mercoledì 11 aprile 2007

il Riformista 11.4.07
SAGGIO. IL DIARIO DELLA DONNA EBREA
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
DI ANNELORE HOMBERG E CECILIA IANNACO


Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana

L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato

Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.
il Sole - 24 Ore Domenica 8.4.07
Avventuriera della mente
Di Luigi Sampietro


Nome: Ayn. Cognome: Rand. Luogo e data di nascita: San Pietroburgo 1905. Segni particolari: poco conosciuta in Italia. Questa in sé non sarebbe una notizia se Ayn Rand, pseudonimo di Alissa Zinovievna Rosenbaum, figlia di genitori ebrei non osservanti ed emigrata negli Stati Uniti nel 1926, non avesse pubblicato nel 1937 un romanzo, Atlas Shrugged, che ha lasciato il segno nella società americana. Al punto che, nel 1999, le Poste federali le hanno dedicato un francobollo.
Incluso a suo tempo nella lista dei 175 “Libri del secolo”, compilata dalla New York Public Library (accanto ad Ulysse di J. Joyce, The Invisibile Man di Ralph Eleison, Mein Kampf e The joy of cooking), in un sondaggio condotto dalla Library of Congress congiuntamente a The Book of the Month Club, rispondendo alla domanda “qual è il libro che nella vostra vita ha fatto la differenza?”, il pubblico interpellato ha collocato Atlas Shrugged al secondo posto, dopo la Bibbia.
Atlas Shrugged si compone di più di 1000 pagine complessive (14 anni di lavoro) e in Italia uscì da Garzanti nel 1958 come La rivolta di Atlante, nella bella traduzione di Laura Grimaldi di cui Corbaccio ha appena ristampato – refusi d’epoca compresi – il primo volume che si intitola Il tema. Seguiranno L’uomo che apparteneva alla terra (in maggio) e L’Atlantide (in novembre).
Considerando il mezzo milione di copie che, come scrivono, “The New York Times” e “The Washington Post”, Ayn Rand ancora vende ogni anno e gli oltre 25 milioni di copie complessive che ha venduto finora (a La rivolta di Atlante, tradotto in 18 lungue, bisogna aggiungere un altro best seller, La fonte meravigliosa, 1943, liberamente ispirato alla vita di Frank Lloyd Wright, da cui, nel 1949, fu tratto un film diretto da King Vidor e interpretato da Gary Cooper e Patricia Neal) si potrebbe pensare ad un fenomeno commerciale.
E di questo si tratta. Ma c’è dell’altro. I libri di Ayn Rand non sono romanzi di avventura – un tanto al chilo – ma semmai sono avventure della mente. Romanzi filosofici. Coinvolgenti e alla portata di tutti, scivolano via come le grandi storie del suo “maestro” Victor Hugo e, per un altro verso, come le piccole storie dell’amato Mickey Spillane con i suoi personaggi in bianco e nero. Vi si parla di etica e di giustizia, dell’origine del male e delle limitazioni della libertà, della dignità dell’uomo e del significato delle parole “indipendenza”, “integrità”, “onestà” e “responsabilità”. Il che vuol dire tutto ciò di cui parliamo anche noi tutti i giorni, magari indirettamente – in casa., in ufficio, in autobus - attraverso i nostri commenti e pettegolezzi. Con la differenza che i personaggi di Ayn Rand – inventori, imprenditori e artisti in lotta contro burocrati e faccendieri corrotti – interpretano se stessi fino in fondo. Titanicamente. Ed è questo un modo di affrontare il mondo che ha sempre affascinato i lettori in quell’età – l’adolescenza – definita a suo tempo da Jean Piaget come “l’età degli universali”. L’età dei grandi progetti.
Morta nel 1982, Ayn Rand diede luogo, con i suoi libri, ad un movimento filosofico chiamato “oggettivismo”. Il periodo del suo maggior successo fu la prima metà degli anni Sessanta, soprattutto tra gli studenti di college. Tra questi anche Hillary Clinton che, in una recente intervista, ha dichiarato: “Naturalmente c’è stato un momento in cui Ayn Rand è stata tra le mie letture”. Nei decenni successivi, l’interesse per il suo pensiero e i sui libri ha raggiunto un pubblico più generico, se non più vasto. Generalmente, anche se non necessariamente, schierato a destra e propenso a far proprio il suo primo comandamento: “Cominciamo con l’abolire tutte le tasse. Il resto verrà da sé”. Ma la destra di Ayn Rand, se tale è, va circoscritta all’ambito morale. A meno di non volere spregiudicatamente (come qualcuno fa) collocare dalla stessa parte, per via delle loro propensioni sociali, comunismo e nazismo allo stesso modo. (le Repubbliche socialiste sovietiche, il partito nazional-socialista, la Repubblica sociale) in quanto contrapposti alle convinzioni liberiste della Rand e alla sua invincibile avversione nei confronti di tutto ciò che comporta la subordinazione dell’individuo alla collettività (partito, nazione, Stato, Chiese).
Quel che Ayn Rand sviluppa in forma polemica – e, bisogna dirlo, con foga melodrammatica – nei suoi romanzi, è la dottrina, tipicamente americana, del diritto dell’individuo alla propria personale felicità. La sua filosofia è una sorta di religione secolare, estranea ad ogni trascendenza, e fondamentalismo, che si fonda sull’idea dell’”egoismo razionale”. Una virtù, secondo Ayn Rand, bollata come vizio nella tradizione giudaico-cristiana, e poi dai marxisti e tutti gli statalisti che hanno sempre predicato l’altruismo e il sacrificio di sé.
Ayn Rand collocava invece lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità dell’individuo al punto più alto della scala morale, e li indicava come l’unica via verso una società prospera. Come tuttora affermano i suoi seguaci, solo se libero di sprigionare la propria energia e solo se capace di divincolarsi da tutte le forme dirette e indirette di controllo della collettività, l’uomo può attingere alle più alte vette della creazione. L’arte di Michelangelo o il prodigio tecnologico – di cui tutti beneficiano – di una Microsoft.
Detestata dall’intellighenzia che era comunque sempre mesmerizzata dalla sua energia, (“Sono attratto da quella donna orribile”, scriveva Edmund Wilson) e definita a sproposito “fascista” da qualche denigratore accaldato, Ayn Rand fu una proterva fautrice dell’”utopia capitalista” (ché tale la si deve definire nei suoi romanzi).
Ora la domanda è questa. Com’è possibile che da noi sia tuttora semi-sconosciuta? Può avere perfettamente ragione chi sostiene che non c’è di che e che non abbiamo perso niente. Ma ha completamente torto chi, se le cose stanno come penso, ha teso un cordone sanitario attorno alla sua figura e non ne ha mai parlato. A sinistra, in Italia, è passato di tutto, dai guanti neri delle Pantere nere ai proclami del Comandante fotogenico. Ma nessuno ha mai trovato il tempo per illustrare il fenomeno Rand. Gli Arcadi dell’accademia e dei media hanno sempre ritenuto di dover militare contro il Sistema concentrando la propria attenzione sulle minoranze Usa e ripetendo quello che i colleghi sacrosantamente dicevano nelle università d’Oltreoceano. E si sono sempre dimenticati (?) di spiegare, a noi che non siamo dentro, ciò con cui si identificava e si identifica la maggioranza silenziosa che sta tra i poveri e gli stramiliardari. L’immaginario dello sterminato ceto medio che di fatto è sempre vissuto e ancora vive cercando di mettere in atto – magari senza nemmeno dirlo - il credo esaltato di Ayn Rand.

l’Unità 11.4.07
Prodi convince. Ma Mussi non cambia idea
La lettera del premier all’Unità fa rientrare i dubbi degli ulivisti Dl. Resta la contrarietà della sinistra Ds


(...) Qualcuno però sembra già perso: Fabio Mussi e il premier hanno avuto un colloquio nei giorni scorsi, ma né la chiacchierata né l’intervento di ieri hanno convinto il leader della sinistra Ds a partecipare alla fase costituente del nuovo soggetto. Il ministro dell’Università riunirà i suoi il 16 per decidere la linea da tenere al congresso, che sarà poi ratificata in un incontro con tutti i delegati della minoranza il 18 sera a Firenze. L’ipotesi più accreditata, per ora, è comunque che prenderà la parola soltanto Mussi al Pala Mandela e che gli esponenti della sinistra diessina non parteciperanno alle commissioni di lavoro né accetteranno di entrare a far parte degli organismi dirigenti eletti dal congresso.
(...)

l'Unità 11.4.07
Abusi in parrocchia, quel vertice «segreto» in Vaticano
Firenze, lo scandalo della «Regina della Pace»: si muove la procura, indagato il sacerdote
Dalla Santa Sede «no comment», ma il 2 aprile riunione ad hoc con Ratzinger e l’arcivescovo Antonelli
di Osvaldo Sabato


SI MUOVE la procura e il parroco fiorentino don Lelio Cantini finisce sotto inchiesta. L’ipotesi di reato su cui è indagato il prelato è di abusi sessuali pluriaggravati e continuati su minori. Contro l’ex sacerdote della parrocchia «Regina della Pace» nei giorni scorsi c’erano state delle denuncie di alcuni suoi ex fedeli per una serie di violenze sessuali, psicologiche e di plagio su intere famiglie, che hanno scosso l’ambiente religioso, e non solo. Mentre di don Lelio Cantini si sono perse le tracce dopo la sua fuga precipitosa da Viareggio, per la Curia fiorentina, chiusa nel silenzio assoluto dell’arcivescovo Ennio Antonelli e del suo ausiliario Claudio Maniago, sono giorni difficili. Specie per Maniago visto che fu proprio don Cantini che ha seguito e curato da vicino la vocazione dell’attuale vescovo ausiliario. Quest’ultimo non ha mai nascosto la sua vicinanza spirituale con don Cantini tanto da spingerlo a celebrare con il prete indagato per abusi sessuali il secondo anniversario della sua nomina a vescovo, avvenuta l’8 settembre del 2003. In quel periodo don Cantini era già un prete chiacchierato, ma il vescovo Maniago non ha ritenuto sufficiente questo particolare per indurlo a pretendere le distanze. Per qualcuno si fa strada l’impressione che l’ex parroco possa aver goduto di coperture molto in alto che hanno permesso di tenere sommersi questi fatti sempre più inquietanti. Dubbi e domande sui tanti perché di questa brutta storia, ancora senza una risposta. Anche le autorità vaticane che si trincerano dietro un ferreo «no comment», in realtà sapevano, ma hanno fatto finta di non sapere.
Infatti da ambienti religiosi si è saputo che durante un incontro privato il 2 aprile scorso a Roma, fra Papa Ratzinger e il cardinale Antonelli con il suo ausiliario Maniago, uno degli argomenti trattati sia stato proprio questo. Ed è molto probabile che Antonelli torni a parlare di questa vicenda con il Papa la settimana prossima, quando si recherà in Vaticano in visita «ad limina». Ma basterebbero le testimonianze, gli esposti e i memoriali presentati alla Curia di Firenze già a partire dal gennaio del 2004 e al Papa, per avere un quadro chiaro. Infatti, secondo questi racconti, don Lelio Cantini, dal 1975 e per anni, avrebbe abusato di ragazze dai 12 ai 17 anni e si sarebbe fatto consegnare denaro e altri beni e avrebbe plagiato ragazzi da indirizzare poi al seminario con l’intenzione di creare un vero e proprio potere rispetto a quello ufficiale. Insomma, si tratta di episodi molto gravi e con risvolti penali tanto da spingere la procura ad aprire un fascicolo. Per ora, come ha spiegato il procuratore capo, Ubaldo Nannuci, «nessuna delle presunte vittime si è rivolta all’autorità giudiziaria» e che l’inchiesta dovrà verificare «se è vero ciò che ha riportato la stampa sull’argomento» e l’epoca dei fatti «anche perché l’unico dato, per adesso, è la rimozione del sacerdote dalla parrocchia, avvenuta nel 2005». In realtà don Lelio Cantini è stato prima allontanato per motivi di salute dalla parrocchia «Regina della Pace» e poi dalla diocesi al termine del «processo penale e amministrativo», culminato con la decisione della Congregazione della Fede di vietare all’ex parroco la celebrazione della messa in pubblico e la confessione fino al 2010.

Abusi in canonica già dal 1975
Giovani, giovanissime: ragazze dai 12 ai 17 anni. Sarebbero loro le vittime delle «attenzioni» di don Lelio Cantini. È il quadro aberrante che emerge dalle loro denunce, dopo anni di silenzio. Ma non solo violenze sessuali: il parroco si sarebbe fatto consegnare denaro e altri beni e avrebbe plagiato ragazzi da indirizzare poi al seminario con l’intenzione di creare un vero e proprio «potere» rispetto a quello ufficiale. Il tutto sotto l’occhio delle gerarchie, che sapevano ma non hanno ritenuto di fare altro che un «rimprovero», come spiegato ieri su l’Unità dall’ex arcivescovo Piovanelli. Un gruppo di fedeli si era rivolto al Papa denunciando i casi di abuso nel marzo 2006, nell’ottobre dello stesso anno si erano fatti sentire sempre presso la Santa Sede anche alcuni sacerdoti della diocesi.

Repubblica 11.4.07
Quei comunisti spariti nei gulag una tragedia nascosta dal silenzio
di Simonetta Fiori


Prima la tragedia, poi un tenace silenzio imbarazzato. Quello tra la sinistra italiana e i gulag è stato un rapporto difficile e controverso, lungamente segnato dalla guerra fredda. Se tra gli anni Sessanta e Settanta una memorialistica d´autore riuscì a rompere il velo di reticenze - Una giornata di Ivan Denisovic, il romanzo choc di Solgenitsyn, uscì da Einaudi nel 1963, Arcipelago Gulag nel 1974 da Mondadori - è nel decennio successivo che la storiografia è divenuta più consapevole, fino alle ricostruzioni complete messe a punto negli anni Novanta dalla Fondazione Feltrinelli, grazie anche all´apertura degli archivi sovietici.
L´inclinazione prevalente, tra i militanti del Pci, è stata per diversi decenni quella di voltare la testa da un´altra parte. Confessò una volta Eric J. Hobsbawm: «Ho preferito rivolgere altrove la mia lente di storico per non dover scrivere dei gulag». Una delle prime e più clamorose testimonianze italiane fu quella di Dante Corneli, un operaio comunista di Tivoli finito nel lager di Stalin. Il suo Il redivivo tiburtino uscì nel 1977. A incoraggiarlo era stato Umberto Terracini, con l´argomento che occorreva far conoscere «quel mondo di orrori anche alla gente nostra, a cui la realtà sovietica è stata troppo a lungo nascosta». Nel 1964 la denuncia dell´ex comunista Guelfo Zaccaria - Duecento comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo - non aveva avuto largo seguito.
Anche la sinistra non comunista - negli anni più bui della guerra fredda - aveva scelto quella che Valiani chiamava "astensione silenziosa". Ha raccontato Andrea Graziosi che quando Franco Venturi tornò disgustato nel 1950 da Mosca, dove per tre anni era stato addetto culturale presso l´ambasciata, i suoi amici azionisti lo invitarono a un sorta di prudenza. «Si avvertiva come imminente il pericolo di una reazione clerico-fascista. Sparare contro l´Urss avrebbe significato indebolire la sinistra italiana». Meglio parlar d´altro, almeno fino al Cinquantasei.
Non erano state poche le vittime italiane della repressione politica in Urss, tra 1919 e il 1951. Quasi un migliaio di persone, dicono le ricerche di Elena Dundovich e Francesca Gori: trecentocinque arrestati, cento condannati a morte e fucilati, centoquarantuno destinati ai campi di lavoro correzionale, gli altri privati dei diritti civili, emarginati, allontanati dai posti di lavoro. Un numero che potrebbe apparire esiguo rispetto ai milioni di vittime sovietiche, ma che getta luce sui rapporti tra Mosca e il Partito comunista italiano. Specie dopo l´assassinio di Kirov, il 1 dicembre del 1934, un clima di sospetto crescente avvolse la comunità italiana. Sempre più capillare il controllo dell´Nkvd - la polizia politica sovietica - sull´emigrazione straniera di ogni nazionalità. Come un ossessivo ritornello risuonavano le accuse. Trotzkismo o - nella variante italiana - bordighismo. Terrorismo. Spionaggio. Un aiuto fondamentale alle "indagini" proveniva dai funzionari che lavoravano nella "sezione quadri" della Terza Internazionale. Furono gli stessi leader comunisti a consegnare i loro compagni al dittatore georgiano. A queste gravissime responsabilità non si sottrassero i dirigenti italiani Palmiro Togliatti e Antonio Roasio, Domenico Ciufoli e Paolo Robotti: alti e medi funzionari del Pci pronti a passare informazioni all´Nkvd. Tra i perseguitati non solo emigrati politici, ma anche ballerini e circensi, decoratori e musicisti, operai e contadini: tutti inermi davanti ai plotoni d´esecuzione ordinati da Stalin.
L´incubo non sarebbe finito con la guerra. Negli anni Quaranta, chi desiderava tornare a casa doveva sottoporsi al giudizio dei dirigenti del Pci. Occorreva garantire che, una volta in Italia, non si sarebbe sporcata l´immagine dell´Urss. Spettò a Paolo Robotti, cognato di Togliatti e implacabile stalinista, misurare la "condizione morale" dei richiedenti. Molti furono "i casi dubbi", meglio trattenerli a Mosca. Gli altri costretti a tacere, ancora per molto tempo.

Repubblica 11.4.07
Bertinotti all'Ulivo "A monte, ricominciamo"
di Alessandra Longo


ROMA - Chi potrebbe essere il capo di un nuovo rinascimento a sinistra? «Io!». Fausto Bertinotti ride con la leggerezza di chi, fuori dalla mischia per incarico istituzionale, può permettersi la battuta senza rischiare di provocare l´ennesimo, noiosissimo, polverone quotidiano. Siamo a Roma, nella sede della Stampa Estera, dove il presidente della Camera presenta il suo ultimo libro «La città degli uomini», frutto della collaborazione con Sergio Valzania. Sala piccola e affollata, Marco Pannella in piedi, Paolo Mieli, direttore del Corriere, nelle vesti di provocatore. Allora, presidente, facciamo finta che lei debba dare dei consigli a chi sta lavorando al Partito Democratico.
Bertinotti non si fa pregare. Ma sì, visto che è fuori dalla politica, può girarci intorno, raccontando, per esempio, di «quell´urlo che facevamo da bambini». Si iniziava un gioco, il gioco magari sfuggiva di mano e, allora, bastava gridare forte: «A munt!», «A monte!», e tutto veniva magicamente azzerato, «si ricominciava daccapo». Dice il già lider maximo di Rifondazione: «Se potessi proporre un incantesimo, sarebbe questo». Cancellare quel che non va con un grido si può solo nell´infanzia e, visto che il Partito Democratico lo fanno i grandi, Bertinotti è prodigo di consigli adulti. Niente azzeramenti, niente rinunce, ma una ripartenza all´insegna del progetto: «Tutte le fondazioni forti hanno bisogno di formare una cultura politica e questa si costruisce in due modi. O attraverso un lungo processo, o grazie ad un colpo d´ingegno come quello che portò Mitterrand a rifondare il partito socialista a Epinay».
Un progetto, dunque, per prima cosa, un partito che «nasce non per inerzia, perché non c´è altro da fare, ma per volontà, disegno, soprassalto di energia». E ancora non basta, dice Bertinotti. Ci vuole la «capacità di calamitare, di includere. Se io fossi un dirigente del Partito Democratico mi proporrei di portare dentro anche la sinistra radicale. Così come se io fossi la sinistra radicale proverei ad inglobare quella moderata». Viene in mente il vecchio slogan prodiano, «Competition is competition».
Il Grande Capo di Rifondazione, ora terza carica dello Stato, non dà per scontato nulla: «Vince chi accumula culture politiche, chi dà conto di una nuova identità. Per i prossimi dieci anni le sinistre saranno due, quella radicale e quella riformista. Non c´è una soluzione monopartitica, ci sarà competitività e una ricerca di convergenza». Già, ma il leader? Mitterrand era Mitterrand, ricorda Mieli. Giura Bertinotti: «Nei Ds e nella Margherita molti possono affrontare questo percorso. Certo, per essere leader, bisogna buttare il cuore oltre l´ostacolo, rischiare». Lui, il presidente della Camera, a suo tempo ha impresso ai suoi accelerazioni e svolte importanti. Quella della non violenza, dice ridendo, «l´ho rubata a Pannella». Mieli rintraccia un altro colpo di reni nelle pieghe dell´ultimo libro. A pagina 87, Bertinotti parla di Medio Oriente. Si fa «violenza culturale su una civiltà» - scrive - non solo quando si continua ad occupare «regioni sensibili del mondo islamico», ma anche quando si nega la Shoah o quando ci si «rifiuta di riconoscere la realtà storica dello Stato di Israele».

Repubblica 11.4.07
In Inghilterra vivono così un milione di adolescenti. Ma il fenomeno interessa anche Giappone e Usa, e da poco il resto d'Europa
"Neets", la generazione degli autoesclusi
di Cinzia Sasso


A "scoprirli" uno studio della London School of Economics sui costi sociali di un fenomeno in ascesa: 6-7 miliardi di euro all´anno
L´acronimo inglese letteralmente indica ragazzi "non impegnati nel mondo dell´educazione, del lavoro e dell´apprendistato"

LONDRA - A scoprirli e battezzarli, sperduti per le strade di Londra, mescolati agli altri adolescenti nelle vie delle città dell´Inghilterra, vestiti come tutti con i pantaloni bassi, le felpe e i berrettini da baseball e incollati agli iPod, non è stata questa volta una ricerca sociologica: a individuare i "Neets" come l´ultima tribù da tenere sotto osservazione, è stato uno studio della London School of Economics intitolato "The Cost of Esclusion". Sono i risvolti economici di quella che viene definita «una generazione tradita», il miliardo di sterline l´anno che costano i loro comportamenti, i 6-7 miliardi di euro che la loro marginalità costa alla collettività, le ragioni che hanno portano stavolta ad accendere un faro su di loro. Sui ragazzi che non vanno a scuola, che non hanno un lavoro, che quel lavoro nemmeno vogliono imparare o cercare.
"Neets" significa giovani "non in education, employment or training". Significa insomma i marginali, gli esclusi, quelli senza arte né parte, quelli che le scelte di oggi porteranno ad essere anche gli emarginati di domani. Significa, in altre parole, ragazzi senza futuro.
Sono una tribù numerosa, fatta di almeno un milione di giovani. Ragazzi o poco più, la loro età è compresa tra i 16 e i 24 anni, perché oggi l´adolescenza si trascina e fino a quell´età. Sarebbe ancora possibile essere studenti, oppure cominciare a fare pratica in qualche mestiere, trovare insomma una propria strada. Ma i "Neets", una loro strada non la vogliono e non la cercano. Sono disinteressati a tutto, se non proprio cinici comunque indifferenti. Abbandonano gli studi e poi non fanno niente. Nel momento in cui si registra in Inghilterra uno dei tassi di disoccupazione più bassi, intorno al 9%, loro lo sono per almeno il doppio. Nullafacenti oggi, destinati ad essere disoccupati domani.
Un fenomeno che esiste anche in altri paesi del mondo: in Giappone, ad esempio; e anche in Europa. Ma gli esperti britannici proprio per questo si dicono ancora più preoccupati: i "Neets" inglesi sono almeno il doppio di quanti siano i loro compagni tedeschi e francesi. Come se questa malattia di vivere avesse attecchito più qui che altrove. E così il presente incerto si trasforma in una seria ipoteca sul futuro: lo studio eseguito dalla London School of Economics per l´associazione Prince´s Trust, fondata dal principe Carlo proprio per aiutare i giovani a completare l´istruzione e a trovare una strada nel mondo del lavoro, prevede che le conseguenze saranno anche peggiori. Tagliati fuori dal mondo, alla ricerca di un qualche modo per campare, questi giovani facilmente finiranno nella piccola criminalità. Martina Milburn, capo del progetto voluto dal principe di Galles, dice: «Questo problema ha dei costi sociali ed economici altissimi. E le nostre previsioni sono sicuramente più ottimiste di quel che sarà la realtà». L´esclusione sociale costa tra i 6 e i 7 miliardi di euro l´anno, e con quella cifra sarebbe possibile ridurre di un punto le tasse; l´aumento della criminalità minorile significa per lo Stato un esborso di 1 miliardo di sterline l´anno; e poi gli economisti conteggiano le perdite per l´educazione mancata e la futura assistenza di una classe sociale di disoccupati. Il Governo ha già aiutato 700mila giovani tra i 18 e i 24 anni, ma ha scoperto che è molto difficile tradurre il sostegno momentaneo in qualcosa di definitivo. Forse, a occuparsi dei "Neets" dovranno essere anche i sociologi: fare i conti non basta; per aiutare la generazione tradita bisogna capire perché si è perduta.

Repubblica 11.4.07
Maria Rita Parsi, psicologa: "Un fenomeno in crescita che va oltre la tradizionale dispersione scolastica"
"Depressi e soli, ora anche in Italia"


ROMA - Il fenomeno "Neets" anche in Italia?
«Sì, negli ultimi due anni stiamo assistendo allo stesso fenomeno. Sono ragazzi che non vogliono andare più a scuola, ma non è la tradizionale dispersione scolastica, si chiudono in se stessi, più che in casa stanno nella loro stanza, non vivono in branco, non cercano il rapporto con gli altri».
Perché accade?
«Sono ragazzi, spesso tra i 12 e i 17 anni, segnati da profonda solitudine e da una depressione. In genere hanno problemi familiari, vivono con genitori che hanno tra loro un´alta conflittualità o sono figli di coppie separate ma il genitore con cui abitano è spesso afflitto a sua volta da problemi, affettivi o economici, e sono loro che devono contenerne il disagio».
Il loro comportamento è dunque una reazione ai problemi degli adulti?
«Sì, si devono annullare, svuotare la mente, e si lasciano andare magari in compagnia di qualche amico come loro, con gli stessi problemi».
Come si può affrontare questa deriva?
«Non con i soliti strumenti. Il problema è che mancano punti di riferimento e i ragazzi sono in contatto costante con modelli di superficialità. Intorno a loro la famiglia si scioglie ma non è questo il problema ma il modo in cui avviene: è tutto molto adultocentrico. Sono ragazzi a cui nessuno dice nulla e devono rovistare tra i rifiuti che gli adulti lasciano per trovare una loro identità. Allora dicono: basta, io mi fermo».
(m.c.)

Repubblica 11.4.07
Il "Simposio" di Platone
Tra ragione e follia
Qual è il senso dell'amore in un grande classico
di Umberto Galimberti


Pubblichiamo parte di un intervento che terrà alle 21 di stasera a Roma, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina (il ciclo d´incontri sul "classico di una vita" è organizzato da Progetto Italia Telecom).

Il Simposio di Platone è, tra i dialoghi del filosofo di Atene, il più vertiginoso perché mette in tensione l´ordine della ragione, che Platone ha inaugurato per l´intero Occidente, con l´abisso della follia che Platone definisce: «Più bella della saggezza d´origine umana». Mediatore tra l´uno e l´altro mondo è Amore il cui compito è di tradurre e interpretare i messaggi della follia inaccessibili alla ragione e le parole della ragione incomprensibili alla follia.
Folle è il mondo degli dèi che, concedendosi a tutte le metamorfosi, non si attengono al principio di identità e di non contraddizione che sono i cardini della ragione. Del resto già Eraclito aveva detto che: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma», mentre «l´uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l´altra», in una parola non mescola, come invece fa il dio, tutte le cose, ma istituisce quelle identità e differenze che, tra loro disgiunte e connesse, istituiscono l´ordine della ragione che è prerogativa dell´uomo e non del dio.
Accade però che nel Simposio Platone non considera l´anima razionale da lui inaugurata nella sola prospettiva dell´ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l´ha evocata perché conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui si è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il katharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica. Per questo, nell´edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l´abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, e perciò dice: «I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino».
Per Platone infatti anche la follia è un´esperienza dell´anima, nella consapevolezza che le esperienze dell´anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l´anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi. Intermediario tra il mondo della ragione e il mondo della follia è Amore, per accedere al quale bisogna soffrire quella malattia che Socrate chiama «a-topia» e che noi potremmo tradurre con «dis-locazione». Per accedere agli abissi della follia che ci abita occorre infatti dislocarsi dal recinto protetto dalla ragione, abbandonare le dimore dell´io e, per non perdersi nella follia, occorre che ad accompagnarci sia l´amato, che noi amiamo proprio perché egli ha colto e in qualche modo riflesso la nostra follia. Amore, infatti, è sì un evento duale, ma non tra me e te, ma, grazie a te, tra il mio ordine razionale e l´abisso della mia follia.

Repubblica 11.4.07
La scomparsa dello storico Antonio Rotondò
Frugando tra le carte degli eretici
Grande conoscitore della critica dei dogmi religiosi tra Rinascimento Riforma e Illuminismo
di Adriano Prosperi


E´ scomparso nei giorni scorsi all´età di 77 anni Antonio Rotondò. Per chi lo ha conosciuto e stimato è difficile parlarne al passato: proprio di recente avevo letto in un bollettino editoriale del suo editore l´annuncio della prossima pubblicazione non solo delle opere che alimentavano regolarmente la collana da lui diretta ma anche di nuovi volumi di studi suoi.
Li aspettavo non solo con la certezza che ne avremmo imparato molto su libri, uomini e idee del passato ma anche col senso di sollievo per il ritorno di una misura severa e alta di indagine storica degna dei grandi maestri a cui Rotondò amava richiamarsi. Si era formato a Firenze, alla scuola di Delio Cantimori e di altri celebrati maestri di quella Facoltà di Lettere e Filosofia che all´inizio della seconda metà del secolo scorso dominava per l´alta qualità della sua offerta il panorama degli studi universitari italiani: in seguito, dopo un periodo di insegnamento liceale a Modena fecondo di studi e di amicizie, con l´avvio torinese del suo insegnamento aveva trovato in Franco Venturi e in Luigi Firpo i modelli intellettuali a cui rifarsi. Credeva nella trasmissione di valori intellettuali e di civile moralità attraverso l´insegnamento dalla cattedra: e lo stile con cui lo praticava e lo illustrava gli assicurava l´affetto e la stima degli allievi almeno in misura uguale a quella delle facili ironie di colleghi.
Antonio Rotondò era un grande conoscitore dei percorsi e dei protagonisti della cultura italiana ed europea della prima età moderna, specialmente delle vicende intellettuali di umanisti, di riformatori e di eretici e del modo in cui si erano passati la fiaccola della critica razionale dei dogmi religiosi tra Rinascimento, Riforma e Illuminismo. Era anche un attento studioso di vicende intellettuali del nostro tempo, come mostra l´ampio saggio che aveva di recente dedicato alla figura e all´opera di Sebastiano Timpanaro. Ci sarà tempo per parlarne perché l´opera sua lascia un segno che non si cancellerà facilmente: sappiamo bene che questo è uno di quei giudizi che si spendono di frequente al momento della scomparsa di professori e studiosi ma che poi raramente si realizzano. Ebbene nel caso di Rotondò si potrebbe dire che è la stessa inattualità della sua opera nel contesto attuale della storiografia italiana a far pensare che vi si dovrà tornare sopra se e quando verranno tempi migliori. Inattuale, ad esempio, almeno per un costume o malcostume oggi corrente, era la sua dedizione all´edizione filologicamente accurata delle fonti: ci si chiede in quante monografie, saggi e noterelle si potrebbero spicciolare i tesori di conoscenze e gli anni di ricerca concentrati negli apparati delle edizioni di testi curate in anni ormai lontani da Rotondò per due capiscuola dell´eresia radicale del ‘500 italiano, Camillo Renato e Lelio Sozzini. Da quella severa scuola di studi su eretici e riformatori italiani del ‘500, scelta per influsso del suo primo maestro - Delio Cantimori - Rotondò era passato a indagare i percorsi dell´idea di tolleranza lungo la pista che dai sociniani portava all´Olanda del `600. La sua dedizione alla ricerca storica condotta in proprio e a quella che sotto la sua guida veniva portata avanti dai suoi allievi avevano fatto di lui una presenza di rilievo in Italia e un convinto protagonista degli studi sulla storia intellettuale italiana ed europea della prima età moderna. Un tratto personale di pedagogica severità unito a una straordinaria competenza specifica nelle aree a cui dedicava le sue ricerche, lo rendevano un esempio raro di maestro da cui si poteva imparare l´artigianato della ricerca storica nel senso migliore della parola: il taglio classicamente sobrio e controllato e il robusto apparato erudito di saggi e libri, non solo dei suoi ma anche di quelli di suoi allievi e collaboratori filtrati al vaglio della sua incontentabile passione di lettore, era il segno di riconoscimento della scuola e la garanzia di indagini solitamente ineccepibili. L´augurio che si deve fare oggi all´università italiana è quello di avere altri uomini del suo stampo.

Repubblica 11.4.07
Settant'anni fa venivano uccisi in Francia i due fratelli antifascisti da tempo sotto stretta sorveglianza
I pericolosi Rosselli
"Anatomia di un omicidio politico": un nuovo saggio di Mimmo Franzinelli
di Lucio Villari


L´anno 1937 si apriva sullo scenario europeo di una guerra civile che, a cinque mesi dal suo inizio, di giorno in giorno appariva come il dissidio tra due civiltà: la guerra di Spagna. In molti, tra gli esuli antifascisti italiani, avevano fatto la loro scelta di campo, e «tutto nell´animo e nella volontà di Carlo Rosselli lo disponeva all´intervento in questa guerra». Così Aldo Garosci nel 1967, a trenta anni dell´assassinio di Rosselli, rievocava l´ultimo impegno politico del fondatore di «Giustizia e Libertà», il movimento che fu un alto e democratico rifiuto del regime, dell´ideologia, della violenza del fascismo e rappresentò la negazione, implacabile e anche irridente, della figura di Mussolini. La Spagna democratica e repubblicana, dunque, aggredita dalla «controrivoluzione». La «Spagna feudale e borghese» in lotta contro la «Spagna moderna e proletaria» (erano questi i termini, secondo Rosselli, dello scontro in atto in quel paese) era, in controluce, l´Italia del fascismo contro l´Italia della libertà. Carlo Rosselli pagherà con la vita questa simmetria e la scelta di combattere in Spagna in attesa di farlo in Italia («La rivoluzione spagnola è la nostra rivoluzione; la guerra civile del proletariato di Spagna è guerra di tutto l´antifascismo», aveva scritto il 31 luglio 1936, nei primi giorni del golpe di Franco). Pagherà per l´intransigenza antifascista allo stesso modo di Antonio Gramsci, consumato da nove anni di carcere. Furono i due ultimi rappresentanti, nel tempo dell´Italia imperiale e del diffuso consenso al duce, di una opposizione particolare, della élite di una Italia ideale che il fascismo non poteva tollerare oltre perché si trattava di avversari veri, non di semplici, anonimi nemici. Appartenevano infatti alla schiera sottile dei conoscitori del fascismo «reale», di coloro che avevano capito le ragioni storiche del suo potere e della sua menzogna politica.
Altri tre uomini avevano, come loro, combattuto il fascismo agli esordi con la forza delle idee e con gli strumenti della legalità costituzionale, dei diritti dei cittadini e di una cultura europea: Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti. Erano finiti sotto i colpi del nemico. L´Italia risorgimentale, l´Italia del socialismo democratico, l´Italia liberale che risorge nel proletariato moderno: questo avevano significato, in una dimensione strettamente politica, i loro nomi, e questo si mutava ora, un decennio dopo, nel pensiero e nell´azione di Carlo Rosselli come nelle parole scritte nei Quaderni del carcere di Gramsci. La partecipazione personale di Rosselli alla difesa della Spagna repubblicana voleva essere il segnale di un fronte nuovo nella guerra che la democrazia internazionale si apprestava a combattere contro il fascismo internazionale: «I profeti non sono più disarmati - aveva scritto Carlo il l5 gennaio 1937 dal fronte spagnolo sul giornale Giustizia e Libertà -. E i discendenti dei profeti, col fucile in mano, hanno acquistato una coscienza nuova».
Probabilmente a Carlo Rosselli importava poco sapere che i servizi di sicurezza italiani, Mussolini, Galeazzo Ciano (dal 1936 ministro degli esteri), l´Ovra e le spie infiltrate tra gli esuli antifascisti, seguivano non soltanto i suoi comportamenti e i movimenti «col fucile in mano», ma anche, e con molta preoccupazione, le idee, gli articoli, gli scritti di economia e di analisi politica e l´impianto teorico del suo «socialismo liberale»: la «terza via» tra socialdemocrazia e comunismo che egli stava elaborando da tempo. Nel 1930 era apparso a Parigi il suo libro Socialismo liberale dal quale era facile capire la serietà e le finalità di un preciso percorso ideologico e politico. I due termini scompaginavano infatti il tradizionale quadro politico dell´antifascismo perché mettevano in moto e in campo, insieme alla critica del sistema capitalistico, forze inedite e avversari potenziali all´interno della borghesia e della stessa classe operaia. Dunque, l´uomo andava attentamente sorvegliato.
Sotto attenzione era anche, in Italia, il fratello Nello, studioso del Risorgimento, di Mazzini, di Pisacane, di Giuseppe Montanelli, allievo di un odiato Gaetano Salvemini. Nello era rimasto in Italia a studiare, ma con sentimenti e idee altrettanto antifasciste di quelle di Carlo. Scalpitava («Tutto va a rotoli:- scriveva nel 1934 a Leone Ginzburg - dall´Europa agli affari privati. Il cerchio delle persone che puoi rispettare diventa sempre più minuscolo...») ed era infastidito del controllo, diretto o indiretto, politico e universitario, di Gioacchino Volpe, storico fascista e duttile uomo di regime, anche se non con lo spirito da inquisitore. Il pensiero di Nello, agli inizi degli anni ‘30 era costantemente altrove, soprattutto a Parigi.
Nello era vicino ai compagni di «Giustizia e Libertà», e l´affetto e le preoccupazioni per il fratello erano aumentate con lo scoppio della guerra di Spagna. Aveva comunque la possibilità di un passaporto per viaggi saltuari di studio all´estero, e nell´ultimo di questi in Francia fu accomunato a Carlo, trafitto da numerose pugnalate, nella tragedia del 9 giugno 1937. «Quando fu assassinato con suo fratello - scrisse Salvemini nel 1938 - Nello gli faceva una delle sue visite furtive di pochi giorni. Si era allontanato da Firenze da una settimana e faceva conto di ritornarvi entro pochi giorni. Carlo, e non Nello, era stato condannato a morte da Mussolini».
Dunque, sorveglianza assoluta, soprattutto nei confronti di Carlo. Il documento che qui sopra riproduciamo fa vedere bene il lavoro dell´infiltrato all´interno della «sigla»(era GL, Giustizia e Libertà). L´informatore riferisce di una riunione parigina il 2 maggio 1936. I primi nomi dei presenti sono quelli, appunto, di Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Franco Venturi per finire con Max Ascoli. Accanto ai nomi i numeri in codice per i cifrari del servizio segreto. L´attenzione dell´informatore era rivolta esclusivamente a quel che diceva e pensava Carlo. Certamente questi erano gli ordini del Sim (Servizio informazioni militari, cioè il controspionaggio) e degli esponenti massimi del regime, con in testa Ciano. I tempi per agire erano ormai maturi.
«Il maggior pericolo viene da Rosselli e, a mio modo di vedere, è assolutamente necessario sopprimerlo». E´ il tranquillo parere di un italiano a Parigi al capo della polizia politica del giugno 1934, ed è riportato nel volume di Mimmo Franzinelli: Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico (Mondadori, pagg. 352, euro 18,50). Il documento è uno dei tanti pubblicati nel volume. Attraverso essi l´autore ricostruisce la preparazione in Italia e l´esecuzione per mano francese dell´assassinio dei fratelli Rosselli. Nella prima metà del volume si seguono le trame italiane e le complicità francesi della rete dentro la quale cadrà Carlo Rosselli.
La rete tessuta in Italia ha una giustificazione politica nelle parole di Michelangelo De Stefano, il più vicino collaboratore del capo della polizia Arturo Bocchini. Sono indirizzate a un ex ufficiale dei carabinieri che coordinava l´attività dei delatori sugli esuli antifascisti: «Tenga presente, caro commendatore, che il movimento più importante, più pericoloso, più attivo è, per ora, Giustizia e Libertà». E´ il 29 novembre 1935. Quattro mesi dopo la spia infiltrata a Parigi tenta anche una interpretazione culturale della pericolosità di Rosselli: «Ho dovuto persuadermi che il Rosselli è, senza dubbio, l´uomo più pericoloso di tutto il fuoruscitismo [nel linguaggio fascista si preferiva qualificare con un termine dispregiativo «fuorusciti» gli esuli antifascisti]. Egli è un "piccolo Lenin, figlio di papà", ma crede sul serio al suo ruolo rivoluzionario ed è totalmente sprovvisto di quel minimum di misticismo che spinge il rivoluzionario idealista a non imbruttire mai la propria opera. Per Rosselli tutti i mezzi sono buoni».
In generale, tutti i movimenti di Carlo Rosselli, le opinioni, gli spostamenti, la maggior parte delle lettere private inviate a compagni e parenti, erano conosciuti dai servizi italiani. Di questo Rosselli non era consapevole fino in fondo, anche perché alcuni dei destinatari delle sue confidenze erano in apparenza esuli antifascisti ma in realtà al servizio del controspionaggio italiano. I servizi segreti sapevano anche che la posizione di Rosselli era critica nei confronti dell´antifascismo all´estero e delle sue varie componenti, socialiste, comuniste, liberali, repubblicane, anarchiche, cattoliche. Gli informatori sapevano che la lotta al fascismo condotta da Rosselli voleva essere, rispetto a queste componenti, più profonda, più incisiva, più strategica. In una lettera, intercettata, di Rosselli al repubblicano Fernando Schiavetti era detto: «Non occorre che spieghi a te che la nostra concezione non ha nulla a che fare col vecchio massimalismo. Siamo pronti alla lotta concreta e a tutte le concessioni tattiche, purché resti energicamente perseguito il fine».
La guerra di Spagna metteva alla prova queste idee. Per il regime fascista occorreva dunque agire al più presto. Ed è a questo punto che scatta la complicità della estrema destra francese nelle persone di esponenti della Cagoule. Il nome, scelto da alcuni giornalisti, si riferiva al Comité secret d´action révolutionnaire un´organizzazione segreta che aveva l´obiettivo di rovesciare il Fronte popolare in Francia e i governi democratici che si ispiravano ad esso. Dunque la Cagoule si occupava di cose francesi. Perché alcuni loro elementi uccisero barbaramente i fratelli Rosselli? Chi sapeva, se non le spie e gli intercettatori italiani, del fatto che Carlo, tornato dalla Spagna con una grave flebite alla gamba, doveva curarsi ai primi di giugno presso le terme di Bagnoles-de-l´Orne in Normandia? Chi altri avrebbe potuto chiedere ai cagoulards di portare a termine l´eliminazione di Rosselli se non i massimi vertici del fascismo?
La seconda parte del volume di Franzinelli, con documenti relativi alle indagini delle autorità francesi e ai processi intentati sia agli esecutori del duplice assassinio sia, dal 1944 al 1949, agli esponenti fascisti italiani, a cominciare dal maggior collaboratore di Ciano, Filippo Anfuso, cioè dirigenti del Sim, ufficiali dei carabinieri, informatori, eccetera, conferma che l´ordine partì dal tenente colonnello Santo Emanuele che dal 1934 aveva un ruolo guida nel controspionaggio ed era in rapporti stretti col Ministro degli esteri Ciano. Nel processo del 1944 confessò di aver trasmesso ai cagoulards la direttiva di eliminare Carlo Rosselli «secondo quanto gli era stato ordinato dai superiori» e «con l´approvazione di Ciano e di Anfuso». Ma Anfuso sarà assolto nel 1949 con formula piena e Emanuele, dopo la condanna all´ergastolo del 1945 sarà assolto nel 1949 per «insufficienza di prove». Così i tribunali hanno risolto l´affaire Rosselli lasciando agli storici il compito di giudicare quanto accadde in quel giorno di giugno di settanta anni or sono.

Liberazione Lettere 11.4.07
"Suicidio" a Torino. Diverso non è inferiore


Caro direttore, nelle parole del ragazzo che si è ucciso a Torino («A scuola mi fanno sentire diverso»), mi ha colpito il significato negativo attribuito al termine "diverso". All'origine di questa tragedia c'è non solo l'omofobia ma, più in generale, un modo di pensare che vede la diversità come sinonimo di inferiorità. Il disprezzo per il diverso è antico come il mondo ed è spesso una forma di difesa (l'incontro con chi è diverso da noi ci può far paura, perché mette in discussione le certezze su cui abbiamo costruito la nostra vita). Ma il disprezzo trova alimento quando persone ritenute autorevoli pongono l'inferiorità del diverso al centro di affermazioni morali, religiose o politiche. Oggi vi è chi bolla l'amore omosessuale come "debole e deviato"; vi è chi tuona contro il relativismo e presenta i propri valori come assoluti, giudicando immorale chi si riconosce in altri valori. Quello che viene condannato come relativismo è in realtà il rispetto delle differenze, il capire che altri possono avere visioni della vita diverse dalla mia ma non per questo inferiori. Il problema riguarda anche i rapporti tra le culture: il papa a Ratisbona ha affermato la superiorità del cristianesimo e della civiltà occidentale, eredi della razionalità greca, rispetto all'Islam e, in generale, alle culture extraeuropee, che non hanno conosciuto questa razionalità. Si tratti di individui o di civiltà, il messaggio è sempre lo stesso: chi è diverso da certi modelli è da considerarsi inferiore. Nessuno, forse, ha detto a Matteo e ai suoi compagni che la verità è un'altra: essere diversi non impedisce di essere uguali per valore, possedendo ricchezze differenti ma ugualmente preziose. Quei ragazzi non hanno compreso la bellezza della diversità. Certo non hanno letto le parole che il gatto Zorba rivolge alla gabbianella di Sepúlveda quando la vede triste perché ha scoperto la propria diversità dai gatti: «Sei diversa da noi e ci piace che tu sia diversa».
Roberto Blanco via e-mail


il Riformista Lettere 11.4.07
Spot sui Dico

Caro direttore, ha cominciato a circolare sulle pagine dei quotidiani una pubblicità che meglio di qualunque slogan potrebbe ravvivareil morente dibattito sulle unioni di fatto. Involontaria o no, è davvero geniale. recita così: Penso quindi dico. Chi sostiene da sempre che per la laicità dello Stato e delle sue leggi si debba pensare invece che credere, non può che congratularsi con i creativi che l’hanno inventata
Paolo Izzo e mail


ancora sull'episodio della contestazione a Fausto Bertinotti alla Sapienza: una nuova e.mail
“Ed un gruppetto di 30 ha urlato: buffone, assassino”.
Siamo (o forse dovrei dire "sono", perché io fisicamente non c'ero) diventati trenta dai cinquanta - sessanta dei giornali di martedì. Trenta estremisti violenti, perché "la violenza sta nella menzogna" e "perché non ho mai visto un Bertinotti buffone o assassino"
[Massimo Fagioli, "Trasformazione", Left - 6/4/2007].

Ho pensato di dover tornare sull’argomento, ma queste parole pesano come macigni e forse non voglio farlo. E’ tardi, ormai. E poi non mi piace ripetermi, non mi è mai piaciuto...
Che potrei dire? Ribadire che il coro cantava "assassini", riferendosi al governo e alle istituzioni rappresentate dal Buon Fausto e non un personale quanto surreale "assassino"? Insistere nel sostenere che legittimare C.L., un’organizzazione clericale dalle mille propaggini che inganna e manipola le matricole alle elezioni dei rappresentanti, che cerca di far accreditare il Creazionismo come teoria scientifica, che fa propaganda anti-abortista nell'Università e che sfrutta lavoratori disabili con le sue Cooperative Sociali per poi venire a parlarci - cambiando per l'ennesima volta nome - della povertà in Sud America, è assolutamente intollerabile? Forse sarebbe stato più appropriato gridare "ipocrita" che non "buffone", ma in certi casi è anche questione di ritmo. Queste cose però nella mia e.mail precedente non c’erano, eppure suonano come una ripetizione, forse perché le hanno scritte altri, forse perché sono pensieri vecchi che non afferrano il nodo del problema.

Potrei anche lasciare perdere e basta, sarebbe molto ragionevole, ma in realtà non posso. Dovrei pensare che cercare di far passare un'idea diversa qui sia impossibile, ma allora sarebbe impossibile in ogni luogo e le implicazioni sarebbero gravi. Se invece fosse possibile almeno fermarsi un momento, scansare le poltrone, le segreterie, le dirigenze ed affacciarsi dalla finestra: sono state date troppe cose per scontate, sono state fatte troppe semplificazioni, concentrandosi sull’aspetto culturale della politica si è finito per trascurare le ineliminabili connessioni tra i diversi piani.
Allora quello che posso e forse devo fare è lasciare da parte il caso specifico, l’episodio, e provare ad affrontare un discorso di più ampio respiro. E’ necessario, difficile ma necessario ed ho la presunzione di pensare che non sia solo un’esigenza personale.

“Dall’Afganistan a Vicenza, ma 'ndò sta la non violenza?” recitava uno degli striscioni anti-Bertinotti. “Estremisti che protestano contro la non violenza!” rispondeva Fausto.
Un partito di governo è e resta un partito di governo, il suo terreno di gioco è la gestione del potere e la sua priorità la conservazione del presente esecutivo: qualsiasi ipotesi di ricerca ne viene inficiata. Cristo, San Francesco, il monte Athos, Tonini, il presepe, la sala di meditazione, e ora persino Comunione e Liberazione: come distinguere un percorso personale di un vecchio comunista confuso da un calcolo preciso di uno scaltro uomo politico? Forse è un percorso personale calcolato di uno scaltro comunista confuso...

La verità è che quando un governo non ha opposizione parlamentare a sinistra, accade facilmente che le magagne grosse, quelle sulle quali l’opposizione è consenziente, non si riescano a scoprire se non se ne viene investiti in prima persona.
In questo contesto il ruolo di Rifondazione e degli altri partiti della cosiddetta “sinistra radicale” è strategico e fondamentale: rappresentano il filtro, la membrana semipermeabile che stabilisce la dose di realtà che può trapelare dai media. Gestiscono il dissenso, stabiliscono i livelli di malumore presenti nella società, definiscono le rivendicazioni di chi non ha rappresentanza e quindi gli è preclusa un’interazione diretta con il potere. Da Vicenza alla Val di Susa, dall’Atesia all’Università, all’Afganistan. Chi non vive queste situazioni dal di dentro le conosce nelle versioni elaborate dai partiti secondo i propri interessi politici: svuotano e riempiono quello che vogliono, come vogliono.
Il procedimento è standard e ormai molto ben collaudato. Una parte delle rivendicazioni dei cittadini vengono sussunte dalla politica, che le fa proprie, le sbandiera e vi attira l’attenzione del grande pubblico. Si presentano quindi due alternative: queste richieste possono venire accolte, allora partiti si propongono come i salvatori, i grandi mediatori “di lotta e di governo” lasciando cadere l’oblio su tutto il resto; in caso contrario quando possibile fanno sì che l’oblio investa l’intera faccenda, altrimenti attuano un’operazione più sottile e generano un tabù: la rivendicazione è illegittima ed innominabile, pena essere tacciati di qualsiasi nefandezza (”estremismo”, “violenza”, “anti-politica”... che poi che insulto è?). A Rifondazione questo ruolo calza particolarmente bene, hanno un talento speciale per questo tipo di pratiche... violente.

E non è vero che esistono solo loro: altrove ci sono persone, gruppi di persone del tutto comuni, che si movimentano, si mettono in gioco e fanno davvero una ricerca; magari meno intellettuale, con più pratica e meno parole, sicuramente non spirituale o trascendente. Non scrivono libri, non teorizzano, non dirigono, non hanno leader da invitare ad un incontro con i lettori. Si autorganizzano e sperimentano, ma meriterebbero un po’ di attenzione: con i partiti non c’è speranza. L’affermazione che il mezzo non è neutrale al fine e vera tanto per le rivoluzioni violente, che non possono portare alla liberazione di nessuna società, sia per le istituzione del potere borghese. Il “riformismo rivoluzionario” è e resta un ossimoro perché prevede che dati questi strumenti, queste regole di selezione per determinare chi deve gestire il potere, il governo ed il parlamento possano costituire un elemento di avanzamento, un’avanguardia, rispetto alla società e che possa trasformarla attraverso lo strumento legislativo, ovvero costruendo regole. La storia insegna che questo non può avvenire, la democrazia borghese esiste da un paio di secoli ormai. Possiamo invece pensare una rivoluzione che sia movimento di massa non violento? Un processo di trasformazione lento che investa direttamente i rapporti umani scardinando quelli di forza e che sedimenti lentamente? Bertinotti - voglio concedergli una parentesi di credito - probabilmente direbbe di sì, ma direbbe anche che intanto si possono fare buone leggi. Questo sosteneva qualche settimana fa da Fazio, intervistato sul suo nuovo libro, portando ad esempio lo Statuto dei Lavoratori che ha introdotto diritti prima impensabili. E’ falso: quei diritti sono stati prima pensati e chiesti con energia dai lavoratori stessi, che hanno lottato e costretto la politica ad accogliere alcune loro richieste. Stessa cosa è avvenuta per le rappresentanze nelle scuole e nelle università che oggi hanno però perso gran parte del loro significato, benché la legge non sia stata toccata: nelle università si ha difficoltà a raggiungere il 30% di votanti e gli eletti fanno capo frequentemente ad organizzazioni esterne all’interno delle quali cercano di fare carriera e praticano l’assenteismo militante. Il diritto formale, ma nella sostanza inutile, ha smesso di suscitare interesse. Sopravvivono invece i collettivi, aggregazioni spontanee di studenti che in modi anche diversissimi tentano di vivere differentemente i luoghi della propria formazione.
Ciò che è importante riconoscere, a mio avviso, è che nella costruzione di questo processo non si possono assumere posizioni neutrali e quella assunta dai partiti di “lotta e di governo” è ostruzionista. Per quello che hanno dimostrato finora, per la strada intrapresa, per gli strumenti scelti, una sinistra “né normale, né estremista” significa una sinistra radical-chic, una femme fatal vuota e pericolosa, piena di parole suadenti che dicono il falso perché sono scollate dalla realtà. Bertinotti ha detto che gli studenti della Sapienza erano violenti anche due anni fa, in occasione della contestazione a Fini che, invitato da Azione Studentesca, l’organizzazione degli studenti del suo partito, doveva venire a fare un comizio all’università. Un uomo politico usa il suo potere per condizionare le elezioni dei rappresentanti degli universitari e gli studenti sono violenti perché gli impediscono di parlare fischiando e facendo rumore: questa è la non violenza cieca e perbenista del Presidente della Camera.
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La chiuderei qui, ma dato che le ho sparate un po’ grosse riporto brevemente qualche esempio per chiarire da dove nascono le mie attuali convinzioni. Attuali, appunto, perché ai tempi dell’incontro di Villa Piccolomini la mia visione delle cose era molto diversa (l’episodio di Fini avvenne appena due mesi dopo e allora ero dispostissima a minimizzare).

Qualche tempo fa Franco Giordano è andato ad incontrare i lavoratori dell’Atesia per festeggiare i risultati ottenuti dal suo partito facendo pressione sul governo: ai lavoratori del call-center che avevano un contratto a progetto era stato offerto un contatto a tempo indeterminato. Lavorare 6 ore al giorno, distribuite su tutto l’arco della giornata, per 500 euro al mese o in alternativa il licenziamento in tronco. Questa seconda opzione è stata lasciata per altro come unica possibilità per alcuni membri del collettivo che aveva portato avanti la lotta. I violenti lavoratori dell’Atesia hanno accolto il segretario del Partito della Rifondazione Comunista peggio degli studenti contestatori della Sapienza. Dell’Atesia non si è più sentito parlare (ma se ne parlava poco anche prima perché il presidente dell’azienda, tale Tripi, è uno dei maggiori finanziatori della Margherita).
Nei giorni precedenti la manifestazione del 17 febbraio, al Presidio Permanente di Vicenza era giunta voce che i partiti (Verdi, Rifondazione e Comunisti Italiani) intendevano costituire la testa del corteo, scavalcando gli organizzatori. I vicentini hanno quindi chiesto a centri sociali, organizzazioni studentesche ed associazioni varie di anticipare l’appuntamento previsto in modo da far trovare ai baldi manifestanti partitici le cose fatte, temendo che questi riuscissero ad autoproclamarsi rappresentanti del movimento ed andassero in giro a parlare a nome loro. Pochi giorni dopo il governo andava sotto al senato sulla politica estera e Giordano, invitato a Ballarò, bacchettava i dissidenti a nome del popolo di Vicenza che chiedeva - a suo dire - che loro restassero al governo. Qualche ora prima il Presidio aveva diffuso un comunicato in cui dichiarava che le sorti del governo a loro non interessavano minimamente, che potevano anche cadere per quanto li riguardava visto che l’accordo definitivo con gli americani l’aveva fatto Prodi e la delibera di consenso del consiglio comunale l’aveva sollecitata il ministro Parisi. Ma a Ballarò c’era solo Giordano e la verità per tutti ha potuto essere solo la sua. E anche su questo è calato il silenzio. In questo modo si vorrebbe che ciascuno di coloro che si sentono traditi pensi di essere l’unico, più sfortunato, che questo governo fa cose buone per tutti ma che a lui, proprio a lui, cerca di fregarlo. Infondo però la gente non è così fessa e quest’inganno l’ha sgamato da tempo. Per questo nascono reti di solidarietà tra i movimenti di cittadini costituitisi in tutta Italia: parlano di democrazia, di autorganizzazione, di pace, di lotta alla militarizzazione del territorio, praticano stili di vita poco normali, per cui il vicino di casa diventa per un po’ il compagno di tenda. Sanno che i problemi sono comuni e condividono informazioni ed esperienze.
L’Afganistan è una questione più complessa: non vediamo immagini che non siano di repertorio da molto tempo, i burqa sono scomparsi dai nostri schermi insieme ai bambini mutilati e alle verdi valli del Panshir, i soldati italiani lì sono invisibili, del nostro “impegno” nella ricostruzione non si sa niente. L’Afganistan non esiste. Opporsi a qualcosa che non esiste è un’astruseria da estremisti, evidentemente: che cosa sarà mai una guerra in un luogo che non c’è? La lotta contro la guerra in Afganistan, per il ritiro delle truppe ma anche per la fine della depredazione da parte di privati protetti dai militari di una terra bellissima e devastata, è diventata qualcosa per soli addetti ai lavori. Non c’è mobilitazione dell’opinione pubblica e questa situazione risulta comoda a molti, ed ancora più comodo risulta poter identificare come estremista, violento, anti-politico chiunque attiri l’attenzione su questo argomento, screditandolo ed impedendogli di operare qualsiasi tipo di sensibilizzazione o informazione. Paolo Cacciari, coautore con Bertinotti del libro “Agire la non violenza”, ha però lasciato il partito a giugno dell’anno scorso, non appena capito che la segreteria gli chiedeva di votare il rifinanziamento alla missione militare: gandiano convinto ed onesto, dichiarò di non potercela fare.

Forse può bastare.

Sofia P:

martedì 10 aprile 2007

l’Unità 10.4.07
Abusi in parrocchia, la Curia sapeva ma «salvò» il prete
di Osvaldo Sabato


Per anni le violenze e i soprusi, la parrocchia «Regina della Pace» vicino Firenze trasformata in casa dell’orrore. E oggi che le vittime - dopo anni di vergogna e silenzio - hanno rialzato la testa, parla il cardinale Silvano Piovanelli, allora responsabile della Curia: «Sì, sapevamo di don Lelio Cantini, era chiaro che aveva approfittato di una ragazza». E ancora: «Sì, ci era stato chiaro da allora». E come reagiste? «Fu fatta una severa reprensione al sacerdote».
Dunque nulla più che un rimprovero. Ora le vittime degli abusi chiedono giustizia e hanno scritto anche a Ratzinger. E anche se i reati penali sono prescritti pensano a risarcimenti in sede civile.

«PER LA PRIMA volta la trattai personalmente io questa storia», rivela a distanza di qualche anno l’ex arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli. La storia è un concentrato di abusi e violenze consumate, fin dalla metà degli anni settanta, nel buio di una canonica della parrocchia «Regina della Pace», nella periferia di Firenze.
A distanza di anni sono le vittime di don Lelio Cantini, - parroco fino a due anni fa ma ora ottantenne - a far emergere quel clima di paura, di violenze e di soprusi, con una denuncia alla curia fiorentina e al Papa per chiedere che la Chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico per questo sacerdote, che avrebbe ancora persone attorno a Viareggio dove vive attualmente, e da dove è precipitosamente scappato ieri per rifuggiarsi da alcuni amici, portando con sé solo una piccola valigia. L’allora respondabile della Curia, il cardinale Piovanelli, entrò in contatto con questa vicenda dopo una denuncia “silenziosa” e il racconto fatto da una ragazza che aveva subito le attenzioni di don Cantini. «Ma pensammo che fu uno sbaglio fatto - aggiunge Piovanelli -. È una vicenda un po’ strana perché vedevo una specie di silenzio in cui era fasciato un po’ tutto». Infatti «nessuno sapeva degli altri e quella persona che parlò con me, sapeva di sé, ma non degli altri» spiega il cardinale.
Ma le vittime di don Cantini si sono rivolte alla Curia fiorentina per denunciare questa storia già nel 2004.
«Sì, ma io nel 2004 avevo già lasciato il mio incarico... »
Lei ha parlato con una ragazza che le disse di aver subito violenze?
«Certo, che le ho parlato... »
E cosa le ha detto?
«Non ne voglio parlare, non è una cosa che ho gestito io direttamente».
Però ammette che in Curia questa storia è stata sottovalutata?
«Non credo. Devo dire che prima era impossibile, o almeno sembrava impossibile, poter giudicare perché non c’erano gli elementi necessari. Quando io ho avuto a che fare, non con questa storia, ma con un solo fatto, sembrava che ci fosse solo quello, quindi dopo aver parlato con la vittima e dopo aver parlato con il sacerdote, fatta la giusta reprensione, sembrava che ci si doveva fermare lì perché pareva un solo errore».
Ma in Curia credevano al racconto di quella ragazza?
«Io ci ho creduto. Non a caso ho fatto la mia reprensione a don Cantini».
Lei afferma che sembrava uno sbaglio solo, cosa intende dire?
«Che il sacerdote aveva commesso una sola colpa: era chiaro che aveva approfittato di una ragazza».
A voi era apparso chiaro già da subito?
«Sì. Ma riferito solo a quel fatto».
E perché la Curia non prese subito dei provvedimenti contro don Cantini?
«Fu fatto, fu fatto. Fu fatta una giusta e severa reprensione al sacerdote, dopo aver parlato anche con la vittima».
Secondo lei era sufficiente?
«Allora sì, perché c’era un fatto solo».
Si trattava di un prete che aveva abusato di una ragazza e la Chiesa si limita a fare solo un rimprovero?
«Allora sì, perché fu giudicato diversamente».

LA PARROCCHIA «REGINA DELLA PACE»
«Violenze, soprusi e ricatti»:
il racconto-choc delle vittime
Firenze. IL SILENZIO della Santa Sede sulla vicenda del parroco fiorentino, don Lelio Cantini, che per anni, come denunciano ora le sue vittime, ha spadroneggiato nella parrocchia della «Regina della Pace», alla periferia di Firenze. Le autorità vaticane non si pronunciano e spiegano che in casi come questi spetta alla diocesi far luce sul caso ed accertare le responsabilità. Chi ha parlato a distanza di anni sono state invece le vittime di don Lelio Cantini. Quelle emerse in questi giorni sono storie di violenze fisiche e psichiche, costrizioni e abusi sessuali ai danni di bambine e ragazze. Con la scusa di coinvolgerle intere famiglie in un progetto fatto di fede e spirito, le spingeva a donare alla sua parrocchia denaro e beni. Insomma più che un paradiso sembrava un inferno. Questa situazione andava avanti dalla metà degli anni settanta ma è solo a partire dal 2004, che lentamente viene tutto alla luce: partono esposti e memoriali diretti alla Curia fiorentina. L’anno dopo don Lelio Cantini viene trasferito e sospeso - per decisione dell’attuale cardinale di Firenze Ennio Antonelli - anche dalla facoltà di potere dire messa e di confessare. Ma solo ora le vittime di don Cantini hanno trovato il coraggio di uscire definitivamente allo scoperto. Lo hanno fatto per chiedere alla Curia dei provvedimenti duri, anche perché la denuncia penale è difficile perché nel frattempo gli abusi e i plagi sarebbero passati in prescrizione. Si tratta di una storia agghiacciante, riportata alla ribalta dalla stampa. Le vittime del plagio hanno denunciato violenze e soprusi alla curia fiorentina e al Papa e chiedono che la chiesa applichi tutte le sanzioni previste dall’ordinamento ecclesiastico e non escludono una causa civile. Raccontano che don Cantini, detto il «priore», che aveva accanto a sé una presunta veggente che selezionava gli «eletti», li minacciava se non avessero obbedito alle sue imposizioni (niente assoluzioni, eucarestia vietata): tra queste c’era la richiesta di sesso alle ragazze dai 12 ai 17 anni, alle quali, imponendo loro il silenzio, avrebbe detto che così «aderivano completamente a Dio». Ad un giovane avrebbe detto: «Quelli lassù ti hanno scelto per fare il sacerdote e se non accetti ti caccio dalla parrocchia per sempre». Fatti inquietanti per i due intellettuali fiorentini: lo storico Franco Cardini e il filosofo, Luigi Lombardi Vallauri. «È giusto fare verità» dice don Fortunato Di Noto, fondatore di un’associazione a tutela dei bambini. È quanto pretende chi ha subito per anni le violenze di don Cantini. Non a caso si sono rivolti direttamente alla Chiesa per presentargli il conto, non si sono rivolti a degli avvocati, anche se qualcuno sta valutando se chiedere almeno il risarcimento dei danni morali e fisici. È con questo stato d’animo che hanno scritto al Papa, oltre che al cardinale Antonelli, in una lettera inviata alla Segreteria di Stato della Santa Sede, lo scorso 20 marzo. Anche l’ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, si era interessato del caso e rispondendo ad una lettera tranquillizzò tutti dicendo che il sacerdote era stato allontanato dalla diocesi per «motivi di salute». Travolto dallo scandalo ora don Lelio è anche fuggito dalla sua abitazione viareggina, via verso un'altra destinazione messa a disposizione dalla rete di conoscenze che in 30 anni si sono strette a lui.
o.sab.

l’Unità 10.4.07
La lunga linea degli scandali legati alla pedofilia. In Italia condanne da Foggia a Verona
Dagli Usa al Sudamerica, quelle macchie sul Vaticano


Quando nel 2002 la burrasca dei «preti pedofili» si è abbattuta sulla Chiesa degli Usa, l’allora presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Camillo Ruini si è sentito di affermare che in Italia non vi erano particolari misure da prendere perché il fenomeno era «marginale» e quindi non era necessario alcun «monitoraggio» della situazione. Spettava ai singoli vescovi «vigilare». Pochi, pochissisimi i casi, forse una decina negli ultimi anni su oltre 25mila sacerdoti. In quella circostanza il cardinale ha sottolineato come in certi casi eclatanti si trattasse di false accuse, come a Napoli e a Palermo: un modo per infangare uomini di Chiesa in prima linea nell’impegno per la solidarietà sociale, la legalità e l’accoglienza come don Rassello a Napoli. La Cei scelse la via della sordina, anche se le condanne di religiosi per reati sessuali ci sono state oltre che a Napoli, a Ferrara, a Foggia, a Modena, a Verona e in Sicilia.
Ora la cronaca anche recente invita a minore ottimisto e a maggiore vigilanza. Non bastano le raccomandazioni per la formazione dei sacerdoti e l’accesso in seminario. È di ieri lo scandalo di Firenze. Di qualche decina di giorni fa quello che ha coinvolto don Marco Dessì, arrestato il 4 dicembre a Cagliari e rinchiuso nel carcere di Parma con accuse pesantissime: violenza sessuale plurima, aggravata e continuata su minori. Un reato consumato in Nicaragua, dove il sacerdote era stato per anni missionario, e in altri paesi. Su di lui non indaga soltanto la magistratura ordinaria. È in corso anche un processo canonico. Come per gli altri casi simili un fascicolo a suo nome è sui tavoli della Congregazione per la Dottrina della fede. Le indagini «canoniche» sui religiosi accusati di pedofilia sono oramai centralizzate. Questo oltre ad evitare ogni possibile «debolezza» o «copertura» delle diocesi di appartenenza, tende ad omologare le regole di comportamento. Una decisione presa da papa Giovanni Paolo II d’intesa con l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger che, ora pontefice, pare intenzionato a mantenere ferma la rotta.
Non basta spostare l’interessato da una parrocchia all’altra o «consigliare» un periodo di cura specialistica. Non si possono «paternamente coprire» questi casi, non basta l’ammonizione, né si possono tacitare le vittime con compensi in danaro. La via seguita dalla Chiesa negli Stati Uniti è stata disastrosa non solo per le sue finanze, ma anche per la credibilità nel mondo dell’intera Chiesa cattolica. Quando il bubbone è scoppiato, nel 2002 la condanna è stata fermissima. Dopo un difficile confronto interno e con le diocesi interessate, la Santa Sede ha deciso di affrontare in profondità il dramma della pedofilia e delle violenze sessuali che hanno avuto come protagonisti dei religiosi.
Quello che è da sottolineare è che questo non è soltanto un «dramma americano». Le accuse di pedofilia e di molestie, con le successive rimozioni di sacerdoti e in qualche caso clamoroso anche di vescovi (o perché accusati di essere personalmente coinvolti o perché ritenuti respondabili di aver «coperto» i sacerdoti colpevoli) hanno scosso tutti i continenti. Non vi è paese di antica e consolidata tradizione cattolica che non ne sia stato toccato.
r.m.

l’Unità 10.4.07
Primo Levi, 174517
La chimica di Auschwitz
di Oreste Pivetta


VENT’ANNI FA moriva Primo Levi. Un suicidio. La fine di un un uomo che aveva conosciuto l’inferno del lager ed era riuscito a raccontarlo descrivendone i perversi meccanismi. Un grande scrittore, che vedeva nella ragione la salvezza

Il suicidio di Amery, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni... Così Primo Levi ricordava in un pagina de I sommersi e i salvati la fine di Jean Amery, l’ebreo austriaco Hans Mayer, rifugiato in Belgio, intellettuale solitario e orgoglioso, combattente in un movimento di liberazione, finito nelle mani della Gestapo nel 1943, torturato e trascinato ad Auschwitz. Amery sosteneva d’aver riconosciuto Primo Levi, tra i prigionieri in una baracca che era stata per qualche tempo anche la sua. Levi negava questa circostanza: troppe ombre, troppi fantasmi tra quei legni marci di sofferenza. Con Amery e con i suoi libri (in primo luogo Intellettuale ad Auschwitz) Primo Levi intrattenne un lungo rapporto però, critico e addirittura severo, cioè senza il velo delle giustificazioni, su una questione che aveva assai inquietato l’ebreo austriaco: «rendere il colpo». «Chiedo giustizia - risponderà Levi - ma non sono capace, personalmente di fare a pugni né di rendere il colpo». Senza perdonare: «Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile... perchè non conosco atti umani che possano cancellare una colpa...».
Vent’anni fa, l’11 aprile 1987, Primo Levi sceglieva di morire, nella casa in cui era nato, figlio di una famiglia ebrea e borghese. Il padre era un ingegnere civile, moderno di temperamento, mosso più dalla curiosità scientifica che dalla religione. Vale per Primo Levi il congedo che immaginò per Amery: il suicidio, sempre, qualsiasi suicidio, ammette una nebulosa di spiegazioni... Ma è una tragedia, comunque, e resta, per gli altri, per i testimoni, i sopravvissuti, un’ostinata domanda.
Primo Levi aveva sessantotto anni, era appena uscito da un intervento chirurgico, assisteva la madre (Ester Luzzati, che morì quattro anni dopo di lui, quasi centenaria), viveva ormai ritirato: «Viaggiare - confessava - mi è molto difficile, sia per mie ragioni di famiglia, sia perchè ho finito per interiorizzare gli impedimenti e ormai mi riesce ostico mettermi in viaggio». Alla fine di gennaio aveva affidato alle pagine della Stampa alcune considerazioni sulle tesi dei revisionisti storici, sui precedenti, sulle stragi del passato e sulla deriva orientale (cioè sovietica) delle deportazioni di massa e dello sterminio di massa. Dal gulag stalinista ai lager nazisti - sosteneva Primo Levi - corre una differenza: il primo era un massacro tra eguali, Auschwitz si fondava su una ideologia grossolanamente intessuta di razzismo. Treblinka o Chelmno non erano solo campi di concentramento. Erano «buchi neri destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei», la realizzazione di un’idea, senza deviazioni.
Quattro decenni dopo la fine della guerra, sopravvivevano l’incredulità e la «zona grigia» dell’irresponsabilità o della complicità addirittura. Chi era sopravvissuto doveva misurarsi non solo con il peso del dolore, dell’inferno vissuto, ma anche con chi dimenticava, ridimensionava, rivedeva, persino irrideva... Levi spiegava di non temere il ritorno dell’antisemitismo in Germania per la semplice ragione che gli ebrei erano ormai troppo pochi. Si sarebbe dovuto ricredere di fronte alle più svariate prove di razzismo (e di antisemitismo) dei nostri tempi. Aveva già sfidato i sorrisi dei primi ai quali aveva rappresentato, a Torino, la propria odissea. Non credevano. Lo raccontava splendidamente Nuto Revelli, citando lo sbalordimento di quanti ascoltavano i suoi resoconti di morte e di gelo. «Allora, nel lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, rientravo nella mia famiglia, raccontavo e non ero ascoltato...». «L’incubo del sogno mi restava dentro: mentre scrivevo Se questo è un uomo io non ero convinto che sarebbe stato pubblicato... Volevo farne quattro o cinque copie e darle alla mia fidanzata e ai miei amici. Il mio scrivere era dunque un modo di raccontare a loro. L’intenzione di lasciare una testimonianza è venuta dopo, il bisogno primario era quello di scrivere a scopo di liberazione». Il sogno non fu poi così lontano dalla realtà: nel 1947 Einaudi, dopo varie letture, respinse il manoscritto. Che trovò invece attenta una piccola casa editrice, De Silva, di Franco Antonicelli. Levi propose il titolo I sommersi e i salvati. Renzo Zorzi, tra i primi lettori per la piccola casa editrice, ne preferì un altro: Se questo è un uomo, da un verso dello stesso Levi. Einaudi lo rilanciò nel 1956. Con grande successo, un long seller, come si dice. Scolastico e non solo. Levi rappresenta la vita nel campo di Monowitz, periferia «industriale» di Auschwitz, in una fabbrica di gomma, detta La Buna, dov’era entrato grazie alla sua laurea in chimica, una fabbrica che non produsse mai un chilo di gomma (capitava che la sua centralina elettrica venisse sempre bombardata al momento di andare in produzione) in un racconto diario, che non è mai «presa diretta»: di fronte a quella vicenda sale forte, in primo piano, la volontà di capire, di definire una realtà che appare al di là di ogni razionalità nel precipizio di un meccanismo assurdo di gerarchie e connivenze tra oppressori e oppressi, tra padroni e vittime: «In mezzo a questi infelici non c’era solidarietà; e questa mancanza era il primo trauma, il trauma più grosso. Ingenuamente io e quelli che avevano viaggiato con me avevano pensato: “per mal che vada troveremo dei compagni»”. Si trovavano dei nemici, non dei compagni...». Il prigioniero del lager resiste perchè difende la propria umanità, cerca di salvare la ragione, la ragione vigile che permette a Levi, nel confronto con gli atti di civiltà di una storia passata, di enunciare i segni più nefasti del lager.
Levi rivelò che era stato un lettore ebreo a bocciarlo per conto della Einaudi, che avrebbe poi stampato tutti i suoi libri: un anno prima della morte il saggio-memoria che riprende il titolo rifiutato da Zorzi per Se questo è un uomo. I sommersi e i salvati sembra chiudere un cerchio, con un ritorno là dove l’avventura letteraria si era iniziata, con una riflessione sistematica sull’esperienza di Auschwitz e soprattutto sul modo di conservarla senza manomissioni, sulla «scuola» di Auschwitz e sulla maniera di proporla, sulla morte e sulla sopravvivenza, sulla solitudine e sullo spaesamento. In mezzo, tra un capo e l’altro del percorso, dopo La tregua, la narrazione del ritorno a casa, Levi diventa scrittore assiduo, via via allontandosi dalla sua professione di chimico (si era laureato nel 1941, due anni prima di cadere nelle mani dei nazisti, partigiano in Val d’Aosta, dopo aver sparato un solo colpo da una pistola dall’impugnatura di madreperla), ma preservando quella sua formazione scientifica: «La chimica mi sembrava la chiave principale per aprire i segreti del cielo della terra... mi ha fornito in primo luogo un vasto assortimento di metafore. Mi ritrovo più ricco di altri colleghi scrittori, perchè per me termini come chiaro, scuro, pesante, leggero, azzurro hanno una gamma di significati più estesa e più concreta. Per me l’azzurro non è solo quello del cielo, ho cinque o sei azzurri a dispozione...».
Dopo La tregua, Levi scrisse vari racconti: raccolti in Storie naturali (nel 1967, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Vizio di forma (1971), Lilìt (1981). Libro singolare che intreccia autobiografia, narrazione e passione per le scienze è Il sistema periodico (1975), in ventuno capitoletti, ciascuno dei quali reca per titolo uno degli elementi della tavola di Mendeleev, dall’Argon al Carbonio, al Potassio, ciascuno dei quali aiuta a disegnare le forme della vita, attraverso le proprie. Scienza e tecnica sono state per Levi un modo per riconoscere nelle contraddizioni del presente una strada positiva. Come indica nel romanzo La chiave a stella (1978), l’operaio piemontese Tino Faussone, che gira il mondo alzando ponti, tralicci, trivelle: nel lavoro Faussone esercita la propria creatività e la propria umanità. Per Levi il lavoro continua ad essere resistenza della ragione alle condizioni più dure e difficili, in ciò sottolineando il legame tra queste prospettive e l’esperienza del lager (il paradosso di quell’insegna, «Il lavoro rende liberi», ad Auschwitz), legame che torna attuale nel romanzo Se non ora, quando? (1982), le vicende di un gruppo di partigiani ebrei nelle zone occidentali della Russia, che Levi aveva attraversato durante il suo ritorno dalla prigionia...
Romanzo che sta ad un passo dal testamento, I sommersi e i salvati, il viaggio a ritroso, il cerchio che si chiude entro l’inferno che è all’origine di tutto. Con semplicità, a Ferdinando Camon che lo intervista, Primo Levi dirà con semplicità: «Io credo di aver subìto una maturazione, avendo avuto la fortuna di sopravvivere. Perchè non si tratta di forza, ma di fortuna: non si può vincere con le proprie forze un lager. Sono stato fortunato...». Fortunato e basta: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio».

Ebreo, da Torino al lager: itinerario di un narratore «scientifico»
Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio, da una famiglia di ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla Provenza. Frequenta il liceo Massimo D’Azeglio e quindi l’università, laureandosi in chimica nel 1941. Dopo l’8 settembre si aggrega ad una formazione partigiana in Valle d’Aosta, viene catturato e rinchiuso nel campo di Fossoli, prima di venire tradotto come ebreo nel campo di Auschwitz (con numero di matricola, tatuato sul braccio, 174517): la sua competenza in chimica gli varrà un lavoro presso La Boba, fabbrica di gomma, annessa al campo. Nel 1945, alla liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, dovrà affrontare un lungo viaggio di ritorno in Italia. Troverà presto lavoro in una fabbrica chimica di Avigliana e intanto avvierà la scrittura di Se questo è un uomo. La fortuna editoriale di questo primo racconto testimonianza e del successivo La tregua consentirà a Levi di dedicarsi per intero alla scrittura, fino alla morte, vent’anni fa, l’11 aprile 1987.
Tutte le opere di Primo Levi sono state pubblicate da Einaudi (insieme, in due volumi, curati da Marco Belpoliti, con l’introduzione di Daniele Del Giudice). Importanti, per la comprensione dell’itinerario umano e letterario di Primo Levi, Autoritratto di Primo Levi, intervista a cura di Ferdinando Camon (editore Nord-Est), e Dialogo, conversazione tra Levi e il fisico Tullio Regge (Einaudi).

il Giornale 8.4.07
Ethos laico: le leggi devono essere per tutti senza veti e verità assolute


Ha fatto bene la conferenza episcopale a dare via libera ai parroci per il Family Day. Sarebbe un passo avanti se anche nel nostro paese i religiosi partecipassero direttamente alla vita politica, se i vescovi e i cardinali potessero candidarsi al parlamento, e le tesi della Chiesa fossero sostenute in politica direttamente da chi le avanza senza il filtro del Concordato. La società civile deve restare il terreno privilegiato in cui si incontrano e si scontrano i valori, gli interessi e gli obiettivi dei diversi gruppi politici, economici, culturali e religiosi presenti nella comunità nazionale: è quindi positivo che oggi vi si esprima il nuovo cattolicesimo militante, anche se il fenomeno non può riguardare i laici.

Quel che invece riguarda i cittadini di uno Stato che ha la Costituzione come legge suprema, è la pretesa dell'autorità ecclesiastica di lanciare alle istituzioni ammonimenti che tendono a condizionarne le decisioni. Quando i vescovi pretendono di dire che non si deve legiferare sulle coppie di fatto o che il testamento biologico è pericoloso, vanno oltre il magistero pastorale nel momento in cui propongono, come mi pare in questo caso, di imporre per legge precetti di fede all'intera società composta da credenti, non credenti e diversamente credenti. E non è corretto se a sostegno delle loro verità di fede vengono utilizzati con il clamore dei media argomenti allarmistici quali l'accostamento dell'omosessualità alla pedofilia e all'incesto, la confusione tra eugenetica e procreazione assistita, oppure l'affinità tra il testamento biologico e l'eutanasia.

La storia della nostra Repubblica è stata segnata da una politica democratica perché, quando si sono verificate le pressioni integralistiche della Chiesa, la classe politica anche cattolica le ha tenuta a bada, consapevole della distinzione tra la sfera politica e quella religiosa. Oggi, alla base delle richieste avanzate dalle autorità ecclesiastiche ai legislatori, v'è qualcosa che non può essere passato sotto silenzio. L'asserzione, ad esempio, che la crisi della società, causata secondo la Chiesa dal cosiddetto "relativismo", può essere vinta solo da una profonda iniezione di etica (e fin qui va benissimo), di cui però l'unica detentrice autorizzata è la Chiesa cattolica. E' questo il tipico riflesso integralistico secondo cui esiste uno ed un solo ethos pubblico (il cattolico) che deve divenire valido erga omnes, mentre tutte le altre filosofie di vita vanno relegate nel regno dell'immoralità pubblica. Certo, non sono così ingenuo da non sapere che chi professa una fede trascendente ritiene sempre e comunque di essere nel vero e nel giusto. Ma una cosa sono le verità assolute di fede, e tutt'altra cosa è il loro trasferimento nelle leggi dello Stato.

L'affermazione pontificale secondo cui alcune leggi non s'hanno da fare perché contrastano con la natura è fragilissima. E' noto che i concetti di "natura" e di "diritto naturale" hanno avuto interpretazioni diverse, sempre connesse con uno specifico contesto storico-culturale-politico. Chi come il senatore Pera se la prende, singolarmente, con il "partito clericale", dovrebbe riflettere sul fatto che nel propugnare in politica i "valori non negoziabili", dà corpo proprio al neoclericalismo. L'essenza della democrazia sta nel compromesso volto a tenere insieme la convivenza pacifica di portatori di diverse credenze, filosofie, idealit€ |à e religioni senza faide ideologiche.

In Italia deve esser possibile varare delle leggi che soddisfino l'intera comunità nazionale, come accade in tutti i paesi occidentali di antica cultura civile e religiosa. In un regime liberale non c'è posto per gli esclusivismi né per le verità assolute né per i veti che si addicono agli Stati etici e autoritari. La Chiesa fa bene a proporre i suoi valori, soprattutto quando si trova, come è ormai in Italia, in una situazione di minoranza. Ma lo Stato deve difendere l'autonomia delle proprie istituzioni mettendole al riparo da qualsiasi veto, morale o materiale che sia. Certo, i credenti in politica devono fare i conti con la loro fede, ma sarebbe opportuno che restasse un fatto personale di coscienza e non diventasse un instrumentum regni. Mi paiono delle regressioni clericali le rincorse che i gruppi politici ostentano per guadagnarsi il premio di migliori interpreti della dottrina pontificia e di zelanti esecutori politici di prescrizioni che hanno la loro pregnanza nella sfera pastorale.

The New York Times, in Repubblica 10.4.07
Il Corano non dice: picchia tua moglie. Parola di traduttrice
dl Neil MacFarquhar


Nella traduzione di La!eh Bokhiiar si offre una nuova interpretazione del versetto che autorizzerebbe i mariti a picchiare le mogli.

CHICAGO Laleh Bakhtlar stava lavorando gìà da due anni a una traduzione inglese del Corano quando si e imbattuta nella IV Sura, versetto 34.
A quel punto quasi abbandonò il progetto. II contestatissimo versetto afferma che una donna disobbediente andrebbe prima ammonita, quindi lasciata sola nel letto e da ultimo "battuta" la traduzione più frequente del termine arabo daraba fin quando non corregga il suo comportamento.
"Decisi che doveva per forza avere un altro significato altrimenti non avrei potuto continuare a tradurre", dice la Bakhtiar americana di origine iraniana, convertita all'Islam da adulta e che fino ad allora non si era soffermata su questo versetto del Corano. "Non potevo credere che Dio autorizzasse a fare del male a un altro essere umano in un contesto diverso dalla Guerra”.
La Bakhtiar ha continuato per altri cinque anni e la sua traduzione uscirà questo mese. È riuscita a trovare una soluzione, ma quei versi restano uno dei passaggi più controversi di tutto il Corano.
In Germania, il mese scorso, un giudice ha provocato scandalo respingendo, con tanto di citazione del versetto incriminato, la richiesta di divorzio immediato presentata da una marocchina nata in Germania perché suo marito la picchiava: il giudice, a cui è stato sottratto il caso, aveva scritto che Il Corano autorizzava gli abusi fisici.
Esistono almeno 20 traduzioni inglesi del Corano. Daraba è stato tradotto come: battere, colpire, picchiare, fustigare, punier, frustare, infliggere una punizione esemplare, sculacciare, accarezzare, battere piano e anche sedurre.
Laleh Bakhtiar, che ha 68 anni e un dottorato in psicologia educativa, ha deciso di cimentarsi nella traduzione perché riteneva che le versioni esistenti fossero troppo ostiche per un occidentale. Quando è arrivata al versetto della discordia, la Bakhtiar che ha imparato a leggere i testi sacri in arabo quando studiava e lavorava come traduttrice in Iran, negli anni '70 e'80 ha perso tre mesi sulla parola daraba.
L'illuminazione, racconta, è arrivata alla decima lettura, a occhio e croce, dell'Arabic - English Lexicon, un testo ottocentesco di Edward William Lane. Fra le sei pagine di definizioni fornite da Lane per il termine daraba, figurava anche "andarsene".
"Mi sono detta: "Oh, Dio, questo è quello che intendeva il Profeta", dice la Bakhtiar negli uffici della Kazi Publications, la casa editrice di Chicago che pubblica la traduzione. "Quando il Profeta aveva problemi con le sue mogli, che cosa faceva? Non picchiava nessuno, quindi perché un musulmano dovrebbe fare queilo che il Profeta non faceva?".
I dibattiti sulle traduzioni del Corano, considerato l'eterna parola di Dio, ruotano intorno alla tradizione religiosa e alla grammatica araba. Non sono mancate le critiche alla Bakhtiar.
Dice che si aspettava di suscitare scontento, anche e soprattutto perché non è una studiosa dell'islam. Gli uomini del mondo islamico, dice, sono contrari anche all'idea che possa essere un americano, tanto più se donna, a reinterpretare la traduzione prevalente.
"Sentono che loro valori religiosi sono sotto attacco da parte dell'Occidente e hanno paura di veder venire meno tutte le barriere protettive della tradizione", dice. "Ma le donne devono sapere che esiste un'interpretazione alternativa".
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"Non sento di dover cercare giustificazioni per questo passo del Corano", dice Sayyed Hossein Nasr, esperto di Islam e professore a Washington all'Università George Washington. La Bibbia, fa notare, raccomanda dl lapidare la gente. Secondo alcuni, è impossibile tradurre in modo sensato questo versetto in inglese, perché rispecchia pratiche sociali e giuridiche dell'epoca di Maometto.
"L'idea generale non è punire la donna", dice Ingrid Mattson, esperta di Storia antica dell'Islam per l'Hartford Seminary, prima donna a ricoprire la carica di presidente della Islamic Society of North America. "È come un timore di sconvenienza sessuale, come se il marito intraprendesse questi passi per cercare di riportare il rapporto alla situazione corretta. Lo vedo come un gesto fisico di malcontento".