venerdì 20 aprile 2007

Corriere della Sera 20.4.07
Bellocchio (in giuria): «Macché complotto I nuovi registi non sono adatti ai festival»
Con me ci sarà anche il mio amico Michel Piccoli: bello trovare un volto conosciuto Come a scuola
di Giuseppina Manin


MILANO — «Mi spiace che non ci sia nessun film italiano in gara. Mi spiace davvero». Marco Bellocchio sospira sincero davanti al cartellone di Cannes. Dove il solo nome italiano presente nella sezione principale è il suo, ma stavolta dall'altra parte della barricata, nella giuria presieduta da Stephen Frears, che dovrà decidere l'ambito Palmarès. «No, non penso a nessun complotto, a nessuna presa di posizione antitaliana — prosegue il regista, habitué della Croisette, nel 2002 in competizione con L'ora di religione, l'anno scorso al Certain Regard con Il regista di matrimoni —. Ci sono anni in cui si va in gara, magari anche con più di un titolo, e anni che invece... Capita in qualsiasi festival. A volte resta fuori l'Italia, a volte tocca ad altri».
Resta però la delusione. «Sì — ammette —, anche perché si era detto e ridetto che questo era l'anno d'oro del cinema italiano». D'oro forse solo per il botteghino... «Confesso di non averne visti molti di quei film di cui si è tanto parlato e che hanno riscosso tanto successo di pubblico: Ho voglia di te, La notte prima degli esami, Manuale d'amore... Di certo credo gli si debba riconoscere il merito di aver dato respiro al nostro cinema, di aver giovato alla sua cagionevole salute».
«Però — aggiunge —, è anche vero che non sono film da festival. La nostra cinematografia non mi pare inseguire in questo momento modelli particolarmente originali. La ricerca di nuovi linguaggi mi sembra davvero poca. Le grandi stagioni del cinema italiano, quelle che tra gli anni '60 e '70 ci avevano portato ai vertici mondiali, restano ancora lontane. La speranza è che questa ripresa, questa maggior circolazione di capitali, aiuti a emergere nuovi talenti, magari più anticonformisti».
Intanto, per questa tornata va così. Eppure si era sentito dire di Luchetti, si era sentito dire di Olmi. «E in effetti ci sono tutti e due. Il primo nel Certain Regard, il secondo tra gli Hommages per il 60mo anniversario. Non ho ancora visto il film di Lucchetti mentre Centochiodi sì. Ammiro molto Olmi per la sua originalità, sincerità, la forza delle sue immagini. Pur se le mie idee sono lontanissime dalle sue, lui così rivolto alla religione, io ateo, davanti a lui, tanto di cappello. Capisco anche che da maestro schivo qual è, non abbia più voglia di gareggiare. A Cannes Olmi ha già vinto la sua Palma d'oro con L'albero degli zoccoli».
Di rado Bellocchio accetta di andare in giuria, ma stavolta l'idea di passare due settimane sulla Croisette a guardare film lo mette persino di buon umore. «Ma sì, mi pare quasi di andare in vacanza... Una volta che mi vedeva nicchiare davanti a un simile invito, Comencini mi disse: vai, è sempre una bella esperienza. Aveva ragione. Per un motivo o per l'altro, al cinema ormai vado sempre di meno e fare il giurato è l'occasione per una bella scorpacciata di film. Per di più con la garanzia di proiezioni eccellenti, nella loro lingua originale e, vista la severità della selezione, con scarsa probabilità di bidoni. Sulla carta il cartellone promette bene. Mi aspetto immagini di forza inedita, capaci di sorprendermi ed emozionarmi. La bellezza è sempre un grande stimolo, spinge all'emulazione. Insomma, quasi una terapia».
E poi in giuria c'è anche Michel Piccoli. Che nel 1980, proprio con un film di Bellocchio, Salto nel vuoto, vinse a Cannes il premio come miglior attore. «Un grande amico, l'idea di ritrovarlo mi dà un enome piacere e mi rasserena. Perchè entrare in una giuria dove spesso nessuno conosce l'altro è un po' come il primo giorno di scuola: mette un po' d'ansia». Tra tanta festa, uno scotto da pagare: lo smoking. «Già, i francesi ci tengono alla forma. Ne ho fatto uno tre anni fa, ma da allora non l'ho più messo. Spero di poterci entrare ancora».

l’Unità 20.4.07
Mussi al passo d’addio
«Piero, grazie lo stesso»
«Sarà il discorso più difficile della mia vita». Abbracci e commozione
«Ma la decisione è presa». Oggi il leader della minoranza Ds se ne va
di Simone Collini


UN APPELLO all’unità da parte del segretario se lo aspettava. Quello che Fabio Mussi non si aspettava è tutto il resto: il modo in cui Piero Fassino ha invitato chi è contrario al Partito democratico a non "separarsi" (e guardandosi bene dal pronunciare la parola "scissione"), il modo in cui la platea del Mandela Forum ha risposto, quell’applauso più forte e prolungato di tutti gli altri, e soprattutto il modo in cui lui stesso ha reagito. Lo sguardo che si alza dai fogli pieni di appunti e va dritto in platea, poi su sulle tribune, poi la mano che va a coprire la bocca, gli occhi che si fanno lucidi. Anche per questo l’intervento che farà oggi sarà, dice, "il più difficile della mia vita".
Ministro si è commosso?, gli domandano quando Fassino chiude il suo intervento. "Bè", guarda in alto, "insomma", guarda l’interlocutore, "siamo fatti di sangue e carne", e abbozza un sorriso. Quasi a scusarsi, perché i sentimenti non possono prendere il sopravvento sulle valutazioni politiche. E infatti è solo un attimo: "Ringrazio Fassino, il suo è stato un appello fraterno, che tocca corde profonde. Però deve prevalere la razionalità e l’assunzione di una responsabilità politica".
La razionalità gli dice che non può accettare che "si evapori la storia della sinistra italiana una storia piena anche di tanti drammi, ma gloriosissima", la responsabilità che sente di assumersi è di abbandonare i compagni di "una lunga militanza, di una vita" per dar vita a un movimento politico che lavori insieme ad altri per riunificare le forze di sinistra oggi divise. In poche parole: "Non ci sono le condizioni politiche per un ripensamento". Anche perché, se Fassino ha affermato "la necessità storica del Pd", Mussi questa necessità storica non la vede, né l’ha vista dimostrare dalla relazione del segretario: "Anzi, da come il congresso ha ascoltato, mi pare serpeggi più di un dubbio, e non solo tra le mozioni di minoranza". Ed è di nuovo la battaglia politica a conquistare la prima fila. La sfera degli affetti deve rimanere dietro, anche se nella scorza di indifferenza che si è portato dietro a Firenze le falle in alcuni momenti si vedono tutte. Come quando entra nel catino del Mandela Forum, scatta un applauso tutto per lui e dal primo piano che trasmette il maxischermo è evidente quanto sia emozionato. O quando va a sedersi al suo posto e non smette di stringere mani ai compagni che gli si fanno incontro, e che oggi lascerà per prendere un’altra strada: Marina Sereni, Anna Finocchiaro, Marco Minniti, Sergio Chiamparino, Pierluigi Bersani. Cerca di sdrammatizzare. "Ricordati - dice Mussi al ministro dello Sviluppo economico riprendendo una considerazione che aveva fatto nei giorni scorsi - che la sinistra esiste in natura". E quello: "Lo so. Non siamo così bravi da sradicarla". Sorrisi, pacche sulle spalle. Oggi è il giorno dell’addio. Non del solo Mussi.
I 250 delegati che hanno firmato la sua mozione sono con lui. La sera prima dell’apertura del congresso i delegati della seconda mozione si sono incontrati a Firenze per decidere la linea da tenere. Quattro ore di discussione, chiuse in piena notte con l’approvazione all’unanimità della proposta fatta da Mussi: non si partecipa ai lavori delle commissioni, non si entra negli organismi dirigenti eletti dal congresso, parla uno per tutti, poi via senza clamore. E Mussi parlerà oggi.
"Sarà l’intervento più difficile della mia vita", non nasconde. Ancora una volta è l’altalena tra sentimenti e razionalità a venire alla luce, come è inevitabile che sia in un momento come questo. "Con Fassino, D’Alema e altri c’è sempre stata un’amicizia al di sopra dei dissapori", raccontava l’altra notte in una pausa della riunione dei delegati. Con Fassino si sono abbracciati quando sono andati a sistemarsi al tavolo della presidenza. Con D’Alema ha scambiato varie battute durante l’intervento di apertura del segretario. "Io farò di tutto perché questo rapporto rimanga anche dopo". Del resto, l’operazione a cui pensa consiste nell’avvio di una costituente di "pari dignità" rispetto al quella del Pd, che ha l’obiettivo di costruire a sinistra dell’Ulivo una forza consistente, con consensi a due cifre. "Con il 30% non si governa", è il ragionamento che fa quando sente parlare del Pd come della soluzione alla governabilità del paese. "Perché il governo sia solido occorre lavorare all’unità della coalizione. La frammentazione? Capirei se l’ipotesi fosse la riunificazione delle forze più piccole, e invece qui si fondono le due più grosse. Che senso ha? Non cambia nulla".

l’Unità 20.4.07
«L’apertura di Fassino? Bene ma vedremo»
Angius raccoglie quanto detto dal segretario. Ma i suoi: «Non ci siamo ancora»


Parlerà questa mattina Gavino Angius, tra i promotori della terza mozione congressuale. Ieri, nell'intervento di apertura, Piero Fassino ha definito le proposte di correzione di questa mozione (coofirmata da Mauro Zani) "in buona parte condivisibili". Non solo. Ha continuato: "Intendiamo raccoglierle". Un'apertura che alle orecchie dell'uditorio è apparsa anche ampia: "Chiedo di far valere le loro proposte - ha detto il segretario dei Ds - nel cantiere del Pd. Lungo il percorso non mancheranno le occasioni per operare tutte le verifiche necessarie". E, ha anche aggiunto, "in caso, all'indomani dell'assemblea costituente, questa assemblea congressuale, che a norma di Statuto rimane in vita tra un Congresso e l'altro ed è la sede di decisione democratica più larga, sarà riunita per valutare l'andamento del processo costituente e assumere gli adempimenti successivi". A caldo Angius risponde ai giornalisti: "Occorre sciogliere alcuni nodi sui quali interverrò: quello della laicità e dell'appartenenza al campo del socialismo europeo". E ha eccepito, nel merito, ''Non mi piace che il nuovo partito sia fatto solo dai Ds e dalla Margherita e su questo bisogna lavorare molto''.
Nella riunione del pomeriggio, i delegati della terza mozione, hanno fatto il punto della situazione. E sono giunti ad una conclusione anche più battagliera. Il portavoce della mozione, Alberto Nigra illustra il dispositivo comune che dovrebbe uscire dai due congressi, e che è stato pubblicato sull’Unità. La pagina di giornale è sottolineata: "Tre dei sei punti proposti non ci convincono per niente", afferma Nigra. E spiega: "Il secondo, ad esempio, dice che Ds e Dl assumono il manifesto come orizzonte ideale. . A noi quel manifesto non piace, e non solo a noi. Il manifesto va riscritto con il contributo di tutti: dei socialisti, di Di Pietro e Bordon….". Non convince nemmeno il punto numero 4, il potere dato agli organi dirigenti durante la fase di transizione ("In questo caso, sul Pse, chiediamo a Fassino di farsi garante presso i Dl della nostra proposta"). E nemmeno il 6 che afferma come, all'atto di nascita del Pd, verrà conclusa l'attività politica di Ds e Dl. Gli esponenti della Terza Mozione hanno sempre chiesto che alla fine del processo costituente sia convocato un Congresso di scioglimento dei Ds. Per adesso, affermano, all'apertura politica espressa dal segretario non ha corrisposto un'apertura di fatto. E' stata, afferma maliziosamente qualcuno, "un'apertura congressuale". Alla quale oggi Angius risponderà.

l’Unità Roma 20.4.07
All’Auditorium la filosofia è di massa
Tutto pronto per la seconda edizione del festival dal 9 al 13 maggio
di Luciana Cimino


CONFINI Dal 9 al 13 maggio oltre 120 studiosi e personalità della cultura si cimenteranno con l’idea di confine, metafora in continuo movimento, nella seconda edizione del Festival della Filosofia. L’Auditorium Parco della Musica come una grande agorà animata da spirito laico e impegno civile. La formula ricalca quella vincente dello scorso anno (oltre 30 mila visitatori nel 2006): 18 tavole rotonde, 7 lectio magistralis, 6 incontri con pensatori di confine (panorama di autori borderline e figure di culto) e 4 con “voci di confine”, alla ricerca di una riflessione filosofica comune alle diverse culture, 5 caffe filosofici, la novità di quest’anno. E poi “Dentro e fuori”, rassegna di cinema a cura di Edoardo Bruno, fondatore della storica rivista “Filmcritica”, spazi per bambini, teoria e pratica di yoga. Oltre agli spettacoli: “Io, Charles Darwin”, una prima assoluta tra scienza e teatro con la partecipazione di Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Pier Luigi Luisi su testo e regia di Valeria Patera, “Quattro cosmicomiche di Italo Calvino”, di e con Graziella Galvani, Mariano Mariani e Beatrice Pucci e, sempre in prima assoluta, “Il suono del Logos”, progetto originale commissianato dalla Fondazione Musica per Roma ad alcuni tra i più rappresentativi compositori di musica contemporanea. L’artista Gianfranco Baruchello, inoltre, nel foyer presenterà la mostra «Pieghe, flussi, pensieri in bocca», una raccolta di 15 opere realizzate dagli anni sessanta in poi, tra cui un quadro di circa 15 metri.
«All’Auditorium si formerà un nuovo tipo di sfera pubblica - ha commentato Giacomo Marramao, docente all’Università di Roma III, nonché, assieme a Paolo Flores D’Arcais e alla Fondazione Musica per Roma, organizzatore del festival - che raccoglie le questioni che la sfera pubblica italiana, ormai desertificata, non affronta». E dunque si discuterà di antitesi tra oriente e occidente, di religione, di illuminismo ed eutanasia, di confini della politica e delle città. Due i “quodlibeta”: un confronto tra Hanif Kureishi e Tariq Ramadam, due intellettuali musulmani molto diversi du “laicismo, secolarizzazione e religione” e “La volontà di Dio è compatibile con la democrazia?” in cui Paolo Flores D’Arcais e Giuliano Ferrara si confrontano sulla laicità. Negli altri appuntamenti: Marc Augè (il 10 maggio), Franco Cordero, Eugenio Scalfari, Piergiorgio Odifreddi, Umberto Galimberti, Gianni Vattimo, Fernando Savater. Gli studenti dei licei romani parteciperanno con il progetto dell’assessorato alle Politiche Scolastiche “Roma per vivere, Roma per pensare”. L’ingresso agli eventi è gratuito o ad un costo di 1-2 euro.

Corriere della Sera 20.4.07
FANTASMI SOCIALISTI
di Gian Antonio Stella


Non ha mai nominato, manco una volta, la parola operai, mai la parola fabbrica, mai la parola masse. Temi che un tempo incendiavano i militanti di quello che si vantava di essere il più grande partito comunista d'Occidente. Non ha mai citato, neppure una volta, quel Silvio Berlusconi il cui solo nome per un decennio riusciva magicamente a riaccendere anche le più ammaccate e tristi riunioni di piazza. E dopo aver rimosso le arie dell'«Internazionale» e «Bandiera Rossa» e perfino della «Canzone Popolare» o dell'ironica «Il cielo è sempre più blu», ha affidato la missione di scaldare i cuori al robusto inno di Mameli e a «Over the Rainbow», come non ci fossero più canzoni capaci di riassumere con parole italiane e comprensibili all'intera platea una fede buona per tutti.
Eppure nella sua appassionata relazione al quarto congresso dei Ds, così appassionata da fargli venire infine un groppo in gola, Piero Fassino è stato chiamato a fare i conti soprattutto con una parola antica: socialismo. E lì, ha dovuto tentare più acrobazie del mitico Giovanni Palmiri il giorno in cui fermò il fiato ai milanesi comparendo su un trapezio nel cielo di piazza Duomo.
Doveva infatti, lassù sul filo, reggere contemporaneamente in equilibrio quattro socialismi differenti. Il primo, ovvio, era il richiamo al socialismo che doveva rassicurare Fabio Mussi o almeno instillare qualche dubbio nei suoi fedeli, con un continuo rimando alla lunga storia della sinistra e un monito sulle scissioni del passato, «nessuna delle quali è stata foriera di maggiori opportunità». Il secondo doveva confortare Poul Rasmussen, George Papandreou, Kurt Beck e Martin Schultz, che certo non erano venuti a Firenze per essere smentiti dopo aver detto più volte di aspettarsi che il «partito nuovo» entri senz'altro nella grande famiglia socialista europea. Il terzo dovrebbe, se non subito almeno in un futuro ravvicinato, convincere i socialisti della diaspora a non vedere nel Partito democratico «una riedizione in scala minore del compromesso storico» ma piuttosto «la casa anche dei socialisti». Operazione complessa per l'erede di quell'Enrico Berlinguer che, al di là della rivendicazione di una diversità morale, marchiò Bettino Craxi come «un pericolo per la democrazia» e di quel Massimo D'Alema che ammiccava: «Diciamo che non son mai stato un socialista italiano. Sono diventato direttamente un socialista europeo».
L'esercizio più arduo, però, era il quarto: fare digerire questo continuo appello al socialismo, nominato e invocato nelle sue varianti 31 volte, a chi nella Margherita ha già detto e ridetto di non avere alcuna intenzione di entrare nel Pse e men che meno nell'Internazionale Socialista. Anche se per il segretario diessino «già oggi è costituita per quasi metà dei suoi 185 partiti da forze di ispirazione culturale diversa dall'esperienza socialista». Esempio? Il Partito del Congresso Indiano e il Partito dei Lavoratori di Lula. Due esempi, come dire, esotici.
Basteranno? Francesco Rutelli dice che risponderà oggi. Ma potete scommettere che da qui all'appuntamento fondante della prossima primavera, che appare lontana lontana, il tema sul tappeto resterà questo.

Corriere della Sera 20.4.07
Mussi, strappo con commozione «No a Piero, la sinistra evapora»
Oggi l'addio. «Ci terrei molto a mantenere i rapporti personali»
di Aldo Cazzullo


FIRENZE — Alla fine Berlusconi applaude. Lui no. Il mangiacomunisti batte convinto le mani a un discorso pieno di Camere del Lavoro, ruolo storico del Pci, compagne e compagni. Lui, «nato sotto un altoforno», «figlio della Piombino operaia», amico di Fassino e D'Alema fin dalla giovinezza, resta a braccia rigide. A Livorno, il giorno di quell'altra scissione del 1921, Bordiga avrà applaudito Turati? Probabilmente no. Nel dubbio, Fabio Mussi non applaude Fassino.
«Mussi segretario di partito! Il sogno di tutta una vita da impiegato, al prezzo di una piccola scissione!». La vignetta di Vincino, che sul Corriere lo punta da settimane, era impietosa. Mussi ieri si è ribellato: «La nostra non è una scissione». Sono loro, quelli della maggioranza Ds, che se ne vanno. «Stanno facendo un partito in cui non mi riconosco». Fassino si è commosso nel chiederle di restare. «Che c'entra? Anche io mi sono commosso». A dire il vero era apparso chino sul banco a prendere appunti. «Siamo fatti di carne. Fassino ha toccato corde profonde. Ma la razionalità ci impone di andare avanti. Del resto, qualche dubbio sulla sua relazione il congresso l'ha avuto: si respirava un'atmosfera sospesa, di attesa». Del suo intervento di oggi, è ovvio. L'unico dubbio resta se fare come i seguaci di Bordiga e Gramsci a Livorno, lasciare in massa il teatro subito dopo la conclusione del capo, che stavolta è lui. Lo è diventato ai tempi dei girotondi e all'ombra di Cofferati, ora altrove. Indimenticabile la sua relazione al culmine del «biennio rossiccio» (la definizione è di Peppino Calderola), in un convegno all'Ambra Jovinelli, in cui Mussi espresse tutta la sua calda fiducia nell'avvenire: «La destra ci trascinerà indietro in un medioevo delle istituzioni e dell'anima, popolato di latifondisti del video, soldati di ventura, bande tribali!».
Impiegato, proprio no. Mussi, invece, è personaggio di spessore. Vecchio Pci di Piombino, Fgci, Normale di Pisa, dove ha affinato appunto la razionalità e conosciuto D'Alema, sulle scale del pensionato per studenti. «Avevamo due borse a testa, una per mano. Sentimmo un frastuono. I fascisti avevano tentato di metter su una manifestazione per i colonnelli greci, quelli di sinistra avevano reagito. Mollammo le borse e ci precipitammo. Capitando in mezzo a un massacro infernale. Ci conoscemmo così, nel furore della battaglia. Massimo era asciutto come un'acciuga, aveva i baffetti appena accennati e una testa enorme tutta ricci. Io ero magro, portavo un gran ciuffo nero sulla fronte e non avevo ancora i baffi». Ieri Fassino l'ha abbracciato e baciato. D'Alema si limita a una pacca, poi gli indica il posto accanto a Reichlin. I mussiani precisano che respingeranno l'invito di Fassino a restare nel partito, ma eviteranno l'uscita in massa dal Palasport. L'intervento di oggi si annuncia ancora più ottimista di quello del Mussi girotondino: «Nello stadio tecnologico in cui si trova l'umanità, l'incremento del consumo di materia ed energia disegna una curva catastrofica!». A Firenze non è apparso altrettanto angosciato.
«In questi quarant'anni ho affrontato diversi momenti difficili, cambiamenti profondi, svolte. Ogni volta mi sono preso la libertà di dire quel che pensavo». Non è vero che è stato sempre all'opposizione. «L'ultima volta che ho votato la mozione di maggioranza, lo slogan era: "Una grande sinistra in un grande Ulivo". Oggi l'Ulivo è più piccolo e la sinistra ammaina le insegne. Evapora». In effetti Mussi è il più coerente con la stagione dei movimenti e della critica da sinistra alle segreterie dei partiti. Altri del Correntone che simpatizzarono per i girotondi, da Bassolino alla Melandri, non ci sono più. In serata quel che resta della sinistra del partito era riunita per una cena frugale, crostini di milza, ribollita e chianti, per decidere il da farsi. Si diffonde la voce che Fabio parlerà a mezzogiorno, sciogliendo l'imbarazzo: tutti i delegati, non soltanto i suoi, lascerebbero il congresso, ma per andare a pranzo. Potrebbe essere una delle ultime volte, a ricordare l'altra relazione di Mussi: «Qui si mette a rischio la biosfera, le condizioni basilari di produzione e riproduzione della vita!».
Irremovibile, si augura almeno di non perdere le amicizie. «Ci terrei molto a salvare i rapporti personali. Quando nel '94 ci fu il ballottaggio D'Alema-Veltroni, andai da Massimo a dirgli: ho deciso, voto Walter. Lui non mi ha mai portato rancore». Portare rancore a Mussi è quasi impossibile: anche gli avversari gli riconoscono correttezza, simpatia e talento per le battute, riservate negli ultimi tempi al partito democratico (la migliore: «Fondere cristianesimo e illuminismo era il grande problema irrisolto di Kant; ora ci provano Fassino e Rutelli»). Se ne accorse anche Berlusconi, che dopo averlo schernito — «la sua faccia è una via di mezzo tra Hitler e un salumiere» — lo invitò a cena. «Fu una serata memorabile, una gara di battute» ha raccontato Mussi. Ieri Berlusconi appariva rilassato e disponibile, alle riforme e all'intervento in Telecom. Più preoccupato Mussi, che ha il problema dell'approdo. La coerenza socialista lo porterebbe verso il rinato Psi, dove però troverebbe De Michelis e le insegne del garofano. Più probabile l'accordo con Bertinotti, che socialista non è. Alla festa della ribollita si decide che è meglio restare al congresso ed evitare sceneggiate: «Siamo gente seria, noi». Il capo è chiuso in albergo a limare l'intervento, che si annuncia denso, colto, ricco di citazioni. Quell'altra volta aveva evocato Krugmann, Albraith, Adorno («In gioventù a me molto caro»), Tversky e Kahnemann: «Il presente immediato è governato dal cieco caso. Si gioca a dadi; ma il tuo numero non esce mai».

Corriere della Sera 20.4.07
Nessun fischio al Cavaliere. Via al disgelo
Berlusconi a Firenze applaude Fassino: discorso serio. Condivido il 95%, quasi quasi mi iscrivo al Pd
di Marco Galluzzo


FIRENZE — Si avvicina il dalemiano Latorre e gli stringe la mano e parlottano per due minuti. Gli vanno incontro il senatore Franco Debenedetti, il tesoriere diessino, Ugo Sposetti, lo accolgono con un sorriso e un benvenuto. Lui si fa strada fra i delegati e nessuno lo fischia. Si accomoda in terza fila e un centinaio fra fotografi e cameramen lo assediano, mandando in tilt la sicurezza a lui dedicata (i portuali di Livorno), all'aria alcune sedie, rischiando di far cadere a terra Gianni Letta, trasformando il suo ingresso in un happening. «Un'accoglienza da star», dirà l'ex sottosegretario di Palazzo Chigi, che più di tutti lo ha voluto al congresso dei Ds.
Berlusconi applaude il discorso di Fassino seduto in terza fila, con accanto Paolo Bonaiuti e Gianni Letta. Batte le mani al passaggio sulla legge elettorale, poi di nuovo quando il segretario ds parla di riforme condivise, per un Paese più civile, dove «l'avversario non è più considerarsi un nemico» e l'Italia può considerarsi stabilizzata. Sembra di assistere a un fotomontaggio ma è realtà: il Cavaliere applaude più volte Fassino, i due si parlano senza parlarsi, lui arriva a dire che «il 95% delle cose che ho sentito sono condivisibili, quasi quasi mi iscrivo anche io al partito democratico».
Per il ministro Mastella l'atmosfera «è quella dell'inciucio, vogliono farci fuori, noi piccoli partiti». Per chi assiste all'evento, strette di mano, gesti e parole descrivono un dialogo istituzionale fra Forza Italia e Ds nel pieno del suo svolgimento. L'ex premier sceglie di fare outing su Telecom, comunica in modo ufficiale la sua disponibilità, proprio sull'uscio del Palacongressi fiorentino. Chi ha voglia di immaginare scenari può sbizzarrirsi: il Cavaliere sdoganato dai ds, ha tentato di fare un passo indietro in politica e uno avanti negli affari, il conflitto di interessi che scolora, un assetto istituzionale diverso in cui le riforme danno attuazione a un accordo sotterraneo.
È l'esegesi possibile di una cronaca che vede Berlusconi ancora circondato da cameraman e cronisti all'uscita dal congresso. Alfredo Reichlin sbotta indispettito: «La sua presenza è un fattore di disordine». D'Alema segue divertito, con gli occhi, la bolgia. Lui continua a parlare, senza sosta: «È stata una platea civile. È uno stimolo per noi, se fanno il partito democratico anche noi realizzeremo presto un mio sogno, quello del partito della Libertà. A Fassino in ogni caso faccio tanti e sinceri auguri, ha fatto un discorso serio, responsabile». Poi però avverte, alludendo anche alla legge Gentiloni: «Spero che alle parole seguano i fatti».
Fra gli ospiti c'è il socialista europeo Martin Schultz: l'ex premier lo definì kapò, ne nacque un caso internazionale. Oggi è acqua passata, è lo stesso Schultz a dire «mi fa piacere rivederlo in un clima diverso». Anche Berlusconi continua a ripetere che c'è «un clima di transizione», che esistono le opportunità che «i partiti comincino a confrontarsi senza eliminarsi a vicenda», che «il bipolarismo può fare un passo avanti».
Oggi l'ex premier sarà di nuovo in veste di ospite, al congresso della Margherita. Assisterà al discorso di Rutelli. Per Mastella e altri della maggioranza ci sarà di nuovo «aria di inciucio».

Corriere della Sera 20.4.07
Bertinotti, fine settimana sul Monte Athos


MILANO — Il viaggio era stato fissato per il 23 e il 24 febbraio. Poi la bocciatura della mozione dell'Unione sulla politica estera al Senato e la conseguente crisi di governo con tanto di avvio di consultazioni al Colle, lo avevano convinto a rinunciare. E a malincuore aveva ammesso: «Il richiamo al dovere mi ha fatto restare qui. Ma se avessi avuto coraggio ci sarei andato, dicendo che ci sarebbe stata una ragione in più». Ora però, il fine settimana di riflessione tanto atteso è arrivato e neppure i due congressi di Ds e Margherita intralceranno i piani del presidente della Camera: domani e domenica Fausto Bertinotti visiterà i monasteri della repubblica teocratica greco-ortodossa del Monte Athos, nella parte più orientale della penisola Calcidica, in Grecia.
Con al seguito una delegazione ristretta e formata da soli uomini (i monaci proibiscono l'accesso delle donne nella loro repubblica), Bertinotti arriverà intorno alle 13 a Karies, la capitale, dove risiedono gli organi direttivi. Prima tappa, il monastero di Vatopedi, uno dei più antichi. Nel pomeriggio prenderà parte alla celebrazione dei vespri. Domenica, la sua giornata di preghiera inizierà alle 5.45, con il rito religioso nella cappella del monastero. Poi visita ai monasteri della Grande Lavra e di Simonos Petra.

Corriere della Sera 20.4.07
«Aversa, situazione grave verifiche sui pazienti reclusi»
di Livia Turco e Clemente Mastella


Una catena di morti (tre suicidi, due vittime dell'Aids), sovraffollamento (300 reclusi in una struttura che può ospitarne 170), degrado: il dramma dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, uno dei sei in Italia, è stato al centro di un reportage pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì. Ecco l'intervento dei ministri della Salute e della Giustizia.
Gentile direttore, in qualità di ministro della Giustizia e di ministro della Salute siamo convinti che le informazioni pubblicate dal Corriere della Sera, a proposito della situazione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, meritino la più sollecita attenzione.
Il problema delle condizioni e del ruolo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è oggetto di una seria riflessione da parte dei nostri uffici per riuscire a realizzare, al più presto, iniziative adeguate ad affrontare una situazione che è grave, sotto molti profili, ormai da lungo tempo.
Il primo e più urgente passaggio è costituito dalla piena attuazione del decreto legislativo 230/1999, che prevede il trasferimento integrale delle competenze in maniera sanitaria, ora assolte dall'Amministrazione penitenziaria, al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni. In questo senso, concordiamo sulla necessità di accelerare, d'intesa con le Regioni, tutte le procedure utili allo scopo.
A nostro giudizio si impone, inoltre, una verifica rapida e puntuale della validità dei criteri che, per una quota degli attuali internati, determinano la permanenza negli Ospedali psichiatrici giudiziari.
Appare, infine, indispensabile affrontare la questione centrale dell'imputabilità degli autori di reato, che forma oggetto delle direttive, di prossima presentazione, da parte della Commissione per la riforma del Codice penale insediata presso il Ministero della Giustizia.
Cordiali saluti,
Ministro della Salute
Ministro della Giustizia

il manifesto 20.4.07
Partiti nel vuoto
di Gabriele Polo


Un partito muore quando vengono meno i motivi per cui è sorto: forse questo devono aver pensato i dirigenti dei Ds. Un partito nasce quando dalla società ne emerge il bisogno: sicuramente a questo non hanno pensato i leader della Quercia avviandosi a sciogliersi nel nascente Partito democratico.
I due atti che vanno in scena a Firenze, morte e nascita, non conoscono soluzione di continuità, perché c'è da preservare la struttura (fuoriuscite a parte) e questo è già un giudizio di merito, insieme all'altro che - in realtà - è una constatazione: il futuro Pd avrà un consistenza elettorale che - nel migliore dei casi - sarà pari alla metà della somma delle due entità storiche che eredita, quella democristiana e quella comunista. Aritmeticamente è un disastro, ma è niente rispetto al prodotto di un pasticcio politico che viene rivendicato come balzo vero il futuro. Difficile spiegare simili incongruenze e tali masochismi se non con una constatazione e una riflessione.
La constatazione riguarda la genesi del binomio morte-nascita. Il Pd sarà il primo partito al mondo a nascere dal governo. Di solito avviene il contrario: si fa un partito, si pongono degli obiettivi e si cerca di portarli al potere. Qui, invece, il nuovo soggetto politico nasce dentro «il potere», per dare maggior stabilità al governo. E' il risultato di una concezione della politica per cui quest'ultima si può esercitare davvero solo stando al governo: chi è fuori non conta nulla. Una depravazione dell'agire pubblico, condita dall'oosessione della stabilità, che si è talmente impossessata dei professionisti della politica al punto da contagiare anche chi, all'estrema sinistra, finisce col pensare che la politica si possa fare solo dall'opposizione: governisti e oppositori sono vittime della una stessa logica, che esaurisce tutto nel «governo». Dimenticando quanto potere reale abbiano perso nell'era della globalizzazione le istituzioni rappresentative ed esecutive a scapito di poteri sovranazionali, dal mercato con le sue istituzioni alla cultura con i suoi cenacoli.
La riflessione (ma è soprattutto un terreno ricerca e di lavoro) è che la morte-nascita che si rappresenta a Firenze è solo un piccolo aspetto di una crisi cui manca una diagnosi. Crisi nel senso proprio del termine, momento di trasformazione profonda che non trova ancora uno sbocco chiaro: l'ingarbugliarsi guerrafondaio delle relazioni internazionali in quello che Wallerstein chiamava sistema-mondo, la riduzione del peso degli stati nazionali in assenza di nuovi organismi di governo reale, la dispersione sociale di ogni comunità, la preminenza del mercato incontrollato sul lavoro frammentato. Una tale «confusione» che porta un partito a sciogliersi perché chi lo compone non ne ritrova più il senso nel mondo cambiato e che porta alla nascita di un nuovo soggetto politico senza una qualsiasi barra. Così quel che resta è solo l'amministrazione confusa e un po' velleitaria di un presente che non sa scorgere futuro.
E' su quest'ultimo terreno - un campo fitto di individui ma privo di progetto, che si apre in Italia e nel mondo - che una futura sinistra dovrà lavorare. Per non ridursi all'essenza speculare del vuoto politico targato Pd.

il manifesto 20.4.07
Silvio applaude, Mussi no
Berlusconi è già innamorato: «Se il Partito democratico è quello tratteggiato da Fassino quasi quasi mi iscrivo». Fabio Mussi si commuove ma non ci ripensa, oggi l'addio dal podio
di Micaela Bong


«Siamo fatti di carne e sangue». Il segretario Piero Fassino ha terminato la sua relazione e Cesare Salvi esce subito dal palazzetto: «L'appello a restare? Vado a fumarmi una sigaretta e ci penso», risponde ironico. Ma Fabio Mussi, ancora in piedi all'estremità del palco, aspetta parecchi minuti prima di commentare. Verso l'uscita laterale del Mandela Forum di Firenze dove inizia il quarto e ultimo congresso dei Ds c'è ancora Silvio Berlusconi circondato da giornalisti, telecamere e fotografi che straparla e si concede a ogni inquadratura, a ogni microfono, a ogni taccuino. E il leader della sinistra diessina aspetta che torni la calma. «Siamo fatti di carne e sangue», dice allora a chi finalmente gli domanda se si è commosso quando il segretario si è rivolto a lui e a Cesare Savi nell'estremo appello a ripensarci. In quel momento sul maxischermo è apparso il ministro dell'università, un primo piano che sì, l'emozione la tradiva tutta. Ma prevalgono «la razionalità e la responsabilità politica». Nessun ripensamento dell'ultimo minuto, «non ci sono le condizioni politiche» e «qui si fa un partito che non sento mio, io ero per una grande sinistra in un grande Ulivo. Qui si fa un Ulivo più piccolo senza sinistra». Quello che una volta era il correntone uscirà. E anzi, anche dalla platea Mussi dice di aver sentito serpeggiare dubbi, la sensazione di uno «stato d'animo sospeso».
Strano congresso, in effetti questo. Fine di una storia, comunque la si voglia mettere, ma senza grandi entusiasmi. La parola d'ordine è futuro. I giovani, soprattutto i giovani in primo piano nei maxischermi che rimandano decine di «frame» di tg di tutto il mondo che poi lasciano il posto a altrettante facce, le persone in carne e ossa del Partito democratico. La ventiquattrenne Caterina, sciarpa lilla stile Gruber annodata al collo, che parla del muro di Berlino caduto quando lei aveva cinque anni, dei primi soldi guadagnati in euro e delle «grandi speranze» accese nei giovani con la vittoria dell'Unione. «La politica è un grande viaggio verso il futuro invece che una piccola stazione confinata nel passato», recita una voce fuori campo mentre sugli schermi scorrono a gran velocità le immagini di strade, campi, orizzonti indefiniti e Bob Dylan canta «Series of dreams», «stavo pensando a una serie di sogni dove niente arriva alla cima, tutto quanto sta giù dove è ferito e giunge a una sosta permanente». Non proprio il massimo, per il partito del futuro.
Giù, sotto una sorta di rampa da skate-board interrotta da uno schermo che da sopra il palco scivola verso il parterre, siedono le delegazioni dei partiti di maggioranza e opposizione. E siede Silvio Berlusconi, che entra quasi inosservato e appena si trova nella sala scatta il parapiglia. L'Udc D'Onofrio cerca di salvare il leader dalla valanga umana che gli si riversa addosso: «Faccio il servizio d'ordine», si dice da solo. Nessun applauso al Cavaliere, ovviamente, ma nemmeno fischi. Quando entra Piero Fassino, scatta l'applauso, ma non aria da ovazioni (l'applausometro dice: prima Finocchiaro, secondo Bersani). Il segretario saluta gli ospiti, ma quando Fassino stringe lungamente la mano a Berlusconi la scena si può vedere solo dal vivo e non su maxischermo come per gli altri. Una sapiente regia ha voluto evitare che il faccione del Cavaliere si tirasse dietro qualche fischio? Il «fair play» è comunque studiato. E i maliziosi pensano subito all'affare Telecom.
Ancora qualche minuto prima della relazione di Fassino. «Somewhere over the rainbow...», suona e risuona la colonna sonora del Mago di Oz mentre la strega cattiva dell'ovest, colui contro il quale l'Unione è riuscita per un soffio a vincere le elezioni siede tranquillamente tra i comunisti trasformandosi d'incanto nella strega del nord, la fata buona di Arcore. «Coraggioso», «responsabile» «serio», non si risparmierà il Cavaliere commentando l'intervento di Fassino. Mentre il segretario afferma che in politica non ci sono nemici, ma avversari, Berlusconi annuisce. Quando Fassino parla della necessità delle riforme, il leader forzista applaude.
Al Forum per ora Fabio Mussi aspetta. Aspetta di parlare, oggi, dal podio per il suo ultimo intervento da diessino. Sull'uscita laterale, Berlusconi è ancora lì a dire che il Partito democratico è «molto positivo», perché rafforza il bipolarismo. Il Cavaliere quasi quasi si iscriverebbe a questo Pd se non fosse che nella relazione di Fassino «non c'è stato alcun accenno critico al passato» e il segretario diessino «ha detto che porteranno le loro bandiere nel nuovo partito». Quelle bandiere per Berlusconi sono ancora un po' troppo. Per la sinistra della Quercia che fu sono invece troppo poco.

il manifesto 20.4.07
Quell'anarchico di nome Kafka
Un Kafka tutto politico contro la macchina dell'oppressione. Quella esercitata dallo stato e dalla legge e quella che infliggiamo a noi stessi. In un saggio di Michael Löwy la potenza ribelle dello scrittore praghese
di Mario Pezzella


Un uomo ribelle, ironico, con simpatie sovversive: questo l'inconsueto ritratto di Kafka, come emerge dal libro di Michael Löwy Kafka, sognatore ribelle (Eléuthera, pp. 136, euro 13). Löwy ricorda i contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi e la «passione antiautoritaria», da cui prende origine la sua opera letteraria. La sua ribellione contro l'autorità patriarcale possiede una dimensione storica e politica, presente anche nei romanzi maggiori. Il Processo - secondo Löwy -, oltre ad essere un resoconto di disperazione esistenziale, compie una critica radicale del potere burocratico, che domina lo stato del Novecento. L'autorità contestata da Kafka non è solo quella familiare e paterna, ma è l'impersonale e anonima burocrazia, che la sostituisce in forma sempre più radicale nel corso del secolo passato (come mostreranno gli studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte). Sembra che Kafka abbia affermato in una conversazione: «Le catene dell'umanità torturata sono di carta protocollo», riferendosi agli immani meandri e apparati amministrativi dello stato moderno, in cui l'individuo viene stritolato come una rondella insignificante. Il «Castello» dell'omonimo romanzo è il simbolo stesso di questa anonima impenetrabilità. Secondo Löwy, i romanzi di Kafka descrivono il passaggio epocale da un'autorità fondata sulla dipendenza personale, ad un potere astratto che si impone «come il meccanismo impersonale del congegno» (Löwy), destinato a uccidere i condannati nel racconto Nella colonia penale.
In realtà, più che ad una completa eliminazione del potere arcaico e personale assistiamo nell'opera di Kafka al suo inedito connubio con una tecnologia «sofisticata, moderna, esatta, calcolata, razionale» (Löwy). Il più arcaico e il più moderno si fondono nell'ottusa brutalità dei funzionari kafkiani, che sono nonostante tutto i rappresentanti di un'autorità astratta e insondabile. Come già aveva osservato Walter Benjamin nel suo saggio su Kafka, il diritto e la burocrazia sono le incarnazioni moderne del destino, che impedisce la libertà e l'autodecisione. La reificazione burocratica è un'espressione di quella generalmente imposta dal capitalismo, di cui sembra che Kafka abbia affermato: «Il capitalismo è un sistema di dipendenze che procedono dall'alto al basso e dal basso all'alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell'anima».
Una lettura così dichiaratamente politica dell'opera di Kafka non esclude tuttavia altri piani di lettura - teologico, esistenziale, psicoanalitico -, collocandoli in una prospettiva critica e non convenzionale. Così, la meditazione teologica di Kafka non ha nulla in comune con le rassicuranti interpretazioni del suo amico Max Brod, per cui il Castello rappresenterebbe la Grazia o il governo di Dio. Come già avevano intuito Adorno e Benjamin, quella di Kafka è una teologia radicalmente negativa, in cui ogni Legge ed ogni Chiesa positiva hanno perso intima vitalità e si sono trasformate in apparati astratti al servizio del potere. «La non-presenza di dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini», caratterizzano secondo Löwy la teologia negativa kafkiana. Come Benjamin, egli crede tuttavia in una «debole forza messianica», che sarebbe rimasta in possesso dell'umanità e sosterrebbe la sua resistenza contro il male e l'apparato del dominio. Come Bloch, Scholem e lo stesso Benjamin nei primi due decenni del secolo, Kafka è incline a una sorta di paradossale «anarchismo religioso»: la redenzione messianica richiede la cooperazione dell'uomo e questa si manifesta innanzittutto nella distruzione degli apparati di costrizione e di potere: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario», scrive in tal senso Kafka in un aforisma del 1917, «non all'ultimo, ma all'ultimissimo giorno».
Anche l'ebraismo di Kafka va considerato alla luce della sua passione antiautoritaria. E' probabile che nella stesura del Processo Kafka sia stato influenzato da alcune condanne per «omicidio rituale», e dall'antisemitismo morboso che ne era derivato (in particolare quella contro Mendel Beiliss, del 1913). Esse gli ponevano innanzi in modo inconfutabile la maledizione del paria, che poteva colpire alla cieca e in modo irrazionale ogni ebreo (questa nozione è al centro di un grande saggio di Hannah Arendt del 1944). Tuttavia, questa condizione viene da lui progressivamente universalizzata. K. nel processo rapresenta la condizione ebraica, eppure allo stesso tempo la sorte che sempre più frequentemente può toccare ad ogni individuo sottoposto agli apparati giuridici della modernità. I romanzi di Kafka sono scritti «dal punto di vista dei vinti» (Löwy) e descrivono la reificazione che invade ormai ogni piega dell'esperienza soggettiva, senza risparmiare quel «foro interiore», che perfino Hobbes riteneva intangibile dalla violenza del potere. La corruzione della più intima soggettività è l'aspetto più inquietante dell'opera kafkiana, che Arendt ha indicato come interiorizzazione della colpa e identificazione con l'aggressore.
Alla fine del Processo, K. si lascia uccidere quasi senza reagire, come rassegnato e convinto della propria colpa. In realtà, per quel poco che sappiamo della sua vita, egli non è colpevole per avere resistito o trasgredito a qualche legge, ma per aver partecipato senza protesta all'apparato anonimo e impersonale, che ora lo colpisce personalmente. Burocrate egli stesso, K. è solitario, narcisista e indifferente alla sorte degli altri. Egli ha compiutamente interiorizzato la legge dell'apparato, prima di subirne e comprenderne sul suo corpo la cieca violenza. Il male compiuto da K. è una «banale» pertecipazione all'indifferenza e alla passività collettiva, come quelle che poi realmente permetteranno la creazione dei totalitarismi e dei campi di sterminio. Il romanzo descrive il risveglio doloroso della sua coscienza e la sua tardiva decisione a lottare. Come spesso Kafka ripete nella sua opera, il rinvio e la sospensione indefinita conducono a perdere l'attimo propizio, che precipita inesorabilmente nel tempo mancato.

Uno stralcio dal discorso di Fassino del 19.4 al PalaMandela di Firenze:

«(...) C’è qui, dunque, un ampio appassionante terreno di ricerca, confronto e incontro che consente anche di aprire una nuova stagione del rapporto tra credenti e non credenti.
Ed è per questo che non guardiamo con ostilità al Family Day promosso da un gruppo ampio di associazioni cattoliche, con le quali ci interessa al contrario interloquire.
Così come – nel rispetto delle autonomie di pensiero e di ruoli – serve una nuova stagione di confronto tra fede e politica.
Né ci spaventa e ci preoccupa che il mondo cattolico, le sue istituzioni sociali, la Chiesa si manifestino con maggiore assertività.
Semmai tutto questo deve sollecitare la politica ad essere all’altezza delle sfide culturali e morali che anche dal mondo cattolico ci vengono poste.
Le nuove frontiere della scienza, della ricerca e delle tecnologie ci hanno condotto in un tempo in cui la vita, la morte, la riproduzione sono affidati sempre di più all’intervento dell’uomo e del suo sapere.
E ciò suscita – sia in Benedetto XVI, sia in un non credente come Habermas – interrogativi etici, culturali, antropologici a cui tutti siamo chiamati a dare risposte, promuovendo una nuova stagione di ricerca culturale e di dialogo tra culture e religioni.
Anche per questo serve un grande Partito Democratico, di donne e uomini liberi, credenti e non credenti, mossi dall’unico intento di affermare valori di uguaglianza, di giustizia, di solidarietà, di dignità.
Qui sta la vera difesa della laicità. Che non consiste nella riproposizione di antichi e anacronistici steccati. Ma nella comune ricerca di un nuovo umanesimo, di un pensiero nuovo, capace di suscitare comuni, innovative risposte alle grandi questioni che interrogano l’intelligenza e la coscienza dell’umanità contemporanea.
Solo la politica capace di alimentarsi a questa ricerca comune è una politica forte, autonoma e quindi laica.
E d’altra parte il rapporto con il mondo cattolico rappresenta una delle grandi costanti della politica italiana.
E le modalità con cui il mondo cattolico ha organizzato e realizzato la sua presenza politica ha sempre segnato la storia italiana, sia quando vi è stato un partito come la Democrazia Cristiana, fondato sul presupposto storico dell’unità politica dei cattolici, e sia quando, come oggi, quel partito non c’è (...)».


Corriere della Sera Roma 20.4.07
Filosofia, voci di confine
Diciotto tavole rotonde e due controversie sulla laicità


È dedicato al tema dei Confini il Festival della Filosofia, che quest'anno ha in progetto diciotto tavole rotonde, sette «Lectio Magistralis», due controversie, sei incontri su pensatori di confine, quattro incontri su voci di confine, cinque caffè filosofici. Nei numerosi appuntamenti si alterneranno pensatori, intellettuali e scrittori. Come Marc Augé, Marco Bellocchio, Remo Bodei, Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Franco Cordero, Giulio Giorello, Hanif Kureishi, Piergiorgio Odifreddi, Tariq Ramadan, Fernando Savater. Curata da Paolo Flores d'Arcais e da Giacomo Marramao, docente all'Università Roma Tre, la rassegna affronta un tema che rappresenta un nodo nevralgico del nostro presente: il confine come luogo dell'emancipazione, «la soglia lungo la quale si può e si deve vivere l'esperienza necessaria e irrinunciabile dell'avventura umana, politica e civile».
Tra le novità di quest'anno, le due controversie filosofiche sul tema della laicità, che vedranno il 9 maggio Paolo Flores d'Arcais a confronto con Giuliano Ferrara e il 23 maggio Hanif Kureishi, scrittore e regista anglo-pakistano laico e contrario alle scuole religiose, dibattere con Tariq Ramadan, docente universitario svizzero e intellettuale islamico moderato. «Avremmo voluto organizzarne di più - ha annunciato Flores d'Arcais - ma abbiamo chiamato moltissimi cardinali, vescovi e biblisti e tutti ci hanno detto di no. Anche molti filosofi famosi non gradiscono il confronto, che invece dovrebbe essere il sale della filosofia. Ci teniamo a farlo sapere, per non essere poi accusati di laicismo fondamentalista».
Nuovo anche il concerto «Il suono del Logos», che verrà eseguito in prima assoluta la sera del 10 maggio nella sala Petrassi, con «cantate filosofiche» composte da sei musicisti contemporanei, da Luca Francesconi a Helmut Oeringh, ispirati ai volti e alle voci di altrettanti pensatori, da Norberto Bobbio a Oliver Sacks. Tra gli spettacoli, sono ancora da segnalare l'opera teatrale «Io, Charles Darwin, tracce e voci della mia vita», tratta dall'autobiografia dello scienziato che ha teorizzato l'evoluzione della specie, e le «Quattro cosmicomiche di Italo Calvino» con la narrazione recitata e concertata da Graziella Galvani.
Altra novità di quest'anno, l'entrata a pagamento: di due euro per il publico generico e di un euro per gli studenti. Decisa, come hanno spiegato il presidente di Musica per Roma Gianni Borgna e l'amministratore delegato Carlo Fuortes, per evitare «i problemi del troppo successo», come è accaduto per il Festival della matematica, quando fuori dalle porte dell'Auditorium si sono accalcati centinaia di studenti che alla fine non sono riusciti a entrare. Adesso i numeri sono contingentati e chi vorrà entrare potrà acquistare i biglietti già dai prossimi giorni e organizzarsi un palinsesto personale di eventi.
Organizzate sul tema di Confini anche le lezioni di yoga, le attività per i bambini programmate dall'assessore Maria Coscia, la rassegna di cinema con sette film scelti da Edoardo Bruno, la mostra di Gianfranco Baruchello che espone un'opera lunga quindici metri.
CONFINI. FESTIVAL DELLA FILOSOFIA. Auditorium Parco della Musica, tel. 06.80241281. Dal 9 al 13 maggio

giovedì 19 aprile 2007

l’Unità 19.4.07
MARCO BELLOCCHIO. Ecco come il registra, se gli venisse chiesto, vorrebbe documentare con la sua macchina da presa questo momento di passaggio
«Il Pd è vicino. Filmerei lo sguardo dei delegati, a fine congresso»
di Roberto Cotroneo


Un evento drammatico? Tragico? Non vedo ancora una identità nuova perché i Ds rinunciano alla loro radice laica

PROVIAMO a fare un altro esperimento. Guardiamo al Partito democratico che dovrà ancora nascere. Guardiamolo come se fosse un documentario. Girato da un grande regista. Un documentario come quello che girò nel 1990 Nanni Moretti, e che si intitolava "La cosa", dove veniva messo in luce il dibattito interno al Pci di Achille Occhetto che portò alla nascita del Pds. Siamo andati a chiederlo a un altro regista importante, che in questi anni ha girato film che hanno fatto discutere e che hanno segnato il cinema italiano: Marco Bellocchio. Autore di lungometraggi che sono ormai dei classici, da "I pugni in tasca", a "L’ora di religione", fino a "Buongiorno, notte". Di film politici come "La cina è vicina". Di documentari come "Viva il primo maggio rosso" o "Matti da slegare". Regista da sempre di sinistra, alter ego in questo proprio di Nanni Moretti.
Bellocchio, allora, stessa domanda che ho fatto a Taddeucci della Saatchi. Ti do l’incarico di girare un documentario. Parti domani (oggi per chi legge) per Firenze, e gira un documentario sull’ultimo congresso dei Ds, prima dello scioglimento nella prospettiva del Partito democratico. Accetti?
«La risposta è subordinata a un’altra domanda, che in questi casi si fare sempre: quanta libertà ho?».
Sei libero di decidere quello che vuoi. Hai carta bianca.
«Allora mi domando qual è il genere di questo film. Se un film drammatico, se un film tragico... Questa invenzione del Partito democratico, da uomo di sinistra, non mi fa vedere ancora la nascità di una identità nuova. Soprattutto perché i Ds, entrando a far parte di questo partito, mi sembra rinuncino alla loro radice laica. È come se accettassero dalla Margherita certi principi che io da laico e da ateo non condivido».
Questa è la premessa politica. Ora dimmi cosa andrai a cercare con la tua cinepresa a Firenze.
«Nel documentare questo evento ho bisogno di fare un discorso stilistico. Quando ho girato "Buongiorno, notte", il film sul rapimento e la prigionia di Aldo Moro, mi sono posto questa domanda: qual è il mio punto di vista? Lì ho deciso di stare all’interno della casa dove Moro era detenuto. Tutto il film è girato «dentro» la casa. Non c’è mai una inquadratura che sia esterna. In questo caso invece mi piacerebbe stare sempre «fuori». È come se il mio sguardo aspettasse coloro che arrivano e coloro che entrano. Rinunciando, alla solita frontalità televisiva».
Ti tieni fuori, insomma.
«Sai, è come quando da bambino passavi davanti allo stadio e sentivi il tifo, il boato, il gol. Farei nello stesso modo. Il mio sguardo mi piacerebbe che fosse uno sguardo indiretto, di chi sta fuori, e attraverso questi echi, e attraverso queste risonanze, credo che potrei trovare lo stile migliore».
Ma che genere di documentario sarebbe?
«Sarà una rappresentazione o tragica, nel senso di una dimensione suicida, oppure drammatica, nel senso che là avverrà una separazione. L’importante per me è non usare le forme canoniche della televisione».
Le domande che faresti ai delegati, ai leader, che entrano ed escono dal luogo del congresso, quali sarebbero?
«Io chiederei: qual è il significato di questa operazione? dov’è il vantaggio? E lo dico con molta ingenuità, e non in un modo malizioso. Perché il vantaggio mi sfugge, anche se non è detto che non ci sia».
Intervisteresti più i leader, o più la base dei delegati?
«Certamente è più interessante la base dei delegati. I leader li abbiamo sentiti tante volte in televisione. Quello che dicono i leader lo sappiamo. Invece i delegati non li ascoltiamo mai. Sarebbe interessante parlare con i giovani militanti. Persino più interessante che parlare con quelli più anziani. Sono i giovani la scoperta, quelli che dobbiamo capire, anche un po’ il mistero di tutto questo».
Passiamo all’aspetto sentimentale. Un lunga storia, da domenica, cambierà. Ci sarà un nuovo partito. Ma certamente si chiuderà un’epoca lunghissima che comincia a Livorno nel 1921 e termina in un certo senso a Firenze nel 2007. Come pensi debba essere reso nel tuo documentario tutto questo?
«Se tu fai un montaggio dove fai vedere ad esempio l’attentato a Togliatti, e poi filmi il congresso dei prossimi giorni è come un truccare le carte. Semmai dovresti domandarti che cosa rimane oggi di quella storia. Cosa verrà cancellato e cosa rimarrà».
È tutto sull’oggi il tuo sguardo?
«Sì, credo che non metterei filmati di repertorio».
Senti, il congresso durerà tre giorni. Ci sarà un momento in cui, sabato, Piero Fassino dirà: da questo momento i Ds non esisteranno più, si confluirà nel Partito democratico, e inizierà la fase costituente. Al di là del significato politico di tutto questo, c’è anche un aspetto emotivo, che il cinema sa restituire meglio di qualunque altro mezzo. Cosa hai pensato per rendere nel tuo film proprio quel momento?
«Andrebbe girata con un’immagine metaforica. Questo momento, a meno che non accadano cose imprevedibili, va reso con un’immagine simbolica in fase di montaggio, un luogo che simbolicamente possa rappresentare la storia del partito».
Un’immagine di repertorio questa volta? L’unica?
«Sì, credo di sì».
Anche per "Buongiorno, notte", in un altro contesto, hai usato per chiudere il film un filmato di repertorio. La messa per Moro, con il sottofondo dei Pink Floyd di "Shine on you Crazy Diamond".
«I finali dei congressi sono sempre stati dei finali esaltanti. Anche questa volta dovrà essere così. Vorranno dare la sensazione di un nuovo percorso».
Forse a quel punto dovrai entrare in sala, e non più stare fuori, come per il resto del documentario.
«Se uno potesse raccontare gli sguardi dei delegati che tornano a casa, beh, sì, sarebbe un’idea. Girare questa grande sala del congresso che si svuota. Però sai, ci sono molte cose che si capiscono quando sei proprio lì. Certe scelte le fai in quel momento. Maturano in quei giorni. E tre giorni di congresso sono tanti».
Un’ultima domanda, Bellocchio. Che titolo daresti a questo documentario?
«Sai che ci sto pensando da un po’? Credo che il titolo dovrà essere scelto nella sintesi di due concetti. La fine di una storia e l’inizio di un’altra. Su queste due idee cercherei la sintesi in un titolo. Ma ancora non so dirtelo...».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 19.4.07
Da Cosa nasce Cosa
Dopo il Pci, un’altra storia
Il travaglio iniziato ai tempi della Bolognina oggi volge al termine
Dal film di Moretti, diciotto anni di svolte
di Oreste Pivetta


Quando c’erano loro, chissà se si stava peggio. Alla vigilia del Partito democratico, alla fine del PciPdsDs, il partito più lungo della storia italiana, sarà un difetto, ma come si fa a non provare nostalgia per i dieci giorni che sconvolsero il mondo di fronte ai tre che sconvolgono il nostro villaggio. Nella memoria di alcune date: 1917, 1921, 1924 (rivoluzione russa, congresso di Livorno, primo numero dell’Unità). Insieme con l’8 Marzo, il 25 Aprile, il Primo Maggio. O di altre che restano a testimoniare un tormento: 1956 Budapest, 1968 Praga, 1989 Tien an men.
Millenovecentottantanove è anche il muro di Berlino, qualcosa come una metafora che definiva in modo ultimativo la “irriformabilità del sistema”, come ricorda Achille Occhetto, il segretario della “svolta”.
Si potrebbe aggiungere altro e ciascuno (ciascun militante, come si diceva) potrebbe elencare qualcosa di suo. Se posso, aggiungo mio padre che una sera tornò a casa dalla sezione con un rotolo di cartoncino, dal quale estrasse un foglio che stese sul tavolo: era il ritratto bellissimo di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin, l’uomo d’acciaio che sconfisse i nazisti. Aggiungo l’angoscia che destavano un rombo di motori su un’isola lontana e il nome di una geografia ignota ancora, la Baia dei Porci, oppure l’orgoglio nel titolo dell’Unità: «La vittoria del Vietnam illumina il Primo Maggio» (del direttore Petruccioli). Aggiungo ancora una sera di primavera, quando un corteo sventolava bandiere rosse e s’udivano alcuni slogan: «Viva il partito di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer»; «È ora, è ora di cambiare, il Pci deve governare».
Al governo sono arrivati e un comunista che metteva paura a noi giovani cronisti per la sua severità e puntigliosità è diventato presidente della Repubblica. È cambiato il simbolo. Decenni fa, sotto elezioni, l’Unità interrogò un famoso artista a proposito del simbolo. L’artista lo definì una splendida sintesi: il martello degli operai e la falce dei contadini, la grande alleanza del popolo lavoratore, la stella a rappresentare il nostro internazionalismo e sullo sfondo la bandiera tricolore, che rivendicava il valore della via italiana al socialismo. «L’esecrato capitale/ nelle macchine ci schiaccia/ l’altrui solco queste braccia/ son dannate a fecondar/... Su fratelli, su compagne/ su venite in fitta schiera/ sulla libera bandiera/ splende il sol dell’avvenir...». Credo che la grafica politica non sia più riuscita ad esprimere un logo tanto efficace. Querce e ulivi non lo valgono.
Aldo Tortorella la storia comunista dal dopoguerra al crollo del Muro l’ha vista tutta, per molti anni dalla cima del partito. È stato direttore dell’Unità, è un intellettuale e di infinite letture. Un intellettuale che sicuramente ha letto tutto Gramsci (e vorrei approfittare per citare l’edizione economica, di Einaudi, dei Quaderni del carcere, da pochi giorni in libreria: quanta modernità nella polemica politica e culturale). I comunisti hanno sempre letto molto, le sezioni erano anche biblioteche popolari e cineforum (ma nelle sezioni arrivò anche la televisione di Lascia o raddoppia?). Erano una scuola ai tempi in cui don Milani criticava gli oratori perché lasciavano che i giovani si distraessero con il pallone invece di istruirli: contro la ricreazione, scriveva il parroco di Barbiana.
«Prevedevo - testimonia Tortorella, che dopo la Bolognina aveva firmato la “mozione due” insieme con Ingrao - che finisse così. Non provo particolari sentimenti. Ho scelto una posizione indipendente e penso a una sinistra nuova. Vedo questo appuntamento con il Partito democratico come il compimento di un processo iniziato da tempo... Molti di questi giovani o meno giovani si sono convinti che il punto d’approdo sia la liberaldemocrazia... Vogliono creare un partito orientato verso la liberaldemocrazia, con le loro buone intenzioni sociali, ma rinunciando a una critica del sistema. Già la parola sistema li fa rabbrividire».
«Me ne sono andato ai tempi del Kosovo», ricorda il leader ottantenne, il partigiano (catturato dai nazifascisti e fuggito) e gappista a Genova: «Il modello privatistico è diventato l’alfa e l’omega». Duro sì, ma senza scomuniche. Tortorella esprime la disponibilità laica di una battaglia e di una responsabilità politica nel senso della libertà. «Il nostro problema è comporre una sinistra di connotazione socialista, che dia rappresentanza al lavoro, una rappresentanza politica perché una rappresentanza sociale è garantita dal sindacato». «Nel lessico del moderatismo - scriveva Tortorella su Critica Marxista in un documento intitolato alla vecchia maniera “I nuovi fondamenti di un discorso per il socialismo” - c’è il cittadino come realtà unica, quando la realtà sociale è, al contrario, fatta di differenze di condizione tra cittadini, talora abissali. I lavori non negano il lavoro...». «La nostra via ci sembra indicata dall’esistenza di uno spazio politico e morale, al di fuori di rigidezze, di schematismi, di ripetizioni scolastiche del passato... Intorno ad alcune parole chiave: libertà ed eguaglianza (inscindibili: lo scriveva anche il liberale Bobbio, anteponendo l’uguaglianza), lavoro. Se si riprende la tradizione, è nel senso del lavoro e della libertà, appunto, come insegna il Manifesto di Marx ed Engels, della libertà solidale, perché la solidarietà è all’origine di tutto, del consorzio umano. Una tradizione va ovviamente considerata in senso critico. Non siamo mai stati laudatores del tempo passato...».
Veniamo da lontano, lo si è sempre detto. «Partendo da questo grande patrimonio, si tratta di costruire una cosa più grande». Si intitola La Cosa il film di Nanni Moretti che si apre con quella immagine e quelle parole di un compagno romano. Seguono altre parole, altre facce perbene, a confermare il cruccio e i dubbi, poco meno di vent’anni fa: «Siamo per l’apertura, per l’aggiornamento di questo grande partito, ma non dimentichiamo che i nostri compagni sono morti per questa falce e martello».
Vent’anni fa erano gli anni di Achille Occhetto, allora cinquantenne, la generazione dopo Tortorella e dopo Berlinguer, Natta, Bufalini, Reichlin, Macaluso, che erano la generazione dopo Togliatti e dopo Longo. Achille Occhetto e la Bolognina di un 12 novembre 1989, quando si capì che il Pci sarebbe diventato un’altra Cosa. «Una scelta abbastanza solitaria, anche se era stata preparata da una serie di colloqui, di valutazioni, di piccoli passi, dalla condanna di Tien an men alla riabilitazione di Imre Nagy, agli stessi colloqui sempre più stretti con i dirigenti dell’Internazionale socialista. Tanti segni che mi avevano dato la certezza che la situazione era ormai matura. Anche se occorreva un avvenimento che rendesse plausibile la svolta. E quell’avvenimento fu la caduta del Muro». L’occasione della Bolognina non fu premeditata: «Non immaginavo che i giornali il giorno dopo titolassero: il Pci cambia nome». Sicuramente aveva immaginato che da quel giorno in avanti e per mesi il suo partito si sarebbe misurato nel più intenso, emozionante, appassionato dibattito che la storia politica italiana avesse mai vissuto. Sottolinea orgoglioso Occhetto: «Il mio pianto alla fine del congresso di Bologna era di liberazione di fronte all’intensità di quella discussione, che aveva attraversato il partito e non solo il partito. Anche le famiglie si divisero. Il dramma s’era concluso».
Nanni Moretti registrava, in uno dei suoi film più semplici e più belli: «Sono molto, molto grato a Occhetto, che ci impegna a ridiscutere noi stessi. C’era bisogno di un atto di grande umiltà e di grande orgoglio insieme. Di fronte a quello che sta succedendo non si può dire che non c’entriamo un cazzo. Quello che sta succedendo ci deve far discutere». «Finalmente ho sentito proporre strade nuove, cose nuove». «Voglio capire con chi lavoreremo e lotteremo e per chi lavoreremo e lotteremo». «Il comunismo non è quella cosa lì. Il comunismo non è fatto da burocrati... da quelle cose lì». «La molla che ci stimola è la molla della fratellanza e della solidarietà». «Caro Mister X, ti prego di non cambiare senza farci capire bene dove andare. Sento un grande bisogno di comunismo»... «Ci stiamo dividendo...».
«Da quel momento in poi - continua Achille - abbiamo troppo aspettato. Esitare ha bagnato le ali della svolta». Congressi, Rimini e Bologna, Pds e Ds, sconfitte e vittorie elettorali, l’Ulivo e le primarie... Continua duro Achille: «A poco a poco è prevalsa una tesi opportunistica. Cambiare nome per rifarsi la faccia ed entrare nel salotto buono. La mia proposta voleva proporre un passaggio molto più radicale e ideale. Gli apparati presero il sopravvento». Normalizzazione? E l’ideale? «Ideale: mettere in discussione la parte peggiore della tradizione comunista, che era il partito, e tenere viva la parte migliore. l’aspirazione a cambiare la società. Il discorso è stato capovolto. Ha avuto la meglio la conservazione. Cospiravano in direzione contraria anche le condizioni generali della politica, esterne a noi». Idealismo? «È il rischio che si corre sempre quando si pongono obiettivi che non sono maggioritari».
Ed ora? «Non sono pregiudizialmente contrario all’idea di una nuova formazione politica capace di raccogliere i diversi riformismi della storia politica italiana, ripristinando un’idea alta di sinistra... Mi pare però che prevalga la voglia di moderatismo funzionale ai calcoli opportunistici, alla sopravvivenza di un governo. Ci siamo noi del Cantiere, ci sono quanti non faranno parte del partito democratico e che vogliono colmare un vuoto. Ci incontreremo il 12 maggio a Roma, per incominciare a discutere...».
Di nuovo, ancora, senza paura. La sinistra mai stanca.
Intanto, compagni, fratelli, amici, forse signori, andiamo a costruire qualcosa, una Cosa.

l’Unità 19.4.07
«Serenamente, ce ne andiamo»
La seconda mozione ds si è riunita ieri sera. Confermata la scelta: Mussi parla domani. Poi, via
di Simone Collini


DICONO che i sentimenti personali contano fino a un certo punto, che sono le valutazioni politiche che devono guidare le scelte. Dicono che sono sereni nonostante il passo che stanno per compiere, e che anzi solo in questo modo possono rimanere fedeli ai valori in cui hanno sempre creduto in questi trenta, quaranta, cinquanta anni di militanza. Dicono tutto questo e però poi a volte è una pausa che si prolunga a dire qualcosa in più, o uno sbuffo di fumo e la sigaretta gettata lontano chiudendo la frase. I 250 delegati della mozione Mussi si sono incontrati ieri sera a Firenze. Pci, Pds, Ds, i nomi cambiavano ma la storia era quella, e loro c'erano. Oggi si apre il congresso della Quercia, l'ultimo. Domani ci sarà il Partito democratico, e loro non ci saranno. Perché, dicono i sentimenti contano fino a un certo punto.
"Vado al congresso con spirito sereno", dice Gianni Zagato il giorno della vigilia. Mussi gli ha affidato il non facile incarico di coordinatore organizzativo della mozione. "Certo, ho passato tanti anni in questo partito, ma pur nel dolore della separazione sono convinto che questo sia l'unico modo per far sì che tutto quello in cui ho creduto non si perda. Sono convinto che si ricollocherà nella strategia futura a cui dobbiamo lavorare, quella di riunificare le forze di sinistra oggi divise". Negli anni 80 era a Torino con Fassino segretario, ricorda: "Mi lega a lui un affetto personale, che durerà. Ma questo non mi impedisce di compiere la mia scelta".
Quello che fa male, ai delegati della seconda mozione, è sentirsi chiamare scissionisti. Fa male a Mussi, che non ne fa mistero con i suoi. "Passo per scissionista", diceva con amarezza l'altro giorno, dopo aver sentito in tv il direttore del Tg1 Gianni Riotta dire che probabilmente così può contare su una maggiore visibilità. "Scissionista", pausa. "Quarantadue anni per la sinistra", pausa. "Ho vissuto come uomo libero e disciplinato, ma guai quando nei partiti la regola diventa il conformismo". Ai delegati ha ripetuto ieri quello che ha ripetuto nei mesi e anche anni addietro. Era alla manifestazione di lancio della cosiddetta Camera di consultazione permanente, due anni fa, quando disse per la prima volta: "Se fate il Pd, io non ci sarò". Quello che lo amareggia è anche che qualcuno abbia pensato che si trattasse di tattica. "Scissionista", pausa. "Non riesco a rassegnarmi all'idea che la sinistra italiana si riduca a correnti personalizzate in un nuovo partito. Non un partito nuovo, un nuovo partito".
Carlo Leoni è con lui. "E' chiaro che provo un grande dispiacere", dice il vicepresidente della Camera. "Ma non per quello che facciamo noi, ma perché viene a mancare il mio partito. Una comunità fatta partito, che non ci sarà più. Il giorno più duro, per me, è stato quando si sono conclusi i congressi di sezione, quando ho capito che la fine dei Ds era segnata". Non che non se lo aspettasse un risultato più o meno simile, ma fino all'ultimo ha messo in conto una mossa da parte della maggioranza che potesse consentire una ripresa del dialogo. Così non è stato, e ora dice che guarda al futuro "con voglia di cominciare a rimboccarsi le maniche per realizzare questa impresa, che non sarà facile ma che è necessaria": "Se il Pd nasce con a sinistra l'attuale frammentazione non avremo un centrosinistra forte. Se viceversa ci sarà una forza consistente e di governo sarà un bene per tutti". Per questo i sostenitori della seconda mozione chiedono "rispetto" per la loro scelta e il riconoscimento che quanto stanno per fare ha "pari dignità" rispetto al progetto del Pd.
Di paragoni con la Bolognina e con le ragioni allora avanzate dal Prc non ne vogliono neanche sentir parlare. "La separazione è una scelta difficile ma inevitabile", dice Fulvia Bandoli. Allo scorso congresso era la prima firmataria della mozione ecologista. Oggi ha firmato la mozione Mussi. "Non si può stare dentro il Pd senza convinzione, come ci starei io. La mia decisione è ben meditata, sono tre anni che discutiamo questo progetto. Sono quarant'anni che sto in questo partito, e sono sempre stata nella minoranza. Ma non mi ci sono mai sentita a disagio perché anche da questa posizione sono riuscita a vincere battaglie importanti. Ma quello che si sta per fare oggi non è una trasformazione, è un altro partito. Non di sinistra. E io non ci posso stare".

l’Unità 19.4.07
Scontro tra Confindustria e Bertinotti
Il presidente della Camera: «Telecom, capitalismo impresentabile». La replica: clima anti-imprese
di Luigina Venturelli


POLEMICA Tra accuse d’impresentabilità e controaccuse di statalismo, la miccia Telecom accende uno scontro al calor bianco tra il presidente della Camera e Confindustria. Pomo della discordia alcune osservazioni impietose sullo stato dell’imprenditoria nazionale: «La vicenda Telecom - ha dichiarato Fausto Bertinotti nel corso di una trasmissione televisiva - ci dice quanto il capitalismo italiano sia devastato».
L’accusa dell’ex sindacalista alla sua vecchia controparte padronale è senza mezzi termini: «Il fatto che ci chiediamo se ci sia un imprenditore italiano con abbastanza soldi per intervenire su Telecom è sconcertante». Insomma, «il capitalismo italiano è a un estremo di impresentabilità».
Immediata la replica che Confindustria ha assegnato ad una nota infuocata: «Le dichiarazioni del presidente della Camera confermano purtroppo il clima anti-impresa di larghi settori dell’attuale maggioranza». Il verdetto è definitivo e corredato dall’elenco dei meriti non riconosciuti: «Il capitalismo italiano ha trascinato il Paese fuori dalle secche della crescita zero, e grazie allo sforzo delle sue imprese piccole, medie e grandi è tornato a misurarsi con successo sui mercati dopo un severo processo di selezione».
Segue, quindi, la lista delle difficoltà logistiche riscontrate, ovviamente a causa dell’apparato statale: «In questa competizione le imprese italiane sono quasi sempre lasciate sole, a differenza di quanto avviene in altri Paesi». Va da sé che, secondo Confindustria, «fare impresa in Italia è sempre più difficile per il carico fiscale più alto d’Europa, una burocrazia senza pari, il rischio sempre più frequente di veder cambiare in corsa le regole del gioco. Forse - sottolinea l’associazione - quello che piace è il modello del capitalismo di stato che ha ridotto l’Alitalia nelle condizioni attuali».
La nota non si risparmia frecciatine ironiche, solitamente riservate ai virgolettati di qualche esponente piuttosto che ai toni formali di un comunicato ufficiale di categoria. Segno di quanto la polemica risulti indigesta, soprattutto nel momento in cui il sistema imprenditoriale sta mostrando, causa l’affaire Telecom, alcune evidenti lacune. Ma Confindustria assicura: «Gli imprenditori italiani continueranno con rigore ed impegno nella loro difficile sfida, e invitano il presidente della Camera ad un contatto più diretto per conoscere il volto vero del nostro capitalismo. Certo il dibattito sulle vicende economiche che riguardano il Paese sta toccando livelli che sconcertano e preoccupano».
Una querelle che non poteva restare senza eco politica. «L’aggressione di Bertinotti al capitalismo italiano mi sembra fuori luogo. Mi pare che il problema cruciale di questa maggioranza sia quello di guadagnare qualche consenso in più e non quello di riesumare il vecchio motto: molti nemici molto onore» commenta Marco Follini.
Meno posate le parole di Maurizio Lupi di Forza Italia: «Questo governo ha una concezione centralista e statalista, che si oppone al libero mercato e alla libera impresa». Puntualizza, invece, Alfonso Gianni, sottosegretario allo Sviluppo Economico: «Va ricordato a Confindustria che il declino industriale del nostro Paese non è un’invenzione della sinistra».

l’Unità 19.4.07
Sinistra, il momento dell’ascolto. E delle idee
di Valerio Calzolaio e Alessandro Polio Salimbeni


Si stanno muovendo le cose a sinistra. Il Prc ha svolto la conferenza di organizzazione, conferma la scelta dell’impegno di governo, il processo di costruzione di Sinistra Europea e, insieme, apre il tema della ricerca sul socialismo di oggi, con l’idea di un “cantiere” unitario della sinistra italiana. Il PdCI, in una stagione congressuale quasi conclusa, riprende la proposta della confederazione. I Verdi avviano il 4 maggio una fase costituente allargata e tematizzano un patto di consultazione a sinistra. Lo Sdi ha svolto il suo congresso straordinario per avviare la costituente socialista e aprire una fase di confronto ravvicinato innanzitutto con la sinistra Ds. Al congresso nazionale dei Ds, noi delegati della mozione Mussi stiamo dando vita al «Movimento per la sinistra democratica», un soggetto politico aperto e transitorio per una costituente alternativa al partito democratico.
Usiamo tutti parole analoghe, sentiamo tutti le stesse urgenze: certo vi sono storie e pratiche, forse significati e strategie in parte diversi. Colpiscono però il fermento, la vivacità, l’attenzione reciproca, la comune sensazione che la politica italiana abbia bisogno di un salto di qualità, nella rappresentanza a sinistra, nel disegno di strategie all’altezza delle sfide del presente, nel dare al governo Prodi un più solido carattere di innovazione e trasformazione del paese. Oggi sembra esserci una potenzialità in più: conta e incide la scelta di partecipare unitariamente, per la prima volta, al governo dell’Italia in un’Europa unita.
Proviamo ad elencare i fattori comuni. La scelta di “governare”, non solo per la sua inevitabilità a fronte del rischio-Berlusconi, cercando nuovi stimoli per superare evidenti difficoltà e problemi. La scelta dell’Unione, come polo di centrosinistra in un bipolarismo giusto, equilibrato e da irrobustire. La preoccupazione per la frantumazione del sistema politico e per l’indebolimento della rappresentanza sociale e culturale, non affrontabile solo in termini di strumentazione elettorale. La convinzione che la costituzione del partito democratico riguarda solo una parte dello schieramento politico di centrosinistra. Un atteggiamento non favorevole alla “produzione di partiti a mezzo di partiti”, alla difesa delle micro-formazioni come inerzia organizzativa. Ora, come possiamo fare passi avanti, tutti, insieme?
Il “campo della sinistra” non è caratterizzato solo dalle organizzazioni politiche, investe anche la ricchissima presenza di esperienze associative, di ricerca, di lotta sociale, di attività culturale. La rappresentanza non è problema che riguardi solo le forze politiche organizzate. Le culture che cercano di esprimere una nuova narrazione della società e del mondo, dinanzi al crescere delle nuove e vecchie contraddizioni, sono un patrimonio per arricchire la cultura politica della sinistra. La assunzione piena e consapevole della crisi di un modello di sviluppo distruttivo dell’ambiente e il carattere fondativo della differenza di genere, il lavoro - fondamento di dignità ed emancipazione - e i diritti - fondamento delle libertà individuali e dell’uguaglianza - sono i pilastri di un nuovo socialismo. E fa parte integrante della nostra riflessione il tema della ricostruzione di forme e sostanza della partecipazione politica. Il punto essenziale è proprio quello della discussione pubblica come percorso e assunzione condivisi delle scelte politico-amministrative e di governo. Pensiamo che si debba andare oltre l’idea che partecipazione sia una scheda o una preferenza. Nessuna obiezione ad “una testa, un voto”: è la base della democrazia rappresentativa. Non basta. Bisogna aggiungere “una testa, una idea”: è la base della ricostruzione dello spazio pubblico, della politica, della riduzione e del superamento della distanza tra governanti e governati. E allora bisogna pensare in termini di reti e non di strutture gerarchiche. Certamente i partiti ci sono e continueranno ad esserci, nodi nella e della rete. Ci sono come “deposito” storico, tessuto del radicamento sociale e territoriale, significativo selettore e formatore del “personale politico” e strumento a disposizione di quanti (e sono i più numerosi) non hanno voce né strumenti né potere. Invece non ci sono più come “antenna” nella e della società, come punto di riferimento articolato e diffuso per raccogliere e rielaborare bisogni e aspirazioni. E allora rischia di rimanere solo l’aspetto di gestione del potere politico, di selezione dei gruppi dirigenti per appartenenza e non per merito, di sovrapposizione e non di sovrastruttura della società.
Avanziamo una proposta. Avviare una fase di “ascolto”, una campagna di consultazione per raccogliere idee e proposte dal popolo della sinistra italiana, sui valori fondamentali (ambientalismo, laburismo, pacifismo, laicità, uguaglianza, differenza di genere, modello di sviluppo, antifascismo, ecc.), sulle priorità politiche (l’Italia nella cooperazione pacifica allo sviluppo sostenibile, dimensione europea sociale e energetica, cambiamenti climatici e politiche industriali,, scuola pubblica, pensioni e welfare, diritti sociali e diritti civili) sulle forme e sugli strumenti della politica (l’identità, la partecipazione, la militanza, i simboli elettorali). La campagna potrebbe essere promossa insieme da tutte le forze della sinistra - da noi allo Sdi, dal Prc al PdCI, dai Verdi ad altre soggettività politico-culturali, come l’Ars o RossoVerde, come l’Arci o l’arcipelago delle associazioni, fino - con un approfondimento sulle forme possibili - al sindacato. E, ancora, alcuni importanti mezzi di comunicazione, dall’Unità al Manifesto, dal Riformista ad Aprile, da Carta a Ecoradio e così via. Da luglio a settembre, utilizzando feste di partito, sedi, conferenze, piazze cittadine, l’utilizzo di tutte le risorse della comunicazione via web, può “camminare” una esperienza con pochi precedenti. Ciò che conta è che all’impianto, alle “domande” su cui raccogliere tante opinioni, un milione di voci, ciascuna componente possa contribuire con il proprio punto di vista, anche non collimante con quello di altri, proprio per assicurare il carattere di autenticità delle risposte. La campagna risponde agli indirizzi espressi negli organismi di tutti i soggetti politici organizzati italiani che si richiamano alla sinistra e non sono finora interessati alla costituente del Pd, pur sostenendo il programma e l’esperienza di governo dell’Unione. La campagna risponde all’esigenza diffusamente espressa di partire dai contenuti, di verificare gli indirizzi, senza sottolineare ogni aspetto identitario ed evitando personalizzazioni. Dopo l’ “ascolto” potrà essere avviato il confronto sull’eventuale quota di sovranità che gli attuali soggetti possono destinare a dinamiche unitarie e a intrecci con i movimenti, magari sperimentandole, ove possibile, in occasione delle amministrative 2008.

l’Unità 19.4.07
«Amareggiato per lo sciopero di Repubblica»
De Benedetti: il calo dell’utile dell’Espresso è strutturale. Il contratto? È ancora lontano
di Marco Ventimiglia


POLEMICA Doveva essere una semplice, per quanto importante assemblea societaria, si è invece trasformata nell’occasione per rilanciare l’interminabile botta e risposta sul rinnovo del contratto dei giornalisti e sulla clamorosa protesta dei giornalisti di Repubblica. A gettare benzina sul fuoco Carlo De Benedetti nella sua veste di padrone di casa del Gruppo L’Espresso.
«Il core business - ha esordito De Benedetti - va in modo soddisfacente, ma siccome agli azionisti interessa la bottom line, dobbiamo dire che il calo dell'utile netto è un fatto strutturale e non congiunturale. Da qui l'esigenza di rivedere la struttura dei costi». Numeri che testimoniano come nel primo trimestre del 2007 l'utile netto del Gruppo Espresso è sceso dai 26,6 milioni del primo trimestre 2006 a 13,5 milioni. In frenata pure il fatturato che è stato di 272,5 milioni (-10,1%) e il margine operativo lordo che si è attestato sui 42,5 milioni (-31,8%).
La revisione della struttura dei costi è stata spiegata dallo stesso De Benedetti con il riferimento ai costi del personale ed in particolare di quello giornalistico, puntando il dito contro gli aumenti retributivi automatici previsti dagli scatti di anzianità.
L'ingegnere ha poi parlato di un «quadro a tinte miste» per il gruppo e ha sottolineato che «negli ultimi 10 anni abbiamo messo sotto il tappeto i problemi grazie alle ottime performance dei prodotti opzionali, che però ora fanno segnare una battuta d'arresto».
Il presidente del gruppo è tornato poi ad occuparsi di giornalisti, guardando questa volta direttamente in casa sua, soffermandosi sulla dura vertenza in atto a la Repubblica, dove i giornalisti hanno proclamato e messo in atto una settimana continuativa di sciopero. «È un fatto senza precedenti che ci amareggia - ha dichiarato De Benedetti -, ma da parte dell'azienda non c'è un atteggiamento di chiusura. C'è solo, l'indisponibilità a introdurre una sorta di terzo livello di contrattazione, come richiesto dalla rappresentanza sindacale, visto che sono fermi i primi due, quello legato al contratto nazionale e quello aziendale conseguente».
«In ogni caso - ha concluso De Benedetti - è ferma intenzione del gruppo ristabilire tra azienda e lavoratori i rapporti che ci hanno caratterizzato fin dalla fondazione del quotidiano».
Le parole della guida del Gruppo Espresso hanno subito innescato la reazione del sindacato giornalisti: «Se gli editori sono coesi, come dice Carlo De Benedetti, i giornalisti sono molto uniti nella difesa dell'autonomia e della dignità della professione. Si tratta quindi di uno scontro che non ha senso e che può danneggiare l'intero sistema della comunicazione. L'editore del Gruppo Espresso ha gettato la maschera assumendosi il ruolo di leader dei falchi della Fieg, chiudendo le porte ad un rinnovo contrattuale in tempi brevi e scaricandone la responsabilità sui giornalisti».
Il segretario della Federazione nazionale della stampa, Paolo Serventi Longhi, ha poi ribadito la disponibilità dei giornalisti a discutere dei «cambiamenti strutturali ed epocali del mondo dell'informazione di cui il presidente del gruppo l'espresso ha parlato», ma ha sottolineato il fermo rifiuto di «ogni resa senza condizioni».

l’Unità 19.4.07
Palermo: An si presenta alla conferenza di Scalzone, scontri all’Università
Il Rettore non aveva concesso un’aula, così gli studenti hanno occupato l’atrio. Gli incidenti dopo l’arrivo di alcuni esponenti di destra


Un’ora di tensione, insulti, e botte ieri all’Università di Palermo. Non è bastata la stretta di mano col preside di Lettere Giovanni Ruffino, per evitare che la conferenza dell’ex leader di Potere operaio nell’atrio della facoltà, alla presenza di oltre duecento studenti, si trasformasse per oltre un’ora in uno scontro tra militanti di destra e studenti di sinistra. Tutto è accaduto davanti a sette o otto esponenti della Digos della questura, impotenti di fronte alla sassaiola, al lancio di bottiglie di vetro e di plastica piene d’acqua, di bidoni dell’immondizia e di sedie.
Il preside non aveva voluto concedere un’aula agli studenti per ospitare Scalzone e i giovani hanno così deciso di occupare l’atrio. Ma gli scontri sono cominciati quando il capogruppo di An all’Assemblea regionale siciliana, Salvino Caputo - che già nei giorni scorsi si era espresso contro la partecipazione di Scalzone all’ultima conferenza del ciclo «1977-2007, il filo rosso della rivolta», organizzata dal comitato autonomo degli studenti - si è presentato accompagnato dal consigliere comunale di An Raoul Russo e il candidato al consiglio comunale Antonino Triolo davanti all’atrio dov’era appena cominciato il dibattito chiedendo di poter entrare. Una richiesta che gli studenti hanno letto come una provocazione, decidendo quindi di formare un cordone (composto da 8-10 ragazzi) che ha sbarrato la strada ai politici.
C’è voluto ben poco prima che cominciassero a volare parole grosse. E poi anche i pugni e gli schiaffi. L’atmosfera, già rovente, è poi definitivamente divampata quando dal giardino di fronte alla facoltà sono arrivati a sostegno gruppi di studenti di destra con striscioni. Immediatamente, infatti, è cominciata una fitta sassaiola e il lancio di ogni tipo di oggetto. tanto che una pietra ha mandato in frantumi il vetro laterale di un’auto, mentre un altro sasso ha colpito alla schiena un fotografo. Nel parapiglia Triolo è rimasto leggermente ferito così come Massimiliano Lombardo, consigliere dell’Unione degli studenti dell’ateneo palermitano che stava cercando di calmare gli animi.
Pensare che Oreste Scalzone aveva appena cominciato a parlare ringraziando i giovani del collettivo autonomo per essere riusciti a realizzare l’assemblea: «C’è ancora una speranza», aveva detto. Dopo la sassaiola l’ex PotOp è uscito dall’atrio della facoltà e ha preso le difese degli studenti del collettivo autonomo: «Hanno risposto alle provocazioni e si sono difesi - ha spiegato Scalzone - Non hanno alcuna colpa dei disordini e nessuno è stato picchiato».
Nonostante la tensione preannunciata, nessun rappresentante delle forze dell’ordine era stato preventivamente schierato attorno alla facoltà. Solo dopo gli scontri sono arrivati due automezzi con agenti e alcuni funzionari della polizia di Stato. Dopo gli scontri, ad alcuni metri dall’entrata della facoltà, lungo viale delle Scienze, si è radunato un gruppo di studenti di azione universitaria e di centrodestra che hanno esposto uno striscione con scritto «Fuori i terroristi dall'Università».

il manifesto 19.4.07
Una testa, un'idea. Ascoltare le mille voci della sinistra
di Valerio Calzolaio e Alessandro Pollio Salimbeni


Si stanno muovendo le cose a sinistra. Il Partito della rifondazione comunista ha svolto la conferenza di organizzazione, conferma la scelta dell'impegno di governo, il processo di costruzione di Sinistra europea e, insieme, apre il tema della ricerca sul socialismo di oggi, con l'idea di un «cantiere» unitario della sinistra italiana. Il Partito dei comunisti italiani, in una stagione congressuale quasi conclusa, riprende la proposta della confederazione. I Verdi avviano il 4 maggio una fase costituente allargata e tematizzano un patto di consultazione a sinistra. Lo Sdi ha svolto il suo congresso straordinario per avviare la costituente socialista e aprire una fase di confronto ravvicinato innanzitutto con la sinistra Ds. Al congresso nazionale dei Ds, noi delegati della mozione Mussi stiamo dando vita al Movimento per la sinistra democratica, un soggetto politico aperto e transitorio per una costituente alternativa al Partito democratico. Usiamo tutti parole analoghe, sentiamo tutti le stesse urgenze: certo vi sono storie e pratiche, forse significati e strategie in parte diversi. Colpiscono però il fermento, la vivacità, l'attenzione reciproca, la comune sensazione che la politica italiana abbia bisogno di un salto di qualità, nella rappresentanza a sinistra, nel disegno di strategie all'altezza delle sfide del presente, nel dare al governo Prodi un più solido carattere di innovazione e trasformazione del paese. Oggi sembra esserci una potenzialità in più: conta e incide la scelta di partecipare unitariamente, per la prima volta, al governo dell'Italia in un'Europa unita.
Proviamo a elencare i fattori comuni. La scelta di «governare», non solo per la sua inevitabilità a fronte del rischio-Berlusconi, cercando nuovi stimoli per superare evidenti difficoltà e problemi. La scelta dell'Unione, come polo di centrosinistra in un bipolarismo giusto, equilibrato e da irrobustire. La preoccupazione per la frantumazione del sistema politico e per l'indebolimento della rappresentanza sociale e culturale, non affrontabile solo in termini di strumentazione elettorale. La convinzione che la costituzione del Partito democratico riguarda solo una parte dello schieramento politico di centrosinistra. Un atteggiamento non favorevole alla «produzione di partiti a mezzo di partiti», alla difesa delle micro-formazioni come inerzia organizzativa. Ora, come possiamo fare passi avanti, tutti, insieme?
Il «campo della sinistra» non è caratterizzato solo dalle organizzazioni politiche, investe anche la ricchissima presenza di esperienze associative, di ricerca, di lotta sociale, di attività culturale. La rappresentanza non è problema che riguardi solo le forze politiche organizzate. Le culture che cercano di esprimere una nuova narrazione della società e del mondo, dinanzi al crescere delle nuove e vecchie contraddizioni, sono un patrimonio per arricchire la cultura politica della sinistra. L'assunzione piena e consapevole della crisi di un modello di sviluppo distruttivo dell'ambiente e il carattere fondativo della differenza di genere, il lavoro - fondamento di dignità e emancipazione - e i diritti - fondamento delle libertà individuali e dell'uguaglianza - sono i pilastri di un nuovo socialismo. E fa parte integrante della nostra riflessione il tema della ricostruzione di forme e sostanza della partecipazione politica. Il punto essenziale è proprio quello della discussione pubblica come percorso e assunzione condivisi delle scelte politico-amministrative e di governo. Pensiamo che si debba andare oltre l'idea che partecipazione sia una scheda o una preferenza. Nessuna obiezione a «una testa, un voto»: è la base della democrazia rappresentativa. Non basta. Bisogna aggiungere «una testa, un'idea»: è la base della ricostruzione dello spazio pubblico, della politica, della riduzione e del superamento della distanza tra governanti e governati. E allora bisogna pensare in termini di reti e non di strutture gerarchiche.
Certamente i partiti ci sono e continueranno a esserci, nodi nella e della rete. Ci sono come «deposito» storico, tessuto del radicamento sociale e territoriale, significativo selettore e formatore del «personale politico» e strumento a disposizione di quanti ( e sono i più numerosi) non hanno voce né strumenti né potere. Invece non ci sono più come «antenna» nella e della società, come punto di riferimento articolato e diffuso per raccogliere e rielaborare bisogni e aspirazioni. E allora rischia di rimanere solo l'aspetto di gestione del potere politico, di selezione dei gruppi dirigenti per appartenenza e non per merito, di sovrapposizione e non di sovrastruttura della società.
Avanziamo una proposta. Avviare una fase di «ascolto», una campagna di consultazione per raccogliere idee e proposte dal popolo della sinistra italiana, sui valori fondamentali (ambientalismo, laburismo, pacifismo, laicità, uguaglianza, differenza di genere, modello di sviluppo, antifascismo, ecc.), sulle priorità politiche (l'Italia nella cooperazione pacifica allo sviluppo sostenibile, dimensione europea sociale e energetica, cambiamenti climatici e politiche industriali, scuola pubblica, pensioni e welfare, diritti sociali e diritti civili) sulle forme e sugli strumenti della politica (l'identità, la partecipazione, la militanza, i simboli elettorali). La campagna potrebbe essere promossa insieme da tutte le forze della sinistra- da noi allo Sdi, dal Prc al Pdci, dai Verdi a altre soggettività politico-culturali, come l'Ars o RossoVerde, come l'Arci o l'arcipelago delle associazioni, fino - con un approfondimento sulle forme possibili - al sindacato. E, ancora, alcuni importanti mezzi di comunicazione, dall'Unità al manifesto, dal Riformista a Aprile, da Carta a Ecoradio e così via. Da luglio a settembre, utilizzando feste di partito, sedi, conferenze, piazze cittadine, l'utilizzo di tutte le risorse della comunicazione via web, può «camminare» un'esperienza con pochi precedenti. Ciò che conta è che all'impianto, alle «domande» su cui raccogliere tante opinioni, un milione di voci, ciascuna componente possa contribuire con il proprio punto di vista, anche non collimante con quello di altri, proprio per assicurare il carattere di autenticità delle risposte.
La campagna risponde agli indirizzi espressi negli organismi di tutti i soggetti politici organizzati italiani che si richiamano alla sinistra e non sono finora interessati alla costituente del Pd, pur sostenendo il programma e l'esperienza di governo dell'Unione. La campagna risponde all'esigenza diffusamente espressa di partire dai contenuti, di verificare gli indirizzi, senza sottolineare ogni aspetto identitario e evitando personalizzazioni.
Dopo l'«ascolto» potrà essere avviato il confronto sull'eventuale quota di sovranità che gli attuali soggetti possono destinare a dinamiche unitarie e a intrecci con i movimenti, magari sperimentandole, ove possibile, in occasione delle amministrative 2008.

Liberazione 19.4.07
Giordano: «Ecco come vedo Se e cantiere»
«La Sinistra europea nasce "aperta", disponibile al confronto con tutte le identità, soprattutto sul da farsi»
«E una nuova soggettività unitaria e plurale nasce dentro i tentativi reali di costruire un'alternativa sociale»
di Stefano Bocconetti


Ricerche identitarie, scomposizioni, riaggregazioni. Comunque, sarai d'accordo che l'aspetto della sinistra sta per essere terremotato, o no?
Sicuramente si apre uno scenario nuovo.
E Rifondazione che fa? Sta a guardare?
Tutt'altro. Credo che tutto questo ci imponga di accelerare nella costruzione della Sinistra Europea. Tant'è che a metà giugno abbiamo già fissato l'assemblea fondativa del nuovo soggetto politico. Con una voluta contestualità col congresso fondativo della Linke tedesca. E lì uscirà la proposta forte di unire la sinistra antiliberista e pacifista, di aggregarla perchè cominci a disegnare un'alternativa possibile.
Ma la Sinistra europea nasce già immaginando come superare se stessa, come pure dice qualcuno? Ha già in mente come mettere assieme tutta intera la sinistra?
Se vuoi sapere se la Sinistra europea è una formazione a tempo, ti dico di no. Ma certo nasciamo "aperti", disponibili al confronto con chiunque. Questa è la nostra proposta, poi ci confronteremo con le altre che saranno in campo. E immagino davvero un confronto serratissimo, a tutto campo, come si dice, nel quale nessuno nega l'identità di nessuno, in cui nessuno chiede a nessuno di rinunciare alla sua identità, neanche ad un pezzo di essa. Ma chiedendo a tutti di confrontarsi sulle cose da fare. E vedremo lì, in questo confronto, se ci sono le possibilità di accelerare nella costruzione di una nuova soggettività della sinistra d'alternativa. Unitaria e plurale.
Confronto, hai detto. Hai un'agenda da proporre?
Un grande tema sopra gli altri: la critica alle forme attuali del capitalismo.
Impegnativo, non trovi?
E però a me sembra davvero di essere di fronte a un paradosso. Siamo di fronte a una globalizzazione che ha effetti devastanti: nelle disparità sociali, nelle disuguaglianze, nel restringimento della democrazia. Restringimento tanto evidente che la caratteristica attuale del liberismo è di essere appunto illiberale. Siamo di fronte a nuove forme di aggressione al pianeta, alla natura.
E il paradosso dov'è?
E' che mentre tutto questo fa crescere l'urgenza di un'alternativa…
Siamo al "socialismo o barbarie", insomma?
Esattamente. Come sosteneva Rosa Luxemburg, certo in un contesto radicalmente diverso. Mentre c'è tutto questo, dicevo, una parte della sinistra decide di approdare definitivamente alla cultura liberaldemocratica. Sì, è davvero paradossale.
Sarà questa la discussione che proporrete alla sinistra, al resto della sinistra?
Di certo non si limiterà a questo. Se vogliamo uscire dall'autoreferenzialità della politica credo che occorra legare, mettere in relazione, la discussione con le dinamiche sociali. C'è insomma l'agire quotidiano che deve impegnarci.
Che vuol dire?
Che la discussione col partito democratico e con le altre forze democratiche, col resto della sinistra deve anche puntare all'oggi. L'abbiamo detto e lo ripetiamo tanto più in queste ore: in Italia si deve riaprire una politica di risarcimento sociale. Con l'aumento delle retribuzioni, con la fine della precarietà, con la crescita della sanità pubblica.
Discussione, e poi?
Ti faccio un esempio per capire. Sta per partire la vertenza di una delle più grandi categorie dell'industria, i metalmeccanici. Fra i primi ad avere diritto ad un risarcimento sociale, a cominciare dai loro salari. Allora domando: vogliamo o no costruire un'adeguata rappresentanza politica di questa vertenza? Di questi lavoratori? Vogliamo imporre un modo di far politica che si sottragga, finalmente, a quella filosofia che vuole sempre e comunque centrale l'impresa?
Torniamo a Firenze. Qualcuno dice che questo sarà l'ultimo atto di ciò che resta del Pci. Se è così come lo vivi?
Vedi, sono segretario di un partito che ha puntato tutte le sue carte sull'innovazione. Abbiamo investito, e investito tutto, sui nuovi movimenti. Credo che il progetto di rifondare il pensiero e la pratica comunista sia entrato ora nella fase decisiva. Credo che davvero noi siamo fuoriusciti dalla logica del Novecento: con la scelta della non violenza, con l'idea che non esiste l'occupazione del potere. Con l'idea che quel potere va cambiato e criticato.
E per ciò che riguarda i ds?
Credo che non ci fosse dubbio che il Pci, all'epoca della Bolognina, avesse bisogno di un totale ripensamento politico e culturale. Aveva bisogno di una forte innovazione. Quella che è risultata vincente è andata in senso opposto ai bisogni di chi si oppone a questa società capitalista. C'era bisogno di ripartire, insomma, ma non in quella direzione. E ora francamente, per chi già da tempo aveva scelto il governo come unico obiettivo, il processo va a concludersi.
Quindi, nessuna emozione?
No. La storia del Pci era finita, non finisce oggi.
Ma dì la verità: ora che tutto è in movimento tu riesci ad immaginare la fisionomia della sinistra da qui a qualche anno?
Io so che sinistra voglio. Dentro uno spazio europeo, che disegni un'alternativa sociale, che risponda alla crisi della politica. Che risponda, dia una risposta alla solitudine, alla competizione sfrenata, all'individualismo, al plebiscitarismo. Che disegni comunità, che costruisca alternativa, che sappia interagire coi movimenti. Questa è la sinistra che vorremmo.
Ma quando si farà?
E' il compito di oggi. So che dobbiamo tenere aperta questa strada. Non è facile. Anche perchè non possiamo farlo a tavolino. Dobbiamo farlo dentro il travaglio sociale di questi anni. Sì, io così immagino il cantiere di cui ha spesso parlato Fausto Bertinotti. Aperto a tutti, indipendentemente dalla collocazione di ciascuno. Tu sei in quel partito, io in quest'altro, io voglio fare questo, tu vuoi fare quest'altro. Non sarà questo d'ostacolo al confronto. Ma la discussione deve avvenire "dentro" i tentativi che si fanno per costruire un'alternativa di società. Vedo che procedono a ritmi forzati i processi di disgregazione sociale: fra chi ha e chi no, ma anche fra l'alto e il basso della società. Fra chi ha informazioni e chi non ne dispone. Disgregazione che attraversa i ceti, le classi. Qui dobbiamo costruire il soggetto della sinistra. Mi chiedi se ce la faremo? Lo spero. Noi ci stiamo lavorando.