Abusi in parrocchia, la Curia sapeva ma «salvò» il prete
di Osvaldo Sabato
Per anni le violenze e i soprusi, la parrocchia «Regina della Pace» vicino Firenze trasformata in casa dell’orrore. E oggi che le vittime - dopo anni di vergogna e silenzio - hanno rialzato la testa, parla il cardinale Silvano Piovanelli, allora responsabile della Curia: «Sì, sapevamo di don Lelio Cantini, era chiaro che aveva approfittato di una ragazza». E ancora: «Sì, ci era stato chiaro da allora». E come reagiste? «Fu fatta una severa reprensione al sacerdote».
Dunque nulla più che un rimprovero. Ora le vittime degli abusi chiedono giustizia e hanno scritto anche a Ratzinger. E anche se i reati penali sono prescritti pensano a risarcimenti in sede civile.
«PER LA PRIMA volta la trattai personalmente io questa storia», rivela a distanza di qualche anno l’ex arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli. La storia è un concentrato di abusi e violenze consumate, fin dalla metà degli anni settanta, nel buio di una canonica della parrocchia «Regina della Pace», nella periferia di Firenze.
A distanza di anni sono le vittime di don Lelio Cantini, - parroco fino a due anni fa ma ora ottantenne - a far emergere quel clima di paura, di violenze e di soprusi, con una denuncia alla curia fiorentina e al Papa per chiedere che la Chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico per questo sacerdote, che avrebbe ancora persone attorno a Viareggio dove vive attualmente, e da dove è precipitosamente scappato ieri per rifuggiarsi da alcuni amici, portando con sé solo una piccola valigia. L’allora respondabile della Curia, il cardinale Piovanelli, entrò in contatto con questa vicenda dopo una denuncia “silenziosa” e il racconto fatto da una ragazza che aveva subito le attenzioni di don Cantini. «Ma pensammo che fu uno sbaglio fatto - aggiunge Piovanelli -. È una vicenda un po’ strana perché vedevo una specie di silenzio in cui era fasciato un po’ tutto». Infatti «nessuno sapeva degli altri e quella persona che parlò con me, sapeva di sé, ma non degli altri» spiega il cardinale.
Ma le vittime di don Cantini si sono rivolte alla Curia fiorentina per denunciare questa storia già nel 2004.
«Sì, ma io nel 2004 avevo già lasciato il mio incarico... »
Lei ha parlato con una ragazza che le disse di aver subito violenze?
«Certo, che le ho parlato... »
E cosa le ha detto?
«Non ne voglio parlare, non è una cosa che ho gestito io direttamente».
Però ammette che in Curia questa storia è stata sottovalutata?
«Non credo. Devo dire che prima era impossibile, o almeno sembrava impossibile, poter giudicare perché non c’erano gli elementi necessari. Quando io ho avuto a che fare, non con questa storia, ma con un solo fatto, sembrava che ci fosse solo quello, quindi dopo aver parlato con la vittima e dopo aver parlato con il sacerdote, fatta la giusta reprensione, sembrava che ci si doveva fermare lì perché pareva un solo errore».
Ma in Curia credevano al racconto di quella ragazza?
«Io ci ho creduto. Non a caso ho fatto la mia reprensione a don Cantini».
Lei afferma che sembrava uno sbaglio solo, cosa intende dire?
«Che il sacerdote aveva commesso una sola colpa: era chiaro che aveva approfittato di una ragazza».
A voi era apparso chiaro già da subito?
«Sì. Ma riferito solo a quel fatto».
E perché la Curia non prese subito dei provvedimenti contro don Cantini?
«Fu fatto, fu fatto. Fu fatta una giusta e severa reprensione al sacerdote, dopo aver parlato anche con la vittima».
Secondo lei era sufficiente?
«Allora sì, perché c’era un fatto solo».
Si trattava di un prete che aveva abusato di una ragazza e la Chiesa si limita a fare solo un rimprovero?
«Allora sì, perché fu giudicato diversamente».
LA PARROCCHIA «REGINA DELLA PACE»
«Violenze, soprusi e ricatti»:
il racconto-choc delle vittime
Firenze. IL SILENZIO della Santa Sede sulla vicenda del parroco fiorentino, don Lelio Cantini, che per anni, come denunciano ora le sue vittime, ha spadroneggiato nella parrocchia della «Regina della Pace», alla periferia di Firenze. Le autorità vaticane non si pronunciano e spiegano che in casi come questi spetta alla diocesi far luce sul caso ed accertare le responsabilità. Chi ha parlato a distanza di anni sono state invece le vittime di don Lelio Cantini. Quelle emerse in questi giorni sono storie di violenze fisiche e psichiche, costrizioni e abusi sessuali ai danni di bambine e ragazze. Con la scusa di coinvolgerle intere famiglie in un progetto fatto di fede e spirito, le spingeva a donare alla sua parrocchia denaro e beni. Insomma più che un paradiso sembrava un inferno. Questa situazione andava avanti dalla metà degli anni settanta ma è solo a partire dal 2004, che lentamente viene tutto alla luce: partono esposti e memoriali diretti alla Curia fiorentina. L’anno dopo don Lelio Cantini viene trasferito e sospeso - per decisione dell’attuale cardinale di Firenze Ennio Antonelli - anche dalla facoltà di potere dire messa e di confessare. Ma solo ora le vittime di don Cantini hanno trovato il coraggio di uscire definitivamente allo scoperto. Lo hanno fatto per chiedere alla Curia dei provvedimenti duri, anche perché la denuncia penale è difficile perché nel frattempo gli abusi e i plagi sarebbero passati in prescrizione. Si tratta di una storia agghiacciante, riportata alla ribalta dalla stampa. Le vittime del plagio hanno denunciato violenze e soprusi alla curia fiorentina e al Papa e chiedono che la chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico e non escludono una causa civile. Raccontano che don Cantini, detto il «priore», che aveva accanto a sé una presunta veggente che selezionava gli «eletti», li minacciava se non avessero obbedito alle sue imposizioni (niente assoluzioni, eucarestia vietata): tra queste c’era la richiesta di sesso alle ragazze dai 12 ai 17 anni, alle quali, imponendo loro il silenzio, avrebbe detto che così «aderivano completamente a Dio». Ad un giovane avrebbe detto: «Quelli lassù ti hanno scelto per fare il sacerdote e se non accetti ti caccio dalla parrocchia per sempre». Fatti inquietanti per i due intellettuali fiorentini: lo storico Franco Cardini e il filosofo, Luigi Lombardi Vallauri. «È giusto fare verità» dice don Fortunato Di Noto, fondatore di un’associazione a tutela dei bambini. È quanto pretende chi ha subito per anni le violenze di don Cantini. Non a caso si sono rivolti direttamente alla Chiesa per presentargli il conto, non si sono rivolti a degli avvocati, anche se qualcuno sta valutando se chiedere almeno il risarcimento dei danni morali e fisici. È con questo stato d’animo che hanno scritto al Papa, oltre che al cardinale Antonelli, in una lettera inviata alla Segreteria di Stato della Santa Sede, lo scorso 20 marzo. Anche l’ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, si era interessato del caso e rispondendo ad una lettera tranquillizzò tutti dicendo che il sacerdote era stato allontanato dalla diocesi per «motivi di salute». Travolto dallo scandalo ora don Lelio è anche fuggito dalla sua abitazione viareggina, via verso un'altra destinazione messa a disposizione dalla rete di conoscenze che in 30 anni si sono strette a lui.
o.sab.
l’Unità 10.4.07
La lunga linea degli scandali legati alla pedofilia. In Italia condanne da Foggia a Verona
Dagli Usa al Sudamerica, quelle macchie sul Vaticano
Quando nel 2002 la burrasca dei «preti pedofili» si è abbattuta sulla Chiesa degli Usa, l’allora presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Camillo Ruini si è sentito di affermare che in Italia non vi erano particolari misure da prendere perché il fenomeno era «marginale» e quindi non era necessario alcun «monitoraggio» della situazione. Spettava ai singoli vescovi «vigilare». Pochi, pochissisimi i casi, forse una decina negli ultimi anni su oltre 25mila sacerdoti. In quella circostanza il cardinale ha sottolineato come in certi casi eclatanti si trattasse di false accuse, come a Napoli e a Palermo: un modo per infangare uomini di Chiesa in prima linea nell’impegno per la solidarietà sociale, la legalità e l’accoglienza come don Rassello a Napoli. La Cei scelse la via della sordina, anche se le condanne di religiosi per reati sessuali ci sono state oltre che a Napoli, a Ferrara, a Foggia, a Modena, a Verona e in Sicilia.
Ora la cronaca anche recente invita a minore ottimisto e a maggiore vigilanza. Non bastano le raccomandazioni per la formazione dei sacerdoti e l’accesso in seminario. È di ieri lo scandalo di Firenze. Di qualche decina di giorni fa quello che ha coinvolto don Marco Dessì, arrestato il 4 dicembre a Cagliari e rinchiuso nel carcere di Parma con accuse pesantissime: violenza sessuale plurima, aggravata e continuata su minori. Un reato consumato in Nicaragua, dove il sacerdote era stato per anni missionario, e in altri paesi. Su di lui non indaga soltanto la magistratura ordinaria. È in corso anche un processo canonico. Come per gli altri casi simili un fascicolo a suo nome è sui tavoli della Congregazione per la Dottrina della fede. Le indagini «canoniche» sui religiosi accusati di pedofilia sono oramai centralizzate. Questo oltre ad evitare ogni possibile «debolezza» o «copertura» delle diocesi di appartenenza, tende ad omologare le regole di comportamento. Una decisione presa da papa Giovanni Paolo II d’intesa con l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger che, ora pontefice, pare intenzionato a mantenere ferma la rotta.
Non basta spostare l’interessato da una parrocchia all’altra o «consigliare» un periodo di cura specialistica. Non si possono «paternamente coprire» questi casi, non basta l’ammonizione, né si possono tacitare le vittime con compensi in danaro. La via seguita dalla Chiesa negli Stati Uniti è stata disastrosa non solo per le sue finanze, ma anche per la credibilità nel mondo dell’intera Chiesa cattolica. Quando il bubbone è scoppiato, nel 2002 la condanna è stata fermissima. Dopo un difficile confronto interno e con le diocesi interessate, la Santa Sede ha deciso di affrontare in profondità il dramma della pedofilia e delle violenze sessuali che hanno avuto come protagonisti dei religiosi.
Quello che è da sottolineare è che questo non è soltanto un «dramma americano». Le accuse di pedofilia e di molestie, con le successive rimozioni di sacerdoti e in qualche caso clamoroso anche di vescovi (o perché accusati di essere personalmente coinvolti o perché ritenuti respondabili di aver «coperto» i sacerdoti colpevoli) hanno scosso tutti i continenti. Non vi è paese di antica e consolidata tradizione cattolica che non ne sia stato toccato.
r.m.
l’Unità 10.4.07
Primo Levi, 174517
La chimica di Auschwitz
di Oreste Pivetta
VENT’ANNI FA moriva Primo Levi. Un suicidio. La fine di un un uomo che aveva conosciuto l’inferno del lager ed era riuscito a raccontarlo descrivendone i perversi meccanismi. Un grande scrittore, che vedeva nella ragione la salvezza
Il suicidio di Amery, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni... Così Primo Levi ricordava in un pagina de I sommersi e i salvati la fine di Jean Amery, l’ebreo austriaco Hans Mayer, rifugiato in Belgio, intellettuale solitario e orgoglioso, combattente in un movimento di liberazione, finito nelle mani della Gestapo nel 1943, torturato e trascinato ad Auschwitz. Amery sosteneva d’aver riconosciuto Primo Levi, tra i prigionieri in una baracca che era stata per qualche tempo anche la sua. Levi negava questa circostanza: troppe ombre, troppi fantasmi tra quei legni marci di sofferenza. Con Amery e con i suoi libri (in primo luogo Intellettuale ad Auschwitz) Primo Levi intrattenne un lungo rapporto però, critico e addirittura severo, cioè senza il velo delle giustificazioni, su una questione che aveva assai inquietato l’ebreo austriaco: «rendere il colpo». «Chiedo giustizia - risponderà Levi - ma non sono capace, personalmente di fare a pugni né di rendere il colpo». Senza perdonare: «Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile... perchè non conosco atti umani che possano cancellare una colpa...».
Vent’anni fa, l’11 aprile 1987, Primo Levi sceglieva di morire, nella casa in cui era nato, figlio di una famiglia ebrea e borghese. Il padre era un ingegnere civile, moderno di temperamento, mosso più dalla curiosità scientifica che dalla religione. Vale per Primo Levi il congedo che immaginò per Amery: il suicidio, sempre, qualsiasi suicidio, ammette una nebulosa di spiegazioni... Ma è una tragedia, comunque, e resta, per gli altri, per i testimoni, i sopravvissuti, un’ostinata domanda.
Primo Levi aveva sessantotto anni, era appena uscito da un intervento chirurgico, assisteva la madre (Ester Luzzati, che morì quattro anni dopo di lui, quasi centenaria), viveva ormai ritirato: «Viaggiare - confessava - mi è molto difficile, sia per mie ragioni di famiglia, sia perchè ho finito per interiorizzare gli impedimenti e ormai mi riesce ostico mettermi in viaggio». Alla fine di gennaio aveva affidato alle pagine della Stampa alcune considerazioni sulle tesi dei revisionisti storici, sui precedenti, sulle stragi del passato e sulla deriva orientale (cioè sovietica) delle deportazioni di massa e dello sterminio di massa. Dal gulag stalinista ai lager nazisti - sosteneva Primo Levi - corre una differenza: il primo era un massacro tra eguali, Auschwitz si fondava su una ideologia grossolanamente intessuta di razzismo. Treblinka o Chelmno non erano solo campi di concentramento. Erano «buchi neri destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei», la realizzazione di un’idea, senza deviazioni.
Quattro decenni dopo la fine della guerra, sopravvivevano l’incredulità e la «zona grigia» dell’irresponsabilità o della complicità addirittura. Chi era sopravvissuto doveva misurarsi non solo con il peso del dolore, dell’inferno vissuto, ma anche con chi dimenticava, ridimensionava, rivedeva, persino irrideva... Levi spiegava di non temere il ritorno dell’antisemitismo in Germania per la semplice ragione che gli ebrei erano ormai troppo pochi. Si sarebbe dovuto ricredere di fronte alle più svariate prove di razzismo (e di antisemitismo) dei nostri tempi. Aveva già sfidato i sorrisi dei primi ai quali aveva rappresentato, a Torino, la propria odissea. Non credevano. Lo raccontava splendidamente Nuto Revelli, citando lo sbalordimento di quanti ascoltavano i suoi resoconti di morte e di gelo. «Allora, nel lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, rientravo nella mia famiglia, raccontavo e non ero ascoltato...». «L’incubo del sogno mi restava dentro: mentre scrivevo Se questo è un uomo io non ero convinto che sarebbe stato pubblicato... Volevo farne quattro o cinque copie e darle alla mia fidanzata e ai miei amici. Il mio scrivere era dunque un modo di raccontare a loro. L’intenzione di lasciare una testimonianza è venuta dopo, il bisogno primario era quello di scrivere a scopo di liberazione». Il sogno non fu poi così lontano dalla realtà: nel 1947 Einaudi, dopo varie letture, respinse il manoscritto. Che trovò invece attenta una piccola casa editrice, De Silva, di Franco Antonicelli. Levi propose il titolo I sommersi e i salvati. Renzo Zorzi, tra i primi lettori per la piccola casa editrice, ne preferì un altro: Se questo è un uomo, da un verso dello stesso Levi. Einaudi lo rilanciò nel 1956. Con grande successo, un long seller, come si dice. Scolastico e non solo. Levi rappresenta la vita nel campo di Monowitz, periferia «industriale» di Auschwitz, in una fabbrica di gomma, detta La Buna, dov’era entrato grazie alla sua laurea in chimica, una fabbrica che non produsse mai un chilo di gomma (capitava che la sua centralina elettrica venisse sempre bombardata al momento di andare in produzione) in un racconto diario, che non è mai «presa diretta»: di fronte a quella vicenda sale forte, in primo piano, la volontà di capire, di definire una realtà che appare al di là di ogni razionalità nel precipizio di un meccanismo assurdo di gerarchie e connivenze tra oppressori e oppressi, tra padroni e vittime: «In mezzo a questi infelici non c’era solidarietà; e questa mancanza era il primo trauma, il trauma più grosso. Ingenuamente io e quelli che avevano viaggiato con me avevano pensato: “per mal che vada troveremo dei compagni»”. Si trovavano dei nemici, non dei compagni...». Il prigioniero del lager resiste perchè difende la propria umanità, cerca di salvare la ragione, la ragione vigile che permette a Levi, nel confronto con gli atti di civiltà di una storia passata, di enunciare i segni più nefasti del lager.
Levi rivelò che era stato un lettore ebreo a bocciarlo per conto della Einaudi, che avrebbe poi stampato tutti i suoi libri: un anno prima della morte il saggio-memoria che riprende il titolo rifiutato da Zorzi per Se questo è un uomo. I sommersi e i salvati sembra chiudere un cerchio, con un ritorno là dove l’avventura letteraria si era iniziata, con una riflessione sistematica sull’esperienza di Auschwitz e soprattutto sul modo di conservarla senza manomissioni, sulla «scuola» di Auschwitz e sulla maniera di proporla, sulla morte e sulla sopravvivenza, sulla solitudine e sullo spaesamento. In mezzo, tra un capo e l’altro del percorso, dopo La tregua, la narrazione del ritorno a casa, Levi diventa scrittore assiduo, via via allontandosi dalla sua professione di chimico (si era laureato nel 1941, due anni prima di cadere nelle mani dei nazisti, partigiano in Val d’Aosta, dopo aver sparato un solo colpo da una pistola dall’impugnatura di madreperla), ma preservando quella sua formazione scientifica: «La chimica mi sembrava la chiave principale per aprire i segreti del cielo della terra... mi ha fornito in primo luogo un vasto assortimento di metafore. Mi ritrovo più ricco di altri colleghi scrittori, perchè per me termini come chiaro, scuro, pesante, leggero, azzurro hanno una gamma di significati più estesa e più concreta. Per me l’azzurro non è solo quello del cielo, ho cinque o sei azzurri a dispozione...».
Dopo La tregua, Levi scrisse vari racconti: raccolti in Storie naturali (nel 1967, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma (1971), Lilìt (1981). Libro singolare che intreccia autobiografia, narrazione e passione per le scienze è Il sistema periodico (1975), in ventuno capitoletti, ciascuno dei quali reca per titolo uno degli elementi della tavola di Mendeleev, dall’Argon al Carbonio, al Potassio, ciascuno dei quali aiuta a disegnare le forme della vita, attraverso le proprie. Scienza e tecnica sono state per Levi un modo per riconoscere nelle contraddizioni del presente una strada positiva. Come indica nel romanzo La chiave a stella (1978), l’operaio piemontese Tino Faussone, che gira il mondo alzando ponti, tralicci, trivelle: nel lavoro Faussone esercita la propria creatività e la propria umanità. Per Levi il lavoro continua ad essere resistenza della ragione alle condizioni più dure e difficili, in ciò sottolineando il legame tra queste prospettive e l’esperienza del lager (il paradosso di quell’insegna, «Il lavoro rende liberi», ad Auschwitz), legame che torna attuale nel romanzo Se non ora, quando? (1982), le vicende di un gruppo di partigiani ebrei nelle zone occidentali della Russia, che Levi aveva attraversato durante il suo ritorno dalla prigionia...
Romanzo che sta ad un passo dal testamento, I sommersi e i salvati, il viaggio a ritroso, il cerchio che si chiude entro l’inferno che è all’origine di tutto. Con semplicità, a Ferdinando Camon che lo intervista, Primo Levi dirà con semplicità: «Io credo di aver subìto una maturazione, avendo avuto la fortuna di sopravvivere. Perchè non si tratta di forza, ma di fortuna: non si può vincere con le proprie forze un lager. Sono stato fortunato...». Fortunato e basta: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio».
Ebreo, da Torino al lager: itinerario di un narratore «scientifico»
Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio, da una famiglia di ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza. Frequenta il liceo Massimo D’Azeglio e quindi l’università, laureandosi in chimica nel 1941. Dopo l’8 settembre si aggrega ad una formazione partigiana in Valle d’Aosta, viene catturato e rinchiuso nel campo di Fossoli, prima di venire tradotto come ebreo nel campo di Auschwitz (con numero di matricola, tatuato sul braccio, 174517): la sua competenza in chimica gli varrà un lavoro presso La Boba, fabbrica di gomma, annessa al campo. Nel 1945, alla liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, dovrà affrontare un lungo viaggio di ritorno in Italia. Troverà presto lavoro in una fabbrica chimica di Avigliana e intanto avvierà la scrittura di Se questo è un uomo. La fortuna editoriale di questo primo racconto testimonianza e del successivo La tregua consentirà a Levi di dedicarsi per intero alla scrittura, fino alla morte, vent’anni fa, l’11 aprile 1987.
Tutte le opere di Primo Levi sono state pubblicate da Einaudi (insieme, in due volumi, curati da Marco Belpoliti, con l’introduzione di Daniele Del Giudice). Importanti, per la comprensione dell’itinerario umano e letterario di Primo Levi, Autoritratto di Primo Levi, intervista a cura di Ferdinando Camon (editore Nord-Est), e Dialogo, conversazione tra Levi e il fisico Tullio Regge (Einaudi).
il Giornale 8.4.07
Ethos laico: le leggi devono essere per tutti senza veti e verità assolute
Ha fatto bene la conferenza episcopale a dare via libera ai parroci per il Family Day. Sarebbe un passo avanti se anche nel nostro paese i religiosi partecipassero direttamente alla vita politica, se i vescovi e i cardinali potessero candidarsi al parlamento, e le tesi della Chiesa fossero sostenute in politica direttamente da chi le avanza senza il filtro del Concordato. La società civile deve restare il terreno privilegiato in cui si incontrano e si scontrano i valori, gli interessi e gli obiettivi dei diversi gruppi politici, economici, culturali e religiosi presenti nella comunità nazionale: è quindi positivo che oggi vi si esprima il nuovo cattolicesimo militante, anche se il fenomeno non può riguardare i laici.
Quel che invece riguarda i cittadini di uno Stato che ha la Costituzione come legge suprema, è la pretesa dell'autorità ecclesiastica di lanciare alle istituzioni ammonimenti che tendono a condizionarne le decisioni. Quando i vescovi pretendono di dire che non si deve legiferare sulle coppie di fatto o che il testamento biologico è pericoloso, vanno oltre il magistero pastorale nel momento in cui propongono, come mi pare in questo caso, di imporre per legge precetti di fede all'intera società composta da credenti, non credenti e diversamente credenti. E non è corretto se a sostegno delle loro verità di fede vengono utilizzati con il clamore dei media argomenti allarmistici quali l'accostamento dell'omosessualità alla pedofilia e all'incesto, la confusione tra eugenetica e procreazione assistita, oppure l'affinità tra il testamento biologico e l'eutanasia.
La storia della nostra Repubblica è stata segnata da una politica democratica perché, quando si sono verificate le pressioni integralistiche della Chiesa, la classe politica anche cattolica le ha tenuta a bada, consapevole della distinzione tra la sfera politica e quella religiosa. Oggi, alla base delle richieste avanzate dalle autorità ecclesiastiche ai legislatori, v'è qualcosa che non può essere passato sotto silenzio. L'asserzione, ad esempio, che la crisi della società, causata secondo la Chiesa dal cosiddetto "relativismo", può essere vinta solo da una profonda iniezione di etica (e fin qui va benissimo), di cui però l'unica detentrice autorizzata è la Chiesa cattolica. E' questo il tipico riflesso integralistico secondo cui esiste uno ed un solo ethos pubblico (il cattolico) che deve divenire valido erga omnes, mentre tutte le altre filosofie di vita vanno relegate nel regno dell'immoralità pubblica. Certo, non sono così ingenuo da non sapere che chi professa una fede trascendente ritiene sempre e comunque di essere nel vero e nel giusto. Ma una cosa sono le verità assolute di fede, e tutt'altra cosa è il loro trasferimento nelle leggi dello Stato.
L'affermazione pontificale secondo cui alcune leggi non s'hanno da fare perché contrastano con la natura è fragilissima. E' noto che i concetti di "natura" e di "diritto naturale" hanno avuto interpretazioni diverse, sempre connesse con uno specifico contesto storico-culturale-politico. Chi come il senatore Pera se la prende, singolarmente, con il "partito clericale", dovrebbe riflettere sul fatto che nel propugnare in politica i "valori non negoziabili", dà corpo proprio al neoclericalismo. L'essenza della democrazia sta nel compromesso volto a tenere insieme la convivenza pacifica di portatori di diverse credenze, filosofie, idealit€ |à e religioni senza faide ideologiche.
In Italia deve esser possibile varare delle leggi che soddisfino l'intera comunità nazionale, come accade in tutti i paesi occidentali di antica cultura civile e religiosa. In un regime liberale non c'è posto per gli esclusivismi né per le verità assolute né per i veti che si addicono agli Stati etici e autoritari. La Chiesa fa bene a proporre i suoi valori, soprattutto quando si trova, come è ormai in Italia, in una situazione di minoranza. Ma lo Stato deve difendere l'autonomia delle proprie istituzioni mettendole al riparo da qualsiasi veto, morale o materiale che sia. Certo, i credenti in politica devono fare i conti con la loro fede, ma sarebbe opportuno che restasse un fatto personale di coscienza e non diventasse un instrumentum regni. Mi paiono delle regressioni clericali le rincorse che i gruppi politici ostentano per guadagnarsi il premio di migliori interpreti della dottrina pontificia e di zelanti esecutori politici di prescrizioni che hanno la loro pregnanza nella sfera pastorale.
The New York Times, in Repubblica 10.4.07
Il Corano non dice: picchia tua moglie. Parola di traduttrice
dl Neil MacFarquhar
Nella traduzione di La!eh Bokhiiar si offre una nuova interpretazione del versetto che autorizzerebbe i mariti a picchiare le mogli.
CHICAGO Laleh Bakhtlar stava lavorando gìà da due anni a una traduzione inglese del Corano quando si e imbattuta nella IV Sura, versetto 34.
A quel punto quasi abbandonò il progetto. II contestatissimo versetto afferma che una donna disobbediente andrebbe prima ammonita, quindi lasciata sola nel letto e da ultimo "battuta" la traduzione più frequente del termine arabo daraba fin quando non corregga il suo comportamento.
"Decisi che doveva per forza avere un altro significato altrimenti non avrei potuto continuare a tradurre", dice la Bakhtiar americana di origine iraniana, convertita all'Islam da adulta e che fino ad allora non si era soffermata su questo versetto del Corano. "Non potevo credere che Dio autorizzasse a fare del male a un altro essere umano in un contesto diverso dalla Guerra”.
La Bakhtiar ha continuato per altri cinque anni e la sua traduzione uscirà questo mese. È riuscita a trovare una soluzione, ma quei versi restano uno dei passaggi più controversi di tutto il Corano.
In Germania, il mese scorso, un giudice ha provocato scandalo respingendo, con tanto di citazione del versetto incriminato, la richiesta di divorzio immediato presentata da una marocchina nata in Germania perché suo marito la picchiava: il giudice, a cui è stato sottratto il caso, aveva scritto che Il Corano autorizzava gli abusi fisici.
Esistono almeno 20 traduzioni inglesi del Corano. Daraba è stato tradotto come: battere, colpire, picchiare, fustigare, punier, frustare, infliggere una punizione esemplare, sculacciare, accarezzare, battere piano e anche sedurre.
Laleh Bakhtiar, che ha 68 anni e un dottorato in psicologia educativa, ha deciso di cimentarsi nella traduzione perché riteneva che le versioni esistenti fossero troppo ostiche per un occidentale. Quando è arrivata al versetto della discordia, la Bakhtiar che ha imparato a leggere i testi sacri in arabo quando studiava e lavorava come traduttrice in Iran, negli anni '70 e'80 ha perso tre mesi sulla parola daraba.
L'illuminazione, racconta, è arrivata alla decima lettura, a occhio e croce, dell'Arabic - English Lexicon, un testo ottocentesco di Edward William Lane. Fra le sei pagine di definizioni fornite da Lane per il termine daraba, figurava anche "andarsene".
"Mi sono detta: "Oh, Dio, questo è quello che intendeva il Profeta", dice la Bakhtiar negli uffici della Kazi Publications, la casa editrice di Chicago che pubblica la traduzione. "Quando il Profeta aveva problemi con le sue mogli, che cosa faceva? Non picchiava nessuno, quindi perché un musulmano dovrebbe fare queilo che il Profeta non faceva?".
I dibattiti sulle traduzioni del Corano, considerato l'eterna parola di Dio, ruotano intorno alla tradizione religiosa e alla grammatica araba. Non sono mancate le critiche alla Bakhtiar.
Dice che si aspettava di suscitare scontento, anche e soprattutto perché non è una studiosa dell'islam. Gli uomini del mondo islamico, dice, sono contrari anche all'idea che possa essere un americano, tanto più se donna, a reinterpretare la traduzione prevalente.
"Sentono che loro valori religiosi sono sotto attacco da parte dell'Occidente e hanno paura di veder venire meno tutte le barriere protettive della tradizione", dice. "Ma le donne devono sapere che esiste un'interpretazione alternativa".
(...)
"Non sento di dover cercare giustificazioni per questo passo del Corano", dice Sayyed Hossein Nasr, esperto di Islam e professore a Washington all'Università George Washington. La Bibbia, fa notare, raccomanda dl lapidare la gente. Secondo alcuni, è impossibile tradurre in modo sensato questo versetto in inglese, perché rispecchia pratiche sociali e giuridiche dell'epoca di Maometto.
"L'idea generale non è punire la donna", dice Ingrid Mattson, esperta di Storia antica dell'Islam per l'Hartford Seminary, prima donna a ricoprire la carica di presidente della Islamic Society of North America. "È come un timore di sconvenienza sessuale, come se il marito intraprendesse questi passi per cercare di riportare il rapporto alla situazione corretta. Lo vedo come un gesto fisico di malcontento".