giovedì 19 aprile 2007

l’Unità 19.4.07
MARCO BELLOCCHIO. Ecco come il registra, se gli venisse chiesto, vorrebbe documentare con la sua macchina da presa questo momento di passaggio
«Il Pd è vicino. Filmerei lo sguardo dei delegati, a fine congresso»
di Roberto Cotroneo


Un evento drammatico? Tragico? Non vedo ancora una identità nuova perché i Ds rinunciano alla loro radice laica

PROVIAMO a fare un altro esperimento. Guardiamo al Partito democratico che dovrà ancora nascere. Guardiamolo come se fosse un documentario. Girato da un grande regista. Un documentario come quello che girò nel 1990 Nanni Moretti, e che si intitolava "La cosa", dove veniva messo in luce il dibattito interno al Pci di Achille Occhetto che portò alla nascita del Pds. Siamo andati a chiederlo a un altro regista importante, che in questi anni ha girato film che hanno fatto discutere e che hanno segnato il cinema italiano: Marco Bellocchio. Autore di lungometraggi che sono ormai dei classici, da "I pugni in tasca", a "L’ora di religione", fino a "Buongiorno, notte". Di film politici come "La cina è vicina". Di documentari come "Viva il primo maggio rosso" o "Matti da slegare". Regista da sempre di sinistra, alter ego in questo proprio di Nanni Moretti.
Bellocchio, allora, stessa domanda che ho fatto a Taddeucci della Saatchi. Ti do l’incarico di girare un documentario. Parti domani (oggi per chi legge) per Firenze, e gira un documentario sull’ultimo congresso dei Ds, prima dello scioglimento nella prospettiva del Partito democratico. Accetti?
«La risposta è subordinata a un’altra domanda, che in questi casi si fare sempre: quanta libertà ho?».
Sei libero di decidere quello che vuoi. Hai carta bianca.
«Allora mi domando qual è il genere di questo film. Se un film drammatico, se un film tragico... Questa invenzione del Partito democratico, da uomo di sinistra, non mi fa vedere ancora la nascità di una identità nuova. Soprattutto perché i Ds, entrando a far parte di questo partito, mi sembra rinuncino alla loro radice laica. È come se accettassero dalla Margherita certi principi che io da laico e da ateo non condivido».
Questa è la premessa politica. Ora dimmi cosa andrai a cercare con la tua cinepresa a Firenze.
«Nel documentare questo evento ho bisogno di fare un discorso stilistico. Quando ho girato "Buongiorno, notte", il film sul rapimento e la prigionia di Aldo Moro, mi sono posto questa domanda: qual è il mio punto di vista? Lì ho deciso di stare all’interno della casa dove Moro era detenuto. Tutto il film è girato «dentro» la casa. Non c’è mai una inquadratura che sia esterna. In questo caso invece mi piacerebbe stare sempre «fuori». È come se il mio sguardo aspettasse coloro che arrivano e coloro che entrano. Rinunciando, alla solita frontalità televisiva».
Ti tieni fuori, insomma.
«Sai, è come quando da bambino passavi davanti allo stadio e sentivi il tifo, il boato, il gol. Farei nello stesso modo. Il mio sguardo mi piacerebbe che fosse uno sguardo indiretto, di chi sta fuori, e attraverso questi echi, e attraverso queste risonanze, credo che potrei trovare lo stile migliore».
Ma che genere di documentario sarebbe?
«Sarà una rappresentazione o tragica, nel senso di una dimensione suicida, oppure drammatica, nel senso che là avverrà una separazione. L’importante per me è non usare le forme canoniche della televisione».
Le domande che faresti ai delegati, ai leader, che entrano ed escono dal luogo del congresso, quali sarebbero?
«Io chiederei: qual è il significato di questa operazione? dov’è il vantaggio? E lo dico con molta ingenuità, e non in un modo malizioso. Perché il vantaggio mi sfugge, anche se non è detto che non ci sia».
Intervisteresti più i leader, o più la base dei delegati?
«Certamente è più interessante la base dei delegati. I leader li abbiamo sentiti tante volte in televisione. Quello che dicono i leader lo sappiamo. Invece i delegati non li ascoltiamo mai. Sarebbe interessante parlare con i giovani militanti. Persino più interessante che parlare con quelli più anziani. Sono i giovani la scoperta, quelli che dobbiamo capire, anche un po’ il mistero di tutto questo».
Passiamo all’aspetto sentimentale. Un lunga storia, da domenica, cambierà. Ci sarà un nuovo partito. Ma certamente si chiuderà un’epoca lunghissima che comincia a Livorno nel 1921 e termina in un certo senso a Firenze nel 2007. Come pensi debba essere reso nel tuo documentario tutto questo?
«Se tu fai un montaggio dove fai vedere ad esempio l’attentato a Togliatti, e poi filmi il congresso dei prossimi giorni è come un truccare le carte. Semmai dovresti domandarti che cosa rimane oggi di quella storia. Cosa verrà cancellato e cosa rimarrà».
È tutto sull’oggi il tuo sguardo?
«Sì, credo che non metterei filmati di repertorio».
Senti, il congresso durerà tre giorni. Ci sarà un momento in cui, sabato, Piero Fassino dirà: da questo momento i Ds non esisteranno più, si confluirà nel Partito democratico, e inizierà la fase costituente. Al di là del significato politico di tutto questo, c’è anche un aspetto emotivo, che il cinema sa restituire meglio di qualunque altro mezzo. Cosa hai pensato per rendere nel tuo film proprio quel momento?
«Andrebbe girata con un’immagine metaforica. Questo momento, a meno che non accadano cose imprevedibili, va reso con un’immagine simbolica in fase di montaggio, un luogo che simbolicamente possa rappresentare la storia del partito».
Un’immagine di repertorio questa volta? L’unica?
«Sì, credo di sì».
Anche per "Buongiorno, notte", in un altro contesto, hai usato per chiudere il film un filmato di repertorio. La messa per Moro, con il sottofondo dei Pink Floyd di "Shine on you Crazy Diamond".
«I finali dei congressi sono sempre stati dei finali esaltanti. Anche questa volta dovrà essere così. Vorranno dare la sensazione di un nuovo percorso».
Forse a quel punto dovrai entrare in sala, e non più stare fuori, come per il resto del documentario.
«Se uno potesse raccontare gli sguardi dei delegati che tornano a casa, beh, sì, sarebbe un’idea. Girare questa grande sala del congresso che si svuota. Però sai, ci sono molte cose che si capiscono quando sei proprio lì. Certe scelte le fai in quel momento. Maturano in quei giorni. E tre giorni di congresso sono tanti».
Un’ultima domanda, Bellocchio. Che titolo daresti a questo documentario?
«Sai che ci sto pensando da un po’? Credo che il titolo dovrà essere scelto nella sintesi di due concetti. La fine di una storia e l’inizio di un’altra. Su queste due idee cercherei la sintesi in un titolo. Ma ancora non so dirtelo...».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 19.4.07
Da Cosa nasce Cosa
Dopo il Pci, un’altra storia
Il travaglio iniziato ai tempi della Bolognina oggi volge al termine
Dal film di Moretti, diciotto anni di svolte
di Oreste Pivetta


Quando c’erano loro, chissà se si stava peggio. Alla vigilia del Partito democratico, alla fine del PciPdsDs, il partito più lungo della storia italiana, sarà un difetto, ma come si fa a non provare nostalgia per i dieci giorni che sconvolsero il mondo di fronte ai tre che sconvolgono il nostro villaggio. Nella memoria di alcune date: 1917, 1921, 1924 (rivoluzione russa, congresso di Livorno, primo numero dell’Unità). Insieme con l’8 Marzo, il 25 Aprile, il Primo Maggio. O di altre che restano a testimoniare un tormento: 1956 Budapest, 1968 Praga, 1989 Tien an men.
Millenovecentottantanove è anche il muro di Berlino, qualcosa come una metafora che definiva in modo ultimativo la “irriformabilità del sistema”, come ricorda Achille Occhetto, il segretario della “svolta”.
Si potrebbe aggiungere altro e ciascuno (ciascun militante, come si diceva) potrebbe elencare qualcosa di suo. Se posso, aggiungo mio padre che una sera tornò a casa dalla sezione con un rotolo di cartoncino, dal quale estrasse un foglio che stese sul tavolo: era il ritratto bellissimo di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin, l’uomo d’acciaio che sconfisse i nazisti. Aggiungo l’angoscia che destavano un rombo di motori su un’isola lontana e il nome di una geografia ignota ancora, la Baia dei Porci, oppure l’orgoglio nel titolo dell’Unità: «La vittoria del Vietnam illumina il Primo Maggio» (del direttore Petruccioli). Aggiungo ancora una sera di primavera, quando un corteo sventolava bandiere rosse e s’udivano alcuni slogan: «Viva il partito di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer»; «È ora, è ora di cambiare, il Pci deve governare».
Al governo sono arrivati e un comunista che metteva paura a noi giovani cronisti per la sua severità e puntigliosità è diventato presidente della Repubblica. È cambiato il simbolo. Decenni fa, sotto elezioni, l’Unità interrogò un famoso artista a proposito del simbolo. L’artista lo definì una splendida sintesi: il martello degli operai e la falce dei contadini, la grande alleanza del popolo lavoratore, la stella a rappresentare il nostro internazionalismo e sullo sfondo la bandiera tricolore, che rivendicava il valore della via italiana al socialismo. «L’esecrato capitale/ nelle macchine ci schiaccia/ l’altrui solco queste braccia/ son dannate a fecondar/... Su fratelli, su compagne/ su venite in fitta schiera/ sulla libera bandiera/ splende il sol dell’avvenir...». Credo che la grafica politica non sia più riuscita ad esprimere un logo tanto efficace. Querce e ulivi non lo valgono.
Aldo Tortorella la storia comunista dal dopoguerra al crollo del Muro l’ha vista tutta, per molti anni dalla cima del partito. È stato direttore dell’Unità, è un intellettuale e di infinite letture. Un intellettuale che sicuramente ha letto tutto Gramsci (e vorrei approfittare per citare l’edizione economica, di Einaudi, dei Quaderni del carcere, da pochi giorni in libreria: quanta modernità nella polemica politica e culturale). I comunisti hanno sempre letto molto, le sezioni erano anche biblioteche popolari e cineforum (ma nelle sezioni arrivò anche la televisione di Lascia o raddoppia?). Erano una scuola ai tempi in cui don Milani criticava gli oratori perché lasciavano che i giovani si distraessero con il pallone invece di istruirli: contro la ricreazione, scriveva il parroco di Barbiana.
«Prevedevo - testimonia Tortorella, che dopo la Bolognina aveva firmato la “mozione due” insieme con Ingrao - che finisse così. Non provo particolari sentimenti. Ho scelto una posizione indipendente e penso a una sinistra nuova. Vedo questo appuntamento con il Partito democratico come il compimento di un processo iniziato da tempo... Molti di questi giovani o meno giovani si sono convinti che il punto d’approdo sia la liberaldemocrazia... Vogliono creare un partito orientato verso la liberaldemocrazia, con le loro buone intenzioni sociali, ma rinunciando a una critica del sistema. Già la parola sistema li fa rabbrividire».
«Me ne sono andato ai tempi del Kosovo», ricorda il leader ottantenne, il partigiano (catturato dai nazifascisti e fuggito) e gappista a Genova: «Il modello privatistico è diventato l’alfa e l’omega». Duro sì, ma senza scomuniche. Tortorella esprime la disponibilità laica di una battaglia e di una responsabilità politica nel senso della libertà. «Il nostro problema è comporre una sinistra di connotazione socialista, che dia rappresentanza al lavoro, una rappresentanza politica perché una rappresentanza sociale è garantita dal sindacato». «Nel lessico del moderatismo - scriveva Tortorella su Critica Marxista in un documento intitolato alla vecchia maniera “I nuovi fondamenti di un discorso per il socialismo” - c’è il cittadino come realtà unica, quando la realtà sociale è, al contrario, fatta di differenze di condizione tra cittadini, talora abissali. I lavori non negano il lavoro...». «La nostra via ci sembra indicata dall’esistenza di uno spazio politico e morale, al di fuori di rigidezze, di schematismi, di ripetizioni scolastiche del passato... Intorno ad alcune parole chiave: libertà ed eguaglianza (inscindibili: lo scriveva anche il liberale Bobbio, anteponendo l’uguaglianza), lavoro. Se si riprende la tradizione, è nel senso del lavoro e della libertà, appunto, come insegna il Manifesto di Marx ed Engels, della libertà solidale, perché la solidarietà è all’origine di tutto, del consorzio umano. Una tradizione va ovviamente considerata in senso critico. Non siamo mai stati laudatores del tempo passato...».
Veniamo da lontano, lo si è sempre detto. «Partendo da questo grande patrimonio, si tratta di costruire una cosa più grande». Si intitola La Cosa il film di Nanni Moretti che si apre con quella immagine e quelle parole di un compagno romano. Seguono altre parole, altre facce perbene, a confermare il cruccio e i dubbi, poco meno di vent’anni fa: «Siamo per l’apertura, per l’aggiornamento di questo grande partito, ma non dimentichiamo che i nostri compagni sono morti per questa falce e martello».
Vent’anni fa erano gli anni di Achille Occhetto, allora cinquantenne, la generazione dopo Tortorella e dopo Berlinguer, Natta, Bufalini, Reichlin, Macaluso, che erano la generazione dopo Togliatti e dopo Longo. Achille Occhetto e la Bolognina di un 12 novembre 1989, quando si capì che il Pci sarebbe diventato un’altra Cosa. «Una scelta abbastanza solitaria, anche se era stata preparata da una serie di colloqui, di valutazioni, di piccoli passi, dalla condanna di Tien an men alla riabilitazione di Imre Nagy, agli stessi colloqui sempre più stretti con i dirigenti dell’Internazionale socialista. Tanti segni che mi avevano dato la certezza che la situazione era ormai matura. Anche se occorreva un avvenimento che rendesse plausibile la svolta. E quell’avvenimento fu la caduta del Muro». L’occasione della Bolognina non fu premeditata: «Non immaginavo che i giornali il giorno dopo titolassero: il Pci cambia nome». Sicuramente aveva immaginato che da quel giorno in avanti e per mesi il suo partito si sarebbe misurato nel più intenso, emozionante, appassionato dibattito che la storia politica italiana avesse mai vissuto. Sottolinea orgoglioso Occhetto: «Il mio pianto alla fine del congresso di Bologna era di liberazione di fronte all’intensità di quella discussione, che aveva attraversato il partito e non solo il partito. Anche le famiglie si divisero. Il dramma s’era concluso».
Nanni Moretti registrava, in uno dei suoi film più semplici e più belli: «Sono molto, molto grato a Occhetto, che ci impegna a ridiscutere noi stessi. C’era bisogno di un atto di grande umiltà e di grande orgoglio insieme. Di fronte a quello che sta succedendo non si può dire che non c’entriamo un cazzo. Quello che sta succedendo ci deve far discutere». «Finalmente ho sentito proporre strade nuove, cose nuove». «Voglio capire con chi lavoreremo e lotteremo e per chi lavoreremo e lotteremo». «Il comunismo non è quella cosa lì. Il comunismo non è fatto da burocrati... da quelle cose lì». «La molla che ci stimola è la molla della fratellanza e della solidarietà». «Caro Mister X, ti prego di non cambiare senza farci capire bene dove andare. Sento un grande bisogno di comunismo»... «Ci stiamo dividendo...».
«Da quel momento in poi - continua Achille - abbiamo troppo aspettato. Esitare ha bagnato le ali della svolta». Congressi, Rimini e Bologna, Pds e Ds, sconfitte e vittorie elettorali, l’Ulivo e le primarie... Continua duro Achille: «A poco a poco è prevalsa una tesi opportunistica. Cambiare nome per rifarsi la faccia ed entrare nel salotto buono. La mia proposta voleva proporre un passaggio molto più radicale e ideale. Gli apparati presero il sopravvento». Normalizzazione? E l’ideale? «Ideale: mettere in discussione la parte peggiore della tradizione comunista, che era il partito, e tenere viva la parte migliore. l’aspirazione a cambiare la società. Il discorso è stato capovolto. Ha avuto la meglio la conservazione. Cospiravano in direzione contraria anche le condizioni generali della politica, esterne a noi». Idealismo? «È il rischio che si corre sempre quando si pongono obiettivi che non sono maggioritari».
Ed ora? «Non sono pregiudizialmente contrario all’idea di una nuova formazione politica capace di raccogliere i diversi riformismi della storia politica italiana, ripristinando un’idea alta di sinistra... Mi pare però che prevalga la voglia di moderatismo funzionale ai calcoli opportunistici, alla sopravvivenza di un governo. Ci siamo noi del Cantiere, ci sono quanti non faranno parte del partito democratico e che vogliono colmare un vuoto. Ci incontreremo il 12 maggio a Roma, per incominciare a discutere...».
Di nuovo, ancora, senza paura. La sinistra mai stanca.
Intanto, compagni, fratelli, amici, forse signori, andiamo a costruire qualcosa, una Cosa.

l’Unità 19.4.07
«Serenamente, ce ne andiamo»
La seconda mozione ds si è riunita ieri sera. Confermata la scelta: Mussi parla domani. Poi, via
di Simone Collini


DICONO che i sentimenti personali contano fino a un certo punto, che sono le valutazioni politiche che devono guidare le scelte. Dicono che sono sereni nonostante il passo che stanno per compiere, e che anzi solo in questo modo possono rimanere fedeli ai valori in cui hanno sempre creduto in questi trenta, quaranta, cinquanta anni di militanza. Dicono tutto questo e però poi a volte è una pausa che si prolunga a dire qualcosa in più, o uno sbuffo di fumo e la sigaretta gettata lontano chiudendo la frase. I 250 delegati della mozione Mussi si sono incontrati ieri sera a Firenze. Pci, Pds, Ds, i nomi cambiavano ma la storia era quella, e loro c'erano. Oggi si apre il congresso della Quercia, l'ultimo. Domani ci sarà il Partito democratico, e loro non ci saranno. Perché, dicono i sentimenti contano fino a un certo punto.
"Vado al congresso con spirito sereno", dice Gianni Zagato il giorno della vigilia. Mussi gli ha affidato il non facile incarico di coordinatore organizzativo della mozione. "Certo, ho passato tanti anni in questo partito, ma pur nel dolore della separazione sono convinto che questo sia l'unico modo per far sì che tutto quello in cui ho creduto non si perda. Sono convinto che si ricollocherà nella strategia futura a cui dobbiamo lavorare, quella di riunificare le forze di sinistra oggi divise". Negli anni 80 era a Torino con Fassino segretario, ricorda: "Mi lega a lui un affetto personale, che durerà. Ma questo non mi impedisce di compiere la mia scelta".
Quello che fa male, ai delegati della seconda mozione, è sentirsi chiamare scissionisti. Fa male a Mussi, che non ne fa mistero con i suoi. "Passo per scissionista", diceva con amarezza l'altro giorno, dopo aver sentito in tv il direttore del Tg1 Gianni Riotta dire che probabilmente così può contare su una maggiore visibilità. "Scissionista", pausa. "Quarantadue anni per la sinistra", pausa. "Ho vissuto come uomo libero e disciplinato, ma guai quando nei partiti la regola diventa il conformismo". Ai delegati ha ripetuto ieri quello che ha ripetuto nei mesi e anche anni addietro. Era alla manifestazione di lancio della cosiddetta Camera di consultazione permanente, due anni fa, quando disse per la prima volta: "Se fate il Pd, io non ci sarò". Quello che lo amareggia è anche che qualcuno abbia pensato che si trattasse di tattica. "Scissionista", pausa. "Non riesco a rassegnarmi all'idea che la sinistra italiana si riduca a correnti personalizzate in un nuovo partito. Non un partito nuovo, un nuovo partito".
Carlo Leoni è con lui. "E' chiaro che provo un grande dispiacere", dice il vicepresidente della Camera. "Ma non per quello che facciamo noi, ma perché viene a mancare il mio partito. Una comunità fatta partito, che non ci sarà più. Il giorno più duro, per me, è stato quando si sono conclusi i congressi di sezione, quando ho capito che la fine dei Ds era segnata". Non che non se lo aspettasse un risultato più o meno simile, ma fino all'ultimo ha messo in conto una mossa da parte della maggioranza che potesse consentire una ripresa del dialogo. Così non è stato, e ora dice che guarda al futuro "con voglia di cominciare a rimboccarsi le maniche per realizzare questa impresa, che non sarà facile ma che è necessaria": "Se il Pd nasce con a sinistra l'attuale frammentazione non avremo un centrosinistra forte. Se viceversa ci sarà una forza consistente e di governo sarà un bene per tutti". Per questo i sostenitori della seconda mozione chiedono "rispetto" per la loro scelta e il riconoscimento che quanto stanno per fare ha "pari dignità" rispetto al progetto del Pd.
Di paragoni con la Bolognina e con le ragioni allora avanzate dal Prc non ne vogliono neanche sentir parlare. "La separazione è una scelta difficile ma inevitabile", dice Fulvia Bandoli. Allo scorso congresso era la prima firmataria della mozione ecologista. Oggi ha firmato la mozione Mussi. "Non si può stare dentro il Pd senza convinzione, come ci starei io. La mia decisione è ben meditata, sono tre anni che discutiamo questo progetto. Sono quarant'anni che sto in questo partito, e sono sempre stata nella minoranza. Ma non mi ci sono mai sentita a disagio perché anche da questa posizione sono riuscita a vincere battaglie importanti. Ma quello che si sta per fare oggi non è una trasformazione, è un altro partito. Non di sinistra. E io non ci posso stare".

l’Unità 19.4.07
Scontro tra Confindustria e Bertinotti
Il presidente della Camera: «Telecom, capitalismo impresentabile». La replica: clima anti-imprese
di Luigina Venturelli


POLEMICA Tra accuse d’impresentabilità e controaccuse di statalismo, la miccia Telecom accende uno scontro al calor bianco tra il presidente della Camera e Confindustria. Pomo della discordia alcune osservazioni impietose sullo stato dell’imprenditoria nazionale: «La vicenda Telecom - ha dichiarato Fausto Bertinotti nel corso di una trasmissione televisiva - ci dice quanto il capitalismo italiano sia devastato».
L’accusa dell’ex sindacalista alla sua vecchia controparte padronale è senza mezzi termini: «Il fatto che ci chiediamo se ci sia un imprenditore italiano con abbastanza soldi per intervenire su Telecom è sconcertante». Insomma, «il capitalismo italiano è a un estremo di impresentabilità».
Immediata la replica che Confindustria ha assegnato ad una nota infuocata: «Le dichiarazioni del presidente della Camera confermano purtroppo il clima anti-impresa di larghi settori dell’attuale maggioranza». Il verdetto è definitivo e corredato dall’elenco dei meriti non riconosciuti: «Il capitalismo italiano ha trascinato il Paese fuori dalle secche della crescita zero, e grazie allo sforzo delle sue imprese piccole, medie e grandi è tornato a misurarsi con successo sui mercati dopo un severo processo di selezione».
Segue, quindi, la lista delle difficoltà logistiche riscontrate, ovviamente a causa dell’apparato statale: «In questa competizione le imprese italiane sono quasi sempre lasciate sole, a differenza di quanto avviene in altri Paesi». Va da sé che, secondo Confindustria, «fare impresa in Italia è sempre più difficile per il carico fiscale più alto d’Europa, una burocrazia senza pari, il rischio sempre più frequente di veder cambiare in corsa le regole del gioco. Forse - sottolinea l’associazione - quello che piace è il modello del capitalismo di stato che ha ridotto l’Alitalia nelle condizioni attuali».
La nota non si risparmia frecciatine ironiche, solitamente riservate ai virgolettati di qualche esponente piuttosto che ai toni formali di un comunicato ufficiale di categoria. Segno di quanto la polemica risulti indigesta, soprattutto nel momento in cui il sistema imprenditoriale sta mostrando, causa l’affaire Telecom, alcune evidenti lacune. Ma Confindustria assicura: «Gli imprenditori italiani continueranno con rigore ed impegno nella loro difficile sfida, e invitano il presidente della Camera ad un contatto più diretto per conoscere il volto vero del nostro capitalismo. Certo il dibattito sulle vicende economiche che riguardano il Paese sta toccando livelli che sconcertano e preoccupano».
Una querelle che non poteva restare senza eco politica. «L’aggressione di Bertinotti al capitalismo italiano mi sembra fuori luogo. Mi pare che il problema cruciale di questa maggioranza sia quello di guadagnare qualche consenso in più e non quello di riesumare il vecchio motto: molti nemici molto onore» commenta Marco Follini.
Meno posate le parole di Maurizio Lupi di Forza Italia: «Questo governo ha una concezione centralista e statalista, che si oppone al libero mercato e alla libera impresa». Puntualizza, invece, Alfonso Gianni, sottosegretario allo Sviluppo Economico: «Va ricordato a Confindustria che il declino industriale del nostro Paese non è un’invenzione della sinistra».

l’Unità 19.4.07
Sinistra, il momento dell’ascolto. E delle idee
di Valerio Calzolaio e Alessandro Polio Salimbeni


Si stanno muovendo le cose a sinistra. Il Prc ha svolto la conferenza di organizzazione, conferma la scelta dell’impegno di governo, il processo di costruzione di Sinistra Europea e, insieme, apre il tema della ricerca sul socialismo di oggi, con l’idea di un “cantiere” unitario della sinistra italiana. Il PdCI, in una stagione congressuale quasi conclusa, riprende la proposta della confederazione. I Verdi avviano il 4 maggio una fase costituente allargata e tematizzano un patto di consultazione a sinistra. Lo Sdi ha svolto il suo congresso straordinario per avviare la costituente socialista e aprire una fase di confronto ravvicinato innanzitutto con la sinistra Ds. Al congresso nazionale dei Ds, noi delegati della mozione Mussi stiamo dando vita al «Movimento per la sinistra democratica», un soggetto politico aperto e transitorio per una costituente alternativa al partito democratico.
Usiamo tutti parole analoghe, sentiamo tutti le stesse urgenze: certo vi sono storie e pratiche, forse significati e strategie in parte diversi. Colpiscono però il fermento, la vivacità, l’attenzione reciproca, la comune sensazione che la politica italiana abbia bisogno di un salto di qualità, nella rappresentanza a sinistra, nel disegno di strategie all’altezza delle sfide del presente, nel dare al governo Prodi un più solido carattere di innovazione e trasformazione del paese. Oggi sembra esserci una potenzialità in più: conta e incide la scelta di partecipare unitariamente, per la prima volta, al governo dell’Italia in un’Europa unita.
Proviamo ad elencare i fattori comuni. La scelta di “governare”, non solo per la sua inevitabilità a fronte del rischio-Berlusconi, cercando nuovi stimoli per superare evidenti difficoltà e problemi. La scelta dell’Unione, come polo di centrosinistra in un bipolarismo giusto, equilibrato e da irrobustire. La preoccupazione per la frantumazione del sistema politico e per l’indebolimento della rappresentanza sociale e culturale, non affrontabile solo in termini di strumentazione elettorale. La convinzione che la costituzione del partito democratico riguarda solo una parte dello schieramento politico di centrosinistra. Un atteggiamento non favorevole alla “produzione di partiti a mezzo di partiti”, alla difesa delle micro-formazioni come inerzia organizzativa. Ora, come possiamo fare passi avanti, tutti, insieme?
Il “campo della sinistra” non è caratterizzato solo dalle organizzazioni politiche, investe anche la ricchissima presenza di esperienze associative, di ricerca, di lotta sociale, di attività culturale. La rappresentanza non è problema che riguardi solo le forze politiche organizzate. Le culture che cercano di esprimere una nuova narrazione della società e del mondo, dinanzi al crescere delle nuove e vecchie contraddizioni, sono un patrimonio per arricchire la cultura politica della sinistra. La assunzione piena e consapevole della crisi di un modello di sviluppo distruttivo dell’ambiente e il carattere fondativo della differenza di genere, il lavoro - fondamento di dignità ed emancipazione - e i diritti - fondamento delle libertà individuali e dell’uguaglianza - sono i pilastri di un nuovo socialismo. E fa parte integrante della nostra riflessione il tema della ricostruzione di forme e sostanza della partecipazione politica. Il punto essenziale è proprio quello della discussione pubblica come percorso e assunzione condivisi delle scelte politico-amministrative e di governo. Pensiamo che si debba andare oltre l’idea che partecipazione sia una scheda o una preferenza. Nessuna obiezione ad “una testa, un voto”: è la base della democrazia rappresentativa. Non basta. Bisogna aggiungere “una testa, una idea”: è la base della ricostruzione dello spazio pubblico, della politica, della riduzione e del superamento della distanza tra governanti e governati. E allora bisogna pensare in termini di reti e non di strutture gerarchiche. Certamente i partiti ci sono e continueranno ad esserci, nodi nella e della rete. Ci sono come “deposito” storico, tessuto del radicamento sociale e territoriale, significativo selettore e formatore del “personale politico” e strumento a disposizione di quanti (e sono i più numerosi) non hanno voce né strumenti né potere. Invece non ci sono più come “antenna” nella e della società, come punto di riferimento articolato e diffuso per raccogliere e rielaborare bisogni e aspirazioni. E allora rischia di rimanere solo l’aspetto di gestione del potere politico, di selezione dei gruppi dirigenti per appartenenza e non per merito, di sovrapposizione e non di sovrastruttura della società.
Avanziamo una proposta. Avviare una fase di “ascolto”, una campagna di consultazione per raccogliere idee e proposte dal popolo della sinistra italiana, sui valori fondamentali (ambientalismo, laburismo, pacifismo, laicità, uguaglianza, differenza di genere, modello di sviluppo, antifascismo, ecc.), sulle priorità politiche (l’Italia nella cooperazione pacifica allo sviluppo sostenibile, dimensione europea sociale e energetica, cambiamenti climatici e politiche industriali,, scuola pubblica, pensioni e welfare, diritti sociali e diritti civili) sulle forme e sugli strumenti della politica (l’identità, la partecipazione, la militanza, i simboli elettorali). La campagna potrebbe essere promossa insieme da tutte le forze della sinistra - da noi allo Sdi, dal Prc al PdCI, dai Verdi ad altre soggettività politico-culturali, come l’Ars o RossoVerde, come l’Arci o l’arcipelago delle associazioni, fino - con un approfondimento sulle forme possibili - al sindacato. E, ancora, alcuni importanti mezzi di comunicazione, dall’Unità al Manifesto, dal Riformista ad Aprile, da Carta a Ecoradio e così via. Da luglio a settembre, utilizzando feste di partito, sedi, conferenze, piazze cittadine, l’utilizzo di tutte le risorse della comunicazione via web, può “camminare” una esperienza con pochi precedenti. Ciò che conta è che all’impianto, alle “domande” su cui raccogliere tante opinioni, un milione di voci, ciascuna componente possa contribuire con il proprio punto di vista, anche non collimante con quello di altri, proprio per assicurare il carattere di autenticità delle risposte. La campagna risponde agli indirizzi espressi negli organismi di tutti i soggetti politici organizzati italiani che si richiamano alla sinistra e non sono finora interessati alla costituente del Pd, pur sostenendo il programma e l’esperienza di governo dell’Unione. La campagna risponde all’esigenza diffusamente espressa di partire dai contenuti, di verificare gli indirizzi, senza sottolineare ogni aspetto identitario ed evitando personalizzazioni. Dopo l’ “ascolto” potrà essere avviato il confronto sull’eventuale quota di sovranità che gli attuali soggetti possono destinare a dinamiche unitarie e a intrecci con i movimenti, magari sperimentandole, ove possibile, in occasione delle amministrative 2008.

l’Unità 19.4.07
«Amareggiato per lo sciopero di Repubblica»
De Benedetti: il calo dell’utile dell’Espresso è strutturale. Il contratto? È ancora lontano
di Marco Ventimiglia


POLEMICA Doveva essere una semplice, per quanto importante assemblea societaria, si è invece trasformata nell’occasione per rilanciare l’interminabile botta e risposta sul rinnovo del contratto dei giornalisti e sulla clamorosa protesta dei giornalisti di Repubblica. A gettare benzina sul fuoco Carlo De Benedetti nella sua veste di padrone di casa del Gruppo L’Espresso.
«Il core business - ha esordito De Benedetti - va in modo soddisfacente, ma siccome agli azionisti interessa la bottom line, dobbiamo dire che il calo dell'utile netto è un fatto strutturale e non congiunturale. Da qui l'esigenza di rivedere la struttura dei costi». Numeri che testimoniano come nel primo trimestre del 2007 l'utile netto del Gruppo Espresso è sceso dai 26,6 milioni del primo trimestre 2006 a 13,5 milioni. In frenata pure il fatturato che è stato di 272,5 milioni (-10,1%) e il margine operativo lordo che si è attestato sui 42,5 milioni (-31,8%).
La revisione della struttura dei costi è stata spiegata dallo stesso De Benedetti con il riferimento ai costi del personale ed in particolare di quello giornalistico, puntando il dito contro gli aumenti retributivi automatici previsti dagli scatti di anzianità.
L'ingegnere ha poi parlato di un «quadro a tinte miste» per il gruppo e ha sottolineato che «negli ultimi 10 anni abbiamo messo sotto il tappeto i problemi grazie alle ottime performance dei prodotti opzionali, che però ora fanno segnare una battuta d'arresto».
Il presidente del gruppo è tornato poi ad occuparsi di giornalisti, guardando questa volta direttamente in casa sua, soffermandosi sulla dura vertenza in atto a la Repubblica, dove i giornalisti hanno proclamato e messo in atto una settimana continuativa di sciopero. «È un fatto senza precedenti che ci amareggia - ha dichiarato De Benedetti -, ma da parte dell'azienda non c'è un atteggiamento di chiusura. C'è solo, l'indisponibilità a introdurre una sorta di terzo livello di contrattazione, come richiesto dalla rappresentanza sindacale, visto che sono fermi i primi due, quello legato al contratto nazionale e quello aziendale conseguente».
«In ogni caso - ha concluso De Benedetti - è ferma intenzione del gruppo ristabilire tra azienda e lavoratori i rapporti che ci hanno caratterizzato fin dalla fondazione del quotidiano».
Le parole della guida del Gruppo Espresso hanno subito innescato la reazione del sindacato giornalisti: «Se gli editori sono coesi, come dice Carlo De Benedetti, i giornalisti sono molto uniti nella difesa dell'autonomia e della dignità della professione. Si tratta quindi di uno scontro che non ha senso e che può danneggiare l'intero sistema della comunicazione. L'editore del Gruppo Espresso ha gettato la maschera assumendosi il ruolo di leader dei falchi della Fieg, chiudendo le porte ad un rinnovo contrattuale in tempi brevi e scaricandone la responsabilità sui giornalisti».
Il segretario della Federazione nazionale della stampa, Paolo Serventi Longhi, ha poi ribadito la disponibilità dei giornalisti a discutere dei «cambiamenti strutturali ed epocali del mondo dell'informazione di cui il presidente del gruppo l'espresso ha parlato», ma ha sottolineato il fermo rifiuto di «ogni resa senza condizioni».

l’Unità 19.4.07
Palermo: An si presenta alla conferenza di Scalzone, scontri all’Università
Il Rettore non aveva concesso un’aula, così gli studenti hanno occupato l’atrio. Gli incidenti dopo l’arrivo di alcuni esponenti di destra


Un’ora di tensione, insulti, e botte ieri all’Università di Palermo. Non è bastata la stretta di mano col preside di Lettere Giovanni Ruffino, per evitare che la conferenza dell’ex leader di Potere operaio nell’atrio della facoltà, alla presenza di oltre duecento studenti, si trasformasse per oltre un’ora in uno scontro tra militanti di destra e studenti di sinistra. Tutto è accaduto davanti a sette o otto esponenti della Digos della questura, impotenti di fronte alla sassaiola, al lancio di bottiglie di vetro e di plastica piene d’acqua, di bidoni dell’immondizia e di sedie.
Il preside non aveva voluto concedere un’aula agli studenti per ospitare Scalzone e i giovani hanno così deciso di occupare l’atrio. Ma gli scontri sono cominciati quando il capogruppo di An all’Assemblea regionale siciliana, Salvino Caputo - che già nei giorni scorsi si era espresso contro la partecipazione di Scalzone all’ultima conferenza del ciclo «1977-2007, il filo rosso della rivolta», organizzata dal comitato autonomo degli studenti - si è presentato accompagnato dal consigliere comunale di An Raoul Russo e il candidato al consiglio comunale Antonino Triolo davanti all’atrio dov’era appena cominciato il dibattito chiedendo di poter entrare. Una richiesta che gli studenti hanno letto come una provocazione, decidendo quindi di formare un cordone (composto da 8-10 ragazzi) che ha sbarrato la strada ai politici.
C’è voluto ben poco prima che cominciassero a volare parole grosse. E poi anche i pugni e gli schiaffi. L’atmosfera, già rovente, è poi definitivamente divampata quando dal giardino di fronte alla facoltà sono arrivati a sostegno gruppi di studenti di destra con striscioni. Immediatamente, infatti, è cominciata una fitta sassaiola e il lancio di ogni tipo di oggetto. tanto che una pietra ha mandato in frantumi il vetro laterale di un’auto, mentre un altro sasso ha colpito alla schiena un fotografo. Nel parapiglia Triolo è rimasto leggermente ferito così come Massimiliano Lombardo, consigliere dell’Unione degli studenti dell’ateneo palermitano che stava cercando di calmare gli animi.
Pensare che Oreste Scalzone aveva appena cominciato a parlare ringraziando i giovani del collettivo autonomo per essere riusciti a realizzare l’assemblea: «C’è ancora una speranza», aveva detto. Dopo la sassaiola l’ex PotOp è uscito dall’atrio della facoltà e ha preso le difese degli studenti del collettivo autonomo: «Hanno risposto alle provocazioni e si sono difesi - ha spiegato Scalzone - Non hanno alcuna colpa dei disordini e nessuno è stato picchiato».
Nonostante la tensione preannunciata, nessun rappresentante delle forze dell’ordine era stato preventivamente schierato attorno alla facoltà. Solo dopo gli scontri sono arrivati due automezzi con agenti e alcuni funzionari della polizia di Stato. Dopo gli scontri, ad alcuni metri dall’entrata della facoltà, lungo viale delle Scienze, si è radunato un gruppo di studenti di azione universitaria e di centrodestra che hanno esposto uno striscione con scritto «Fuori i terroristi dall'Università».

il manifesto 19.4.07
Una testa, un'idea. Ascoltare le mille voci della sinistra
di Valerio Calzolaio e Alessandro Pollio Salimbeni


Si stanno muovendo le cose a sinistra. Il Partito della rifondazione comunista ha svolto la conferenza di organizzazione, conferma la scelta dell'impegno di governo, il processo di costruzione di Sinistra europea e, insieme, apre il tema della ricerca sul socialismo di oggi, con l'idea di un «cantiere» unitario della sinistra italiana. Il Partito dei comunisti italiani, in una stagione congressuale quasi conclusa, riprende la proposta della confederazione. I Verdi avviano il 4 maggio una fase costituente allargata e tematizzano un patto di consultazione a sinistra. Lo Sdi ha svolto il suo congresso straordinario per avviare la costituente socialista e aprire una fase di confronto ravvicinato innanzitutto con la sinistra Ds. Al congresso nazionale dei Ds, noi delegati della mozione Mussi stiamo dando vita al Movimento per la sinistra democratica, un soggetto politico aperto e transitorio per una costituente alternativa al Partito democratico. Usiamo tutti parole analoghe, sentiamo tutti le stesse urgenze: certo vi sono storie e pratiche, forse significati e strategie in parte diversi. Colpiscono però il fermento, la vivacità, l'attenzione reciproca, la comune sensazione che la politica italiana abbia bisogno di un salto di qualità, nella rappresentanza a sinistra, nel disegno di strategie all'altezza delle sfide del presente, nel dare al governo Prodi un più solido carattere di innovazione e trasformazione del paese. Oggi sembra esserci una potenzialità in più: conta e incide la scelta di partecipare unitariamente, per la prima volta, al governo dell'Italia in un'Europa unita.
Proviamo a elencare i fattori comuni. La scelta di «governare», non solo per la sua inevitabilità a fronte del rischio-Berlusconi, cercando nuovi stimoli per superare evidenti difficoltà e problemi. La scelta dell'Unione, come polo di centrosinistra in un bipolarismo giusto, equilibrato e da irrobustire. La preoccupazione per la frantumazione del sistema politico e per l'indebolimento della rappresentanza sociale e culturale, non affrontabile solo in termini di strumentazione elettorale. La convinzione che la costituzione del Partito democratico riguarda solo una parte dello schieramento politico di centrosinistra. Un atteggiamento non favorevole alla «produzione di partiti a mezzo di partiti», alla difesa delle micro-formazioni come inerzia organizzativa. Ora, come possiamo fare passi avanti, tutti, insieme?
Il «campo della sinistra» non è caratterizzato solo dalle organizzazioni politiche, investe anche la ricchissima presenza di esperienze associative, di ricerca, di lotta sociale, di attività culturale. La rappresentanza non è problema che riguardi solo le forze politiche organizzate. Le culture che cercano di esprimere una nuova narrazione della società e del mondo, dinanzi al crescere delle nuove e vecchie contraddizioni, sono un patrimonio per arricchire la cultura politica della sinistra. L'assunzione piena e consapevole della crisi di un modello di sviluppo distruttivo dell'ambiente e il carattere fondativo della differenza di genere, il lavoro - fondamento di dignità e emancipazione - e i diritti - fondamento delle libertà individuali e dell'uguaglianza - sono i pilastri di un nuovo socialismo. E fa parte integrante della nostra riflessione il tema della ricostruzione di forme e sostanza della partecipazione politica. Il punto essenziale è proprio quello della discussione pubblica come percorso e assunzione condivisi delle scelte politico-amministrative e di governo. Pensiamo che si debba andare oltre l'idea che partecipazione sia una scheda o una preferenza. Nessuna obiezione a «una testa, un voto»: è la base della democrazia rappresentativa. Non basta. Bisogna aggiungere «una testa, un'idea»: è la base della ricostruzione dello spazio pubblico, della politica, della riduzione e del superamento della distanza tra governanti e governati. E allora bisogna pensare in termini di reti e non di strutture gerarchiche.
Certamente i partiti ci sono e continueranno a esserci, nodi nella e della rete. Ci sono come «deposito» storico, tessuto del radicamento sociale e territoriale, significativo selettore e formatore del «personale politico» e strumento a disposizione di quanti ( e sono i più numerosi) non hanno voce né strumenti né potere. Invece non ci sono più come «antenna» nella e della società, come punto di riferimento articolato e diffuso per raccogliere e rielaborare bisogni e aspirazioni. E allora rischia di rimanere solo l'aspetto di gestione del potere politico, di selezione dei gruppi dirigenti per appartenenza e non per merito, di sovrapposizione e non di sovrastruttura della società.
Avanziamo una proposta. Avviare una fase di «ascolto», una campagna di consultazione per raccogliere idee e proposte dal popolo della sinistra italiana, sui valori fondamentali (ambientalismo, laburismo, pacifismo, laicità, uguaglianza, differenza di genere, modello di sviluppo, antifascismo, ecc.), sulle priorità politiche (l'Italia nella cooperazione pacifica allo sviluppo sostenibile, dimensione europea sociale e energetica, cambiamenti climatici e politiche industriali, scuola pubblica, pensioni e welfare, diritti sociali e diritti civili) sulle forme e sugli strumenti della politica (l'identità, la partecipazione, la militanza, i simboli elettorali). La campagna potrebbe essere promossa insieme da tutte le forze della sinistra- da noi allo Sdi, dal Prc al Pdci, dai Verdi a altre soggettività politico-culturali, come l'Ars o RossoVerde, come l'Arci o l'arcipelago delle associazioni, fino - con un approfondimento sulle forme possibili - al sindacato. E, ancora, alcuni importanti mezzi di comunicazione, dall'Unità al manifesto, dal Riformista a Aprile, da Carta a Ecoradio e così via. Da luglio a settembre, utilizzando feste di partito, sedi, conferenze, piazze cittadine, l'utilizzo di tutte le risorse della comunicazione via web, può «camminare» un'esperienza con pochi precedenti. Ciò che conta è che all'impianto, alle «domande» su cui raccogliere tante opinioni, un milione di voci, ciascuna componente possa contribuire con il proprio punto di vista, anche non collimante con quello di altri, proprio per assicurare il carattere di autenticità delle risposte.
La campagna risponde agli indirizzi espressi negli organismi di tutti i soggetti politici organizzati italiani che si richiamano alla sinistra e non sono finora interessati alla costituente del Pd, pur sostenendo il programma e l'esperienza di governo dell'Unione. La campagna risponde all'esigenza diffusamente espressa di partire dai contenuti, di verificare gli indirizzi, senza sottolineare ogni aspetto identitario e evitando personalizzazioni.
Dopo l'«ascolto» potrà essere avviato il confronto sull'eventuale quota di sovranità che gli attuali soggetti possono destinare a dinamiche unitarie e a intrecci con i movimenti, magari sperimentandole, ove possibile, in occasione delle amministrative 2008.

Liberazione 19.4.07
Giordano: «Ecco come vedo Se e cantiere»
«La Sinistra europea nasce "aperta", disponibile al confronto con tutte le identità, soprattutto sul da farsi»
«E una nuova soggettività unitaria e plurale nasce dentro i tentativi reali di costruire un'alternativa sociale»
di Stefano Bocconetti


Ricerche identitarie, scomposizioni, riaggregazioni. Comunque, sarai d'accordo che l'aspetto della sinistra sta per essere terremotato, o no?
Sicuramente si apre uno scenario nuovo.
E Rifondazione che fa? Sta a guardare?
Tutt'altro. Credo che tutto questo ci imponga di accelerare nella costruzione della Sinistra Europea. Tant'è che a metà giugno abbiamo già fissato l'assemblea fondativa del nuovo soggetto politico. Con una voluta contestualità col congresso fondativo della Linke tedesca. E lì uscirà la proposta forte di unire la sinistra antiliberista e pacifista, di aggregarla perchè cominci a disegnare un'alternativa possibile.
Ma la Sinistra europea nasce già immaginando come superare se stessa, come pure dice qualcuno? Ha già in mente come mettere assieme tutta intera la sinistra?
Se vuoi sapere se la Sinistra europea è una formazione a tempo, ti dico di no. Ma certo nasciamo "aperti", disponibili al confronto con chiunque. Questa è la nostra proposta, poi ci confronteremo con le altre che saranno in campo. E immagino davvero un confronto serratissimo, a tutto campo, come si dice, nel quale nessuno nega l'identità di nessuno, in cui nessuno chiede a nessuno di rinunciare alla sua identità, neanche ad un pezzo di essa. Ma chiedendo a tutti di confrontarsi sulle cose da fare. E vedremo lì, in questo confronto, se ci sono le possibilità di accelerare nella costruzione di una nuova soggettività della sinistra d'alternativa. Unitaria e plurale.
Confronto, hai detto. Hai un'agenda da proporre?
Un grande tema sopra gli altri: la critica alle forme attuali del capitalismo.
Impegnativo, non trovi?
E però a me sembra davvero di essere di fronte a un paradosso. Siamo di fronte a una globalizzazione che ha effetti devastanti: nelle disparità sociali, nelle disuguaglianze, nel restringimento della democrazia. Restringimento tanto evidente che la caratteristica attuale del liberismo è di essere appunto illiberale. Siamo di fronte a nuove forme di aggressione al pianeta, alla natura.
E il paradosso dov'è?
E' che mentre tutto questo fa crescere l'urgenza di un'alternativa…
Siamo al "socialismo o barbarie", insomma?
Esattamente. Come sosteneva Rosa Luxemburg, certo in un contesto radicalmente diverso. Mentre c'è tutto questo, dicevo, una parte della sinistra decide di approdare definitivamente alla cultura liberaldemocratica. Sì, è davvero paradossale.
Sarà questa la discussione che proporrete alla sinistra, al resto della sinistra?
Di certo non si limiterà a questo. Se vogliamo uscire dall'autoreferenzialità della politica credo che occorra legare, mettere in relazione, la discussione con le dinamiche sociali. C'è insomma l'agire quotidiano che deve impegnarci.
Che vuol dire?
Che la discussione col partito democratico e con le altre forze democratiche, col resto della sinistra deve anche puntare all'oggi. L'abbiamo detto e lo ripetiamo tanto più in queste ore: in Italia si deve riaprire una politica di risarcimento sociale. Con l'aumento delle retribuzioni, con la fine della precarietà, con la crescita della sanità pubblica.
Discussione, e poi?
Ti faccio un esempio per capire. Sta per partire la vertenza di una delle più grandi categorie dell'industria, i metalmeccanici. Fra i primi ad avere diritto ad un risarcimento sociale, a cominciare dai loro salari. Allora domando: vogliamo o no costruire un'adeguata rappresentanza politica di questa vertenza? Di questi lavoratori? Vogliamo imporre un modo di far politica che si sottragga, finalmente, a quella filosofia che vuole sempre e comunque centrale l'impresa?
Torniamo a Firenze. Qualcuno dice che questo sarà l'ultimo atto di ciò che resta del Pci. Se è così come lo vivi?
Vedi, sono segretario di un partito che ha puntato tutte le sue carte sull'innovazione. Abbiamo investito, e investito tutto, sui nuovi movimenti. Credo che il progetto di rifondare il pensiero e la pratica comunista sia entrato ora nella fase decisiva. Credo che davvero noi siamo fuoriusciti dalla logica del Novecento: con la scelta della non violenza, con l'idea che non esiste l'occupazione del potere. Con l'idea che quel potere va cambiato e criticato.
E per ciò che riguarda i ds?
Credo che non ci fosse dubbio che il Pci, all'epoca della Bolognina, avesse bisogno di un totale ripensamento politico e culturale. Aveva bisogno di una forte innovazione. Quella che è risultata vincente è andata in senso opposto ai bisogni di chi si oppone a questa società capitalista. C'era bisogno di ripartire, insomma, ma non in quella direzione. E ora francamente, per chi già da tempo aveva scelto il governo come unico obiettivo, il processo va a concludersi.
Quindi, nessuna emozione?
No. La storia del Pci era finita, non finisce oggi.
Ma dì la verità: ora che tutto è in movimento tu riesci ad immaginare la fisionomia della sinistra da qui a qualche anno?
Io so che sinistra voglio. Dentro uno spazio europeo, che disegni un'alternativa sociale, che risponda alla crisi della politica. Che risponda, dia una risposta alla solitudine, alla competizione sfrenata, all'individualismo, al plebiscitarismo. Che disegni comunità, che costruisca alternativa, che sappia interagire coi movimenti. Questa è la sinistra che vorremmo.
Ma quando si farà?
E' il compito di oggi. So che dobbiamo tenere aperta questa strada. Non è facile. Anche perchè non possiamo farlo a tavolino. Dobbiamo farlo dentro il travaglio sociale di questi anni. Sì, io così immagino il cantiere di cui ha spesso parlato Fausto Bertinotti. Aperto a tutti, indipendentemente dalla collocazione di ciascuno. Tu sei in quel partito, io in quest'altro, io voglio fare questo, tu vuoi fare quest'altro. Non sarà questo d'ostacolo al confronto. Ma la discussione deve avvenire "dentro" i tentativi che si fanno per costruire un'alternativa di società. Vedo che procedono a ritmi forzati i processi di disgregazione sociale: fra chi ha e chi no, ma anche fra l'alto e il basso della società. Fra chi ha informazioni e chi non ne dispone. Disgregazione che attraversa i ceti, le classi. Qui dobbiamo costruire il soggetto della sinistra. Mi chiedi se ce la faremo? Lo spero. Noi ci stiamo lavorando.

mercoledì 18 aprile 2007

l'Unità 18.4.07
Chi le ha rubato la vita
di Giovanni Bollea


Le vicende che hanno creato una tensione così devastante da spingere quella bimba di 13 anni, a Taranto, giù nel baratro scavalcando la finestrella, che nell’universo infantile rappresenta mille confini, mille misteri ma non quello della vera morte, devono essere state davvero tragiche e pesantissime. Una morte che per lei come per la maggior parte dei suicidi infantili è stata imprevedibile: è l’imprevedibilità infatti la loro caratteristica più sconvolgente. Ma la comprensione della morte e delle distorsioni difensive di tale percezione, evidenti nel bambino suicidario, richiedono un’analisi molto approfondita. E in questo caso, per riuscire a darne un’interpretazione, bisogna trovare la vera relazione tra il suicidio e le «circostanze» di vita, rispetto al rapporto con i tratti di personalità della bambina oltre alle caratteristiche peculiari del contesto familiare o del contesto sociale in cui viveva e con il quale, non si era sviluppata una necessaria empatia.
Un gesto così autodistruttivo, all’interno di un rapporto di forze di attrazione e repulsione verso la vita e verso la morte (che esiste in ognuno di noi) e il cui equilibrio varia secondo le circostanze di vita più o meno drammatiche è sempre e comunque sconvolgente. Perché tutti ci chiediamo quali reali circostanze l’hanno portata alla “disperazione” e alla perdita di speranza in un cambiamento che potesse risolvere problemi per lei irrisolvibili? Avrebbe potuto essere disturbata fin dall’infanzia: chi lo sa? Certamente non era una bambina felice. Le violenze subite fisiche e psicologiche l’avevano rinchiusa in una così forte rigidità cognitiva, che ognuna di esse veniva certamente vissuta come una perdita ripetuta, nell’impossibilità di sopportarne le frustrazioni. Alla fine ha vinto infatti un mancato controllo dell’aggressività contro se stessa, ormai sofferente e devastata dai sensi di colpa e dal calo di autostima. Reazione a corto circuito = un circolo chiuso. Le dinamiche familiari, multiproblematiche vissute nell’indifferenza e nella povertà e il distacco da una pseudo famiglia che non potendo e non volendo toglierla dall’Istituto che la ospitava, chissà in quali condizioni, l’avvolsero in un sentimento di atroce isolamento e di assoluta estraneità.
Forse i fatti come sono accaduti veramente non si conosceranno mai ma le violenze subite, lei, quella bambina, le ha conosciute: pene sia fisiche che psicologiche. Ed è la fissione di un conflitto così profondo e atroce, supportato dalla mancanza di un Io ausiliario che l’ha portata su quel davanzale. La finestrella che lei vedeva come una soluzione e non come una vera fine. Perché nei bambini suicidari, anche nei momenti più terribili, l’attrazione per la vita è sempre molto elevata. Quella vita che tanti troppi personaggi equivoci non chiari e non sinceri le hanno tolto. Perché quell’attrazione per la morte che lei visse come una strategia difensiva la travolse ancora più violentemente di quanto non la trascinasse la sua angoscia. E su queste morti, che ormai sono un centinaio all’anno, pochissimi di noi vogliono riflettere con l’autentico desiderio di capire per poterle evitare. Prima di tutto con il cuore.

l'Unità 18.4.07
Nigra. «La mozione Angius corrente del Pd?
Chi l’ha detto? Vedremo dopo Firenze»


Faranno il punto della situazione nel tardo pomeriggio di domani. Dopo l’intervento di Piero Fassino e prima del ricevimento degli invitati stranieri a Palazzo Vecchio. La terza mozione «Angius-Zani», serra le fila in vista del confronto congressuale. Alberto Nigra, portavoce della mozione, spinge sull’acceleratore: «È la maggioranza a doversi muovere. Ma quella, da una parte fa di tutto per rassicurare la base, ma poi si rifiutano di fare una qualsiasi proposta, anche quella di una verifica alla fine del processo». Sul tema incalza con una notazione storica, il passaggio dal Pci al Pds, che «avvenne attraverso due passaggi congressuali: il primo nel quale nacque “la Cosa”, e il secondo dal quale uscirono coloro che non si riconoscevano nel nuovo soggetto. Noi adesso andiamo verso lo scioglimento dei Ds in vista di un partito che ha caratteristiche ancora oscure».
Sul tema congressuale la Angius-Zani rilancia sui propri temi: i tempi del processo costituente («perché come si fa a dire allo Sdi di partecipare ad una fase costituente quando già ci si è avviati su questo cammino, anche prendendo decisioni condivise?»), l’approdo nel Pse, l’azzeramento del manifesto dei valori di Orvieto («bisogna scrivere una cosa nuova»). Dal punto di vista tecnico, Nigra si dice preoccupato dell’istituzione, in questo congresso, della «Commissione modifiche e norme» che lui vede «funzionale allo scioglimento dei Ds». Quello, afferma, «è il luogo dove verranno decise le norme. Norme sulle quali non si continua a fare chiarezza».
Ultimo tema: il congresso va combattuto fino in fondo. Per adesso, quindi, afferma Nigra, «non c’è alcuna intenzione di costituirsi in una corrente». E nemmeno di aprirsi al progetto della maggioranza senza aver fatto cambiare rotta, almeno un po’, al progetto del Pd. «La mozione, dopo il congresso, si riunirà nella prima settimana di maggio per ragionare sugli esiti del congresso Ds. E su quello che c’è da fare», conclude Nigra. e.d.b.

l'Unità 18.4.07
Non mangio quindi «sono»
di Manuela Trinci


L’ANORESSIA colpisce tre milioni di italiani, nel 90 per cento dei casi donne. Non più legati solamente all’età dell’adolescenza, oggi i disturbi dell’alimentazione colpiscono anche i bambini. E sono diverse anche le cause

Il «mal di cibo» colpisce tre milioni di italiani e nel 90% dei casi si tratta di donne. I disturbi dell’alimentazione, secondo i dati degli esperti - illustrati in occasione dell’ultimo Congresso dell’Associazione nazionale dei dietisti - sembrano essere in crescita, con alcuni mutamenti di rotta a sorpresa. Il dato nuovo riguarda l’età: colpite anche le over quaranta - in crisi di fronte al corpo che «cede» e diffidenti verso l’estetica orientale «dell’appassire delle cose» -, mentre tra le giovanissime l’anoressia si arrende alla bulimia (nella fascia 12-25 anni, l’1% delle donne contro 0,5% di quadri anoressici). Sotto accusa il modello dell’alimentazione fast-food, junkfood e take-away. Un modello che oltre a produrre una pericolosa perdita dei «sensi» in cucina, come ha allertato di recente lo psicoanalista Jesper Juul, si scontra con quello della magrezza a tutti i costi.
E se il «disturbo» tra le adolescenti rimane comunque alto (di 3-5 casi ogni mille ragazze), ad ammalarsi di anoressia sono adesso anche i bambini, che già a partire dagli otto anni presentano sintomi quali il vomito autoindotto. Alta pure l’incidenza di ulteriori declinazioni dei disturbi alimentari: dal «disturbo da alimentazione incontrollata» che va dallo 0,7% al 4% nelle fasce di popolazione «non cliniche», ai «disturbi alimentari non altrimenti specificati» che riguardano per il 3-4% le giovani donne.
Lo sbandieramento impudico e generalizzato dei dati sui disturbi alimentari, e in particolare su quelli relativi all’anoressia, fu indicato, tuttavia, agli albori del fenomeno - attorno agli anni ottanta - come un’ ulteriore pressione mediatica che poteva aver favorito la fortuna mondana dell’anoressia.
Le inchieste sulla nuova epidemia del secolo si sono, infatti, accavallate e i bombardamenti di cifre, talora assolutamente inattendibili, si sono susseguiti come bollettini di guerra alternandosi a un prolificare di siti web stracolmi di sfoghi personali, profferte di aspiranti curatori, memorie di ex anoressiche, e ad altrettante confessioni di personaggi pubblici, veri e propri testimonial, che hanno attraversato il loro «tunnel dell’anoressia» presenziando in ogni talk show televisivo e riempiendo le cronache dei tabloid.
Senza minimizzare la pena delle persone che soffrono di disturbi alimentari, né quella dei loro familiari, bisogna tuttavia dare conto dell’amplificazione esasperata, della pressione congiunta, che il «disturbo alimentare» riceve ogni giorno dai mezzi di comunicazione, dalla moda, nonché da un contesto sociale che non riesce più a far diventare adulti i propri figli. Si può allora pensare che quest’insieme esasperante sia anch’esso un sintomo e che svolga un proprio ruolo nella facilità con cui attualmente molte persone che vivono momenti di disagio scelgono questo modo, e non un altro, per manifestarli.
«Meglio essere anoressica che essere nessuno», ha confessato una giovanissima paziente alla sua terapeuta, sintetizzando decenni di studi che dell’anoressia, e del disturbo alimentare più in genere, hanno colto le radici in una penosa inconsistenza dell’«essere».
E diciamo pure che all’unisono, psicoanalisti, dietisti, pediatri, psicologi ecc., hanno visto nella precocità dell’insorgenza di molti disturbi alimentari un derivato dell’ordinaria sregolatezza «del vivere insieme», di una forte carenza, nella famiglia moderna, del senso del limite. Inevitabile conseguenza è stata il vacillare dei punti saldi di riferimento per l’identità: quella garanzia di sicurezza che nasce dal sentirsi amati da qualcuno che sa anche dire di no e sostenere quella giusta dose di conflitto che favorisce poi, nei ragazzi, la maturazione e il distacco psicologico e materiale dai genitori. Bambini, dunque, allevati secondo una mentalità permissiva che insieme alla funzione punitiva, esasperata nelle precedenti generazioni, ha azzerato pure la funzione educativa e protettiva; bambini alla fine lasciati in balia di se stessi: esaltati per le loro risposte intellettuali precoci e forzati ad essere protagonisti delle loro «scelte» e del problema di costruire da soli un argine ai propri impulsi, da quelli aggressivi e distruttivi a quelli alimentari. Da qui, ha osservato la psicoanalista Simona Argentieri nel libro scritto a quattro mani con la giornalista Stefania Rossini (La fatica di crescere. Anoressia e bulimia: i sintomi del malessere di un’epoca confusa, Frassinelli), si originerebbe la risposta fallimentare di un autocontenimento, perpetrato attraverso soluzioni pseudo-autonome che cercano di soddisfare bisogni sempre più illimitati e sempre più ispirati a ideali dell’Io in cerca di effimera bellezza, facili successi e guadagni e che producono generazioni senza «sensi di colpa» ma con grandi «sensi di inadeguatezza».
Non più dunque giovinette diventate scheletriche e inappetenti o grasse e voraci per attirare l’attenzione su di sé, o per intrappolare in una risposta «sistemica» le tensioni familiari, o per far sentire i genitori colpevoli, oppure, come hanno sostenuto gli organicisti ad oltranza, per carenza di serotonina o orexina o di altre disfunzioni ancora. Piuttosto «eroine» che oltre il muro della noia, della rabbia per un corpo che cambia come un trasformer e dell’invidie feroci verso diafane amiche o irraggiungibili top-model, sono alla ricerca di colmare un vuoto di identità, che paradossalmente può essere riempito con un «Io sono anoressica». Con un «sintomo totale», che diviene poi, per chi sia in «ascolto», il segnale di angosce legate al doversi confrontare con le grandi fatiche psicologiche della vita: la fatica di definire la propria identità, la fatica di entrare in rapporto con l’altro, la fatica di scegliere.
Il corpo, nella sua concretezza diviene così un’ulteriore espressione dell’incapacità di «mettere dentro» e di utilizzare le esperienze da parte di generazioni che crescono più sfiorate che penetrate dalla vita.
Il muto linguaggio esistenziale con cui si denuncia la sofferenza oscilla, in maniera povera e ripetitiva, fra chili di troppo, chili perduti, digiuni, abbuffate e il sogno di «apparire» finalmente magra come una biro e piatta come un Cd. E la psico-diagnosi, mentre fissa il disturbo, diviene per assurdo rassicurante, perché riconduce l’ansia di un male oscuro a qualcosa di cui tutti parlano, di «sociale» e quindi soggettivamente deresponsabilizzante.
In tal senso, che lo si ammetta o meno, il «disturbo alimentare» ha compiuto da almeno due decenni il passaggio da problema privato a questione che suscita pathos nell’intera comunità.
Si è parlato di anoressia e bulimia come di malattie sociali tipiche del nostro tempo, perché tipica del nostro tempo «di tristi passioni» è la fede acritica nello stereotipo e nell’omologazione ai modelli dominanti, da quelli educativi a quelli estetici della magrezza. Si sono poi apostrofate come nuovi «disagi della civiltà», interpretate come un rispecchiamento consumistico della compulsione a divorare tutto, e ancora si sono lette come una prova dello svuotamento del mito della bellezza sganciata dalla relazione con gli altri e ridotta a una sorta di gioco autarchico. E ancora si è detto, della anoressia e bulimia, che di fronte a una ricerca semplicistica di causa-effetto, che di volta in volta puntava l’indice contro qualcosa o qualcuno, si doveva piuttosto addivenire alla considerazione di un rapporto dialettico fra i vari elementi in campo, e che di fronte a un eccesso di psicologizzazione e diagnosi sommarie, tali nuovi flagelli potevano venire affrontati anche per vie indirette, sociali e politiche, senza con questo perdersi in una passiva attesa di «salvezza».
Stabilito che a tutt’oggi nessuno per quanto sia Ministro della Salute o della Famiglia può, o tanto meno deve, trasformarsi in sceriffo e affrontare gli errori dei rapporti in famiglia, o impedire l’accesso negli outlet ai bebé in carrozzina, o l’acquisto di babies-tutine griffate e altro (perché il buon dì si vede dal mattino!). Dal mondo della politica e delle istituzioni governative possono invece arrivare segnali positivi e sobri modelli. Segnali che facciano sentire alla gente un interesse autentico, una presenza impegnata nonché la fiducia che «lavorando, cambiare si può». Il manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l’anoressia (proposto e siglato nel dicembre 2006 da Giovanna Melandri, Ministro per le Politiche giovanili, e ora ampiamente raccontato - a partire dai postulati scientifici dei quali si basa fin nei suoi divertenti retroscena - nel libro Come un chiodo. Le ragazze, la moda, l’alimentazione, Donzelli) segnala una volutamente parziale eppure significativa azione politica di contrasto e di assunzione di responsabilità sociale verso i giovani. Si tratta di una carta di valori, concreti e simbolici, di una promozione di modelli culturali positivi, di un’idea di bellezza diversificata, mediterranea, sana. Ma, pure in questo caso, è soprattutto il modello che conta: una giovane donna, un Ministro alle prese con altre donne, esperti, imprenditori. Una donna che contrasta decisa le tendenze e che si muove sapendo anche dire di NO. E la speranza è che anche loro, i giovani, imparino a dire di NO, ai genitori, certo, ma anche alla televisione, alla moda, al conformismo piatto e omologante. Nel capitolo terzo del Critone platonico, Socrate rivolge una domanda al suo antagonista: «e che, o Critone, dovremmo seguire i saggi o i molti?» La risposta è scontata.

l'Unità 18.4.07
Un altro parroco indagato per abusi sessuali
Dopo il caso di don Lelio Cantini, accusato di violenze da alcuni suoi ex fedeli, la procura di Arezzo sta indagando su un ex francescano che guida una casa di accoglienza per minori
di Osvaldo Sabato


La tegola sulla curia aretina giunge proprio mentre il vescovo Eugenio Binini è a Roma insieme agli altri vescovi toscani per la visita “ad limina” a Benedetto XVI. Ecco perché, fanno sapere dalla curia, non ci sarà nessun commento ufficiale fino al suo rientro ad Arezzo, previsto per sabato. Intanto, fonti informali della diocesi aretina fanno sapere che il vescovo è già stato informato su tutta la vicenda «ma la sta seguendo in maniera non diretta» per gli impegni in Vaticano. Come è prevedibile in questi casi la cautela è d’obbligo. Ma il clamore suscitato dalla perquisizione in una casa di accoglienza per minori e l’avviso di garanzia della procura ad parroco aretino, un ex frate francescano, per presunti abusi sessuali, fa discutere. Questa vicenda giunge a ridosso di quella di don Lelio Cantini, anche lui indagato dalla procura, per violenze sessuali e costrizioni psicofisiche consumate in una parrocchia di Firenze. Accuse che erano state confermate anche dall’arcivescovo Ennio Antonelli. Ora scoppia quest’altro caso ad Arezzo. La polizia è piombata all’alba nella comunità di recupero per minori e su mandato del pm Ersilia Spena ha perquisito lo stabile e sequestrato il pc del sacerdote. In attesa degli sviluppi, la diocesi, prende le distanze, e sottolinea che tutto ciò che la procura contesta sarebbe avvenuto non dentro la parrocchia ma in una struttura che non è collegata con la curia. I reati contestati sono molto gravi e vanno dalla violenza sessuale, all’abuso di metodi correzionali, maltrattamento, falso e lesioni. A differenza dell’ex abate di Farneta, don Pierangelo Bertagna, che nell’estate del 2005 confesso ben trentotto episodi di violenza, questo parroco nega tutto e si dichiara tranquillo «sono assolutamente innocente» dichiara ad un giornale aretino. Nell’inchiesta è coinvolta anche la madre. Naturalmente ora spetta alla magistratura fare luce su questa vicenda. Ma il parroco non ci sta e passa al contrattacco e parla di «risentimento» nei suoi confronti. Da parte di chi? Sarà la procura, eventualmente a dirlo.

il Riformista 18.4.07
Sorpresa: niente Repubblica al gala del figlioccio
di Fabrizio d’Esposito


La battuta più efficace arriva mentre sta parlando Paolo Serventi Longhi, segretario della Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti. Serventi Longhi sta rivolgendo un appello ai leader politici amici della tessera numero uno del futuro Partito democratico. In pratica un messaggio diretto a Walter Veltroni e Francesco Rutelli: «Perché non chiedono a Carlo De Benedetti e a suo figlio Rodolfo se la situazione di Repubblica e dell’intero gruppo Espresso non vìola e mortifica il manifesto del Pd laddove parla di democrazia nei luoghi di lavoro, corrette relazioni sindacali e partecipazione attiva dei lavoratori?». A quel punto dal fondo della saletta si alza una voce che corregge il segretario della Fnsi: «Perché invece non gli chiedono di restituire la tessera numero uno?». Piano meno uno della sede di Repubblica al civico novanta di via Cristoforo Colombo. Il comitato di redazione del quotidiano di Ezio Mauro ha convocato una conferenza stampa per spiegare le ragioni dello sciopero di sette giorni indetto lunedì scorso. E cioè la decisione della proprietà, il gruppo editoriale L’Espresso spa presieduto dall’Ingegnere, di non concedere sostituzioni per malattie lunghe (infortuni, tumori e maternità a rischio).
Al di là però del motivo specifico, così come già accaduto a dicembre quando dalle tredicesime furono decurtati i giorni di sciopero per il contratto nazionale, la protesta del principale giornale-partito italiano assume una forte valenza politica. Primo perché lo sciopero cade in un grande momento di svolta segnato dai congressi di Ds e Margherita che sanciranno la nascita del Pd, di cui il quotidiano di via Cristoforo Colombo può considerarsi il padre putativo. Poi perché lo scontro tra l’azienda della tessera numero uno del Pd e le redazioni del suo gruppo (in difficoltà non ci sono solo i giornalisti di Repubblica) è ormai così forte e visibile da essere diventato un caso imbarazzante e delicato per i vertici di Quercia e Margherita.
Come riassume bene un autorevole deputato ds: «In questo scontro noi stiamo dalla parte dei giornalisti, ma il problema è che non si può parlare male di De Benedetti. Guai a farlo. Chi di noi si è esposto in tal senso si è preso una bella ramanzina da Fassino». Dice, invece, a microfoni aperti, Roberto Cuillo, responsabile informazione dei Ds e fedelissimo del segretario: «Noi abbiamo solidarizzato più volte con la redazione di Repubblica, dove da tempo è in corso una vertenza aspra e lunga con l’editore. Ma lo sciopero durante i due congressi rischia di fare male più a noi che a De Benedetti». Sulla stessa linea anche il rutelliano Renzo Lusetti, omologo di Cuillo nella Margherita: «Questo sciopero ci mette in seria difficoltà nel corso di un passaggio epocale, storico. Ai giornalisti, cui pure abbiamo manifestato la nostra solidarietà, chiediamo di differire lo sciopero». Ma difficilmente la richiesta dei due partiti fondatori della nuova creatura politica sarà accolta dall’assemblea dei redattori del quotidiano di Mauro. Ieri, infatti, durante la conferenza stampa i giornalisti di Repubblica non solo hanno confermato l’intenzione di non mollare («Non cederemo mai sulla dignità del nostro lavoro») ma per la prima volta hanno anche steso sotto gli occhi di tutti i panni sporchi di famiglia. In questo senso, l’intervento più appassionato e chiaro è stato quello di Mauro Piccoli, uno dei veterani del giornale.
Piccoli ha rivolto a Carlo De Benedetti tre domande devastanti. La prima sulle voci che riferiscono di un scontro violento tra l’Ingegnere e suo figlio Rodolfo, supportato dall’amministratore delegato Marco Benedetto, intorno alle strategie editoriali della famiglia. In pratica l’asse RDB-Benedetto vorrebbe tagliare e vendere per concentrarsi su altri interessi (Alitalia, energia elettrica, autostrade). Ecco quindi Piccoli: «Questo giornale, negli ultimi due anni, è tornato in testa alle classifiche di vendita, superando il Corriere della Sera, e vanta un bilancio ampiamente in attivo. Tutto ciò è stato raggiunto da questa direzione e da questa redazione. E allora mi chiedo se sia giusto tenere così a stecchetto la redazione. O forse dobbiamo ritenere vero quello che si sussurra nei corridoi e cioè che c’è un contrasto nella famiglia De Benedetti dove c’è chi il giornale lo vuole vendere?». La seconda questione è molto scivolosa, perché riguarda il rifiuto della proprietà di aderire alla sottoscrizione lanciata da Mauro a favore delle famiglie dell’autista e dell’interprete afghani di Daniele Mastrogiacomo, uccisi dai talebani durante e dopo il sequestro dell’inviato di Repubblica: «Per la sottoscrizione l’azienda non ha messo una lira. A precisa richiesta ha detto no, ufficialmente per tutelare i giornalisti da possibili ritorsioni. Mi chiedo se dietro non ci sia dell’altro come la sconfessione della linea tenuta da Ezio Mauro nella vicenda Mastrogiacomo. Forse l’azienda vuole abbreviargli la proroga del mandato di cinque anni, visto che Mauro non è un direttore da tagli e da multimedialità selvaggia?». Infine una richiesta esplicita di dimissioni al falco Benedetto, l’ad del gruppo: «Quando a dicembre facemmo due giorni di sciopero contro i tagli alle tredicesime, vincemmo poi la battaglia e in quell’occasione si vociferò di una minaccia di dimissioni da parte dell’amministratore delegato. E, chiedo, se viene sconfessato ancora una volta, non riterrà opportuno doversi dimettere?».
Insomma, un clima da guerra, in cui il direttore Mauro, dicono anonimamente alcuni giornalisti, sarebbe schierato con la redazione (ma dall’azienda fanno sapere in maniera ufficiosa che il direttore è «allineato perfettamente») e il fondatore Scalfari con la proprietà. Come che sia, la tribù di Repubblica non seguirà i due congressi storici di Ds e Margherita. Meglio, una pattuglia di cronisti sarà presente. Ma per chiedere ai vertici del futuro Pd se il loro editore è degno della tessera numero uno, non per scrivere.

Corriere della Sera 18.4.07
Suicidi e Aids, i «matti» dimenticati di Aversa


AVERSA (Caserta) — Nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa ci sono stati tre suicidi e due morti per Aids solo negli ultimi mesi.
Nella vecchia struttura, che risale al 1876 e «ospita» 300 persone invece delle 170 previste in base alla capienza, le storie di disperazione sono quotidiane. E secondo il direttore Adolfo Ferraro, si può stimare che il 60% dei detenuti potrebbe uscire se ci fossero strutture adatte a curarli. Ma le Asl non possono o non vogliono occuparsene, anche per una questione di costi.

AVERSA (Caserta) — Il letto dove dormiva Salvatore è una delle sei brandine gialle nella cella in fondo al corridoio al primo piano della staccata. Ora non ci dorme nessuno, non c'è più nemmeno il materasso. Qualche giorno fa Salvatore a quella brandina ci ha annodato un pezzo di lenzuolo, quando ha deciso di uscirsene da qui a piedi avanti. E ci è riuscito. Perché non è vero che quando uno si impicca è la forza di gravità che fa stringere il nodo scorsoio e spezzare l'osso del collo. Può essere pure la forza di volontà. Salvatore quella forza l'ha avuta. Un capo del lenzuolo annodato alla branda, l'altro alla gola. E poi un tuffo in avanti. Solo che così non finisce in un attimo. Ci vuole tempo per morire in questo modo. Salvatore respirava ancora quando i sorveglianti lo hanno visto e hanno aperto la porta della cella.
Era pazzo Salvatore. Pazzo criminale. È inutile cercare altre parole quando la vita di quelli come lui è lasciata scorrere senza speranza in un posto che si chiama ospedale — ospedale psichiatrico giudiziario — ma che alla fine non è diverso da un manicomio. Salvatore era uno dei trecento reclusi dell'Opg di Aversa — che ne potrebbe ospitare al massimo 170 — dove negli ultimi mesi ci sono stati tre suicidi e due morti per Aids. La sezione dove stava lui la chiamano la staccata, perché è separata dal resto dell'istituto e ci stanno quelli messi peggio. L'ultima stanza dell'ultimo piano è anche l'ultimo stadio dell'incubo: due metri per quattro con tre letti uno accanto all'altro. Letti speciali, ai lati i ganci per le cinghie, al centro un buco. Chi perde il controllo e non si calma nemmeno con i farmaci finisce là sopra. Resta immobilizzato finché il medico non dà l'ok a tirarlo giù. Se gli scoppia la pancia la fa attraverso quel buco, se ha un dolore alla schiena o un prurito sulla fronte se li tiene.
Il deputato di Rifondazione Francesco Caruso viene spesso a vedere come vanno le cose qui dentro. Ha fatto interpellanze al Guardasigilli Clemente Mastella, sta cercando di portare la commissione Affari sociali a fare ispezioni ad Aversa e negli altri cinque ospedali come questo che esistono in Italia, punta a una legge che chiuda definitivamente gli Opg.
Accompagnarlo significa passarsi in rassegna la stanza dove è morto Salvatore e la staccata egli altri reparti e l'infermeria, e spulciare il registro dove sono annotate le contenzioni. L'ultima è toccata a Giampiero, che ha tentato di ammazzarsi quando ha capito che la ragazza di cui è innamorato non avrebbe mai risposto alle sue lettere. Lo hanno tenuto lì un paio di giorni. Adesso ne parla quasi come se non ci fosse stato lui legato su quel letto infame: «E che dovevano fare? Non mi calmavo con niente. Ora no, ora sto meglio, ora sono tranquillo». Gli trema appena la palpebra, mentre racconta, ma è normale. Non è mica davvero tranquillo, Giampiero. Non lo è lui e non lo sono gli altri reclusi. Solo che la maggior parte non sono nemmeno più socialmente pericolosi. Su negli uffici è pieno di relazioni positive firmate dagli psichiatri del centro. Il direttore Adolfo Ferraro ha quantificato nel 60 per cento dei detenuti quelli che potrebbero uscire se ci fossero fuori strutture adatte ad accoglierli e curarli. Ma le Asl non sono in grado di occuparsene, oppure non vogliono. E comunque un recluso in Opg costa 600 euro all'anno, fuori ne costerebbe circa ventimila. E così pure a pena scontata, spesso al giudice di sorveglianza non resta altro che applicare la proroga della reclusione. Lo chiamano ergastolo bianco, nessuno sa quando finirà.
Alla staccata c'è uno che si chiama Luigi, ha una quarantina d'anni, lo chiusero qui che era giovanissimo perché al suo paese dava fastidio alle ragazze e menava i ragazzi. Non se ne è mai più andato. Non si ricorda nemmeno più quale era il suo paese e non sa quanto tempo ha passato qui dentro. Il suo compagno di cella, un toscano che prima di arrivare ad Aversa ha girato una decina di carceri e un paio di Opg, lo tratta come un fratello, una volta se l'è portato pure fuori in permesso. Luigi non chiede quando uscirà un'altra volta, non chiede se uscirà mai. Chiede solo le sigarette, è capace di consumarne una con quattro o cinque boccate. Fuma e basta, Luigi.
Peppino invece no, lui vuole andarsene. Ha 42 anni e ne dimostra almeno dieci in più. Indossa un vestito grigio con il panciotto e le scarpe bianche. Corre in cella a prendere la sentenza di proroga della detenzione e se la rigira tra le mani. Dice: «Io a Roma ho la mia casa, le mie cose, il mio lavoro. Ho pure un poco di soldini in banca». Chissà che troverebbe di tutto questo, se ci tornasse davvero a Roma. Sta qui da tredici anni, da quando lo presero ubriaco mentre faceva a pezzi un telefono della stazione Termini. Tredici anni per un danneggiamento.
Rinaldo invece ha ucciso, ma adesso ha 81 anni e vorrebbe andarsene a morire a casa sua a Frosinone. È l'unico che sta in cella da solo, «perché qui sono tutti pazzi e scemi e io con i pazzi e gli scemi non ci voglio stare». Poi va a prendere una sagoma di cartone a forma di violino e dice: «Vedi, sono un liutaio, mica sono uno qualsiasi, io».
Ognuno in questo manicomio ha a suo modo una storia straordinaria da raccontare. Storie di assassini disperati, ladri disperati, rissaioli disperati. Comunque storie di disperati. E nel momento del passeggio nel cortile della staccata —un posto che trent'anni fa chiamavano «lo zoo» — quelle storie ti assalgono tutte insieme. Giuseppe chiede aiuto perché ha un avvocato che si è dimenticato di lui, Anselmo perché «a me mi ha condannato un giudice russo, ma io non ce l'ho con la Russia», Giovanni perché vuole andare in comunità e perché non ha nemmeno le scarpe e nessun parente e nessun dente e non si capisce neanche tanto bene quello che dice. Poi però sì, che si capisce: «Peggio delle bestie», ripete ossessivamente, e si comprende anche perché dica così. «Peggio delle bestie», insiste Giovanni, e si avvia di corsa verso i gabinetti in fondo al cortile. Ecco che intendeva: cumuli di feci sul pavimento, piscio dappertutto, mosche, una puzza che manco a dirlo. Toglie l'unica illusione Giovanni, con quella sua voce che si perde nel naso e nella bocca vuota. Sembrava almeno un posto pulito l'Opg di Aversa. Invece fa pure schifo.

Corriere della Sera 18.4.07
Lo psichiatra. «Sono strutture da abolire Le Asl si occupino dei malati»


Franco Rotelli: spesso finiscono dentro per reati insignificanti, e ci restano per sempre

MILANO — Franco Rotelli fa lo psichiatra; la sua carriera è iniziata nel 1971, a Castiglione delle Stiviere, Mantova. Uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (ma si chiamavano ancora manicomi criminali) attivi in Italia. E prima di diventare direttore generale della Azienda per i servizi sanitari n˚ 1, a Trieste, ha passato pure tre anni ad Aversa, dal 2001 al 2004, come direttore dell'Ass Caserta 2. E prima ancora, è stato tra i collaboratori di Franco Basaglia, il padre della 180/1978, la legge che chiuse i manicomi. Ma non gli Opg. «E la questione, oggi, non è tanto Aversa. Il problema sono queste strutture, che è da 40 anni che chiediamo di abolire e da 40 anni nessuno lo fa».
Questione (anche) di costi, si dice.
«Certo, negli ultimi tempi le condizioni degli Opg, che dipendono dal ministero della Giustizia, sono peggiorate. Ma qualche soldo in più non basta: sono una realtà inaccettabile, dal punto di vista scientifico e culturale».
Ci sono 1.200 reclusi, dentro quei sei centri.
«E proprio qui sta il punto: chi sono queste persone? Spesso finiscono negli Opg per reati insignificanti, e ci finiscono per sempre. C'è una politica senza senso, un paziente di Bolzano viene mandato ad Aversa, un siciliano a Reggio Emilia, in una logica che li separa dalle famiglie, da un dipartimento di salute mentale che se ne occupi».
Ma i dipartimenti saprebbero farsene carico?
«I dipartimenti di salute mentale delle Asl continuano a essere strutture poco efficienti e organizzate. Se il paziente è di Milano, il dipartimento locale dovrebbe andare a trovarlo, tirarlo fuori il prima possibile, occuparsi del suo reinserimento. Le Regioni e le Asl dovrebbero occuparsi dei propri cittadini, anche quando sono "lì dentro"».
E la magistratura, che dice?
«Ad Aversa abbiamo "tirato fuori" vari pazienti, e il magistrato ha approvato; li dimettono volentieri, a patto di un'assunzione di responsabilità. Se così fosse, di quei 1.200 reclusi ne resterebbe un decimo. Il malato di mente è prosciolto dal reato; e allora, a occuparsene dev'essere il Sistema sanitario nazionale, le Asl».
Che fare degli Opg, quindi?
«Un carcere fatto bene non è molto meglio di un carcere fatto male; e se del carcere, purtroppo, non è immaginabile fare a meno, degli Opg si può. Il ministero della Sanità faccia un tavolo con le Regioni, chieda di che cosa hanno bisogno per assistere queste persone. Altrimenti tra dieci anni parleremo ancora di suicidi. La risposta non è una mano di bianco. E neanche la piscina dell'Opg di Castiglione delle Stiviere».

Corriere della Sera 18.4.07
Lustracja e omofobia, le crociate del governo
Gli insegnanti gay fuori dalle scuole. Scaduti i termini per confessare l'appartenenza al regime. I provveditorati «schedano» le ragazze incinte
di Sandro Scabello


VARSAVIA — Dopo aver ordinato ai provveditorati di eseguire il censimento «a fini statistici» delle ragazze incinte nelle scuole e di essersi battuto per inserire nella costituzione la messa al bando — bocciata in parlamento — dell'aborto, l'ultracattolico ed omofobo ministro dell'istruzione Roman Gyertich scende in guerra contro gli omosessuali. Se passerà la legge che approderà presto alle aule parlamentari, gli insegnanti che confesseranno di essere gay o «qualsiasi altra deviazione sessuale» rischiano una dura sanzione, il licenziamento o addirittura la prigione.
Vicepremier, Gyertich è il leader della Lega delle famiglie polacche, una formazione ultranazionalista e xenofoba, in rovinosa caduta di consensi, che Jaroslaw Kaczynski mantiene nell'esecutivo, assieme al populista Lepper, perché non ha altri alleati con cui governare. Il padre, Maciej, europarlamentare, ha pubblicato un pamphlet antisemita che ha scatenato una paio di mesi fa le ire di Bruxelles. La Lega ha lanciato la sua crociata morale: evangelizzare l'Europa a colpi d'intolleranza. Il suo braccio giovanile, la Gioventù Polacca, quando scende in piazza urla: «Eutanasia per i gay, camere a gas per le lesbiche». Il bello è che Gyertich, quando incontra i colleghi europei, chiede comprensione e solidarietà per le sue iniziative. Lo ha fatto anche per il nuovo progetto che vieta ogni discussione e propaganda dell'omosessualità nelle scuole, condannato aspramente dalle organizzazioni internazionali dei diritti umani. Un'ennesimo atto di discriminazione, che va ad integrare la lustracja (verifica del passato comunista) in corso in Polonia. Ieri, domenica 15 aprile, sono scaduti i termini per la consegna dei formulari a docenti universitari, avvocati, giornalisti, diplomatici, presidi nati prima del 1972, in cui si dovrà dichiarare, entro il 15 maggio, se si è collaborato o meno col vecchio regime comunista. Chi ammetterà di aver lavorato per la polizia segreta non dovrebbe subire conseguenze, mentre è previsto il licenziamento e la sospensione dalla professione per dieci anni per coloro che forniranno informazioni non veritiere o risponderanno picche alla richiesta del governo.
Il mondo dei media è in fermento, le redazioni divise. I quotidiani vicini al governo — Rzeczpospolita, Dziennik, Fakt — sono a favore della lustracja e accusano quanti si oppongono o hanno deciso di boicottarla di «avere qualcosa da nascondere». Il sospetto è che la manovra punti a mettere il bavaglio ai media ostili al governo, soprattutto
Gazeta Wyborcza, il maggior quotidiano del paese, e la rete televisiva
TVN-24 che molti preferiscono all'imbalsamata televisione di stato.
Gazeta, diretta dall'ex dissidente Adam Michnik, ha sempre avuto un atteggiamento fortemente critico nei confronti della lustracja, tranne i casi di persone che si sono macchiate di gravi colpe e reati, ed è divenuta il fulcro della resistenza ad una misura che, secondo l'opposizione, si è trasformata in uno strumento di lotta politica.
Ewa Milewicz, opinionista di Gazeta, con alle spalle una lunga militanza nell'opposizione anticomunista, rispedirà al mittente il modulo: «Questa legge è una caricatura. Perché lo stato deve chiedermi se ho ucciso o rubato? Spetta a lui trovare le prove. E poi nessuno può proibire a una persona di scrivere».
È difficile immaginare che Ewa Milewicz e i giornalisti disobbedienti vengano licenziati dai loro editori. Già i rettori delle principali università del paese hanno fatto sapere che non metteranno alla porta i docenti che non si adegueranno alla direttiva. È una situazione a dir poco assurda per un paese su sui è abbattuta per mezzo secolo la mannaia della censura e a cui potrebbe porre rimedio, sono in molti ad augurarselo, la Corte costituzionale che si pronuncerà nelle prossime settimane sulla costituzionalità della legge.

martedì 17 aprile 2007

Corriere della Sera 17.4.07
L'addio il 5 maggio con la nascita dei gruppi parlamentari autonomi
«Parla Mussi e poi fuori» La sinistra ds annuncia lo «strappo» di Firenze
di Roberto Zuccolini


ROMA — La settimana decisiva per la nascita del Partito Democratico parte con la Margherita che naviga in acque relativamente tranquille, verso un congresso in gran parte già scritto. Mentre i Ds, a tre giorni da Firenze, sono in continua fibrillazione. Ovviamente soprattutto per la sinistra del partito che ieri, in una sofferta riunione, ha ufficializzato lo «strappo»: darà il suo addio alla Quercia venerdì, dopo l'intervento di Fabio Mussi, come spiega lo stesso leader del Correntone che proprio quel giorno compirà 58 anni: «Parlerò solo io: spiegherò pacatamente le ragioni per cui non posso condividere il percorso verso il Pd e quello che tenterò di fare per unire la sinistra». Concedendo ai suoi, una citazione di Adriano Sofri al secondo congresso di Lotta Continua, quello che segnò il suo progressivo scioglimento: «Il nuovo movimento non ha alternative perché stare nel Partito Democratico, facendone la sinistra sarebbe come condannarsi a vivere nel terremoto».
Per correttezza il Correntone non entrerà nelle commissioni congressuali: assisterà soltanto.
Ma l'addio vero e proprio avverrà qualche settimana dopo, intorno al 5 maggio, quando con una manifestazione a Roma verrà lanciato il nuovo Movimento per la Sinistra e partiranno i gruppi parlamentari autonomi.
Ma nella riunione della sinistra diessina c'è anche chi, pur continuando a criticare in modo convinto il progetto del Partito Democratico ha già deciso di restare o, quantomeno, di non andarsene via subito. Primo fra tutti Vincenzo Vita, ex portavoce dello stesso Correntone e attualmente assessore alla Cultura della Provincia di Roma: «Continuerò a stare nella sinistra, ma vedo incerta la prospettiva che si apre con la scissione: mi sembra un'accelerazione eccessiva. Credo inoltre che si possa ancora incidere sulla formazione del Pd». In altre parole, per il momento resterà. E dagli umori che si registrano nella sinistra diessina anche altri potrebbero seguire il suo esempio, da Valerio Calzolaio ad alcuni delegati della Lombardia. La linea definitiva dell'area verrà comunque stabilita nell'assemblea dei delegati della mozione Mussi che si terrà domani sera a Firenze, poche ore prima dell'inizio del congresso.(...)

Corriere della Sera 17.4.07
Commemorazione con Fiore (Forza Nuova)
Veltroni: fratelli Mattei, un muro per le vittime di destra e sinistra
di Alessandro Capponi


ROMA — Un muro per unire: sopra, i nomi delle vittime degli anni di piombo, morti di destra e di sinistra ma adesso, semplicemente, ragazzi morti. Walter Veltroni lo annuncia in un luogo di destra, con parenti di vittime di destra, con politici di destra che possono solo applaudire. Al bar poco distante, quando il sindaco esce e va via, un uomo corpulento in t-shirt celestina dice che « Warterino s'è alleato coi fascisti ». Ma non è così, forse è di più.
Un muro, ecco, un muro per «fermare l'odio» che è degli anni Settanta ma poi «guai a considerarlo estirpato per sempre»: Veltroni parla con uno striscione alle spalle, e proprio sopra la testa ha questo simbolo stilizzato, un rombo con al centro la fiamma tricolore del Msi. È il trentaquattresimo anniversario del rogo di Primavalle, oggi, quei due fratelli bruciati, uno di otto anni, un bambino, e l'altro invece, di ventidue, fotografato così, in bianco e nero, affacciato alla finestra e già carbonizzato: adesso l'associazione «fratelli Mattei» - morti nell'incendio del 1973 provocato dai tre di Potere operaio, Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo - oggi, dunque, l'associazione fondata da uno dei familiari sopravvissuti, Giampaolo, ha in zona Marconi una sede donata dal Campidoglio.
«Due stanze per parlare al Paese intero».
Veltroni annuncia di voler creare a Roma «un muro sul quale scrivere i nomi di tutte le vittime di quegli anni folli e terribili, ragazzi uccisi perché leggevano un giornale di partito, uccisi per un motivo che è difficile spiegare ai nostri figli». In piedi, poco distante, c'è Roberto Fiore di Forza Nuova, seduto in platea ecco Gianni Alemanno, di An: «Questo luogo è un monito. Può sembrare un atto dovuto del Comune, ma è un gesto importante». La destra, qui, è a casa. Eppure Giampaolo, il sopravvissuto, ha gratitudine quasi solo per Veltroni: lo bacia, gli stringe la mano (nella foto), parla di «un politico che, lui sì, ha dimostrato rispetto». Veltroni aveva «preparato un discorso che però, adesso, non ce la faccio a leggere»: e allora va a braccio, racconta di quegli anni che «ricordo con spavento» e che «vorrei riuscire a cancellare dalla percezione che si ha del passato, perché sono stati anni folli, una guerra, con gli italiani schierati gli uni contro gli altri»; anni nei quali «i nostri ragazzi potevano venire picchiati, bastonati, bruciati vivi. Ecco, quello che è accaduto non deve più accadere». Così nasce l'idea del muro con, insieme, i nomi delle vittime di quegli anni. «Ma non un muro che riconcili, non c'è niente da riconciliare: dobbiamo solo riconoscerci, e rispettarci». Sembrerebbe così facile, così giusto, così nobile. Due ore dopo, ecco altre parole. Sono del segretario romano di Prc, il deputato Massimiliano Smeriglio: «Esprimiamo delle perplessità per la presenza del sindaco nella sede di un'associazione nella quale, oltre ai militanti di Forza Nuova, spicca il quadro con il profilo di Benito Mussolini...». E Roberto Fiore, che alla fine saluta Veltroni con un glaciale «buonasera»: «Belle parole quelle del sindaco, ma se non chiude i rubinetti ai centri sociali...». Un muro per unire, si diceva: il problema, forse, non sarà costruirlo, ma tenerlo in piedi.

Corriere della Sera 17.4.07
A Viva radiodue. Il presidente della Camera ospite di Fiorello che gli fa leggere il testo della canzone azzurra spacciandolo per una poesia
Bertinotti recita l'inno di Silvio e premia Veronica


MILANO — «La "Coppa Marx"? In fondo è un dispettuccio a Berlusconi: la assegnerei a Veronica Lario». Un bel match quello che ieri ha impegnato Fausto Bertinotti, ospite di Fiorello a Viva Radio2: attribuire il trofeo al «personaggio più comunista». E il presidente della Camera è stato al gioco. Prima della finale vinta dalla moglie del leader della Casa delle Libertà su Valeria Marini, Bertinotti si è dovuto esprimere su altri nomi. Il gioco della premiata coppia Fiorello & Baldini prevedeva l'eliminazione diretta tra personaggi. Così l'ex segretario di Rifondazione, non senza ritrosia («Marx mi impicca, mi disereda), ha definito addirittura Silvio Berlusconi più comunista di Confalonieri perché questi «detiene l'azienda» e Giulio Tremonti come più rosso di Sandro Bondi e Lele Mora. Francesco Totti ha vinto su Valentino Rossi mentre Bruno Vespa su Emilio Fede. Un po' di diplomatica esitazione, invece, di fronte alla scelta tra Benedetto XVI e il cardinale Ruini: «Non posso pronunciarmi, se do del comunista al Papa cosa mi succede? — ha commentato Bertinotti —. Ma poiché il comunismo è un'idea alta e più alto del Papa non c'è nulla, scelgo Ratzinger». Però tra Lady Veronica e il Papa l'ha spuntata la prima: «Siccome nelle gerarchie ecclesiastiche le donne sono poco premiate...».
Mezz'ora ai microfoni di Viva Radio2 tra scherzi e riflessioni serie sulla politica («un'idea attraverso cui si può aiutare chi sta male a stare meglio, un'idea di liberazione degli uomini da tutte le forme di oppressione e un'emancipazione di me medesimo») con un Fiorello ormai abituato ai politici ospiti in trasmissione. Del resto lo scorso anno aveva anche ricevuto la telefonata del vero Smemorato di Cologno, cioè l'ex premier Silvio Berlusconi, e dell'allora sfidante Romano Prodi ma anche dell'ex capo dello Stato Ciampi, «ospite» fisso della trasmissione radiofonica nell'imitazione di Fiorello, che ora invece fa Giorgio Napolitano dal Quirinale. L'esordio della puntata è dei più tradizionali, con i due conduttori che danno del Presidente a Bertinotti e gli chiedono cosa fa la terza carica dello Stato: «Presidente sarà lei — è la risposta scherzosa —. Suona la campanella, quello è fondamentale, il resto è sussidiario».
Quindi il primo gioco, un'intervista con risposta obbligata, sì o no, su personaggi e situazioni. Il presidente della Camera dice no a Putin, sì ad Ancelotti, sì ai cinesi «perché sono tanti», sì a Enzo Biagi in tv («lo rispetto»), no alla tv delle veline, alla moviola in campo (meglio metterla a Montecitorio: «magari si anima»), no a Berlusconi-statista ma sì a Berlusconi-presidente del Milan, no a Mike Bongiorno senatore a vita e no al tatuaggio di Che Guevara. Sì all'euro «purché ci siano alti salari», sì — pronunciato con entusiasmo — alla Juve in B, sì a Porta a Porta, sì «all'ora delle religioni», sì ai matrimoni gay. E sì anche ai fischi alla Sapienza «perché sono fisiologici: se uno si prende gli applausi deve prendersi anche i fischi. Ma erano pochi...»; sì ai benefit per i parlamentari «purché legati alle funzioni che svolgono», sì alla play station, sì a Emilio Fede sul satellite: «Per quale ragione — gioca — dovremmo toglierglielo?». No al calendario di Stefania Prestigiacomo («non ne sento il bisogno»). Infine la domanda più sibillina: Berlusconi come Berlusconi? «È troppo criptica questa domanda — svicola il presidente della Camera —. Qualunque cosa dicessi, potrei sbagliare. Mi avvalgo del famoso comandamento...». «Emendamento» lo corregge Fiorello.
Ma le forche caudine non sono ancora superate. Ad attendere Bertinotti c'è un tranello: gli fanno declamare l'inno di Forza Italia spacciandolo come un'antica poesia intitolata all'Italia. Di fronte alla verità, prima lo stupore poi la battuta dell'ex segretario di Rifondazione: «Quanti in studio se ne erano accorti? Se invece avessi letto Bandiera Rossa... Comunque, una volta tolta la parola "Forza", ci teniamo l'Italia...».
Francesca Basso

Corriere della Sera 17.4.07
Nel Gennaio 2001
Gli 007 francesi avvertirono la Cia prima della strage alle Torri Gemelle
di Guido Olimpio


È il gennaio 2001. Alcuni informatori della Dgse, il servizio segreto francese, raccolgono notizie su un piano terroristico contro gli Usa: Al Qaeda vuole dirottare aerei appartenenti a compagnie statunitensi. La segnalazione — con data 5 gennaio — viene subito girata al capo stazione Cia a Parigi, Bill Murray. Ma l'allarme non porta a contromisure e il complotto va avanti.
A rivelare l'esistenza della nota confidenziale il quotidiano Le Monde,
che descrive in modo minuzioso un dossier di 328 pagine redatto dagli 007 francesi tra il luglio 2000 e l'ottobre 2001. La storia dell'allerta dato da Parigi non è inedita, ma il giornale aggiunge dettagli importanti, sostenuti da conferme dirette dei funzionari di Parigi. Nessuna risposta, invece, dalla Cia.
La «spy story» prende le mosse in Afghanistan. I servizi francesi, con pazienza e grande conoscenza del fenomeno integralista, costruiscono una rete di informatori. Da una parte «lavorano» sugli islamisti che dall'Europa vanno ad addestrarsi nei campi di Al Qaeda e riescono probabilmente a infiltrare diverse talpe. Dall'altra hanno una fonte importante legata al signore della guerra Abdul Rashid Dostum. Uomo spietato, avversario dei talebani, il generale usa le sue origini uzbeke per infiltrare il Movimento Islamico Uzbeko, alleato di Osama. Ed è questa pista a rivelarsi fruttuosa. Le spie raccolgono informazioni su un possibile piano terroristico e le comunicano all'intelligence dell'Uzbekistan, che a sua volta avverte i francesi.
Nei documenti della Dgse si precisa che i terroristi parlano di dirottamento aereo ma sono divisi su quali tattiche impiegare: «Secondo i servizi di informazioni uzbeki, il piano è stato discusso all'inizio del 2000 durante una riunione a Kabul tra rappresentanti dell'organizzazione di Bin Laden». I terroristi considerano l'ipotesi di impadronirsi di un aereo in servizio tra Francoforte e gli Stati Uniti, elencano sette compagnie americane come possibili obiettivi. Ci sono anche l'American Airlines e la United Airlines, scelte dai pirati dell'aria dell'11 settembre.
Commentando oggi quella nota d'allarme, i funzionari francesi ammettono che non c'era alcun elemento che facesse pensare alla tattica poi usata contro le Torri Gemelle. All'epoca il dirottamento di un jet significava imporre un lungo ricatto, con l'aereo fermo sulla pista e i pirati a dettare condizioni. Certamente la segnalazione giunta da Parigi avrebbe dovuto mettere in guardia gli apparati di sicurezza Usa. Anche perché c'erano altri segnali. Intercettazioni di colloqui lasciavano intendere che Al Qaeda era pronta a colpire e lo stesso Osama aveva rilasciato un'intervista promettendo «una sorpresa» per gli Stati Uniti. La commissione di inchiesta sull'11 settembre ha documentato, in modo chiaro, che nei mesi precedenti al massacro erano pervenute «dozzine» di note che parlavano non solo dell'ipotesi di dirottamento ma anche di azioni suicide con l'utilizzo di aerei. Nella primavera del 2001, la «Federal Aviation Administration», l'ente che si occupa dell'aviazione civile Usa, aveva avvisato i maggiori scali statunitensi sulla possibilità di attacchi «spettacolari» dove «l'intento del pirata non è chiedere uno scambio ma compiere un atto suicida». E c'erano 52 rapporti che indicavano come possibile fonte della minaccia Osama o Al Qaeda. Nelle carte consultate da Le Monde, c'è infine un capitolo interessante legato ai rapporti tra Bin Laden e l'Arabia Saudita. Gli 007 hanno le prove del sostegno finanziario in favore della rete qaedista. Come il bonifico di 4,5 milioni di dollari — data 24 luglio 2000 — in favore di Osama da parte di un'associazione caritatevole saudita che sarà inclusa nella lista nera solo nel 2006. I servizi francesi sembrano condividere l'idea che a Riad non siano pochi coloro che mantengono un forte vincolo ideologico e finanziario con Bin Laden. Senza aiuto e copertura non sarebbe potuto diventare il Califfo del terrore.

Corriere della Sera 17.4.07
Accenti diversi in due enciclopedie
Se la bioetica divide i filosofi


«Enciclopedia» evoca, già nel fondo etimologico, un'educazione circolare, un sapere intero e compiuto. In essa dovrebbe esservi «tutto»: un tutto, che, disponendosi in circolo, viene raccolto e ordinato ad unità. È, questo, il modello delle grandi enciclopedie, in cui si esprime una visione del mondo, una dottrina filosofica, un'ideologia politica.
Manifesto dell'Illuminismo europeo è l 'Encyclopédie, che ha nome da Diderot e d'Alembert, e che trascende, mediante lo «spirito sistematico», la sequenza alfabetica delle voci. E così fu della Enciclopedia Italiana, venuta fuori, in trentacinque volumi, fra il 1929 e il 1936: la Prefazione all'opera — in cui non è difficile riconoscere il timbro emotivo e lo stile potente di Giovanni Gentile, ideatore e direttore dell'opera — rende omaggio al più largo e generoso metodo storico, ma pure s'intona alla coscienza nazionale e alla cultura dell'epoca. Nelle due grandi enciclopedie, la francese e l'italiana, non c'è un disperso schedario di voci, un empirico regesto di vecchio e nuovo, ma un criterio unificante, che regge insieme i contributi di singoli autori e li fa quasi discendere da un tronco comune.
Che ne è di questo modello nell'età nostra, quando, declinate ideologie politiche e visioni unitarie del mondo, il sapere si scompone in molteplici e chiusi specialismi? Quando il cammino umano non più somiglia ad un circolo, dove principio e fine in ogni punto coincidono, ma ad una linea, diretta non si sa da chi e non si sa verso dove? Sono domande, suscitate da due opere, che — si risponda in uno od altro modo a quei dubbi — onorano la cultura italiana per liberalità d'impostazione e prestigio di contributi. Ci stanno dinanzi: la nuova edizione dell'Enciclopedia filosofica (Bompiani, vol. 1-12), promossa dal Centro di studi filosofici di Gallarate, e affidata all'autorevole ed esperta direzione di Virgilio Melchiorre; e il primo volume della Enciclopedia italiana, XXI secolo (lettere A-E), che Tullio Gregory, in antica e operosa fedeltà all'omonimo Istituto, ha concepito e attuato con finezza intellettuale e audacia di scelte.
Opere diverse e insieme concordi: diverse per la volontà di completezza dell'una (appunto, un sapere circolare e conchiuso), e per la selezione, propria all'altra, di lemmi significativi nel nuovo secolo. Concordi, come già si accennava, nello spirito liberale, nell'accogliere posizioni di dissenso e di critica, nel segnalare problemi piuttosto che nell'offrire pigre soluzioni.
XXI secolo reca per sottotitolo «settima appendice», quasi che l'opera si rannodi alla Enciclopedia degli anni Trenta, e vi aggiunga, or qua or là, particolari elementi o curiose novità. Il vero è che XXI secolo sta a sé, sciolto dai vincoli della filosofia idealistica, e teso, non già a fissare e difendere un indirizzo di cultura, quanto a cogliere i sintomi del nuovo secolo ed a precorrerne i temi dominanti.
Si spiega così la singolarità di talune voci: da acquacoltura ad antitrust, da autorità indipendenti a clonazione, da competitività a Costituzione europea, da derivati finanziari a doping. Lemmi di un secolo che ha appena consumato il proprio inizio, e che procede, come sempre nella storia, fra le tenebre del caso e dell'imprevisto, e tuttavia parole e concetti, già oggi penetrati nella nostra vita e capaci di guidare il nostro agire.
Quell'essere diverse e insieme concordi si coglie nell'analisi di singole voci o gruppi di voci. Le due enciclopedie riservano largo spazio ai lemmi composti da «bio» (da bio-politica a bio-sfera etc.), e dunque riguardanti la struttura fisica e la corporeità dell'uomo. Ma la trattazione ne è svolta con accenti distanti; nell'Enciclopedia filosofica, emerge il profilo ontologico, la natura metafisica della persona; nell'altra, la libera fruizione del corpo, tutta consegnata alla volontà ed alle scelte dell'individuo. Prospettive lontane, che il lettore registra in consapevole autonomia e svolge in propria meditazione. Insomma, alle due cospicue opere non bisogna chiedere ciò che esse non possono dare, cioè soluzioni definitive e rimedi consolatori, ma attingerne lucidità di analisi e coscienza problematica, Che è di per sé ragione di schietta gratitudine.

l’Unità 17.4.07
Mussi parla e se ne va. Venerdì
Filippeschi: «Se la scissione è già decisa meglio evitare una inutile sceneggiata». Il segretario Cgil non è delegato
di Simone Collini


PER LA SINISTRA DS il congresso finisce venerdì, subito dopo che avrà parlato Fabio Mussi. I sostenitori della seconda mozione non abbandoneranno in massa il Mandela Forum di Firenze: «Non siamo al Teatro Goldoni, anno 1921», sintetizza il coordinato-
re organizzativo Gianni Zagato. Ma anche se non si darà vita a gesti eclatanti, anche se la parola scissione non la vogliono neanche sentir nominare, lo strappo ci sarà. Chiuso l’intervento del ministro dell’Università scatterà una sorta di “liberi tutti”. Ognuno dei 220 delegati della minoranza deciderà cioè se rimanere ad ascoltare o meno gli interventi successivi. Ma quel che è certo è che nessuno di loro sarà in sala sabato mattina, quando verranno eletti i membri del Consiglio nazionale della Quercia, quando Piero Fassino chiuderà il congresso dopo aver incassato la proclamazione a segretario, quando verranno votati i provvedimenti che danno il via alla fase costituente del Partito democratico. La maggioranza non apprezza: «Se la scissione è già decisa, meglio evitare una sceneggiata inutile», dice il membro della segreteria Marco Filippeschi definendo «senza senso» la partecipazione al congresso della seconda mozione. Che non replica.
Il modo in cui andare al congresso è stato deciso ieri in una riunione a cui hanno partecipato i parlamentari, i membri della Direzione, i coordinatori regionali e delle città metropolitane della sinistra diessina. Su proposta di Mussi è stato però anche deciso di scandire le prossime tappe del percorso che deve portare alla creazione di una costituente alternativa a quella del Pd, e che avrebbe come obiettivo quello di unificare le forze di sinistra oggi divise. Il primo appuntamento il 5 maggio: verrà organizzata a Roma una manifestazione che lancerà un nuovo movimento politico. Sono già state fatte alcune prove grafiche per il simbolo, mentre per il nome l’orientamento è per “Sinistra democratica” con l’aggiunta di “Per il socialismo europeo” nella corona inferiore. Quel giorno verrà anche deciso se far nascere dei gruppi autonomi alla Camera e al Senato, anche se al momento viene dato per certo: sarebbe strano, viene spiegato, che un movimento politico non si desse una rappresentanza in Parlamento avendo i numeri per farlo. E i numeri, 23 deputati e 10 senatori, sulla carta la sinistra Ds li ha. «Non si tratta di dar vita a un nuovo partitino», chiarisce Mussi rispondendo indirettamente a un’osservazione avanzata più volte nei giorni scorsi da Fassino, «né di aderire a forze già esistenti». L’obiettivo è quello di lavorare per unificare le forze che stanno a sinistra del Pd. Non a caso, dopo aver partecipato ed essere intervenuto al congresso dello Sdi, Mussi parlerà il 4 maggio al congresso dei Verdi.
Intanto, il ministro si prepara per il discorso che farà venerdì. «Spiegherò pacatamente le ragioni per cui non possiamo condividere il percorso verso il Pd», dice Mussi, «spiegherò anche quello che tenterò di fare per unire la sinistra». Il leader della sinistra Ds chiederà «rispetto» per la scelta di non aderire al nuovo soggetto e sottolineerà che la costituente alternativa a quella lanciata da Ds e Margherita è «di pari dignità». Anche perché, fa notare richiamando il sondaggio che dava il Pd al 23%, «una volta che il nuovo partito sarà formato, per fare una maggioranza mancherà altrettanto».
Niente ripensamenti dunque, anche se tra le file della minoranza c’è chi non condivide tempi e modi stabiliti. Come il lombardo Agostino Agostinelli, per il quale «ci sono state forzature non decise collettivamente»: «Pur restando lontanissimo dal Pd, non è questo il momento di rompere, dobbiamo fare lotta politica». O come Vincezo Vita, che pure del Correntone è stato portavoce: «Resto contrario al Pd, ma mi pare incerta la prospettiva proposta e poi questa accelerazione rispecchia l’errore fatto dalla maggioranza». Si tratta però di perplessità e critiche minoritarie nella sinistra diessina. E anzi quanti contestano la decisione di dar vita insieme alla Margherita al nuovo soggetto non mancano di mettere in luce tutte le stranezze di quanto sta avvenendo. Una per tutte: il segretario della Cgil Guglielmo Epifani sarà al congresso Ds come invitato, non come delegato (il Botteghino avrebbe offerto la delega in una quota regionale ad Epifani, che ringraziando ha rifiutato). «Non si è mai visto che il leader del principale sindacato non sia delegato al congresso del maggior partito della sinistra», è la considerazione fatta nella minoranza diessina, per la quale non è privo di significato questo mantenimento delle distanze.

l’Unità 17.4.07
Da mozione Angius a corrente organizzata
Verificheremo le aperture, dice la terza mozione. E darà battaglia su laicità e Pse
di Eduardo Di Blasi


CORREGGERE LA ROTTA. Con questa idea i firmatari della mozione Angius-Zani andranno al Congresso di Firenze. Nella sala Cesarini, al secondo piano interrato del Grand Hotel Palatino di Roma, i delegati, assieme ai coordinatori regionali e provinciali che hanno aderito alla mozione «Per un partito nuovo, democratico e socialista», si sono incontrati ieri pomeriggio per fare il punto sulla tornata congressuale appena terminata e gettare lo sguardo al congresso Ds, e alla fase costituente del Pd che sarà alle spalle di questo.
Alcuni punti sono già chiari: la nuova minoranza interna al partito diventerà una «corrente». Meglio, per dirla con le parole del senatore Massimo Brutti, «una corrente organizzata, in contatto stabile con la periferia, ma allo stesso tempo anche un’associazione politica capace di dialogare con tutto quello che sta fuori dai Ds, come movimenti, associazioni, altri partiti». I firmatari della mozione Angius-Zani hanno l’ambizione di contribuire alla costruzione del nuovo soggetto politico, attraverso la forza delle proprie idee. Per questo puntano ad essere presenti nei comitati locali, nelle associazioni per il Pd, ma anche nei «posti che contano». Inizieranno promettendo battaglia al Congresso di Firenze.
La tenzone congressuale sarà combattuta attraverso ordini del giorno che puntino a dilatare i tempi della fase costituente del Pd (per consentire l’allargamento del Pd oltre Ds e Dl), a garantire la laicità e i diritti del lavoro dentro il nuovo soggetto, a richiedere una verifica congressuale anche alla fine della fase costituente. Si chiederà la confluenza nel Pse, e, oltre a proporre la cancellazione del «manifesto dei saggi», una delle proposte, accolte, di Ivana della Portella, parla di riscrivere un «nuovo» manifesto (un manifesto della mozione ma ovviamente aperto agli altri contributi), da proporre all’assemblea. Il Congresso «è importante», afferma Angius, che non vuole parlare di quello che succederà durante e dopo l’assise fiorentina. Certo questo sarà un banco di prova importante per comprendere «quali saranno le aperture della maggioranza alle nostre proposte», come spiega il deputato Sergio Gentili. Nel discorso conclusivo della riunione del Palatino (che era a porte chiuse), Gavino Angius ha sottolineato, d’altronde, avendo a mente quanto scritto da Romano Prodi all’Unità, che le vere battaglie di qui a venire non sono quelle con Fassino e D’Alema, ma quelle che seguiranno, perché su temi come l’approdo al Pse e la laicità non c’è condivisione con i cugini della Margherita.
«Dobbiamo vedere cosa fa la maggioranza. Se questo congresso si ridurrà ad una conta notarile dei congressi svolti fin qui, o se ci saranno delle aperture», spiega il consigliere regionale del Lazio Giovanni Carapella. Una spia importante, sul tema, potrebbe essere quella che arriva proprio dal congresso laziale dei Ds, dal quale, spiega Nicola Zingaretti, segretario dei Ds del Lazio: «È uscita una posizione unitaria della mozione Fassino e della mozione Angius su come andare avanti nella fase costituente». Zingaretti registra, in una regione dove la Angius-Zani è andata più che bene, «una forte unità di intenti per dar vita ad un partito che non sarà una fusione fredda tra Ds e Margherita, ma che sarà aperto alle idee, partecipato e rivolto al popolo dell’Ulivo e a tutti i cittadini».
I congressi restano un’incognita, ma quella che si appresta ad essere la «nuova minoranza» dei Ds, ha le idee chiare. L’appuntamento è a venerdì mattina, quando, nel capoluogo toscano, Gavino Angius, Mauro Zani e il portavoce Alberto Nigra, illustreranno i passi della «battaglia». I conti, ritiene Angius, si faranno alla fine.

l’Unità 17.4.07
Democratico sì, ma anche laico?
di Carlo Flamigni


In un articolo di qualche settimana fa su «Repubblica» Vincenzo Cerami esponeva le molte ragioni che, a suo parere, dimostrano che del Partito Democratico, in realtà, abbiamo tutti bisogno. Mi ha particolarmente colpito, tra le varie motivazioni di Cerami, questa: «Il Partito Democratico apre le porte che fino a ieri tenevano separati laici e cattolici, democratici di De Gasperi e democratici di Berlinguer, democratici di Nenni e democratici cristiani. Liberarsi di quei cancelli, mischiando le diversità sotto la stessa bandiera, svuota di senso i vecchi conflitti... fa nascere un nuovo senso di appartenenza... ben disposto agli scambi di esperienza e di cultura».
Nello stesso giornale si poteva leggere una dichiarazione di Fassino che il giornalista riassumeva così: «Non ci sarà una scissione dei Ds», affermazione ribadita da Romano Prodi che diceva: «Dissensi sì, questa è la democrazia. Ma non credo che ci saranno scissioni nella Quercia».
Debbo riconoscere che queste letture hanno avuto effetto sul mio prudente ottimismo, trasformandolo in ansiosa e confusa perplessità. Vedo di spiegarmi.
Ho firmato la mozione Mussi per molte ragioni, la più importante delle quali dipende, debbo riconoscerlo, dalla mia identità di laico, frequentemente in conflitto, soprattutto negli ultimi 20 anni, con una parte influente del mondo cattolico, collocata (purtroppo) nell’una e nell’altra parte dello schieramento politico; debbo anche ammettere che il fantasma più fastidioso che visita i miei incubi notturni riguarda la possibilità di ritrovarmi prima o poi a militare in una Democrazia Cristiana di sinistra, un destino al quale vorrei disperatamente sfuggire. Debbo infatti ammettere di sentirmi separato dai cattolici (non tutti) e dai democristiani (tutti) non dai cancelli ai quali allude Cerami, ma da mura più spesse di quelle dell’inespugnabile Troia.
Se posso avanzare una timida critica nei confronti delle previsioni di Cerami, mi sembra che il suo articolo ipersemplificasse il problema: abbattiamo i cancelli, scriveva, mescoliamoci, e op-là tutto è risolto: scopriremo dunque che le ragioni del dissenso che hanno consumato i nostri nervi sono futili, banali, puerili, forse addirittura inesistenti, destinate a dissolversi al primo abbraccio fraterno. In fondo Cerami mi dà del cretino, ma questo non mi scuote: aumenta la mia perplessità.
Diventa però essenziale, a questo punto, interpretare le parole di Fassino. Perché diceva, allora, che non ci sarà una scissione nel partito, cosa sa lui che noi non sappiamo? Ci stava forse dicendo - il linguaggio della politica è misterioso - «ci penso io, risolvo io problemi e dissensi, lasciatemi fare»? Ho molta fiducia in Fassino ma, in tutta sincerità, non l’ho mai creduto capace di miracoli, almeno fino ad oggi.
A questo punto debbo necessariamente chiamare in causa il massimo esponente dell’ “avanguardismo cattolico”, che personalmente identifico nella persona del Pontefice Benedetto XVI. Mi riferisco in specifico al suo discorso (marzo 2006, salvo errore) ai parlamentari del partito popolare europeo, intitolato «Vita, famiglia, educazione: non negoziabili», dedicato alla tutela della vita, dal concepimento alla morte naturale, al riconoscimento della struttura naturale della famiglia (e alla sua difesa dai tentativi di destabilizzazione), nonché alla tutela del diritto dei genitori di educare i figli. Oltre tutto, Benedetto XVI non ritiene che questi principi siano verità di fede, ma li considera iscritti nella natura umana e quindi comuni a tutta l’umanità. Dunque, a chi chiede di iniziare un dialogo mediatorio su questi principi, la Chiesa è costretta a rispondere «non possumus»; se la richiesta riguardasse una verità di fede, la risposta non potrebbe essere che una dichiarazione di guerra (di religione, le peggiori). Sic et simpliciter.
Il 13 marzo di quest’anno lo stesso Pontefice ha ribadito questo concetto, ricordando ai politici cattolici che «sui valori non si negozia» ed esprimendo ancora una volta una severa condanna nei confronti delle «leggi contro natura». Ho cercato sui giornali le reazioni dei politici in particolare di quelli del centro- sinistra. Prevalente il silenzio, soprattutto dei segretari e delle persone più rappresentative; qualche fremito del cosiddetto gruppo dei 60; Rosy Bindi non ha niente da dire; i teodem sono irritati (non sarà il cilicio?); Fassino, non pervenuto.
Arrivo alle necessarie, anche se sofferte, conclusioni. I temi sui quali i cattolici non possono negoziare sono - guarda caso - proprio gli stessi dei quali i laici vogliono discutere e, se non è troppo pretendere, cercare qualche possibile tipo di mediazione. Li conoscete: lo statuto ontologico dell’embrione; la disponibilità della vita personale; il confronto tra qualità e sacralità della vita; il riconoscimento delle coppie di fatto; la scuola pubblica; l’aborto; la contraccezione; la libertà della ricerca scientifica e i suoi possibili vincoli; il rapporto tra le religioni e lo stato laico. Se ho capito bene, la risposta alle nostre offerte di dialogo sarebbe sempre e comunque la stessa: non possumus. Evviva l’etica delle verità, al diavolo la compassione, la tolleranza, la laicità e i diritti civili. C’è poco da stare allegri.
Però, mi dirà qualcuno a questo punto, questo è il Pontefice, questa è la Cei, questo è il cattolicesimo più integralista: cosa c’entra il Partito Democratico? Parliamone.
Una volta che saranno stati abbattuti i cancelli, non ci troveremo faccia a faccia con nuovi e sconosciuti compagni (nel senso di amici): i nostri prossimi interlocutori li conosciamo già, e bene. Non voglio provocare premature crisi di pessimismo, ma il leader dei nostri nuovi compagni (nel senso di amici) non è quel Rutelli che ha fatto approvare la legge 40 e ha contribuito al fallimento del referendum? Lo stesso che non vuole più discutere la legge sulle coppie di fatto? E la signora al suo fianco, non è per caso quella senatrice che ha visto il buon Dio intervenire direttamente sui parlamentari per far cadere il Governo? E non è forse a questi compagni (nel senso di amici) che si rivolge in modo privilegiato il Vaticano quando esige che la coscienza di un parlamentare cattolico prevalga comunque e sempre su sciocchezze come il mandato che gli è stato affidato dai suoi elettori? Non saranno state queste brave persone a impedire che nel documento di programmazione del Partito Democratico non vengano neppure menzionati i molti temi “eticamente sensibili” che stanno tanto a cuore a noi poveri laici miscredenti? Non sarà che questa storia dei cancelli da abbattere è solo una romantica metafora e che le mura di Troia sono altra cosa rispetto a quelle di Gerico?
A meno che. A meno che le assicurazioni di Fassino non abbiano quel significato che in realtà mi è sembrato di poter intuire, e che cioè il Segretario sia in grado di arrivare al congresso con una seria proposta di soluzione di questo essenziale problema. A noi, diciamolo pure, basterebbe poco: ad esempio, una dichiarazione nella quale i cattolici che aderiranno al nuovo partito si impegnano a considerare tutti i temi eticamente sensibili come negoziabili. Forse questa è l’ultima possibilità rimasta per conservare, agli eredi della Quercia, un destino comune.
Come è obbligatorio tra compagni (nel senso di amici) noi ci fidiamo, ma qualche firma la vorremmo pur trovare, in calce al documento. Fassino sa di quali firme parliamo.

il manifesto 17.4.07
Addio ai Ds, senza rimpianti
Colloquio con Tortorella: il Pd è l'approdo naturale per quei liberal-democratici che fecero la svolta. Per gli altri il socialismo non può essere un etichetta: è un compito da affrontare uniti. E senza fretta
di Andrea Fabozzi


E' lo strappo definitivo ma è quello che fa meno male. Il congresso dei Ds comincia dopodomani e la liquidazione dell'eredità postcomunista sarà cosa fatta entro la fine della settimana, ma ad Aldo Tortorella questo non provoca alcuna emozione. Sarà che essendogli capitato di lavorare con Togliatti, Longo e Berlinguer fa fatica a vederli traslocati fuori dai nuovi pantheon. Sarà soprattutto che sono passati diciotto anni dall'89, e gli ultimi dieci Tortorella li ha passati lontano dai Ds, non più leader della minoranza di sinistra nella Quercia ma ancora padre nobile di una sinistra ancora senza approdo.
Di fronte al partito democratico, dunque, nessuna resistenza. «Anzi - spiega - vedrei persino l'utilità di un vero partito liberal democratico che non c'è mai stato in Italia. A patto, e mi sembra difficile, che riesca ad essere laico». Il Pd come approdo naturale di «quei giovani che io stesso insieme agli altri compagni più vecchi avevo chiamato alle responsabilità» alla morte di Berlinguer. I giovani essendo gli allora avanzati trentenni D'Alema, Veltroni e Fassino che poco dopo «davanti alla sconfitta del comunismo si sono venuti convincendo che non c'è nulla fuori della liberal-democrazia, ma potrei anche dire del liberismo». Parte da lì lo «scivolamento continuo» che finisce nel Pd e la ragione è che «non ci si è più posti il problema dei fondamenti di una cultura di sinistra, si è rinunciato del tutto a cercare un punto di vista di sinistra persino sottovalutando la portata della sconfitta. Perché con l'89 non va in crisi solo l'Unione sovietica e nemmeno solo il comunismo, ma anche il socialismo visto che tutti si trovavano nelle parole d'ordine 'proprietà sociale dei mezzi di produzione e scambio'».
Certo non tutto è cominciato nell'89 «neanche nell'ultimo Pci c'è stata una riflessione su cosa voleva dire dirsi marxisti e chi voleva tentarla era guardato male», ma poi con gli anni della «rivoluzione liberale» e del «paese normale» tutto si compie: «Lo sfondamento è avvenuto sul terreno culturale. Ci spiegavano: i comunisti hanno lottato per l'ammodernamento dell'Italia, vogliamo continuare quella lotta. Solo che allora l'ammodernamento voleva dire, mettiamo, la nazionalizzazione dell'Enel, e poi è significato liberalizzazioni spinte. Fino a che questi nuovi dirigenti ci hanno spiegato che Gramsci con Americanismo e fordismo faceva l'elogio degli Stati uniti e criticava l'arretratezza dell'Europa e che Berlinguer era anticomunista».
Tortorella conserva un po' di quella polemica con il correntone che lo portò all'epoca della guerra in Kosovo a lasciare in quasi solitudine i Ds: «L'insistenza contro lo scioglimento del partito da parte dei compagni della sinistra mi è sembrata una battaglia un tantino di retroguardia». Ma ora che l'uscita di un blocco organizzato con Mussi e Salvi alla testa sta per realizzarsi finalmente e inevitabilmente, ora Tortorella naturalmente approva: «E' un fatto utile e importante e niente affatto scissionistico, loro restano fedeli alla volontà di militare in una forza di ispirazione socialista». Mentre per il Pd è persino eccessiva la definizione di compromesso storico bonsai trovata da Boselli: del compromesso storico quello vero Tortorella fu tra i critici e adesso dice che «nell'intenzione di Berlinguer non è mai stato il banale accordo tra Pci e Dc ma un'intesa tra le classi che da quei partiti erano rappresentate, in ogni caso si cercò l'alleanza di governo non certo di fare un partito unico». E a proposito di Bettino Craxi nel pantheon - «è grottesco» - è il caso di fare una puntualizzazione: «Proprio volendolo giudicare non dal punto di vista penale ma da quello politico bisogna considerare che gli anni di Craxi furono quelli dell'esplosione del debito pubblico, un po' strano doverlo ricordare a chi oggi insiste con il rigore».
Quello che a Tortorella interessa è «cogliere l'occasione» per costruire «una sinistra nuova e moderna» ed è persino prudente nell'usare l'aggettivo che a questo punto si impone - «socialista» - perché «c'è un po' di ipocrisia in questo presentarsi con delle etichette così nette, io sono comunista, io sono socialista, mi viene da dire: ma di che parlate? Che significa dirsi socialisti oggi, che vogliamo un po' più bene ai lavoratori? La prima discussione da fare è che cos'è adesso il pensiero socialista, ed è una domanda da fare a tutti quelli che sono interessati, ai compagni della sinistra ds a quelli di Rifondazione, ai comunisti italiani e persino a Boselli, Angius e Macaluso, perché no? Mi pare che si stia facendo strada la convinzione che bisogna fare veramente qualcosa di nuovo». E' più o meno questo il perimetro del «cantiere» che si è aperto a sinistra del Pd e Tortorella con la sua Associazione per il rinnovamento della sinistra non ha già scelto quale sarà l'esito finale anche perché c'è subito un problema aperto, speculare a quello del Pd. «Dal mio punto di vista - spiega - sarebbe stato auspicabile che Mussi e gli altri avessero fatto la battaglia più per l'unità delle sinistre in Europa che per l'appartenenza al partito socialista europeo. I compagni del Prc con Sinistra europea hanno scelto un'altra collocazione. Fortunatamente non è detto che né l'una né l'altra siano molto solide e forse non è il caso di farsi affascinare troppo da queste questioni di appartenenza. Più importante è stabilire un'alleanza, questo mi sembra che si possa fare ed è già molto».
Dunque tutto il contrario del Pd: la costruzione di una nuova sinistra organizzata non è per oggi e nemmeno per domani: tempi lunghi. E intanto «ricostruire il più possibile insieme una cultura di sinistra». E non si tratta nemmeno di recuperare il meglio delle tradizioni, «serve di più fare circolare idee nuove senza incarognirsi nella rifondazione delle diverse tradizioni». Le priorità che Tortorella indica non sono poche, lavoro e libertà in cima alla lista, ma più in generale «il nuovo socialismo ha un compito diverso da quello del Novecento che ha lavorato soprattutto sulle quantità, vuoi per la redistribuzione vuoi per l'utopia egualitaria. Adesso bisogna discutere della qualità, qualità dello sviluppo innanzitutto, una questione che non può essere risolta nei limiti del pensiero liberal-democratico, non si può salvare il capitalismo da se stesso». Dunque è un problema di cultura politica come dice anche Bertinotti - «ha ragione» - ma non è un problema con una soluzione già scritta: «Oggi è difficile pensare a un nuovo partito di sinistra, è più facile per partiti e associazioni esistenti aprire una discussione comune sui fondamenti, sui contenuti delle idee, per tutto il tempo che ci vorrà». E alla fine Tortorella propone anche uno spunto dal quale partire, non proprio indolore: «Come si può stare al governo senza diventare governativi?».

il manifesto 17.4.07
«Né il socialismo, né i lavoratori»
Enrico Panini, segretario della Flc-Cgil, spiega il suo no al Partito democratico. E propone un cammino a sinistra
di Loris Campetti


Sono molte le ragioni dell'opposizione di Enrico Panini alla nascita del Partito democratico dalle ceneri di Ds e Margherita, «molto peggio di una fusione a freddo». Le prime due ragioni sono «la collocazione internazionale del Pd, priva di ogni riferimento al socialismo e l'assenza di qualsiasi riferimento al lavoro, cioè alla rappresentanza politica degli interessi e dei sogni di chi è sfruttato, sia nelle forme tradizionali, sia in modi ancor più pervasivi, penso al lavoro nei call center, o allo sfruttamento nel settore della conoscenza». Il segretario generale della Flc-Cgil (scuola, università e ricerca), come altri segretari delle categorie dell'industria e dei servizi della principale confederazione sindacale italiana, non entrerà nel Pd. Ce ne parla in questa intervista, che inizia con la sua storia politica: «Nel manifesto dal '72 e nel Pdup fino al suo scioglimento. Non ho preso altre tessere di partito fino alla Bolognina, quando scelsi di entrare nel Pds con la svolta di Occhetto. Poi i Ds. Qui si interrompe l'itinerario, ma non sono io a interromperlo: sono i Ds a sciogliersi».
Partiamo dalla collocazione internazionale del Pd. E' così importante il riferimento al gruppo socialista europeo?
Lo è per due ragioni. Per la cesura del Pd con la storia della sinistra, non solo in Italia, e perché l'ipotesi di costituire un gruppo nazionale europeo indipendente dagli schieramenti esistenti rischia di produrre una rinazionalizzazione degli schieramenti, sbagliata e foriera di effetti negativi.
E poi l'assenza dal manifesto del Pd dei lavoratori come soggetto organizzato, che non sono più un punto di riferimento...
Già, perché il riferimento sociale cambia natura e diventa l'individuo, la persona, fuori dal contesto reale.
Ce ne sarebbe abbastanza per non aderire. Vuoi aggiungere qualcosa alla lista?
La laicità, oggi dirimente nella versione colta, di accoglienza, che è nella nostra storia e nella nostra Costituzione. Il Pd che si candida a rappresentare «il nuovo», su tutti questi punti o non prende posizione o la prende sbagliata, insomma sta altrove.
Non è che il Partito democratico nasca sotto un cavolo, non a caso si presenta come la conclusione di un percorso avviato proprio alla Bolognina.
Io vedo più una rottura netta che una continuità con quella svolta, proprio perché chiude con la storia della sinistra italiana e con il socialismo, anche se è vero che dopo la Bolognina è mancata una critica di fondo delle esperienze comuniste. La rottura prodotta dal Partito democratico porta a un assemblaggio di ceto politico e semplici individui, senza riferimenti all'Europa, ai cittadini lavoratori, alla cultura.
Sei tra i firmatari della mozione Mussi-Salvi. Che percorso politico hai in mente?
Sono interessato, senza ansie, a una prospettiva in cui, insieme alle aggregazione e ai contenuti, si discutano modi e forme della politica. Un processo di riaggregazione a sinistra non è semplice, ma è il terreno su cui vale la pena operare. Si dovrà riflettere, uscendo da una pratica di autosufficienza, sull'esperienza fatta dai movimenti sul modo di far politica e porsi il problema della rappresentanza, e della costruzione dei gruppi dirigenti. Non credo nelle sommatorie di piccole forze: dobbiamo imparare a parlare a quelle straordinarie decine di migliaia di giovani incontrate nelle battaglie per la pace, i diritti, la scuola pubblica e un'università di qualità e di massa. Questi giovani rischiano di finire ai margini dei processi politici. Io sosterrò la mozione Mussi-Salvi fino al congresso dei Ds, poi con lo scioglimento del partito farò insieme a tanti compagni e compagne questo cammino di ricerca a sinistra. Credo che nella stagione politica che si sta aprendo sia importante il ruolo di confronto e ricerca che potrà svolgere il manifesto.
Quale può essere l'impatto del Partito democratico nella vita della Cgil?
Sono convinto che la Cgil debba valorizzare con uno spirito nuovo la scelta irreversibile del superamento delle componenti partitiche, che ci ha consentito di essere un'organizzazione di massa democratica e pluralista - anche nei gruppi dirigenti - con più di 5 milioni di iscritti e iscritte, un'esperienza unica in Italia. La Cgil continua a essere un sindacato, inevitabilmente chiamato a fare i conti con il fatto che le grandi organizzazioni politiche rinunciano a ogni riferimento con il mondo del lavoro e con la storia della sinistra europea. Va salvaguardata l'autonomia della Cgil, facendo però attenzione agli accadimenti, soprattutto in relazione alla rappresentanza politica del mondo del lavoro. La Cgil - una casa comune che tiene insieme lavoratori e pensionati, con e soprattutto senza tessere di partito - è caricata di domande inedite, e persino di compiti inediti. Ne dovremo parlare, senza precipitare i tempi del confronto. Dobbiamo discutere nei gruppi dirigenti e con l'insieme degli iscritti.
Intanto, però, sembra di capire che i segretari della maggior parte delle Camere del lavoro e dei gruppi dirigenti abbiano già scelto il Partito democratico...
I gruppi dirigenti della Cgil sono stati eletti sulla base di precisi programmi di lavoro: non dev'esserci alcuna relazione tra la scelta politica individuale, qualunque essa sia, e il ruolo di dirigente sindacale.

Apcom 17.4.07
Bertinotti: il pensiero di Gramsci tra le cause ideali della caduta del fascismo
Fu interprete di una storia nazionale diversa
Ancora attuali i Quaderni del carcere


Roma, 17 apr. (Apcom) - Il pensiero di Antonio Gramsci, che egli continuò a elaborare nonostante la durezza del regime carcerario che lo condurrà alla morte, fu tra le cause ideali della caduta del fascismo: lo ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti, nel suo intervento introduttivo alla giornata dedicata al ricordo della figura del grande pensatore, promossa nella Sala della Lupa dalla Camera e dalla Fondazione Camera dei deputati.
"Le carceri fasciste lo uccideranno - ha sottolineato il presidente della Camera - ma si può ben dire che il pensiero di Antonio Gramsci abbia costituito una causazione ideale della sconfitta del fascismo, erodendone le basi di legittimazione culturale, con la creazione di un pensiero interprete di una storia nazionale diversa e iscritta nell'onda lunga della formazione del carattere dell'Italia moderna e degli italiani".
"Diversamente da altri, pur grandi pensatori, Gramsci non aveva letto il fascismo - ha ricordato il presidente della Camera - come una parentesi nella storia del Paese, ma ne aveva indagato le radici profonde, fino a interrogarsi sul sovversivismo delle classi dirigenti. Perciò aveva lavorato a fondo su una diversa fondazione civile della nazione".
Per Bertinotti "il suo contributo intellettuale resta nella storia delle idee come una tappa saliente, nel pensiero rivoluzionario e nela storia dei marxismi quanto nella storia della filosofia e del pensiero umano".
Secondo Bertinotti la sua opera è ancora di grande attualità: "Nei Quaderni del carcere vengono affrontate tutte le grandi questioni di così profonda portata storica da essere arivate fino a noi e ancora in larga misura irrisolte, malgrado la vittoria dell'antifascismo, la nascita della Repubblica e la costruzione di uno straordinario impianto costituzionale. La questione cattolica, la questione meridionale, il rapporto fra intellettuali e la formazione della coscienza e dell'identità del Paese, la natura dei processi di lavoro nella modernizzazione testimoniano - ha sostenuto ancora Bertinotti - la straordinaria ampiezza e profondità di un'originale impresa intellettuale, in cui le stesse aporie - come pure ciò che è risultato contestabile - sottolineano la ricchezza di una ricerca guidata dal sistematico rifiuto di ogni dogmatismo".

Repubblica 27.7.05
IL PERSONAGGIO
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"

Filippo Ceccarelli


Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.

Heidegger: «un reazionario distante da ogni idea di modernità» Sartre: «il nulla» Foucault: «un falsificatore»
Aprile on line 17.4.07
C.A. Viano: Pantheon? Una marmellata
Verso il Pd Lo storico della filosofia, premiato come "laico 2006", critica quel fiorire di riferimenti ai profeti e santoni elencati nel Pantheon del nascituro partito democratico


C'è un fiorir di riferimenti ai profeti e santoni del passato da Heidegger a Sartre, da Foucault a Freud: servono a coprire la crisi di un'ideologia, il marxismo, data per duratura e risolutiva, ma oggi soprattutto c'è da fronteggiare criticamente la crescente invadenza della Chiesa e del pensiero religioso che nega le libertà individuali.
E' quanto afferma il filosofo o ancor meglio lo storico della filosofia, Carlo Augusto Viano che prima in "Laici in ginocchio" ha criticato intellettuali e politici che soffrono di complesso d'inferiorità nei confronti della gerarchia ecclesiastica, ora con "La filosofia del Novecento", critica la filosofia italiana che, a suo dire, manca di capacità critica.
"Heidegger? L'ultimo dei profeti o santoni di cui si sa tutto e comunque l'essenziale: studiò dai gesuiti, quindi si formò in un ambiente preciso prima di darsi alla filosofia. Nazista? Certo non lo condannò mai - dice Viano -. A leggerlo attentamente e con dovizia emerge chiaramente che è un conservatore di certo, anzi un reazionario distante da ogni idea di modernità".
Ma è soprattutto a sinistra che si riscopre Heidegger... "E a me non stupisce affatto - ribatte Viano - l'intellighenzia di sinistra si è sempre fatta guidare da falsi profeti o santoni per non dire abbiamo sbagliato: dovrebbe ammettere e riconoscere la crisi del marxismo e con esso del comunismo".
E Sartre e Foucault? "Sartre? Molto squilibrato - risponde Viano - aveva la matita ma non la gomma per cancellare quel che scriveva... Ha scopiazzato "Essere e Tempo" di Heidegger con "L'Essere e il Nulla", appunto il nulla...
Foucault? E' stato un gran falsificatore storiografico: ha inventato letteralmente intere storie, le sue storie".
Eppure Sartre e Foucault sono stati due punti di riferimento del ‘68, di quel filone filosofico chiamato esistenzialismo. "Quella fu come ho avuto modo di dire altre volte un'operazione culturale e mass mediatica per coprire la crisi ormai evidente del marxismo e ci si servì anche del freudismo - avverte Viano - fu un fuoco di paglia e il ‘68 non mi pare sia finito bene".
Insomma tra Heidegger, Marx e Freud chi salverebbe, visto il trattamento riservato a Sartre e Foucault? "Beh, certamente con tutti i suoi forti punti critici salverei Marx". E soprattutto il primo Marx, "quello dell'alienazione religiosa: ma la filosofia nonostante ciò - è l'osservazione critica di Viano - non si è ancora emancipata, liberata dal pensiero religioso, figuriamoci la politica". E questo non significa "impedire alla Chiesa di parlare, ci mancherebbe altro! - conclude lo storico della filosofia insignito del Premio ‘Laico 2006' - quanto aver idee e proposte, insomma un pensiero critico da contrapporre al potere religioso che nega le libertà individuali e il sapere e la conoscenza che deriva anche dalla tecnica e ricerca scientifica dell'uomo sull'uomo".