle attuali, legata al socialismo europeo. Una forza autonoma della sinistra di governo, alleata del Partito democratico, in un assetto del centrosinistra più razionale e più coeso di quello presente, così frammentato e così rissoso. Non sarebbe meglio per tutti? Io penso di sì.
Continuo dunque a sperare in un ripensamento, in una riflessione aggiornata e più matura. Che dia a noi e ai compagni della mozione Angius quelle risposte fin qui negate. Ma dico onestamente che se il Pd dovesse nascere, sebbene io non ne farò parte, non gli augurerò di deragliare, di andare a sbattere: perché mi stanno a cuore il centrosinistra e la tenuta della politica democratica italiana. Augurerò buon lavoro alle compagne e ai compagni che - secondo me sbagliando - sceglieranno quella strada. La cosa migliore da fare sarebbe tenere e rinnovare i Ds. Ma se questo sarà proprio impossibile, dalla nostra storia e dalla nostra esperienza politica vorrei che emergano non una fusione e una resa, non un accorpamento e una scissione: ma due processi costituenti, entrambi benefici per il centrosinistra e la democrazia italiana.
La sinistra non può ridursi né a essere a mala pena la corrente di un partito (così non è in nessun paese europeo), né una testimonianza di fede personale (del tipo «Ovunque io vada, resterò sempre di sinistra!»). La sinistra non può neanche essere un pulviscolo di formazioni residuali in conflitto tra di loro, perché è proprio questo uno dei fattori della crisi italiana. Serve unità e servono novità: culturali, prima ancora che politiche. Su questo avrebbero dovuto e dovrebbero impegnarsi i Ds. Se i Ds non ci saranno più, qualcuno si prenderà il carico di contribuire - senza spocchia né arroganza, ma con necessaria determinazione - a introdurre questa novità nel panorama politico italiano.

Vicepresidente della Camera, sinistra Ds

Unita.it 4.4.07
La piazza di Dio
di Bruno Ugolini


Era ora. Non se ne poteva più di questo silenzio sociale. Tacciono I metalmeccanici, i tessili, gli alimentaristi, gli elettrici, i braccianti, i pensionati, gli invalidi, i parenti dei morti sul lavoro, quelli tartassati del fisco direttamente sulle buste-paga, quelli che non hanno diritti nemmeno quello di scioperare o andare in ferie. E' da molto tempo che non manifestano. Forse si trovano bene così. Stanno zitti e buoni. Ora però tutto cambia. La Santa Madre Chiesa ha preso in mano le redini della protesta sociale. Scende in piazza. Ma che cosa inquieta questi uomini di preghiera trasformati in agitatori sociali? I contratti di lavoro che non vengono rinnovati? La media giornaliera dei morti in fabbriche e cantieri? No, l’obiettivo è impedire l'oscura e terribile minaccia dei Dico. Cardinali e monsignori sono preoccupati per questi poveri di spirito chiusi in coppie libertine. Non s’interessano dei poveri di pane e diritti. Sono i nuovi sindacalisti, in abito talare, contro il peccato dell’amore privo di tutti i crismi. Fra poco faranno staccare anche i peccaminosi lucchetti simbolici appesi dagli adolescenti a Ponte Milvio, in quel di Roma. Simboli del demonio. Hanno scatenato una moderna crociata contro il dilagare delle convivenze, magari anche tra persone dello stesso sesso. Concubini senza ritegno che vorrebbero perfino tutele legali, senza nemmeno pagare le spese spesso spropositate delle cerimonie matrimoniali. Sarebbe anche un colpo per le finanze dei poveri parroci. Non si meravigliano della mercificazione delle carni che imperversa in Vallettopoli o nel dilagare dell'affarismo politico. Oppure di situazioni imbarazzanti come quelle dei centri d’accoglienza dove si ammassano gli immigrati nelle metropoli. Dio non abita lì.

Repubblica 4.4.07
Lo psicologo è morto a Palo Alto. Aveva 85 anni
Watzlawick: se le idee si ammalano
di Umberto Galimberti


L'idea di una terapia che cambia non guarisce
Famose le sue "Istruzioni per rendersi infelici"

Paul Watzlawick, morto ieri nella sua casa di Palo Alto in California all´età di 85 anni, è lo psicologo che meglio di tutti è riuscito a coniugare i problemi della psiche con quelli del pensiero e quindi a sollevare le tematiche psicologiche al livello che a loro compete, perché ad «ammalarsi» non è solo la nostra anima, ma anche le nostre idee che, quando sono sbagliate, intralciano e complicano la nostra vita rendendola infelice. E proprio Istruzioni per rendersi infelici, che Feltrinelli pubblicò nel 1984 facendo undici edizioni in due anni, è stato il libro che ha reso noto Watzlawick in Italia al grande pubblico.
Nato a Villach, in Austria, nel 1921, Watzlawick nel 1949 ha conseguito all´Università di Venezia la laurea in lingue moderne e filosofia. L´anno successivo prese a frequentare l´Istituto di Psicologia analitica di Zurigo dove nel 1954 conseguì il diploma di analista. Dal 1957 al 1960 ottenne la cattedra di psicoterapia presso l´Università di El Salvador e dal 1960 si trasferì al Mental Research Institute di Palo Alto dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra «immagine» del mondo, spesso dissonante con la «realtà» del mondo.
Le tesi centrali che sono alla base del pensiero di Watzlawick sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell´individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.
A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama «paradossale». Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare «follia». Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio-Ubaldini, 1971) non si limita a un´interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. «Paradossalmente» è proprio con l´iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la «prescrizione del sintomo» e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.
Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come «guarigione», ma come «cambiamento» a cui ha dedicato Il linguaggio del cambiamento (Feltrinelli 1980), Il codino del Barone di Münchhausen (Feltrinelli 1989) e, con Giorgio Nardone L´arte del cambiamento (Ponte alle Grazie, 1991). Secondo Watzlawick sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un´altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato dall´emisfero cerebrale sinistro che ci consente di interpretare la realtà oggettiva in termini razionali secondo una logica metodologica. Ma questa è spesso in conflitto con l´attività dell´emisfero destro da cui nascono fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde.
Il linguaggio della psicoterapia deve intervenire sull´emisfero destro perché in esso l´immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si determina il cambiamento dell´immagine del mondo che è alla base della sofferenza psichica.
La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune secondo cui, a partire dalla nascita la realtà non può che essere «scoperta». No, dice Watzlawick ne La realtà inventata (Feltrinelli, 1988). Il costruttivismo, che è alla base della sua concezione sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è un´interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l´esperienza. La realtà non verrebbe quindi «scoperta», ma «inventata».
Da queste invenzioni nascono «stili di vita» che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti di possibilità alternative. Con molti esempi Watzlawick mostra nei suoi libri come attraverso una nuova formulazione di vecchie immagini del mondo possano sorgere nuove «realtà». E così la psicologia incomincia a respirare. Oggi a raccogliere questo respiro è la consulenza filosofica che spero annoveri presto Watzlawick tra i suoi precursori e, sulla sua traccia, approfondisca quella terapia delle idee che, inosservate dalla psicologia, sono spesso la causa delle sofferenze dell´anima.

Avanti! 4.4.07
RÜDIGER SAFRANSKI, STORIA DEL MALE NELLA CULTURA OCCIDENTALE DALL’ANTICHITÀ AD OGGI
Quel vuoto fuori e dentro di noi
di Elio Matassi


Il “male” è solo un nome per designare ciò che ci minaccia: caos, violenza, barbarie, il vuoto fuori e dentro di noi. Personaggio chiave nel dramma della libertà umana, il male è una possibilità di tale libertà, anzi ne incarna esattamente il prezzo, non solo la società, ma ogni uomo è a rischio.
La riflessione sul male può attraversare i grandi miti, le religioni, l’intera storia della cultura e della politica: il peccato originale, Caino e Abele, Giobbe, Prometeo; i tentativi dell’antichità classica e del cristianesimo di fornire una risposta al problema: Platone ed Agostino; le strategie di arginamento, da Hobbes a Gehlen; i vani progetti tesi a migliorare l’uomo dall’illuminismo in poi; quella reversibilità tra filosofia della storia ed antropologia che ha caratterizzato l’illusione dell’idealismo classico tedesco; i ripetuti tentativi di costruire la torre di Babele. Il fascino sinistro esercitato dal male sull’arte, nella tragedia greca, in Sade, Baudelaire e Conrad. L’esperimento nichilistico di Nietzsche, Hitler, ossia la cupa follia del Novecento divenuta realtà. Una ricostruzione di questa avvincente storia del Male è quella, pubblicata di recente, da Rüdiger Safranski, “Il Male. La riflessione nella cultura occidentale dall’antichità ad oggi”, (Milano, Longanesi, 2006, 310 pp., 22,00 euro); Safranski è noto al grande pubblico come grande divulgatore e biografo di alcune tra le più rilevanti figure della filosofia tedesca da Schopenhauer, a Nietzsche e Heidegger. Il filo conduttore di tale ricostruzione sta nella stringente correlazione fra dimensione del male e libertà, il “prezzo della libertà”: “Il male non è un concetto, bensì un nome per designare la minaccia che la libera coscienza si trova ad affrontare, o che questa può arrecare ad un altro ente. Essa se la trova di fronte là dove la natura si preclude alla sua richiesta di senso: nel caos, nella contingenza, nell’entropia, nel mangiare e nell’essere mangiati; tanto nel vuoto dello spazio siderale quanto nel proprio io, il buco nero dell’esistenza. E la coscienza è capace di scegliere l’efferatezza, la distruzione. Le ragioni di ciò risiedono nell’abisso che si spalanca dentro l’uomo” (p.8). Il percorso comincia con alcune cosmogonie, con dei miti cioè che raccontano le catastrofi degli inizi e la nascita della libertà (capitolo I). Ma è poi capace l’uomo, in cui si sveglia la coscienza della libertà, di vivere secondo se stesso e fare da sé? Il pensiero antico ritiene di si (capitolo II), quello cristiano no. Il caso di Agostino dimostra (capitolo III) che la questione non è il vincolo morale, bensì se l’uomo sia in grado di serbarsi alla propria sete di trascendenza. Il tradimento della trascendenza, la trasformazione dell’uomo in un essere ad una dimensione sono per Agostino il vero male, il peccato contro la Spirito Santo. A questa concezione del mondo aderiscono anche Schelling e Schopenhauer (capitoli IV e V). Ambedue spiegano: chi rinnega il bisogno metafisico restringe drammaticamente le potenzialità umane abbandonandosi a conflitti privi di senso per l’autoaffermazione. Ma com’è possibile far si che l’uomo non si rinneghi? Come è possibile proteggerlo da se stesso? Agostino confida nella santa istituzione della Chiesa. Ma quand’anche il rapporto con Dio si dissolvesse, la fede nelle istituzioni può egualmente sussistere, come mostra il caso di Gehlen (capitolo VI). Le istituzioni danno alle concorrenze umane durevolezza, stabilità e limiti. Ed i limiti sono importanti perché nel dramma della libertà ha un gran ruolo anche la volontà di distinguersi. Distinguere significa tracciare dei limiti senza confine. Con la lotta per la distinzione e per i confini hanno inizio i rapporti elementari di inimicizia (capitolo VII). Noi e gli altri, l’impero ed i barbari: questa partizione condiziona la dinamica della storia, che è quindi anche una storia delle inimicizie. Ma anche il sogno dell’unione pacifica del genere umano è antico (capitolo VIII). Ce lo racconta la storia della fallita costruzione della torre di Babele. Kant ha sottoposto questo sogno all’esame della ragione: bisognerebbe, dice attenersi all’idea dell’unione pur senza dimenticare la sua distanza dalla realtà. Rousseau, invece, ha sognato con grande passione (capitolo IX). Egli immagina la società sotto forma di una grande comunione; siccome però l’altro resta sempre l’altro, l’aspirazione all’unità può repentinamente rovesciarsi nella comunione di essere circondato da nemici. Così è accaduto a Rousseau, che non ha accettato la sfida della pluralità. Il contrario ha fatto la tradizione del pensiero liberale, il cui programma contro il male suona così: non si possono migliorare gli uomini, bisogna invece investire nelle strutture (capitolo X). Non l’indole, bensì la natura dei loro legami reciproci deciderà il buono o il cattivo svolgimento della storia. Gli uni puntano sul mercato e sulla divisione dei poteri, gli altri sui rapporti di produzione. Ma non vi è dubbio che in entrambi i casi si sottovalutino i rischi della libertà. Vi sono abissi nei quali gli eccessi immaginari del marchese di Sade ci fanno spingere lo sguardo (capitolo XI). Il caso di Sade ci aiuta a scoprire quel male che, volendo se stesso, finisce per volere solamente il nulla. L’estetica del terrore ha poi esplorato quel nulla seducente e minaccioso (capitolo XII e XIII), finchè poi con Nietzsche il nichilismo perviene a perfetta consapevolezza facendo della volontà di potenza e del lavoro sul “materiale umano” il senso della “politica in grande” (capitolo XIV). Con Hitler la cupa follia del secolo si è fatta sanguinosa realtà (capitolo XV). Hitler rappresenta l’estrema caduta dei freni inibitori nell’età moderna. Da quel momento nessuno può più ignorare quanto sono profondi gli abissi della natura umana. Allorché si è smesso di credere in Dio, si è cercato un surrogato credendo nell’uomo. Il penultimo capitolo, dedicato a Giobbe (capitolo XVI), rintraccia nel suo caso un tipo di devozione che fa riflettere: devozione infondata e proprio perciò corrispondente all’abisso senza fondo dell’universo, che rivela altresì quale strana cosa sia la fiducia nell’ordine del mondo (capitolo XVII). Un percorso da cui si evince chiaramente che il male, in un modo o nell’altro, è sempre sulla cresta dell’onda.