martedì 17 aprile 2007

Corriere della Sera 17.4.07
L'addio il 5 maggio con la nascita dei gruppi parlamentari autonomi
«Parla Mussi e poi fuori» La sinistra ds annuncia lo «strappo» di Firenze
di Roberto Zuccolini


ROMA — La settimana decisiva per la nascita del Partito Democratico parte con la Margherita che naviga in acque relativamente tranquille, verso un congresso in gran parte già scritto. Mentre i Ds, a tre giorni da Firenze, sono in continua fibrillazione. Ovviamente soprattutto per la sinistra del partito che ieri, in una sofferta riunione, ha ufficializzato lo «strappo»: darà il suo addio alla Quercia venerdì, dopo l'intervento di Fabio Mussi, come spiega lo stesso leader del Correntone che proprio quel giorno compirà 58 anni: «Parlerò solo io: spiegherò pacatamente le ragioni per cui non posso condividere il percorso verso il Pd e quello che tenterò di fare per unire la sinistra». Concedendo ai suoi, una citazione di Adriano Sofri al secondo congresso di Lotta Continua, quello che segnò il suo progressivo scioglimento: «Il nuovo movimento non ha alternative perché stare nel Partito Democratico, facendone la sinistra sarebbe come condannarsi a vivere nel terremoto».
Per correttezza il Correntone non entrerà nelle commissioni congressuali: assisterà soltanto.
Ma l'addio vero e proprio avverrà qualche settimana dopo, intorno al 5 maggio, quando con una manifestazione a Roma verrà lanciato il nuovo Movimento per la Sinistra e partiranno i gruppi parlamentari autonomi.
Ma nella riunione della sinistra diessina c'è anche chi, pur continuando a criticare in modo convinto il progetto del Partito Democratico ha già deciso di restare o, quantomeno, di non andarsene via subito. Primo fra tutti Vincenzo Vita, ex portavoce dello stesso Correntone e attualmente assessore alla Cultura della Provincia di Roma: «Continuerò a stare nella sinistra, ma vedo incerta la prospettiva che si apre con la scissione: mi sembra un'accelerazione eccessiva. Credo inoltre che si possa ancora incidere sulla formazione del Pd». In altre parole, per il momento resterà. E dagli umori che si registrano nella sinistra diessina anche altri potrebbero seguire il suo esempio, da Valerio Calzolaio ad alcuni delegati della Lombardia. La linea definitiva dell'area verrà comunque stabilita nell'assemblea dei delegati della mozione Mussi che si terrà domani sera a Firenze, poche ore prima dell'inizio del congresso.(...)

Corriere della Sera 17.4.07
Commemorazione con Fiore (Forza Nuova)
Veltroni: fratelli Mattei, un muro per le vittime di destra e sinistra
di Alessandro Capponi


ROMA — Un muro per unire: sopra, i nomi delle vittime degli anni di piombo, morti di destra e di sinistra ma adesso, semplicemente, ragazzi morti. Walter Veltroni lo annuncia in un luogo di destra, con parenti di vittime di destra, con politici di destra che possono solo applaudire. Al bar poco distante, quando il sindaco esce e va via, un uomo corpulento in t-shirt celestina dice che « Warterino s'è alleato coi fascisti ». Ma non è così, forse è di più.
Un muro, ecco, un muro per «fermare l'odio» che è degli anni Settanta ma poi «guai a considerarlo estirpato per sempre»: Veltroni parla con uno striscione alle spalle, e proprio sopra la testa ha questo simbolo stilizzato, un rombo con al centro la fiamma tricolore del Msi. È il trentaquattresimo anniversario del rogo di Primavalle, oggi, quei due fratelli bruciati, uno di otto anni, un bambino, e l'altro invece, di ventidue, fotografato così, in bianco e nero, affacciato alla finestra e già carbonizzato: adesso l'associazione «fratelli Mattei» - morti nell'incendio del 1973 provocato dai tre di Potere operaio, Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo - oggi, dunque, l'associazione fondata da uno dei familiari sopravvissuti, Giampaolo, ha in zona Marconi una sede donata dal Campidoglio.
«Due stanze per parlare al Paese intero».
Veltroni annuncia di voler creare a Roma «un muro sul quale scrivere i nomi di tutte le vittime di quegli anni folli e terribili, ragazzi uccisi perché leggevano un giornale di partito, uccisi per un motivo che è difficile spiegare ai nostri figli». In piedi, poco distante, c'è Roberto Fiore di Forza Nuova, seduto in platea ecco Gianni Alemanno, di An: «Questo luogo è un monito. Può sembrare un atto dovuto del Comune, ma è un gesto importante». La destra, qui, è a casa. Eppure Giampaolo, il sopravvissuto, ha gratitudine quasi solo per Veltroni: lo bacia, gli stringe la mano (nella foto), parla di «un politico che, lui sì, ha dimostrato rispetto». Veltroni aveva «preparato un discorso che però, adesso, non ce la faccio a leggere»: e allora va a braccio, racconta di quegli anni che «ricordo con spavento» e che «vorrei riuscire a cancellare dalla percezione che si ha del passato, perché sono stati anni folli, una guerra, con gli italiani schierati gli uni contro gli altri»; anni nei quali «i nostri ragazzi potevano venire picchiati, bastonati, bruciati vivi. Ecco, quello che è accaduto non deve più accadere». Così nasce l'idea del muro con, insieme, i nomi delle vittime di quegli anni. «Ma non un muro che riconcili, non c'è niente da riconciliare: dobbiamo solo riconoscerci, e rispettarci». Sembrerebbe così facile, così giusto, così nobile. Due ore dopo, ecco altre parole. Sono del segretario romano di Prc, il deputato Massimiliano Smeriglio: «Esprimiamo delle perplessità per la presenza del sindaco nella sede di un'associazione nella quale, oltre ai militanti di Forza Nuova, spicca il quadro con il profilo di Benito Mussolini...». E Roberto Fiore, che alla fine saluta Veltroni con un glaciale «buonasera»: «Belle parole quelle del sindaco, ma se non chiude i rubinetti ai centri sociali...». Un muro per unire, si diceva: il problema, forse, non sarà costruirlo, ma tenerlo in piedi.

Corriere della Sera 17.4.07
A Viva radiodue. Il presidente della Camera ospite di Fiorello che gli fa leggere il testo della canzone azzurra spacciandolo per una poesia
Bertinotti recita l'inno di Silvio e premia Veronica


MILANO — «La "Coppa Marx"? In fondo è un dispettuccio a Berlusconi: la assegnerei a Veronica Lario». Un bel match quello che ieri ha impegnato Fausto Bertinotti, ospite di Fiorello a Viva Radio2: attribuire il trofeo al «personaggio più comunista». E il presidente della Camera è stato al gioco. Prima della finale vinta dalla moglie del leader della Casa delle Libertà su Valeria Marini, Bertinotti si è dovuto esprimere su altri nomi. Il gioco della premiata coppia Fiorello & Baldini prevedeva l'eliminazione diretta tra personaggi. Così l'ex segretario di Rifondazione, non senza ritrosia («Marx mi impicca, mi disereda), ha definito addirittura Silvio Berlusconi più comunista di Confalonieri perché questi «detiene l'azienda» e Giulio Tremonti come più rosso di Sandro Bondi e Lele Mora. Francesco Totti ha vinto su Valentino Rossi mentre Bruno Vespa su Emilio Fede. Un po' di diplomatica esitazione, invece, di fronte alla scelta tra Benedetto XVI e il cardinale Ruini: «Non posso pronunciarmi, se do del comunista al Papa cosa mi succede? — ha commentato Bertinotti —. Ma poiché il comunismo è un'idea alta e più alto del Papa non c'è nulla, scelgo Ratzinger». Però tra Lady Veronica e il Papa l'ha spuntata la prima: «Siccome nelle gerarchie ecclesiastiche le donne sono poco premiate...».
Mezz'ora ai microfoni di Viva Radio2 tra scherzi e riflessioni serie sulla politica («un'idea attraverso cui si può aiutare chi sta male a stare meglio, un'idea di liberazione degli uomini da tutte le forme di oppressione e un'emancipazione di me medesimo») con un Fiorello ormai abituato ai politici ospiti in trasmissione. Del resto lo scorso anno aveva anche ricevuto la telefonata del vero Smemorato di Cologno, cioè l'ex premier Silvio Berlusconi, e dell'allora sfidante Romano Prodi ma anche dell'ex capo dello Stato Ciampi, «ospite» fisso della trasmissione radiofonica nell'imitazione di Fiorello, che ora invece fa Giorgio Napolitano dal Quirinale. L'esordio della puntata è dei più tradizionali, con i due conduttori che danno del Presidente a Bertinotti e gli chiedono cosa fa la terza carica dello Stato: «Presidente sarà lei — è la risposta scherzosa —. Suona la campanella, quello è fondamentale, il resto è sussidiario».
Quindi il primo gioco, un'intervista con risposta obbligata, sì o no, su personaggi e situazioni. Il presidente della Camera dice no a Putin, sì ad Ancelotti, sì ai cinesi «perché sono tanti», sì a Enzo Biagi in tv («lo rispetto»), no alla tv delle veline, alla moviola in campo (meglio metterla a Montecitorio: «magari si anima»), no a Berlusconi-statista ma sì a Berlusconi-presidente del Milan, no a Mike Bongiorno senatore a vita e no al tatuaggio di Che Guevara. Sì all'euro «purché ci siano alti salari», sì — pronunciato con entusiasmo — alla Juve in B, sì a Porta a Porta, sì «all'ora delle religioni», sì ai matrimoni gay. E sì anche ai fischi alla Sapienza «perché sono fisiologici: se uno si prende gli applausi deve prendersi anche i fischi. Ma erano pochi...»; sì ai benefit per i parlamentari «purché legati alle funzioni che svolgono», sì alla play station, sì a Emilio Fede sul satellite: «Per quale ragione — gioca — dovremmo toglierglielo?». No al calendario di Stefania Prestigiacomo («non ne sento il bisogno»). Infine la domanda più sibillina: Berlusconi come Berlusconi? «È troppo criptica questa domanda — svicola il presidente della Camera —. Qualunque cosa dicessi, potrei sbagliare. Mi avvalgo del famoso comandamento...». «Emendamento» lo corregge Fiorello.
Ma le forche caudine non sono ancora superate. Ad attendere Bertinotti c'è un tranello: gli fanno declamare l'inno di Forza Italia spacciandolo come un'antica poesia intitolata all'Italia. Di fronte alla verità, prima lo stupore poi la battuta dell'ex segretario di Rifondazione: «Quanti in studio se ne erano accorti? Se invece avessi letto Bandiera Rossa... Comunque, una volta tolta la parola "Forza", ci teniamo l'Italia...».
Francesca Basso

Corriere della Sera 17.4.07
Nel Gennaio 2001
Gli 007 francesi avvertirono la Cia prima della strage alle Torri Gemelle
di Guido Olimpio


È il gennaio 2001. Alcuni informatori della Dgse, il servizio segreto francese, raccolgono notizie su un piano terroristico contro gli Usa: Al Qaeda vuole dirottare aerei appartenenti a compagnie statunitensi. La segnalazione — con data 5 gennaio — viene subito girata al capo stazione Cia a Parigi, Bill Murray. Ma l'allarme non porta a contromisure e il complotto va avanti.
A rivelare l'esistenza della nota confidenziale il quotidiano Le Monde,
che descrive in modo minuzioso un dossier di 328 pagine redatto dagli 007 francesi tra il luglio 2000 e l'ottobre 2001. La storia dell'allerta dato da Parigi non è inedita, ma il giornale aggiunge dettagli importanti, sostenuti da conferme dirette dei funzionari di Parigi. Nessuna risposta, invece, dalla Cia.
La «spy story» prende le mosse in Afghanistan. I servizi francesi, con pazienza e grande conoscenza del fenomeno integralista, costruiscono una rete di informatori. Da una parte «lavorano» sugli islamisti che dall'Europa vanno ad addestrarsi nei campi di Al Qaeda e riescono probabilmente a infiltrare diverse talpe. Dall'altra hanno una fonte importante legata al signore della guerra Abdul Rashid Dostum. Uomo spietato, avversario dei talebani, il generale usa le sue origini uzbeke per infiltrare il Movimento Islamico Uzbeko, alleato di Osama. Ed è questa pista a rivelarsi fruttuosa. Le spie raccolgono informazioni su un possibile piano terroristico e le comunicano all'intelligence dell'Uzbekistan, che a sua volta avverte i francesi.
Nei documenti della Dgse si precisa che i terroristi parlano di dirottamento aereo ma sono divisi su quali tattiche impiegare: «Secondo i servizi di informazioni uzbeki, il piano è stato discusso all'inizio del 2000 durante una riunione a Kabul tra rappresentanti dell'organizzazione di Bin Laden». I terroristi considerano l'ipotesi di impadronirsi di un aereo in servizio tra Francoforte e gli Stati Uniti, elencano sette compagnie americane come possibili obiettivi. Ci sono anche l'American Airlines e la United Airlines, scelte dai pirati dell'aria dell'11 settembre.
Commentando oggi quella nota d'allarme, i funzionari francesi ammettono che non c'era alcun elemento che facesse pensare alla tattica poi usata contro le Torri Gemelle. All'epoca il dirottamento di un jet significava imporre un lungo ricatto, con l'aereo fermo sulla pista e i pirati a dettare condizioni. Certamente la segnalazione giunta da Parigi avrebbe dovuto mettere in guardia gli apparati di sicurezza Usa. Anche perché c'erano altri segnali. Intercettazioni di colloqui lasciavano intendere che Al Qaeda era pronta a colpire e lo stesso Osama aveva rilasciato un'intervista promettendo «una sorpresa» per gli Stati Uniti. La commissione di inchiesta sull'11 settembre ha documentato, in modo chiaro, che nei mesi precedenti al massacro erano pervenute «dozzine» di note che parlavano non solo dell'ipotesi di dirottamento ma anche di azioni suicide con l'utilizzo di aerei. Nella primavera del 2001, la «Federal Aviation Administration», l'ente che si occupa dell'aviazione civile Usa, aveva avvisato i maggiori scali statunitensi sulla possibilità di attacchi «spettacolari» dove «l'intento del pirata non è chiedere uno scambio ma compiere un atto suicida». E c'erano 52 rapporti che indicavano come possibile fonte della minaccia Osama o Al Qaeda. Nelle carte consultate da Le Monde, c'è infine un capitolo interessante legato ai rapporti tra Bin Laden e l'Arabia Saudita. Gli 007 hanno le prove del sostegno finanziario in favore della rete qaedista. Come il bonifico di 4,5 milioni di dollari — data 24 luglio 2000 — in favore di Osama da parte di un'associazione caritatevole saudita che sarà inclusa nella lista nera solo nel 2006. I servizi francesi sembrano condividere l'idea che a Riad non siano pochi coloro che mantengono un forte vincolo ideologico e finanziario con Bin Laden. Senza aiuto e copertura non sarebbe potuto diventare il Califfo del terrore.

Corriere della Sera 17.4.07
Accenti diversi in due enciclopedie
Se la bioetica divide i filosofi


«Enciclopedia» evoca, già nel fondo etimologico, un'educazione circolare, un sapere intero e compiuto. In essa dovrebbe esservi «tutto»: un tutto, che, disponendosi in circolo, viene raccolto e ordinato ad unità. È, questo, il modello delle grandi enciclopedie, in cui si esprime una visione del mondo, una dottrina filosofica, un'ideologia politica.
Manifesto dell'Illuminismo europeo è l 'Encyclopédie, che ha nome da Diderot e d'Alembert, e che trascende, mediante lo «spirito sistematico», la sequenza alfabetica delle voci. E così fu della Enciclopedia Italiana, venuta fuori, in trentacinque volumi, fra il 1929 e il 1936: la Prefazione all'opera — in cui non è difficile riconoscere il timbro emotivo e lo stile potente di Giovanni Gentile, ideatore e direttore dell'opera — rende omaggio al più largo e generoso metodo storico, ma pure s'intona alla coscienza nazionale e alla cultura dell'epoca. Nelle due grandi enciclopedie, la francese e l'italiana, non c'è un disperso schedario di voci, un empirico regesto di vecchio e nuovo, ma un criterio unificante, che regge insieme i contributi di singoli autori e li fa quasi discendere da un tronco comune.
Che ne è di questo modello nell'età nostra, quando, declinate ideologie politiche e visioni unitarie del mondo, il sapere si scompone in molteplici e chiusi specialismi? Quando il cammino umano non più somiglia ad un circolo, dove principio e fine in ogni punto coincidono, ma ad una linea, diretta non si sa da chi e non si sa verso dove? Sono domande, suscitate da due opere, che — si risponda in uno od altro modo a quei dubbi — onorano la cultura italiana per liberalità d'impostazione e prestigio di contributi. Ci stanno dinanzi: la nuova edizione dell'Enciclopedia filosofica (Bompiani, vol. 1-12), promossa dal Centro di studi filosofici di Gallarate, e affidata all'autorevole ed esperta direzione di Virgilio Melchiorre; e il primo volume della Enciclopedia italiana, XXI secolo (lettere A-E), che Tullio Gregory, in antica e operosa fedeltà all'omonimo Istituto, ha concepito e attuato con finezza intellettuale e audacia di scelte.
Opere diverse e insieme concordi: diverse per la volontà di completezza dell'una (appunto, un sapere circolare e conchiuso), e per la selezione, propria all'altra, di lemmi significativi nel nuovo secolo. Concordi, come già si accennava, nello spirito liberale, nell'accogliere posizioni di dissenso e di critica, nel segnalare problemi piuttosto che nell'offrire pigre soluzioni.
XXI secolo reca per sottotitolo «settima appendice», quasi che l'opera si rannodi alla Enciclopedia degli anni Trenta, e vi aggiunga, or qua or là, particolari elementi o curiose novità. Il vero è che XXI secolo sta a sé, sciolto dai vincoli della filosofia idealistica, e teso, non già a fissare e difendere un indirizzo di cultura, quanto a cogliere i sintomi del nuovo secolo ed a precorrerne i temi dominanti.
Si spiega così la singolarità di talune voci: da acquacoltura ad antitrust, da autorità indipendenti a clonazione, da competitività a Costituzione europea, da derivati finanziari a doping. Lemmi di un secolo che ha appena consumato il proprio inizio, e che procede, come sempre nella storia, fra le tenebre del caso e dell'imprevisto, e tuttavia parole e concetti, già oggi penetrati nella nostra vita e capaci di guidare il nostro agire.
Quell'essere diverse e insieme concordi si coglie nell'analisi di singole voci o gruppi di voci. Le due enciclopedie riservano largo spazio ai lemmi composti da «bio» (da bio-politica a bio-sfera etc.), e dunque riguardanti la struttura fisica e la corporeità dell'uomo. Ma la trattazione ne è svolta con accenti distanti; nell'Enciclopedia filosofica, emerge il profilo ontologico, la natura metafisica della persona; nell'altra, la libera fruizione del corpo, tutta consegnata alla volontà ed alle scelte dell'individuo. Prospettive lontane, che il lettore registra in consapevole autonomia e svolge in propria meditazione. Insomma, alle due cospicue opere non bisogna chiedere ciò che esse non possono dare, cioè soluzioni definitive e rimedi consolatori, ma attingerne lucidità di analisi e coscienza problematica, Che è di per sé ragione di schietta gratitudine.

l’Unità 17.4.07
Mussi parla e se ne va. Venerdì
Filippeschi: «Se la scissione è già decisa meglio evitare una inutile sceneggiata». Il segretario Cgil non è delegato
di Simone Collini


PER LA SINISTRA DS il congresso finisce venerdì, subito dopo che avrà parlato Fabio Mussi. I sostenitori della seconda mozione non abbandoneranno in massa il Mandela Forum di Firenze: «Non siamo al Teatro Goldoni, anno 1921», sintetizza il coordinato-
re organizzativo Gianni Zagato. Ma anche se non si darà vita a gesti eclatanti, anche se la parola scissione non la vogliono neanche sentir nominare, lo strappo ci sarà. Chiuso l’intervento del ministro dell’Università scatterà una sorta di “liberi tutti”. Ognuno dei 220 delegati della minoranza deciderà cioè se rimanere ad ascoltare o meno gli interventi successivi. Ma quel che è certo è che nessuno di loro sarà in sala sabato mattina, quando verranno eletti i membri del Consiglio nazionale della Quercia, quando Piero Fassino chiuderà il congresso dopo aver incassato la proclamazione a segretario, quando verranno votati i provvedimenti che danno il via alla fase costituente del Partito democratico. La maggioranza non apprezza: «Se la scissione è già decisa, meglio evitare una sceneggiata inutile», dice il membro della segreteria Marco Filippeschi definendo «senza senso» la partecipazione al congresso della seconda mozione. Che non replica.
Il modo in cui andare al congresso è stato deciso ieri in una riunione a cui hanno partecipato i parlamentari, i membri della Direzione, i coordinatori regionali e delle città metropolitane della sinistra diessina. Su proposta di Mussi è stato però anche deciso di scandire le prossime tappe del percorso che deve portare alla creazione di una costituente alternativa a quella del Pd, e che avrebbe come obiettivo quello di unificare le forze di sinistra oggi divise. Il primo appuntamento il 5 maggio: verrà organizzata a Roma una manifestazione che lancerà un nuovo movimento politico. Sono già state fatte alcune prove grafiche per il simbolo, mentre per il nome l’orientamento è per “Sinistra democratica” con l’aggiunta di “Per il socialismo europeo” nella corona inferiore. Quel giorno verrà anche deciso se far nascere dei gruppi autonomi alla Camera e al Senato, anche se al momento viene dato per certo: sarebbe strano, viene spiegato, che un movimento politico non si desse una rappresentanza in Parlamento avendo i numeri per farlo. E i numeri, 23 deputati e 10 senatori, sulla carta la sinistra Ds li ha. «Non si tratta di dar vita a un nuovo partitino», chiarisce Mussi rispondendo indirettamente a un’osservazione avanzata più volte nei giorni scorsi da Fassino, «né di aderire a forze già esistenti». L’obiettivo è quello di lavorare per unificare le forze che stanno a sinistra del Pd. Non a caso, dopo aver partecipato ed essere intervenuto al congresso dello Sdi, Mussi parlerà il 4 maggio al congresso dei Verdi.
Intanto, il ministro si prepara per il discorso che farà venerdì. «Spiegherò pacatamente le ragioni per cui non possiamo condividere il percorso verso il Pd», dice Mussi, «spiegherò anche quello che tenterò di fare per unire la sinistra». Il leader della sinistra Ds chiederà «rispetto» per la scelta di non aderire al nuovo soggetto e sottolineerà che la costituente alternativa a quella lanciata da Ds e Margherita è «di pari dignità». Anche perché, fa notare richiamando il sondaggio che dava il Pd al 23%, «una volta che il nuovo partito sarà formato, per fare una maggioranza mancherà altrettanto».
Niente ripensamenti dunque, anche se tra le file della minoranza c’è chi non condivide tempi e modi stabiliti. Come il lombardo Agostino Agostinelli, per il quale «ci sono state forzature non decise collettivamente»: «Pur restando lontanissimo dal Pd, non è questo il momento di rompere, dobbiamo fare lotta politica». O come Vincezo Vita, che pure del Correntone è stato portavoce: «Resto contrario al Pd, ma mi pare incerta la prospettiva proposta e poi questa accelerazione rispecchia l’errore fatto dalla maggioranza». Si tratta però di perplessità e critiche minoritarie nella sinistra diessina. E anzi quanti contestano la decisione di dar vita insieme alla Margherita al nuovo soggetto non mancano di mettere in luce tutte le stranezze di quanto sta avvenendo. Una per tutte: il segretario della Cgil Guglielmo Epifani sarà al congresso Ds come invitato, non come delegato (il Botteghino avrebbe offerto la delega in una quota regionale ad Epifani, che ringraziando ha rifiutato). «Non si è mai visto che il leader del principale sindacato non sia delegato al congresso del maggior partito della sinistra», è la considerazione fatta nella minoranza diessina, per la quale non è privo di significato questo mantenimento delle distanze.

l’Unità 17.4.07
Da mozione Angius a corrente organizzata
Verificheremo le aperture, dice la terza mozione. E darà battaglia su laicità e Pse
di Eduardo Di Blasi


CORREGGERE LA ROTTA. Con questa idea i firmatari della mozione Angius-Zani andranno al Congresso di Firenze. Nella sala Cesarini, al secondo piano interrato del Grand Hotel Palatino di Roma, i delegati, assieme ai coordinatori regionali e provinciali che hanno aderito alla mozione «Per un partito nuovo, democratico e socialista», si sono incontrati ieri pomeriggio per fare il punto sulla tornata congressuale appena terminata e gettare lo sguardo al congresso Ds, e alla fase costituente del Pd che sarà alle spalle di questo.
Alcuni punti sono già chiari: la nuova minoranza interna al partito diventerà una «corrente». Meglio, per dirla con le parole del senatore Massimo Brutti, «una corrente organizzata, in contatto stabile con la periferia, ma allo stesso tempo anche un’associazione politica capace di dialogare con tutto quello che sta fuori dai Ds, come movimenti, associazioni, altri partiti». I firmatari della mozione Angius-Zani hanno l’ambizione di contribuire alla costruzione del nuovo soggetto politico, attraverso la forza delle proprie idee. Per questo puntano ad essere presenti nei comitati locali, nelle associazioni per il Pd, ma anche nei «posti che contano». Inizieranno promettendo battaglia al Congresso di Firenze.
La tenzone congressuale sarà combattuta attraverso ordini del giorno che puntino a dilatare i tempi della fase costituente del Pd (per consentire l’allargamento del Pd oltre Ds e Dl), a garantire la laicità e i diritti del lavoro dentro il nuovo soggetto, a richiedere una verifica congressuale anche alla fine della fase costituente. Si chiederà la confluenza nel Pse, e, oltre a proporre la cancellazione del «manifesto dei saggi», una delle proposte, accolte, di Ivana della Portella, parla di riscrivere un «nuovo» manifesto (un manifesto della mozione ma ovviamente aperto agli altri contributi), da proporre all’assemblea. Il Congresso «è importante», afferma Angius, che non vuole parlare di quello che succederà durante e dopo l’assise fiorentina. Certo questo sarà un banco di prova importante per comprendere «quali saranno le aperture della maggioranza alle nostre proposte», come spiega il deputato Sergio Gentili. Nel discorso conclusivo della riunione del Palatino (che era a porte chiuse), Gavino Angius ha sottolineato, d’altronde, avendo a mente quanto scritto da Romano Prodi all’Unità, che le vere battaglie di qui a venire non sono quelle con Fassino e D’Alema, ma quelle che seguiranno, perché su temi come l’approdo al Pse e la laicità non c’è condivisione con i cugini della Margherita.
«Dobbiamo vedere cosa fa la maggioranza. Se questo congresso si ridurrà ad una conta notarile dei congressi svolti fin qui, o se ci saranno delle aperture», spiega il consigliere regionale del Lazio Giovanni Carapella. Una spia importante, sul tema, potrebbe essere quella che arriva proprio dal congresso laziale dei Ds, dal quale, spiega Nicola Zingaretti, segretario dei Ds del Lazio: «È uscita una posizione unitaria della mozione Fassino e della mozione Angius su come andare avanti nella fase costituente». Zingaretti registra, in una regione dove la Angius-Zani è andata più che bene, «una forte unità di intenti per dar vita ad un partito che non sarà una fusione fredda tra Ds e Margherita, ma che sarà aperto alle idee, partecipato e rivolto al popolo dell’Ulivo e a tutti i cittadini».
I congressi restano un’incognita, ma quella che si appresta ad essere la «nuova minoranza» dei Ds, ha le idee chiare. L’appuntamento è a venerdì mattina, quando, nel capoluogo toscano, Gavino Angius, Mauro Zani e il portavoce Alberto Nigra, illustreranno i passi della «battaglia». I conti, ritiene Angius, si faranno alla fine.

l’Unità 17.4.07
Democratico sì, ma anche laico?
di Carlo Flamigni


In un articolo di qualche settimana fa su «Repubblica» Vincenzo Cerami esponeva le molte ragioni che, a suo parere, dimostrano che del Partito Democratico, in realtà, abbiamo tutti bisogno. Mi ha particolarmente colpito, tra le varie motivazioni di Cerami, questa: «Il Partito Democratico apre le porte che fino a ieri tenevano separati laici e cattolici, democratici di De Gasperi e democratici di Berlinguer, democratici di Nenni e democratici cristiani. Liberarsi di quei cancelli, mischiando le diversità sotto la stessa bandiera, svuota di senso i vecchi conflitti... fa nascere un nuovo senso di appartenenza... ben disposto agli scambi di esperienza e di cultura».
Nello stesso giornale si poteva leggere una dichiarazione di Fassino che il giornalista riassumeva così: «Non ci sarà una scissione dei Ds», affermazione ribadita da Romano Prodi che diceva: «Dissensi sì, questa è la democrazia. Ma non credo che ci saranno scissioni nella Quercia».
Debbo riconoscere che queste letture hanno avuto effetto sul mio prudente ottimismo, trasformandolo in ansiosa e confusa perplessità. Vedo di spiegarmi.
Ho firmato la mozione Mussi per molte ragioni, la più importante delle quali dipende, debbo riconoscerlo, dalla mia identità di laico, frequentemente in conflitto, soprattutto negli ultimi 20 anni, con una parte influente del mondo cattolico, collocata (purtroppo) nell’una e nell’altra parte dello schieramento politico; debbo anche ammettere che il fantasma più fastidioso che visita i miei incubi notturni riguarda la possibilità di ritrovarmi prima o poi a militare in una Democrazia Cristiana di sinistra, un destino al quale vorrei disperatamente sfuggire. Debbo infatti ammettere di sentirmi separato dai cattolici (non tutti) e dai democristiani (tutti) non dai cancelli ai quali allude Cerami, ma da mura più spesse di quelle dell’inespugnabile Troia.
Se posso avanzare una timida critica nei confronti delle previsioni di Cerami, mi sembra che il suo articolo ipersemplificasse il problema: abbattiamo i cancelli, scriveva, mescoliamoci, e op-là tutto è risolto: scopriremo dunque che le ragioni del dissenso che hanno consumato i nostri nervi sono futili, banali, puerili, forse addirittura inesistenti, destinate a dissolversi al primo abbraccio fraterno. In fondo Cerami mi dà del cretino, ma questo non mi scuote: aumenta la mia perplessità.
Diventa però essenziale, a questo punto, interpretare le parole di Fassino. Perché diceva, allora, che non ci sarà una scissione nel partito, cosa sa lui che noi non sappiamo? Ci stava forse dicendo - il linguaggio della politica è misterioso - «ci penso io, risolvo io problemi e dissensi, lasciatemi fare»? Ho molta fiducia in Fassino ma, in tutta sincerità, non l’ho mai creduto capace di miracoli, almeno fino ad oggi.
A questo punto debbo necessariamente chiamare in causa il massimo esponente dell’ “avanguardismo cattolico”, che personalmente identifico nella persona del Pontefice Benedetto XVI. Mi riferisco in specifico al suo discorso (marzo 2006, salvo errore) ai parlamentari del partito popolare europeo, intitolato «Vita, famiglia, educazione: non negoziabili», dedicato alla tutela della vita, dal concepimento alla morte naturale, al riconoscimento della struttura naturale della famiglia (e alla sua difesa dai tentativi di destabilizzazione), nonché alla tutela del diritto dei genitori di educare i figli. Oltre tutto, Benedetto XVI non ritiene che questi principi siano verità di fede, ma li considera iscritti nella natura umana e quindi comuni a tutta l’umanità. Dunque, a chi chiede di iniziare un dialogo mediatorio su questi principi, la Chiesa è costretta a rispondere «non possumus»; se la richiesta riguardasse una verità di fede, la risposta non potrebbe essere che una dichiarazione di guerra (di religione, le peggiori). Sic et simpliciter.
Il 13 marzo di quest’anno lo stesso Pontefice ha ribadito questo concetto, ricordando ai politici cattolici che «sui valori non si negozia» ed esprimendo ancora una volta una severa condanna nei confronti delle «leggi contro natura». Ho cercato sui giornali le reazioni dei politici in particolare di quelli del centro- sinistra. Prevalente il silenzio, soprattutto dei segretari e delle persone più rappresentative; qualche fremito del cosiddetto gruppo dei 60; Rosy Bindi non ha niente da dire; i teodem sono irritati (non sarà il cilicio?); Fassino, non pervenuto.
Arrivo alle necessarie, anche se sofferte, conclusioni. I temi sui quali i cattolici non possono negoziare sono - guarda caso - proprio gli stessi dei quali i laici vogliono discutere e, se non è troppo pretendere, cercare qualche possibile tipo di mediazione. Li conoscete: lo statuto ontologico dell’embrione; la disponibilità della vita personale; il confronto tra qualità e sacralità della vita; il riconoscimento delle coppie di fatto; la scuola pubblica; l’aborto; la contraccezione; la libertà della ricerca scientifica e i suoi possibili vincoli; il rapporto tra le religioni e lo stato laico. Se ho capito bene, la risposta alle nostre offerte di dialogo sarebbe sempre e comunque la stessa: non possumus. Evviva l’etica delle verità, al diavolo la compassione, la tolleranza, la laicità e i diritti civili. C’è poco da stare allegri.
Però, mi dirà qualcuno a questo punto, questo è il Pontefice, questa è la Cei, questo è il cattolicesimo più integralista: cosa c’entra il Partito Democratico? Parliamone.
Una volta che saranno stati abbattuti i cancelli, non ci troveremo faccia a faccia con nuovi e sconosciuti compagni (nel senso di amici): i nostri prossimi interlocutori li conosciamo già, e bene. Non voglio provocare premature crisi di pessimismo, ma il leader dei nostri nuovi compagni (nel senso di amici) non è quel Rutelli che ha fatto approvare la legge 40 e ha contribuito al fallimento del referendum? Lo stesso che non vuole più discutere la legge sulle coppie di fatto? E la signora al suo fianco, non è per caso quella senatrice che ha visto il buon Dio intervenire direttamente sui parlamentari per far cadere il Governo? E non è forse a questi compagni (nel senso di amici) che si rivolge in modo privilegiato il Vaticano quando esige che la coscienza di un parlamentare cattolico prevalga comunque e sempre su sciocchezze come il mandato che gli è stato affidato dai suoi elettori? Non saranno state queste brave persone a impedire che nel documento di programmazione del Partito Democratico non vengano neppure menzionati i molti temi “eticamente sensibili” che stanno tanto a cuore a noi poveri laici miscredenti? Non sarà che questa storia dei cancelli da abbattere è solo una romantica metafora e che le mura di Troia sono altra cosa rispetto a quelle di Gerico?
A meno che. A meno che le assicurazioni di Fassino non abbiano quel significato che in realtà mi è sembrato di poter intuire, e che cioè il Segretario sia in grado di arrivare al congresso con una seria proposta di soluzione di questo essenziale problema. A noi, diciamolo pure, basterebbe poco: ad esempio, una dichiarazione nella quale i cattolici che aderiranno al nuovo partito si impegnano a considerare tutti i temi eticamente sensibili come negoziabili. Forse questa è l’ultima possibilità rimasta per conservare, agli eredi della Quercia, un destino comune.
Come è obbligatorio tra compagni (nel senso di amici) noi ci fidiamo, ma qualche firma la vorremmo pur trovare, in calce al documento. Fassino sa di quali firme parliamo.

il manifesto 17.4.07
Addio ai Ds, senza rimpianti
Colloquio con Tortorella: il Pd è l'approdo naturale per quei liberal-democratici che fecero la svolta. Per gli altri il socialismo non può essere un etichetta: è un compito da affrontare uniti. E senza fretta
di Andrea Fabozzi


E' lo strappo definitivo ma è quello che fa meno male. Il congresso dei Ds comincia dopodomani e la liquidazione dell'eredità postcomunista sarà cosa fatta entro la fine della settimana, ma ad Aldo Tortorella questo non provoca alcuna emozione. Sarà che essendogli capitato di lavorare con Togliatti, Longo e Berlinguer fa fatica a vederli traslocati fuori dai nuovi pantheon. Sarà soprattutto che sono passati diciotto anni dall'89, e gli ultimi dieci Tortorella li ha passati lontano dai Ds, non più leader della minoranza di sinistra nella Quercia ma ancora padre nobile di una sinistra ancora senza approdo.
Di fronte al partito democratico, dunque, nessuna resistenza. «Anzi - spiega - vedrei persino l'utilità di un vero partito liberal democratico che non c'è mai stato in Italia. A patto, e mi sembra difficile, che riesca ad essere laico». Il Pd come approdo naturale di «quei giovani che io stesso insieme agli altri compagni più vecchi avevo chiamato alle responsabilità» alla morte di Berlinguer. I giovani essendo gli allora avanzati trentenni D'Alema, Veltroni e Fassino che poco dopo «davanti alla sconfitta del comunismo si sono venuti convincendo che non c'è nulla fuori della liberal-democrazia, ma potrei anche dire del liberismo». Parte da lì lo «scivolamento continuo» che finisce nel Pd e la ragione è che «non ci si è più posti il problema dei fondamenti di una cultura di sinistra, si è rinunciato del tutto a cercare un punto di vista di sinistra persino sottovalutando la portata della sconfitta. Perché con l'89 non va in crisi solo l'Unione sovietica e nemmeno solo il comunismo, ma anche il socialismo visto che tutti si trovavano nelle parole d'ordine 'proprietà sociale dei mezzi di produzione e scambio'».
Certo non tutto è cominciato nell'89 «neanche nell'ultimo Pci c'è stata una riflessione su cosa voleva dire dirsi marxisti e chi voleva tentarla era guardato male», ma poi con gli anni della «rivoluzione liberale» e del «paese normale» tutto si compie: «Lo sfondamento è avvenuto sul terreno culturale. Ci spiegavano: i comunisti hanno lottato per l'ammodernamento dell'Italia, vogliamo continuare quella lotta. Solo che allora l'ammodernamento voleva dire, mettiamo, la nazionalizzazione dell'Enel, e poi è significato liberalizzazioni spinte. Fino a che questi nuovi dirigenti ci hanno spiegato che Gramsci con Americanismo e fordismo faceva l'elogio degli Stati uniti e criticava l'arretratezza dell'Europa e che Berlinguer era anticomunista».
Tortorella conserva un po' di quella polemica con il correntone che lo portò all'epoca della guerra in Kosovo a lasciare in quasi solitudine i Ds: «L'insistenza contro lo scioglimento del partito da parte dei compagni della sinistra mi è sembrata una battaglia un tantino di retroguardia». Ma ora che l'uscita di un blocco organizzato con Mussi e Salvi alla testa sta per realizzarsi finalmente e inevitabilmente, ora Tortorella naturalmente approva: «E' un fatto utile e importante e niente affatto scissionistico, loro restano fedeli alla volontà di militare in una forza di ispirazione socialista». Mentre per il Pd è persino eccessiva la definizione di compromesso storico bonsai trovata da Boselli: del compromesso storico quello vero Tortorella fu tra i critici e adesso dice che «nell'intenzione di Berlinguer non è mai stato il banale accordo tra Pci e Dc ma un'intesa tra le classi che da quei partiti erano rappresentate, in ogni caso si cercò l'alleanza di governo non certo di fare un partito unico». E a proposito di Bettino Craxi nel pantheon - «è grottesco» - è il caso di fare una puntualizzazione: «Proprio volendolo giudicare non dal punto di vista penale ma da quello politico bisogna considerare che gli anni di Craxi furono quelli dell'esplosione del debito pubblico, un po' strano doverlo ricordare a chi oggi insiste con il rigore».
Quello che a Tortorella interessa è «cogliere l'occasione» per costruire «una sinistra nuova e moderna» ed è persino prudente nell'usare l'aggettivo che a questo punto si impone - «socialista» - perché «c'è un po' di ipocrisia in questo presentarsi con delle etichette così nette, io sono comunista, io sono socialista, mi viene da dire: ma di che parlate? Che significa dirsi socialisti oggi, che vogliamo un po' più bene ai lavoratori? La prima discussione da fare è che cos'è adesso il pensiero socialista, ed è una domanda da fare a tutti quelli che sono interessati, ai compagni della sinistra ds a quelli di Rifondazione, ai comunisti italiani e persino a Boselli, Angius e Macaluso, perché no? Mi pare che si stia facendo strada la convinzione che bisogna fare veramente qualcosa di nuovo». E' più o meno questo il perimetro del «cantiere» che si è aperto a sinistra del Pd e Tortorella con la sua Associazione per il rinnovamento della sinistra non ha già scelto quale sarà l'esito finale anche perché c'è subito un problema aperto, speculare a quello del Pd. «Dal mio punto di vista - spiega - sarebbe stato auspicabile che Mussi e gli altri avessero fatto la battaglia più per l'unità delle sinistre in Europa che per l'appartenenza al partito socialista europeo. I compagni del Prc con Sinistra europea hanno scelto un'altra collocazione. Fortunatamente non è detto che né l'una né l'altra siano molto solide e forse non è il caso di farsi affascinare troppo da queste questioni di appartenenza. Più importante è stabilire un'alleanza, questo mi sembra che si possa fare ed è già molto».
Dunque tutto il contrario del Pd: la costruzione di una nuova sinistra organizzata non è per oggi e nemmeno per domani: tempi lunghi. E intanto «ricostruire il più possibile insieme una cultura di sinistra». E non si tratta nemmeno di recuperare il meglio delle tradizioni, «serve di più fare circolare idee nuove senza incarognirsi nella rifondazione delle diverse tradizioni». Le priorità che Tortorella indica non sono poche, lavoro e libertà in cima alla lista, ma più in generale «il nuovo socialismo ha un compito diverso da quello del Novecento che ha lavorato soprattutto sulle quantità, vuoi per la redistribuzione vuoi per l'utopia egualitaria. Adesso bisogna discutere della qualità, qualità dello sviluppo innanzitutto, una questione che non può essere risolta nei limiti del pensiero liberal-democratico, non si può salvare il capitalismo da se stesso». Dunque è un problema di cultura politica come dice anche Bertinotti - «ha ragione» - ma non è un problema con una soluzione già scritta: «Oggi è difficile pensare a un nuovo partito di sinistra, è più facile per partiti e associazioni esistenti aprire una discussione comune sui fondamenti, sui contenuti delle idee, per tutto il tempo che ci vorrà». E alla fine Tortorella propone anche uno spunto dal quale partire, non proprio indolore: «Come si può stare al governo senza diventare governativi?».

il manifesto 17.4.07
«Né il socialismo, né i lavoratori»
Enrico Panini, segretario della Flc-Cgil, spiega il suo no al Partito democratico. E propone un cammino a sinistra
di Loris Campetti


Sono molte le ragioni dell'opposizione di Enrico Panini alla nascita del Partito democratico dalle ceneri di Ds e Margherita, «molto peggio di una fusione a freddo». Le prime due ragioni sono «la collocazione internazionale del Pd, priva di ogni riferimento al socialismo e l'assenza di qualsiasi riferimento al lavoro, cioè alla rappresentanza politica degli interessi e dei sogni di chi è sfruttato, sia nelle forme tradizionali, sia in modi ancor più pervasivi, penso al lavoro nei call center, o allo sfruttamento nel settore della conoscenza». Il segretario generale della Flc-Cgil (scuola, università e ricerca), come altri segretari delle categorie dell'industria e dei servizi della principale confederazione sindacale italiana, non entrerà nel Pd. Ce ne parla in questa intervista, che inizia con la sua storia politica: «Nel manifesto dal '72 e nel Pdup fino al suo scioglimento. Non ho preso altre tessere di partito fino alla Bolognina, quando scelsi di entrare nel Pds con la svolta di Occhetto. Poi i Ds. Qui si interrompe l'itinerario, ma non sono io a interromperlo: sono i Ds a sciogliersi».
Partiamo dalla collocazione internazionale del Pd. E' così importante il riferimento al gruppo socialista europeo?
Lo è per due ragioni. Per la cesura del Pd con la storia della sinistra, non solo in Italia, e perché l'ipotesi di costituire un gruppo nazionale europeo indipendente dagli schieramenti esistenti rischia di produrre una rinazionalizzazione degli schieramenti, sbagliata e foriera di effetti negativi.
E poi l'assenza dal manifesto del Pd dei lavoratori come soggetto organizzato, che non sono più un punto di riferimento...
Già, perché il riferimento sociale cambia natura e diventa l'individuo, la persona, fuori dal contesto reale.
Ce ne sarebbe abbastanza per non aderire. Vuoi aggiungere qualcosa alla lista?
La laicità, oggi dirimente nella versione colta, di accoglienza, che è nella nostra storia e nella nostra Costituzione. Il Pd che si candida a rappresentare «il nuovo», su tutti questi punti o non prende posizione o la prende sbagliata, insomma sta altrove.
Non è che il Partito democratico nasca sotto un cavolo, non a caso si presenta come la conclusione di un percorso avviato proprio alla Bolognina.
Io vedo più una rottura netta che una continuità con quella svolta, proprio perché chiude con la storia della sinistra italiana e con il socialismo, anche se è vero che dopo la Bolognina è mancata una critica di fondo delle esperienze comuniste. La rottura prodotta dal Partito democratico porta a un assemblaggio di ceto politico e semplici individui, senza riferimenti all'Europa, ai cittadini lavoratori, alla cultura.
Sei tra i firmatari della mozione Mussi-Salvi. Che percorso politico hai in mente?
Sono interessato, senza ansie, a una prospettiva in cui, insieme alle aggregazione e ai contenuti, si discutano modi e forme della politica. Un processo di riaggregazione a sinistra non è semplice, ma è il terreno su cui vale la pena operare. Si dovrà riflettere, uscendo da una pratica di autosufficienza, sull'esperienza fatta dai movimenti sul modo di far politica e porsi il problema della rappresentanza, e della costruzione dei gruppi dirigenti. Non credo nelle sommatorie di piccole forze: dobbiamo imparare a parlare a quelle straordinarie decine di migliaia di giovani incontrate nelle battaglie per la pace, i diritti, la scuola pubblica e un'università di qualità e di massa. Questi giovani rischiano di finire ai margini dei processi politici. Io sosterrò la mozione Mussi-Salvi fino al congresso dei Ds, poi con lo scioglimento del partito farò insieme a tanti compagni e compagne questo cammino di ricerca a sinistra. Credo che nella stagione politica che si sta aprendo sia importante il ruolo di confronto e ricerca che potrà svolgere il manifesto.
Quale può essere l'impatto del Partito democratico nella vita della Cgil?
Sono convinto che la Cgil debba valorizzare con uno spirito nuovo la scelta irreversibile del superamento delle componenti partitiche, che ci ha consentito di essere un'organizzazione di massa democratica e pluralista - anche nei gruppi dirigenti - con più di 5 milioni di iscritti e iscritte, un'esperienza unica in Italia. La Cgil continua a essere un sindacato, inevitabilmente chiamato a fare i conti con il fatto che le grandi organizzazioni politiche rinunciano a ogni riferimento con il mondo del lavoro e con la storia della sinistra europea. Va salvaguardata l'autonomia della Cgil, facendo però attenzione agli accadimenti, soprattutto in relazione alla rappresentanza politica del mondo del lavoro. La Cgil - una casa comune che tiene insieme lavoratori e pensionati, con e soprattutto senza tessere di partito - è caricata di domande inedite, e persino di compiti inediti. Ne dovremo parlare, senza precipitare i tempi del confronto. Dobbiamo discutere nei gruppi dirigenti e con l'insieme degli iscritti.
Intanto, però, sembra di capire che i segretari della maggior parte delle Camere del lavoro e dei gruppi dirigenti abbiano già scelto il Partito democratico...
I gruppi dirigenti della Cgil sono stati eletti sulla base di precisi programmi di lavoro: non dev'esserci alcuna relazione tra la scelta politica individuale, qualunque essa sia, e il ruolo di dirigente sindacale.

Apcom 17.4.07
Bertinotti: il pensiero di Gramsci tra le cause ideali della caduta del fascismo
Fu interprete di una storia nazionale diversa
Ancora attuali i Quaderni del carcere


Roma, 17 apr. (Apcom) - Il pensiero di Antonio Gramsci, che egli continuò a elaborare nonostante la durezza del regime carcerario che lo condurrà alla morte, fu tra le cause ideali della caduta del fascismo: lo ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti, nel suo intervento introduttivo alla giornata dedicata al ricordo della figura del grande pensatore, promossa nella Sala della Lupa dalla Camera e dalla Fondazione Camera dei deputati.
"Le carceri fasciste lo uccideranno - ha sottolineato il presidente della Camera - ma si può ben dire che il pensiero di Antonio Gramsci abbia costituito una causazione ideale della sconfitta del fascismo, erodendone le basi di legittimazione culturale, con la creazione di un pensiero interprete di una storia nazionale diversa e iscritta nell'onda lunga della formazione del carattere dell'Italia moderna e degli italiani".
"Diversamente da altri, pur grandi pensatori, Gramsci non aveva letto il fascismo - ha ricordato il presidente della Camera - come una parentesi nella storia del Paese, ma ne aveva indagato le radici profonde, fino a interrogarsi sul sovversivismo delle classi dirigenti. Perciò aveva lavorato a fondo su una diversa fondazione civile della nazione".
Per Bertinotti "il suo contributo intellettuale resta nella storia delle idee come una tappa saliente, nel pensiero rivoluzionario e nela storia dei marxismi quanto nella storia della filosofia e del pensiero umano".
Secondo Bertinotti la sua opera è ancora di grande attualità: "Nei Quaderni del carcere vengono affrontate tutte le grandi questioni di così profonda portata storica da essere arivate fino a noi e ancora in larga misura irrisolte, malgrado la vittoria dell'antifascismo, la nascita della Repubblica e la costruzione di uno straordinario impianto costituzionale. La questione cattolica, la questione meridionale, il rapporto fra intellettuali e la formazione della coscienza e dell'identità del Paese, la natura dei processi di lavoro nella modernizzazione testimoniano - ha sostenuto ancora Bertinotti - la straordinaria ampiezza e profondità di un'originale impresa intellettuale, in cui le stesse aporie - come pure ciò che è risultato contestabile - sottolineano la ricchezza di una ricerca guidata dal sistematico rifiuto di ogni dogmatismo".

Repubblica 27.7.05
IL PERSONAGGIO
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"

Filippo Ceccarelli


Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.

Heidegger: «un reazionario distante da ogni idea di modernità» Sartre: «il nulla» Foucault: «un falsificatore»
Aprile on line 17.4.07
C.A. Viano: Pantheon? Una marmellata
Verso il Pd Lo storico della filosofia, premiato come "laico 2006", critica quel fiorire di riferimenti ai profeti e santoni elencati nel Pantheon del nascituro partito democratico


C'è un fiorir di riferimenti ai profeti e santoni del passato da Heidegger a Sartre, da Foucault a Freud: servono a coprire la crisi di un'ideologia, il marxismo, data per duratura e risolutiva, ma oggi soprattutto c'è da fronteggiare criticamente la crescente invadenza della Chiesa e del pensiero religioso che nega le libertà individuali.
E' quanto afferma il filosofo o ancor meglio lo storico della filosofia, Carlo Augusto Viano che prima in "Laici in ginocchio" ha criticato intellettuali e politici che soffrono di complesso d'inferiorità nei confronti della gerarchia ecclesiastica, ora con "La filosofia del Novecento", critica la filosofia italiana che, a suo dire, manca di capacità critica.
"Heidegger? L'ultimo dei profeti o santoni di cui si sa tutto e comunque l'essenziale: studiò dai gesuiti, quindi si formò in un ambiente preciso prima di darsi alla filosofia. Nazista? Certo non lo condannò mai - dice Viano -. A leggerlo attentamente e con dovizia emerge chiaramente che è un conservatore di certo, anzi un reazionario distante da ogni idea di modernità".
Ma è soprattutto a sinistra che si riscopre Heidegger... "E a me non stupisce affatto - ribatte Viano - l'intellighenzia di sinistra si è sempre fatta guidare da falsi profeti o santoni per non dire abbiamo sbagliato: dovrebbe ammettere e riconoscere la crisi del marxismo e con esso del comunismo".
E Sartre e Foucault? "Sartre? Molto squilibrato - risponde Viano - aveva la matita ma non la gomma per cancellare quel che scriveva... Ha scopiazzato "Essere e Tempo" di Heidegger con "L'Essere e il Nulla", appunto il nulla...
Foucault? E' stato un gran falsificatore storiografico: ha inventato letteralmente intere storie, le sue storie".
Eppure Sartre e Foucault sono stati due punti di riferimento del ‘68, di quel filone filosofico chiamato esistenzialismo. "Quella fu come ho avuto modo di dire altre volte un'operazione culturale e mass mediatica per coprire la crisi ormai evidente del marxismo e ci si servì anche del freudismo - avverte Viano - fu un fuoco di paglia e il ‘68 non mi pare sia finito bene".
Insomma tra Heidegger, Marx e Freud chi salverebbe, visto il trattamento riservato a Sartre e Foucault? "Beh, certamente con tutti i suoi forti punti critici salverei Marx". E soprattutto il primo Marx, "quello dell'alienazione religiosa: ma la filosofia nonostante ciò - è l'osservazione critica di Viano - non si è ancora emancipata, liberata dal pensiero religioso, figuriamoci la politica". E questo non significa "impedire alla Chiesa di parlare, ci mancherebbe altro! - conclude lo storico della filosofia insignito del Premio ‘Laico 2006' - quanto aver idee e proposte, insomma un pensiero critico da contrapporre al potere religioso che nega le libertà individuali e il sapere e la conoscenza che deriva anche dalla tecnica e ricerca scientifica dell'uomo sull'uomo".




lunedì 16 aprile 2007

l’Unità 16.4.07
CARLO LEONI. Il vicepresidente ds della Camera: remare contro dall’interno del Pd? Meglio lanciare la costituente di una sinistra forte
«Abbiamo un progetto. Oggi decideremo insieme»
di Maria Zegarelli


«Il segretario del partito Piero Fassino ha fatto un grande errore e oggi ne paga le conseguenze: aver deciso di dare vita al partito democratico due anni fa senza consultare gli iscritti della Quercia. Oggi quel consenso ce l’ha, ma allora le cose sarebbero potute andare in modo diverso». Carlo Leoni, vicepresidente della Camera, non ha intenzione alcuna di tornare sui suoi passi. «Noi, della mozione Mussi non faremo la riserva sterile del Pd».
Leoni, il segretario Fassino vi ha lanciato un «ultimo, estremo appello» a partecipare alla fase costituente del Pd. Accetta?
Abbiamo già dato una risposta. Il 29 marzo abbiamo approvato un documento che chiedeva alla maggioranza di fermarsi nella corsa verso il Pd. Annunciavamo che nel caso in cui ci fosse stata un’accelerazione non avremo partecipato alla costruzione del Pd, perché siamo fermamente contrari a questo progetto.
Perché non credete nella possibilità di portare avanti una politica riformista nel Pd?
Perché pensiamo che la sinistra non possa ridursi né ad una corrente di un partito non di sinistra, né ad una testimonianza individuale. In Italia, come accade nel resto d’Europa, deve riconoscersi in un partito di sinistra.
Ma Ds e Margherita insieme hanno preso più voti rispetto a dove si presentavano separati. Non è un buon motivo per fare il Pd?
Questo partito di sinistra se voleva rispondere all’esigenza che c’era e che c’è di crescita di consensi doveva rivolgersi alle altre formazioni di sinistra, dallo Sdi a tutte le altre. Perché guardare necessariamente al centro?
Fassino dice: «Perché andare via senza un progetto alternativo?». C’è o no questo progetto?
Penso che sia giunto il momento ormai, visto che ciascuna delle mozioni ha preso i suoi voti, di smetterla di rinfacciarci le cose o rappresentare caricature delle posizioni altrui. Può non essere condiviso, e non è condiviso dal segretario del partito il nostro progetto; si può dire che è difficile realizzarlo, ma non si può dire che non esiste. Con la nascita del Pd si apre un vuoto a sinistra: noi vogliamo che a sinistra del Pd ci sia la sinistra.
In Calabria circa la metà della mozione Mussi ha annunciato che resterà nella fase costituente. A Torino c’è una situazione non dissimile. Non vi preoccupano questi segnali?
Con grande umiltà e disponibilità discutiamo e discuteremo con tutti i compagni e le compagne che hanno votato la nostra mozione. Non ci sarà alcun diktat dall’alto, tutto verrà deciso democraticamente. Oggi, avremo una riunione con tutti i nostri coordinatori regionali e delle grandi città per confrontarci. Detto questo, penso ai compagni delle sezioni che hanno votato per Mussi: nel momento in cui parte la costituente del Pd, che fanno? Remano contro o costruiscono il partito che con il loro voto hanno di fatto bocciato?
Enrico Boselli dello Sdi, ieri ha annunciato la costituente del nuovo Psi, ha detto “no” al Pd e guarda con interesse a Mussi e Angius. Iniziate da qui?
Noi abbiamo già detto che nel momento in cui parte la costituente del Pd vogliamo far partire un’altra costituente che riunisca ciò che è diviso a sinistra. Guardiamo con interesse a ciò che è stato detto a Fiuggi dallo Sdi, a ciò che succede dentro Rifondazione e lavoreremo affinché tutto questo sbocchi in un approdo unitario.

l’Unità 16.4.07
PDCI. Diliberto: «Unificare tutto ciò che sta a sinistra del Partito democratico»


«Sono addolorato e giudico un errore politico molto serio la circostanza che i Democratici di sinistra, che sono il più grande partito della sinistra italiana confluiscano in un progetto politico con i postdemocristiani perché si snatura l'identità di sinistra di quel partito, perché il Pd perde simbolicamente proprio la “S” dei Ds che sta per Sinistra». Lo ha detto il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, a margine del congresso regionale del partito ieri ad Ancona. Per Diliberto «si apre un problema molto grande in Italia: lo spazio a sinistra che però io declino in modo non politichese e cioè chi rappresenterà nelle istituzioni e nella politica il mondo del lavoro? La Cgil, entro nel merito, che è stato il sindacato di riferimento della sinistra non sarà più il sindacato di riferimento del Partito democratico». Secondo il leader dei Comunisti italiani «si apre una grande questione che è quella di ricomporre la sinistra italiana». Diliberto torna ad avanzare la sua proposta: «Noi proponiamo non da oggi, ma oggi con più urgenza, l'esigenza di una, noi la chiamiamo Confederazione della sinistra, un processo di riunificazione delle forze che non aderiranno al Partito democratico». Non una sponda per i transfughi dei Ds ma «un progetto politico che riguarda tutti. Noi la chiamiamo sinistra senza aggettivi perchè se uno già la chiama Costituente socialista mette un paletto: ci possono stare solo quelli che si dichiarano socialisti. Se la chiamiamo sinistra ci possono stare tutti dentro. Tutti quelli che condividono certi valori e certi progetti». Per Diliberto è una risposta al progetto di Boselli e De Michelis «ai quali io auguro comunque ogni successo perché hanno avuto coraggio di un grande ancoraggio nella sinistra. Tuttavia diverso dal nostro. Credo che ci sia - ha proseguito il leader dei Comunisti italiani - la necessità di riunificare tutto quello che starà a sinistra del Partito democratico. Quelli che ci vorranno stare naturalmente. Anzitutto Rifondazione comunista, i Verdi, naturalmente noi. Bisogna vedere le risposte che daranno gli altri».

l’Unità 16.4.07
Boselli: facciamo il Partito socialista
A Prodi dice: non ci hai convinto. Polemizza con Rutelli e D’Alema. E apre a tutti i riformisti che non andranno nel Pd
di Simone Collini


IL PARTITO DEMOCRATICO sa di vecchio, per questo tra breve nascerà il Partito socialista italiano. Enrico Boselli chiude il congresso straordinario dello Sdi inviando un prevedibile «no grazie» a Romano Prodi e incassando la riconferma a segretario con un voto contrario e tre astenuti, il via libera alla Costituente socialista lanciata come progetto alternativo al Pd, la conferma da parte di Gianni De Michelis e Bobo Craxi a lavorare insieme per mettere fine alla diaspora socialista. Di più, per far tornare in circolazione una sigla ben nota: Psi. «A Fiuggi la Costituente è nata - dice Boselli chiudendo la tre giorni - per il nome non trovo di meglio che chiamare il nuovo partito come si è sempre chiamato, almeno dal 1893: Partito socialista italiano, Psi». I circa 800 delegati riuniti nel Palaterme si spellano le mani. Così come fanno quando il loro segretario risponde all'appello a tornare a lavorare insieme per dar vita al Pd che in questa stessa sala ventiquattr'ore prima gli ha rivolto Prodi: «Il suo è stato un discorso chiaro. E altrettanto chiara e amichevole è la nostra risposta. Caro Romano, non mi hai convinto». Parte l'applauso. «Anzi, non ci hai convinto». Ed è standing ovation.
Era quello che la platea aspettava, e che arriva al momento giusto, dopo una lunga cavalcata di Boselli contro il Pd, ma anche contro le singole personalità che ne difendono le ragioni: «D'Alema dice che non coglieremmo la grande novità rappresentata dal partito unificato Ds-Margherita. Noi coltiveremmo invece il vecchio, rimarremmo attaccati ad antichi risentimenti, saremmo prigionieri di logiche sorpassate. Come non vedere che il Pd ha le sue fondamenta su quanto c'è di più vecchio nella società, come una politica di sinistra che deve necessariamente scendere a compromessi sui valori e sui principi con il Vaticano». Torna ad attaccare Rutelli, come aveva fatto nella relazione di apertura: «Un centrista tanto caro a lui come Bayrou, visto che lo sostiene contro la socialista Ségolène Royale, è più avanzato su laicità e diritti civili di quanto lo sia la Margherita. E persino il leader della destra Sarkozy ha difeso i Pacs». Ma complici evidentemente le ultime critiche mosse dal ministro degli Esteri, è soprattutto contro D'Alema che si lancia Boselli: «Vedeva lungo quando si recò alla celebrazione del fondatore dell'Opus dei, comprendendo che con parte di quella gente avrebbe fatto un partito insieme. Come si fa a definire moderno ed avanzato un Pd dove ci saranno esponenti dell'Opus dei, alcuni dei quali indossano felicemente il cilicio?». Se la prende anche con Fassino perché ha definito non fondate le sue critiche al Pd, con Anna Finocchiaro perché tra i riferimenti culturali del nuovo soggetto vedrebbe bene Hannan Arendt e Rosa Luxembur, con l'Unità per il corsivo di ieri («parlano delle mie giravolte, ma sulle giravolte dei Ds potrei scrivere un libro, non un corsivo») e immancabilmente con Benedetto XVI: «Appare più moderno Giordano Bruno di Papa Ratzinger». Tutto è vecchio dalle parti del Pd, insomma, tutto sa di compromesso. Per questo Boselli lancia la Costituente socialista, il Psi.
Quanto detto e ascoltato a Fiuggi dovrà essere il terreno su cui lavorare. Poi, annuncia il leader dello Sdi, verrà convocato in autunno un nuovo appuntamento che porti a termine l'operazione. I protagonisti saranno evidentemente Craxi, De Michelis, ma anche «tutti i riformisti che non condividono la scelta di aderire al Pd». Cita Macaluso, Turci, Caldarola ma guarda anche a Mussi e Angius. E, naturalmente, ai Radicali, perché «a Fiuggi non abbiamo chiuso la Rosa nel pugno, abbiamo aperto un cantiere più grande».
L'appello che Boselli lancia tra gli applausi dei suoi, memore delle tante volte che si è parlato di ricomposizione della diaspora socialista e delle altrettante volte che l'obiettivo è svanito nel nulla, è: «Uniamoci subito». L'ipotesi è di una prima riunificazione alle amministrative di primavera, ma con il voto a maggio e il congresso del Nuovo Psi a giugno sarà difficile che si realizzi. Senza contare poi che il coordinatore del partito di De Michelis, Stefano Caldoro, si è già detto contrario al progetto. È dunque tutt'altro che da escludere, in questo campo, una nuova scissione.

Repubblica 16.4.07
La giostra socialista ci riprova con il Psi
di Sebastiano Messina


E QUANDO la giostra delle sigle inedite ha finito il suo ultimo giro, dopo il Ps, dopo il Si, dopo il Psr, dopo la Lega Socialista, dopo Rifondazione Socialista, dopo i Socialisti Riformisti, dopo il Nuovo Psi e dopo lo Sdi, il manovratore Enrico Boselli torna a sorpresa al punto di partenza: «Per il nome, non trovo di meglio che chiamare il nuovo partito come si è sempre chiamato, almeno dal 1893: Partito Socialista Italiano, Psi».
Ma sì, c´è qualcosa di nuovo, anzi d´antico, nella politica italiana. C´è un ex delfino di Craxi - l´ex giovanotto promettente di Bologna - che a cinquant´anni si riprende l´insegna di Ghino di Tacco. E c´è un ex vice di Bettino, Gianni De Michelis, che vede inverarsi la sua profezia di due anni fa, quando annunciava a chi l´aveva seguito sotto le bandiere berlusconiane: «Se il destino ci porterà a sinistra, andremo lì per rompere con il bipolarismo».
Quindici anni dopo il crollo del craxismo, rinasce la vecchia idea di rimettere insieme i cocci del vecchio partito. Obiettivo: «Uniremo i socialisti per unire i riformisti». Vaste programme, direbbe De Gaulle. Ci provano da tre lustri, gli orfani del Garofano. La «Costituente Socialista» è del 1997. La «Federazione Laburista» è del 1994. Il Trifoglio, con Cossiga e La Malfa, è del 1999. Il Girasole, con i verdi, è del 2001. La Rosa nel Pugno, con i radicali, è dell´anno scorso. Ma non c´è stato, finora, niente da fare. A loro, l´operazione che riesce meglio non è la somma ma la divisione. Come disse una volta Chiara Moroni, «quando un socialista si guarda allo specchio, è già cominciata la scissione».
Stavolta promettono di fare tesoro dei vecchi errori, e certo fa un certo effetto vedere sullo stesso palco - quello del congresso socialista di Fiuggi - gli uomini che hanno attraversato il deserto del dopo-Craxi come generali di un´armata in disfatta, uomini come Rino Formica, De Michelis, Ugo Intini, Franco Piro e lo stesso Bobo, uniti dal sogno di tornare ai tempi d´oro di via del Corso. Ci fosse stato anche Martelli, nel frattempo passato alle tv berlusconiane, la foto di gruppo sarebbe stata perfetta. Giuliano Amato no, non era stato invitato. Però l´ha evocato, senza farne il nome, il figlio di Bettino, usando con perfidia le stesse parole con cui suo padre liquidò il suo ex numero due: «Un vecchio battitore libero, un professionista a contratto, ci obietta che... ».
Si torna a casa, dunque. O almeno, ci si prova. Boselli, l´instancabile Boselli, si allena dal 14 novembre 1994: il giorno dopo lo scioglimento del Psi, lui si fece eleggere segretario del Si (Socialisti Italiani), il primo partito con il nome di una carta di credito. Non tutti lo seguirono. Valdo Spini aveva fondato dieci giorni prima la Federazione Laburista. Bobo Craxi pensava alla Lega Socialista. Fabrizio Cicchitto, Enrico Manca, Claudio Martelli e Ugo Intini lavoravano al progetto del Nuovo Psi.
Naturalmente, ogni nuova sigla nasceva con il preciso programma di riunificare i socialisti, generando una confusione della quale è rimasto vittima perfino Palazzo Chigi. Giovedì scorso un comunicato ufficiale annunciava infatti l´incontro tra Prodi e «l´onorevole Zavettieri, segretario del Partito Socialista Democratico Italiano», costringendo l´interessato a precisare che «noi siamo gli ex del Nuovo Psi, i socialisti democratici sono quelli dello Sdi», mentre il Psdi (di cui sopravvivono due tronconi, l´un contro l´altro armati, ovviamente) sottolineava indispettito che Zavettieri non è segretario di nessuno dei due partiti.
Il capolavoro dell´unità socialista - si fa per dire - rimangono comunque i due congressi contemporanei del Nuovo Psi. Accadde il 16 dicembre 2002, in due alberghi romani sulla via Aurelia. Al Midas (teatro dell´avvento craxiano del 1976) si riunisce un Nuovo Psi che acclama Bobo Craxi segretario e Claudio Martelli presidente, perché dialoghino col centro-sinistra. All´Ergife, intanto, un altro Nuovo Psi elegge Gianni De Michelis alla segreteria, affinché rimanga nel centro-destra. Finisce che il 2 maggio Martelli dichiara decaduto Bobo Craxi da segretario del Nuovo Psi-1, e il 7 maggio De Michelis nomina lo stesso Bobo Craxi «coordinatore e portavoce della segreteria» del Nuovo Psi-2.
Di quello che è successo dopo - divorzi, rappacificazioni, separazioni e ricongiunzioni - nessuno è più riuscito a tenere il conto. Sono rimaste finite su Internet le immagini della scazzottata al congresso del 2005 al Palafiera di Roma, quando un oratore calabrese filo-craxiano disse a un demichelisiano di Napoli che lo interrompeva: «Io sono un socialista. Tu sei un cretino e stai seduto». Lo stesso De Michelis, due settimane fa, ha messo su YouTube il video della sua contestazione al consiglio nazionale del partito, seguita da una bella rissa tra compagni (conclusa in gran fretta all´arrivo di una volante della polizia).
Il tema, comunque, oggi è un altro: i voti. Riuscirà il Psi del 2007 ad avere non diciamo il 13,5 per cento dei voti del Psi del 1992, non diciamo la metà ma almeno un quarto o poco più, insomma un onesto 4 per cento che lo metta al riparo dalle soglie di sbarramento? Nei sogni di Boselli c´è un risultato, a giugno, almeno pari al 2,6 per cento dell´anno scorso (quando però c´erano i radicali). Negli incubi di De Michelis c´è invece lo 0,5 per cento delle ultime amministrative, dopo le quali lui si presentò al Consiglio nazionale del partito e, vedendo la sala piena, commentò amaro: «Vedo che qui, oggi, ci sono tutti i nostri elettori... ».

Repubblica 16.4.07
Boselli chiude a Prodi "E ora rinasce il Psi"
"Con la legge elettorale Ds e Dl vogliono far fuori lo Sdi"
Attacco a D'Alema: "Andare alla celebrazione dell'Opus Dei è questa la sua modernità?"
Il segretario: "Sul Partito democratico, al premier dico grazie ma non ci ha convinto"
di Umberto Rosso


FIUGGI - Il nome Psi e il simbolo del garofano Enrico Boselli l´aveva riscattato dal liquidatore del vecchio partito craxiano, mettendolo al sicuro dai debiti e da feroci dispute fra eredi.
Ora è arrivato il momento di tirarlo fuori dal cassetto, di riportarlo alla luce del sole. La Costituente socialista è nata, annuncia dunque al congresso dello Sdi che lo riacclama segretario (la più grande rielezione mai vista: un solo voto contrario), «il nuovo partito si chiamerà come si è sempre chiamato dal 1893, anno della sua fondazione: Partito socialista italiano». Gianni De Michelis e Bobo Craxi, Rino Formica e Saverio Zavettieri, ma anche Valdo Spini, i nomi della diaspora, esultano.
«Non è il segno di un ritorno al passato ma la conferma della continuità della nostra storia politica. Rassicuro Del Turco: il nostro modello non è il Psiup ma il Psi». Ma forse fra la commozione e l´orgoglio ritrovato, il clima prende la mano e si finisce per far coincidere il cantiere socialista che apre e l´antico, amato-odiato, simbolo del Partito socialista. Magari, a mente fredda, smaltita l´adrenalina di Fiuggi, il segretario spiegherà che una cosa è il ritorno alle origini «attorno» allo Sdi e un´altra il laboratorio aperto a tutte le altre «anime» del socialismo. Perché sotto una casa comune a forma di garofano, difficilmente potrebbe accomodarsi gente come Mussi, Salvi, o Angius che pure è pronta ad un fronte comune contro il Partito democratico.
E Boselli continua a tenere la porta chiusa al Pd, nonostante l´appello di Prodi. «Caro Romano, ti ringrazio per le parole rispettose nei nostri confronti, ma in tutta sincerità e in amicizia, ti rispondo: non ci hai convinto». Con il presidente del Consiglio, ci sono tanti punti di convergenti «ma anche come è evidente diversità: come lui stesso ha detto, siamo distinti ma non distanti». Perché? Perché l´operazione Pd sta nascendo su quanto c´è di più vecchio nella società italiana, a cominciare - insiste il leader dello Sdi - dal compromesso fra la sinistra e il Vaticano. Segue nuovo attacco al Papa: «Andando indietro nei secoli appare molto più moderno Giordano Bruno, di cui tutti conosciamo la sorte, di quanto lo sia oggi Ratzinger». Ma poi, come si fa a definire moderno e avanzato un partito «dove ci saranno esponenti dell´Opus Dei, alcuni dei quali indossano felicemente il cilicio».
E partono i siluri. Contro D´Alema: «Aveva visto lungo quando si recò alla celebrazione del fondatore dell´Opus Dei. E´ questa la sua modernità?». Contro Marini. «Ha difeso Rutelli. Ma sono stati sessanta parlamentari della Margherita a criticare le sue posizioni apertamente integraliste». Rutelli, «un integralista di conio tutto nuovo, che non si può certo mettere sullo stesso piano di un cattolico come Delors», è più arretrato perfino di Sarkozy che in Francia «difende i Pacs che in Italia non sono accettati dal partito che il presidente della Margherita e Fassino ci propongono». Fassino si lamenta per le critiche ingenerose dopo aver inserito Craxi nel Pantheon del Pd? «Che confusione nei Ds. Adesso Anna Finocchiaro mette fra gli antenati del nuovo partito la Arendt e la Luxembourg, ovvero due personalità contrapposte».
Si chiude con un allarme sul governo, Boselli vede «disegni poco chiari», «alchimisti al lavoro», e il riferimento è ad operazioni larghe intese che i socialisti immaginano manovrate da Amato o Marini. «Ds e Margherita ma anche Rifondazione ci vogliono far fuori con la legge elettorale. Io, faccio appello a Bertinotti, al suo comunismo libertario».

il manifesto 15.4.07
Dall'eredità di Darwin un contributo alla pratica medica
Incontri scientifici Da domani a mercoledì all'Auditorium Montessori di Torrette di Ancona le «Lezioni italiane» organizzate da Sigma-Tau Nuove prospettive. Nel suo ultimo saggio, «EBM», appena uscito per Laterza, Gilberto Corbellini indaga con passione e spirito critico la medicina basata sull'evoluzione
di Franco Voltaggio


L'evoluzione, il modello dominante della biologia contemporanea, soffre di un curioso paradosso: tutti sanno (o credono di sapere) cosa sia, ma trovano difficile definirla. Per i biologi la definizione è soggetta a modifiche legate alle incessanti svolte che la ricerca imprime al suo statuto concettuale. Quanto al pubblico, se chiunque ormai sa che la chiave della vita è l'evoluzione, più arduo è comprendere come tale processo sia dominato dal caso, specie se si considera che per lo più «caso» è inteso, secondo un'interpretazione tendenziosa, come sinonimo di «a casaccio». Pare infatti strano a molti che i concetti di «selezione naturale», «adattatività» (fitness), «variazione» non permettano di cogliere nella natura vivente l'esistenza di un fine superiore. In effetti, tale finalità è inesistente per una buona ragione, ormai acquisita dalla filosofia che da oltre un secolo si cimenta nella riflessione sul darwinismo: pensare che vi sia una finalità nella natura è un credo mirato alla sopravvivenza della nostra specie. Se cioè non possiamo spiegare l'evoluzionismo, interpretandolo come l'ipotesi generale di un fine preesistente in natura, possiamo però decifrare la tenace idea del finalismo alla luce della teoria dell'evoluzione. Per affrontare l'evoluzionismo occorre dunque l'esercizio di uno spirito critico, accompagnato da una buona informazione che va di continuo approfondita seguendo da presso le ricerche. Ma non basta. È utile chiedersi quali riflessi possa avere la conoscenza dell'evoluzionismo per la vita di milioni di persone affrontando al riguardo l'azzardo di qualche risposta - un orientamento che richiede una sincera passione, non meno etica che conoscitiva.
E di certo spirito critico e passione rivela Gilberto Corbellini, storico e filosofo della medicina, che in EBM. Medicina basata sull'evoluzione (Laterza, pp. 188, euro 14), e nelle «Lezioni italiane» della Fondazione Sigma Tau che si terranno ad Ancona da domani a mercoledì, si propone di studiare la medicina dal punto di vista dell'evoluzione - nella prospettiva rilanciata da R. M. Nesse e G.C. Williams in Perché ci ammaliamo (Einaudi 1999) - svecchiandone gli schemi concettuali e innovandone i protocolli terapeutici.
Dal punto di vista dell'interesse immediato del medico e del paziente, va subito detto che l'evoluzione non è l'espressione di un «progetto intelligente» che miri al meglio del singolo individuo. «Il fatto che la selezione naturale o il processo evolutivo non procedano con l'obiettivo di ottimizzare i fenotipi (che è quanto dire i singoli individui) - osserva Corbellini - implica che non hanno nemmeno lo scopo di promuovere la salute degli organismi. La selezione naturale dipende solo dal successo riproduttivo. Un organismo ben funzionante è certamente avvantaggiato nella lotta per l'esistenza. Ma non in assoluto. Anche condizioni di sofferenza, predisposizioni patologiche o adattamenti imperfetti possono, date certe condizioni, risultare vantaggiosi. Diverse variazioni genetiche responsabili di limitazioni funzionali sono state conservate nel pool genico delle popolazioni umane in quanto il loro manifestarsi in forme non letali proteggeva contro specifici agenti infettivi». Ma allora, quale utilità può derivare, ai fini della guarigione, dal tornare tanto indietro nel tempo, quando nel Pleistocene i nostri progenitori vivevano nelle savane africane? Al di là della ricostruzione che Corbellini conduce del paradigma clinico, dalla messe di informazioni raccolte nel libro emerge che ad avvantaggiarsene è proprio la clinica. Nell'indagine sul singolo malato, sappiamo che il clinico ne ricostruisce la storia medica (e non solo), evidenziando una serie di relazioni passate e presenti del soggetto con il suo contesto demico. Ne deriva che la resistenza mostrata da molti clinici nei confronti del paradigma evoluzionistico (inteso come una strumentazione concettuale impropria) è un atteggiamento miope: lungi dal mortificare la vocazione implicitamente storica della clinica, l'evoluzionismo ne amplia l'ottica, proponendo al contempo un correttivo prezioso all'interventismo che segna le prassi mediche contemporanee: basti pensare ai danni che trasfusioni e trapianti d'organo rischiano di determinare creando nuove opportunità ecologiche per virus e agenti patogeni che possono sfruttare soggetti il cui sistema immunitario venga mantenuto farmacologicamente depresso. Ritorna qui attuale l'invito alla prudenza, il richiamo ippocratico alla vis medicatrix naturae.
Né poteva mancare in questa ricognizione una diversa considerazione del cancro. Combatterlo significa conoscerlo e l'evoluzionismo può fornire gli strumenti concettuali, «evoluzione e selezione somatiche», per studiare il processo tumorale. Come dar torto allora a Corbellini quando afferma che, ove il finanziamento della ricerca privilegiasse la messa a punto di un modello darwiniano della progressione oncologica, si potrebbe pervenire all'introduzione di terapie tali da annullare il radicato pregiudizio dell'incurabilità in linea di principio del male?

Corriere della Sera Roma 16.4.07
Al Vascello. Il giardino dei ciliegi


Celebre opera di Anton Cechov, con Manuela Kustermann protagonista, per la regia di Giancarlo Nanni. Commedia scritta nel 1903. Centrale è la figura di Liuba Andreevna, una bella donna sentimentale e spendacciona: è costretta a mettere all'asta la vecchia casa di famiglia con il suo celebre e antico giardino dei ciliegi. Il consiglio del mercante Lopachin, di non vendere la casa ma di lottizzare il terreno, abbattendo i ciliegi, sembra assurdo. Ma nessun altro può consigliare Liuba: non l'apatico fratello, non il contabile ossessionato dall'idea del suicidio, non la figlia adottiva. All'asta Lopachin si aggiudica la proprietà. Mentre gli antichi proprietari partono, egli non può celare l'orgoglio di essere riuscito ad acquistare il luogo dove i suoi genitori furono servi. Nella casa vuota, rimane solo il vecchio servitore Firs, malato e dimenticato dai padroni, ultimo relitto del passato che si estingue, in favore di un futuro, poco rassicurante, che avanza (fino al 27 aprile).

domenica 15 aprile 2007

l’Unità 15.4.07
Carceri. Effetto indulto
di Luigi Manconi


Qualcosa sta cambiando nelle carceri italiane. Partiamo da un dato di grande importanza, che pure va manovrato con cautela. Nel corso del primo trimestre del 2007 i suicidi, all’interno delle prigioni, sono stati due su una popolazione detenuta di circa 40mila unità. Nel primo trimestre del 2006, su circa 60mila detenuti, ben 15 si erano tolti la vita. Il merito di questo significativo decremento non è, evidentemente, tutto e solo dell’indulto; ma, certo, il provvedimento di clemenza ha influito - e molto - sulle condizioni generali della detenzione.
La riduzione assai rilevante del sovraffollamento ha migliorato tutti gli indicatori di vivibilità (da quelli igenico-sanitari a quelli trattamentali), con benefici per l’intera popolazione reclusa: e, dunque, ha allentato quello stretto rapporto e quella rigida correlazione tra elevata promiscuità e tasso di suicidi. Questo, comunque, non deve indurre a limitare la vigilanza sul tragico problema dell’autolesionismo, se è vero com’è vero che - negli ultimi giorni - si sono verificati ancora due suicidi. In ogni caso, la drastica riduzione, in virtù dell'indulto, del numero dei detenuti ha rappresentato - come si è detto e ridetto - giusto la condizione preliminare, e ineludibile, per procedere nella direzione delle riforme indispensabili al nostro sistema penitenziario. E oggi, in effetti, a poco più di nove mesi dall'approvazione di quella misura, qualcosa è già cambiato, qualcosa sta cambiando e soprattutto qualcosa - molto, speriamo - dovrà cambiare.
Dopo quindici anni, il numero dei detenuti è tornato nei limiti della capienza regolamentare. La recidiva è contenuta in poco più dell’11% e ancora molto al di sotto dei suoi tassi ordinari e “fisiologici” (dal 60 al 68%), riscontrati tra coloro che arrivano al “fine pena” senza beneficiare di sconti e senza usufruire di misure alternative. Questo significa che la gran parte delle persone scarcerate stanno “ripagando” il credito che è stato loro concesso con la liberazione anticipata. Per quanto riguarda l’attività legislativa, il governo ha già definito le proposte di modifica di due delle normative che più hanno causato il sovraffollamento penitenziario: quella sull’immigrazione e quella sull’inasprimento del trattamento penale dei recidivi. A breve, potrebbe arrivare a definizione anche una proposta organica sulle sostanze stupefacenti, che dovrebbe superare sia la “Fini-Giovanardi” che le obiezioni procedurali del Tar del Lazio.
Intanto, la Camera ha approvato in prima lettura la proposta di legge istitutiva della Commissione per i diritti umani e la tutela delle persone private della libertà. Una Commissione che, nel pieno rispetto delle prerogative giurisdizionali, si propone di ampliare gli strumenti di promozione dei diritti e, in modo particolare, la tutela delle persone private della libertà. È un primo traguardo, dopo una mobilitazione durata anni e dopo che numerose amministrazioni locali (regioni, province e comuni) hanno istituito i loro garanti, che già possono vantare un bilancio positivo. Nel frattempo, la commissione Giustizia della Camera ha dato il via libera alla proposta di riforma della “legge Finocchiaro”, che amplia la possibilità di ricorso alle misure alternative per le madri condannate a pena detentiva: e che prescrive l’istituzione di case-famiglia per coloro che non ne potessero beneficiare (e fossero costrette, quindi, a scontare la pena in carcere con i propri figli). E così, da qualche settimana, grazie all'impegno della Provincia di Milano, e degli altri enti locali, gli ultimi tre bambini, già reclusi con le madri a San Vittore, sono ora ospitati in una struttura che - attualmente - è la più lontana possibile dall’immagine (e dalla corposa e crudele materialità) di un carcere. Anche l’Amministrazione penitenziaria sta cambiando: dopo molte polemiche, l’Ufficio ispettivo interno è tornato a occuparsi del buon andamento dell’amministrazione, piuttosto che di attività informative e di polizia giudiziaria; mentre - con il riordino imposto dalla Finanziaria - si è ripreso un lavoro di programmazione delle risorse umane e strutturali, necessarie ad assolvere efficacemente ai difficili compiti di custodia e reinserimento.
Ora, tra le molte questioni che restano da affrontare, due assumono particolare urgenza: una revisione dei circuiti penitenziari, che possa valorizzare le capacità di trattamento e di reinserimento sociale dei condannati; e - importantissimo - il completamento della riforma dell’assistenza sanitaria in carcere. Sin dal primo governo Prodi, il centrosinistra ha tracciato la strada di una riforma che trasferisca tutte le competenze al Servizio sanitario nazionale, come è giusto che sia. Così già è per l’assistenza ai tossicodipendenti e per la prevenzione: e molte regioni - in questi anni - si sono assunte oneri e responsabilità, finanziarie e operative, per potenziare l’assistenza ai detenuti. Alcune hanno già legiferato in materia, anche alla luce della riforma del titolo V della Costituzione.
Questo percorso va ora portato a pieno compimento, senza ulteriori indugi, garantendo la migliore assistenza possibile alle persone recluse nell’ambito del Servizio sanitario nazionale: senza che questo comporti la dissipazione delle competenze professionali, maturate nell’ambito della medicina penitenziaria, ma - d’altra parte - evitando ritardi e differimenti nel completamento di una riforma sacrosanta.
Qualcosa sta cambiando, dunque, nelle carceri italiane. E molto può essere ancora fatto.
Da questo punto di vista, la casa-famiglia di Milano è qualcosa di più di una soluzione razionale a un problema complesso. È un segno: piccolo, piccolissimo e quasi solo allusivo: e, tuttavia, da valorizzare perché rende concreta la possibilità che il carcere com’è oggi si riduca davvero a soluzione estrema e residuale.

l’Unità 15.4.07
Gramsci, il pensiero degli Ultimi

A settant’anni dalla morte del fondatore de l’Unità: «Il nostro Gramsci». La vita, il carcere fascista, le battaglie, i pensieri. E la fortuna editoriale ai quattro angoli del mondo di un grande italiano, artefice teorico e pratico del Pci ma che appartiene a tutta la sinistra. Una vicenda ricostruita in uno «speciale» del giornale, grazie a nuovi studi e inedite fonti d’archivio, alla vigilia dell’uscita dell’«Edizione nazionale degli scritti».
Buttigieg, Daniele, Gravagnuolo, Guerra, Prospero, Tamburrano, Vacca

A 70 ANNI DALLA MORTE La vita, le idee e il destino
di un comunista e di un grande italiano che ancora ci parla
di Bruno Gravagnuolo

Alle 4 e 10 del 27 aprile 1937 moriva Antonio Gramsci, nella clinica Quisisana di Roma, dopo esservi giunto a fine agosto del 1935, da una clinica di Formia e già in condizioni fisiche disperate. Si concludeva così tragicamente una vicenda esistenziale e politica straordinaria. Quella di un prigioniero del fascismo e da poco in regime di libertà condizionale, che era stato uno dei massimi ispiratori teorici e pratici del Pcd’I nato nel 1921, nonché l’artefice del suo nuovo gruppo dirigente a partire dal 1923-24. Con la liquidazione dell’estremismo di Bordiga, la fondazione de l’Unità e la sua ascesa a segretario di quel partito. Dunque, un «combattente» e un costruttore di politica, ma insieme un grande intellettuale e un’eccezionale figura morale. La cui grandezza avevano compreso da visuali opposte Piero Gobetti e il «carceriere» Mussolini, entrambi capaci di registrare l’enorme energia costruttiva dei suoi pensieri, l’uno per elogiarla, l’altro per controllarla e alfine spegnerla. Senza Gramsci, il Pci così come lo abbiamo conosciuto non vi sarebbe stato, e nemmeno la storia d’Italia sarebbe stata quella che abbiamo conosciuta. Perciò Gramsci è nostro, indubitabilmente. Di chi militò sotto le bandiere del Pci anche decenni dopo. Della sinistra tutta, «post» o meno. E dell’Italia intera, persino di chi militò sotto opposte bandiere, e che magari cerca di «recuperarlo» a modo suo.
Dove sta la grandezza di questo nostro Gramsci? Lo si diceva: nei pensieri. E nella forza di una personalità. Nell’eccezionale forza di un «carattere» che fu l’involucro di quei pensieri, la corazza etica in grado di impedirne la dispersione, di là delle di vulgate e leggende esegetiche. Senza nulla toglire ai meriti di Togliatti, che salvò e trapiantò in Italia quei pensieri, Gramsci «eccede» e travalica ogni lettura addomesticata. Riuscì infatti a pensare e a esprimersi al futuro nel buio della prigionia, in tempi di ferro e di fuoco «tra Mussolini e Stalin», come suona il titolo di un saggio in arrivo di Angelo Antonio Rossi e Giuseppe Vacca (Fazi). E senza piegare la testa, testimoniando in prima persona, malgrado l’isolamento politico e affettivo, qual era l’universale liberazione umana a cui mirava. E come essa potesse e dovesse incontrarsi col corso terribile del mondo così come era. Cosa ci lascia Gramsci oltre la forza di un esempio eroico nel paese del «trasformismo»? Un arsenale inesauribile di idee, consegnate a una stenografia asistematica ma limpida. Che era un crittogramma del mondo, e in parte ancora lo è. Prima di tutto la diagnosi della crisi mondiale dopo la prima guerra. Cioè il conflitto irrisolto tra cosmopolitismo e stato nazionale, dal cui scontro senza universalismo mediatore scaturisce guerra. È dentro quel conflitto che Gramsci vide l’Ottobre 1917, i fascismi, il New Deal. Con il collasso della società liberale in Europa. E sempre in quello scenario scorse l’emancipazione «primitiva» incarnata dal bolscevismo, e i relativi contraccolpi planetari. Per questo il fascismo italiano, nonché figlio di tutta l’arretratezza italiana «senza nazione», gli apparve come una moderna «rivoluzione passiva». Indotta dall’interdipendenza internazionale, ma agita da classi dirigenti che inglobano l’attiva adesione dei ceti subalterni.
Due sfide quindi in Gramsci. Pensare la modernità del mondo, dove il «fordismo» Usa, che allarga il mercato, si rivela egemone rispetto al dispotismo sovietico. E attivare la coscienza dei dominati al livello dell’«economia-mondo», dentro e fuori le singole nazioni. Un cammino lunghissimo, che Gramsci chiamava «guerra di posizione». E una grande gincana della liberazione di massa, attraverso la «società civile», le sue forme simboliche, le sue «fortezze» e «casematte». Politica e filosofia egemoniche senza fine quelle di Gramsci, verso nuovi equilibri di potere. Dove il «mito» non estingue il dissenso e l’autonomia del soggetto. Idee-forza laiche, libere. Nostre.

l’Unità 15.4.07
QUESTO ANNIVERSARIO L’edizione nazionale degli scritti, i convegni, i nuovi studi e le edizioni straniere di un pensatore sempre più attuale
Un classico dell’avvenire per capire il mondo globale
di Giuseppe Vacca


Il settantesimo della morte di Gramsci si annuncia particolarmente denso di eventi e iniziative culturali di grande rilievo. Molti di essi sono promossi o realizzati con la partecipazione della Fondazione Istituto Gramsci. Segnalarne i più significativi mi sembra utile per dare conto degli sviluppi più recenti degli studi gramsciani, della diffusione crescente degli scritti di Gramsci nelle diverse aree linguistiche e culturali del mondo, e della vitalità del suo pensiero. Dopo quasi dieci anni di intenso lavoro comincia quest’anno la pubblicazione dell’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci. Com’è noto, egli è ormai universalmente riconosciuto come un classico del pensiero politico del Novecento, attualmente il più tradotto e studiato nel mondo intero. Man mano che la sua fortuna cresceva diveniva sempre più necessario che la cultura italiana fornisse alla comunità scientifica internazionale gli strumenti indispensabili ad uno studio critico filologicamente fondato del suo pensiero.
A questo si è dedicata la Fondazione Istituto Gramsci promuovendo, fin dai primi anni Novanta del secolo passato, una Edizione Nazionale degli scritti. Come si sa questa costituisce il massimo riconoscimento istituzionale della cultura italiana ad un suo autore illustre ed è altrettanto significativo che l’Istituto dell’Enciclopedia italiana ne sia l’editore.
Una edizione critica integrale degli scritti di Gramsci è necessaria per molte ragioni. Mi limiterò a ricordare quelle che costituiscono le principali novità dell’Edizione nazionale. Innanzi tutto un’edizione degli scritti e non delle «opere». Gramsci fu un uomo politico, un «combattente» il cui pensiero è consegnato a scritti giornalistici, interventi politici, epistolari e alle «note» dei Quaderni del carcere, raccolte in volume solo dopo la sua morte. Egli dunque non ci ha lasciato «opere», ma «scritti» che compongono un corpus straordinariamente unitario a condizione che se ne possa ripercorrere cronologicamente «il ritmo del pensiero in sviluppo», corredandone gli scritti dell’apparato filologico indispensabile a ricostruirne i contesti. In secondo luogo la sua attività giornalistica (1914-1926) è consegnata ad articoli prevalentemente non firmati. Rispetto alle pubblicazioni precedenti l’Edizione nazionale procede quindi verificandone le trascrizioni e le attribuzioni, e corredandoli di un apparato filologico molto più accurato. Novità significativa a tal uopo è l’elaborazione di un software ripetutamente testato che consente l’attribuzione degli articoli non firmati secondo criteri linguistico matematici, ferma restando la responsabilità dei curatori di accoglierle o respingerle integrando i criteri automatici con quelli critici tradizionali, come la conoscenza del lessico e dello stile letterario di Gramsci, e la ricostruzione del contesto editoriale, storico-politico e storico-culturale di ciascun articolo.
Altra novità significativa è la decisione di comprendere nell’Edizione nazionale non solo i carteggi gramsciani (quelli con Tatiana e Giulia Schucht, ed altri corrispondenti) ma anche i «carteggi paralleli», decisivi per il periodo carcerario (i carteggi fra Piero Sraffa e Tatiana Schucht, Tatiana e i suoi famigliari, ecc.). L’ingiustificata consuetudine di pubblicare solo le lettere di Gramsci e non anche quelle dei suoi corrispondenti è stata finalmente dismessa dopo che, con il suo pionieristico Antigone e il prigioniero (1990), Aldo Natoli aveva portato alla luce non solo lo spessore intellettuale e morale di Tatiana Schucht, ma anche il suo ruolo d’interlocutrice autorevole del prigioniero, ignorando le lettere della quale non si può ricostruire la biografia politica e intellettuale di Gramsci negli anni di detenzione. Tuttavia solo il carteggio fra Gramsci e Tania Schucht aveva avuto finora una vera e propria edizione critica, accuratamente annotata da Chiara Daniele (Einaudi 1997). Nell’Edizione nazionale si provvederà quindi a colmare una grave lacuna, secondo criteri che consentiranno agli epistolari di assolvere il loro compito precipuo, quello di rendere possibile la ricostruzione della biografia intellettuale dell’autore in questione. È appena il caso di sottolineare quanto ciò sia importante per la comprensione dei Quaderni, per i quali, dopo l’edizione cronologica del 1975, abbiamo appreso quanto sia decisivo, per interpretarli, contestualizzare ogni nota, anche in rapporto alla vicenda politica del prigioniero, seguendone la scrittura oserei dire giorno per giorno.
Com’è noto dopo la pubblicazione dell’edizione cronologica dei Quaderni (l’impresa decennale di Valentino Gerratana e della nutrita schiera di studiosi che lo affiancarono) Gianni Francioni ha progressivamente affinato i criteri di datazione delle «note» che li compongono ed a lui è affidata la direzione della loro pubblicazione nell’Edizione nazionale. In questa essi saranno ordinati in Quaderni miscellanei, Quaderni speciali e Quaderni di traduzione. La novità più significativa è la pubblicazione dei Quaderni di traduzioni, esclusi dall’edizione Gerratana e quasi del tutto inediti. Con essi si inaugura l’Edizione Nazionale ed il volume sarà presentato il 30 aprile a Ghilarza, alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Ma le novità editoriali promosse dalla Fondazione Istituto Gramsci non si fermano all’Edizione nazionale. A fine aprile sarà in libreria il primo volume di una serie di pubblicazioni annuali edite dal Mulino, intitolata Studi gramsciani nel mondo. La serie si propone di far conoscere al pubblico colto i risultati più significativi della letteratura internazionale traducendo in italiano scritti di autori stranieri dedicati al pensiero di Gramsci o da esso ispirati. Il primo volume offre una selezione di scritti degli anni 2000-2005, si apre con un saggio di Amartya K. Sen su Sraffa, Wittgenstein e Gramsci e comprende scritti di studiosi inglesi, nordamericani e latinoamericani che spaziano dalla concezione della società civile e della teoria dell’egemonia, all’applicazione del pensiero di Gramsci allo studio di «questioni regionali», come il confronto fra socialismo, nazionalismo ed islamismo nel mondo arabo ed il declino del processo di pace in Medio Oriente, di questioni nazionali come nel saggio di Rupe Simms La Black Theology nelle lotte per la libertà che riguarda la vicenda sudafricana, o globali, come l’articolo della Costler sulla regolazione dei processi di mondializzazione dell’economia. I volumi successivi saranno invece di carattere tematico e verranno dedicati ad una scelta di studi culturali e post-coloniali, alle teorie delle relazioni internazionali ispirate dalla concezione gramsciana dell’egemonia e alla presenza di Gramsci nel modo arabo-islamico.
La pubblicazione ripercorre le linee principali dell’internazionalizzazione del pensiero di Gramsci che continua e si allarga. Il 27 aprile sarà presentata a Pechino la traduzione cinese delle Lettere dal carcere e il 29 maggio, a Mosca, la traduzione russa dei Quaderni, mentre si conclude la pubblicazione dell’edizione critica di essi in lingua inglese, curata da Joseph A. Buttigieg per la Columbia University Press. Alla «fortuna» internazionale del pensiero di Gramsci sono quindi dedicati tre importanti convegni promossi dalla Fondazione Istituto Gramsci per il Settantesimo. Il primo, «Gamsci, le culture e il mondo», organizzato in collaborazione con la International Gramsci Society-Italia, si terrà a Roma il 27 e 28 aprile ed è incentrato su tre pilastri dei Cultural studies: la Scuola di Calcutta, la Scuola di Birminghan, e gli studi post-coloniali influenzati dall’opera di Said. In autunno sono previsti un convegno internazionale a Berkley, dedicato alla teoria degli intellettuali nell’America del Nord, ed un altro a Buenos Aires, dedicato alla presenza di Gramsci nella cultura ibero-americana.
L’internazionalizzazione del pensiero di Gramsci è registrata in tempo reale dalla Biografia gramsciana on line consultabile presso il sito della Fondazione Istituto Gramsci. Originata dal lavoro pionieristico di Elsa Fubini e John Cammett, essa ha superato le 17.000 voci, metà delle quali appartengono alla letteratura straniera. Essa costituisce la base di un’altra iniziativa editoriale della Fondazione, il cui primo volume vedrà la luce quest’anno: la Bibliografia gramsciana ragionata, diretta da Angelo D’Orsi. Questa è dedicata alla letteratura in lingua italiana dal 1922 ad oggi e costituirà una guida importante per gli studiosi non solo italiani. L’informazione parziale e selettiva fin qui fornita sulle iniziative dell’Istituto Gramsci per il Settantesimo dà un’idea dell’ampiezza e della vitalità degli studi gramsciani. Contrariamente a quanto molti ritengono, dopo la battuta d’arresto degli anni Ottanta del secolo scorso essi si rinnovano e si accrescono anche in Italia, di pari passo con la disponibilità di nuove fonti, a datare dal 1991, con il sensibile sviluppo di nuovi studi sulla biografia intellettuale di Gramsci e con la crescita d’una nuova storiografia sul Novecento. Tutto ciò rende possibile l’organizzazione di un convegno di dichiarata ambizione, promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla Fondazione Gramsci di Puglia, che si terrà a Bari e a Turi dal 13 al 15 dicembre prossimo. Intitolato «Gramsci nel suo tempo», esso si svolgerà sulla base di cinquanta contributi di studiosi italiani volti a ricostruire la genealogia del pensiero di Gramsci ripercorrendo il cammino delle sue interazioni con la cultura e la politica europea e mondiale dei primi tre decenni del Novecento. Il lungo lavoro di preparazione e la disponibilità a parteciparvi dimostrata da tanti studiosi di almeno tre generazioni documentano una ripresa significativa dell’interesse per Gramsci e ci consentono di sperare di concludere così in modo degno, almeno per quanto riguarda la Fondazione Istituto Gramsci, un anno di iniziative e di eventi non rituali, né banali, nei quali cerchiamo di riversare tutto il nostro impegno.

l’Unità 15.4.07
OLTREOCEANO Da molti anni ormai il pensatore sardo è letto e conosciuto in America, e tra i suoi principali «estimatori» c’è anche la destra
Gramsci negli Usa, ecco come i «neocon» lo vedono e se ne servono in politica
di Joseph A. Buttigieg
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto


In uno dei suoi primi interventi dal titolo Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo, Gramsci scrive: «Ci può e ci deve essere una “egemonia politica” anche prima della andata al governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica» (Q1, &44). Questa «direzione o egemonia politica», prosegue Gramsci, si ottiene mediante l’opera degli intellettuali che fungono da avanguardia del gruppo che aspira a conquistare il potere di governo; e questi intellettuali svolgono la loro opera nella società civile.
Negli Stati Uniti c’è la tendenza generale a considerare gli intellettuali del tutto estranei alla realtà politica o ostinatamente di sinistra. Più di recente, tuttavia, gli osservatori hanno finito per apprezzare il ruolo cruciale che gli intellettuali hanno svolto nel preparare il terreno alle politiche realizzate dall’amministrazione Bush. Questo lavoro di preparazione è stato svolto da gruppi di intellettuali estremamente ben istruiti e tecnicamente sofisticati accolti e finanziati da vari think tank e istituti di ricerca.
Nel settembre 2002, quando appariva sempre piu’ chiaro che gli Stati Uniti erano decisi ad attaccare l’Iraq, l’amministrazione Bush ha pubblicato La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Dopo aver letto il documento ufficiale con l’inquietante esposizione della dottrina della guerra preventiva, gli analisti politici hanno notato che si trattava sostanzialmente di una rielaborazione di un documento di dominio pubblico da anni, ma in generale ignorato. Il testo originale Ricostruire le difese dell’America è stato pubblicato per la prima volta nel settembre del 2000 a cura del Project for the New American Century. Il Pnac è stato fondato nel 1997 da alcuni notissimi conservatori, tra i quali Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Elliot Abrams. I conservatori hanno scoperto molto tempo fa l’efficacia di operare nella società civile tramite istituzioni auto-organizzate per influenzare la politica del governo prima di prendere in mano le redini del potere. Nel 1980 il Council for Inter-American Security, un think tank con sede a Washington D.C. fondato nel 1976, dette vita ad un gruppo di ricerca che finì per essere conosciuto con il nome di «Commissione di Santa Fe», con il compito di formulare una nuova strategia americana nei confronti dell’America Latina. Il documento partorito dalla Commissione «Una nuova politica inter-americana per gli anni ’80», fu pubblicato solamente in ciclostile. Nell’anno seguente il documento della Commissione di Santa Fe era diventato il programma cui si ispirava la politica di Ronald Reagan nei confronti dell’America Latina. Nel 1989 lo stesso think tank dette alla luce «Santa Fe II», allo scopo di predisporre la politica latino-americana dell’amministrazione di George Bush senior.
Santa Fe II contiene una sezione dal titolo, «L’offensiva culturale marxista», che parla della minaccia rappresentata dall’influenza di Gramsci sugli intellettuali di sinistra dell’America Latina. Secondo il rapporto, l’analisi della cultura di Gramsci dimostrava «che era possibile controllare o plasmare il regime tramite il processo democratico a condizione che i marxisti fossero in grado di esprimere i valori culturali dominanti della nazione». Quello stesso anno Michael Novak scrisse sul pericolo che il «gramscismo» fosse abbracciato dagli intellettuali americani incorreggibilmente di sinistra in quanto presumibilmente minaccia di scalzare i valori americani e di ottenere sul piano culturale ciò che le fallite teorie del marxismo non erano tristemente riuscite a fare in campo economico. Questo intervento indusse in seguito il commentatore conservatore Rush Limbaugh ad informare e ammonire i suoi concittadini americani che: «il nome e le teorie di Gramsci sono ben noti in tutti gli ambienti intellettuali di sinistra. ... Gramsci è riuscito a definire una strategia per combattere una guerra culturale... che rimane l’ultima grande speranza di quanti cronicamente odiano l’America».
Con ogni probabilità anche Augusto Pinochet lesse il rapporto «Santa Fe II» in quanto in un’intervista rilasciata nel 1992 ad un giornale russo parlò di Gramsci come di un lupo marxista travestito da agnello che aveva una grande capacità di seduzione sugli intellettuali. Più di recente in La fine dell’Occidente Pat Buchanan ha sostenuto che «nei suoi Quaderni del carcere (Gramsci) ha superato i programmi in vista di una rivoluzione marxista coronata dal successo. La nostra rivoluzione culturale sarebbe potuta venire direttamente da queste pagine… L’idea di Gramsci su come fare la rivoluzione in una società occidentale si è rivelata corretta... la rivoluzione gramsciana continua ad avanzare e a tutt’oggi continua a fare adepti».
Centinaia e centinaia di pagine di analoghi allarmi si possono ricavare da periodici conservatori e siti Internet di gruppi di estrema destra. Tuttavia la prima fonte di informazione di Buchanan su Gramsci non è un qualche strambo teorico del complotto o fanatico guerriero culturale, ma John Fonte, senior fellow dello Hudson Institute, il cui saggio Perché c’è una guerra culturale: Gramsci e Tocqueville in America, è apparso sulla rivista della Heritage Foundation, Policy Review. Nel suo saggio John Fonte sostiene che «sotto la superficie della politica americana è in corso una dura guerra ideologica tra due visioni del mondo contrapposte. Li chiamerò “gramsciani” e “tocquevilliani” dal nome dei due intellettuali cui si devono le idee che si fanno la guerra... La posta in gioco della battaglia in corso tra gli eredi di questi due uomini altro non è che il tipo di paese che gli Stati Uniti saranno nei decenni a venire». Un filo comune percorre le rappresentazioni conservatrici di Gramsci; la convinzione che il comunista italiano ha lasciato in eredità alla sinistra una strategia efficace per trasformare radicalmente la società americana dall’interno corrompendola furtivamente o impadronendosi delle principali istituzioni della società civile. Questa visione della società civile è stata rafforzata dagli intellettuali, dai politici e dai propagandisti di destra che non si stancano mai di lamentare il fatto che la sinistra è impegnata in una «lunga marcia nelle istituzioni» - una sorta di guerra culturale di ispirazione gramsciana volta a minare i valori tradizionali, la fede religiosa e tutto ciò che l’America rappresenta. In realtà tuttavia, è stato il movimento conservatore che, fin dall’epoca della prima candidatura alla presidenza di Reagan, ha assiduamente e metodicamente marciato nelle istituzioni. Istituti di ricerca come la Heritage Foundation e l’American Enterprise Institute, fondati con una programma apertamente di destra e che ora svolgono un ruolo importante nel formulare la strategia politica, sociale ed economica del Partito repubblicano, non hanno equivalenti progressisti e tanto meno di sinistra. Sono spuntati filantropi al solo ed esclusivo scopo di finanziare iniziative conservatrici quali la creazione di organizzazioni studentesche (con i loro giornali universitari) presso alcune delle più prestigiose e influenti università. Leader religiosi di grandi congregazioni fondamentaliste cristiane hanno stretto alleanze strategiche di ferro con politici conservatori. In tutto il paese stazioni radio trasmettono talk-show di estrema destra condotti da personalità che si sono conquistate notorietà nazionale. L’emittente televisiva Fox, creata dall’attuale proprietario Rupert Murdoch, è così dichiaratamente conservatrice da essere diventata a tutti gli effetti la portavoce del Partito repubblicano. Abbondano i periodici di destra che non solo esercitano una forte influenza su un numero di lettori sempre più grande, ma contribuiscono anche a determinare la politica del governo.
Lungi dall’essere radicalizzata da movimenti sociali progressisti, la società civile americana è inondata da valori sociali, politici, culturali ed economici conservatori promossi e diffusi instancabilmente da oltre venti anni da un movimento ben radicato e altrettanto ben finanziato. La società civile ha finito per diventare la principale fonte di forza di George Bush; ma sarebbe più esatto dire che la forza dell’amministrazione Bush è la manifestazione esteriore del grado di penetrazione del movimento conservatore nella società civile. Ciò non vuol dire che il movimento conservatore sia invincibile o irresistibile. Vuol dire, tuttavia, che l’apparato coercitivo della società politica non è la sua principale fonte di potere. La sua principale fonte di potere è la società civile. Naturalmente è necessario anche l’«ottimismo della volontà», ma, affinché non sia pura follia, deve essere fondato su una esauriente e lucida valutazione dei punti di forza dell’avversario. Questi punti di forza sono radicati, prevalentemente, nella società civile ed è lì che l’ethos dell’egemonia prevalente è stato interiorizzato come «senso comune» - e questo, come Gramsci sapeva fin troppo bene, è la cosa più difficile da trasformare.

l’Unità 15.4.07
LA LAICITÀ GRAMSCIANA Questione Vaticana e arretratezza del paese, un punto attualissimo nella riflessione dei «Quaderni»
Quel messaggio ostinato: Italia mancata per colpa dei liberali e del clericalismo
di Michele Prospero


I Quaderni ripensano la lunga durata della storia italiana, caratterizzata, per il suo tratto distintivo, dall’intreccio profondo di particolarismo municipale e di cosmopolitismo cattolico. Il tema della laicità evoca dunque in Gramsci il nodo gordiano dello Stato. La sua edificazione in Italia avviene all’insegna di Cavour, che fu un «politico creatore» non un mero diplomatico.
Quella di Cavour fu «un’abilità subalterna, tuttavia fruttuosa». Il «capolavoro politico del risorgimento» fu anche la capacità dei liberali di «suscitare la forza cattolico-liberale» sganciandola dalle ipoteche della chiesa e legandola in qualche misura alle parole d’ordine della nazione e della patria. Tra gli Stati europei, tuttavia, l’Italia non solo è tra quelli di più recente costituzione, ma il suo cammino verso l’unità giuridica e politica si compie combattendo manu militari la chiesa. La chiesa logora le basi di legittimità dello Stato nascente rendendolo precario e segno del demoniaco. L’estraneità irriducibile della chiesa impedisce una socializzazione politica delle masse cattoliche. Mentre in altri sistemi politici compaiono partiti conservatori ispirati al cattolicesimo e capaci di gareggiare con le risorse del suffragio universale, in Italia la chiesa rigetta ogni agire politico nelle sedi istituzionali. Ma la chiesa monopolizza solo spezzoni di società civile e non raggiunge un respiro nazionale.
Gramsci non ha dubbi: il mondo cattolico aveva paura delle masse che controllava solo a parole. Per Gramsci il malessere italiano non è affatto una semplice conseguenza dell’assemblearismo e del trasformismo dell’età giolittiana. Il paradigma dell’arretratezza costituisce un elemento centrale nella sua ricognizione. Mancava in Italia la società civile che era «qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni». Per questo non si poteva esprimere una vera classe dirigente. Legato alla endemica arretratezza nazionale era anche il problema cattolico. «Il clericalismo non era neanche esso l’espressione della società civile, perché non riuscì a darle una organizzazione nazionale ed efficiente».
La crisi italiana è dunque a più strati. Comprende l’arretratezza della società civile, la debolezza delle classi dirigenti, il carattere di rivoluzione passiva assunta dal risorgimento. Per questo complesso di fenomeni «l’unità nazionale è sentita come aleatoria». Gramsci rivendica il valore integrativo della nazione. Lo «scarso spirito nazionale e statale in senso moderno» costituisce a suo giudizio una pesante ipoteca per la politica italiana. La fragilità del movimento socialista è legata anch’essa a questa debole impronta della coscienza civica nazionale. Dinanzi alle crisi telluriche del ’900 manca una classe politica provvista di valori istituzionali condivisi. Il mondo cattolico si affaccia alla politica, dapprima sottobanco con il patto Gentiloni e poi con un autonomo partito, quando il destino del regime liberale era già segnato. Con la comparsa di un autonomo soggetto politico dei cattolici, si ufficializza la sconfitta del neoguelfismo e di ogni primato papale.
Secondo Gramsci, il partito popolare segna a tutti gli effetti il tramonto dell’egemonia clericale poiché la religione «da concezione totalitaria, diventa parziale e deve avere un proprio partito». Per la chiesa si consuma una autentica catastrofe culturale quando le sue espressioni politiche organizzate «diventano partiti in contrapposto ad altri partiti».
Nell’analisi di Gramsci la chiesa è sulla completa difensiva nel mondo della «indifferenza», della «apostasia di intiere masse», della «riforma intellettuale e morale laicista» portata dal moderno. Spaesata essa deve prendere dai suoi avversari persino lo strumento dell’organizzazione politica di massa. Nella cultura che conta il tomismo è in generale ritirata. Nelle culture popolari «il cattolicesimo si è ridotto in gran parte a una superstizione di contadini, di ammalati, di vecchi e di donne». La secolarizzazione è un destino inevitabile nel Moderno disincantato e laico. Molti sono gli elementi di novità che Gramsci segnala riflettendo sull’americanismo. La nuova personalità femminile, la nuova etica sessuale, la diversa disciplina degli istinti, la attenzione per la salute fisica e psichica, oltre agli alti salari, l’autodisciplina, la fioritura di istituti di credito. Nei paesi civili procede un indifferentismo religioso, sempre più soggetti ricorrono a matrimoni misti, rapporti osteggiati dalla chiesa che li censura come unioni invalide, areligiose. Anche il Francia, dove le masse votano da tempo, «il sentimento nazionale, organizzato intorno al concetto di patria è altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente più forte, del sentimento religioso-cattolico». La coscienza civica è più forte del senso di appartenenza subculturale. «La Marsigliese è più forte dei salmi penitenziali».
In Italia la situazione è diversa perché nessun soggetto politico ha svolto una adeguata funzione di nazionalizzazione delle masse. Gramsci ricorda che «la formula della religione affare privato è di origine liberale» ed è una formula di compromesso per schivare guerre di religione. In fondo però «neanche per i liberali la religione è un affare privato in senso assoluto». Senza porsi compiti di integrazione, i liberali non contribuiscono alla maturazione di una moderna coscienza laica. Compito prioritario del partito operaio per Gramsci sarebbe stato quello di fornire «la base di un laicismo moderno, e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume». Stato e partito non vanno confusi. Lo Stato etico è un pericolo perché alla dimensione dello Stato per definizione appartiene la tutela dei molteplici punti di vista. La concezione del partito non è totalizzante giacché il partito dovrebbe essere il veicolo della laicizzazione entro un orizzonte pluralistico e competitivo. Un partito unico è un non partito.
Tra gli anni venti e trenta in molti paesi europei vince proprio la soluzione cesaristica. La chiesa ricorre ovunque al concordato con le potenze autoritarie. Per Gramsci i patti lateranensi con il fascismo furono una capitolazione dello Stato poiché «il concordato è il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale». Accanto alla contraddizione di postulare due sovranità su un solo territorio, con il concordato si asserisce che l’obbligo politico verso l’ordinamento statale necessita di una integrazione offerta dalla chiesa che ottiene «un riconoscimento pubblico». A Gramsci non sfuggono le contraddizioni che sul piano del diritto civile sono imputabili al regime concordatario. Affidando la disciplina del matrimonio al diritto canonico - egli nota - non solo «viene applicato nell’ambito statale un diritto ad esso estraneo», ma viene attribuito solo ai cattolici un diritto che gli altri non hanno, quello di vedere annullato il loro matrimonio da un tribunale religioso ad hoc. Si stabilisce così un regime giuridico differenziato «mentre l’essere o non essere cattolici dovrebbe essere irrilevante agli effetti civili».
Il giudizio che Gramsci dà della condotta della chiesa negli anni ’30 è severo. La chiesa adotta un atteggiamento opportunista e privo di principi coerenti. La chiesa si accontenta di conservare sue prerogative benché le nuove forme di nazionalismo paganeggiante rendaono difficile l’esistenza della chiesa. «D’altronde - scrive Gramsci - il papa non può scomunicare la Germania hitleriana, deve talvolta persino appoggiarsi ad essa e ciò rende impossibile ogni politica religiosa rettilinea, positiva, di un qualche vigore». Gramsci denuncia con forza il connotato reazionario dei concordati: «elementi di teocrazia sussistono in tutti gli Stati dove non esista netta e radicale separazione tra Chiesa e Stato, ma il clero eserciti funzioni pubbliche di qualsiasi genere e l’insegnamento della religione sia obbligatorio o esistano concordati». Il suo è un grande messaggio laico che affida i «valori» della politica all’azione politica stessa che non ha bisogno, se è grande politica, di ricercarli nella religione. Non serve pertanto alcun diritto naturale per mutare rapporti sociali ingiusti. «La concezione del diritto - scrive ancora - dovrà essere liberata da ogni residuo di trascendenza e di assoluto». Il diritto positivo altro non è che uno strumento per creare un tipo moderno di cittadino. Ne parla perciò come di uno strumento del tutto laico della «attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato».

l’Unità 15.4.07
Mussi vuole unire la sinistra, lo Sdi i socialisti. Torna De Michelis
Applausi per il leader della minoranza Ds e Angius. Caldarola esulta: «Finalmente sono a casa»
di s.c.


BOSELLI CHIAMA, la sinistra Ds risponde. E risponde, nel secondo giorno del congresso straordinario dello Sdi, in modo piuttosto chiaro: questo Partito democratico non piace neanche a noi, come però non ci piacerebbero altri tipi di fusioni a freddo o altri tipi di processi che invece di unire il più possibile tendono ad escludere. Al Palaterme di Fiuggi intervengono Fabio Mussi e Gavino Angius. Gli applausi che riserva loro la platea sono più sonori e più numerosi di quelli con cui viene accolto Romano Prodi. Né hanno molto da invidiare all’entusiasmo con cui rispondono i circa 800 delegati dello Sdi quando un pezzo per volta viene a profilarsi all’orizzonte la ricomposizione della diaspora socialista, quando dal palco Gianni De Michelis annuncia un secco «la scelta è fatta, con quei pochi che mi seguiranno sarà con voi in questo percorso» (passano pochi minuti e da Roma arriva l’attacco di Stefano Caldoro) e quando da quello stesso palco Bobo Craxi si lascia andare a un più poetico «senza indugi, Enrico, avviciniamo i nostri vascelli, costruiamo in fretta una imbarcazione più grande, rimarremo insieme una vita». Qui finiscono però le analogie. Perché se da parte di Socialisti e Nuovo Psi il sì alla Costituente socialista lanciata dal leader dello Sdi Boselli è «senza se e senza ma», da parte delle minoranze Ds l’apertura c’è, ma contemporaneamente c’è un appello a lavorare per unire «tutte le forze di sinistra» come sottolinea Angius, «avviare un dialogo tra tutti i compagni», come invita Mussi, ad evitare di mettere in moto «una costituente ad excludendum», come avverte Caldarola.
Il monito è insomma a non replicare operazioni già viste e a non considerare altri cantieri che sorgeranno nel centrosinistra, tipo quello a cui pensa Rifondazione comunista, come alternativi al pari del Pd. «Questo dialogo che si è aperto mi interessa e ringrazio Boselli», è la premessa che fa Mussi incassando l’applauso della platea. Ma parlando ai «cari compagni» il leader della sinistra diessina aggiunge due considerazioni. La prima: «Non illudiamoci che accorpando due partiti, come stanno facendo Ds e Margherita, si possano realizzare ipotesi future. Il progetto non è ancora pronto, c’è un lavoro da fare con spirito aperto. Io sono interessato al confronto, ma bisogna sapere bene dove si vuole andare». La seconda: «Non dobbiamo fare come il Pd, dobbiamo partire con un altro piede, discutendo di valori, principi, progetti. Molte forze si stanno mettendo in cammino. E non bisogna avere paura di battere delle strade non ancora battute. Impegniamoci nella ricerca, sviluppiamo un dialogo tra compagni». Il riferimento, benché implicito, è alle forze della cosiddetta sinistra radicale, rispetto alla quale lo Sdi non manca però di marcare la distanza. Ed è significativo che al riferimento diretto a Rifondazione comunista fatto da Caldarola, pure molto applaudito quando chiude il suo intervento dicendo «finalmente sono a casa», replichi dopo pochi minuti in modo netto De Michelis: «Bertinotti è un’altra cosa. Schulz, pur di vincere, non ha scelto per la Germania una alleanza con Lafontaine. La Spd ha preferito la Grosse Koalition ed un’alleanza con Angela Merkel».
Se dunque la volontà di avviare una Costituente socialista accomuna minoranze Ds ed eredi del Psi e del Psdi, il modo di procedere e i protagonisti da coinvolgere è tutto da vedere. Quello che di certo li accomuna, al momento, è il netto no al Pd. «Fassino e D’Alema dovrebbero riflettere su questo vostro congresso - dice Mussi - la vostra decisione di non entrare nel Pd è pesante». Il ministro dell’Università non manca però di sottolineare che l’operazione sostenuta dalla maggioranza Ds, pur se «politicamente sbagliata» comunque «merita rispetto»: «Enrico - dice a Boselli, che il giorno prima aveva attaccato pesantemente i Ds - bisogna fare uno sforzo di misura del linguaggio». È sbagliata l’operazione in corso anche per Angius: «È tutto già deciso, la fase costituente è già predeterminata», accusa. Il primo firmatario della terza mozione Ds chiede un cambio di rotta e l’azzeramento delle decisioni prese a Orvieto, avvertendo: «Vedremo a Firenze se cambierà qualcosa. Se non dovesse avvenire, non ci starei in un Pd caratterizzato da una cultura egemone cristiano-democratica già segnata». Così come pure, ad accomunare Sdi e sinistra diessina, c’è la volontà di rimanere in Europa nella famiglia europea. E se ventiquattr’ore prima era stato Rasmussen a criticare l’idea di Rutelli di dar vita al Parlamento europeo a un nuovo gruppo, nel secondo giorno di congresso è Martin Schulz ad attaccare. «Rutelli mi disorienta spesso» dice il capogruppo del Pse facendo scattare l’applauso. «In Europa - aggiunge - guardiamo con favore all’unificazione dei progressisti e dei socialisti in Italia, ma sempre dalla parte del socialismo europeo e dell’Internazionale socialista».

Repubblica 15.4.07
Si sciolgono due partiti in cerca di futuro
di Eugenio Scalfari


FIN qui ho evitato, più o meno consapevolmente, di occuparmi del costituendo Partito democratico. Mi sembrava un tema accademico, un´esercitazione nel vuoto, un´evocazione fantasmatica di quelle che un tempo si facevano a tavolino per dar corpo ad un´ombra che stentava a materializzarsi, senza contorni definiti. Molti ne scrivevano, per auspicarne la nascita o per contrastarla; disputavano sulle sue possibili radici, sul Pantheon dei padri e dei nonni, sul riformismo possibile, ma badando più alle polemiche del passato che alle visioni del futuro e alle domande che incalzano in una società sempre più disgregata e senza ideali che ne scuotano l´apatia.
Ma ora eludere ancora l´argomento è diventato impossibile: i due partiti maggiori del centrosinistra terranno i loro congressi in questa settimana e saranno gli ultimi, sia dei Ds sia della Margherita. Si concluderanno con la lettura d´un comune dispositivo, convocheranno un´assemblea costituente per il prossimo ottobre rimettendo ad essa la nascita del nuovo partito, aperto a rappresentanti della società civile oltre che ai loro aderenti.
Si entra insomma nel vivo del processo di formazione del nuovo soggetto. L´ombra troppo a lungo evocata sta dunque per prender forma. Produrrà mutamenti nella politica? Susciterà immagini nuove? Riconfermerà le oligarchie e le nomenclature esistenti o le rinnoverà? Riuscirà a fondere insieme l´esperienza e la tradizione socialista e quella cattolico-democratica o si limiterà a giustapporle senza trovare una sintesi nuova e condivisa? Rafforzerà il governo o ne anticiperà la crisi?
Semplificherà lo schieramento dei partiti o lo renderà ancor più frammentato?
Ecco una folla di domande (ma non sono le sole e forse nemmeno le più importanti) che ci stanno dinanzi, alle quali i promotori di questo nuovo soggetto dovranno rispondere perché finora le risposte vere non sono venute. Li sentiamo parlare con eccessiva frequenza ma con parole che non rispondono. Non chiariscono, non convincono. Non rinnovano né i contenuti né il rito né colmano la distanza tra la classe politica e la società.
Se queste lacune, questo senso di fusione fredda, questa marcata autoreferenzialità debbono esser superati, ci vorrà uno sforzo ben più intenso dell´interminabile mediazione in corso da mesi, anzi da anni.
I promotori ne saranno capaci?

Prendo in prestito una battuta che ho letto giorni fa in un articolo sul "Sole 24 Ore"; l´autore (Fabrizio Galimberti) la usava per spiegare un problema finanziario, ma si attaglia benissimo alla nascita del Partito democratico. La battuta dice così: «Da un acquario si possono prendere i pesci necessari per fare una buona zuppa, ma non si può partire da una zuppa di pesce per costruire un acquario».
Le due zuppe di pesce servite in tavola per l´ultima volta dai Democratici di sinistra e dalla Margherita dovrebbero dar vita all´acquario del Partito democratico. E´ un´operazione possibile? Posta così la questione, la risposta è: ovviamente no. Del resto quel "no" è purtroppo suffragato da una quantità di esperienze verificatesi nei cinquant´anni di storia repubblicana: la somma di due partiti non genera un soggetto vitale, non risolve problemi, non elimina difficoltà, non rinnova la classe dirigente, non attira nuove energie e nuovi consensi.
Eppure – riconosciuta la carica negativa di questa constatazione – resta che la nascita del Partito democratico sulle spoglie dei Ds e della Margherita è un´assoluta necessità.
La strada separata di quei due partiti è arrivata al capolinea.
Così come sono, ancora divisi tra loro e ciascuno dei due diviso al proprio interno, hanno perduto ruolo e rappresentanza. La loro dimensione quantitativa è inadeguata ad una democrazia di massa; quella qualitativa e culturale è povera.
So bene che quest´insufficienza non è soltanto del centrosinistra ma si manifesta in modo altrettanto grave nel centrodestra. So altrettanto bene che i dirigenti del centrosinistra hanno, individualmente, uno spessore intellettuale ed una professionalità certamente migliore dei loro omologhi avversari. Ma ciò non basta a dare un orizzonte alle forze e agli interessi che essi rappresentano.
E quindi: la nascita del Partito democratico è inevitabile, ma le forme fin qui adottate non sembrano in grado di provocare l´evento. E poiché, come scrisse Vico, «la natura delle cose sta nel loro nascimento in certi modi e in certe guise» è appunto ai modi della nascita che bisogna guardare.
Comprendo quanto sia ostico ad un gruppo dirigente sentir pronunciare la parola "scioglimento", ma di questo si tratta. Si tratta di procedure che danno vita a nuove forme e quindi divengono contenuto. Due congressi si radunano, due partiti si sciolgono, ma in realtà i gruppi dirigenti si perpetuano, i congressi convocati con le procedure dei due partiti promotori eleggono i delegati candidati a far parte dell´assemblea costituente, della quale costituiranno i due terzi. L´altro terzo sarà eletto dalle associazioni della società civile e dal cosiddetto popolo delle primarie.
E´ questo lo schema che i due partiti morituri si accingono ad approvare nei due congressi di fine settimana? Sono queste le due zuppe di pesce (morto) che dovrebbero ripopolare l´acquario del nuovo partito con pesci vivi?

* * *
Lo scioglimento vero è un´altra cosa. Significa l´azzeramento delle nomenklature esistenti. Attenzione: non delle istituzioni nazionali e locali che non debbono essere coinvolte nel processo di trasformazione dei partiti. I ministri del governo nazionale, gli assessori degli enti locali e regionali, continueranno ad assolvere ai loro compiti e semmai vedranno rafforzate le istituzioni alle quali appartengono. Cesseranno infatti di esistere le delegazioni dei partiti al governo, un fenomeno che si sperava di non vedere mai più e che invece ha raggiunto l´acme della sua distruttiva visibilità e presenza.
Le nomenklature del nuovo partito dovranno invece essere indicate dalla Costituente e sottoposte al vaglio (almeno le principali) delle elezioni primarie.
Gli iscritti ai vecchi partiti che ne faranno richiesta dovranno essere automaticamente iscritti al nuovo partito; così pure tutti coloro che votarono alle primarie nazionali e locali. E ancora: le associazioni di volontariato e dei sindacati dei lavoratori che ne facciano richiesta o di altri partiti dell´Unione. Questo è il bacino di partenza che dovrà eleggere la Costituente.
Finora il discorso è rimasto nel vago, ma ora nel vago non può più oltre restare.
Un´alternativa (riduttiva) a questo metodo sarebbe quella di transitare i gruppi dirigenti dei partiti morituri nel nuovo soggetto, riservando ad essi però soltanto un terzo dei seggi dell´Assemblea, attribuendo agli eletti delle primarie e alle altre associazioni della società civile gli altri due terzi. I gruppi promotori in tal modo avrebbero una forte minoranza della Costituente come è anche giusto che sia, ma non la maggioranza. Si eliminerebbe in questo modo la cooptazione e si accentuerebbe il carattere innovativo del Partito democratico.
Questo metodo non esclude nessuno e include tutti, ma modifica le condizioni di partenza. Non è un punto di forma e di pura organizzazione ma di sostanza.

* * *
Un partito democratico è per definizione il partito che rafforza, estende e difende la democrazia. Perciò è un partito che mira ad includere, a mantenere aperti i varchi di accesso all´esercizio dei diritti e al rispetto dei doveri che a quei diritti corrispondono. E´ il partito della libertà e dell´eguaglianza, della giustizia e della sicurezza. E´ il partito della Costituzione e della laicità nelle sue forme adulte: spazio pubblico a tutte le opinioni e a tutte le associazioni, ingerenza nelle istituzioni a nessuno.
Le istituzioni che le rappresenta rispondono alle leggi e alla Carta costituzionale.
Si discute fin troppo accanitamente sull´appartenenza a questo o quel partito europeo. Alcuni pongono la questione in termini ultimativi. Il socialista Boselli ne ha fatto anche lui una questione dirimente e si è schierato contro il nascituro Partito democratico.
Credo sia un grave errore, ma nessuno può esserne giudice dall´esterno. Per quanto riguarda il Partito democratico, capisco che se persisteranno le oligarchie dei partiti morituri l´appartenenza in chiave di Parlamento europeo può diventare insolubile. Ma se le vecchie oligarchie si scioglieranno e la Costituente rappresenterà il popolo degli elettori di centrosinistra, la parola passerà a quel popolo e all´organo che lo rappresenta.
Se bisogna puntare al futuro, questo è il futuro. Alfredo Reichlin, sull´"Unità" di ieri, scrive che saranno soprattutto i ragazzi e le ragazze a determinare il corso e le scelte del nuovo partito. Ha ragione e tutti quelli che pongono a questi temi l´interesse dei cittadini democratici immagino la pensino come lui.
Ragazzi e ragazze, ma anche adulti e anziani, lavoratori, insegnanti, professionisti, intellettuali, imprenditori, pensionati e insomma gli italiani non imbarbariti, non settari, coraggiosi che puntano sul presente e sul futuro, non immemori del passato ma senza farsene condizionare, non dimentichi delle radici ma consapevoli che la radice viva è quella capace di alimentare le fronde dell´albero.
Capisco che ci vuole una dose insolita di coraggio per intraprendere questo viaggio nel futuro. Credo non vi sia altra scelta. Spero che tutti i portatori di interessi legittimi comprendano che questa è la strada ed altre non ve ne sono.
Post Scriptum. L´ex ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, l´altro giorno alla Camera, nel dibattito sul caso Mastrogiacomo- Afghanistan, ha attaccato Prodi e D´Alema dando una sua versione dei fatti. Ha detto in aula (e così è registrato negli atti parlamentari) che Prodi avrebbe detto a Karzai che se non avesse accettato lo scambio di prigionieri con la banda talebana il contingente militare italiano sarebbe stato ritirato dall´Afghanistan. Ha aggiunto che queste notizie gli risultavano direttamente e con certezza.
A distanza di pochi minuti, ricevendo in una saletta di Montecitorio un giornalista del Tg1, ha fornito invece una versione del tutto diversa e cioè che Prodi avrebbe fatto capire a Karzai che un rifiuto di trattare avrebbe provocato probabilmente la crisi del governo italiano e che questo evento avrebbe messo a rischio la presenza dei nostri militari in Afghanistan.
A parte che entrambe queste versioni risultano false sulla base dei testi delle conversazioni telefoniche tra Prodi e Karzai, esiste tra le due dichiarazioni di Fini una differenza essenziale.
In quella fatta in aula Prodi avrebbe minacciato Karzai di ritirare il contingente italiano; in quella fatta al Tg1 e trasmessa nell´edizione delle ore 20, Prodi avrebbe invece previsto una crisi del suo governo e l´eventuale ritiro del contingente proprio a causa di quella crisi. Poiché nessuna televisione e nessun giornale hanno notato questa differenza così grave nelle parole di Fini, sembra opportuno che la lacuna sia colmata.

Repubblica 15.4.07
Inutile il miliardo di dollari speso in Usa per i corsi sulla castità: gli studenti non seguono
Bush perde la guerra del sesso
di Vittorio Zucconi


Sesso, fallisce la guerra di Bush un flop le lezioni di astinenza
Un miliardo di dollari spesi, ma i "virginauti" lo fanno come gli altri
Un sondaggio rivela che i ragazzi che hanno seguito i corsi di castità hanno rapporti e usano i profilattici
Otto Stati avevano accettato i fondi federali e inserivano la verginità nei curricula scolastici

È costata almeno un miliardo di dollari ed è fallita miseramente anche l´altra guerra preventiva di George Bush, contro la terrificante minaccia del sesso. I "virginauti" americani, i ragazzini indottrinati per anni dal governo e dalla scuola a dire di no al desiderio, lo fanno esattamente come i loro coetanei più disinvolti, lo fanno alla stessa età e forse con più trasporto di chi non aveva giurato l´astinenza pre-matrimoniale.
«Abbiamo terrorizzato una generazione descrivendo il sesso come l´anticamera dell´inferno o almeno del cimitero» ha detto il congressman Henry Waxman, oggi presidente Democratico della commissione Giustizia della Camera, «e tutto quello che abbiamo comperato con i fondi pubblici sono tonnellate di sensi di colpa che tormenteranno questi giovani». Ottima notizia, questa, per gli psicoterapeuti e per gli psichiatri di domani.
La "guerra preventiva" contro il desiderio che affiora nella pubertà era cominciata già sotto il regno di uno che ai voti di castità aveva rinunciato fin dalla più tenera età, Bill Clinton. Alla metà degli anni ‘90, quando la nuova destra guidata dal deputato Newt Gingrich (quel guerriero della moralità che si trastullava a letto con un´amante mentre la moglie agonizzava in ospedale) aveva preso il controllo della Camera, era stato autorizzato il primo stanziamento pubblico, 68 milioni di dollari, per l´educazione all´astinenza dei bambini di 9 anni negli Stati che avessero accettato di mettere la verginità nei loro curricula scolastici.
Otto Stati avevano accettato i fondi e dunque il programma, nato sulla spinta di una tragedia reale come la gravidanza delle adolescenti soprattutto di colore, era partito con grande marciar di bande e produzione di opuscoli e operette clinico-morali. La buona intenzione era stata purtroppo subito inquinata dall´agenda politica dei crociati del moralismo, dai fustigatori del permissivismo che dopo il Sessantotto aveva spalancato le porte della Sodoma e Gomorra.
Sempre federalisti e libertari quando al potere sono gli altri, e sempre centralisti e interventisti quando al potere sono loro, gli ultrà delle destre neo e paleo erano partiti coi soldi pubblici dai bambini di quarta elementare e con l´avvento alla Casa Bianca del Presidente che aveva promesso di ricristianizzare l´America, il programma era esploso. Lo stanziamento iniziale era balzato a quasi 200 milioni annui e ai 268 iscritti nel budget, nella finanziaria del 2007, nonostante le denunce e le proteste di medici, sessuologi, educatori e parlamentari non dipendenti come Bush dal voto dei cristiani, che scoprivano sbigottiti quale robaccia venisse spacciata ai ragazzi, per indottrinarli.
Già nel 2004, Waxman aveva portato in commissione fasci di opuscoli diffusi dal governo con notizie false. «L´aborto rende sterili le donne», un mito già smentito dall´associazione degli ostetrici americani. «La metà dei teenager gay è infetta dall´Hiv». Falso.
Masturbarsi non rende più ciechi, come predicavano le mamme d´altri tempi, ma può portare al concepimento. Le infezioni veneree, come la clamidia, provocano fatali malattie cardiovascolari, una idiozia che gli stessi autori degli opuscoli furono costretti a eliminare dalle edizioni successive. Per chiarire poi quale fosse la vera linea culturale nascosta dietro i veli della modestia, qualche manuale spiegava che la spinta a fare sesso è espressione del «bisogno di completamento fisico» nei maschi, ma strumento per «raggiungere la sicurezza economica» nelle femmine.
Migliaia di pre-teenager e di ragazzi venivano portati in parata davanti alle telecamere o esibiti nelle palestre delle scuole medie e dei licei per pronunciare i loro pledges, i loro giuramenti pubblici di purezza fino all´altare. E chiunque abbia frequentato una scuola può immaginare con un brivido di orrore le risatine, i sogghigni, le battute a mezza bocca, le gomitate, e dunque la vergogna, che accoglievano questi poveri disgraziati.
Poi, arrivano i risultati, prodotti dall´istituto di ricerca "Mathematica" e disponibili in Internet. I virginauti lo fanno per la prima volta esattamente alla stessa età media, 14 anni e 9 mesi, dei loro coetanei. La stessa percentuale di indottrinati e non indottrinati, in città e stati diversi, in piccoli paesi di campagna come in metropoli peccaminose: il 51 per cento. Addirittura di più, il 56 per cento contro il 55 dei «non ufficialmente casti» lo hanno fatto negli ultimi 12 mesi, e pure con «tre o più partner», insinuando l´empio sospetto che abbiano voglia di recuperare il tempo perduto. Lo stesso numero usa quei profilattici che i manuali di propaganda finanziati dai contribuenti descrivono come «efficaci» nella prevenzione delle malattie e della gravidanza «soltanto al 70 per cento», mentre la cifra reale è superiore al 97 per cento.
Se dunque la crociata contro il desiderio è stata prevedibilmente vinta dal desiderio, come accade dal Giardino dell´Eden, la questione dell´educazione ai rischi reali, fisici e psicologici, del sesso prematuro, della diffusione delle infezioni veneree e delle gravidanze adolescenziali rimane aperta ed è serissima. Il fallimento della rieducazione polpottiana anti-sesso dimostra soltanto che il mezzo era sbagliato, non il fine, e la formula semplicistica già cara alla signora Nancy Reagan, quando invitò gli americani a «dire no» per battere la droga, non funziona. Un miliardo di dollari spesi per dire ai giovani di «non farlo», sono l´equivalente moderno dei vani moniti del parroco felliniano di Amarcord quando ammoniva i fanciulli a «non toccarsi per non far piangere San Luigi» e loro gli mentivano per farlo contento. Almeno ai ricercatori di opinione, se non al confessore, i ragazzi americani di oggi confessano la verità.

Repubblica 15.4.07
Se il codice penale non vale in sacrestia
risponde Corrado Augias


Egregio dottor Augias, vivo nel basso Lazio, in un paese molto piccolo in cui i valori della tradizione e della cristianità sono forti e vivi.
Il parroco, come il farmacista, il sindaco, il maresciallo e il medico condotto, rappresenta ancora un forte punto di riferimento sia per le persone anziane che per gli adolescenti. Purtroppo, qualche anno fa, in situazioni ancora misteriose il parroco è stato trovato morto impiccato nella sua piccola (e umile) dimora. Nessuno ha dato spiegazioni ai fedeli.
Il mistero è rimasto e rimane. Restano interrogativi sul contenuto di un biglietto lasciato dal vecchio parroco e sequestrato al momento del ritrovamento del cadavere. Dopo qualche mese è arrivato un altro parroco più giovane.
Purtroppo quest'ultimo, constatate le sue difficoltà a gestire la piccola e vivace comunità, ha pensato di convocare un'assemblea pubblica e di accusare un nutrito gruppo di fedeli di tutti i mali che affliggevano a suo parere la parrocchia additandoli pubblicamente come pedofili, gay ecc.
Da quel giorno si sono create forti spaccature all'interno della comunità parrocchiale, spaccatura spinta e voluta fortemente dal parroco stesso e dai suoi nuovi seguaci. Molti fedeli sono stati costretti a cambiare parrocchia, altri sono stati ricoperti di maldicenze di ogni tipo in ogni luogo pubblico del paese. Interrogato, il vescovo non risponde.
Saranno anche piccole storie di una piccola provincia ma io vedo in tutto ciò un affanno, una crisi, un desiderio di non capire ciò che rende diversa e lontana la chiesa in cui sono cresciuto.

Lettera firmata

Non so se condividere le conclusioni del lettore. Un giovane parroco in difficoltà in una comunità forse indocile, che reagisce accusando è probabilmente un uomo ancora inesperto che si trova a gestire una situazione più difficile del previsto. A disagio, spaventato, ha risposto rifugiandosi dietro le 'certezze' che gli hanno inculcato in seminario. Credo che anche i fedeli dovrebbero avere maggiore misericordia, talvolta.
Un altro lettore (il signor Guido Caruso guidocaruso@hotmail. com) mi fa invece notare quanto sia grave la notizia contenuta in un servizio di Franca Selvatici (Rep. 11.4 u. s.). Esistono disposizioni recentissime (De delictis gravioribus è del 18 maggio 2001) che vincolano tutti i vescovi al segreto sugli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti sui minori. Vi è compreso in particolare il peccato contro «il sesto comandamento» rivelato «nell'atto o in occasione o con il pretesto della confessione quando è finalizzato a peccare con il confessore stesso».
Questo è molto più grave del disagio provato da un giovane parroco di fronte alla sua nuova comunità. Sotto quel documento ci sono le firme dell'allora capo del Santo Uffizio (Ratzinger) e del segretario dello stesso organismo Bertone. E' una disposizione che contrasta palesemente con il codice penale ma più ancora con lo spirito che dovrebbe improntare ogni comunità.
Il parroco lussurioso di Firenze ha potuto continuare per anni ad 'operare' anche perché una disposizione assurda ne ha coperto i misfatti. Con quale animo Bagnasco, ora capo dei vescovi italiani, può dire che i Dico portano alla «pedofilia e all'incesto» essendo certamente a conoscenza di disposizioni come queste, degne del Medio Evo?

Repubblica Firenze 15.4.07
IL PROCURATORE
"Potrebbe esserci interesse ad intimidire"
Nannucci: "La magistratura per la Chiesa non esiste"
È il risultato di "una cultura cattolica per la quale l´istituzione ecclesiale va protetta ad ogni costo"
di Franca Selvatici


"Le persone che hanno fatto emergere questi fatti hanno diritto che non vengano cestinati"
Si aggrava la posizione di don Cantini: si ipotizza l´abuso della funzione educativa

Un forte condizionamento ideologico. Un pesante clima di pressione. Una morale perversa. E´ ciò che emerge dai memoriali e dalle testimonianze che la procura di Firenze ha cominciato a raccogliere fra gli uomini e le donne che trenta anni fa furono giovani parrocchiani di don Lelio Cantini nella chiesa della Regina della Pace al Ponte di Mezzo. Ieri il procuratore Ubaldo Nannucci, che ha aperto un procedimento per abusi sessuali pluriaggravati e continuati su minori, ha rivolto una preghiera e un appello al rispetto delle persone che «con grande difficoltà» hanno deciso di presentarsi spontaneamente per testimoniare.
«Sono tutti terrorizzati all´idea che la loro riservatezza possa essere violata e che i loro nomi divengano noti», ha spiegato il procuratore: «Sono persone che devono vincere resistenze psicologiche gravi. Hanno 40 - 45 anni, ma le loro sofferenze sono ancora oggi grandissime, e grande è il loro imbarazzo. Alcuni non ne hanno mai parlato in famiglia. E la riservatezza è necessaria anche potrebbe esserci interesse a intimidirli e a condizionarli». «Se riusciremo a gestire la situazione nella discrezione e nel riserbo - ha proseguito il procuratore - è possibile che anche altri si convincano a uscire dal silenzio».
Nannucci ha confermato che gli ultimi abusi, almeno quelli denunciati fino a questo momento, risalgono a una ventina di anni fa. Dunque sarebbero prescritti: «Ma questo non ci autorizza a disinteressarcene, prima di tutto perché è un dato che va verificato e poi perché le persone che con tanta sofferenza hanno fatto emergere questi fatti hanno diritto che non vengano cestinati». Del resto le indagini potrebbero portare alla luce anche violenze più recenti, o altri crimini ancora perseguibili, sia nei confronti dell´anziano parroco che di altre persone che gli sono state vicine.
Gli uomini e le donne che da bambini e adolescenti furono affidati alle cure di don Lelio Cantini hanno ricostruito nei loro memoriali un clima di pesante condizionamento ideologico. In parrocchia vigevano regole rigide e una decisa sessuofobia. Vietati i pantaloni, vietatissimi i rapporti prematrimoniali. Chi cadeva nel peccato rischiava il castigo del Signore. Ma le bambine e le ragazzine che don Cantini chiamava le sue predilette e che, secondo le accuse, costringeva a subire atti sessuali, hanno raccontato che il sacerdote le rassicurava dicendo che era Gesù che voleva tutto quello. E mentre violava i loro corpi le invitava a pensare alla Madonna, che era divenuta madre a dodici anni, e le convinceva che i rapporti con lui erano da ascriversi a loro merito.
«Da queste testimonianze - commenta il procuratore - emerge un rapporto educativo gravemente distorto. Tanto che io ho contestato anche l´aggravante dell´abuso della funzione educativa». Il profondo turbamento di quelle bambine e di quelle adolescenti, e il tormento dei ragazzini «prescelti» per divenire sacerdoti sulla base delle visioni della perpetua di don Cantini possono spiegare, secondo il magistrato, il lungo silenzio prima della decisione di denunciare e di chiedere giustizia alla Chiesa. «Qualcuno di loro - ha chiarito - è stato costretto a sottoporsi a terapie».
Quando hanno trovato la forza di misurarsi con il loro passato, hanno scelto in prima istanza di chiedere aiuto alla loro Chiesa. «Non si sono rivolti a noi, alla magistratura, - dice il procuratore - perché hanno creduto all´istituzione della Chiesa. Poi immagino che a un certo momento si siano resi conto che l´istituzione non dava le risposte che si attendevano».
Dopo tre anni di incontri con le autorità religiose fiorentine, dopo aver scritto al papa, dopo aver chiesto sanzioni severe per il loro ex parroco, si sono sentiti abbandonati. E alla loro richiesta di giustizia si sono visti contrapporre l´invito alla preghiera e alla «guarigione della memoria». Così è maturata la decisione di rivolgersi alla stampa e alla magistratura.
Ma se loro, le vittime, non avevano chiesto sinora aiuto alla giustizia degli uomini, neppure le autorità religiose avevano sentito la necessità di rivolgersi alla magistratura, pur essendo state poste di fronte a denunce di reati molto gravi. Non ne avevano l´obbligo giuridico, non essendo pubblici ufficiali. Ma non ne avrebbero avuto l´obbligo morale, come ogni privato cittadino? Commenta il procuratore: «Noi non esistiamo per la Chiesa. In un certo senso anche la magistratura è vittima di una cultura cattolica per la quale l´istituzione ecclesiale va protetta ad ogni costo». Con il segreto più profondo e assoluto.

Repubblica Napoli 15.4.07
Viaggio nell'ospedale psichiatrico giudiziario dove sono detenute trecento persone. L'iniziativa della magistratura
Aversa, i reclusi dimenticati "Per noi nessun indulto". E la Procura indaga sui tre suicidi
Il direttore della struttura: "La metà degli internati non è pericolosa"
di Conchita Sannino


Aversa. Pinuccio ti guarda, schiude le labbra su una bocca sdentata, consegna una minaccia che invece è supplica. «Se non mi fanno uscire, il prossimo sono io». Il prossimo a suicidarsi, intende, nell´ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Non un lager, ma non-luogo. Dove vivono in quattro in 16 metri. Dove sono stipati 300 internati invece di 150, giovanissimi e vecchi, analfabeti e professori. Viaggio tra i relitti che nessun indulto salva. Nel giorno in cui la Procura apre un´inchiesta.
Il giorno dopo il terzo suicidio in sei mesi, ancora silenzio, una globale operazione di reset avvolge lo scandalo del manicomio giudiziario dimenticato; il mastodontico quanto invisibile complesso che persino la segnaletica ha rimosso. Destino di un territorio: come fuori, sulle strade di Aversa e di tutto l´aversano, si addensano le tonnellate di rifiuti all´aria aperta, così nei reparti del locale Opg i magistrati di sorveglianza e un sistema sanitario carente accatastano i matti veri o presunti. Intanto la Procura di Santa Maria Capua Vetere apre l´inchiesta. Dovuta.
Un´indagine che non punti soltanto all´accertamento di rito del tragico evento, di tre "ospiti" che si sono tolti la vita, l´ultimo era Salvatore, 50 anni, trovato venerdì con un lenzuolo stretto intorno al collo. «Il nostro ufficio non può essere insensibile - sottolinea il procuratore aggiunto Paolo Albano - a quanto accade dietro quelle mura. Non si tratta solo del dovere di accertare eventuali omissioni o sofferenze, ma anche della necessità di verificare standard di sicurezza e assistenza».
Le 14 di un pomeriggio piovoso, ieri. I più disperati e abbandonati vivono nella "Staccata", la sezione dei più pericolosi, dei senzavoce, o degli storpi. È sabato inoltrato, ma il giorno dopo la tragedia c´è un direttore, Adolfo Ferraro, che si fa un puntuale giro dei reparti e cerca di scambiare qualche parola, infondere un velo di speranza mentre a grappoli, a dozzine gli internati ritenuti «non più socialmente pericolosi» e quindi in diritto di uscire lo circondano, lo toccano, gli chiedono l´esito di una istanza, lo implorano per un colloquio con l´educatore, per una telefonata straordinaria, un´occhiata al fascicolo, un fax. Vincenzo D´Ambrosio, 40 anni, da Afragola, rinchiuso da 3 anni: «Le giornate sono lente quando aspetti di uscire. Sono stato preso in un progetto, sto per 3 mesi fuori, direttore mi aiuti. Peccato che diedi quel tubo in testa al mio vicino: lui mi provocò, matto sì, scemo no». Franco Auriemma, in tuta, sta qui da 8 anni: «Che cosa mi manca? Non lo so», sorride mansueto. Anselmo invece, 35 anni, lo sa bene: «I miei due figli, il lavoro, tutto mi manca». E anche Maurizio Sabelli, 44 anni, ha rabbia da vendere. «Perché indulti e legge Gozzini e tante belle idee sono concepite solo per i "detenuti" sani? La legge dice che potrei andare, chi paga per le vite bruciate?». Ma sanno tutti, i matti lucidi e il direttore stanco, che speranza non ce n´è.
Spiega il vertice della struttura, Ferraro: «La metà e anche oltre dei nostri 300 internati non sono pericolosi socialmente: dovrebbero vivere in società, essendo assistiti in centri o case famiglia. Ma alle nostre centinaia di richieste rispondono picche le Asl, e tanti Comuni di privenienza. Né abbiamo possibilità di avere altri educatori, altri assistenti». Intorno, silenzio. Reset. Solo cancelli, e uomini della polizia penitenziaria, divise blu. «Il prossimo ad "andarsene" col lenzuolo sono io. Uscire mi spetta, perché non posso uscire?», ripete Pinuccio, dal reparto 8.

Repubblica 15.4.07
Guernica, il debutto della nuova guerra
di Guido Rampoldi


In quel 26 aprile 1937 i primi aerei a comparire nel cielo di Guernica furono tre Savoia-79 dell´"Aviazione legionaria" inviata da Mussolini. Tirarono su un ponte, lo mancarono, tornarono indietro. Il bombardamento indiscriminato cominciò più tardi, quando arrivarono in varie ondate i bombardieri tedeschi e i caccia italiani che li scortavano. Tremila bombe, una ogni due abitanti. «Le prime hanno demolito un gran numero di case e distrutto le cisterne d´acqua», scrisse nel suo diario il comandante della squadra tedesca, von Richtofen. «Poi quelle incendiarie hanno sortito il loro effetto».
Era l´esordio sul suolo europeo d´un tipo di guerra che arabi e asiatici avevano già conosciuto sulla loro pelle. Ed era quasi ovvio che i piloti italiani vi partecipassero. All´epoca la nostra aviazione aveva già accumulato molti record. Era stato italiano il primo pilota a montare una macchina fotografica su un velivolo, il primo a compiere un bombardamento notturno, il primo a lanciare una bomba incendiaria, il primo ad essere abbattuto. Ma quel che più conta, erano stati i nostri a inaugurare la tattica destinata a rivoluzionare l´arte occidentale della guerra. Nel novembre del 1911, durante l´occupazione della Libia, piloti italiani avevano lanciato granate sulla popolazione di Taguira e Ain Zara, due oasi che si erano distinte nella resistenza all´invasione. Per il comando italiano massacrare civili non era una novità, un mese prima l´artiglieria e la marina avevano trasformato la conquista di Tripoli in una carneficina tale da inorridire l´inviato del Daily Chronicle («Questa non è guerra, è uno sterminio. Giovani e anziani vengono immolati senza vergogna né pietà»). Ma il bombardamento dal cielo rivelò subito un vantaggio strategico: con poco sforzo e nessun rischio l´aviazione aveva spezzato il morale agli arabi.
Anche se occorsero decenni perché il mondo ne avesse consapevolezza, l´arte della guerra era cambiata per sempre. Per millenni ogni casta guerriera s´era addestrata a battere sul campo di battaglia l´esercito nemico. D´improvviso lo scopo diventava un altro: rendere intollerabile il conflitto alla popolazione fino a costringerla alla resa. Ammazzare civili per piegare la volontà d´una nazione è, ed era anche allora, esattamente lo schema del terrorismo. Ma questo cominciammo a capirlo solo il 26 aprile 1937, il giorno di Guernica, quando a morire sotto le bombe non furono più arabi e asiatici, le vittime invisibili delle guerre coloniali, ma europei, cristiani. Noi.
Se non fosse per questo, non staremmo qui a raccontare il settantesimo anniversario di Guernica, il pigolio dell´ultimo revisionismo e le altre false Guernica in circolazione, ma potremmo ricordare, per esempio, l´ottantaduesimo anniversario di Xauen. Città del Marocco. La stessa età di Guernica (entrambe hanno circa sei secoli). E grossomodo lo stesso numero di abitanti, seimila, quando furono bombardate a tappeto. Guernica dai bombardieri tedeschi scortati dai caccia italiani, su ordine di Franco; Xauen da piloti statunitensi, volontari, sotto il comando dell´aviazione francese. Né la città spagnola né la marocchina avevano protezione aerea: erano indifese. Infine: di entrambi i bombardamenti raccontò la grande stampa anglosassone, la più influente del pianeta. La notizia del bombardamento di Xauen non ebbe eco (eppure aveva scritto Walter Harris: «Fu l´atto più gratuito, più crudele e più ingiustificabile della guerra. Tutti sapevano che i maschi adulti in grado di maneggiare un´arma non erano più a Xauen. Così a essere massacrati furono i bambini e le donne»). Invece la corrispondenza di John Steer da Guernica, apparsa due giorni dopo sulla prima pagina del New York Times con il titolo The tragedy of Guernica, suscitò un clamore enorme in Gran Bretagna, in Francia e negli Stati Uniti. Contribuì anche l´errore di Steer. Nelle corrispondenze successive, pubblicate dal Times di Londra, Steer equivocò il bollettino del governo autonomo basco e scambiò il numero dei soldati caduti il 26 aprile sul fronte nord, 1.654, con il numero dei morti nel bombardamento di Guernica, che nella realtà furono tra i cento e i trecento. Intenzionale o no, sul momento fu un errore opportuno, convinse il Times a dare il massimo risalto ad una notizia in contraddizione con la linea "neutralista" del giornale. Ma tuttora lo sbaglio di Steer alimenta un revisionismo assertivo e maldestro che ricorre alla conta dei morti per confutare «la leggenda di Guernica».
Eppure non è difficile accertare cosa accadde quella mattina, tale è la quantità di fonti oggi a disposizione dei ricercatori. I diari di Richtofen; i saggi di storici come Paul Preston e Stefano Pedriali, quest´ultimo autore d´uno studio sull´aviazione italiana in Spagna; testimonianze di piloti e di sopravvissuti, alcune ora raccolte in un documentario di History channel (in onda il 26 aprile alle 22). I fatti in sé sono nitidi. E confermano che l´aviazione nazi-fascista bombardò Guernica per demoralizzare i difensori della vicina Bilbao. La bombardò su richiesta del generale Mola: il capo delle milizie franchiste nel nord intendeva così dare corso all´ultimatum lanciato tre settimane prima, «Se non vi arrendete distruggerò l´intera provincia della Biscaglia».
Allo stesso tempo Guernica fu un esperimento. Confermò le potenzialità strategiche della guerra aerea. Negli anni successivi il bombardamento indiscriminato sarebbe divenuto parte integrante della blitzkrieg nazista, la guerra-lampo che fruttò ad Hitler strepitosi successi militari in Europa. Ma a partire dal 1943 anche le città tedesche dovettero sperimentare l´orrore della guerra aerea, per effetto dei bombardamenti britannici. Così Guernica fu un´anteprima della Seconda guerra mondiale. Annunciò l´estensione al continente europeo della "guerra coloniale" e dei suoi metodi, incluso il bombardamento della popolazione e lo sterminio. In Spagna anche l´altra parte praticava la strage, furono settemila i religiosi assassinati dai terribili "incontrolados", la plebaglia che si voleva anarchica. Ma con Guernica il massacro di civili inermi perdeva anche le restrizioni geografiche che lo confinavano nelle colonie d´oltremare.
L´aviazione italiana vi si dedicò con un certo spirito agonistico. I piloti inviati in Spagna da Mussolini con 73 velivoli furono colpevoli esattamente quanto i piloti nazisti. Nella divisione dei compiti erano soprattutto gli 80 aerei di von Richtofen a compiere i bombardamenti pesanti. Ma i caccia italiani li proteggevano da quel poco di contraerea e di aviazione di cui disponeva la Repubblica spagnola. Inoltre gli S79 italiani compirono in proprio stragi di civili. Anche sul fronte basco. Per esempio a Durango. Se il giornalista John Steer avesse raggiunto quelle rovine fumanti con la stessa velocità con cui pochi giorni dopo arrivò a Guernica mentre la città ancora bruciava, probabilmente oggi il quadro di Picasso si chiamerebbe Durango, a eterna vergogna dell´aviazione italiana.
A Durango gli italiani riuscirono a bombardare perfino i fedeli che uscivano dalla messa, circostanza sufficiente a dimostrare come nelle province basche la guerra civile fu anche uno scontro all´interno del cattolicesimo: di qua il basso clero, anti-franchista e in fondo anti-spagnolo; di là le gerarchie e i carlisti, pii monarchici schierati con Franco. Questi ultimi furono gli assassini più spietati d´un conflitto già in sé crudelissimo. Non solo per antica tradizione o per reazione alla ferocia degli "incontrolados", ma soprattutto perché nel corso della guerra la prelatura interpretò la sollevazione franchista come santa crociata contro le orde di Satana. In sostanza i miliziani furono legittimati a sentirsi guerrieri d´una jihad cristiana.
Questo passato ingombrante potrebbe spiegare perché a tentare di riscrivere il bombardamento di Guernica oggi siano soprattutto settori dell´integralismo cattolico, spagnolo e italiano. Settant´anni fa Roma e Berlino attribuirono la distruzione di Guernica ai repubblicani baschi, e accusarono la «stampa ebraica», cioè il New York Times, d´aver avvalorato quel falso. Oggi si pretende che a Guernica l´aviazione bombardò obiettivi militari, senza l´intenzione di massacrare civili.
Un po´ meno false, ma non per questo autentiche, sono due altre Guernica in circolazione. La prima è il simbolo dell´eroica nazione basca che si oppose fino all´ultimo a Franco. In realtà erano baschi anche i miliziani che assediavano Guernica. E l´eroica nazione basca non solo s´arrese ma consegnò al nemico, intatte, tutte le sue fabbriche belliche. Infine c´è la Guernica simbolo mondiale del pacifismo. Eppure in quel 1936 proprio il pacifismo britannico e francese rifiutò, in sintonia con la destra realista, le forniture d´armi richieste dalla Repubblica spagnola. Le armi sono un gran brutta cosa. Ma se avesse avuto un po´ di contraerea forse Guernica non sarebbe stata ridotta ad una rovina. Ecco qualcosa su cui riflettere.

Repubblica 15.4.07
Dora, musa inquieta dietro il capolavoro
Settant'anni dopo la memoria
di Concita De Gregorio


Il 26 aprile 1937 aerei nazi-fascisti bombardarono la città basca. L´Europa scopriva un obiettivo militare "definitivo": i civili. Pochi giorni più tardi Pablo Picasso, spinto dalla sua amante, cominciò a dipingere il quadro-simbolo del pacifismo

Il segreto di Guernica è una donna. C´era lei, quei giorni. È scesa lei in strada il pomeriggio del primo maggio del ‘37 a comprare Ce soir. Ha visto lei per prima, salendo fino all´ultimo piano le scale dell´atelier di rue des Grands Agustins, la foto in bianco e nero di prima pagina: «Immagine della città di Guernica in fiamme». È lei che gli ha detto: «Guarda». Lui stava conversando con un amico, lei si è avvicinata, ha messo tra i due il giornale e ha detto solo questo: guarda. È suo il volto della donna che regge la lampada al centro della tela. È lei che ha dipinto le minuscole linee che formano il manto del cavallo, «ho capito come vuoi che siano, lascia che sei stanco: faccio io». È lei che ha saputo, prima ancora che lui cominciasse a tracciare una sola linea, che quel dipinto sarebbe stato un´altra cosa, una cosa diversa da tutte le altre cose del mondo. È perciò lei che ha ripreso in mano la Leica che aveva lasciato ferma da più di un anno, da quando lo aveva incontrato quel giorno al Deux Magots, lei che ha montato senza chiedere permesso due luci nella stanza e che ha cominciato a scattare. Dalla tela bianca - dal niente - a Guernica.
Erano centinaia di foto, ce ne sono arrivate poco meno di sessanta. Viste in sequenza, le immagini scattate da Dora Maar fanno la stessa impressione di quelle della torre Eiffel in costruzione: non di qualcosa che non c´era e poi c´è ma di un´illusione ottica. Qualcosa che c´è sempre stato e che semplicemente prima non si vedeva: come se un mago, poco a poco, la facesse comparire togliendo il telo dell´invisibilità. C´è voluto pochissimo, un mese: l´8 maggio compare la madre col bambino morto, lo stesso triangolo pittorico della Pietà di Michelangelo. L´11 il cavallo. Il 15 scompare il pugno chiuso. Il 4 giugno si accende la lampadina in alto al centro. Fatto, fine. Nelle foto di Dora si vede Picasso in giacca e cravatta che dipinge con una scopa, sale in cima a una scala poi torna giù con un piumino. Ride, quasi sempre. Ride e la guarda. Fuma, sempre.
Poi, certo, le leggende attorno a Guernica - il dipinto del Secolo, forse il Secolo stesso - sono tali e tante da offuscare la figura della sua levatrice ed è persino giusto che sia così. «L´ha fatto lei?», chiede a Picasso un ufficiale tedesco nella Parigi occupata, 1940, mentre gli indica una riproduzione del quadro. «No, l´avete fatto voi», risponde Picasso. Gli operai del MoMA, a New York, che finiscono di sballarlo e senza sapere cosa sia né di chi sia si tolgono i caschi da lavoro e rimangono lì così, muti in raccoglimento come davanti a un Cristo vivo. Dolores Ibarruri che nel 1980, quando lo vede per la prima volta in terra di Spagna, a Madrid, mormora «ecco, oggi la Guerra civile è finita». Era l´ultimo esiliato, Guernica. È entrato in Spagna sette anni dopo la morte di chi l´aveva dipinto, lui non l´ha mai visto nel posto dove voleva che stesse. L´aveva fatto su commissione del governo repubblicano per il padiglione spagnolo dell´Esposizione universale di Parigi del ´37: centocinquantamila franchi pagati in anticipo. Non aveva molto chiaro che cosa avrebbe disegnato. Dora gli diceva: non preoccuparti, l´ispirazione verrà. I colleghi ed amici di lei, fotografi - Cartier Bresson, Robert Capa - erano già tutti partiti per la Spagna dove quest´uomo piccolo e irascibile, Francisco Franco, stava guidando la rivolta contro il governo democratico. Lei non era partita, voleva restare con Picasso.
Era un amore giovane di un anno appena, un amore misteriosissimo e formidabile. Lui aveva appena avuto una figlia da Marie Therese Walter, la donna bionda. Aveva una moglie, Olga. Poi, l´estate, era partito con Dora per Mougins in questa formazione: Paul e Nusch Eluard, Man Ray e la sua giovane amante Ady, Roland Penrose e Lee Miller. Vacanza all´Hotel Vaste Horizont: foto memorabili di Man Ray che ritrae il gruppo - «la famiglia felice», li chiamava - tra le luci e le ombre di un incannucciato, seduti su un prato per il pic nic con tutte le donne a seno nudo. Picasso aveva una relazione anche con Nusch Eluard all´epoca: «Non volevo offendere Paul, non volevo che pensasse che non trovavo attraente sua moglie».
Dora, fotografa surrealista di straordinario talento, ha appena esposto a Parigi alcuni suoi lavori tra cui Portrait d´Ubu, l´enigmatica foto di un feto animale, forse un armadillo, immagine mostruosa a cui dà il titolo di Ubu, appunto: lo spietato dittatore. Diventa la foto simbolo del movimento. Lavora, con Cartier Bresson, per il regista Jean Renoir. Viene dall´Argentina, è figlia di un architetto jugoslavo di nome Marcovich e di una francese. Non ha neanche vent´anni che arriva a Parigi. È nata il 22 novembre del 1907 mentre Picasso dipinge Les Demoiselles de Avignon. Gli uomini della sua vita sono George Battaille, Paul Eluard, Pablo Picasso, Jaques Lacan. Quanto di più notevole abbia prodotto il Novecento.
È Eluard che la presenta a Pablo, parlano subito in spagnolo. Lui trova formidabile che quella ragazza dai capelli neri e gli occhi blu giochi a un tavolo, da sola, lanciandosi un coltellino tra le mani inguantate di bianco e ferendosi. Le chiede in dono i guanti macchiati di sangue, una cosa da corrida. Lei, militante di estrema sinistra, gli comunica una passione politica che lui fin qui non conosce e che lo porterà ben dopo Guernica, nel ‘44, a iscriversi al partito comunista. Dora considera il partito troppo ortodosso, troppo convenzionale. «Picasso voleva appartenere a qualcosa ma non credo sia mai stato comunista. Era, come tutti gli spagnoli, anarchico e cristiano». Lui dice di lei che è la donna che lo fa più ridere tra tutte quelle (le diverse decine) che ha avuto, «certamente la più intelligente», e tuttavia la ritrae sempre e solo come «la donna che piange», la femme qui pleur: «Era qualcosa che vedevo oltre lei, era l´incarnazione stessa del dolore».
Il volto di Dora diventa il simbolo degli anni cupi della Guerra civile, il pianto ininterrotto di quel tempo. Lei dice che le centinaia di ritratti che lui le ha fatto «sono tutti dei Picasso, nessuno è Dora Maar», tuttavia non se ne cruccia: «Credete che m´importi? Importa a madame Cezanne, a Saskia Rembrandt?». Quando si conoscono lui smette di dipingere, per un anno, e inizia a scrivere poesie. Lei smette di fotografare e inizia a dipingere. Trova per lui in affitto un nuovo appartamento: è il numero 7 di rue des Grands Agustins, breve antica strada sulla riva sinistra, maestoso edificio con cancellata ad arco e cortile lastricato dove Balzac ha ambientato Il capolavoro sconosciuto. Lei va a vivere dietro l´angolo, al 6 di Rue Savoie. Mai sotto lo stesso tetto. Nel mese di Guernica no, però. In quel mese Dora sta da lui. Un giorno arriva Marie Therese, prova a cacciarla: «Ho appena avuto una figlia da quest´uomo, se ne vada». «Non gli ho dato figli, non vedo che differenza faccia». Picasso, anni dopo: «Quel giorno si picchiarono, uno dei ricordi più belli della mia vita. Stavo dipingendo in cima alla scala, mi chiesero di scegliere chi doveva andarsene ma a me piacevano tutte e due: Therese perché era mite e faceva quel che volevo, Dora perché era intelligente e non lo faceva». Del dipinto in corso d´opera: «Nelle immagini che sto dipingendo e che chiamerò Guernica esprimo il mio orrore per la casta militare che sta precipitando la Spagna in un oceano di sofferenza e di morte. La pittura non è fatta per decorare appartamenti, è uno strumento di guerra contro la brutalità e l´oscurantismo».
Le foto di Guernica scattate da Dora Maar vengono pubblicate nel numero 4-5 della rivista Chaiers d´art del 1937. Nel quadro, sotto il volto di Dora, c´è anche quello di Marie Therese, sopraffatta e stesa a terra. Quell´estate tornano tutti a Mougins, la «famiglia felice», e ci tornano ancora nel ‘38. L´amore finisce sei anni dopo, giusto in tempo perché la conosca James Lord, il soldato americano omosessuale amico di Picasso che diventerà - della Maar - accompagnatore negli anni di solitudine e poi unico biografo. Entra in scena Francoise Gilot, la successiva amante. Dora subisce un colpo durissimo, viene ricoverata in clinica psichiatrica, sottoposta a elettroshock e di seguito presa in cura da Lacan che la sottopone ad analisi e la porta con sé. «Tutti pensavano che mi sarei uccisa dopo il suo abbandono: anche Picasso se lo aspettava e il motivo principale per non farlo fu di privarlo di questa soddisfazione».
L´aspettano altri cinquant´anni di vita. Muore sola nel ´97, dopo aver attraversato tutto il secolo. Le suore che l´accudiscono nel ricovero non sanno chi sia. Non lascia eredi. Una contadina jugoslava, remota parente rintracciata, non conosce Picasso e rifiuta di andare a Parigi a vedere di cosa si tratti: rinuncia all´eredità. Il patrimonio - inestimabile - va all´asta. Nella casa di Parigi, sigillata da anni, anche la tavoletta del wc era dipinta da Picasso. Le crepe nel muro trasformate da un tratto di matita in ragni e serpenti, le scatole di fiammiferi in fauni. Centinaia di schizzi, in ogni cassetto, prove per Guernica. Meravigliosi, naturalmente. Tutti con la faccia di Dora.

Repubblica 15.4.07
Un popolo di santi patroni
Cultura popolare
di Michele Serra


Nel puzzle italiano, nel mosaico impazzito dei cento campanili un posto di primo piano spetta a queste incarnazioni locali del soprannaturale: mediatori tra cielo e terra, garanti delle fortune municipali al punto da offuscare il culto della divinità suprema. Ora un libro di Marino Niola pubblicato dal Mulino va alle radici del fenomeno
è il Quirinale a nominare la deputazione cui è affidato il sangue di San Gennaro

Fece parecchio scalpore, dopo i fattacci da stadio di Catania, la decisione delle autorità municipali di dare ugualmente vita ai festeggiamenti in onore di Sant´Agata, patrona della città, sia pure mondati di qualche dose di esultanza pirica. Esce ora per il Mulino (nella collana "L´identità italiana" curata da Ernesto Galli Della Loggia) un libro che aiuta a decifrare queste e altre prevalenze, in Italia, della "ragione religiosa" sulla ragione civile. Di più: aiuta a capire perché la ragione religiosa divenga spesso essa stessa ragione civile: la rappresenti, la inglobi o la sostituisca, in una con-fusione identitaria molto vitale seppure molto equivoca.
Il libro si chiama I Santi patroni, lo ha scritto l´antropologo di lungo corso Marino Niola, appassionato studioso dei culti popolari italiani. È un viaggio nel "municipalismo sacralizzato" del nostro Paese, tratto determinante (nel bene e nel male) dell´identità nazionale, al tempo stesso impedimento dell´affermarsi di un comune sentire statale ed elemento fondante delle singole, molteplici culture cittadine. «Punto di convergenza - spiega Niola - di tutti i fili religiosi e sociali che tramano il variegato tessuto identitario italiano». Una specie di federalismo religioso, forma specifica di quella cultura popolare cristiana «che ha rappresentato per un lungo numero di secoli l´unico tratto effettivamente comune all´intera comunità italiana» (Galli Della Loggia), costituendo per altro «un´ipoteca gravissima su qualsivoglia unità politica».
Ce n´è abbastanza per animare ulteriormente il dibattito, oggi alquanto infocato, sullo straripante peso politico della religione cattolica in un Paese che si ritiene secolarizzato ma nel suo profondo, nelle sue viscere sociali e sentimentali, è fortemente segnato da credenze, e appartenenze, che sfuggono in parte o del tutto alle categorie moderne della politica.
Chi non lo sapesse già, ad esempio, ha un vero e proprio sussulto leggendo nel libro di Niola che la famosissima ampolla con il sangue rappreso di San Gennaro è affidata a una "deputazione laica" presieduta dal sindaco di Napoli, e i cui membri sono nominati, pensate un po´, dal Presidente della Repubblica (!). Oppure che la basilica di San Petronio, edificata a partire dal 1390 per custodire le spoglie del santo patrono, è stata fino al 1937 di proprietà del Comune di Bologna, e ha ricevuto la sua consacrazione solo nel 1954. Senza che nessuno abbia mai eccepito che si trattasse di una "ingerenza" della politica nella religione, tanto ovvia era, e in parte è ancora, qui in Italia, la confusione tra i due ambiti: per trovare lavoro, fino a pochi decenni fa, molti italiani dovevano munirsi di una "lettera di buona condotta" rilasciata dal parroco, che aveva almeno lo stesso peso "legale" di una carta del Comune o dello Stato.
Questo per dire quanto la commistione tra profilo religioso e profilo politico-municipale sia inestricabile, con buona pace di chi considera ampiamente avvenuta la radicale separazione tra Stato e Chiesa. In particolare la gestione del culto di San Gennaro (una vera e propria joint venture tra Diocesi napoletana, Comune di Napoli e Repubblica Italiana), quasi islamica nella sua totale alienità a ogni possibile separazione tra religione e Stato, fa riflettere sulla perdurante potenza "politica" di un istituto, quello del Patronato, che prende corpo a partire dal Quarto secolo, nel mezzo delle persecuzioni anti-cristiane e del trionfo della figura del martire (quasi tutti i santi patroni sono martiri), e arriva fino ai giorni nostri senza alcun avvertibile indebolimento; e anzi, in forza di un accadimento del tutto moderno come la massiccia emigrazione di milioni di italiani in giro per il mondo, conosce una nuova vita. Il ritorno al paese per la festa patronale è la più solenne e imperdibile delle occasioni per rinnovare il vincolo con le radici, con la famiglia, con la comunità d´origine. Non esiste ricorrenza "di Stato", né 25 aprile né 2 giugno, per quanto fondante, per quanto politicamente "alta", che possa lontanamente competere con la festa patronale come richiamo in patria degli italiani all´estero.
Restando nel moderno, diverse osservazioni di Niola dicono quanto radicate, e soprattutto per tanti versi immutate, siano la genesi nonché la pratica del culto dei santi. Il potere taumaturgico di Padre Pio, comprovato come nell´antichità dalla sua stessa resistenza al dolore e alle piaghe (in mancanza di martirio, il frate di Pietrelcina se le infliggeva da solo fustigandosi) è, in pieno Novecento, quasi il remake di infiniti altri iter che si fondano sul dolore fisico come "prova" di santità, di eroismo nella fede e insieme di garanzia di fronte al dolore altrui. A questo proposito il settimanale satirico Cuore, con una certa scostumatezza ma affondando non metaforicamente il dito nella piaga, pubblicò negli anni Novanta, sotto la testatina Le allegre vite dei santi, una lunga e sinistra serie di santini e immaginette sacre che erano un campionario micidiale di torture, supplizi, amputazioni, tutte accompagnate da didascalie estasiate (originali). Satira sul "dolorismo" cattolico, sul culto del sangue e della sofferenza, del martirio purché efferato, ancora fiorente in pubblicazioni di pochi anni fa…
Ugualmente suggestiva, nel libro di Niola, una notazione "di costume" a proposito delle celebri copertine della Domenica del Corriere disegnate da Walter Molino, che nel dopoguerra ripetevano, in versione "laica", la stessa iconografia degli ex-voto, con raffigurazioni di atti salvifici che scongiuravano disgrazia e morte, salvataggi "miracolosi" con vigorosi militi (soprattutto carabinieri) al posto dei santi. Niola ricorda, a proposito dell´Arma, «l´idea del carabiniere salvatore, sorta di patrono che assiste i deboli e non esita a schierarsi al loro fianco anche a costo del sacrificio supremo», come nel caso di Salvo D´Acquisto che offrì la propria vita in cambio di quella di ventidue civili in ostaggio dei nazisti. L´epica popolare, in questo come in altri casi, è anch´essa «fedele nei secoli», come recita il motto dei carabinieri. Nel senso che ripete la lettura soprannaturale, miracolosa del gesto salvifico, del sacrificio altruista, come in tante figure di santi-eroi dell´antichità (San Giorgio, per esempio) che sono la trasfigurazione cristiana degli eroi e dei semi-dei pagani che affrontavano il pericolo per soccorrere la propria comunità.
Questa antropizzazione del divino, così decisiva per il cristianesimo a partire dalla figura del Dio-Uomo, trova nei santi (protettori e patroni) una "specializzazione" formidabile. Ogni comunità ha a disposizione una incarnazione locale del sovrannaturale. Sul culto delle reliquie si fonda non solo l´identità di molte città italiane, ma addirittura la loro architettura, che collocando sotto l´altare maggiore i resti del santo locale ne fa una sorta di centro urbanistico, di "focolare" municipale attorno al quale ruota tutto il resto.
Nei secoli questa identificazione di intere comunità nel "proprio" santo, presenza corporea e spesso addirittura tattile attraverso l´adorazione delle reliquie, mediatore tra cielo e terra, garante contrattuale delle fortune locali, della salute individuale e di quant´altro, si è rivelata così efficace da avere quasi "scalzato" dalla fede popolare quella divinità suprema, ma troppo universale ("global", diremmo adesso) che è Dio. Perfino la sua raffigurazione più umana, quella di Cristo, è assai meno nominata e invocata, nell´Italia popolare cattolica, rispetto ai santi e soprattutto rispetto a quella santa per antonomasia che è Santa Maria, vergine e madre di Cristo, di gran lunga al primo posto nell´empireo dei numi italiani, alla quale Niola dedica un lungo capitolo che riesce appena a sfiorare l´interminabile novero delle denominazioni di Maria, dei suoi culti, delle implorazioni e delle devozioni.
Con una battuta fulminante ed esilarante, riportata da un viaggiatore straniero, un frate spiega al visitatore la minore evidenza del culto di Cristo: «Il suo unico merito era essere figlio della Madonna». Santa Maria, del resto, dal punto di vista antropologico è una sintesi assolutamente geniale delle due "nature sacre" che le culture greco-romane e precristiane riconoscevano alla donna: la verginità e la purezza da un lato, la fecondità e la maternità dall´altro. La ricca casistica delle dee-madri e delle dee vergini precristiane si ricompone nel mito (o nel dogma, a seconda delle opinioni) della vergine-madre. Specie nel Sud Italia, che Niola conosce profondamente, il mito della Madre Sacra (venendo al dettaglio socio-antropologico, il mito della Mamma) è così fiorente e radicato da avere eletto Maria divinità di incomparabile popolarità, con una saldatura invincibile tra fedi arcaiche e pagane e culto cristiano.
Leggendo I Santi patroni colpisce - anche se non è una novità - la quasi veemente carnalità del cattolicesimo popolare, la presenza sempre incombente del sangue, delle ossa, insomma del corpo come solo vero presidio e garanzia della vita, antidoto alla morte. Ci si confronta con una religiosità quasi a-spirituale, per niente metafisica, fondata su un rapporto robustamente contrattuale con la divinità: fortuna e salute in cambio di devozione. Se Dio è lontano, il santo è vicino, è di casa, è il mediatore ideale, un poco come il parente importante che va a Roma a trattare direttamente con il potere, ed è a lui che ci si raccomanda.
Il Concilio Vaticano II ha tentato di portare avanti un processo di de-localizzazione della devozione, mettendo l´accento sull´universalità del messaggio cristiano, ma non si percepiscono, almeno nel medio termine che ci separa da quell´evento, risultati apprezzabili. Il regno dei santi, e soprattutto quello dei santi patroni, prosegue incontrastato a calamitare gran parte delle energie cultuali e dell´adorazione popolare, in perfetta continuità con la struttura municipalista e localista del nostro Paese. Una struttura "arcaica" ma evidentemente ancora funzionale, Santa Rosalia, Sant´Antonio e Sant´Agata non conoscono quella crisi di rappresentanza che sta sfibrando la politica, continuano a incarnare l´identità profonda di intere comunità. Quando toccò al comunista Bassolino gestire, secondo il protocollo, la complicata questione di San Gennaro e del suo miracolo, nessuno poté obiettare alcunché: perché il nesso tra San Gennaro e Napoli è, appunto, quello dell´identità municipale, e non è dunque perfettamente naturale che il sindaco ateo, capo del Municipio, si occupi della più solenne e condivisa tra tutte le faccende municipali?
Con una battuta forse amara, forse solo realista, verrebbe da dire che il Partito democratico può magari costituirsi senza questo o quello spicchio di parlamentari, ma non senza (o peggio contro) Santa Rosalia o San Nicola o San Biagio. E non tanto perché costoro incarnino la componente religiosa dell´identità italiana, quanto perché ne sono uno dei più profondi tratti "politici". Semmai, è proprio la natura religiosa del cattolicesimo italiano a uscire a mal partito dal viaggio di Niola tra santi e santuari. Il cattolicesimo popolare ne esce come una forma di devozione politeista e quasi atea, non necessitando, per i propri culti e per la propria conferma identitaria, di un vero e proprio Dio universale. Il soprannaturale, grazie ai santi, ha un nome, un corpo, spesso una storia certificata, ed è saldamente posseduto da quella fortunata comunità che custodisce la teca, l´ampolla, il brandello mummificato dell´eroe (patrono e padrino) che ha saputo mediare con successo tra il cielo e la terra.
Il santo patrono non solo è un leader riconosciuto, ma è conclamatamente super-partes, una specie di supersindaco che non conosce differenza tra destra e sinistra e non ha bisogno di campagna elettorale. Se i vescovi italiani hanno tanta familiarità con la politica (meno, magari, con le cose di ordine metafisico), è perché i santi, da sempre, fanno politica, sono la politica: in parecchie zone d´Italia, la sola "cosa pubblica" riconosciuta e rispettata sono proprio loro.

Il libro
I Santi patroni, scritto dall'antropologo Marino Niola e pubblicato dalla Società editrice il Mulino nella collana "L'identità italiana" (192 pagine, 13,50 euro), sarà in libreria a metà della prossima settimana. È un viaggio nell'Italia dei santi patroni, alla ricerca delle ragioni antiche, spesso pre-cristiane, di quel fortissimo legame fondativo che le comunità locali stringono col santo che ne è simbolo. Una pratica devozionale che sconfina di frequente sul terreno politico e sociale e che ha finito per assegnare al patrono il ruolo quasi magico di defensor civitatis , e per farne il custode delle memorie cittadine