sabato 14 aprile 2007

Repubblica 14.4.07
Meglio un monumento a una capra o a Freud?
un referendum a Praga


PRAGA - Meglio un monumento a Freud o a una capra? Gli abitanti della Città Vecchia di Praga si sono pronunciati ieri con un referendum sulla proposta se costruire - nella piazza chiamata "terreno delle capre" - una statua al padre della psicanalisi oppure all´animale. Le urne si sono chiuse in serata e i risultati saranno noti presumibilmente nella nottata. Le autorità cittadine avevano commissionato una scultura in cui Freud appariva seduto a un tavolo, riprodotto due volte nella stessa scena in dimensione ridotta. Questa decisione, però, ha suscitato molte proteste - Freud non è molto popolare nella Repubblica Ceca - al punto che prima di procedere con la realizzazione del monumento è stato deciso di consultare gli abitanti del quartiere. Un vero e proprio referendum tra le circa 2.300 persone che vivono nella Città Vecchia e che hanno avuto a disposizione l´intera giornata di ieri per esprimere il loro parere.

venerdì 13 aprile 2007

1980 . . . 1985, il film Diavolo in corpo.
1986 e la ristrutturazione della sede dei seminari . . . “Ed essi, dopo quindici anni, . . . “ settembre 1989.
. . . 1991, il progetto per la Piazza S. Cosimato.
IL CORAGGIO DELLE IMMAGINI. 1994

Cerco tra i ricordi per trovare il filo che mi permette di raccontare una storia: quella di un gruppo di architetti che, oppressi dalla tecnica e dall'accademia, hanno chiesto idee poi immagini e disegni a qualcuno che non era architetto come loro (1).

IL PALAZZETTO BIANCO, “manifesto costruito” di una ricerca.

Inizio a pensare e immediatamente ricordo che il progetto e la ricerca sono stati descritti in maniera affascinante ed esaustiva da Franco Purini in un suo articolo pubblicato recentemente(2). Forse allora, mi dico, mi si chiede piuttosto di spiegare la storia strana di uno psichiatra e molti architetti.
E' difficile ricordare dopo tanti anni: una ricerca ha inizio per una intuizione o per lo sviluppo naturale di un'altra ricerca o, magari, poiché parliamo di Architettura, può nascere perché sollecitata dalla visione di una immagine: il volto bellissimo di una donna . . . nuova.
Ecco, forse tutto iniziò con Diavolo in corpo.
Marco Bellocchio nel 1985 aveva chiesto a Massimo Fagioli di intervenire sul set del film che stava girando. Poi ci fu il 1986 e la realizzazione della sede rinnovata dei seminari di Analisi collettiva. "…ai miei seminari, oltre a psichiatri e medici, partecipano tantissimi architetti. E' una presenza diventata costante. Gli architetti vorrebbero essere degli artisti e, tante volte, sono costretti ad essere artigiani. Cercano l'estro, la fantasia. Un architetto, una donna, ha attuato la ristrutturazione interna della sede dei seminari. La dimensione di essenzialità è importante per lasciare spazio alla dimensione interiore . . ."(3) . Negli anni successivi si è sviluppato uno strano fenomeno per cui un gruppo di architetti ha chiesto allo psichiatra non di interpretare bensì di fare immagini. Lo psichiatra, che nel setting interpretava le immagini dei sogni, è stato "costretto", nel rapporto extra-analitico, a concretizzare le sue immagini, sorte dall'inconscio ma non sognate, che diventavano architetture non comuni. Case, costruzioni, città strane perché mai viste prima eppure funzionali. Idee, disegni e immagini irrazionali erano architetture ossequiose delle leggi della statica e delle mille norme che regolano il vivere civile, e perciò stesso perfettamente funzionanti, potremmo dire assolutamente "razionali".

"La scoperta e la ricerca è che dall'inconscio possono emergere immagini che è possibile costruire" dice lo stesso Fagioli al quale mi sono rivolta per capire e ricordare la storia. "Prima del Brunelleschi - continua - nessuno aveva messo in crisi l'idea dell'arco romano eppure, nonostante il Ghiberti gli profetizzasse un fallimento, egli riesce nell'impresa impossibile".
Dunque la libertà espressiva del Brunelleschi, concretizzatasi in una idea irrazionale, aveva realizzato un'immagine architettonica mai vista prima. . . Ma chi ci avrebbe dato la certezza delle immagini scaturite dal nostro inconscio? "Voi architetti, inariditi dal Razionalismo e dallo Strutturalismo, costretti tra le regole della tecnica e le leggi, senza via d'uscita per una cultura dominante che vuole la scissione tra ragione e fantasia e codifica l'irrazionale come animalesco, avete il merito di aver fatto una pazzia per fare architettura nuova!". Ci siamo proposti come "allievi" di un "viandante" incontrato per caso.
Risvegliati dal sonno profondo nel quale eravamo caduti per la colpa di aver creduto a Marx e a Freud dimenticando il bello nel cercare solo l'utile, abbiamo rivendicato la possibilità di una ricerca di immagini ed ispirazioni libera da ogni accademia, da ogni convenzione istituzionale e condizionamento culturale. E soprattutto abbiamo chiesto che l'architettura potesse essere di nuovo Arte e non solo tecnica al servizio dei bisogni umani. "Avete chiesto di liberare le immagini non coscienti come faceva Picasso". Ma le immagini di Picasso restano arte mentre le immagini che ci hai regalato sono anche "utili". "Il rischio era quello di finire nelle fantasticherie masturbatorie di alcuni vostri contemporanei..." sottolinea Fagioli.
E' vero, l'architettura deve essere essenziale, per quel "levare di soverchio" che piaceva tanto a Leonardo. Mentre oggi assistiamo ad una architettura contesa tra i fautori di una “creatività” esasperata -penso all'inutile spreco di segni, alle immagini esagerate di alcuni progetti di Ghery o di Calatrava - ed i sostenitori del rigore formale che, al fine, propongono soltanto un vuoto, un'assenza di fantasia, continuando a costruire scatole di vetro, di cemento o di pietra sulla scia di un razionalismo tutto americano che propone, per assurdo, un'inutile . . . pesantezza.
Barocchismi o rigore in un mettere o levare "più o meno che non debba. Ma di questi non parlo perché non sono maestri…".
Mi piace invece parlare dell'ultimo progetto, in ordine di tempo, realizzato da Fagioli, che ha in comune con il Palazzetto l'essenzialità delle forme.
Nella "Casa di Matteo", un'abitazione in Roma, il Fagioli ha operato in levare, eliminando la pesantezza di muri inutili che opprimono soltanto il vivere quotidiano, costruiti nei primi del novecento da una ragione ottusa che pensava case come caverne.
Il risultato: una libertà di movimento ed una spazialità tutta nuova che suggerisce un modo di abitare diverso. Che la casa non sia più un rifugio ma uno spazio aperto al rapporto con gli altri?
Il mio racconto finisce qui.
Ho cercato di spiegare la storia strana del gruppo di architetti-artisti e dello psichiatra che insieme hanno progettato nuove architetture. Come ricordare poi le linee che abbiamo tirato, impossibile, perché di fatto i nostri contributi non sono separabili: una linea in più o in meno non modifica il risultato che è sotto gli occhi di tutti, nel momento in cui il Palazzetto bianco, finalmente costruito dopo ben sedici anni dalla sua progettazione, segna un momento di indiscussa riuscita di questa ricerca, unica nel suo genere, che ha origine nell'Analisi collettiva e si è fondata e nutrita della teoria originale di Massimo Fagioli.

Ricordo ora che nel 2001 Fagioli ha rinnovato in modo integrale la sede dei suoi seminari, raddoppiando lo spazio collettivo.
E da tempo noi architetti del Coraggio delle immagini cerchiamo di studiare questo psichiatra che interpreta le immagini dei nostri sogni nell'Analisi collettiva e, fuori, libero da noi, costruisce le sue immagini . . . la ricerca continua.

Paola Rossi, 25 febbraio 2007


(1) I progetti riportati nella premessa al mio articolo sono pubblicati nel catalogo "Il coraggio delle immagini. Progetti realizzati da un gruppo di architetti romani su idee e disegni di Massimo Fagioli" Nuove Edizioni Romane, 1995(2)

(2) Franco Purini nel suo articolo "Inconsueta e sorprendente", pubblicato su Paesaggio Urbano nel febbraio 2006 e poi su L'Arca nell'ottobre dello stesso anno, racconta del progetto e della ricerca incastonandoli nella realtà storica, culturale e sociale di oggi.

(3) "Freud è servito" di S.Martella; su WWN n°6/1986. Intervista a M.Fagioli: "… ai miei seminari, oltre a psichiatri e medici, partecipano tantissimi architetti. E' una presenza diventata costante. Gli architetti vorrebbero essere degli artisti e tante volte, sono costretti ad essere artigiani. Cercano l'estro, la fantasia.
Un architetto, una donna, ha attuato la ristrutturazione interna della sede dei seminari. La dimensione di essenzialità è importante per lasciare spazio alla dimensione interiore. Dai sogni relativi a quel luogo è poi emersa una interpretazione acustica e spaziale, nell'immagine di un pianoforte a coda, a indicare il ritmo e la risonanza che si verifica nella partecipazione collettiva…"
l’Unità 13.4.07
L’Origine della Fede
Il Papa e Darwin
di Pietro Greco


È appena uscito in Germania per i tipi dell’editore Suv un libro dal titolo «Schöpfung und Evolution», creazione ed evoluzione, ha per tema l’origine della vita e il cambiamento della specie. L’autore è Joseph Ratzinger. Il Papa di Roma.
Non abbiamo letto il volume, che presto sarà disponibile anche in italiano. Ma, se le anticipazioni di stampa sono corrette, si tratta di un libro destinato a far discutere. Per almeno tre ordini di questioni che Benedetto XVI solleva e che sono, per l’appunto, discutibili.
La prima questione riguarda l’origine della vita: il Papa sostiene che da sola la scienza non è in grado di spiegarla e che, a ogni modo, sia all’origine della vita sia all’origine dell’universo (ovvero di “ogni cosa”) non ci può essere il caso, ma deve esserci un progetto - un “disegno” - che riconduce direttamente a Dio.
La seconda questione riguarda la teoria proposta da Darwin per spiegare l’evoluzione biologica: Joseph Ratzinger sostiene che non è completamente dimostrata e neppure è completamente dimostrabile, perché centinaia di migliaia di anni di mutazioni non possono essere riprodotte in esperimenti controllati in laboratorio.
La terza questione riguarda la scienza stessa, strutturalmente incapace di rispondere a questioni filosofiche del tipo: da dove viene e dove sta andando l’universo, da dove viene e dove sta andando l’uomo. Per dare risposte a questi quesiti, sostiene Benedetto XVI, occorre una razionalità che include la scienza, ma che va oltre la scienza.
Questo pensiero è stato più volte espresso dal Papa, ma ha preso la forma compiuta del libro in seguito al discorso tenuto in un seminario chiuso e, finora, segreto su “creazione ed evoluzione” che si è svolto a Roma lo scorso mese di settembre, nell’ambito dei tradizionali incontri del «Circolo degli allievi del professor Joseph Ratzinger».
Le tre questioni sollevate dal Benedetto XVI sono tutte legittime. Ma, come dicevamo, sono tutte piuttosto discutibili. Il Papa ha diritto di dire ciò che vuole. Ma, soprattutto in materia di filosofia naturale, tutti hanno diritto di discutere ciò che il Papa dice.
Prima questione: è vero che la scienza non ha, finora, fornito una spiegazione esaustiva su quello che il biologo darwiniano Theodosius Dobzhanski definiva il primo e più grande “trascendimento evolutivo”: la transizione dal non vivente al vivente. E neppure ha fornito, finora, una spiegazione esaustiva su quell’altro straordinario “trascendimento evolutivo” che è la transizione dal nulla a qualcosa, che è la nascita dell'universo. Ma è anche vero entrambi questi processi non sono affatto “oltre la scienza”, ma al contrario sono oggetto di ricerca da parte degli scienziati. D’altra parte non c’è spiegazione scientifica possibile se non in un quadro naturalistico: l'opzione della creazione divina non può che essere proposta che come atto di fede. Inoltre, non è affatto vero che all’origine della vita e dell’universo, secondo la scienza, ci sia solo il “caso”. Le spiegazioni cercate intorno all’origine dell’universo sono tutte interne ai vincoli non deterministici, ma non per questo completamente aleatori, della fisica quantistica. Le spiegazioni cercate intorno all’origine della vita sono tutte interne ai vincoli stocastici, ma ancora una volta non completamente aleatori, della chimica e della biologia.
Quanto alla seconda questione posta dal Papa, ovvero che la teoria dell’evoluzione biologica di Darwin non è completamente dimostrata né completamente dimostrabile, è ancor più opinabile. Per molti motivi. Una teoria scientifica non è che il modo più economico e logicamente solido per spiegare i fatti noti intorno alla realtà naturale. Può succedere che esistano più modi economici di spiegare i medesimi fatti noti. Ovvero più teorie scientifiche. È successo persino in fisica. Per esempio quando, tra il 1916 e il 1919, esistevano due teorie - quella di Newton e quella di Einstein - per spiegare i medesimi fatti noti sulla gravitazione universale. Poi nel 1919 gli scienziati si sono imbattuti in un fatto nuovo - una certa deviazione della luce di una stella lontana da parte del campo gravitazionale del Sole - che trovava una spiegazione nella teoria di Einstein e non in quella di Newton. Per questo, da allora, la teoria più generale è quella della relatività einsteiniana.
Da molti decenni a questa parte esiste nell’agone scientifico una sola teoria economica in grado di spiegare tutti i fatti noti dell'evoluzione biologica. Questa teoria è corroborata, per usare un termine caro a Karl Popper, da un numero semplicemente enorme di evidenze empiriche indipendenti prodotte in discipline le più diverse: dalla paleontologia alla biologia molecolare. D'altra parte nessun fatto empirico noto è stato finora in grado di falsificare, per usare un altro concetto caro a Popper, la teoria di Darwin. Mentre tutte le altre teorie contrapposte a quella darwiniana o risultano meno economiche o sono state falsificate. È vero che, come sostiene papa Ratzinger, la storia evolutiva della vita non può essere ripetuta in laboratorio, e quindi la teoria di Darwin non può essere tutta verificata mediante esperimenti controllati, come avviene in fisica. Ma, come hanno dimostrato Ernst Mayr e una costellazione di filosofi della biologia, questo non significa affatto che la biologia non sia una scienza. E che le teorie biologiche non siano teorie compiutamente scientifiche.
Anche la terza questione sollevata da Benedetto XVI è discutibile. La scienza non ha pretesa alcuna di completezza. Ma pretende che nessun ambito sia precluso alla ricerca. In particolare non possono essere preclusi alla ricerca scientifica neppure quegli ambiti - da dove vengono e dove vanno l'uomo e l'universo - che Joseph Ratzinger pretende esclusivi della filosofia e della teologia: ovvero esclusivi di una ragione che non pretende una verifica empirica. La scienza vuole dire la sua - e sta dicendo la sua - anche in questi ambiti.
E, facendo ciò, per la verità allarga gli orizzonti, non li restringe affatto. Quale sarebbe oggi l’immagine che l’uomo ha di se stesso e dell’universo che lo circonda senza i fatti, le teorie o anche solo le ipotesi proposte dalla scienza in questi ultimi quattro secoli intorno sia all'origine dell'uomo e del mondo sia alla loro evoluzione?
E cosa sarebbe dell’immagine che l’uomo ha di se stesso e dell’universo che lo circonda se la ricerca della verità si limitasse, come ai temi prima di Galileo, a costruzioni logiche sopra «un mondo di carte» invece che a «certe dimostrazioni» verificate da «sensate esperienze»?
Già, Galileo. Nel 1616 il cardinale Roberto Bellarmino consigliò al pioniere della scienza moderna di limitarsi a spiegare «come vada il cielo» e di non cercare di spiegare «come si vada in cielo». Naturalmente vale anche il contrario. Se vogliamo che i rapporti tra scienza e religione non diventino conflittuali, ma siano improntati al reciproco rispetto, è bene che i religiosi si limitino a spiegare «come si vada in cielo» e non cerchino di spiegare agli scienziati «come vada il cielo». Lo stesso Bellarmino venne meno al suo saggio consiglio sulla separazione delle sfere d'intervento. E ne nacque un conflitto tra scienza e religione (cattolica) che a quattrocento anni di distanza non sembra essere stato ancora sanato.

l’Unità 13.4.07
PARTITO DEMOCRATICO
Si riaccende la polemica sul «Manifesto»
«Si corregga la parte sulle radici cristiane»


ROMA Da molti mesi è noto a tutti, ma ad una settimana dai congressi Ds e Dl, scoppia una piccola grana sul Manifesto del Partito Democratico. Quel riferimento alle «radici più profonde nel cristianesimo e nell'illuminismo» dei valori a cui si ispira il partito nuovo non va giù a ebrei e islamici. A sollevare il problema alcune personalità del mondo ebraico, tra i quali l'ex presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto, che chiedono di ritoccare il Manifesto, eliminando il passaggio. Ma il riferimento alle radici cristiane non piace neanche al deputato dei Dl Allam Khaled Fouad. «Il Cristianesimo e l'Illuminismo - afferma il deputato Ds Emanuele Fiano, esponente della comunità ebraica romana - sono le uniche radici culturali citate. Di certo su questo tema dovrà essere aperto un dibattito approfondito che rivolga lo sguardo avanti, verso l'Europa, e che eviti di circoscrivere al passato la definizione di ciò che sarà il nostro futuro Partito, per evitare di rimanere prigionieri di differenze che già ci hanno divisi». Fiano si dice «come ebreo di sinistra profondamente convinto della necessità del Partito Democratico, e come fondatore insieme a Piero Fassino e Furio Colombo di Sinistra per Israele, associazione nata proprio per correggere i pregiudizi e gli errori della sinistra italiana nei confronti di Israele e della questione ebraica, mi batterò per una correzione di quel passaggio». Secondo il deputato Ds, «nel nuovo testo dovremo scegliere se far coesistere le diverse radici culturali di ognuno di noi, oppure se farle scomparire tutte per far posto ad una più laica visione rivolta a nuove identità comuni. Ma resta inteso che comunque ogni contributo su questo tema sarà il benvenuto». Il passaggio va corretto anche per Fouad. «Un manifesto di un partito - osserva Fouad - è un manifesto di partito ma forse di fronte ad una società multietnica mi pare una mancanza non citare l'universalità delle culture». Il deputato di origine algerina ricorda di «aver già avanzato la critica».

l’Unità 13.4.07
CARCERE
Dopo l’indulto scende il numero di chi
muore dietro le sbarre, il 60% in meno
di Davide Madeddu


Dopo l’indulto e lo sfollamento delle carceri diminuisce il numero dei morti dietro le sbarre. A fare un bilancio paragonando i dati relativi ai primi cento giorni del 2007 con quelli del 2006 è l’associazione «Ristretti orizzonti», che registra un calo del 60%. Nei primi 100 giorni del 2006 sono morti 24 detenuti, di cui 15 per suicidio, nei primi cento giorni del 2007 invece 10 morti, di cui due per suicidio. «Tra i dati del 2006 e quelli del 2007 c’è di mezzo l’indulto» dice «Ristretti Orizzonti». Il dato dell’ultimo anno è comunque il più basso anche rispetto a quelli registrati i primi cento giorni degli anni passati. Nel 2005 si erano registrati 13 suicidi, nello stesso periodo dell’anno precedente i suicidi sono stati 5, nel primo trimestre del 2003 si arriva a 9, 13 invece nei primi cento giorni del 2002.

l’Unità 13.4.07
Shoah e Pio XII
È polemica Israele-Vaticano
Il nunzio apostolico non andrà alla commemorazione per protesta
contro il giudizio su Pacelli: non fu ambiguo sull’Olocausto
di Umberto De Giovannangeli


PIO XII torna a dividere Vaticano e Israele. E su un tema cruciale, scottante: il ruolo che il Papa Pacelli ebbe durante la Shoah. Per una controversa didascalia su una foto di Pio XII, il Nunzio apostolico in Israele, Monsignor Antonio Franco, non parteciperà alla cerimonia di commemorazione delle vittime della Shoah, che si terrà la prossima settimana allo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto a Gerusalemme, in presenza dell’intero corpo diplomatico. L’immagine, con relativa didascalia, di Pio XII è riprodotta fra le personalità che hanno avuto un ruolo ambiguo durante le persecuzioni contro gli ebrei nella Seconda guerra mondiale.
Nella didascalia, della quale il Vaticano chiede la rimozione o almeno una modifica, si afferma che «la reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto è controversa». Nel ricordare la figura del pontefice si afferma che quando fu eletto nel 1939 egli «accantonò un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo preparata dal suo predecessore», che «non reagì alle notizie sull’uccisione degli ebrei con proteste scritte o verbali», che nel dicembre del 1942 non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei e che «non intervenne nemmeno per fermare la deportazione degli ebrei di Roma». «Mi fa male andare allo Yad Vashem e vedere Pio XII così rappresentato. Forse si potrebbe togliere la foto o cambiare la didascalia», afferma il Nunzio che si dice «sorpreso» del modo in cui è stato pubblicizzato il contenuto di una lettera «privata» che egli aveva inviato alla direzione del museo. «Certamente il Papa - dice - non può essere messo in mezzo a uomini che dovrebbero vergognarsi per quanto compiuto contro gli ebrei. Pio XII non dovrebbe vergognarsi per tutto quello che ha fatto per la salvezza degli ebrei, messo in risalto dalle fonti storiche». Nel contesto in cui è stata inserita, la foto di Pio XII «offende tutta la Chiesa cattolica». Monsignor Franco al tempo stesso ha tenuto a precisare che «la mia assenza alla cerimonia non significa mancanza di rispetto per il ricordo e le vittime di questa tragedia». «Ho scritto una lettera al direttorato dello Yad Vashem - ricostruisce il Nunzio - spiegando che già l’anno scorso avevamo fatto presente la nostra difficoltà per la foto con didascalia di Pio XII presente nel memoriale». «Nella risposta alla mia lettera che vedo oggi (ieri, ndr. su alcuni giornali israeliani - prosegue Mons. Franco - si dice che non si può cambiare la verità storica. I fatti non si possono cambiare ma di questi si è data un’interpretazione contraria anche a molte altre verità storiche e soprattutto a tutta un’altra storiografia che interpreta in altro modo».
La risposta di Israele è durissima. Lo Yad Vashem si dice «sconvolto e deluso per il fatto che il delegato del Vaticano in Israele abbia scelto di non rispettare la memoria dell’Olocausto e di non partecipare a una cerimonia ufficiale con la quale lo Stato di Israele e la nazione ebraica si uniscono nel ricordo delle vittime». «Lo Yad Vashem - si afferma - si dedica alla ricerca storica e il museo dell’Olocausto presenta la verità storica sul Papa Pio XII così come è nota agli studiosi di oggi. Lo Yad Vashem ha detto al rappresentante vaticano in Israele che è disposto a continuare a esaminare la questione e ha osservato che, se gli sarà consentito l’accesso, sarà lieto di esaminare gli archivi vaticani dell’epoca di Papa Pio XII eventualmente per apprendere informazioni nuove e diverse da quanto è oggi noto». Sulla vicenda prende posizione anche la ministra degli Esteri israeliana Tzipi Livni. «La cerimonia allo Yad Vashem - dichiara - ha il fine di onorare la memoria delle vittime della Shoah, l’evento più traumatico nella storia degli ebrei e tra i più traumatici nella storia dell’umanità. Circa la partecipazione a questa cerimonia - taglia corto Livni - ognuno si comporti come la sua coscienza suggerisce».

l’Unità 13.4.07
MUSICA Un cd, con vita parallela sul web, e tour italiano della cantautrice: «Mi piace Hillary»
Tori Amos, la cantante che sfida Bush e il Papa
di Diego Perugini


Con Tori Amos certo non si cade mai nella banalità. Perché la cantautrice americana è artista inquieta e creativa, che nel corso della carriera ha più volte stupito e intrigato i fan con scelte originali e controcorrente. E anche stavolta non delude. Il suo nuovo cd, American Doll Posse, che uscirà il 27 aprile, la vede addirittura interpretare cinque personaggi diversi. Si chiamano Isabel, Clyde, Pip, Santa e Tori, e rappresentano cinque donne dal carattere e la sensibilità ben distinti.
«Le canzoni uscivano con strutture musicali differenti e non capivo perché: era come se cinque voci femminili chiedessero di esprimersi – ricorda Tori - Allora mi sono ispirata alla mitologia greca per parlare di un concetto a me caro, quello delle mille sfaccettature di noi donne. In aperto contrasto con tanti anni di stereotipi dettati dal Cristianesimo, che ci divideva in madri sante od oggetti sessuali». Un disco femminista? Lei preferisce «emancipazione femminile». Comunque sia, un album non facilissimo da approcciare: 23 canzoni, oltre 70 minuti di musica, testi complessi e sonorità variegate (ballate riflessive, momenti pop, atmosfere drammatiche e altre più scanzonate e sensuali) che ben esprimono i diversi caratteri delle cinque signore. Che, per inciso, avranno vita parallela sul web ed entreranno anche negli imminenti live della cantante.
Il disco si apre con Yo George, mini-invettiva pianoforte e voce contro Bush e la sua politica. «Ma lui è solo la propaggine dell’estrema destra cattolica americana - interviene la cantautrice - una lobby potente che dobbiamo combattere non con la violenza, ma con la memoria di chi siamo. Mi piace Hillary Clinton, sa il fatto suo, ma non voglio fare propaganda o dire alla gente chi votare. Cerco, però, di scuotere le coscienze e svegliare queste nuove generazioni che mi sembrano troppo concentrate su se stesse».
Dal vivo promette scintille e spettacoli mai uguali. Ogni sera ci saranno due atti, uno con la Tori che conosciamo e i suoi classici, e l’altro con una delle quattro «signore». La scelta dipenderà da umore e stato d’animo. Il debutto del tour sarà proprio dall’Italia, a fine maggio: il 28 al Sistina di Roma, il 30 al Verdi di Firenze e il 31 allo Smeraldo di Milano. «Sarà bello partire da Roma, manderò degli inviti in Vaticano. Anche al Papa: credo dovrebbe vedere questa grande comunione femminile».

l’Unità 13.4.07
Dio la benedica signor Vonnegut
di Rocco Carbone


È MORTO martedì notte, all’età di 84 anni, il grande scrittore americano, autore di Mattatoio n.5 e La colazione dei campioni. Romanziere, poeta, saggista e polemista è stato un idolo letterario e un’icona irriverente della controcultura americana

Non so voi, ma io pratico una religione disorganizzata.
Appartengo a un empio disordine. Ci chiamiamo «Nostra Signora della Perpetua Meraviglia»
Kurt Vonnegut. «Un uomo senza patria»

Sarebbe troppo semplice dire che con Kurt Vonnegut scompare uno dei più importanti autori di science-fiction della seconda metà del secolo scorso, anche se è attorno a questa definizione che si gioca buona parte del suo apprendistato letterario e della sua stessa, lunga attività di scrittore. Il fatto è che per Vonnegut l’adesione a un universo di rappresentazione fortemente dominato dall’evenienza fantastica non ha mai, o quasi mai coinciso con la scelta di un genere definito. I suoi romanzi, da quello d’esordio, del 1952, Distruggete le macchine, alle opere più tarde, come Galapagos o Cronosisma, hanno sempre intrattenuto, con quel genere, un atteggiamento per così dire interlocutorio, dove sotto gli abiti della fantascienza si è sempre celato un atteggiamento di distacco, e insieme di ostinata ricerca di un rapporto privilegiato con il pubblico. Accade spesso, nei romanzi dello scrittore di Indianapolis, di trovare un narratore che a un certo punto esce fuori allo scoperto rivelando alcuni connotati che rimandano direttamente all’identità dell’autore. Anche per questo Vonnegut non è autore di genere. Perché sia tale, dovrebbe manifestare, nei confronti del modello narrativo prescelto, una sorta di fedeltà che nell’autore di Ghiaccio-Nove è sempre latitante, se non assente del tutto. Al contrario, c’è in questo scrittore un atteggiamento strumentale nei confronti della stessa forma del romanzo. Esso viene accettato come un contenitore vuoto, all’interno del quale disporre a proprio piacimento le proprie predilezioni e ossessioni.
Può forse sembrare strano che in un autore così votato all’ironia e all’understatement tali predilezioni si orientino in buona parte attorno alla parola «morte» e a tutto ciò che inevitabilmente la circonda. Eppure, oltre che di una scelta di argomento, si tratta di qualcosa che appartiene alla stessa biografia dello scrittore, dal suicidio della madre, quando lui aveva ventidue anni, proprio il giorno della mamma, alla sua esperienza di soldato durante la seconda guerra mondiale e di prigioniero dei tedeschi a Dresda, dove assiste al bombardamento americano che causò 135.000 vittime e la pressoché totale distruzione della città. Il giovane Vonnegut fu uno tra i sette soldati americani sopravvissuti al bombardamento (si salvò trovando riparo in un rifugio ricavato da un magazzino sotterraneo per la carne, chiamato, guarda caso, Mattatoio n. 5), e con i suoi compagni dovette occuparsi del compito di rimuovere i cadaveri dei civili, compito quasi impossibile vista la loro entità numerica. E poi ancora la morte prematura della sorella e la conseguente adozione dei suoi tre figli, e il tentativo di suicidio nel 1985, fino ad arrivare all’incendio di casa sua a Manhattan, nel 2000, quando si salvò per miracolo dalle fiamme causate da una sigaretta lasciata accesa. Ma non è tanto l’aspetto biografico a essere dominante, quanto la vera e propria messa in scena che di esso viene allestita sulla pagina. Nei romanzi più celebri di Vonnegut, da Mattatoio n. 5 a Ghiaccio-nove a Dio la benedica, Mr. Rosewater, la morte, sia essa quella di persone care o di lontani sconosciuti, accada nel proprio letto o in circostanze estreme e quasi inverosimili, è l’elemento che nella narrativa dello scrittore americano fa scattare il distacco ironico, onnipresente nelle sue opere. Un distacco che agisce principalmente in funzione di quel rapporto privilegiato con il lettore a cui accennavo prima, e che è reso possibile a partire da una presunta e voluta identità tra il narratore e l’autore stesso. Insomma, quando Kurt Vonnegut appare sulla pagina, presentandosi con i propri connotati e destituendo il narratore della sua identità altra e fittizia, è per disorientare il lettore, che si era già affezionato all’evolversi di questa o di quella vicenda, magari fantastica. Per riportarlo, diciamo così, con i piedi per terra, e ricondurlo, come un vecchio amico, ai problemi e alle incombenze di ogni giorno, di una vita sempre comune.
Per quanto possa sembrare paradossale per un autore di molti romanzi di fantascienza, per Vonnegut conta sempre e soprattutto il presente, da osservare, discutere, criticare, dissacrare. È per questo che nelle opere di Vonnegut, e non solo in quelle di non-fiction, è spesso presente un elemento saggistico, di quella che, un tempo, si sarebbe chiamata critica sociale. Un atteggiamento necessariamente ironico, che tocca spesso i temi della politica (fino ad arrivare alle recenti durissime critiche all’amministrazione George W. Bush) ma anche quelli di una morale quotidiana, del buon senso comunemente inteso.
C’è stato un momento in cui Kurt Vonnegut si è trovato molto vicino ad abbandonare definitivamente la scrittura e a cambiare davvero mestiere. Risale agli anni ’60, quando dallo stato di New York, dove lavorava per la General Electric nel campo delle relazioni pubbliche si trasferì nel midwest, ad Iowa City, accettando un lavoro al prestigioso Creative Workshop dell’Università locale. Più volte, in seguito, ha raccontato di come gli anni trascorsi in quella campus town piuttosto sperduta in mezzo all’America, tra campi di granoturco e allevamenti di bovini, siano stati importanti per la sua carriera e di come il suo contatto con gli studenti lo abbia aiutato a sollevarsi da una condizione di aridità creativa, se non di aperta sfiducia nei confronti delle proprie capacità di scrittore. Sta di fatto che proprio ad Iowa City ha iniziato a scrivere quello che sarebbe diventato il suo romanzo più venduto e più famoso, Mattatoio n. 5, e che proprio a partire da allora la sua vita di autore sarebbe cambiata, rendendolo nel giro di poco tempo uno scrittore di culto. Chi scrive ha avuto il privilegio di conoscerlo proprio in quella città, molti anni dopo. Era la fine dell’estate del 2001, poco prima dell’undici settembre, e mi trovavo là con un incarico di writer in residence all’università, assieme ad altri scrittori stranieri. Un giorno vengo a sapere che Vonnegut è in città, e che incontrerà gli studenti del creative workshop. Vengo invitato ad assistere, e così mi ritrovo in una saletta gremita di ragazzi. Poco dopo entra Vonnegut. La prima cosa che fa è tirar fuori da una tasca della giacca un portacenere, preso chissà dove (inutile dire quanto fosse vietato fumare ovunque in quella città) e un pacchetto di sigarette (rigorosamente Pall Mall senza filtro). Poi si siede, si guarda attorno e dice ad alta voce: «C’è ancora qualche vergine qui?». Nessuno risponde. Inizia l’incontro, con domande troppo compite fatte da studenti troppo perbene, alle quali lo scrittore risponde con una certa insofferenza. Alla fine dell’incontro torno nella mia stanza d’albergo ed esco poco dopo per andare a correre un po’. Su una panchina incontro di nuovo Vonnegut, e non mi lascio perdere l’occasione. Mi presento, ci stringiamo la mano, gli dico chi sono e che cosa ci faccio lì. Lui mi guarda e mi dice «Vada via al più presto. È la Cia che la paga!». Dio la benedica, Signor Vonnegut.

Repubblica 13.4.07
L'aborto e l'obiezione "Nel Veneto cattolico dove la donna è sola"
di Concita De Gregorio


Interrompere la gravidanza è difficilissimo, i tempi d´attesa i più lunghi dopo la Basilicata
Molte ragazze usano un farmaco per l´ulcera, il Cytotec, per causare l´interruzione di gravidanza
ginecologa Aspettare sei settimane, per chi si è accorta di essere incinta alla quinta o alla sesta, è un´esperienza terribile
interventi In ospedale ero diventata "quella che", il medico addetto: facevo anche sei o otto interventi a settimana
imprenditrice Impedire una buona applicazione della legge 194 vuol dire essere abortisti, e anche senza scrupoli
movimenti Nei consultori ci sono già, ma perché dovrebbero arrivare sino alla sala operatoria? Per creare sensi di colpa?

PADOVA - Il Cytotec è una pastiglia bianca esagonale grande un centimetro. Se non l´avete mai sentita nominare è perché non avete mai avuto bisogno di interrompere una gravidanza senza dirlo a nessuno, perché non avete cercato su Internet come farlo e perché non abitate in Veneto. Le ragazze venete sono grandi consumatrici di Cytotec. L´altra settimana in provincia di Padova è arrivata in consultorio una giovane donna di ventuno anni: emorragia in corso da 13 giorni, aveva ingerito sei pasticche quando - spiegano i siti dedicati - per abortire ne bastano quattro. Il Cytotec è un farmaco per l´ulcera. Se assunto in dosi massicce può provocare l´aborto, è vero, ma anche lacerazioni dell´utero, conseguente emorragia e morte. «Capisce perché impedire una buona applicazione della 194 vuol dire essere abortisti, in realtà, e anche senza scrupoli? - domanda Regina Bertipaglia, imprenditrice madre di tre figli e consigliere regionale di Forza Italia - Qui in Veneto interrompere la gravidanza è difficilissimo, i medici sono tutti obiettori, gli ospedali ti fanno aspettare fino al tempo massimo consentito. La cultura dominante, cattolica, condanna l´aborto e dunque le donne si arrangiano. Vanno altrove, prendono pasticche».
Il caso del Veneto è da manuale, ci si fanno convegni. Una delle regioni più ricche d´Italia, modelli di sviluppo all´avanguardia: nel campo dell´impresa, come tutti sanno, in quello scolastico e anche in quello sanitario. Altissimo tasso di immigrazione: quasi il 7 per cento di popolazione straniera, soprattutto donne, soprattutto dall´Est. Dove ci sono soldi c´è lavoro, per quanto clandestino. Le immigrate ricorrono all´interruzione di gravidanza tre e anche quattro volte più delle italiane (lo si è visto nella prima parte di questa inchiesta). Tuttavia in Veneto si abortisce meno che nel resto d´Italia: come mai? Non dipende da una maggiore conoscenza dei metodi anticoncezionali né da una più alta propensione alla maternità, no. E´ solo più difficile. In Veneto i ginecologi obiettori di coscienza sono l´80,5: otto su dieci, dato in crescita. Paolo Piergentili, direttore del distretto del litorale, assicura: «Nel Veneto rurale, nel Veneto profondo» si arriva anche al 98 per cento. La regione è al secondo posto in Italia per obiezione dopo la Basilicata. In moltissimi ospedali c´è un solo medico che pratica ivg, in alcuni nessuno: per rispettare la legge, che vuole sia assicurato il servizio, deve essere chiamato da fuori una volta ogni tanto un professionista pagato a prestazione. Nessuna delle moltissime strutture sanitarie private convenzionate pratica questo tipo di intervento: il dato è zero, nessuna. E´ inoltre la regione col più lungo tempo di attesa fra certificazione e intervento: il 34, 8 per cento delle donne che ha ottenuto l´attestazione necessaria ad abortire deve aspettare in media più di tre settimane con punte di sei. Un mese e mezzo in fila. Di conseguenza è la regione con la media più alta in Italia di aborti praticati tardi, in scadenza del limite (a ridosso della tredicesima settimana): circostanza che comporta - senza contare il danno psicologico per le donne, volendo restare al mero dato di spesa - un prolungamento medio dei tempi di ricovero, una più alta percentuale di complicazioni post-operatorie quindi un costo maggiore per la collettività. Una migrazione abortiva, anche: tredici donne venete su cento vanno ad abortire in Emilia, a Trento, a Bolzano.
Anny Tormene, ginecologa di consultorio con 25 anni di attività ospedaliera alle spalle in provincia di Padova: «L´attesa di sei settimane non fa notizia perché per un´ernia si può aspettare anche 4 mesi, anzi abbassa la media nei grafici. Ma per una donna che ha deciso di abortire in quinta o sesta settimana, quando si è accorta di essere incinta, arrivare in tredicesima è terribile. Finisce che se puoi cerchi altrove, altri modi, te ne vai». Dell´obiezione dice: «In ospedale ero sola. Facevo anche sei otto interventi a settimana. Diventi ‘quello che´, il medico addetto. Tra gli obiettori ci sono convinzioni, certo, ma anche convenienze: poi c´è l´abitudine. Qui per non essere obiettore devi rompere una tradizione, devi proprio volerlo fare, devi avere la certezza civile che sia tuo dovere offrire un servizio a chi è in difficoltà». Aggiunge Francesco Giorgino, presidente dell´Associazione ginecologi extraospedalieri (Ageo) di Padova e «ginecologo di comunità» attivo nei consultori, che «per dire le cose come stanno praticare Ivg non dà prestigio, non offre vantaggi, anzi. C´è senz´altro un´altissima percentuale di obiettori convinti ma è altrettanto sicuro che i non obiettori lavorano da noi in condizioni non invidiabili né invidiate». Ora che la «Pontificia accademia della vita» ha esortato i medici - a nome del Papa - a non praticare interruzioni il clima quassù si è fatto anche più difficile.
Il professor Paolo Benciolini ha 72 anni, insegna Medicina legale all´università di Padova, è cattolico. Da quarant´anni lavora ed è oggi presidente di uno dei primi consultori aperti in Italia sull´esempio di quello fondato da don Paolo Liggeri a Milano, «la Casa»: era il 1946, la Casa il primo consultorio familiare italiano. Dice che «anche dal punto di vista di un cattolico, soprattutto da questo punto di vista l´imperativo etico è quello di mettere le persone nelle migliori condizioni di vita possibili: perciò informare, assistere, aiutare nella decisione ma lasciare poi a ciascuno la libertà di determinare la sua scelta. Non prevaricare, accogliere e fornire sostegno, comprendere». E´ scritto nella Costituzione, osserva il professore, «partire per le Crociate quando si tratta della salute delle persone, della loro vita intima è davvero un errore».
A proposito di Crociate c´è da due anni in corso, in Regione, una battaglia per l´approvazione del progetto di legge di iniziativa popolare che vuole portare i volontari dei Movimenti per la vita «dentro i consultori, nei reparti di ginecologia ed ostetricia, nelle sale d´aspetto e negli atri degli ospedali». E´ la legge 3 del 2005, ancora ferma in discussione. Lo scopo, si legge in premessa, è quello di dare «informazioni che potrebbero salvare molti bambini e mamme». Il sostegno politico è trasversale, oltre alla destra una parte della Margherita a favore. L´opposizione anche. Regina Bertipaglia ha una ditta con 50 dipendenti a Piove di Sacco, accessori per abbigliamento. Tre figli di cui uno adottivo. Il presidente Galan l´ha messa nel listino bloccato di Forza Italia, l´ha voluta lui in consiglio regionale. Con Elisabetta Gardini, padovana come lei e portavoce del partito, si è scontrata più d´una volta. Su questa questione dei Movimenti per la vita negli ospedali soprattutto. «Io dico che quando una donna arriva in ospedale è tardi per intervenire, vuol dire non credere nell´attività dei consultori. Cosa vai a fare fuori dalla sala operatoria, a dirle che commette peccato, che deve sentirsi in colpa? I movimenti sono già presenti nei consultori, sono in contatto ed è previsto dalla legge 194 che sia così: è lì che serve. Quando una donna decide di tenere il figlio loro intervengono e aiutano. Il problema è dopo. Assistere anche dopo. Io ho sempre dato aiuti alle donne che decidono di non abortire, ho messo a disposizione fondi per pagare affitti, offrire cure. Però la prevaricazione mi dà fastidio, l´eccesso di zelo confina con il suo contrario. Finisce che vince la cultura della colpa e ne vedo tante di figlie di buona famiglia, famiglie cattoliche certo, che vanno ad abortire fuori regione o di nascosto. Oppure, anche peggio, che si prendono il Cytotec». Il Cytotec fa male, fa anche morire. Allora meglio prendere un treno per Reggio, piuttosto.

Repubblica 13.4.07
"Ricordo una Chiesa compagna dell'umanità"
Vendola: ho nostalgia del Concilio Vaticano II


BARI - Il governatore pugliese, Nichi Vendola (Prc) torna a essere critico nei confronti delle gerarchie della Chiesa cattolica. «Ho nostalgia del Concilio vaticano II, di una Chiesa che incontra la storia non per bastonarla, certo anche per indirizzarla, educarla e accompagnarla, ma con la carezza di Dio e non con la sferza del dogma e della dottrina», ha detto ieri intervenendo alla presentazione del libro "Il posto dei cattolici", scritto dal senatore della Margherita, Luigi Bobba. Aggiungendo, sul Family day: «La famiglia non ha una sua ascendente evangelica, i Vangeli sono pieni di parole sferzanti nei confronti del familismo. Fare una grande manifestazione, non so se è il modo più utile per promuovere la famiglia come vincolo di amore».

Repubblica 13.4.07
Etero o gay, la scelta non è libera "Un gene decide il gusto sessuale"
Dalle ricerche emerge che il desiderio è guidato da un "programma"
di Luigi Bignami


ROMA - Quando si parla di «desiderio» sessuale bisogna sapere che la scelta che ognuno fa non è poi così libera come si pensa, ma è guidata da un «programma» ben preciso definito dal cervello. Sempre più ricerche, infatti, dimostrano che gli uomini eterosessuali possiedono circuiti neurali che li spingono a cercare nelle donne il loro appagamento del desiderio, mentre nei gay tali circuiti sarebbero diversi. I cervelli delle donne invece, sembrano essere organizzati soprattutto per cercare uomini che, almeno apparentemente, sappiano provvedere a loro ed ai loro figli. Stando alle ultime ricerche mentre - riassunte in un articolo apparso sul New York Times - un uomo nasce con un indirizzo sessuale ben definito, nelle donne questo lo è di meno e succede spesso che l´indirizzo lesbico si manifesti in età adulta. Il cervello dunque, risulta essere un «organo sessuale» davvero importante anche se esso si comporta in modo assai diverso negli uomini e nelle donne.
Spiega Larry Cahill dell´Università della California che ha pubblicato una ricerca sull´argomento su Nature Reviews Neuroscience: «Che il cervello nei due sessi abbia comportamenti diversi è un dato di fatto, anche se va contro il senso comune. Le aree della corteccia, ad esempio, la parte del cervello che lavora per le elaborazioni di più alto livello, sono più spesse nelle donne. L´ippocampo, dove vi sono le basi della memoria occupa una frazione più grande nel cervello femminile».
Una differenza notevole è poi il fatto che il cervello degli uomini è, in linea di principio, orientato sessualmente verso le donne. La prova più diretta giunge dai casi di incidenti durante le circoncisioni, in cui i bambini che hanno perso il pene e sono stati allevati come femmine, nonostante un forte incitamento sociale a comportarsi come tali, da adulti mostrano un desiderio sessuale diretto alle donne e non agli uomini. «Se non si riesce a far si che un maschio senza pene per tutta la vita sia attratto dai maschi, quali altre condizioni psicosociali potrebbero indirizzare un maschio ad essere gay?», sottolinea Michael Bailey, esperto di orientamento sessuale alla Northwestern University (Usa). E dunque chi lo orienta verso questa scelta? È presumibile che la mascolinizzazione del cervello che avviene ad opera di un gene noto come SRY ancora in fase fetale, plasmi alcuni circuiti neurali che fanno si che gli uomini desiderino le donne. Se così è, questi circuiti sono collegati in modo diverso nei gay.
Ma chi induce questa diversità? Secondo Bailey vi deve essere un indirizzo genetico. Ed è la prova-gemelli che lo dimostrerebbe. I gemelli monovulari sono spesso al centro delle ricerche sull´ereditarietà perché possiedono un patrimonio genetico identico e quindi eventuali differenze di comportamento sessuale tra un gemello e l´altro non dovrebbe derivare da un´origine genetica. Basandosi su questa considerazione Bailey ha condotto ripetute ricerche e stando ai risultati, se un gemello monovulare risulta omosessuale, nel 52% dei casi lo è anche l´altro. La percentuale scende al 22% nel caso di gemelli biovulari, cioè con caratteristiche cromosomiche leggermente diverse.

Repubblica 13.4.07
La sbronza del sabato sera bevono 7 ragazzi su dieci
Alcol tra i giovanissimi fenomeno in crescita allarmante
di Mario Reggio


ROMA - Aumentano i ragazzi tra gli 11 e 15 anni che bevono abitualmente. E due giovani su dieci si ubriacano il sabato sera. Un fenomeno allarmante ed in continua crescita. Questi alcuni dei dati diffusi dall´Istat e dall´Istituto Superiore di Sanità in occasione dell´Alcol Prevention Day 2007. Dalla ricerca emerge con chiarezza la fine del "modello mediterraneo": si beve solo durante i pasti. Per contrastare il dilagare delle sostanze alcoliche il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, ha annunciato la presentazione di un disegno di legge che limiterà la pubblicità dei prodotti.
«Il dato più preoccupante riguarda i giovanissimi - commenta Emanuele Scafato, direttore dell´Osservatorio Alcol dell´Istituto Superiore di Sanità - anche perché sotto i 15 anni l´organismo non è in grado di metabolizzare l´alcol, per cui gli effetti tossici sull´organismo sono amplificati. Inoltre - conclude - si stanno diffondendo dei modi di bere completamente diversi da quello mediterraneo e molto pericolosi. È necessaria una contro-pubblicità per evitare che l´alcol venga associato ad un´immagine positiva».
Per quanto riguarda la mortalità, secondo l´Oms sono 25mila, 17mila uomini e 7mila donne, i decessi causati dall´alcol in Italia, circa il 10 per cento delle cause di morte.
«C´è una sottovalutazione dei problemi legati all´alcol - ha detto commentando i dati il ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero - è necessario rompere il luogo comune che lega il consumo e la capacità di costruire relazioni. Per questo abbiamo pensato a un disegno di legge che limiti la pubblicità degli alcolici». Obiettivo del ddl, ha spiegato Ferrero «è vietare la pubblicità degli alcolici che fa riferimento al legame tra uso di sostanze alcoliche e successo della persona». E´ invece consentito dare in tv informazioni sull´esistenza di un prodotto alcolico e sulle sue caratteristiche. «L´idea - ha aggiunto il ministro - è riportare la pubblicità degli alcolici al puro elemento informativo». I limiti alla pubblicità riguardano le bevande con contenuto di alcol superiore a 1,2 gradi, e il provvedimento prevederà anche la presenza di scritte sulle etichette che informino sui rischi dell´abuso di alcol.
L´iniziativa del ministro Ferrero, è «encomiabile» ma «non è l´unica» e «non sarà l´ultima». «E´ successo già altre volte» ed il problema è «che provvedimenti così non sono mai passati» e «non passeranno mai». Il presidente degli Alcolisti Anonimi, Maurizio M., parla con «realistico pessimismo» dell´iniziativa annunciata dal ministro della Solidarietà Sociale. «Ripeto - spiega - l´iniziativa è lodevole, importante, ma non credo che il provvedimento avrà il via libera. L´Italia è uno dei maggiori produttori di vini, già vedo l´alzata di scudi delle lobby delle vigne». Comunque il quadro italiano è meno allarmante rispetto a quello degli altri paesi europei, ma ci sono alcuni fenomeni preoccupanti di cui tenere conto. Secondo le statistiche Eurostat, il nostro paese è al penultimo posto per la diffusione degli alcolici tra i minori di 16 anni.

Repubblica 13.4.07
Batrawy venne incendiata dai nemici. I resti delle mura di cinta su una rupe alla periferia di Zarqa
Giordania, scoperta la città fantasma "Era la più antica fortezza nel deserto"
L’equipe di archeologi italiani: è del terzo millennio a.C.
Tre anni fa i primi scavi: con il centro sparirono anche le vie per l'Arabia e la Mesopotamia
di Cinzia Dal Maso


ROMA - Una città finora sconosciuta è stata scoperta in Giordania. Risale al III millennio a. C. l´epoca in cui nel Levante fiorivano le prime città come Ebla, Gerico, Megiddo. Ma questa città, Khirbet al-Batrawy, non sta come le altre tra pianure fertili bensì ai limiti del deserto. Prova per la prima volta che già nel III millennio a. C. i popoli del Levante frequentavano il deserto. Che il fiume Giordano non era la barriera tra la civiltà e il nulla, come si è detto finora. Quel "nulla" era in realtà abitato. A est del Giordano si percorreva la valle del suo affluente Zarqa fino alla città porta del deserto. Oggi una rupe ai limiti della periferia della città di Zarqa, nota solo per le sue industrie, lo storico campo profughi palestinese, e per essere la patria di al-Zarqawi. E la rupe è brulla e abbandonata, benché domini valle e deserto. Destinata a essere invasa dalle abitazioni se non vi fossero giunti nel 2004 gli archeologi dell´università di Roma "La Sapienza".
«Siamo saliti lì al tramonto, e abbiamo visto cocci ovunque. E poi chiari allineamenti di pietre: erano le mura della città», racconta il direttore della missione Lorenzo Nigro.
Dopo i primi avvistamenti, Nigro e i suoi collaboratori, Maura Sala e Andrea Polcaro (tutti allievi di Paolo Matthiae lo scopritore di Ebla), sono tornati nel 2005 decisi a indagare. E, insieme ai colleghi giordani, hanno subito messo in luce mura di cinta che circondano l´intera altura, spesse 4 metri e alte 3 (ma in origine raggiungevano forse i 10 metri) e intervallate da torri possenti. Poi nel 2006 hanno trovato l´ingresso principale alla città, e all´interno delle mura un grande edificio e un tempio.
«Il tempio tipico della Palestina dell´età del bronzo, con di fronte la piattaforma circolare per i sacrifici», continua Nigro. Oramai non c´erano più dubbi, Batrawy era una città. Con tutti gli edifici che fanno una città. Una roccaforte destinata a tenere a bada nemici importanti e agguerriti. Che vi giunsero comunque verso il 2300 a. C. La distrussero e le diedero fuoco, perché non risorgesse più.
Assieme a lei scomparvero forse anche gli avamposti e castelli che gli archeologi stanno individuando lungo le due vie carovaniere che da Batrawy portavano in Mesopotamia e in Arabia. Saranno l´obiettivo principale della prossima stagione di indagini. Ma parecchi sono già segnati nella mappa, tutti tell (collinette) in fila uno dopo l´altro a intervalli quasi regolari. «Allora in Arabia il cammello non c´era ancora, ma si utilizzavano gli onagri viaggiando probabilmente nella stagione invernale quando si trovavano riserve d´acqua»; osserva Nigro. Così si andava di castello in castello. Un sistema strettamente dipendente da Batrawy che controllava le vie e probabilmente esigeva pesanti dazi. Quando Batrawy cadde, crollarono anche i castelli. Nigro lo chiama domino collapse. Effetto domino. E le vie del deserto svanirono nel nulla.

La Rinascita della sinistra 12.4.07
Cura, le volontà del paziente
di Luigi Cancrini


Il discorso che sta andando avanti nella commissione del Senato sul testamento biologico è stato notevolmen­te complicato in queste ultime settimane dagli atteggiamenti assunti dalla Chiesa cattolica di cui è sempre più diffìcile capire le posizioni e le scelte.

Si era partiti da lì in Com­missione, dalla necessità di riconoscere valore di legge al­la pratica del consenso infor­mato: il diritto della persona a esprimere esplicitamente il proprio consenso al tratta­mento sanitario che gli viene proposto; un diritto che è en­trato ormai largamente nella pratica medica e che credo nessuno si sognerebbe più di mettere in discussione.

Di fatto, il testamento biologico consiste proprio in questo, nel porsi il problema di come una persona può da­re indicazioni sulla sua dispo­nibilità ad accettare un certo tipo di trattamento, nel caso in cui tale trattamento do­vesse essergli proposto in una situazione in cui, per motivi diversi, lui o lei non è più in grado di dare un assenso con­sapevole.

La situazione in cui ciò più facilmente si verifica è quella in cui si configura "l'accani­mento terapeutico" quando cioè, in assenza di speranze ragionevoli, il medico altro non può fare che prolungare una condizione di vita so­stanzialmente vegetativa. Si tratta, come si vede, di norme che non contrastano o che non dovrebbero essere sentite come in contrasto con dichia­razioni rese dallo stesso papa e da altri esponenti di rilievo del mondo cattolico in tema appunto di accanimento tera­peutico. Si tratta soprattutto di norme che meglio hanno a che vedere con l'eutanasia, di cui tanto si discute oggi con­fondendo le acque.

Il modo in cui, ad arte, la confusione fra testamen­to biologico ed eutanasia viene alimen­tata da alcuni esponenti del mondo cat­tolico e da un numero sconcertante di personag­gi politici si lega chiaramente a un dise­gno e a un bisogno più ampio, legato soprattutto, in tanto smarrimento delle coscienze di tutti, al tentativo di pren­dere e dare indicazioni comportamentali che liberino se stessi e gli altri dalla necessità di confrontarsi con la propria coscienza, con i dubbi e con le perplessità che fanno parte integrante dell'esperienza del­l'essere umano.

Da laici e da persone che credono nell'uomo abbiamo a questo punto soprattutto il dovere e l'arma della pazienza. Sul testamento biologico, sul­le coppie di fatto, sulla fecon­dazione assistita e sulla droga, ciò di cui abbiamo bisogno, è la capacità di ragionare. La trappo­la in cui si deve evitare di cadere è soprattutto quella della lite, dello scontro su posizioni estreme che fanno solo il gio­co di chi vuole fermare tutto. Abbiamo abbastanza tempo, credo, in questo.Parlamento per portare avanti battaglie importanti su questi temi. Poiché, nel tempo, le visioni personali sfioriscono. Quel­la che dobbiamo mantenere è una posizione solidamente ancorata ai fatti.

Liberazione 12.1.07
Ora serve una nuova "potenza" a sinistra
di Rina Gagliardi


E' vero che l'idea di una "nuova Epinay" si affaccia con una certa frequenza nel dibattito politico italiano, da almeno vent'anni a questa parte. Ma il richiamo che ne ha fatto l'altro ieri il presidente della Camera non è apparso, nient'affatto, né ripetitivo né rituale. Il fatto è che la politica italiana, nel tentativo di rispondere alla sua crisi, sta attraversando una fase di fortissima dinamica. Tra pochi giorni, verranno celebrati i congressi di scioglimento dei Ds e della Margherita, cioè dei due maggiori partiti che compongono l'attuale maggioranza di governo, e prenderà ufficialmente il via il percorso di nascita del Partito Democratico: un battesimo notoriamente travagliato, un parto difficile, un'impresa che, a giudicare dai sondaggi pubblicati ieri dal "Corriere", non sembra per ora suscitare alcun entusiasmo elettorale. E, tuttavia, un evento oramai - pare - irreversibile, destinato a terremotare l'intera scena nazionale. L'intuizione-provocazione di Bertinotti - che ricorda il vecchio gioco infantile del "tutto a monte" e rilancia l'idea di un'altra strada - si colloca dunque in questo snodo al tempo stesso fluido e pesante. Per la prima volta - ecco la novità - una "Epinay italiana" ha dalla sua non certo tutte ma molte condizioni di fattibilità: è già diventata un'istanza matura, perfino un bisogno della politica italiana, Nel momento in cui (un po' per eutanasia un po' per ineluttabilità di percorso) scompare dalla geografia delle forze in campo una formazione che, nel suo nome e nella sua identità, si richiama alla sinistra e alla storia del movimento operaio, nel momento in cui si chiude davvero il lungo ciclo storico del Pci e dei suoi riottosi eredi (avviato dalla famosa eo famigerata svolta della Bolognina), alla sinistra e alle sinistre oggi esistenti, variamente sparse e diversamente nominate, si pone un problema nuovo: non più resistere, ma esistere. Esistere, cioè, come forza di massa, capace di svolgere un ruolo significativo, e primario, nella società, nella cultura e nella politica nazionale. Esistere, insomma, al di là dei recinti e delle identità consolidate. Sul "se", sul "come" e sul "che cosa" questo processo possa prodursi, e produrre un risultato positivo, ogni discorso si fa naturalmente molto difficile.

Intanto, Epinay serve a proporre non un modello da copiare, ma una forte analogia metodologica: uno scatto della soggettività che testimonia, come dicevamo, la fattibilità di un processo. Inutili altri paralleli: tra l'Italia del 2007 e la Francia del giugno 1971 (quando nel corso del congresso che si tenne ad Epinay-sur-Seine il Partito Socialista Francese rinacque su basi di massa e Francois Mitterrand ne conquistò la leadership) le differenze sono macroscopiche. Ozioso, anche, e certamente un po'meccanico, domandarsi se esiste e chi potrebbe essere il nuovo Mitterrand italico: se un processo di tipo nuovo, a sinistra, si mettesse davvero in moto, prima o poi esso troverebbe il suo o i suoi leader. Il tema ineludibile è davvero un altro: possono le sinistre italiane rassegnarsi ad essere mere forze di complemento, "figlie di un dio minore", insomma componenti minoritarie o residuali o di "nicchia" della politica italiana? La nostra risposta, in tutta evidenza, è No: un Paese privo di una sinistra politica incidente, ridotto ad una dialettica sostanzialmente bipartitica tra due poli centristi, uno un po' più progressista uno un po' più di destra (come vorrebbero i promotori del referendum Guzzetta), è un paese - prima di ogni altra cosa - "a bassa intensità democratica", dove la politica tendenzialmente muore, anche come vaga speranza. Ma, se è vero che l'esito (incombente) dell'americanizzazione va contrastato in ogni modo e anzi battuto, se l'ipotesi di una "sinistra larga" si pone come una necessità politica primaria, se, insomma, Epinay ci offre un buon esempio storico, che cosa ne consegue dal punto di vista del "che fare"?

Un partito unico della sinistra, della sinistra tout court, non è proponibile e sotto molti punti di vista non è neppure auspicabile: nel caso peggiore, sarebbe lo scimmiottamento del Pd e realizzerebbe la sua "fusione a freddo" di ceti politici per larga parte logori; nel caso migliore, finirebbe con l'essere un cartello elettorale, un contenitore di esperienze, culture e "corpi" attivi, tra di loro diversi e lontani. Insomma, la sinistra italiana è un universo plurale, non solo per appartenenze ideologiche - ci sono i comunisti, i socialisti, i democratici, i radicali, i riformisti, ma ci sono anche le donne e gli uomini di partito e i senza-partito, coloro che militano nei movimenti e nella società civile e coloro che concentrano la loro militanza nell'attività istituzionale. Nessuna di queste identità può essere annullata per atti volontaristici, o affogata per scorciatoie organizzativistiche o, semplicemente sommata alle altre. Eppure, tutte queste soggettività, restando ciascuna se stessa, potrebbero unirsi, non banalmente "unificarsi", dentro un'unica impresa politica, alla quale spetterebbero "soltanto" alcune funzioni politiche generali: come la rappresentanza delle scelte politiche e strategiche comuni, che sono cioè (o possono diventare) patrimonio condiviso da tutti; come la titolarità istituzionale; come il riferimento organizzativo centrale, e così via. Si può pensare, per la sinistra, a un processo politico di tale "unità del molteplice", nutrito di autonomie e di diversità, e però capace di intervenire non solo sulla piccola ma sulla grande scala? In verità, è già successo, nell'esperienza del "movimento dei movimenti": una rete articolata di soggettività, non solo orizzontalmente separate, ma diverse nel rapporto stesso con il fare e il trasformare, che è riuscita a diventare, a tratti, un'unica grande potenza politica. In verità, negli anni '70 i sindacati metalmeccanici tentarono - e per qualche tempo con successo - una strada unitaria che non solo non annullava le "sigle" originarie, ma prefigurava una connessione originale con la propria base: l'Flm, Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici, aveva come proprio riferimento non solo la Fiom, la Fim e la Uilm, ma la rete dei consigli di fabbrica - e poi di zona - in una dialettica di autonomie verticali e territoriali che costituì una straordinaria pratica di democrazia. In verità, è la teoria della complessità a spiegarci che il riduzionismo è una chiave obsoleta di lettura della realtà: un intero non è la semplice somma quantitativa delle parti che lo compongono, ma il risultato di connessioni che scattano a diversi livelli di aggregazione, e che quindi rendono ogni parte "irriducibile" l'una all'altra. Vale per i nostri corpi, che non sono una massa sia pure ordinata di cellule, e perfino per la nostra identità individuale, che, ferma restando l'unità dell'Io o della Coscienza, non è mai unica, ma dispiegata in mille figurazioni. Perché non potrebbe valere per la politica?
Certo, per la politica - in crisi - non è facile superare le antinomie di cui è storicamente prigioniera - tra unità e differenza, tra sintesi e parzialità, tra "ordine" e "disordine". E non è facile, tra tutte le rifondazioni a cui metter mano, rinunciare al principio classico della rappresentanza, senza mettere a repentaglio l'idea stessa del far politica, e della sua efficacia. Eppure, bisognerà pur affrontarla, questa sfida. Nessuna Epinay ci potrà salvare, o semplicemente tornare buona, se non sarà capace di essere soprattutto un "nuovo inizio".

il Riformista 13.4.07
Lo Sdi dà il via al congresso della costituente
di Alessandro De Angelis


C’è la storia: un filmato che ripercorre, e in qualche modo rivendica, le tappe salienti della tradizione del socialismo italiano, attraverso le immagini di leader e personaggi significativi, da Turati a Nenni a Craxi, (ma anche da Brodolini a Marco Biagi). E naturalmente c’è la politica. Con una direzione di marcia già chiara: la costituente socialista. Si apre oggi a Fiuggi e durerà fino a domenica il quinto congresso nazionale dello Sdi dove, dopo l’intervento del presidente del Pse, il danese Poul Rasmussen, il segretario nazionale Enrico Boselli illustrerà a una platea composta da oltre ottocento delegati e ospiti le linee guida per realizzare una vasta aggregazione laica, riformista, liberale, alternativa al Partito democratico: la costituente socialista, appunto. A una settimana dalle assise di Ds e Margherita che sanciranno il via libera al Partito democratico, i socialisti lanciano dunque un progetto radicalmente alternativo.
Punto di partenza è ciò che il Pd, a giudizio dei socialisti, sarebbe diventato: non «un’esperienza originale, legata alla spinta in atto nella socialdemocrazia europea per andare oltre i suoi confini tradizionali» ma un «compromesso storico bonsai» costruito sulla «somma tra un partito cattolico, com’è la Margherita, e uno post-comunista, come sono i Ds» che tra l’altro - e non è un dettaglio - esprime una posizione incerta sia sui contenuti politici (vedi alla voce: laicità) sia sulla collocazione internazionale (vedi alla voce: socialismo europeo).
Conseguenza già chiara nella mozione (l’unica presentata) con cui Boselli chiederà al suo partito pieno mandato per dare il via al rassemblement: «sulla scena politica italiana è tornata attuale la questione socialista». Una questione che Boselli proverà a declinare in forme tali da trovare ascolto in componenti della sinistra italiana dalla storia molto diversa. I (non pochi) dirigenti dei Ds che fuori dal Pse pare che proprio non vogliano stare (nonostante i calorosi appelli di Prodi e di Fassino), come i demo-scettici di Angius e i demo-contrari di Mussi. E le diverse anime della famiglia socialista che, dopo la fine del Psi, hanno trovato in verità più occasioni per dividersi che per unirsi, come i socialisti di De Michelis e quelli di Craxi, e pure quelli del Psdi. Ma anche i postcomunisti-neosocialisti come Peppino Caldarola e i riformisti come Lanfranco Turci, che a partire dal recente incontro di Bertinoro ha messo in rete un insieme di circoli, associazioni, militanti di area socialista, ex diessina, laica, liberaldemocratica, repubblicana e radicale.
Conclusione: il programma del congresso (e in particolare la seconda giornata) se non si può definire proprio un programma politico (del partito che verrà), tuttavia già si presenta come un’indicazione di “lavori in corso”: gli interventi di sabato del presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo, Martin Schulz, di Mussi, Angius, De Michelis, Caldarola, Craxi e Turci sembrerebbero, infatti, indicare un duplice messaggio. Il primo: a Romano Prodi, che interverrà nel pomeriggio, viene riconosciuto il ruolo di premier, sì, ma non di leader di riferimento. Il secondo: l’incontro di socialisti vecchi e nuovi, di radicali e riformisti con il suggello del capogruppo socialista al Parlamento europeo, vorrebbe simbolicamente significare che lo Sdi non punta soltanto alla ricomposizione della diaspora, ma si gioca la carta pesante, che è anche ovviamente più rischiosa: un’aggregazione di chiara impronta socialista, sì, ma aperta. Angius raccoglie il segnale, e promette «attenzione a un congresso che può contribuire alla ricerca di nuovi percorsi, purché la parola d’ordine sia unire e non ridurre a uno». E Mussi non sarà a Fiuggi come chi deve espletare una formalità. «Alla prova del fuoco - dice al Riformista Peppino Caldarola - Boselli ha avuto coraggio e mostrato grande apertura, cogliendo quella domanda di socialismo che è presente nel Paese e indicando una prospettiva». Insomma qualcosa in campo sembra muoversi. Per via del «vuoto» creato anche in settori della sinistra riformista dal Pd, certo. Ma anche, secondo Caldarola, di «una vera e propria battaglia politica e culturale fatta da politici del calibro di Formica e Macaluso, che vede premiati i suoi sforzi affinché la sinistra non perda la sua identità».
E quelli della diaspora? Interessato, anzi molto interessato alla riunificazione dell’area socialista, è Bobo Craxi: «Il fatto che il Pd ognuno se lo descrive a modo suo non solo giustifica e legittima, ma anche rafforza e incoraggia questa scelta che si ricollega a una storia comune, quel socialismo democratico che è stato così importante per il Paese e per la sinistra». E di interesse all’ipotesi della costituente socialista «purché voli alto e non sia solo uno Sdi allargato» parla De Michelis, per il quale (lo spiegherà sabato) il progetto è strettamente legato al superamento di questo «bipolarismo bastardo» attraverso una legge elettorale sul modello tedesco.
Lanfranco Turci vede già maturi i tempi affinché, da lunedì, «lo Sdi convochi il tavolo della costituente con le forze già pronte, tenendolo aperto a tutti i soggetti che man mano vorranno parteciparvi» (tradotto: aspettando che Mussi maturi, se le maturerà, le sue scelte). Insomma, sarebbe già il momento di dar vita a una cabina di regia. Ma, di mezzo, per ora c’è il congresso dello Sdi.

il manifesto 13.4.07
Parla Franco Chiriaco, segretario generale Flai-Cgil
«Il Partito democratico agli antipodi della Cgil»
«La nuova formazione nasce già vecchia, e mette il capitale al di sopra del lavoro. I suoi obiettivi sociali non fanno parte della storia del sindacato»
di Loris Campetti


Socialista? «Lombardiano, prego. E' una precisazione a cui tengo molto». Franco Chiriaco è il segretario generale della Flai-Cgil, il sindacato che organizza i lavoratori dell'agricoltura e dell'industria di trasformazione alimentare. Il tema all'ordine del giorno, anche nella più importante confederazione sindacale italiana e nelle sue categorie, è la nascita annunciata del Partito democratico. Anche a Chiriaco, come al segretario della Fiom Gianni Rinaldini che il manifesto ha intervistato ieri, il progetto del nuovo partito proprio non vva giù. E lo dice senza mezze parole, escludendo categoricamente che la Cgil possa essere una struttura di servizio del Pd.

Cos'è che non ti convince di questo progetto, presentato come un passo determinante per la semplificazione del quadro politico e per il superamento delle barriere storiche che per oltre sessant'anni hanno tenuto separate e contrapposte le «forze democratiche»?
Così come nasce e come viene rappresentato, il Partito democratico è vecchio, nel senso che recupera in ritardo le scelte sbagliate già fatte in alcuni paesi. Penso in particolare alla Gran Bretagna di Blair.

Quali sono le scelte sbagliate a cui ti riferisci?
Detto papale papale, la priorità del capitale sul lavoro. Sul manifesto del Pd il lavoratore è sostituito dall'utente consumatore: sembra di leggere una direttiva europea sul libero scambio. Per come si presenta, il «nuovo» partito nasce in antitesi rispetto agli obiettivi e alle battaglie che il movimento operaio e la Cgil portano avanti. Si profila l'adesione a un modello sociale che come Cgil non ci appartiene.

Pensi che la nascita del Partito democratico possa avere ripercussioni pesanti nella Cgil?
E' difficile immaginare che, al di là delle legittime adesioni individuali, una grande organizzazione come la Cgil possa essere trasferita armi e bagagli nel Pd. E' difficile immaginare Epifani nelle vesti di Caronte, impegnato a traghettare il sindacato che dirige nella nascitura forza politica. E' difficile per la persona che Epifani è, ma anche perché rappresenta la Cgil. Tanto più che, se fai il conto delle tessere, scopri che l'insieme degli iscritti dei Ds e della Margherita non va oltre il 15% degli iscritti alla Cgil. E' altamente improbabile che un pesce piccolo possa mangiare un pesce molto più grosso. Partiamo dal fatto che, stando ai risultati di una nostra indagine, la quota di iscritti alla Cgil con in tasca una tessera di partito - di qualsiasi partito - è del 9%. La percentuale cresce nei gruppi dirigenti mentre diminuisce tra i delegati. Io ho l'impressione che, come me, la maggioranza dei nostri militanti non sia interessata al Partito democratico per i suoi contenuti indistinti: è solo una convergenza elettorale per fare massa critica. Ma soprattutto, noi della Cgil pensiamo che il lavoro venga prima del capitale.

In conclusione, il Partito democratico non ti avrà...
Come iscritto ai Ds noto una distanza siderale tra la rappresentazione degli interessi dei lavoratori e la scelta politica del Pd. Per quanto mi concerne, non è neppure necessario dire «esco», dato che è il partito a sciogliersi. Ne abbiamo discusso anche nel direttivo: se i Ds navigano verso il centro per coabitare con chi guarda con più attenzione alla Chiesa che alla laicità, al capitale invece che al lavoro, alla persona invece che ai soggetti, non possono che allontanare il sogno di chi lavora e vuole un grande partito della sinistra.

Hanno ragione Mussi e Salvi?
Condivido la battaglia che stanno conducendo. Poi, non so se e come le forze di sinistra potranno aggregarsi, in assenza di una forte leadership - se c'è io non la vedo. E' giusto che se ne parli e si lavori in questa direzione, purché si comprenda la realtà in cui ci muoviamo, i processi in atto. Io ho in mente una forma di aggregazione di interessi più che un partito, capace a sua volta di aggregare movimenti e forze laiche, mettendo al centro le questioni del lavoro.

L'approdo del Partito democratico è la conclusione di un lungo processo di revisione o rappresenta una rottura con il passato della sinistra?
Una rottura, proprio in quanto si ritiene superato il conflitto capitale-lavoro. Perché non si chiedono chi rappresenterebbe i diritti dei lavoratori? Poi è anche vero che questa rottura avviene a conclusione di un processo iniziato lontano nel tempo, forse alla Bolognina, con progressivi affinamenti e modifiche. Al congresso del Pds ricordo D'Alema che, rivolto a Cofferati, disse: «Non si vive di solo contratto nazionale». Non voglio fare di tutta l'erba un fascio, anche in questo governo ci sono persone con cui lavoriamo bene, per esempio con il ministro Damiano sulla lotta al lavoro nero e allo schiavismo.

Tu difendi il valore del conflitto capitale-lavoro in una stagione in cui la parola d'ordine è diventata la concertazione.
La concertazione è la mediazione del conflitto e non esiste senza la contrattazione. Quel che si vuole colpire è la contrattazione - il contratto nazionale, per esser chiari. In questo modo si emargina il sindacato, si colpisce la natura del sindacato confederale. Non sono certo io a sottovalutare il ruolo della contrattazione aziendale, ma è bene sapere che essa riguarda appena il 25% delle aziende. Senza contratto nazionale il lavoro finirebbe alla mercé del padrone.

Dunque anche per chi dirige un'organizzazione sindacale è importante il processo di trasformazione degli assetti politici. Come ti muoverai?
Insieme ad altri non aderirò al Partito democratico. Sto valutando, mi guardo intorno. Qualcosa finalmente si sta muovendo a sinistra e mi auguro che porti a uno sbocco positivo. Non mi interessa quel che già esiste a sinistra, di conseguenza non aderirò ad alcuna formazione esistente perché sono convinto che si possa e si debba puntare più in alto.

INTERPELLANZA dell'on. Elettra Deiana

Al Ministro della Difesa per sapere, premesso che sul quotidiano Liberazione del giorno venerdì 13 aprile '07 viene riportata una dichiarazione del console generale americano a Milano Deborah Graze secondo la quale la zona necessaria per ampliare la base militare americana al Dal Molin a Vicenza non sarebbe stata richiesta dagli Stati Uniti ma offerta dal governo Berlusconi; tale dichiarazione solleva rilevanti questioni di ordine politico-istituzionale dal momento che nonostante le reiterate richieste di chiarimenti sollevate da parte dell'interpellante e l'ampia eco che la vicenda ha avuto nell'opinione pubblica non è stata mai stato fornito un adeguato e soddisfacente chiarimento sulla dinamica che ha portato le autorità italiane ad acconsentire al progetto di riunificazione a Vicenza della 173° brigata; le dichiarazioni del console generale americano a Milano Deborah Graze indicherebbero inoltre una atteggiamento di assoluta casualità e estemporaneità nelle scelte dell'Autorità italiane in materia di accordi internazionali e di difesa del nostro Paese, il che si aggiungerebbe alla gravi inadempienze avute nei confronti dell'autorità locali tenuti all'oscuro della decisione; se il Ministro confermi tali notizie e se sia in grado di fornire un dettagliato resoconto sulle interlocuzioni tra il precedente Governo Italiano e il Governo statunitense e le procedure che hanno portato alla conclusione dell'accordo; se ritenga, visto gli ulteriori sviluppi, che sia necessario affrontare nuovamente l'intera questione

Roma 13/04/07
On. Elettra Deiana

giovedì 12 aprile 2007

l’Unità 12.4.07
Ma la minoranza ds non si ferma
Al congresso parlerà solo Mussi e nessuno parteciperà alle commissioni


Decisive le riunioni che la seconda mozione terrà il 16 e il 18 aprile prima di Firenze

Sta commettendo «un grande errore ad andar via», come dice Prodi? Più si avvicina il congresso di Firenze, che darà il via alla fase costituente del Partito democratico, e più Mussi si convince del contrario. Il leader della sinistra Ds lo ha anche detto di persona al premier che per lui non ci sono le condizioni per proseguire in questa direzione, né la sua opinione è cambiata dopo aver letto l’altro giorno l’intervento del Professore su l’Unità. Anzi, ha commentato il ministro dell’Università con i suoi, quel testo non ha fornito risposte a nessuno dei nodi tuttora irrisolti, a cominciare dalla questione della collocazione internazionale. Nel frattempo, è anche venuto alla luce un sondaggio (di Mannheimer, sul Corriere della Sera di ieri), che dà il Pd al di sotto della somma di Ds e Margherita: «Il 23% di voti? Non mi sorprende», dice serio Mussi conversando in Transatlantico con i giornalisti. Aggiungendo con un mezzo alzarsi di baffo: «E nel sondaggio ci sono ancora io». È, per dirla con il vicepresidente della Camera Carlo Leoni, l’«ulteriore dimostrazione che si tratta di una operazione che ha poco fascino tra gli iscritti, figuriamoci tra gli elettori».
Non ci saranno ripensamenti, quindi. Anche perché appelli ai buoni sentimenti come quello di Livia Turco («mi pare una scelta di compagnicidio, siamo della stessa famiglia») fanno tutt’altro che breccia: «Il nostro è un ragionamento politico, vorremmo che ci rispondessero sullo stesso piano», viene spiegato dai sostenitori della seconda mozione. La sinistra Ds andrà a Firenze, ma consapevole che da lì le strade si divideranno. La decisione su come procedere sarà presa in una riunione che si terrà a Roma lunedì e poi ratificata dai 250 delegati della seconda mozione il 18 sera, a Firenze. L’ipotesi più accreditata, al momento, è però quella di segnalare in ogni modo che questo non è un congresso come gli altri ma è quello che scioglie i Ds, e che quindi anche il comportamento da tenere dovrà essere diverso dal solito. Il che vuol dire: non si partecipa ai lavori delle commissioni, né a quella politica né a quella per lo statuto, non si entra negli organismi dirigenti eletti dal congresso, parla soltanto Mussi (l’alternativa, al momento però minoritaria, è che intervengano tutti i leader della sinistra Ds). Il quale, però, se è vero che vuole evitare strappi almeno fino al termine delle amministrative di maggio, sta anche preparando le prossime mosse.
Sabato interverrà al congresso dello Sdi di Fiuggi, sottolineando la necessità che ci sia in Italia una grande forza di ispirazione socialista e collocata in Europa nel Pse. Poi, ma sempre con la dead line delle amministrative, verranno prese le decisioni operative, a cominciare dalla formazione di un gruppo autonomo alla Camera e al Senato (Sinistra democratica dovrebbe essere il nome). L’intero percorso andrà comunque discusso il 18 sera, anche se Mussi minimizza la portata di questa riunione: «È un appuntamento di rito prima dei congressi». In realtà, il leader della sinistra Ds sa che la scelta che si sta per compiere è tutt’altro che semplice per iscritti, quadri e gruppo dirigente della minoranza, e vuole che ogni passaggio sia «il più possibile condiviso».

l’Unità 12.4.07
Gramsci e Trotsky. Dialogo tra eretici
di Adriano Guerra


VITE PARALLELLE Furono due personaggi molto diversi l’italiano e il russo e divisi da opposte linee politiche. Ma il comunista sardo intervenne a difesa del comandante dell’Armata Rossa contro Stalin. Ed entrambi amavano il futurismo

Gramsci non è certo stato troppo tiepido con Trotsky, considerato in sintesi come «il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte». E ancora «un cosmopolita superficialmente nazionale e superficialmente europeo», rispetto a Lenin considerato al contrario «profondamente nazionale e profondamente europeo». Qualche volta, quando nell’impossibilità di controllare una citazione era costretto a far ricorso alla memoria, con i rischi che ciò sempre comporta, le critiche di Gramsci a Trotsky possono apparire troppo dure e anche ingiustificate. Così ad esempio quando Trotsky viene rimproverato per aver accusato Labriola di «dilettantismo» (mentre in realtà altro era stato il discorso del leader sovietico). Tuttavia Trotsky non è stato mai considerato da Gramsci un nemico da stroncare. Non nel 1926 quando chiese - invano, come si sa - a Togliatti di intervenire per impedire che la maggioranza del gruppo dirigente russo raccolta attorno a Stalin non si limitasse a vincere il confronto con la minoranza ma puntasse a stravincere. E non negli anni del carcere e del confino quando nei Quaderni prese, e più volte, posizione contro le tesi di Trotsky, quelle - in primo luogo - della «rivoluzione permanente» o del rapporto fra «americanismo» e «modo di vivere» - ricordando però che alla base delle «soluzioni pratiche sbagliate», e sbagliate perché destinate a «sfociare in una forma di bonapartismo» - c’erano sempre però «preoccupazioni giuste». Parlando della liquidazione politica di Trotsky, espulso dall’Urss nel 1929, Gramsci si è chiesto poi nel 1935 se non ci si trovasse di fronte al tentativo di eliminare quel «parlamento nero» che sussiste sempre dopo l’abolizione del «parlamento legale». Sullo sfondo - par di capire - c’era sempre la questione del prezzo che l’Unione sovietica, e non solo essa, aveva pagato nel momento in cui con la cacciata della minoranza era stata posta fine nel partito russo alla dialettica destra-sinistra.
Nei Quaderni del carcere, dai quali abbiamo tratto le citazioni sopra riportate, il nome Trotsky non compare mai. Si parla di lui come di Bronstein ma più spesso di Leo Davidovich, di Leone Davidovici e ancora di Davidovi. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, il nome di Lenin (Vladimir Ilic Uljanov) è stato italianizzato in Ilici e anche in Vilici, e quello di Stalin (Josif, Vissarionovic Dzugashvili) in un insospettabile Giuseppe Bessarione. Il tutto per rendere un poco più difficile il lavoro dei censori fascisti che imbattendosi sul nome di Trotsky avrebbero fatto un balzo sulla sedia, anche se un’opera importante, L’autobiografia, di Leone Davidovici, all’evidente scopo di far leva sull’antistalinismo dell’autore presentato come antisovietismo, era stata pubblicata a Milano da Mondadori. Quando però Gramsci, inserendoli in una lista di libri da inoltrare per l’acquisto probabilmente a Piero Sraffa, tentò di entrare in possesso delle opere scritte da Trotsky dopo la cacciata di quest’ultimo dall’Urss (La revolution defigurée e Vers le capitalisme ou vers le socialisme?, come si può leggere nella copertina del primo Quaderno) la censura fascista, e al livello più alto perché sarà lo stesso Mussolini a cancellare i due titoli dall’elenco, compì l’opera avviata da quella di Stalin.
Non si può però dimenticare che quando Gramsci preparò l’elenco dei libri per Sraffa, Trotsky era un autore all’indice anche all’interno del Pci («Le misure prese contro Trotsky e altri - si legge nella famosa e «famigerata» lettera inviata al prigioniero da Ruggero Grieco nel febbraio del 1928 - sono state, certo, dolorose, ma non era possibile fare diversamente»). La circostanza va segnalata perché fornisce la prova da una parte dell’indipendenza e dell’autonomia di giudizio di Gramsci e dall’altra della curiosità - curiosità politica, desiderio di sapere come stavano le cose rivolgendosi alle fonti dirette - con le quali il recluso guardava al conflitto che continuava fra gli eredi di Lenin, conflitto al quale Stalin avrebbe posto termine ordinando nel 1940 l’assassinio del rivale.
Nell’attenzione con la quale Gramsci guardava a Trotsky e alla sua battaglia c’era anche però un dato che forse è stato sin qui trascurato: il segno di un’antica ammirazione nei confronti non già e non tanto dell’uomo politico ma dell’intellettuale, quale era appunto Trotsky, cultore di storia, aperto ai problemi della vita culturale del suo paese, con interessi e curiosità che andavano al di là della politica in senso stretto e della Russia. Se si esaminano gli scritti di Trotsky e di Gramsci si può constatare in non pochi punti l’esistenza di una reale affinità fra due comunisti pur tanto diversi per formazione e storia personale. Si pensi al Trotsky di Letteratura e rivoluzione (tradotto e presentato da noi a suo tempo da Vittorio Strada per Einaudi), alle molte pagine dedicate da Trotsky alla polemica contro la cosiddetta «cultura proletaria», nonché a Belyi, Pilniak, Essenin, Blok. Si pensi alla polemica di Trotsky contro chi (F.T. Raskolnikov) scriveva che «La Divina commedia è preziosa perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca determinata». Naturalmente - era la replica di Trotsky - anche Dante è il prodotto di un determinato ambiente sociale. «Ma Dante è un genio. E se noi consideriamo la Divina commedia come una fonte di percezione poetica ciò avviene non perché Dante è stato un piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura nonostante questa circostanza». Questo era Trotsky. Un modo di guardare a Dante il suo - si dirà - di un altro secolo. Ma è anche perché quella battaglia sulla questione dell’autonomia dell’arte, insieme a tante altre dei secoli precedenti e degli anni successivi, è stata combattuta, se oggi Sermonti e Benigni possono leggere Dante davanti a migliaia di persone che magari non credono all’esistenza del diavolo e dell’inferno ma guardano alla Commedia come ad una «fonte di percezione poetica». In quanto a Gramsci, che fra l’altro aveva fondato a Torino nel 1921 un Istituto di cultura proletaria come sezione del Prolet’ Kult sovietico, non è poi naturale che trovandosi a Mosca nel 1922 per la 2° Conferenza del Comintern, si incontrasse più di una volta con Trotsky? E non solo per parlare di problemi strettamente politici come è dimostrato dal fatto che un certo giorno Trotsky gli chiese di scrivere una nota sul futurismo italiano da inserire in Letteratura e rivoluzione. «Caro compagno - si legge nella lettera di Trotsky del 30 agosto 1922 - non potrebbe comunicarmi qual è il ruolo del Futurismo in Italia? Quale fu la posizione di Marinetti e della sua scuola durante la guerra? Quale è la loro posizione adesso? Si è conservato il gruppo di Marinetti? Qual é il suo (di Gramsci, n.d.r.) atteggiamento verso il futurismo? Quale l’atteggiamento di D’Annunzio…?». La risposta di Gramsci porta la data dell’8 settembre 1922. Essa venne pubblicata per la prima volta in italiano sul Mondo di Pannunzio nel marzo 1953 e poi sia nel volume già citato, curato da Strada, sia nell’undicesimo volume delle opere di Gramsci (Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922, Torino Einaudi, 1966). Vorrei ancora dire a conclusione che soltanto pochi anni or sono rintracciare i testi qui ricordati sarebbe stata impresa non facile. Sarebbe occorsa la pazienza di uno studioso appassionato, e penso ad esempio a Nicola Siciliani de Cumis (si vedano le sue note su Trotsky, Gramsci e il futurismo nel Quaderno n.1 di Slavia del gennaio 2001). Oggi tutto è reso più semplice dallo straordinario lavoro compiuto dall’Istituto Gramsci che ha messo a disposizione degli studiosi la Bibliografia gramsciana on line, con una banca dati, ora di 16.000 titoli, costantemente aggiornata da John M. Cammet, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi.

l’Unità 12.4.07
Teo-politica, peccato di fondamentalismo
di Roberta De Monticelli


FEDE E POLITICA Una prospettiva che non esprime una nuova vitalità religiosa ma è indice del suo contrario. Perché la fede è, soprattutto, ricerca interiore. E i «martiri» non vanno in piazza a sventolare bandiere

Un «Dialogo» oggi a Milano
Anticipiamo l’intervento che Roberta De Monticelli terrà oggi, alle 18.15, presso il Salone d’Onore della Triennale di Milano in occasione dell’incontro L’avvenire del Cristianesimo. È il secondo di 5 appuntamenti, in programma ogni mese sino a settembre, dal titolo Dialoghi sul contemporaneo e oltre organizzati dalla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele: filosofi e storici si confronteranno su grandi temi come evoluzionismo, multiculturalità, promesse e i rischi della democrazia. Il programma è disponibile sul sito www.unisr.it. Numero verde 800 33 90 33.

«Mentre la Chiesa investe le sue energie comunicative parlando di celibato di preti, preservativi, Pacs e altri temi che dividono, i laici si occupano sempre più di temi spirituali… La Chiesa parla di sesso e di politica, i laici dello spirito e del divino». Così scriveva recentemente Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di filosofia dell’Università San Raffaele di Milano.
Già a partire da Pio XII, affacciarsi alla Modernità, per i Papi, ha voluto dire esporsi alle folle, alle piazze, e poi sempre più intensamente all’amplificazione e comunicazione mediatica e globale della loro voce. Ultimamente, poi, non si è esitato ad offrire alle folle una prospettiva che è insieme religiosa e politica - e i politici, endemicamente a corto di idee, non hanno esitato a raccoglierla. Lasciamo i politici al loro mestiere e veniamo alla prospettiva teo-politica, radicata in un’identità religiosa, che viene oggi offerta al Paese. Nel linguaggio liberale corrente, una prospettiva teo-politica è già di per se stessa un peccato di fondamentalismo.
Si legge spesso che le tendenze fondamentalistiche, anche in casa cristiana anzi cattolica, sono solo un eccesso, una specie di sfogo di crescita, della nuova vitalità che distingue oggi il fenomeno religioso. Ma non è vero che il fondamentalismo sia un eccesso di vita per la religione, perché è anzi il suo esatto contrario, vale a dire la sua morte. Se crediamo almeno che l’essenza di ogni religione degna del nome, e squisitamente poi l’essenza della religione cristiana, sia l’atteggiamento che di fronte al male insegna a cercarne in primo luogo la radice in se stessi, e a imboccare quel doloroso cammino di trasformazione, che non finisce mai, e che ogni giorno fa i conti con l’uomo vecchio, con la sua angoscia e la sua volontà auto-affermativa. Questo cammino, che conosce certo anche i giorni di grazia e di gioia, tutto è però fuorché affermazione, proclamazione, difesa della propria identità, cioè del proprio io - anche nella veste potenziata e uniformata del proprio «noi», affermato sulle piazze in opposizione ad altre piazze («noialtri»). Questo pare il senso profondo della frase pronunciata dell’Arcivescovo di Milano al convegno di Verona, secondo la quale è meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo. Una frase che ha radici molto antiche nel cristianesimo. «Il padre vostro che abita nel segreto» - così Gesù chiama il Padre, e invita a pregare nel segreto della propria stanza.
Ma, si dice, essere testimoni, essere martiri, è altrettanto importante che pregare in segreto. Sì, ma i martiri, chi li ha mai visti riempire, agitando bandiere, una piazza, o addirittura uno stadio? Di «martiri», cioè di veri testimoni, noi conosciamo e onoriamo quelli che la propria identità non l’hanno affatto affermata con la forza del «noi» sulle piazze, ma l’hanno offerta, in solitudine, alla piazza avversa, esattamente come ha fatto Cristo.
Ecco allora un primo senso in cui si può, un poco più in profondità, dire che l’ideologia è contraffazione della sapienza spirituale. In primo luogo blocca e impedisce, esattamente, quell’atteggiamento di guardare alla trave nei propri occhi prima che alla pagliuzza negli altrui, che sembra l’inizio di ogni rinnovamento interiore. Di ogni renovatio mentis, appunto - perché è così che anche si intende quella «metanoia», quel «cambiamento di mente» che i Padri latini tradussero anche poenitentia: questo modo della conversione religiosa, apparentato con la conversione filosofica eppure anche diverso. Dico apparentato, perché anche il filosofo platonico si «converte», si rivolge con tutta la persona dalla terra al cielo, girandosi con fatica dal suo posto nella caverna della tribù umana, per volgere gli occhi verso una fonte di luce che tutti gli altri prigionieri - legati alle catene delle loro quotidiane motivazioni, lo sguardo fisso allo schermo delle ombre - non riescono a vedere. Ma molto diversa, anche, la conversione religiosa, perché il filosofo platonico dal fondo della caverna volge lo sguardo alla luce del sole che proietta le ombre sulla parete, e vede sì che le cose vere sono in questa luce e non nelle ombre proiettate: ma né quando si gira per salire al sole, né quando si gira nuovamente per ridiscendere fra gli uomini e portare loro notizia della luce, si guarda dentro, per così dire, né vede l’ombra accumulata in sé.
L’ombra: non necessariamente soltanto la tenebra del cuore, ma anche la confusione della mente - e del resto sono due ombre che si alimentano a vicenda. E una delle peggiori ma più diffuse forme di insincerità è il disagio dell’intelligenza in materia di cose dello spirito, quando ce lo si nasconde. Simone Weil parla di un «disagio dell’intelligenza» che affligge il cristianesimo fin dai suoi inizi, ed è dovuto «alla maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione...». E parla in questo contesto della necessità di «pensare da capo la nozione di fede». Da capo, di nuovo. Ora, io credo che ogni volta che questo disagio si fa acuto, ci si trova a non aver più nomi per il divino, a non aver più proposizioni per la fede.
Non è questa, in fondo, la situazione dei più fra noi? E non da ora, certamente. Siamo nati in un mondo in cui i nomi di Dio sembravano abusati, e le proposizioni a riguardo, prive di luce.
Ma se invece che dell’ancora più abusata «morte di Dio» parlassimo di una dissociazione fra l’essere e il sentire, fra la relazione che ognuno di noi instaura con il divino, comunque lo chiami, e la coscienza che ne ha, descriveremmo, io credo, con più esattezza quello che accade. Che il divino non ha più nomi, e lo smarrito ma felice consentirvi non ha proposizioni in cui enunciarsi. Non perché il vento «che soffia dove vuole» abbia mai smesso di soffiare, e di incendiare alcune vite umane: ma perché troppi dei nomi e troppe delle proposizioni tramandate hanno alle nostre orecchie un suono falso. Non dunque perché venga meno l’amore di verità, ma proprio al contrario, perché questo amore si fa più intenso ed esigente man mano che si cresce - e se non ci fosse amore di verità, nulla potrebbe suonare falso.
Ma allora questo dissociarsi dell’essere e del sentire possiamo vederlo come un vero e proprio, doloroso e forse a sé ancora ignoto, rinnovarsi del nostro essere in relazione al divino. Come uno spogliarsi, anzitutto, della vecchia pelle: della vecchia coscienza, come gli animali al tempo della muta. E se la vediamo così, questa spoliazione, non possiamo non vederla anche come l’inizio di un rinnovamento.
E allora, guardandoci all’indietro, vediamo che così sempre è avvenuto. Ogni volta che il sentimento del divino si è rinnovato perché, in una nuova maturità umana, si è approfondito; ogni volta che la luce di un uomo divino ha fatto sì che improvvisamente, come all’individuo avviene per effetto d’amore, si allargasse e approfondisse la visuale di una comunità umana sul massimo valore - ogni volta che questo è successo, i vecchi nomi sono come caduti, e un dio ignoto, nascosto, segreto, è stato annunciato. Non lo ha fatto anche Paolo di Tarso, che proprio questo dio ignoto, al quale già il pantheon antico aveva fatto posto, disse di voler annunciare?

Repubblica 12.4.07
De Marchi fu uno degli italiani vittime di Stalin: la sua vicenda ricostruita dal regista-saggista Nissim
"L´amico di Gramsci nel gulag ha ispirato la svolta di Fassino"
di Michele Smargiassi


La figlia Luciana ha voluto rendergli giustizia

MILANO - La storia di una bimba senza paura ha rotto forse l´ultimo muro di smemoratezza rossa. Una storia vera, dimenticata, prossima a riemergere clamorosamente, che convoca su fronti opposti i nomi più altisonanti della storia comunista, Gramsci e Togliatti, attorno alla tragedia dei gulag sovietici, e alla tragedia nella tragedia dei comunisti italiani che ci finirono per delazione dei loro compagni. Quando poche settimane fa Piero Fassino ha ricevuto le bozze di Una bambina contro Stalin, il libro che sta scrivendo (uscirà il 6 giugno per Mondadori) Gabriele Nissim, regista e saggista impegnato sul fronte della memoria del Novecento, deve esserne rimasto colpito. Al punto da decidersi a un passo che nessuno dei suoi predecessori osò fare: varcare la porta della vergogna.
Dunque, Nissim, ha convinto lei Fassino a ricordarsi dei Gulag?
«Di sua iniziativa, un anno fa, mandò una corona di fiori al parco Valsesia, a Milano, dove inauguravamo un memoriale alle vittime dei gulag. Disse anche cose importanti sulla necessità di superare "ipocrisie e reticenze". Apprezzando quel gesto, gli mandai riservatamente le bozze del mio libro, assieme all´invito a venire il 29 giugno a Levashovo, vicino a San Pietroburgo, dove furono fucilate migliaia di vittime dello stalinismo e dove ora sorge il monumento ai "nomi restituiti". Qualche giorno fa mi ha telefonato: "verrò senz´altro"».
Che storia racconta il suo libro?
«Quella di Gino De Marchi, comunista, regista di cinema, amico di Gramsci, spedito in Urss dal partito nel ´21 perché già in odore di dissenso, stritolato e infine ucciso il 3 giugno 1938 dalla repressione staliniana. E quella di Luciana, sua figlia, che dall´età di tredici anni, cominciò una disperata battaglia di verità per rendergli giustizia, sulle cui carte si fonda la mia ricostruzione».
Storia comune a molti rifugiati politici italiani in Russia.
«Un migliaio gli internati italiani nei gulag: di cui trecento circa militanti comunisti. Storie già raccontate, ma spesso trascurando un elemento fondamentale: molti furono denunciati dai loro stessi connazionali. De Marchi fu arrestato già nel ´22, con l´accusa infamante di essere una spia fascista: fu proprio l´intervento di Gramsci a tirarlo fuori di galera, un anno dopo. Ma nel ´37 Gramsci non era più in grado di salvarlo. Nel "club" degli italiani a Mosca si discuteva: qualcuno passò gli appunti di quelle discussioni ai sovietici. De Marchi fu arrestato di nuovo, condannato senza processo, fucilato a Butovo, anche se per anni le versioni ufficiali lo daranno morto di peritonite».
Chi fu a denunciare De Marchi?
«Non voglio ancora svelare tutte le carte del mio libro. Ma tutti sanno chi guidava il gruppo degli italiani a Mosca in quel periodo: i Robotti, i Roasio...».
C'era anche Togliatti.
«E nulla poteva essere deciso senza che lui lo sapesse».
Come aveva reagito Gramsci alla persecuzione dell´amico?
«Anche qui mi permetta di essere riservato. Nel libro ci sarà un inedito gramsciano molto eloquente, scritto dopo il primo arresto. Vi si leggono riflessioni che furono la radice della sua successiva presa di distanza dallo stalinismo».
Comunisti italiani sia vittime che complici dei Gulag?
«È il grande rimosso nella storia del Pci e dei suoi eredi. Per decenni mogli e figli dei perseguitati cercarono di ottenere dal partito la riabilitazione dei loro cari. Le loro invocazioni furono lasciate cadere. Ancora nell´87 Alessandro Natta rispondeva a Nella Masutti, moglie di Emilio Guarnaschelli, che "la riabilitazione non riguarda noi, bisogna chiederla al Pcus"».
Cosa impedì a un Pci sempre meno filosovietico, e poi anche ai Ds, di affrontare una volta per tutte quel nodo spinoso?
«Un senso di disagio, se non di vergogna, nei confronti di quei dirigenti che non solo abbandonarono, ma denunciarono i loro militanti per salvare se stessi. Nella migliore delle interpretazioni, fu la voglia di guardare avanti dimenticando gli orrori del passato. È chiaro che i nuovi dirigenti del Pci, e quelli dei Ds, sinceramente democratici, non portano responsabilità per quei fatti. Ma evitare di fare i conti con le eredità politiche è una responsabilità morale grave».
Cos'è cambiato adesso? Cosa ha convinto il segretario dei Ds?
«Forse quella riflessione non era stata ancora chiesta con sufficiente forza. I libri servono anche a questo».
Cosa si aspetta da Fassino?
«Un gesto di grande moralità: riconoscere le sofferenze dei parenti di quelle vittime, la dignità della loro battaglia per tanti anni coperta dal silenzio».

Repubblica 12.4.07
Benedetto XVI rilegge Darwin
"L'evoluzionismo non basta per spiegare la creazione"
di Orazio La Rocca


In un libro le riflessioni del Papa sulle teorie del grande scienziato: "Non sono dimostrabili"

CITTÀ DEL VATICANO - La ricerca scientifica? «Da sola non è in grado di spiegare le origini della vita». Le teorie sull´evoluzionismo di Charles Darwin? « Non sono dimostrabili».
Parola di papa Ratzinger, secondo il quale alla base dell´inizio di «ogni cosa», a partire dalla vita, non ci può essere solo «il caso», ma un «disegno» collegabile direttamente a Dio. Benedetto XVI lo ha esposto in un simposio a porte chiuse lo scorso mese di settembre, nella residenza pontificia estiva di Castel Gandolfo, presenti 40 ex suoi allievi degli anni in cui insegnava teologia.
Tema di quell´incontro, Creazione ed evoluzione, quasi una lezione sulle teorie darwiniane tenuta da Ratzinger che per la prima volta dall´elezione papale volle toccare, così, uno dei temi più scottanti che negli ultimi anni hanno contrassegnato il difficile dialogo tra fede e ragione.
Dopo 8 mesi, l´intervento che papa Benedetto XVI fece davanti ai suoi ex allievi ora ha dato vita e forma ad un libro dal titolo «Creazione ed evoluzione» pubblicato mercoledì scorso in Germania e che presto sarà distribuito in tutto il mondo tradotto nelle principali lingue. Tesi portante del ragionamento ratzingeriano è che l´origine della vita, «opera» di Dio, non «può avere una spiegazione scientifica perché la scienza, malgrado le aperture, i progressi raggiunti, è pur sempre limitata». Quanto a Darwin, «la sua teoria sull´evoluzionismo - sostenne papa Ratzinger a Castel Gandolfo - non è completamente dimostrabile perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni non possono essere riprodotte in laboratorio».
«La scienza - fu il ragionamento del pontefice - ha aperto tante nuove strade alla ragione, portandoci verso nuovi approfondimenti. Ma nella gioia per l´estensione delle sue scoperte, la scienza tende a portare via da noi dimensioni della stessa ragione di cui abbiamo ancora bisogno». E ancora, «i risultati della scienza sollevano domande che vanno oltre il suo canone metodico», ma che non possono essere spiegate solo con gli stessi canoni scientifici. Gli interrogativi sulle origini della vita, si legge ancora nel nuovo libro di Ratzinger, «stanno sempre più reclamando una dimensione della ragione che abbiamo perso», mentre il dibattito sull´evoluzione - secondo il Pontefice - si basa in effetti «sulle grandi questioni della filosofia» e sugli interrogativi legati «a dove vengono e dove stanno andando l´uomo e il mondo».
Ad ascoltare queste analisi, lo scorso settembre accorse un nutrito gruppo di intellettuali, docenti universitari, filosofi e scrittori aderenti al «Circolo degli allievi del professor Joseph Ratzinger», ex allievi che avevano studiato col futuro Benedetto XVI nelle università tedesche di Frisinga, Monaco, Tubinga e Ratisbona. Al summit filosofico di Castel Gandolfo partecipò, tra gli altri, anche l´arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schoenborn, ex allievo dell´allora arcivescovo Ratzinger all´università di Monaco nel 1972-73. Lo stesso cardinale Schoenborn domani pomeriggio sarà uno dei relatori alla presentazione di un´altra fatica teololgico-letteraria di Benedetto XVI, l´attesissimo libro su Cristo dal titolo Gesù di Nazareth (Rizzoli). Accanto al porporato, nell´aula Paolo VI in Vaticano, interverranno Daniele Garrone, decano della facoltà di teologia all´università Valdese di Roma, padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede e portavoce del Papa, e Massimo Cacciari, ordinario di Estetica alla Facoltà S. Raffaele di Milano. Schoenborn aveva, in un certo senso, anticipato il dibattito di Castel Gandolfo pubblicando lo scorso luglio un articolo su Darwin sul New York Times, dove tra l´altro aveva sostenuto la provocatoria tesi di un «Dio designer» e criticato «il darwinismo ideologico».

Liberazione 11.4.07
«Servirebbe un gesto come quello di Mitterrand. Le due sinistre devono comprendersi»
Bertinotti: «Mi piacerebbe dire al Pd tutto a monte e ricominciamo da capo...»
di Frida Nacinovich


Un libro, lo scrittore, e il giornalista che lo intervista. Questa volta però è tutto un po' speciale. L'autore de "la città degli uomini" è Fausto Bertinotti, il presidente della Camera. L'intervistatore è Paolo Mieli, direttore del "Corriere della sera". La sala della stampa estera è troppo piccola per contenere gli spettatori. Politici e cittadini comuni, uomini di spettacolo e dirigenti Rai, ragazzi e anziani interessati al dibattito. Qui si parla di politica, di storia, di sogni, di ideali, identità. La città futura, appunto. Il "giovane saggio" - così Mieli chiama Bertinotti - non si tira indietro. Spiega, puntualizza, offre un consiglio anche al Partito democratico che a giorni spiccherà il volo. «Se potessi pronunciare un incantesimo - dice il presidente della Camera - sarebbe quello di poter dire "a munt", come facevamo da bambini quando l'urlo "a munt" azzerava il gioco e faceva ricominciare». Tutto a monte, per ricominciare. Ma gli incantesimi agli adulti non sono concessi, li possono fare solo i bambini. «Quello che dico non è abbandonare, ma ricominciare - spiega allora Bertinotti - perché tutte le formazioni forti hanno in comune innanzitutto una cultura politica e questa si costruisce con un lungo processo o con un colpo di ingegno, con un'invenzione come quella di Mitterand a Epinay». Chi non è contro il capitalismo esca da questa sala, disse Mitterand. Un'espressione magari rozza ma sicuramente forte, decisa.
Il pubblico ascolta interessatissimo, non perde una battuta. Mieli riesce a portare la discussione dalle speranze degli anni '60 e '70 alla difficile fase politica attuale.
E ora? Per Bertinotti c'è bisogno di costruire una cultura politica comune, attraverso un processo inclusivo. «Non basta dire: venite. Occorre determinare le condizioni perché ciò accada. Iniziando dalla democrazia, dalla riforma della politica e dalla forma partito. Se non ora, quando lo si deve fare? Se fossi un leader del Partito democratico mi proporrei di portare dentro anche la sinistra radicale, così come se ora fossi un leader della sinistra radicale avrei l'ambizione di includere anche tutta la sinistra riformista. Includere vuol dire cogliere la verità interna dell'altro».
Al direttore Mieli, che gli chiede chi potrà essere il leader capace di fare ciò, Bertinotti con una battuta risponde: «Io...». Applausi, magari qualcuno lo spera anche. Ma è solo una battuta. Il presidente della Camera spiega subito che nei Ds e nella Margherita esistono molti leader capaci di affrontare questo percorso, anche se l'elemento importante non è il leader, ma il progetto. «Il leader, comunque, per essere tale deve disporsi all'impresa, deve buttare il cuore oltre l'ostacolo, deve rischiare. Un nuovo partito non può nascere per inerzia». E ancora: «Un leader si giudica ex post. Uno può diventarlo per carisma oppure, come è per la Chiesa, per grazia di Stato. Non è vero che nei Ds e nei Dl non ci sono leader, tutti possono diventarlo ma bisogna saper rischiare».

Bertinotti:«Riformisti e radicali devono cercarsi, competere, includersi»
Il presidente della Camera, intervistato da Paolo Mieli alla presentazione del suo libro, parla del futuro, illustra proggetti e sogni. "Ci vorrebbe un gesto come quello di Mitterrand ad Epinay..."
di Frida Nacinovich

Il Partito democratico e le sorti della sinistra. Bertinotti non aggira l'ostacolo e va dritto al cuore del problema, si dice convinto che per i prossimi dieci anni la scena politica italiana vedrà la presenza di due sinistre: «Non c'è una soluzione monopartitica, ci sarà una competitività e una ricerca di convergenza e vincerà chi avrà più capacità di calamitare, di presentare la sua nuova identità». Due realtà in competizione tra loro, che cercheranno di convergere. Ma che saranno in competizione.
C'è anche lo spazio per un siparietto tra il presidente della Camera e il leader radicale Marco Pannella, arrivato anche lui alla presentazione de "la città degli uomini". Al direttore del "Corriere della sera" che gli chiede come mai non ci sia mai stata una fusione delle posizioni di Bertinotti con quelle di Pannella, il presidente della Camera risponde: «Invece di fonderci abbiamo "rubato" da Marco Pannella. A lui dobbiamo la testata del quotidiano di Rifondazione, "Liberazione", ma poi abbiamo continuato a rubare: gli abbiamo preso la non violenza ... e continueremo a rubare». Immediata la replica di Pannella: «Quelli erano e sono dei doni. Non millantare una capacità di furto che non hai».
Presente e passato a confronto, ricordi e stretta attualità, con la voglia di guardare oltre, al futuro. Il '68 non fu un'epoca di violenza, ma «una grande occasione storica mancata dalla sinistra», spiega Bertinotti. «Il '68-'69 fu un grande momento di cambiamento che però la sinistra non capì per tempo. La sinistra di allora non comprese cosa si agitava in Italia e in Europa. Non capisco come si faccia a ricordare quegli anni come quelli del terrore e della violenza, fu invece un momento di grande partecipazione e democrazia per i giovani e nelle fabbriche, che si incrociò con il movimento femminista. Le sinistra in Italia e in Europa non seppero incrociare quella domanda di cambiamento radicale e così persero l'occasione di favorire un grande rinnovamento e quel ciclo terminò politicamente con l'uccisione di Aldo Moro e socialmente con la lotta alla Fiat». Bertinotti ricorda anche l'incapacità delle forze più aperte della sinistra di portare a termine l'idea di una uscita dal capitalismo, il riformismo rivoluzionario di Ingrao, di Lombardi e di Trentin rimase anch'esso «una rivoluzione incompiuta». Seduto in prima fila, Sandro Curzi applaude. Il presidente della Camera rivendica la sua formazione di militante politico, di «socialista di sinistra, non nel senso della sinistra di un partito, ovvero del Psi, ma della concezione del superamento della società capitalistica a partire da un'idea di libertà, per questo negli anni più recenti ho parlato di un comunismo della liberazione».
La guerra in Afghanistan e gli sviluppi della vicenda Mastrogiacomo, si parla anche di questo nella sala della stampa estera. «Domani c'è una capigruppo - precisa Bertinotti - la mia previsione è che si chiuderà con la richiesta di intervento in aula del governo, con un autorevolissimo esponente dell'esecutivo, già questa settimana, penso giovedì».
Il cinema è stata una delle passioni giovanili e uno dei momenti di formazione per il presidente della Camera. Bertinotti ricorda come la prima tappa di quel percorso culturale fu sicuramente il neorealismo ma poi, aggiunge, «così come leggevamo di nascosto i fumetti, devo ammettere che mi è sempre piaciuto Totò, cosa che allora non potevo dire apertamente». Bertinotti riesce anche a ridimensionare uno stereotipo di Paolo Villaggio: «Ho visto dieci volte o più la "Corazzata Potemkin", sempre con dibattito a seguire». Tra gli altri filoni cinematografici, il presidente della Camera ricorda la «nouvelle vague» francese, il grande cinema del nord Europa, ma anche naturalmente il cinema americano e non soltanto il Marlon Brando di "Fronte del Porto", ma anche quello del "Selvaggio" e poi devo dire pure James Dean e la "Gioventù Bruciata".
Fausto Bertinotti avrebbe titolato il libro "la città delle donne". Una citazione felliniana per disegnare un futuro possibile, auspicabile della politica italiana.

Corriere della Sera 12.4.07
APPELLO SU «LEFT»
E c'è un caso ebraico «Dal Manifesto via quelle radici cristiane»
di M.Gu.

ROMA — Erano mesi che lo staff di Palazzo Chigi lavorava per ricucire i rapporti con la comunità ebraica, resi a dir poco faticosi dalle scelte di politica estera nell'area mediorientale. Il lavorio diplomatico cominciava a dare i suoi frutti, finché tra gli ebrei italiani ha cominciato a circolare il Manifesto del partito democratico, il documento fondativo della nuova forza riformista redatto dai dodici «saggi» dell'Ulivo.
Dove le sole radici citate nel Vangelo del Pd sono quelle del Cristianesimo e dell'Illuminismo. Il settimanale Left Avvenimenti, diretto da Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori, domani sarà in edicola con un articolo in cui esponenti di spicco della comunità chiedono a Prodi di «ritoccare» il Manifesto, se non aggiungendo un cenno alle radici giudaico-cristiane, almeno togliendo il passaggio incriminato. Quelle in cui è scritto, nero su bianco, che i valori che ispirano la nostra Costituzione «hanno le loro radici più profonde nel Cristianesimo, nell'Illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico democratico».
Un passaggio decisamente infelice secondo Amos Luzzatto (nella foto), già presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane.
«Aver messo le radici cristiane — osserva lo storico esponente della sinistra ebraica — è una concessione alle componenti cattoliche che faranno parte del futuro Pd». E poi, conclude, «mettere nella stessa riga Cristianesimo e Illuminismo è come voler apparentare cani e gatti».
Fernando Liuzzi, esponente del Gruppo Martin Buber—Ebrei per la pace, piuttosto che aggiungere un cenno all'Ebraismo toglierebbe i riferimenti al Cristianesimo. E assai critico è l'economista Giorgio Gomel: «Queste radici sono un falso storico... Bastava richiamarsi alla Costituzione repubblicana». E via così, una critica dopo l'altra. Victor Magiar, consigliere dell'Ucoi: «Questa gaffe sulle radici la dice lunga sul fatto che non c'è slancio in avanti». E quando l'autore dell'articolo, Tobia Zevi, chiede al «profondamente ebreo» Emanuele Fiano se resterà nel Pd a dispetto dell'omissione degli ebrei, il deputato dell'Ulivo risponde convinto: «Non credo che rimarrà così».

Corriere della Sera 12.4.07
CAPOGRUPPO DI PRC
Migliore: «Difendo il dissenso Ma non quello scritto sui muri»


ROMA — Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, che ne pensa della scritta «vergogna» usata contro monsignor Bagnasco e comparsa a Bologna?
«È da condannare, in maniera molto ferma. Come sono da condannare le scritte simili contro il presidente della Cei apparse in altre città. Sono gesti di intimidazione».
Ma Serafino D'Onofrio, esponente bolognese dell'Altra Sinistra (che comprende Rifondazione) ha detto in consiglio comunale che non va a scrivere sui muri, ma che condivide la parola «vergogna». E per questo non ha votato la mozione bipartisan di solidarietà al Presidente della Cei.
«Non voglio parlare di questo episodio. Ma sottolineo che bisogna distinguere nettamente gli atti intimidatori, tutti, gli atti che incitano alla violenza, dalle posizioni politiche. La polemica politica è su un altro piano, è separata, è fatta con mezzi diversi. Completamente differente dagli slogan che appaiono sui muri. E ripeto: la mia condanna della scritta contro Bagnasco è totale».
Ma questi attacchi a colpi di bombolette spray proliferano...
«Chi sceglie la scritta sul muro si nasconde. Mentre invece c'è bisogno di affrontare proprio davanti all'opinione pubblica il tema così importante delle libertà individuali e delle questioni eticamente sensibili. Anzi, ad essere sincero, io provo un vero senso di fastidio a discutere di chi e con chi si nasconde dietro una bomboletta spray, invece di discutere apertamente».
È innegabile però che ci sia un proliferare di attacchi contro l'arcivescovo di Genova, e anche contro il Papa, come nei giorni scorsi a Napoli. La sua condanna è così netta perché in fondo teme un'escalation di violenza?
«Non credo che in queste cose si possa determinare una specie di responsabilità oggettiva. Nel senso che le opinioni politiche non possono essere considerate come rilevanti nel determinare fenomeni così esecrabili. Ognuno si assume la responsabilità dei singoli gesti compiuti.
Ciò premesso, però, spero proprio che non ci sia nessuna escalation e nessuna violenza. Sono tutti episodi da condannare, senza eccezioni, senza se e senza ma, anche politici».
C'è chi paventa che, in questo momento, gli attacchi interni contro esponenti ecclesiastici si possano sommare ai rischi alimentati dall'estremismo di matrice islamica...
«Su questo sarei più cauto. Vedo meno un pericolo di proliferazione di attacchi jihadisti. E questo anche perché, per fortuna del nostro Paese e anche grazie all'azione dei servizi di prevenzione e intelligence, il rischio non si è mai concretizzato per nessuno. In ogni caso, su questo fronte, la migliore prevenzione è di non dare esca a nessuno scontro di civiltà».
Torniamo alle minacce alla Chiesa legate all'intolleranza che potrebbe essere generata dalle polemiche sulla politica interna in generale e sul caso «Dico», in particolare. Lei è stato pesantemente critico nei giorni scorsi con monsignor Bagnasco. Oggi, visto che piega stanno prendendo le cose, ripeterebbe quelle accuse?
«Continuerò a fare polemica politica. Anche perché la polemica su questi temi è reciproca, cioè anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Una vivace discussione, del resto, io la registro anche all'interno della comunità dei cattolici. Ma questa polemica, ripeto, non è per oggi. Non dobbiamo, per nessun motivo, confondere i due piani. Non è questo il giorno: non dobbiamo collegare la politica alle intimidazioni. Oggi per me c'è solo la condanna degli atti intimidatori contro Bagnasco».