martedì 10 aprile 2007

l’Unità 10.4.07
Abusi in parrocchia, la Curia sapeva ma «salvò» il prete
di Osvaldo Sabato


Per anni le violenze e i soprusi, la parrocchia «Regina della Pace» vicino Firenze trasformata in casa dell’orrore. E oggi che le vittime - dopo anni di vergogna e silenzio - hanno rialzato la testa, parla il cardinale Silvano Piovanelli, allora responsabile della Curia: «Sì, sapevamo di don Lelio Cantini, era chiaro che aveva approfittato di una ragazza». E ancora: «Sì, ci era stato chiaro da allora». E come reagiste? «Fu fatta una severa reprensione al sacerdote».
Dunque nulla più che un rimprovero. Ora le vittime degli abusi chiedono giustizia e hanno scritto anche a Ratzinger. E anche se i reati penali sono prescritti pensano a risarcimenti in sede civile.

«PER LA PRIMA volta la trattai personalmente io questa storia», rivela a distanza di qualche anno l’ex arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli. La storia è un concentrato di abusi e violenze consumate, fin dalla metà degli anni settanta, nel buio di una canonica della parrocchia «Regina della Pace», nella periferia di Firenze.
A distanza di anni sono le vittime di don Lelio Cantini, - parroco fino a due anni fa ma ora ottantenne - a far emergere quel clima di paura, di violenze e di soprusi, con una denuncia alla curia fiorentina e al Papa per chiedere che la Chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico per questo sacerdote, che avrebbe ancora persone attorno a Viareggio dove vive attualmente, e da dove è precipitosamente scappato ieri per rifuggiarsi da alcuni amici, portando con sé solo una piccola valigia. L’allora respondabile della Curia, il cardinale Piovanelli, entrò in contatto con questa vicenda dopo una denuncia “silenziosa” e il racconto fatto da una ragazza che aveva subito le attenzioni di don Cantini. «Ma pensammo che fu uno sbaglio fatto - aggiunge Piovanelli -. È una vicenda un po’ strana perché vedevo una specie di silenzio in cui era fasciato un po’ tutto». Infatti «nessuno sapeva degli altri e quella persona che parlò con me, sapeva di sé, ma non degli altri» spiega il cardinale.
Ma le vittime di don Cantini si sono rivolte alla Curia fiorentina per denunciare questa storia già nel 2004.
«Sì, ma io nel 2004 avevo già lasciato il mio incarico... »
Lei ha parlato con una ragazza che le disse di aver subito violenze?
«Certo, che le ho parlato... »
E cosa le ha detto?
«Non ne voglio parlare, non è una cosa che ho gestito io direttamente».
Però ammette che in Curia questa storia è stata sottovalutata?
«Non credo. Devo dire che prima era impossibile, o almeno sembrava impossibile, poter giudicare perché non c’erano gli elementi necessari. Quando io ho avuto a che fare, non con questa storia, ma con un solo fatto, sembrava che ci fosse solo quello, quindi dopo aver parlato con la vittima e dopo aver parlato con il sacerdote, fatta la giusta reprensione, sembrava che ci si doveva fermare lì perché pareva un solo errore».
Ma in Curia credevano al racconto di quella ragazza?
«Io ci ho creduto. Non a caso ho fatto la mia reprensione a don Cantini».
Lei afferma che sembrava uno sbaglio solo, cosa intende dire?
«Che il sacerdote aveva commesso una sola colpa: era chiaro che aveva approfittato di una ragazza».
A voi era apparso chiaro già da subito?
«Sì. Ma riferito solo a quel fatto».
E perché la Curia non prese subito dei provvedimenti contro don Cantini?
«Fu fatto, fu fatto. Fu fatta una giusta e severa reprensione al sacerdote, dopo aver parlato anche con la vittima».
Secondo lei era sufficiente?
«Allora sì, perché c’era un fatto solo».
Si trattava di un prete che aveva abusato di una ragazza e la Chiesa si limita a fare solo un rimprovero?
«Allora sì, perché fu giudicato diversamente».

LA PARROCCHIA «REGINA DELLA PACE»
«Violenze, soprusi e ricatti»:
il racconto-choc delle vittime
Firenze. IL SILENZIO della Santa Sede sulla vicenda del parroco fiorentino, don Lelio Cantini, che per anni, come denunciano ora le sue vittime, ha spadroneggiato nella parrocchia della «Regina della Pace», alla periferia di Firenze. Le autorità vaticane non si pronunciano e spiegano che in casi come questi spetta alla diocesi far luce sul caso ed accertare le responsabilità. Chi ha parlato a distanza di anni sono state invece le vittime di don Lelio Cantini. Quelle emerse in questi giorni sono storie di violenze fisiche e psichiche, costrizioni e abusi sessuali ai danni di bambine e ragazze. Con la scusa di coinvolgerle intere famiglie in un progetto fatto di fede e spirito, le spingeva a donare alla sua parrocchia denaro e beni. Insomma più che un paradiso sembrava un inferno. Questa situazione andava avanti dalla metà degli anni settanta ma è solo a partire dal 2004, che lentamente viene tutto alla luce: partono esposti e memoriali diretti alla Curia fiorentina. L’anno dopo don Lelio Cantini viene trasferito e sospeso - per decisione dell’attuale cardinale di Firenze Ennio Antonelli - anche dalla facoltà di potere dire messa e di confessare. Ma solo ora le vittime di don Cantini hanno trovato il coraggio di uscire definitivamente allo scoperto. Lo hanno fatto per chiedere alla Curia dei provvedimenti duri, anche perché la denuncia penale è difficile perché nel frattempo gli abusi e i plagi sarebbero passati in prescrizione. Si tratta di una storia agghiacciante, riportata alla ribalta dalla stampa. Le vittime del plagio hanno denunciato violenze e soprusi alla curia fiorentina e al Papa e chiedono che la chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico e non escludono una causa civile. Raccontano che don Cantini, detto il «priore», che aveva accanto a sé una presunta veggente che selezionava gli «eletti», li minacciava se non avessero obbedito alle sue imposizioni (niente assoluzioni, eucarestia vietata): tra queste c’era la richiesta di sesso alle ragazze dai 12 ai 17 anni, alle quali, imponendo loro il silenzio, avrebbe detto che così «aderivano completamente a Dio». Ad un giovane avrebbe detto: «Quelli lassù ti hanno scelto per fare il sacerdote e se non accetti ti caccio dalla parrocchia per sempre». Fatti inquietanti per i due intellettuali fiorentini: lo storico Franco Cardini e il filosofo, Luigi Lombardi Vallauri. «È giusto fare verità» dice don Fortunato Di Noto, fondatore di un’associazione a tutela dei bambini. È quanto pretende chi ha subito per anni le violenze di don Cantini. Non a caso si sono rivolti direttamente alla Chiesa per presentargli il conto, non si sono rivolti a degli avvocati, anche se qualcuno sta valutando se chiedere almeno il risarcimento dei danni morali e fisici. È con questo stato d’animo che hanno scritto al Papa, oltre che al cardinale Antonelli, in una lettera inviata alla Segreteria di Stato della Santa Sede, lo scorso 20 marzo. Anche l’ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, si era interessato del caso e rispondendo ad una lettera tranquillizzò tutti dicendo che il sacerdote era stato allontanato dalla diocesi per «motivi di salute». Travolto dallo scandalo ora don Lelio è anche fuggito dalla sua abitazione viareggina, via verso un'altra destinazione messa a disposizione dalla rete di conoscenze che in 30 anni si sono strette a lui.
o.sab.

l’Unità 10.4.07
La lunga linea degli scandali legati alla pedofilia. In Italia condanne da Foggia a Verona
Dagli Usa al Sudamerica, quelle macchie sul Vaticano


Quando nel 2002 la burrasca dei «preti pedofili» si è abbattuta sulla Chiesa degli Usa, l’allora presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Camillo Ruini si è sentito di affermare che in Italia non vi erano particolari misure da prendere perché il fenomeno era «marginale» e quindi non era necessario alcun «monitoraggio» della situazione. Spettava ai singoli vescovi «vigilare». Pochi, pochissisimi i casi, forse una decina negli ultimi anni su oltre 25mila sacerdoti. In quella circostanza il cardinale ha sottolineato come in certi casi eclatanti si trattasse di false accuse, come a Napoli e a Palermo: un modo per infangare uomini di Chiesa in prima linea nell’impegno per la solidarietà sociale, la legalità e l’accoglienza come don Rassello a Napoli. La Cei scelse la via della sordina, anche se le condanne di religiosi per reati sessuali ci sono state oltre che a Napoli, a Ferrara, a Foggia, a Modena, a Verona e in Sicilia.
Ora la cronaca anche recente invita a minore ottimisto e a maggiore vigilanza. Non bastano le raccomandazioni per la formazione dei sacerdoti e l’accesso in seminario. È di ieri lo scandalo di Firenze. Di qualche decina di giorni fa quello che ha coinvolto don Marco Dessì, arrestato il 4 dicembre a Cagliari e rinchiuso nel carcere di Parma con accuse pesantissime: violenza sessuale plurima, aggravata e continuata su minori. Un reato consumato in Nicaragua, dove il sacerdote era stato per anni missionario, e in altri paesi. Su di lui non indaga soltanto la magistratura ordinaria. È in corso anche un processo canonico. Come per gli altri casi simili un fascicolo a suo nome è sui tavoli della Congregazione per la Dottrina della fede. Le indagini «canoniche» sui religiosi accusati di pedofilia sono oramai centralizzate. Questo oltre ad evitare ogni possibile «debolezza» o «copertura» delle diocesi di appartenenza, tende ad omologare le regole di comportamento. Una decisione presa da papa Giovanni Paolo II d’intesa con l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger che, ora pontefice, pare intenzionato a mantenere ferma la rotta.
Non basta spostare l’interessato da una parrocchia all’altra o «consigliare» un periodo di cura specialistica. Non si possono «paternamente coprire» questi casi, non basta l’ammonizione, né si possono tacitare le vittime con compensi in danaro. La via seguita dalla Chiesa negli Stati Uniti è stata disastrosa non solo per le sue finanze, ma anche per la credibilità nel mondo dell’intera Chiesa cattolica. Quando il bubbone è scoppiato, nel 2002 la condanna è stata fermissima. Dopo un difficile confronto interno e con le diocesi interessate, la Santa Sede ha deciso di affrontare in profondità il dramma della pedofilia e delle violenze sessuali che hanno avuto come protagonisti dei religiosi.
Quello che è da sottolineare è che questo non è soltanto un «dramma americano». Le accuse di pedofilia e di molestie, con le successive rimozioni di sacerdoti e in qualche caso clamoroso anche di vescovi (o perché accusati di essere personalmente coinvolti o perché ritenuti respondabili di aver «coperto» i sacerdoti colpevoli) hanno scosso tutti i continenti. Non vi è paese di antica e consolidata tradizione cattolica che non ne sia stato toccato.
r.m.

l’Unità 10.4.07
Primo Levi, 174517
La chimica di Auschwitz
di Oreste Pivetta


VENT’ANNI FA moriva Primo Levi. Un suicidio. La fine di un un uomo che aveva conosciuto l’inferno del lager ed era riuscito a raccontarlo descrivendone i perversi meccanismi. Un grande scrittore, che vedeva nella ragione la salvezza

Il suicidio di Amery, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni... Così Primo Levi ricordava in un pagina de I sommersi e i salvati la fine di Jean Amery, l’ebreo austriaco Hans Mayer, rifugiato in Belgio, intellettuale solitario e orgoglioso, combattente in un movimento di liberazione, finito nelle mani della Gestapo nel 1943, torturato e trascinato ad Auschwitz. Amery sosteneva d’aver riconosciuto Primo Levi, tra i prigionieri in una baracca che era stata per qualche tempo anche la sua. Levi negava questa circostanza: troppe ombre, troppi fantasmi tra quei legni marci di sofferenza. Con Amery e con i suoi libri (in primo luogo Intellettuale ad Auschwitz) Primo Levi intrattenne un lungo rapporto però, critico e addirittura severo, cioè senza il velo delle giustificazioni, su una questione che aveva assai inquietato l’ebreo austriaco: «rendere il colpo». «Chiedo giustizia - risponderà Levi - ma non sono capace, personalmente di fare a pugni né di rendere il colpo». Senza perdonare: «Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile... perchè non conosco atti umani che possano cancellare una colpa...».
Vent’anni fa, l’11 aprile 1987, Primo Levi sceglieva di morire, nella casa in cui era nato, figlio di una famiglia ebrea e borghese. Il padre era un ingegnere civile, moderno di temperamento, mosso più dalla curiosità scientifica che dalla religione. Vale per Primo Levi il congedo che immaginò per Amery: il suicidio, sempre, qualsiasi suicidio, ammette una nebulosa di spiegazioni... Ma è una tragedia, comunque, e resta, per gli altri, per i testimoni, i sopravvissuti, un’ostinata domanda.
Primo Levi aveva sessantotto anni, era appena uscito da un intervento chirurgico, assisteva la madre (Ester Luzzati, che morì quattro anni dopo di lui, quasi centenaria), viveva ormai ritirato: «Viaggiare - confessava - mi è molto difficile, sia per mie ragioni di famiglia, sia perchè ho finito per interiorizzare gli impedimenti e ormai mi riesce ostico mettermi in viaggio». Alla fine di gennaio aveva affidato alle pagine della Stampa alcune considerazioni sulle tesi dei revisionisti storici, sui precedenti, sulle stragi del passato e sulla deriva orientale (cioè sovietica) delle deportazioni di massa e dello sterminio di massa. Dal gulag stalinista ai lager nazisti - sosteneva Primo Levi - corre una differenza: il primo era un massacro tra eguali, Auschwitz si fondava su una ideologia grossolanamente intessuta di razzismo. Treblinka o Chelmno non erano solo campi di concentramento. Erano «buchi neri destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei», la realizzazione di un’idea, senza deviazioni.
Quattro decenni dopo la fine della guerra, sopravvivevano l’incredulità e la «zona grigia» dell’irresponsabilità o della complicità addirittura. Chi era sopravvissuto doveva misurarsi non solo con il peso del dolore, dell’inferno vissuto, ma anche con chi dimenticava, ridimensionava, rivedeva, persino irrideva... Levi spiegava di non temere il ritorno dell’antisemitismo in Germania per la semplice ragione che gli ebrei erano ormai troppo pochi. Si sarebbe dovuto ricredere di fronte alle più svariate prove di razzismo (e di antisemitismo) dei nostri tempi. Aveva già sfidato i sorrisi dei primi ai quali aveva rappresentato, a Torino, la propria odissea. Non credevano. Lo raccontava splendidamente Nuto Revelli, citando lo sbalordimento di quanti ascoltavano i suoi resoconti di morte e di gelo. «Allora, nel lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, rientravo nella mia famiglia, raccontavo e non ero ascoltato...». «L’incubo del sogno mi restava dentro: mentre scrivevo Se questo è un uomo io non ero convinto che sarebbe stato pubblicato... Volevo farne quattro o cinque copie e darle alla mia fidanzata e ai miei amici. Il mio scrivere era dunque un modo di raccontare a loro. L’intenzione di lasciare una testimonianza è venuta dopo, il bisogno primario era quello di scrivere a scopo di liberazione». Il sogno non fu poi così lontano dalla realtà: nel 1947 Einaudi, dopo varie letture, respinse il manoscritto. Che trovò invece attenta una piccola casa editrice, De Silva, di Franco Antonicelli. Levi propose il titolo I sommersi e i salvati. Renzo Zorzi, tra i primi lettori per la piccola casa editrice, ne preferì un altro: Se questo è un uomo, da un verso dello stesso Levi. Einaudi lo rilanciò nel 1956. Con grande successo, un long seller, come si dice. Scolastico e non solo. Levi rappresenta la vita nel campo di Monowitz, periferia «industriale» di Auschwitz, in una fabbrica di gomma, detta La Buna, dov’era entrato grazie alla sua laurea in chimica, una fabbrica che non produsse mai un chilo di gomma (capitava che la sua centralina elettrica venisse sempre bombardata al momento di andare in produzione) in un racconto diario, che non è mai «presa diretta»: di fronte a quella vicenda sale forte, in primo piano, la volontà di capire, di definire una realtà che appare al di là di ogni razionalità nel precipizio di un meccanismo assurdo di gerarchie e connivenze tra oppressori e oppressi, tra padroni e vittime: «In mezzo a questi infelici non c’era solidarietà; e questa mancanza era il primo trauma, il trauma più grosso. Ingenuamente io e quelli che avevano viaggiato con me avevano pensato: “per mal che vada troveremo dei compagni»”. Si trovavano dei nemici, non dei compagni...». Il prigioniero del lager resiste perchè difende la propria umanità, cerca di salvare la ragione, la ragione vigile che permette a Levi, nel confronto con gli atti di civiltà di una storia passata, di enunciare i segni più nefasti del lager.
Levi rivelò che era stato un lettore ebreo a bocciarlo per conto della Einaudi, che avrebbe poi stampato tutti i suoi libri: un anno prima della morte il saggio-memoria che riprende il titolo rifiutato da Zorzi per Se questo è un uomo. I sommersi e i salvati sembra chiudere un cerchio, con un ritorno là dove l’avventura letteraria si era iniziata, con una riflessione sistematica sull’esperienza di Auschwitz e soprattutto sul modo di conservarla senza manomissioni, sulla «scuola» di Auschwitz e sulla maniera di proporla, sulla morte e sulla sopravvivenza, sulla solitudine e sullo spaesamento. In mezzo, tra un capo e l’altro del percorso, dopo La tregua, la narrazione del ritorno a casa, Levi diventa scrittore assiduo, via via allontandosi dalla sua professione di chimico (si era laureato nel 1941, due anni prima di cadere nelle mani dei nazisti, partigiano in Val d’Aosta, dopo aver sparato un solo colpo da una pistola dall’impugnatura di madreperla), ma preservando quella sua formazione scientifica: «La chimica mi sembrava la chiave principale per aprire i segreti del cielo della terra... mi ha fornito in primo luogo un vasto assortimento di metafore. Mi ritrovo più ricco di altri colleghi scrittori, perchè per me termini come chiaro, scuro, pesante, leggero, azzurro hanno una gamma di significati più estesa e più concreta. Per me l’azzurro non è solo quello del cielo, ho cinque o sei azzurri a dispozione...».
Dopo La tregua, Levi scrisse vari racconti: raccolti in Storie naturali (nel 1967, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma (1971), Lilìt (1981). Libro singolare che intreccia autobiografia, narrazione e passione per le scienze è Il sistema periodico (1975), in ventuno capitoletti, ciascuno dei quali reca per titolo uno degli elementi della tavola di Mendeleev, dall’Argon al Carbonio, al Potassio, ciascuno dei quali aiuta a disegnare le forme della vita, attraverso le proprie. Scienza e tecnica sono state per Levi un modo per riconoscere nelle contraddizioni del presente una strada positiva. Come indica nel romanzo La chiave a stella (1978), l’operaio piemontese Tino Faussone, che gira il mondo alzando ponti, tralicci, trivelle: nel lavoro Faussone esercita la propria creatività e la propria umanità. Per Levi il lavoro continua ad essere resistenza della ragione alle condizioni più dure e difficili, in ciò sottolineando il legame tra queste prospettive e l’esperienza del lager (il paradosso di quell’insegna, «Il lavoro rende liberi», ad Auschwitz), legame che torna attuale nel romanzo Se non ora, quando? (1982), le vicende di un gruppo di partigiani ebrei nelle zone occidentali della Russia, che Levi aveva attraversato durante il suo ritorno dalla prigionia...
Romanzo che sta ad un passo dal testamento, I sommersi e i salvati, il viaggio a ritroso, il cerchio che si chiude entro l’inferno che è all’origine di tutto. Con semplicità, a Ferdinando Camon che lo intervista, Primo Levi dirà con semplicità: «Io credo di aver subìto una maturazione, avendo avuto la fortuna di sopravvivere. Perchè non si tratta di forza, ma di fortuna: non si può vincere con le proprie forze un lager. Sono stato fortunato...». Fortunato e basta: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio».

Ebreo, da Torino al lager: itinerario di un narratore «scientifico»
Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio, da una famiglia di ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza. Frequenta il liceo Massimo D’Azeglio e quindi l’università, laureandosi in chimica nel 1941. Dopo l’8 settembre si aggrega ad una formazione partigiana in Valle d’Aosta, viene catturato e rinchiuso nel campo di Fossoli, prima di venire tradotto come ebreo nel campo di Auschwitz (con numero di matricola, tatuato sul braccio, 174517): la sua competenza in chimica gli varrà un lavoro presso La Boba, fabbrica di gomma, annessa al campo. Nel 1945, alla liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, dovrà affrontare un lungo viaggio di ritorno in Italia. Troverà presto lavoro in una fabbrica chimica di Avigliana e intanto avvierà la scrittura di Se questo è un uomo. La fortuna editoriale di questo primo racconto testimonianza e del successivo La tregua consentirà a Levi di dedicarsi per intero alla scrittura, fino alla morte, vent’anni fa, l’11 aprile 1987.
Tutte le opere di Primo Levi sono state pubblicate da Einaudi (insieme, in due volumi, curati da Marco Belpoliti, con l’introduzione di Daniele Del Giudice). Importanti, per la comprensione dell’itinerario umano e letterario di Primo Levi, Autoritratto di Primo Levi, intervista a cura di Ferdinando Camon (editore Nord-Est), e Dialogo, conversazione tra Levi e il fisico Tullio Regge (Einaudi).

il Giornale 8.4.07
Ethos laico: le leggi devono essere per tutti senza veti e verità assolute


Ha fatto bene la conferenza episcopale a dare via libera ai parroci per il Family Day. Sarebbe un passo avanti se anche nel nostro paese i religiosi partecipassero direttamente alla vita politica, se i vescovi e i cardinali potessero candidarsi al parlamento, e le tesi della Chiesa fossero sostenute in politica direttamente da chi le avanza senza il filtro del Concordato. La società civile deve restare il terreno privilegiato in cui si incontrano e si scontrano i valori, gli interessi e gli obiettivi dei diversi gruppi politici, economici, culturali e religiosi presenti nella comunità nazionale: è quindi positivo che oggi vi si esprima il nuovo cattolicesimo militante, anche se il fenomeno non può riguardare i laici.

Quel che invece riguarda i cittadini di uno Stato che ha la Costituzione come legge suprema, è la pretesa dell'autorità ecclesiastica di lanciare alle istituzioni ammonimenti che tendono a condizionarne le decisioni. Quando i vescovi pretendono di dire che non si deve legiferare sulle coppie di fatto o che il testamento biologico è pericoloso, vanno oltre il magistero pastorale nel momento in cui propongono, come mi pare in questo caso, di imporre per legge precetti di fede all'intera società composta da credenti, non credenti e diversamente credenti. E non è corretto se a sostegno delle loro verità di fede vengono utilizzati con il clamore dei media argomenti allarmistici quali l'accostamento dell'omosessualità alla pedofilia e all'incesto, la confusione tra eugenetica e procreazione assistita, oppure l'affinità tra il testamento biologico e l'eutanasia.

La storia della nostra Repubblica è stata segnata da una politica democratica perché, quando si sono verificate le pressioni integralistiche della Chiesa, la classe politica anche cattolica le ha tenuta a bada, consapevole della distinzione tra la sfera politica e quella religiosa. Oggi, alla base delle richieste avanzate dalle autorità ecclesiastiche ai legislatori, v'è qualcosa che non può essere passato sotto silenzio. L'asserzione, ad esempio, che la crisi della società, causata secondo la Chiesa dal cosiddetto "relativismo", può essere vinta solo da una profonda iniezione di etica (e fin qui va benissimo), di cui però l'unica detentrice autorizzata è la Chiesa cattolica. E' questo il tipico riflesso integralistico secondo cui esiste uno ed un solo ethos pubblico (il cattolico) che deve divenire valido erga omnes, mentre tutte le altre filosofie di vita vanno relegate nel regno dell'immoralità pubblica. Certo, non sono così ingenuo da non sapere che chi professa una fede trascendente ritiene sempre e comunque di essere nel vero e nel giusto. Ma una cosa sono le verità assolute di fede, e tutt'altra cosa è il loro trasferimento nelle leggi dello Stato.

L'affermazione pontificale secondo cui alcune leggi non s'hanno da fare perché contrastano con la natura è fragilissima. E' noto che i concetti di "natura" e di "diritto naturale" hanno avuto interpretazioni diverse, sempre connesse con uno specifico contesto storico-culturale-politico. Chi come il senatore Pera se la prende, singolarmente, con il "partito clericale", dovrebbe riflettere sul fatto che nel propugnare in politica i "valori non negoziabili", dà corpo proprio al neoclericalismo. L'essenza della democrazia sta nel compromesso volto a tenere insieme la convivenza pacifica di portatori di diverse credenze, filosofie, idealit€ |à e religioni senza faide ideologiche.

In Italia deve esser possibile varare delle leggi che soddisfino l'intera comunità nazionale, come accade in tutti i paesi occidentali di antica cultura civile e religiosa. In un regime liberale non c'è posto per gli esclusivismi né per le verità assolute né per i veti che si addicono agli Stati etici e autoritari. La Chiesa fa bene a proporre i suoi valori, soprattutto quando si trova, come è ormai in Italia, in una situazione di minoranza. Ma lo Stato deve difendere l'autonomia delle proprie istituzioni mettendole al riparo da qualsiasi veto, morale o materiale che sia. Certo, i credenti in politica devono fare i conti con la loro fede, ma sarebbe opportuno che restasse un fatto personale di coscienza e non diventasse un instrumentum regni. Mi paiono delle regressioni clericali le rincorse che i gruppi politici ostentano per guadagnarsi il premio di migliori interpreti della dottrina pontificia e di zelanti esecutori politici di prescrizioni che hanno la loro pregnanza nella sfera pastorale.

The New York Times, in Repubblica 10.4.07
Il Corano non dice: picchia tua moglie. Parola di traduttrice
dl Neil MacFarquhar


Nella traduzione di La!eh Bokhiiar si offre una nuova interpretazione del versetto che autorizzerebbe i mariti a picchiare le mogli.

CHICAGO Laleh Bakhtlar stava lavorando gìà da due anni a una traduzione inglese del Corano quando si e imbattuta nella IV Sura, versetto 34.
A quel punto quasi abbandonò il progetto. II contestatissimo versetto afferma che una donna disobbediente andrebbe prima ammonita, quindi lasciata sola nel letto e da ultimo "battuta" la traduzione più frequente del termine arabo daraba fin quando non corregga il suo comportamento.
"Decisi che doveva per forza avere un altro significato altrimenti non avrei potuto continuare a tradurre", dice la Bakhtiar americana di origine iraniana, convertita all'Islam da adulta e che fino ad allora non si era soffermata su questo versetto del Corano. "Non potevo credere che Dio autorizzasse a fare del male a un altro essere umano in un contesto diverso dalla Guerra”.
La Bakhtiar ha continuato per altri cinque anni e la sua traduzione uscirà questo mese. È riuscita a trovare una soluzione, ma quei versi restano uno dei passaggi più controversi di tutto il Corano.
In Germania, il mese scorso, un giudice ha provocato scandalo respingendo, con tanto di citazione del versetto incriminato, la richiesta di divorzio immediato presentata da una marocchina nata in Germania perché suo marito la picchiava: il giudice, a cui è stato sottratto il caso, aveva scritto che Il Corano autorizzava gli abusi fisici.
Esistono almeno 20 traduzioni inglesi del Corano. Daraba è stato tradotto come: battere, colpire, picchiare, fustigare, punier, frustare, infliggere una punizione esemplare, sculacciare, accarezzare, battere piano e anche sedurre.
Laleh Bakhtiar, che ha 68 anni e un dottorato in psicologia educativa, ha deciso di cimentarsi nella traduzione perché riteneva che le versioni esistenti fossero troppo ostiche per un occidentale. Quando è arrivata al versetto della discordia, la Bakhtiar che ha imparato a leggere i testi sacri in arabo quando studiava e lavorava come traduttrice in Iran, negli anni '70 e'80 ha perso tre mesi sulla parola daraba.
L'illuminazione, racconta, è arrivata alla decima lettura, a occhio e croce, dell'Arabic - English Lexicon, un testo ottocentesco di Edward William Lane. Fra le sei pagine di definizioni fornite da Lane per il termine daraba, figurava anche "andarsene".
"Mi sono detta: "Oh, Dio, questo è quello che intendeva il Profeta", dice la Bakhtiar negli uffici della Kazi Publications, la casa editrice di Chicago che pubblica la traduzione. "Quando il Profeta aveva problemi con le sue mogli, che cosa faceva? Non picchiava nessuno, quindi perché un musulmano dovrebbe fare queilo che il Profeta non faceva?".
I dibattiti sulle traduzioni del Corano, considerato l'eterna parola di Dio, ruotano intorno alla tradizione religiosa e alla grammatica araba. Non sono mancate le critiche alla Bakhtiar.
Dice che si aspettava di suscitare scontento, anche e soprattutto perché non è una studiosa dell'islam. Gli uomini del mondo islamico, dice, sono contrari anche all'idea che possa essere un americano, tanto più se donna, a reinterpretare la traduzione prevalente.
"Sentono che loro valori religiosi sono sotto attacco da parte dell'Occidente e hanno paura di veder venire meno tutte le barriere protettive della tradizione", dice. "Ma le donne devono sapere che esiste un'interpretazione alternativa".
(...)
"Non sento di dover cercare giustificazioni per questo passo del Corano", dice Sayyed Hossein Nasr, esperto di Islam e professore a Washington all'Università George Washington. La Bibbia, fa notare, raccomanda dl lapidare la gente. Secondo alcuni, è impossibile tradurre in modo sensato questo versetto in inglese, perché rispecchia pratiche sociali e giuridiche dell'epoca di Maometto.
"L'idea generale non è punire la donna", dice Ingrid Mattson, esperta di Storia antica dell'Islam per l'Hartford Seminary, prima donna a ricoprire la carica di presidente della Islamic Society of North America. "È come un timore di sconvenienza sessuale, come se il marito intraprendesse questi passi per cercare di riportare il rapporto alla situazione corretta. Lo vedo come un gesto fisico di malcontento".

domenica 8 aprile 2007

l’Unità 7.4.07
CESARE SALVI. Il senatore Ds: «Non farò la minoranza del Pd. Cominciamo a lavorare per l’unità a sinistra»
«Subito un nuovo soggetto socialista»
di Maria Zegarelli


Non ci sono le condizioni, secondo Cesare Salvi, senatore ds, per concedersi una pausa di riflessione prima di decidere di andare dall’avvocato e chiedere la «separazione» in vista del futuro Partito democratico. Tempo scaduto, dice. «Si deve lavorare all’unità a sinistra».
Presidente, ha letto l’intervento di Mauro Zani sull’Unità?
«Sì, l’ho letto».
Una pausa di riflessione. Lei ci sta a prendersela?
«La pausa di riflessione deve venire prima di tutto dalla segreteria del partito la quale invece indica una ulteriore accelerazione dei tempi. Si era partiti dall’idea che questo Pd dovesse essere pronto per le elezioni europee del 2009, adesso invece, per tappe progressive, siamo arrivati allo scioglimento annunciato per ottobre in questa ipotizzata assemblea costituente. In questi giorni ho anche ascoltato toni che non mi piacciono».
A cosa e a chi si riferisce?
«Ma come si fa a dire che Mussi pensa all’Unione Sovietica? Capisco che ci possa essere un certo nervosismo, il processo non va bene, il Pd è dato dai sondaggi al 25%, appena un punto scarso in più dei Ds di 10 anni fa, e le critiche al Pd da parte degli stessi “fan” sono sempre più insistenti, ma sarebbe meglio mantenere la calma».
Fassino ha detto che girando l’Italia ha constatato un grande entusiasmo intorno a questo progetto. Non è che le polemiche sono tutte interne ai vertici della politica?
«Spero per chi si dedicherà a questo progetto che sia così. I dati unanimi dei sondaggi resi noti, però, indicano altro, quantomeno una caduta di consensi intorno al Pd. Vorrei che questo confronto avvenisse con serenità, ci sono progetti politici diversi, alternativi, ognuno con la sua legittimità. La cosa peggiore da fare sarebbe affrontare questa fase difficile con uno scambio incontrollato di accuse prive di senso».
Fassino vi invita a restare. Lo stesso Zani registra un’apertura. E lei?
«Non riesco a vedere elementi di apertura. L’invito a fare la minoranza in un nuovo partito non mi sembra di particolare interesse. Riconosco la buona fede di Fassino, ma il problema è un altro: l’Italia sta per diventare l’unico paese europeo privo di una grande forza autonoma di sinistra e socialista. Il nodo della collocazione internazionale del nuovo partito non solo non è stato sciolto, ma da parte della Margherita si è accentuata l’ostilità a ogni ipotesi di integrazione con il socialismo europeo. Abbiamo avuto interventi di Francesco Rutelli e di Romano Prodi di sostegno al candidato centrista alle elezioni francesi. Nell’epoca della globalizzazione, delle grandi sfide mondiali, di un’Europa che deve essere costruita intorno alla grande soggettività politica della sinistra che è il partito socialista europeo, questo è un errore politico serio, ma anche culturale».
Antonello Soro, coordinatore della Margherita dice: “ Intanto partiamo con il pd...”
«Sì, appunto, intanto. A me non interessa “intanto”...»
Teme che “dopo” nel Pd vinca la Margherita?
«Non so cosa accadrà dopo, ma non mi convince quello che dice Soro. D’altra parte si dice anche, l’ha detto lo stesso Massimo D’Alema, che si tratta di andare oltre il socialismo europeo. Temo che si tratti di andare indietro, non oltre. Infine: c’è la questione della laicità dello Stato. Penso che un confronto con il mondo cattolico sia importante per un paese come l’Italia, tuttavia non posso non registrare che alla prossima manifestazione, il Family Day, “promossa” dalla Cei che è dichiaratamente contro la legge sui Dico, ci sarà una personalità di primo piano, sia nel costituendo Pd che nel governo, come il ministro Fioroni».
Dunque, è «separazione»?
«Penso che si debba avviare la fase costituente di un soggetto politico socialista e di sinistra, competitivo, ma anche alleato con il Pd. Naturalmente sto esponendo una mia posizione, perché quella della mia area la decideremo democraticamente nei prossimi giorni quando formuleremo una nuova proposta. È evidente che ci rivolgeremo ai partiti della sinistra, abbiamo già un confronto importante con lo Sdi, poi certo anche con Rc, non per approdare in quel partito ma per dar vita a una grande unità di sinistra. L’Italia, ne siamo convinti, ne ha bisogno».

Repubblica 7.4.07
L'America riapre gli anni bui del Kkk
L'Fbi decide di indagare su 100 casi di delitti razziali irrisolti
di Mario Calabresi


Il paese sembra pronto a chiedere scusa per quell'ondata d'odio. Ad Harvard un convegno sulla ricerca della verità
Si investiga di nuovo su omicidi contro i neri compiuti negli anni '60, durante la sanguinosa stagione dei diritti civili
Non mancano le polemiche: per alcuni è un'inutile operazione di facciata

New York - Durante l´estate del 1960 il corpo di Freddie Robinson venne trovato su una spiaggia di Edisto Island, un paesino poco a sud di Charleston in South Carolina. La sua famiglia capì subito che era stato punito dai pescatori per quel suo vizio: gli piaceva insegnare a ballare alle ragazze bianche. Aveva dodici anni, era un bambino nero. Il medico legale, bianco, disse che era stato un incidente. Gli investigatori sostennero che era affogato da solo. La nonna, terrorizzata per la vita degli altri nipoti, andò alla polizia e chiese di chiudere le indagini: «Non vogliamo rischiare altre punizioni dalla gente bianca». La ascoltarono. Trentasette anni dopo l´indagine è stata riaperta, l´Fbi sta cercando gli uomini che gettarono Freddie in mare.
Sono almeno cento i casi irrisolti della stagione dei diritti civili, morti misteriose, omicidi senza colpevoli, strani incidenti, che il Dipartimento della Giustizia e l´Fbi hanno deciso di riesaminare. Un periodo di vent´anni, racchiuso tra la fine della Seconda guerra mondiale e le presidenze di John Kennedy e Lyndon Johnson, quando nel sud degli Stati Uniti il Ku Klux Klan e i teorici della superiorità della razza bianca scatenarono un´ondata di violenze contro chi osava alzare la testa o mettere in discussione la segregazione razziale. Pagarono con la vita attivisti, manifestanti, studenti e chi osava presentarsi alle urne.
Maceo Snipes, aveva 37 anni, era appena tornato dal Pacifico, dove aveva combattuto con la divisa dell´esercito americano, quando decise di passare alla storia come il primo nero a votare nella contea di Taylor, in Georgia, dove si tenevano le primarie del partito democratico. Era il 17 luglio del 1946. A Maceo fu lasciato solo il tempo di tornare a casa quella sera per raccontare la sua impresa. La mattina dopo quattro bianchi si presentarono alla porta della fattoria e gli spararono quattro colpi di pistola nella schiena. Morì due giorni dopo. I familiari, terrorizzati, lo seppellirono di notte in una tomba senza nome, poi scapparono a nord, in Ohio. Sul certificato di morte c´era scritto «omicidio per ferite di arma da fuoco», ma non venne aperta nessuna indagine né ci furono mai interrogatori o arresti. Il cugino Felix, che allora aveva sei anni, oggi ricorda quella fuga: «la nostra famiglia venne distrutta e la vecchia generazione non ne volle mai più parlare».
Oggi si riaprono gli archivi, si guardano con occhio nuovo le prove raccolte, sono saltate fuori registrazioni non autorizzate di interrogatori senza mandato, che vennero stralciare perché mostravano un modo di procedere illegale dell´agenzia ai tempi di J. Edgar Hoover, e si risentono vecchi testimoni, che con il tempo hanno abbandonato antiche resistenze e omertà. La verità è che tutto questo è possibile soltanto oggi perché sono venute meno le complicità con il KKK nella polizia e nella magistratura, perché una generazione di ufficiali razzisti non c´è più e perché l´opinione pubblica è cambiata, se è vero quello che racconta una ricerca del 2003: i neri degli stati del sud si sentono meno discriminati di quelli delle altre aree degli Stati Uniti.
Certo non tutte le paure sono venute meno, ci sono ancora famiglie talmente segnate dalla violenza da continuare a temere le vendette bianche: Anna Ruth Montgomery, che perse la madre in un´esplosione, oggi si chiede se la ricerca della verità non possa finire per mettere anche lei in pericolo. «Perché - ha raccontato al Christian Science Monitor - io non so chi siano loro, ma loro invece sanno benissimo chi sono io. Da una parte voglio questa inchiesta ma poi penso: se non c´è la sicurezza di risolvere il caso perché dobbiamo andare a rinfilarci dentro?».
Ma la macchina è partita, la volontà di riscrivere una pagina nera della storia americana cresce, tanto che il Congresso sta per varare un finanziamento di 11 milioni di dollari per creare un´unità speciale federale che si occupi solo di questi crimini irrisolti. La legge prende il nome da Emmett Till, un ragazzino nero di Chicago che nell´estate del 1955 fu ucciso e mutilato mentre era in vacanza nel Mississippi, colpevole di aver fischiettato al passaggio di una donna bianca. Il Mississippi è lo stato che vanta il record di omicidi irrisolti, ben 32, seguito dall´Alabama, dall´Arkansas e dalla Georgia.
Così il leggendario Jim Ingram è stato richiamato dalla pensione ed è tornato a battere le stesse piste di quarant´anni fa, quando giovane agente federale venne spedito ad indagare sui casi più difficili. Guidò l´ufficio di New York dell´Fbi e da Washington partecipò alle indagini sugli omicidi di Kennedy e Martin Luther King. Ora ha 75 anni, pochi capelli bianchi in testa, ma è riuscito a farcela già due volte: nel 2005 ha contribuito ad incastrare l´ottantenne Edgar Ray Killen colpevole dell´omicidio, nel 1964, di tre attivisti James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner, da cui il regista Alan Parker trasse il film Mississippi Burning; lo scorso gennaio invece ha raccolto le prove che hanno portato all´arresto di James Seale, 71 anni, che, sempre nel ‘64 come vicesceriffo picchiò e gettò vivi nel Mississippi i diciannovenni Henry Hezekiah Dee e Charles Eddie Moore. Per anni la famiglia lo nascose dicendo che era morto, poi nel 2005 venne scoperto da un canadese che stava facendo un documentario. Questa settimana è cominciato il processo.
Ingram riceve oggi le stesse domande di allora sul motivo che lo ha spinto fin laggiù e ripete la stessa risposta: «La legge è stata violata e noi dobbiamo indagare. "Perché lo state facendo proprio adesso", mi chiedono con insistenza e io replico: perché non è stato fatto quarant´anni fa». Il direttore dell´Fbi, Robert Mueller, il mese scorso parlando dell´iniziativa, ha ammesso che «per anni molti omicidi non sono stati investigati, sono stati coperti, o presentati come incidenti o sciagure».
Ad essere cambiato è anche il clima generale e la politica sta facendo la sua parte, affrontando il problema alla radice: 140 anni dopo l´abolizione della schiavitù un fiorire di leggi e risoluzioni sta contagiando l´America. Ha iniziato il mese scorso la Virginia che ha espresso «profondo dispiacere per il suo ruolo nella schiavitù» e ha stabilito un giorno della memoria e delle scuse. Ora lo stanno facendo Georgia, Maryland, Delaware, New York, Missouri, Massachusetts e Vermont, più un gran numero di città e paesi e il dibattito è cominciato anche al Congresso.
Certo non mancano le polemiche, per alcuni è un positivo «momento catartico» per la nazione, per altri un´inutile operazione di facciata. Ci sono i posti come la Georgia dove si è acceso lo scontro. Il portavoce del partito repubblicano, contrario alla legge, ha affermato: «Certo la schiavitù era sbagliata, ma non vedo perché dovremmo scusarci visto che nessuno dei presenti era qui allora...».
Per il 26 e 27 aprile, la facoltà di legge dell´università di Harvard ha chiamato a Boston magistrati e investigatori perché discutano con ricercatori, giornalisti e veterani dei diritti civili questa nuova sfida per ottenere verità e giustizia. A chi si lamenta che è ormai inutile, le associazioni che più premono perché i casi vengano riaperti, a partire dalla Naacp (la più antica organizzazione per i diritti civili dei neri americani), rispondono che non è mai troppo tardi. Per Richard Cohen, presidente della Splc (Southern Poverty Law Center), che ha fornito all´Fbi una lista di casi irrisolti, «se anche una sola manciata di questi sarà risolta, ciò servirà come risarcimento per tutti quegli altri che non verranno mai chiusi».
«Solo il fatto che qualcuno abbia trovato il tempo per interessarsi della sua morte mi fa stare meglio», ha detto Charles, il fratello di Freddie Robinson, «e se questo potrà aprire gli occhi a qualche bianco e anche ai neri sarà una grande cosa, sarà un modo per dire: "Non ci siamo dimenticati di te Freddie"».

l’Unità 8.4.07
Incantati dalle sirene perché sono come noi
di Ugo Leonzio


MITI. Un libro di Maurizio Bettini e Luigi Spina indaga sui mostruosi esseri, metà donna e metà uccello (o pesce), il cui canto d’amore si risolve in morte. Il fascino per un essere fantastico frutto di una «combinazione» genetica come i viventi

Vi piacerebbe andare a letto con un pollo? Un pollo antropomorfo, con viso e occhi bellissimi, sorriso inquietante, busto e inguini perfetti come una scultura di Prassitele, un pollo con il fascino del «satiro danzante» miracolosamente ripescato nelle fredde acque di Sciacca? Un pollo dotato di una qualità enigmatica e terribilmente seduttiva? Non dovete sentirvi un porco, se la cosa vi può tentare.
A cuccia sotto piumini e coperte, avvolti dal calduccio della vostra camera da letto o cullati da un fresco zefiro primaverile, allungate un piede verso la compagna che vi dorme accanto, ne sfiorate la pelle rasposa, lo sperone adunco, le ali spiumate e vi riaddormentate felici, come tutte le prede. Prima che la notte tramonti sarete divorati, incassando così la parte del mito delle Sirene che avete cercato e vi siete meritati. Perché quell’essere ibrido, metà sesso e metà pollo è una Sirena, la Sirena che è arrivata fino a noi dal mito di Odisseo e di Giasone. È lei che vi addormenta con una ninna nanna, il canto più pericoloso che un umano possa ascoltare. Il canto che non si può dimenticare come la voce, la bocca, le labbra amorose che ce l’hanno sussurrato. Ci inizia alla nascita, ci accompagna dentro la morte. È il canto, tutto quello che sentiremo dopo sarà solo una variazione o un mirabile lamento.
Così, nessuno potrà mai convincervi che quella creatura adorabile per cui avete dato la vita e che vi ha offerto il tenue nepente del suo seno è un mostro. Quel canto inerme che non significa nulla è il segreto delle Sirene, la malìa che attira gli uomini nella loro alcova irta di ossa e papaveri e li fa naufragare nell’Ade.
Per aver scritto uno dei libri più affascinanti sulle Sirene che oggi possiate leggere (Il mito delle Sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, pagine 268, euro 17,60) Maurizio Bettini e Luigi Spina, addentrandosi in una storia che porta diritti a uno dei recessi più nascosti della nostra mente, devono aver conosciuto il profumo dell’assenzio caprigno che emana dal loro sesso inviolato, l’odore dell’Ade da cui provengono. Questi polli umiliati e offesi, dal canto però prodigioso, tenero, sospeso come i morsi e il sangue o l’inedia con cui d’improvviso svaniva. L’estasi violenta del mare rubava gli ultimi istanti a quella nenia mortale.
Di tutti i miti, quello delle Sirene è il più tenace, il più misterioso, il vero cuore del mondo mitico (se in quel mondo qualcuno avesse un cuore) perché unisce due enigmi, il canto e la seduzione, con il laccio inesplicabile della morte. Quale incantesimo indossa questa storia cucita nell’abito della paura, della sconfitta, del suicidio per piacerci al punto di trasformarla in un mito di seduzione e pericolosa armonia?
Le Sirene non nascono da una passione fuori misura, come il Minotauro, guardiano dei misteri d’amore ma da una punizione e come tutte le punizioni, sul divino Olimpo come tra noi, era di certo immeritata. Il dono del canto, dannazione delle Sirene, deriva da Melpomene, una Musa che già nel nome esibisce il destino musicale della stirpe. Il padre è incerto, come sempre nei labirinti romanzeschi del mito che contiene tutte le trame, le ambiguità e le possibili variazioni degli accoppiamenti. Affascinante, come possibile padre, è il dio fiume Acheloo, che scorre tra l’Acarnania e l’Etolia, che ha il potere di trasformarsi, prendendo infinite forme. Per le Sirene, interpretò il ruolo del toro che non era uno dei suoi più riusciti. Perse una lotta con Eracle, che gli strappò una delle corna. Da quel sangue, raccolto da Chthon, la dea Terra, linea di confine tra la superficie dei mortali e il mondo infero, avrebbero preso vita le Sirene. Quel confine, però non esisteva per loro e l’autorità di Sofocle e di Platone ci svela un’altra angosciante paternità, cioè Forco, figlio del mare, Ponto, e di Chthon, la terra. Questa paternità è il primo indizio a rivelare la nostra passione per le Sirene, una predilezione che si appaga mescolando l’armonia con il mostruoso.
Forco genera mostri con Chton e noi abbiamo alle nostre spalle una scimmia cannibale che ha imparato a pregare gli dei e a riconoscerne la violenta bellezza. Accoppiandosi con la sorella Ceto, Forco mette al mondo le due Graie, vecchie signorine canute fin dalla nascita, le tre Gorgoni, Echidna, la fanciulla serpente che genera a sua volta Cerbero, Chimera, la Sfinge. Forco (e Ceto) creano anche il serpente innamorato dei pomi delle Esperidi.. Nel frattempo, il fratello di Forco, il delicato zio Taumante, ugualmente versato nell’immaginazione teratologica, fa partorire ad Elettra le Arpie più veloci del vento, in un sogno. Che contiene anche Scilla, generata da Forco, Ecate ed altri pargoli e pargoletti.
Ma di questi loro parenti, le Sirene, quando per la prima volta videro la luce nel triangolo delle Muse, tra la Pieria, l’Olimpo e l’Elicona, ben poco potevano immaginare. Erano signorine alate, gelose della loro verginità e fornite di strumenti musicali come il flauto libico, la cetra, la zampogna di Pan con cui celebravano gli eroi defunti, quando Persefone le ingaggiava. Il loro disprezzo verginale per l’amore aveva attirato l’odio di Afrodite. La punizione era solo una questione di tempo.
Quando Ade sbucò dagli inferi come un’orca buia per rapire Proserpina, le Sirene se la diedero a gambe. Persefone le inseguì fino a Cuma, terra di Apollo, e fece penetrare in loro le zampe sgraziate, i rostri e le penne ruvide delle galline. Preservò il volto, il resto del corpo e il canto che non avrebbe più celebrato gli eroi ma sedotto e ucciso i naviganti. Poi, tra inganni e delusioni l’instancabile vendetta di Afrodite le avrebbe spinte a una disastrosa gara di canto con le Muse, che per disprezzo si incoronarono con le loro penne. Ma questo ormai aveva poca importanza, avevano incontrato la loro divina infelicità. Non restava che aspettare l’ultima sconfitta come assassine e seduttrici, per mano di Odisseo, e gettarsi nel mare.
Cosa resta delle Sirene? La seduzione di un canto che uccide e che nessuno ha mai sentito? Scogli biancheggianti nell’instancabile spuma? Immagini raccapriccianti e malinconiche uscite dall’immaginazione di Tod Browning e Diane Arbus che si sarebbero volentieri lasciati morire, con un’oliva e un Martini, tra cumuli d’ossa sulla spiaggia di Anthemoessa, l’isola delle Sirene elusiva e inafferrabile come il loro profumo?
La singolarità, l’elemento affascinante di questo mito è che un canto più silenzioso del silenzio abbia attraversato il tempo senza che nessuno sia mai riuscito ad ascoltarlo. Non solo, ma che abbia potuto legarsi indissolubilmente a Eros attraverso l’orrore.
Il mito delle Sirene rovescia qualsiasi idea, profonda, raffinata spirituale ci siamo mai potuti fare della bellezza, che nulla ha da spartire con l’enfasi obesa e scorreggiona dei musei.
Perché, osservandole con i loro corpi e il loro canto in azione su vasi, crateri, stamnos o lekythos siamo sospinti in una zona della mente che stentiamo a riconoscere, dove ci attrae qualcosa che abbiamo sempre riconosciuto come brutto, disarmonico, mortuario? Non si tratta di sogni dove il bello e il brutto si inseguono esclusivamente tra l’ordito e la sintassi delle nostre paure. In questa zona della mente, che di rado visitiamo perché sfugge anche a Mnemosine, la memoria, non incontriamo volti, parole o suoni, ma pulsioni che di gran lunga le precedono. Qui, Eros e Thanatos travestiti da donna come Dioniso e il suo corteo, giocano a sbranare, distruggere, sfondare, penetrare senza fine ispirati dall’energia del cosmo.
Se volessimo usare la ragione per capire il mito delle Sirene dovremmo chiederci non perché cantano, ma perché uccidono e perché questa mortale seduzione dell’armonia è diventato un mito.
A cosa serve un canto che uccide? Di quale piacere, di quale gioia o di quale dolore si nutrono queste assassine? Forse hanno imparato ad amare la loro punizione. La loro naturalezza, la loro sapienza, il loro orgoglio nel saper sedurre non con l’arte del canto ma con quella della morte, ci farebbe credere di sì, soprattutto perché non hanno alcuno scopo per farlo, escluso quello vertiginoso di sperimentare il potere inspiegabile del loro canto funesto.
Forse è questo potere a incantare gli incauti viaggiatori. Anche il più miope dei marinai vedrebbe subito, dalla nave, i mucchi di ossa, i teschi che marciscono al sole e gli uccelli golosi che beccano gli avanzi. Tuttavia, preferisce levarsi gli occhiali, girare il timone verso l’isola e gettarsi in acqua verso quelle impassibili ebbrezze d’estate. Sa di dover morire questo stupido viandante ma la paura dell’Ade diventa per lui un invito a condividere per sempre la mostruosità delle Sirene, dimenticando l’intensa felicità del sole. Quello che credeva bello, ora appare vecchio e maleodorante e le fanciulle alate non più polli spennati ma forme senza più regole o peccati.
Approdare sull’isola delle Sirene, qualunque essa sia, significa scoprire una legge fondamentale non del mito ma del cuore. Molte combinazioni immaginarie, sfingi, sirene, chimere centauri, demoni angeli, licantropi che uniscono parti diverse di animali per creare esseri fantastici, hanno sempre nutrito la mitologia e le religioni emergendo dalle parti più intime della nostra memoria. La biologia ha scoperto che questa intuizione corrisponde a una possibilità statistica e che noi, insieme a tutti gli esseri viventi costituiti di cellule nucleate, siamo con ogni probabilità creature composite nate dalla fusione di creature diverse. Le cellule del cervello umano che hanno concepito queste creature sono esse stesse sirene, chimere, fusioni di differenti tipi di procarioti un tempo indipendenti e poi evolutisi insieme.
Noi, dunque, siamo Sirene. Chi l’avrebbe mai detto?

l’Unità 8.4.07
SAGGI. Due interessanti riflessioni di Salvatore Natoli su «La salvezza senza fede» e «Sul male assoluto»
Neopaganesimo, ovvero l’etica del finito e della «vita buona»
di Giuseppe Cantarano


Solo il buon Dio ci può salvare, diceva Heidegger. Nonostante i prodigi della Tecnica, mediante cui l’uomo si illude di potersi fare egli stesso garante della propria salvezza, è nella fede che riponiamo ancora la nostra speranza. Perché l’onnipotenza della Tecnica non riesce a sanare definitivamente le nostre insanguinate ferite. Non riesce a farci dimenticare la costitutiva fragilità del nostro corpo. La sua irrimediabile finitudine. Come, del resto, nessuna resurrezione potrà cancellare la sofferente memoria della croce: ce lo ha mostrato una volta per tutte Piero della Francesca nella sua Resurrezione di Cristo.
E tuttavia, in attesa che il buon Dio si appresti a salvarci, a liberarci definitivamente dal dolore e dalla morte, ciascuno di noi può, nel frattempo, contrastare il proprio dolore e la propria morte. Ma può farlo solo se è in grado di mantenersi fedele al presente. Accettando serenamente la propria finitudine. La propria costitutiva fragilità. Rinunciando a pretendere l’infinito. Rinunciando a pretendere l’assoluto. Perlomeno, qui, su questa terra.
Possiamo riassumere così quella che Salvatore Natoli chiama «etica del finito». Una sorta di «neopaganesimo». Ora, nei suoi due libri appena pubblicati (La salvezza senza fede, Feltrinelli, pp. 265, euro 10,00 e Sul male assoluto. Nichilismo e idoli del Novecento, Morcelliana, pp. 75, euro 10,00) Natoli ritorna su questi temi. L’etica del finito, nell’ideale neopagano propugnato da Natoli, vuol dire che l’individuo deve assumere consapevolmente la propria morte, se intende fare in modo che la sua vita non sia risucchiata dalla disperazione prodotta dal nichilismo. Non c’è però niente di luttuoso, in questa sua proposta etica. Perché accettare la propria morte significa accettare la naturalità della nostra vita. Che è la nostra condizione ineludibile. E tuttavia - osserva Natoli -, l’individuo che è consapevole della sua naturalità invalicabile, sebbene rinunci alla salvezza assoluta, non rinuncia però a quella «relativa». E per «salvezza relativa» Natoli intende - sulla scia del Leopardi della Ginestra - il bisogno umano di aiuto reciproco. Proprio perché gli individui sono finiti, sono fragili e hanno necessariamente bisogno gli uni degli altri. Allora, piuttosto che aspirare ad una vita eterna, dobbiamo organizzarci - anche con il sostegno della Tecnica - per realizzare, qui ed ora, una «vita buona». Si tratta, appunto, di quella visione tragica della grecità antica che il neopaganesimo di Natoli riprende e rilancia nel crepuscolo odierno del cristianesimo. Divenuto ormai civiltà, cultura. O peggio ancora, agenzia che si limita ormai a prescrivere prontuari etici.
Rinunciare all’assoluto vuol dire, peraltro, liberarsi una volta per tutte dagli idoli della Modernità. In particolare, dalla credenza del male metafisico, del male assoluto. Quelli che invece esistono e aggrediscono la nostra vita - e per questo possono essere limitati, contenuti - sono i tanti mali emersi nella storia. Nella storia del Novecento, principalmente. Ecco - scrive Natoli - l’etica del finito è avere consapevolezza della morte, male assoluto per eccellenza. Ma «proprio per questo è per eccellenza pensiero della vita, realizzazione di sé nel tempo, nell’ora, con gli altri. Questo è possibile se gli uomini sono capaci di virtù, se si sostengono in un reciproco e comune affidarsi».

l’Unità 8.4.07
Il marketing del matrimonio
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Nessuno, in questi mesi e in queste settimane, nel dibattito pubblico in corso, sta svilendo e svalutando l’istituto del matrimonio tanto quanto vanno facendo le gerarchie ecclesiastiche. La contrarietà espressa nei confronti delle coppie di fatto e poi, più nel dettaglio, nei confronti dei Dico o della stessa proposta di legge, elaborata da Alfredo Biondi, in materia di “contratti” per le unioni civili, ruota intorno a due argomenti: la regolarizzazione giuridica di unioni “altre” rispetto al matrimonio indebolirebbe e minaccerebbe l’istituto della famiglia; un profilo normativo che riconosce i rapporti omosessuali come unioni stabili, contemplate dal nostro ordinamento, violerebbe il “diritto naturale”. Sorvolando sul nostro dissenso a proposito di questo secondo punto, consideriamo con più attenzione il primo.
Le tesi della Conferenza Episcopale Italiana, analizzata nella sua sostanza di fondo, propone un’idea fin troppo pragmatica del vincolo matrimoniale. La sintesi del ragionamento proposto potrebbe essere questa. Oggi, un uomo e una donna che intendano sancire la loro unione, dare stabilità e prospettiva alla loro relazione e codificarla in funzione di norme che comportino reciproci diritti e doveri, hanno a disposizione due opzioni: quella del matrimonio civile e quella del matrimonio religioso. Nel momento in cui quell’uomo e quella donna potessero regolamentare la loro unione in maniera analoga (anche se, è evidente, niente affatto uguale), e se il loro “contratto” prevedesse una parte di quei diritti e di quei doveri, garantiti appunto dal matrimonio, ma attraverso una procedura meno onerosa e burocratica e un vincolo più flessibile (insomma, facendo ricorso a un “patto civile”): ecco che, allora, quell’uomo e quella donna sceglierebbero, probabilmente, questa ultima opportunità. E, quindi, qualora sul “mercato della vita di coppia” si affacciasse un prodotto tanto competitivo e semplice, quale quello qui in discussione, il connubio tradizionale potrebbe diventare una soluzione meno desiderabile. Questi gli argomenti - a nostro modo di vedere - da cui discende tanto accanimento nei confronti dei “matrimoni di serie B” (definizione non nostra, va da sè) e tanto timore per il rischio di una incipiente “banalizzazione del vincolo coniugale”. E questo spiega come - dietro una simile analisi - si nasconda un profondo equivoco sui motivi e sui valori che possono indurre due individui a sposarsi. Si trascura l’idea di un vincolo esclusivo, riconosciuto dalla propria comunità e dalla propria cerchia relazionale e familiare; la promessa d’amore e fedeltà, solidarietà e comunione che gli sposi si fanno; e, nel caso del matrimonio religioso, ci si dimentica, persino, della sacralità del vincolo (il fatto, cioè, che quel giuramento avvenga al cospetto del Signore e che esso rappresenti un sacramento).
Tutti questi aspetti “sostanziali” deperirebbero; restesterebbero solo quelli formali, di diritto pubblico e privato, che di quel legame non descrivono certo qualità e intensità, ragioni e prerogative; ma che inquadrano, piuttosto, una serie di elementi accessori (anche se assai importanti), che sono di natura giuridica e non si riferiscono alla sfera intima, sentimentale e morale.
Insomma, nell’opinione delle gerarchie vaticane è come se le persone, oggi, si sposassero per avere la reversibilità della pensione, o per poter subentrare in un contratto d'affitto in caso di decesso del coniuge; è come se si sposasse, in altre parole, solo (o principalmente) per poter godere di alcuni diritti e di alcune garanzie. E, dunque, qualora questi fossero comunque riconosciuti in altra forma e a seguito di altra previsione normativa, certamente quelle persone scanserebbero l’impegno matrimoniale per qualcosa di altrettanto funzionale e, altresì, ben più semplice.
Insomma, la Cei sembra impegnata in una campagna di marketing, più che in un’opera pastorale o in una discussione etica; e appare arretrata - paradossalmente - su una concezione pessimistica e ultra-secolarizzata della famiglia e dell’unione matrimoniale. Questa visione “nichilista” del coniugio potrebbe persino trovare un qualche riscontro nei costumi diffusi e nel ricorso alla pratica del divorzio, in costante aumento; ma - seppure questa visione rappresentasse una presa d’atto e un esercizio di realismo - rimane comunque aperta una questione rilevante. I vescovi italiani sembrano dire: vuoi godere dei diritti e delle garanzie riconosciuti al matrimonio? Sposati.
Quei diritti non possono ottenersi altrimenti, sono strettamente appannaggio di chi è coniugato secondo il rito religioso o civile: sono, cioè, un privilegio esclusivo. Una concezione regressiva della sfera delle garanzie e dei diritti, questa, estranea a ogni principio solidaristico e universalistico. La sostanza di quella “sfera”, invece, è “positiva”, tende a essere generale e accogliente. Tende a includere, non ad escludere.

il manifesto 8.4.07
La sfida filosofica del papa
In uno dei suoi primi discorsi Joseph Ratzinger ha detto che spetta alla religione occuparsi «dei fondamenti». La sua sfida investe la filosofia, ma nessuno l’ha raccolta. Come si configura questa pretesa e dov’è il suo punto debole?
di Franca D’Agostini


Come quella antica, anche la Chiesa attuale ha la necessità di consolidarsi e di cautelarsi. Si spiega così l’impostazione dogmatica e difensiva del magistero del papa e la sua alleanza con le forze più conservatrici del cattolicesimo, guidate da tendenze fobiche e repressive

Il rischio è che le gerarchie cattoliche si trovino a far la parte dei ciechi che vogliono a ogni costo guidare altri ciechi a trovare la via

La cosiddetta situazione «post-secolare» in cui ci troviamo, in particolare in Italia (i parroci in piazza, i vescovi sulle prime pagine dei giornali, la Chiesa come quinto potere e voce di primo piano nella sfera pubblica), ha in fondo una spiegazione piuttosto semplice, se si considera il particolare rapporto tra religione e filosofia che Joseph Ratzinger ha voluto stabilire come cifra del suo operato, in qualità di teologo e in qualità di pontefice.
In uno dei suoi primi discorsi dopo la nomina, Ratzinger ha detto espressamente: «dei fondamenti si occupa la religione». Nessun filosofo ha protestato, che io sappia, e le sue parole sono state accolte con tranquillità e indifferenza anche da tutti gli intellettuali che normalmente si preoccupano di commentare e discutere le posizioni dottrinali del Papa. Eppure, la sfida non poteva essere più esplicita.
Temi al centro del dibattito
Per «fondamenti» si intende (e verosimilmente Ratzinger intende) l’insieme delle teorie di sfondo, preliminari e universali, che orientano la vita associata, e che riguardano l’etica della nascita e della morte, la natura delle relazioni sociali, affettive, sessuali tra esseri umani, l’essere persone o cose, e così via. Come ci è ormai noto, temi di questo tipo sono al centro del dibattito pubblico, e sappiamo anche che le gerarchie cattoliche, coerenti con il programma ratzingeriano, se ne occupano molto alacremente.
Non è facile dire quale settore della cultura laica dovrebbe invece trattare simili argomenti: tutti ne sanno qualcosa (una parte), in modo più o meno scientifico. Ma c’è un’area delle conoscenze che per sua natura dovrebbe essere votata all’elaborazione dei fondamenti, ed è la filosofia, e idealmente dovrebbe farlo elaborando e sintetizzando i risultati delle diverse scienze ed espressioni culturali. La sfida di Ratzinger era dunque filosofica, e specificamente rivolta alla filosofia. Il silenzio con cui è stata accolta la sua dichiarazione dice molto sulla difficile identificabilità pubblica della filosofia come tale (nonostante i molti festival che le vengono dedicati): se avesse detto, poniamo, «delle equazioni di sesto grado si occupa la religione», probabilmente non soltanto i matematici avrebbero obiettato.
Configurazione di una pretesa
Va detto che gli intenti di Ratzinger a questo proposito sono sempre stati espliciti. L’obiettivo è – come lui stesso ama dire riferendosi ai Padri della Chiesa – «l’appropriazione della filosofia» da parte della religione cristiana. Più propriamente diremmo, alla luce delle recenti tendenze: l’occupazione del posto scientifico e culturale della filosofia, resosi vacante, per vari motivi (non ultimo la distrazione, o disaffezione, o addirittura avversione dei filosofi riguardo a parole come «fondamenti»). Ma da dove viene e come si configura questa pretesa, quali sono le sue ragioni, e quale è (se esiste) il punto debole dell’operazione?
Sintetizzando al massimo, la posizione filosofica di Ratzinger ha due aspetti principali: una metafisica (più o meno esplicitamente) neokantiana e storicista; una di ispirazione patristica. Quanto al primo aspetto, per «metafisica neokantiana e storicista» si intende l’adesione a una concezione della realtà così concepita: ciò con cui abbiamo a che fare non è tanto realtà ma storia, narrazione di eventi umani. Ora dal punto di vista di Ratzinger (prevedibilmente) questa narrazione si è arricchita a un certo punto con l’ingresso del nome ebraico di Dio, quindi con l’inaudito fenomeno del Dio incarnato, diventato parola e vita umana.
Tutto ciò ha dato una straordinaria autorità alla storia. Non soltanto la narrazione delle vicende umanedivine è la fonte primaria del nostro ragionare e sapere, e non esiste una realtà «in sé», separata dai discorsi che narrano le vicende di Dio e dell’uomo; maanche: la verità della storia è la voce stessa dell’in sé, nel senso più alto e specifico del termine, per l’appunto Dio.
Che ne facciamo della scienza?
Certo molti problemi restano in sospeso. Se la fonte di verità è la storia di Dio nel mondo, come la mettiamo con la scienza? La scienza non è forse un’altra voce dell’in sé, o comunque una fonte alternativa di verità (di descrizione della realtà)? La risposta può giungere prontamente: anche la scienza è narrazione, e nella misura in cui si accorda all’altra narrazione, quella privilegiata, tutto funziona nel migliore dei modi; in casi di divergenza, quando si tratta di scegliere tra la storia di Dio e la storia degli sforzi umani di conoscenza, non c’è dubbio: si sceglie Dio.
Ora le ragioni della tesi «i fondamenti sono di competenza della religione » appaiono con evidenza. Dal punto di vista in largo senso neokantiano (che in questo caso vuol dire neokantiano in senso stretto, ma anche neoempirista e storicista: tutte correnti del Novecento accomunate da uno stesso principio di autolimitazione empiristica della ragione) i fondamenti non sono oggetto di un sapere razionale. Di qui l’idea (che in particolare Ratzinger condivide con Habermas) di una natura extrafilosofica (ed extrascientifica) dell’indagine sui fondamenti. Ma qui avviene anche il «rovesciamento » operato da Ratzinger: sì, i fondamenti sono extrafilosofici, dunque di competenza della religione, ma la religione cristiana non è affatto estranea alla ragione, anzi: è la compiuta espressione del logos greco.
Perché mai Ratzinger riesce a dire questo? La risposta si trova nel secondo aspetto della sua posizione filosofica. L’ispirazione patristica percorre tutto il pensiero dell’attuale Pontefice, dalla prolusione d’insediamento all’Università di Bonn del 1959, titolata Il Dio della fede e il Dio dei filosofi ora pubblicata dalle edizioni Marcianum di Venezia (traduzione di E. Coccia, postfazione di H. Sonnemans), fino alla raccolta di scritti del 2003, Fede, verità, tolleranza, passando per l’Introduzione al cristianesimo (1969).
Che cosa vuol dire «ispirazione patristica»? Essenzialmente, vuol dire tre cose:
1) un’impostazione apologetica e missionaria, ossia una elaborazione della dottrina tutta mirata alla difesa e alla diffusione del messaggio cristiano;
2) un’attenzione specifica alla dogmatica, ossia alla fissazione delle verità istitutive dell’ortodossia;
3) una forma di fondamentale razionalismo, ossia di elaborazione del cristianesimo su base razionale, attraverso appunto «l’appropriazione» del linguaggio filosofico.
Immaginate i primi esponenti delle gerarchie cristiane, gli eredi diretti di Pietro e degli apostoli, e questi tre aspetti vi appariranno con evidenza. Quel che dovevano fare i Padri era difendere l’insegnamento evangelico dai molti nemici ebrei e pagani, e diffondere la dottrina. Ma soprattutto, dovevano fare della dottrina una vera ’dottrina’, ossia creare l’ortodossia, perché la natura sostanzialmente ellittica e aperta del messaggio evangelico autorizzava le ipotesi più strampalate, e ancora prima di essere una vera religione il cristianesimo si trovava a essere lacerato dalle eresie. Come ottenere chiarezza, e soprattutto istituzionalità in queste condizioni? Semplice: richiamandosi alla filosofia, e più precisamente al logos greco, la ragione filosofica che «accomuna tutti».
Che il teologo Ratzinger faccia riferimento alla patristica è ragionevole: lì si pongono le basi, lì è l’alba del cristianesimo. Ma perché il politico-intellettuale Ratzinger ritiene di dover ancora applicare la strategia patristica? La prima risposta riguarda gli affari interni del cattolicesimo. L’assimilazione del contesto contemporaneo a quello patristico è motivata dall’esigenza di rifondazione rispetto alla deriva pluralistica e libertaria del cristianesimo postconciliare. La Chiesa attuale dunque deve consolidarsi e difendersi, come quella antica. Questo ci spiega l’impostazione eminentemente dogmatica e difensiva del magistero di Ratzinger. Ci spiega anche perché tale magistero, nonostante il grande dispiegamento di competenza filosofica e sensibilità ermeneutica, sia destinato ad allearsi alle forze più tradizionaliste e conservatrici del cattolicesimo, dando spazio e ragione alle loro tendenze fobiche e repressive.
Ma è solo la prima ragione della mossa filosofica compiuta da Ratzinger. La seconda riguarda il rapporto tra Chiesa e Stato, religione e società civile. Anche qui la spiegazione è chiara, e non lascia adito a dubbi. L’obiettivo è far sì che il cristianesimo «si ponga distintamente come un’alternativa epocale» (così dichiarava l’aggiunta del 2000 all’Introduzione al cristianesimo). Il marxismo – scrive l’attuale Pontefice – è stata l’«unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel futuro», ma «dopo il trauma del 1989», il marxismo è crollato, e «nessuno crede più alle grandi promesse morali». Il marxismo – leggiamo nell’enciclica Deus caritas est – aveva indicato una soluzione filosofica, ossia fondata scientificamente e razionalmente, della «problematica sociale»: ora «questo sogno è svanito», e in queste condizioni «la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale».
Ecco dunque il vero compito dell’«appropriazione della filosofia» da parte del cristianesimo: occorre proporsi come la filosofia prima di cui l’Occidente è da molto tempo privo, e di cui da molto tempo sente il bisogno. Abbiamo perso ogni connected politics, ogni politica ispirata a una visione generale della realtà? Abbiamo perso un orientamento unitario, cognitivo e morale? Ebbene, la religione cristiana ci dà tutto questo. Gli esseri umani politicamente ed eticamente sbandati e privi di 'filosofie prime' hanno ora bisogno della ratio filosofica cristiana, vera erede della grande tradizione filosofica occidentale.
Sarà valida questa terapia?
Notiamo che la diagnostica è impeccabile: è vero che la politica pragmatizzata e l’etica frammentata in cui vive l’Occidente rendono inoperanti le migliori intenzioni; è vero che i dibattiti attuali (nella scienza, nella cultura, nella politica) sembrano richiedere a gran voce il lavoro di una nuova filosofia prima. Ma siamo sicuri che la terapia proposta sia quella giusta? Il rischio verosimile, che sta puntualmente avverandosi, è che le gerarchie cattoliche si trovino a far la parte dei ciechi che vogliono ad ogni costo guidare altri ciechi a trovare la via.
Eccoci dunque al punto conclusivo, ossia al punto in cui la barca predisposta da Ratzinger per traghettarci nell’epoca della fine delle ideologie fa acqua. Il fatto che la proposta non funzioni, e non possa fornirci, anche con le migliori disposizioni del caso, la filosofia prima di cui presumibilmente necessitiamo, si vede bene considerando i due aspetti della filosofia di Ratzinger. Mettete insieme una metafisica debole e storicista, e un pensiero forte, dotato di progettualità risolute, e di accurate procedure difensive, come la patristica, e avrete quel che già sapete di avere: un pesante e barcollante edificio costruito sulla sabbia o sull’argilla. Sarebbe meglio, sicuramente, la combinazione opposta: una metafisica coraggiosa, con un contegno aperto e anti-dogmatico.
Chi ci dice cosa fare
In ogni caso, la costruzione di Ratzinger soffre l’ipoteca del logos moderno, post-metafisico, più di quanto egli stesso riconosca. Lo storicista Ratzinger non dà definizioni chiare di ciò di cui parla (embrioni umani, donne, celibato e famiglia, vita e morte) ma preferisce rifugiarsi nella tradizione. La catechesi ratzingeriana ripete: «...è una dottrina proposta infallibilmente dalla Chiesa», che «appartiene al deposito della fede della Chiesa», che conferma «il carattere infallibile dell’insegnamento della dottrina della Chiesa». I risultati prevedibili sono due: la fallacia storicista, ossia il derivare le norme dal fatto della convenzione e della tradizione, per esempio: le donne non devono avere accesso al sacerdozio perché non l’hanno mai avuto; l’inconsistenza, ossia il far valere una regola insieme alla sua violazione, per esempio: è sacra la vita di un organismo proto-embrionale ma non è sacra la vita di un condannato a morte in Texas.
È probabile che a Ratzinger sia nota la fragilità filosofica delle posizioni della Chiesa su questi temi, in base alle sue stesse premesse però non ha molte alternative. Per uscire dal circolo vizioso forse i vescovi dovrebbero davvero mettersi a fare i filosofi, ma allora non avrebbero tempo per dirci quel che dobbiamo fare.

A confronto con Ratzinger
Che fare quando è in gioco la metafisica?
Il confronto filosofico con le posizioni di Ratzinger, se si eccettuano scritti occasionali, fino ad ora è stato condotto da autori che si muovono nel solco delle sue posizioni di fondo. Un riferimento al tentativo di esautorazione della filosofia da parte della Chiesa ratzingeriana si trova nel libello anonimo «Contro Ratzinger» (Isbn, 2006), che sottolinea la differenza tra il tendenziale storicismo dell’attuale papa e le posizioni filosofiche di Woityla, di formazione fenomenologo. Il libretto di Giulio Giorello, «Di nessuna chiesa» (Cortina, 2006) si conclude ipotizzando che la risposta al post-secolarismo debba venire da una riaffermazione dei compiti della filosofia come libera elaborazione argomentativa. Il più celebre incontro filosofico con Ratzinger si deve a Habermas: i testi del loro dialogo sono stati tradotti nel 2005 da Morcelliana («Etica, religione e stato liberale») e nelle edizioni di Reset («Ragione e fede in dialogo»). Habermas ha proposto a Ratzinger un nuovo confronto, in un articolo tradotto sul «Sole 24 ore» e gli ha rimproverato la tendenza a «ri-ellenizzare» la ragione. Ma forse è una tendenza che sta nelle cose, prima che nei discorsi di Ratzinger. Per questo è probabile che Habermas sia destinato a perdere la partita. Il formalismo della ragione «disellenizzata» prevede «l’astensione in materia metafisica»: ma che fare quando è in gioco la metafisica, ossia sono in discussione le concezioni di fondo che guidano una società?

Repubblica 7.4.07
La Chiesa, i laici e il diritto naturale
di Rocco Buttiglione


Caro direttore, si torna a parlare di diritto naturale. Il Papa vi ha fatto riferimento e subito da parte "laica" il concetto è stato criticato come bigotto. La natura, si dice, non è adatta a costituire una norma. In natura (per esempio nel mondo animale) troviamo casi di eterosessualità e casi di omosessualità. Come faremo a classificare uno di questi due comportamenti come naturale e l´altro come innaturale? Ambedue infatti sono presenti in natura.
Di più: la natura ci mostra esempi che concordano con un sentimento morale ed altri che concordano con il sentimento morale opposto. Troviamo esempi di solidarietà e di cura parentale e troviamo esempi di spietata competizione per la vita e selezione del più forte. Come faremo a decidere quale di questi due comportamenti è più naturale?
È lecito, conclude il critico "laico" avanzare il sospetto che con il concetto di diritto naturale la Chiesa Cattolica cerchi di travestire la propria etica rivelata. Diritto naturale sarebbe, per così dire, la versione laica dell´etica cristiana che fa appello, invece che alla Scrittura, ad una natura che ha solo il compito di confermare il contenuto della Scrittura.
A me sembra che questo ragionamento non corrisponda né alla vera posizione della Chiesa né al concetto di diritto naturale ed al suo sviluppo storico. Consiglierei, inoltre, ai laici, di non disfarsi troppo facilmente della idea di diritto naturale. Benché essa si ritrovi nel pensiero di S.Tommaso essa ha una lunga storia che comincia assai prima (con Aristotele) e continua per molto tempo dopo (con Leibniz, Wolff, Barbeyrac, l´illuminismo francese). Le grandi rivoluzioni dell´epoca dell´illuminismo (quella inglese del 1688/89, quella americana del 1776 e quella francese del 1789) affondano tutte le loro radici nelle idee e nei principi del diritto naturale. Un pensiero laico che non voglia scadere nel pragmatismo assoluto non può rinunciare ad una rivisitazione critica dell´idea di diritto naturale.
Cosa è poi questo diritto naturale? Lo ha spiegato assai bene S.Tommaso : "lex est quaedam h0minis ad hominem proportio quae servata societatem servat, corrupta corrumpit". Traduciamo: "la legge è un certo giusto rapporto degli uomini fra di loro. Se esso viene mantenuto la società fiorisce, se viene abbandonato la società va in rovina". La legge naturale è un giusto rapporto degli uomini fra di loro. Guardiamo, per scoprire la legge naturale, non alla natura in generale ma alla natura dell´essere umano, che è una natura razionale e morale. La natura biologica, che condividiamo con gli altri animali, nell´uomo viene sollevata al livello della ragione. Le obiezioni che derivano dal fatto che in natura forme diverse di comportamento risultano egualmente praticate dagli animali è dunque del tutto fuori luogo. Per definire i propri precetti la legge naturale si affida in parte a quelle che i fenomenologi chiamano leggi essenziali di per se evidenti (Wesensgesetze) ed in parte a regole di esperienza. Facciamo un esempio: è evidente che se non nascono bambini una società è destinata a morire (può dilazionare la fine con l´emigrazione ma solo per un poco). L´esperienza ci dice che il luogo elettivo per generare ed educare i bambini è la famiglia. La famiglia è una istituzione sociale fondamentale che ha diritto al sostegno della comunità. La sanzione alla norma del diritto naturale è immanente: se la norma non viene osservata la società va in rovina. Non vale opporre che bambini sono nati e nascono fuori della famiglia. Benché in molti casi essi traggano proprio dalle difficoltà iniziali della loro vita uno stimolo che li spinge a formarsi personalità particolarmente forti è evidente che essi dovranno affrontare difficoltà maggiori dei loro coetanei che hanno una famiglia, e che è desiderabile, per quanto possibile, che ogni bambino abbia una famiglia.
Mi sembra che questa sia una posizione interamente laica. Da Durkheim a Parsons la tradizione del diritto naturale rivive nella moderna sociologia sotto altro nome: si tratta della ricerca di leggi di struttura (o funzioni) che rendono possibile il perpetuarsi nel tempo della esistenza di un gruppo sociale.
È bene dire infine qualche parola su di un altro tipo di critica del diritto naturale. Si tratta dell´ateismo postulatorio di origine marxista rinverdito da J.P. Sartre: l´uomo non può essere soggetto ad un diritto naturale perché nell´uomo "l´esistenza precede l´essenza". In altre parole l´uomo si crea da solo e si dà da se stesso la propria natura. La Chiesa sarebbe nemica della libertà perché si oppone a questa idea di libertà assoluta. Mai che uno dei difensori di questa critica del cristianesimo rifletta sul fatto che la libertà assoluta include la libertà di disprezzare, umiliare, strumentalizzare ed uccidere l´altro essere umano. Mai che qualcuno di questi esistenzialisti invecchiati si ponga il problema di spiegarci come mai le più grandi minacce alla libertà dell´uomo siano venute da ideologie sanguinarie che credevano appunto in quella idea di libertà assoluta ed hanno tentato di metterla in pratica: comunismo e nazismo. Dopo quella esperienza storica l´ateismo postulatorio inteso come dottrina di libertà mi pare totalmente screditato.

Repubblica 8.4.07
L'inganno di Buttiglione sul diritto naturale
di Paolo Flores D'Arcais


Caro direttore, l´autorevole filosofo cattolico Rocco Buttiglione (tanto più autorevole in quanto, come deputato legislatore, ha l´opportunità di rendere obbligatorie - attraverso la legge positiva - le sue convinzioni morali di fedelissimo di Santa Romana Chiesa) ha spezzato una lancia in favore del "diritto naturale". Riproposto dal Papa e "subito contestato da parte laica", la quale "avanza il sospetto che con il concetto di diritto naturale la Chiesa cattolica cerchi di travestire la propria etica rivelata.
Le argomentazioni di Buttiglione costituiscono una preziosa raccolta di "non sequitur" (per dirla in latino, come piace a lui). Che cosa sia il diritto naturale è, secondo Buttiglione, perfettamente chiaro. Lo avrebbe "spiegato assai bene" san Tommaso: la legge naturale è un giusto rapporto degli uomini tra loro. E mi hai detto un prospero! Sfugge a Buttiglione, evidentemente, il carattere tautologico e del tutto vuoto della definizione. Il problema, infatti, è proprio cosa si intenda con quel "giusto" rapporto.
Per gli atzechi implicava sacrifici umani (che costituivano anzi la forma estrema di pietas religiosa), per i cattolicissimi "conquistadores" il genocidio di quei "selvaggi" (dei quali si discusse se avessero un´anima), per la grande civiltà romana la schiavitù, la guerra permanente, le stragi circensi e l´esposizione dei neonati (non parliamo poi dell´aborto), per la classicità greca una coltissima omosessualità che aveva toni che oggi classificheremmo da pedofilia, per l´intero millennio e passa dell´Europa cristiana il rogo degli eretici e la persecuzione del "popolo deicida", per molte società "primitive" l´antropofagia rituale (nelle due varianti: dei propri nemici e dei propri cari), nell´Italia di quando ero ragazzo il carcere per adulterio (ne fecero le spese anche "il campionissimo" e la sua "dama bianca"), nell´Italia di oggi quindici anni di galera per chi obbedisce con gesto di amore estremo alla richiesta del malato torturato di poter "terminare" la sua tortura. Potremmo continuare "ad abundantiam".
In nessuno di questi casi, e degli infiniti altri che violano ciò che Buttiglione presume sia diritto naturale, ma che si sono susseguiti nella storia della specie naturale "homo sapiens", è mai accaduto ciò di cui Buttiglione favoleggia: "la sanzione del diritto naturale è immanente: se la norma non viene osservata la società va in rovina". Le società vanno in rovina, ma per tutt´altri motivi, visto che vengono sostituite da altre società che puntualmente, anch´esse, non si adeguano alla "natura e ragione" secondo Buttiglione.
Del resto lo spiegava il più grande filosofo cristiano da molti secoli a questa parte, Blaise Pascal. Che, con trasparente riferimento al "giusto rapporto" di cui san Tommaso e Buttiglione, esclama: La giustizia? L´uomo non la conosce. "Nulla si vede di giusto o di ingiusto che non muti di qualità al mutare del clima… Il furto, l´incesto, l´uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato il proprio posto tra le azioni virtuose". Tra le azioni virtuose, si badi, non tra i delitti. Pascal è cristiano, ma guarda in faccia la realtà. Il diritto naturale è una finzione (per questo sarà per Pascal ancora più necessaria la fede).
La scimmia che tutti noi siamo si differenzia radicalmente dalle altre per il suo essere "sapiens", questo è ovvio. Ma la razionalità umana è un insieme di capacità simboliche, comunicative, calcolanti (le razionalità plurali di cui parla Gardner, ad esempio) che non implicano affatto una specifica morale (e meno che mai quella di Buttiglione e di Benedetto XVI). "Homo sapiens" ha certo bisogno di una norma (di una morale), per soccorrere la cogenza indebolita degli istinti. Di una norma qualsiasi, purché funzioni. Questo ci dice la storia della specie naturale cui apparteniamo. Scegliere per le libertà e contro la sopraffazione (dei totalitarismi e delle teocrazie, gli uni surrogati degli altri) è la possibilità per cui il laicismo, cioè la democrazia, si batte.

venerdì 6 aprile 2007

i contatti con "segnalazioni" nel mese di Marzo 2007

1. Italy 42.570 91,31%
2. France 704 1,51%
3. United States 695 1,49%
4. Sweden 448 0,96%
5. Other 418 0,90%
6. Germany 378 0,81%
7. United Kingdom 179 0,38%
8. China 174 0,37%
9. Spain 168 0,36%
10. Portugal 148 0,32%
11. Switzerland 132 0,28%
12. Hong Kong 79 0,17%
13. Belgium 55 0,12%
14. India 44 0,09%
15. Netherlands 44 0,09%
16. Canada 42 0,09%
17. Brazil 26 0,06%
18. Turkey 20 0,04%
19. Uruguay 20 0,04%
20. Austria 19 0,04%
21. Australia 16 0,03%
22. Norway 16 0,03%
23. Mexico 16 0,03%
24. Japan 16 0,03%
25. Greece 14 0,03%
26. Singapore 12 0,03%
27. Czech Republic 10 0,02%
28. Romania 9 0,02%
29. Malaysia 9 0,02%
30. Egypt 8 0,02%
31. Bahamas 8 0,02%
32. Chile 7 0,02%
33. Russian Federation 7 0,02%
34. Indonesia 7 0,02%
35. Ireland 7 0,02%
36. New Zealand 6 0,01%
37. Serbia Montenegro 6 0,01%
38. Argentina 6 0,01%
39. United Arab Emirates 5 0,01%
40. Taiwan 5 0,01%
41. Korea (South) 5 0,01%
42. Burundi 4 0,01%
43. Colombia 3 0,01%
44. Finland 3 0,01%
45. Estonia 3 0,01%
46. Morocco 3 0,01%
47. Israel 3 0,01%
48. Hungary 3 0,01%
49. Poland 3 0,01%
50. South Africa 3 0,01%
51. San Marino 2 0,00%
52. Nepal 2 0,00%
53. Guatemala 2 0,00%
54. Ethiopia 2 0,00%
55. Costa Rica 2 0,00%
56. Dominican Republic 2 0,00%
57. Bolivia 2 0,00%
58. Cook Islands 2 0,00%
59. Belarus 1 0,00%
60. Brunei Darussalam 1 0,00%
61. Bulgaria 1 0,00%
62. Azerbaijan 1 0,00%
63. Bosnia and Herzegovina 1 0,00%
64. Cuba 1 0,00%
65. Georgia 1 0,00%
66. Croatia (Hrvatska) 1 0,00%
67. Iran 1 0,00%
68. Mauritius 1 0,00%
69. Jordan 1 0,00%
70. Lithuania 1 0,00%
71. Latvia 1 0,00%
72. Peru 1 0,00%
73. Ukraine 1 0,00%
74. Slovak Republic 1 0,00%
75. Saudi Arabia 1 0,00%
76. Qatar 1 0,00%
77. Thailand 1 0,00%
78. Vatican City State (Holy See) 1 0,00%
79. Venezuela 1 0,00%
Total 46.623 100,00%
Apc 5.4.07GOVERNO/GIORDANO: ASSEDIATO DA POTERI FORTI MA NON HA ALTERNATIVE
Non è complotto, Confindustria e Cei lottano alla luce del sole


Roma, 5 apr. (APCom) - Secondo Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, non c'è nessun complotto contro il governo Prodi, ma 'poteri forti' che operano alla luce del sole come la Confindustria e la Cei.
"Ritengo sia impossibile - dice il leader del Prc in una intervista a 'Left' - un'alternativa all'attuale governo. Dopodiché è dall'inizio di questa esperienza che c'è stato un condizionamento sistematico di alcuni poteri, che noi abbiamo sempre chiamato 'forti', dell'impianto del programma e anche delle forme di questa coalizione. E' ovvio che c'è intolleranza verso la presenza di Rifondazione".
Non si tratta però di un "complotto", spiega Giordano al settimanale: "No, tutto alla luce del sole. Quando Confindustria dice che non bisogna ridistribuire il salario in pensioni, non lo dice clandestinamente. Entra attivamente. E quando monsignor Bagnasco afferma che le coppie omosessuali, le coppie di fatto sono come la pedofilia o l'incesto, in realtà entra a gamba tesa nella produzione legislativa autonoma e sulla laicità del nostro Paese. Questo è il punto".
"Però è bene che sia chiaro - conclude - che tutti i tentativi di crisi vengono da questi settori, da chi li interpreta e ne è permeabile".

ANSA 5.4.07
PRC: GIORDANO, A GIUGNO ASSEMBLEA FONDATIVA SOGGETTO SINISTRA

(ANSA) - ROMA, 5 APR - ''Rifondazione ha avuto una grandissima intuizione. Ha lavorato in questi anni per un nuovo soggetto politico della sinistra che non a caso si costruisce nello spazio europeo, spazio in cui far emergere una soggettivita' politica di forte partecipazione. Intuizione che si sta rivelando particolarmente feconda. A giugno costituiremo questo soggetto con un'assemblea fondativa. Ma siamo aperti anche alla scelta significativa e importante che fara' la sinistra Ds''. Lo afferma Franco Giordano, segretario del Prc, che in un'intervista a ''Left'' in edicola domani, analizza l'attuale fase politica nell'imminenza del congresso dei Ds e del probabile arrivo della sinistra Ds sulle sponde del Prc. ''Naturalmente - spiega - non chiediamo a nessuno di negare le proprie identita' e quindi nessuno puo' chiedere di negare la nostra idea di Rifondazione comunista. La nostra autonomia politica e organizzativa e' fuori discussione''. Quanto ai cambiamenti che potrebbero derivare al simbolo Giordano sottolinea: ''abbiamo un bellissimo simbolo al quale teniamo. Ma mi piace discutere di contenuti e non di contenitori, senno' siamo al teatrino. Il Pd - dice - e' una fusione a freddo fatta nel limbo dell'autonomia della politica. Noi contrastiamo la deriva americana della passivita', di un modello sociale tutto fondato sulla bassa socializzazione della politica. Dobbiamo ricostruire una passione, questa e' la sfida. E dobbiamo costruire anche modelli di identita' per la societa'. Come dice Amarthya Sen, 'io non incontro mai l Islam o la religione cattolica o la religione ebraica, io incontro uomini e donne con una molteplicita' di identita'''.

Apc 5.4.07
TELECOM/ GIORDANO: CAPITALISTI COME TOTO' CHE VENDE FONTANA TREVI
Azienda di interesse nazionale, serve governo pubblico delle reti

Roma, 5 apr. (APCom) - "Il nostro è un capitalismo fortemente assistito. Siamo al saldo di una politica di privatizzazione su Telecom francamente sbagliata, drammatica, perché Tronchetti Provera ha acquisito Telecom con poche risorse e adesso la rivende - rivende la rete, oltre alla proprietà della struttura - producendo speculazione finanziaria". E' quanto sostiene il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, in una intervista a 'Left' che è stata anticipata dal settimanale.
"Mi verrebbe da fare una riflessione, amaramente divertente, sul fatto - dice ancora il leader del Prc - che mentre le imprese chiedono a noi, allo Stato, di avviare una politica di risanamento dei risparmi e pur in presenza di un debito molto forte - Telecom in tutti questi anni ha ripartito i dividendi. E' incredibile, sono rigorosi con noi e invece quando si tratta di ripartire sono molto benevoli".
Per Giordano "Telecom è di interesse nazionale. Tutte le grandi aziende a tecnologia così elevata, in quasi tutti i Paesi, hanno un governo delle reti pubbliche e investono strategicamente sulla loro pubblicità: Francia, Germania, ma anche il Messico, che investe oggi su Telecom avendo alle spalle una forte dimensione pubblica. Tanto da farne il grimaldello di una politica industriale tonificante sul proprio territorio nazionale. Vedo qui da noi, invece, una difficoltà strutturale della programmazione, parola che un tempo andava di moda, a investire strategicamente su questo settore".
Alla domanda su quanti imprenditori italiani passerebbero l'esame della meritocrazia, Giordano risponde: "Non sono abituato a dar pagelle, ma vedo che gli imprenditori hanno avuto vita facile. Uno è il caso Telecom, l'altro il sistema autostrade. Dove Benetton ha acquisito la gestione della rete e adesso vuole addirittura venderla agli spagnoli. Una roba che non è sua. Siamo quasi a Totò che vende la fontana di Trevi. E avendo promesso investimenti sulla rete mai fatti".

Adnkronos 5.4.07
TELECOM: GIORDANO, ABBIAMO CAPITALISMO FORTEMENTE ASSISTITO
IMPRENDITORI QUASI COME TOTO' CHE VENDE FONTANA DI TREVI

Roma, 5 apr. - (Adnkronos) - "Il nostro e' un capitalismo fortemente assistito. Siamo al saldo di una politica di privatizzazione su Telecom francamente sbagliata, drammatica, perche' Tronchetti Provera ha acquisito Telecom con poche risorse e adesso la rivende -rivende la rete, oltre alla proprieta' della struttura- producendo speculazione finanziaria". LO dice il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano in un'intervista a 'Left'.
"Mi verrebbe da fare una riflessione, amaramente divertente, sul fatto -aggiunge il leader del Prc- che mentre le imprese chiedono a noi, allo Stato, di avviare una politica di risanamento dei risparmi e pur in presenza di un debito molto forte, Telecom in tutti questi anni ha ripartito i dividendi. E' incredibile, sono rigorosi con noi e invece quando si tratta di ripartire sono molto benevoli. Telecom e' di interesse nazionale. Tutte le grandi aziende a tecnologia cosi' elevata, in quasi tutti i Paesi, hanno un governo delle reti pubbliche e investono strategicamente sulla loro pubblicita': Francia, Germania, ma anche il Messico, che investe oggi su Telecom avendo alle spalle una forte dimensione pubblica. Tanto da farne il grimaldello di una politica industriale tonificante sul proprio territorio nazionale. Vedo qui da noi, invece, una difficolta' strutturale della programmazione, parola che un tempo andava di moda, a investire strategicamente su questo settore".
"Vedo -conclude Giordano- che gli imprenditori hanno avuto vita facile. Uno e' il caso Telecom, l'altro il sistema autostrade. Dove Benetton ha acquisito la gestione della rete e adesso vuole addirittura venderla agli spagnoli. Una roba che non e' sua. Siamo quasi a Toto' che vende la fontana di Trevi. E avendo promesso investimenti sulla rete mai fatti".

ANSA 5.4.07
GOVERNO: GIORDANO, POTERI FORTI VOGLIONO CONDIZIONARLO

(ANSA) - ROMA, 5 APR - ''Ritengo sia impossibile un'alternativa all'attuale governo. Dopodiche' e' dall'inizio di questa esperienza che c'e' stato un condizionamento sistematico di alcuni poteri, che noi abbiamo sempre chiamato 'forti', dell'impianto del programma e anche delle forme di questa coalizione. E' ovvio che c'e' intolleranza verso la presenza di Rifondazione'': lo afferma il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano, intervistato da ''Left'' in edicola domani. Un complotto? ''No - risponde - tutto alla luce del sole. Quando Confindustria dice che non bisogna ridistribuire il salario in pensioni, non lo dice clandestinamente. Entra attivamente. E quando monsignor Bagnasco afferma che le coppie omosessuali, le coppie di fatto sono come la pedofilia o l'incesto, in realta' entra a gamba tesa nella produzione legislativa autonoma e sulla laicita' del nostro Paese. Questo e' il punto. Pero' e' bene che sia chiaro che tutti i tentativi di crisi vengono da questi settori, da chi li interpreta e ne e' permeabile''.

l’Unità 6.4.07
Mussi a D’Alema: «Non cancello le tracce...»
«È un errore concepire il passato come qualcosa di cui si può fare a meno»


«TEMPO FA D’Alema, polemizzando sulla mia presa di distanza dal Partito democratico mi scriveva sui giornali: “Caro Fabio, i partiti di cui tu parli co-
sa vuoi che dicano a un giovane che avrà 20 anni nel 2010?” Questa non è una semplice affermazione, è una dottrina, quella di cancellare le tracce».
Fabio Mussi che ha partecipato ad un dibattito sulla raccolta di un anno di numeri della rivista «News Left Review» critica il ministro degli Esteri sostenendo che è un errore concepire il passato come un qualcosa di cui si può fare a meno acuendo così la polemica in vista del congresso dei Ds a Firenze.
«Il nuovo - osserva il leader della sinistra della Quercia - ha assunto così una forma assoluta e il passato è un peso di cui liberarsi, questo lo ritengo sbagliatissimo. Nei quaderni dal carcere di Gramsci c’e un continuo confrontarsi e mettere in relazione il passato con il presente».
«Appartengo - aggiunge Mussi - ad una generazione che non ha avuto paura ad aprirsi alle dinamiche del mondo, ma non rompendo il collegamento con il passato e senza incitare i giovani a tagliare i rapporti con il Movimento operaio».
Mussi mantiene il punto sulla sua scelta di non far parte della nuova formazione politica. «Non mi rassegno - spiega - all’idea che la sinistra, pur attraverso travagli e ripensamenti tardivi come quello dell’89, si riduca oggi a un grumo di correnti in un partito di incerta identità in un ventaglio di forze minori radicalizzanti, in competizione tra loro». «Sarebbe - conclude il leader della minoranza Ds - un esito deludente per una lunga storia».
«È una cosa un po’ grossolana, io non voglio scivolare lungo il piano inclinato delle accuse grossier. Filippeschi dovrebbe anzitutto rispettare la posizione di una parte dei Ds che ha preso 37.000 voti ai congressi di base», ha detto sempre Fabio Mussi rispondendo al responsabile Istituzioni del partito che oggi, in una dichiarazione, ha esortato i leader della minoranza interna a rispettare il pronunciamento dei 200.000 iscritti che hanno dato il via libera alla costruzione del Pd. «La nostra posizione -aggiunge Mussi replicando a Marco Filippeschi- è chiara fin dall’inizio. La maggioranza sapeva che noi eravamo contrari e che, quindi, quando ha deciso di accelerare ha certamente tenuto in conto che una parte del partito non era d’accordo con la costruzione del Pd».

l’Unità 6.4.07
Bruno Pontecorvo, un Enigma di troppo
di Adriano Guerra


Realizzare una serie di trasmissioni televisive sotto il segno degli «enigmi» comporta inevitabilmente uno sforzo non lieve per conservare e anche alimentare interrogativi presenti in eventi del passato giunti a noi avvolti in parte o in tutto dal mistero. Il «caso Pontecorvo» - l'improvvisa scomparsa da Stoccolma nel 1950 del famoso fisico e la sua altrettanto improvvisa ricomparsa nell'Unione sovietica cinque anni dopo - si presta come pochi altri ad uno spettacolare trattamento. Gli ingredienti - come ci ha mostrato ieri sera Corrado Augias su Rai3 - ci sono tutti.
C’è la guerra fredda, che è in gran parte guerra di spie, e che pareva dovesse precipitare in quei primi anni '50 verso il terzo conflitto mondiale. C'è l'Unione sovietica, impegnata a strappare agli Stati uniti il monopolio della bomba atomica. C'è, infine, Pontecorvo, fisico atomico, che a Roma è stato allievo, anzi collaboratore, di Enrico Fermi, e cioè di uno degli scienziati che hanno lavorato a Los Alamos per costruire la prima bomba atomica americana.
Si aggiunga che Pontecorvo non solo è, come tutti gli scienziati - per dirla con Ernesto Galli Della Loggia - del tutto negato alla politica, ma è anche un comunista. E non un comunista normale, di quelli che guardano con ammirazione all'Urss di Stalin ma pensano che a casa propria non si debba «fare come la Russia», e cioè considerare quest'ultima un «paese guida» e un «modello». No: Pontecorvo è filosovietico al punto tale che - la testimonianza è del fratello Gillo, comunista, ma di un comunismo «diverso» - trova quiete soltanto quando da una misteriosa radio può ascoltare le campane del Cremlino.
Come dunque non pensare a lui come all'uomo che dopo avere, forse, fornito all'Urss dal Canada o dall'Inghilterra dati segreti per la fabbricazione della bomba atomica ha poi raggiunto Mosca per mettere al servizio della «patria del socialismo» le sue capacità di scienziato?
Interrogativi legittimi, si dirà. Ai quali una serie di risposte sono state però date. Dallo stesso Pontecorvo intanto, durante i suoi viaggi in Italia, visibilmente impacciato nel momento in cui veniva chiamato a rispondere di una sua scelta di tanti anni prima.
Da Miriam Mafai che nella biografia dello scienziato ci ha mostrato aspetti fondamentali della vicenda: il carattere del tutto particolare del comunismo e del rapporto con l'Unione sovietica di Pontecorvo, e dunque le ragioni verosimili, sentimentali e politiche, della sua fuga dall'Occidente.
E ancora la specifica natura del suo lavoro di scienziato (che non riguardava in nessun caso le armi atomiche e nucleari). A queste risposte ne va aggiunta ora un' altra, ultima e definitiva, proveniente da Mosca e che è purtroppo sfuggita a Corrado Augias. Si tratta di notizie che qui riprendiamo dal Corriere della sera del 13 febbraio 2007 e che possono essere così sintetizzate: In nessuno dei cinque volumi che raccolgono i documenti sulla storia del nucleare sovietico dal 1938 al 1954 vi è traccia di attività spionistica da parte di Pontecorvo. Dalle memorie di un fisico, Boris Ioffe si è anzi saputo che poco dopo il suo arrivo nell'Urss Pontecorvo è stato sottoposto ad un interrogatorio da parte di diversi fisici «per estrarre» da lui tutte le informazioni possibili. L'interrogatorio; che il Corriere ha definito «processo» si è concluso con un nulla di fatto perché «essendo principalmente un esperto di particelle elementari Pontecorvo era lontanissimo dalla problematica della progettazione dei reattori e delle bombe».
Punto e basta. L'enigma è risolto. Pontecorvo non era una spia e nell'Urss andò per una scelta che ad Augias come ad altri può apparire «sbagliata», ma che risulta essere stata - seppure avvolta dapprima dal mistero e poi dalla crisi nata dal crollo delle illusioni - pulita, politica e di lavoro.
Non è escluso - così finiva la nota del Corriere a firma Lanfranco Belloni - che proprio l'esito dell’interrogatorio, «risultato deludente per gli uomini del Cremlino, sia stato all'origine delle difficoltà, in seguito incontrate da Bruno Maksimovic nella patria del socialismo».

l’Unità 6.4.07
COMUNICATO SINDACALE

Dopo mesi di lotte e scarse informazioni sul futuro dell’Unità l’assemblea di redazione prende atto del comunicato del 2 aprile in cui il consiglio di amministrazione della Nie ribadisce che le linee generali del piano industriale «sono ispirate al rafforzamento dell’identità acquisita in questi anni dall’Unità quale autorevole quotidiano nazionale», con il mantenimento delle sette uscite la settimana e la permanenza delle cronache locali di Firenze, Bologna e Roma.
L’assemblea di redazione ritiene queste affermazioni impegnative e formali, frutto della responsabile battaglia sindacale condotta in questi difficili mesi di concerto con la Fnsi per il mantenimento dell’Unità quale grande giornale nazionale di informazione, autonomo e indipendente.
Un risultato per nulla scontato.
L’assemblea di redazione ritiene queste dichiarazioni di principio della proprietà comunque tutte da verificare nei fatti, restando per la sua massima parte oscuro, cornice a parte, il contenuto del piano industriale che, si dice, «sarà diffuso ed illustrato in modo ufficiale dopo il suo completamento con l’inserimento del piano editoriale», affidato alla direzione del giornale.
L’assemblea di redazione ritiene tutto ciò, dunque, solo un punto di partenza, e valuta quel che ora è noto insufficiente per prefigurare lo sviluppo e il rilancio del giornale, e non rispondente agli «otto punti per lo sviluppo» avanzati da tempo dal Cdr.
La mobilitazione e lo stato di agitazione restano.
Le giornaliste e i giornalisti dell’Unità chiedono alla proprietà e alla direzione giornalistica di aprire da subito un confronto finalizzato ad un effettivo rilancio del giornale e ribadiscono che qualsiasi prospettiva di rilancio deve partire da una intangibilità degli attuali livelli occupazionali e salariali, e da una risposta positiva alla necessità, più volte sottolineata, di sanare le posizioni di precariato tuttora esistenti.
La redazione dell’Unità non abbassa la vigilanza in attesa di risposte certe ed efficaci.

Repubblica 5.4.07
Su "Quaderni di storia" la vicenda di un articolo antisemita
Un segreto di Mussolini
De Felice lo conosceva ma non ne parlò
Uscì anonimo perché rivelava imbarazzo
di Simonetta Fiori


Per settant´anni è rimasto un documento anonimo, soltanto ora ha acquistato una paternità che ne fa un caso storiografico. Si tratta dell´articolo antisemita comparso il 6 agosto del 1938 sul primo numero della Difesa della razza, il rotocalco diretto da Telesio Interlandi. Razza e percentuale - questo il titolo dell´intervento - non aveva firma, ma apprendiamo oggi da un saggio di Quaderni di storia che fu scritto dallo stesso Benito Mussolini. A rendere la vicenda più complessa s´aggiunga che l´autografo mussoliniano è rimasto per anni nelle mani di Renzo De Felice, il quale però non ne fa cenno nei suoi libri. L´artefice dell´attribuzione è Giorgio Fabre, già autore per Garzanti del poderoso volume Mussolini razzista, che retrodata l´antisemitismo del duce alla fine degli anni Venti e ne mostra una progressione autonoma rispetto alla furia nazista.
La certezza della paternità proviene dalla copia manoscritta dell´articolo, conservata nel fondo di Renzo De Felice versato dagli eredi all´Archivio Centrale dello Stato. Perché Mussolini non abbia voluto firmare l´articolo è spiegato da Fabre in questi termini: lo scritto mette in luce "un nervo scoperto" del Duce ed è interamente difensivo. Quale sia "il nervo scoperto" lo si scopre leggendo l´intervento, che prende nettamente le distanze dal "Mussolini buono" consegnato sei anni prima all´intervistatore Ludwig in un libro per Mondadori. Nei Colloqui di Ludwig il Duce s´era distaccato dal delirio razzista del Führer, affermando che in Italia non esisteva l´antisemitismo. Nell´estate del 1938 il capo del fascismo ha la necessità di smentire quel leader "illuminato" per il quale non esistono le razze, ribadendo al contrario che «le razze esistono sotto l´aspetto biologico e spirituale». Dunque - questo in sostanza dice il Mussolini del ‘38 - non s´illudano gli ebrei italiani e non italiani «afferrandosi a quella tavola della salvezza che sono le dichiarazioni rese da Mussolini a Ludwig nel 1932». Da allora molte cose sono cambiate, «è sorto l´impero di Roma e l´antifascismo mondiale è di marca ebrea». E se nel 1932 l´antisemitismo in Italia non esisteva, conclude il Duce, «da allora a oggi è sorto il semitismo in Italia e nel mondo». Capriola acrobatica per dimostrare che, nella coscienza e nell´azione politica del fondatore del fascismo, non esistevano crepe di incoerenza.
Dimostrare la "coerenza razzista" di Mussolini era uno dei problemi politici di quei giorni. Non a caso una velina del Minculpop impose ai principali quotidiani di recuperare tutti i riferimenti razzisti fatti dal Duce «dal 1917 a oggi». Appello accolto con prevedibile zelo dalla stampa italiana. Dietro, la regia occulta e meticolosa dello stesso Mussolini.
Alla fine del saggio di Quaderni di storia, Fabre muove alcuni rilievi a De Felice, accusato di non aver compreso che quella martellante campagna di stampa non fu frutto di un´iniziativa spontanea ma d´una precisa direttiva del Duce. «Riferendosi a quest´episodio», scrive Fabre, «De Felice ha in sostanza alleggerito la responsabilità di Mussolini perfino nella sua ricostruzione della storia del proprio razzismo. Come si sa è un´operazione che lo storico ha compiuto più volte nella Storia degli ebrei italiani a proposito del razzismo mussoliniano». Pur disponendo dell´originale di Razza e percentuale, il biografo di Mussolini non ne ha mai parlato: né nell´edizione del 1988 della Storia degli ebrei italiani né in quella successiva del 1993. «Non c´è dubbio», aggiunge maliziosamente Fabre, «che questo testo metta in discussione le reiterate affermazioni defeliciane sulla mancanza di razzismo e di antisemitismo nel pensiero di Mussolini prima delle leggi razziali: se non altro perché qui era lo stesso Mussolini ad affermare il contrario».
Quanto all´imbarazzante libro di Ludwig, provvide Dino Alfieri a toglierlo di mezzo. L´11 agosto diede un ordine riservato a Mondadori di non ristampare più i Colloqui. Di lì a poco, a smentire definitivamente quel "duce buono", sarebbero arrivate le leggi razziali.

Luciano Canfora, Storico: Caro Direttore, ho visto con molto piacere l'intervento di Simonetta Fiori su «Repubblica» di ieri (Un segreto di Mussolini), come sempre preciso ed efficace. Per una omissione, immagino tipografica, è saltata l'indicazione, dopo la testata «Quaderni di storia» del numero del fascicolo. Si tratta di: «Quaderni di storia», n. 65, Edizioni Dedalo. (Rep 6.4.07)

il manifesto 6.4.07
Falsi storici
Le ossa di Giovanna d'Arco sono di una mummia egizia


Non appartengono a Giovanna d'Arco ma - sorpresa - a una mummia egizia i resti conservati nel museo di Chinon dedicato alla vita e alle gesta della Pulzella d'Orléans. In seguito a una indagine scientifica, i cui risultati sono stati pubblicati su «Nature», l'anatomopatologo Philippe Charlier è infatti giunto alla conclusione che le «preziose» reliquie, ritrovate nella soffitta di una farmacia parigina nel 1867 insieme a un cartiglio che le ricollegava appunto all'eroina francese, risalgono in realtà a un periodo databile fra il sesto e il terzo secolo avanti Cristo, circa duemila anni prima che Giovanna venisse condannata per eresia a morire sul rogo, appena diciannovenne, nel 1431. I resti, che consistono in ossa umane all'apparenza carbonizzate, in pezzi di legno annerito, in un frammento di stoffa e infine in un osso di gatto (nell'Europa medievale era consuetudine gettare gatti neri sui roghi delle streghe), sono stati analizzati negli ultimi mesi da Chartier e dalla sua équipe con strumenti scientifici sofisticati. A sostegno di una datazione diversa, i ricercatori hanno trovate polline di pino, albero inesistente nella Normandia medievale, ma invece ben presente nell'antico Egitto dove la sua resina veniva usata abitualmente per le imbalsamazioni. Secondo gli studiosi, il falso venne organizzato nell'Ottocento, con ogni probabilità per sostenere il processo di beatificazione di Giovanna d'Arco, che si sarebbe concluso nel 1909. La Pulzella d'Orléans venne poi proclamata santa nel 1920 da papa Benedetto XV.

il manifesto 6.4.07
Esperimenti in corso sul libero arbitrio
In «Mind Time», uscito per Cortina, il neuroscienziato Benjamin Libet individua nel cervello l'autore delle nostre decisioni. Una ipotesi interessante dal punto di vista neurologico, ma assurda perché separa il cervello dall'io cosciente
di Felice Cimatti


È giunto il tempo - sostiene il neuroscienziato Benjamin Libet nel libro appena tradotto dall'editore Raffaello Cortina, Mind time. Il fattore temporale della coscienza (pp. 246, euro 23,80) - di studiare «sperimentalmente» il libero arbitrio, per sottrarlo alle «speculazioni teoriche» dei soliti inconcludenti filosofi e affidarsi, finalmente ai «dati fattuali».
Ora, quali sono questi dati, e che ci dicono, di nuovo, sul libero arbitrio? In realtà, almeno a prima vista, sembrano dati piuttosto avvilenti, per l'immagine che abbiamo di noi come agenti liberi e responsabili. In una serie di esperimenti famosi Libet ha scoperto che esiste un intervallo di diverse centinaia di millisecondi (un tempo lunghissimo, a livello cerebrale) fra l'istante in cui il cervello comincia a prepararsi a una azione, ad esempio sollevare il braccio destro, e il momento in cui abbiamo coscienza della volontà di alzare quel braccio: «il primo processo» scrive Libet, «cui il cervello dà inizio è quello volontario. Il soggetto in seguito diventa consapevole in modo cosciente del bisogno o desiderio di agire, circa 350-400 millisecondi dopo l'insorgenza dei PP (potenziali di prontezza) prodotti dal cervello».
Come interpreta questi dati Libet? Se libero arbitrio significa decisione volontaria del soggetto di compiere una certa azione, allora il libero arbitrio non esiste. Quando infatti ci sembra di decidere coscientemente di compiere una certa azione, in realtà il cervello è già attivo per conto suo (una attivazione di cui non siamo coscienti), prima della nostra decisione cosciente. In un certo senso, ma è tutto qui il problema, è il cervello che decide, e poi, qualche centinaia di millisecondi dopo, diventiamo consapevoli di una decisione che non siamo stati noi a prendere.
In questo senso quella del libero arbitrio sarebbe una illusione. Con il risultato paradossale che il libero arbitrio non ce l'ho io che scrivo queste note, bensì il «mio» (per modo di dire, a questo punto) cervello. In effetti, se è «lui» che decide, e io non posso fare altro che prendere atto delle «sue» decisioni, «lui» è libero, io no. O meglio, Libet ritaglia una nicchia per il soggetto cosciente, che anche se non può dare inizio all'azione, può però «imporre un veto attivo al processo volontario impedendo l'azione o, viceversa, può innescare l'azione permettendole di procedere».
Come dire, l'azione la decide il cervello, ma se io non sono d'accordo la posso almeno fermare. Sembra una buona notizia, in effetti. In realtà, però, questa via di scampo non è tanto sicura, perché quello che Libet ha scoperto per l'azione volontaria può applicarsi anche a questa azione di «veto». Poniamo che, come pensa Libet (o il suo cervello?), sia proprio «io» a bloccare l'esecuzione di un'azione in realtà «decisa» dal mio cervello. D'accordo, ma proprio per quello che Libet ha scoperto, dobbiamo supporre che la coscienza del «veto» sia preceduta da una azione cerebrale di cui sono del tutto inconsapevole, e così non solo l'azione la decide il cervello, ma anche l'eventualità di bloccarla.
Anche quella del «veto», allora, sarebbe un'illusione, e sarebbe sempre lo stesso cervello, indipendentemente dalla mia volontà, che decide di agire e talvolta «cambia idea». A Libet questa storia non piace, perché lo porterebbe a negare quel che voleva studiare, il libero arbitrio, ed allora è costretto a escogitare una di quelle supposizioni che, all'inizio, tanto disdegnava: «non è esclusa la possibilità che i fattori su cui si basa la decisione di porre il veto si sviluppino attraverso processi inconsci che precedono il veto. Tuttavia, la decisione cosciente di mettere il veto potrebbe comunque essere presa senza che i processi inconsci precedenti forniscano una indicazione specifica e diretta per quella decisione». Che cos'è questa se non un'ipotesi del tutto ingiustificata, proprio come quelle dei filosofi? Perché il «veto» dovrebbe essere così speciale rispetto alla decisione di cominciare un'azione?
In realtà tutta l'analisi di Libet, per quanto molto interessante da un punto di vista neurologico, sembra piuttosto confusa. Se infatti la prendiamo alla lettera (questo, di solito, fanno i filosofi), e quindi consideriamo il libero arbitrio una caratteristica del cervello, e non della coscienza, allora - a rigor di logica - dovremmo mandare in prigione, ad esempio, non l'autore dell'omicidio, ma soltanto il suo cervello. Ma questa è una assurdità, perché il cervello - di suo - non fa proprio niente, e tantomeno spara; anche perché che diavolo di entità sarebbe un «io cosciente» separato dal suo cervello?
Il problema è che Libet sembra credere che alla parola «libero arbitrio» debba corrispondere qualcosa nel cervello, così come alla parola «topo» corrisponde il simpatico animaletto. Ma i filosofi questo errore non lo fanno più. Propriamente diciamo che una certa persona è dotata di libero arbitrio se, ad esempio, sa fornirci le ragioni delle sue azioni, se sa distinguere quello che in una certa comunità è lecito fare da quello che viene considerato illecito, se non ha evidenti e gravi problemi mentali, e così via. Ora, come si vede anche da questo breve e incompleto elenco di caratteristiche, il «libero arbitrio» non è una cosa o tantomeno un qualche tipo di processo, bensì è una proprietà di una persona. E una persona è un'entità sociale, sia nel senso che si diventa persone crescendo in una società, sia che i criteri che permettono di stabilire chi è una persona sono, come quelli che abbiamo appena ricordato, anch'essi sociali. Ma allora il «libero arbitrio» non è una proprietà del cervello, perché il cervello non è una persona. Tante volte i filosofi scrivono delle sciocchezze, e accade soprattutto quando provano a fare gli scienziati, ma ci sono delle volte in cui andrebbero ascoltati. Forse questa è una di quelle volte.

il Riformista 6.4.07
Per il Vaticano il malato non conta
di Anna Meldolesi


Fiorenza Bassoli merita i nostri migliori auguri. Dopo Pasqua la senatrice diessina dovrà trovare una sintesi tra le otto proposte di legge sul testamento biologico all'esame della Commissione sanità. Ma per riuscire a fare lo slalom tra i paletti posti dalla Chiesa avrebbe bisogno di un paio di sci miracolosi.
La scorsa settimana i commenti rilasciati a margine del convegno organizzato dalla presidenza del Senato avevano una coloritura ottimistica. Forse sono stati i toni affabili usati dal cardinale Barragan nel suo intervento, forse l'atmosfera interreligiosa che si respirava nel Convento di Santa Maria sopra Minerva. Fatto sta che il wishful thinking ha finito per contagiare i presenti, indorando l'amara pillola offerta da Barragan. Quella pillola però conteneva già in sé il messaggio di chiusura riproposto tre giorni dopo da monsignor Betori: le direttive anticipate otterranno la benedizione della Santa Sede solo se saranno svuotate di gran parte del loro significato.
Barragan ha enumerato sei condizioni che possono suonare ragionevoli solo a chi non conosce i tranelli del dibattito. Per cominciare chiede che il testamento biologico sia unito «alla decisione del medico curante di evitare sempre l'eutanasia e di rinunciare all'accanimento terapeutico». Il primo problema è ciò che la Chiesa intende con la parola eutanasia. Barragan ha spiegato che interrompere la nutrizione artificiale è un atto eutanasico. Betori ha emesso lo stesso giudizio sulla sospensione della ventilazione artificiale. Dunque, in assoluta controtendenza rispetto alle leggi sul testamento biologico approvate nel resto del mondo, in Italia il paziente non dovrebbe pronunciarsi sui trattamenti sostitutivi, quelli messi in atto per rimediare al deterioramento di funzioni complesse come la respirazione e l'alimentazione. E chissà che domani qualcuno non menzioni anche l'emodialisi. A quali terapie potremmo rinunciare, dunque? (...)

Repubblica Napoli 6.4.07
Nuovo libro del critico napoletano sul filosofo tedesco: una raccolta di prefazioni arricchita da uno scritto inedito
Quel moralista di Friedrich
Giametta alle prese con la "dinamite" del pensiero nicciano
Il nichilismo libera l'uomo da vincoli esterni lo riconsegna alla libertà ma non funziona come dottrina positiva
di Marco Lombardi


Apparentemente, "Nietzsche. Il pensiero come dinamite" (Rizzoli, pagg.272, 9,60 euro) di Sossio Giametta è un libro di servizio. Raccoglie le prefazioni per altrettante opere nicciane, che Giametta ha curato negli ultimi anni. Ci muoviamo, sembrerebbe, sul terreno solido della filologia: Giametta editore è una garanzia, signoreggia la lingua come altri il dialetto; il suo nome non sfigura accanto a Colli e Montinari, citando due studiosi italiani novecenteschi padroni indiscussi della materia. Giametta, però, sa che pensare con Nietzsche significa, prima o poi, pensare contro di lui. Nessun timore reverenziale dovrebbe attanagliare chi non voglia imbalsamarlo dentro comode interpretazioni, che lo ripongono nel museo delle idee ricevute.
Nietzsche (1844-1900) ha bombardato il quartier generale della cultura occidentale, annichilendone difese e sicurezze: un attacco morale e concettuale all´etica ebreo-cristiana e alla conoscenza che si spacci per definitiva. Occorre onorarne in modo maschio la lezione, rivelando gli inevitabili punti deboli della sua strategia. Ecco perché la filologia cede il passo alla filosofia: un territorio friabile, per nulla rassicurante, decisamente esaltante. Passaggio di testimone, da Giametta certificato in ventuno mirabili pagine introduttive, dalle quali estraggo un brano che sono sicuro farà rizzare i capelli a molti nicciani, soprattutto di fede progressista: «È destino dei pensatori non dotati per la filosofia sistematica, che però si occupano di filosofia, di cadere nella cattiva sistematicità. Nietzsche era un moralista con sfondo poetico, non era un filosofo sistematico. Tutte le sue enunciazioni hanno carattere morale. Se sono prese come forme di ribellione alla falsità e all´ipocrisia, sono vere; se sono prese come filosofemi, sono sbagliate. (�) Il nichilismo libera l´uomo da vincoli esterni, inautentici, riconsegnandolo a se stesso, alla sua libertà e responsabilità creativa, ma non funziona come dottrina positiva, fondante. (�) Diventa così il cuore della conservazione reazionaria, destinata a precipitare fatalmente (non determinata, ma solo attizzata dal comunismo) nel nazionalsocialismo».
Un revisionismo inconsueto, coraggioso fino alla temerarietà. Spuntare i baffoni di Friedrich significa ridurli alle dimensioni dei baffetti di Adolf (Hitler): un sacrilegio. Passi per il Nietzsche saggista più che teoreta, psicologo-moralista piuttosto che sistematizzatore, fratello di Montaigne e Leopardi invece che sodale di Kant o Hegel. Ma Nietzsche vate del nazismo è decisamente troppo, pure in questi tempi anemici, dissanguati dal politicamente corretto.
I nazisti che incendiano i luoghi già ridotti a ruderi, sui quali si era abbattuta la furia demolitrice dei suoi scritti. Un gigantesco falò, nel quale brucia l´umanesimo, conferendo al nostro paesaggio interiore ed esteriore quel tratto spento e disperato che riassume la contemporaneità. Non lo conoscessi, direi: Giametta rispolvera un vecchio libro di György Lukács, "La distruzione della ragione". La bibbia di cinquant´anni fa per una sinistra ringhiosamente marxista che considerava Nietzsche l´irrazionalista per eccellenza, il profeta dei campi di sterminio.
In realtà, il napoletano Giametta guarda a Croce come antidoto. Croce che nel caos primordiale della natura, nella lotta incessante degli istinti dove sguazza Nietzsche, intravede la forza pervasiva dello spirito. Il motore del senso; ciò che interrompe, attraverso l´ordine della storia, il ciclo eterno di distruzione e morte nel quale altrimenti precipita l´universo nicciano. Croce controveleno per il nichilismo, altro esempio dell´acuto revisionismo di Giametta, che guarda i testi altrui con perizia filologica e sfrontatezza filosofica. Al servizio della speranza.