mercoledì 25 aprile 2007

l’Unità 25.4.07
La Liberazione di chi ha 20 anni
di Antonio Padellaro


Sui muri di via Tasso a Roma, protetti da pietose lastre di vetro sono incisi, come in una ragnatela di dolore, gli ultimi messaggi e le mute invocazioni degli italiani caduti nelle mani delle SS e in quelle stanze torturati spesso fino alla fine. C’è anche questa frase: «Mamma, ho vent’anni». Forse è il grido di chi sa che tra poco verranno a prenderlo e, chissà, dubita e si chiede se sia giusto chiudere così presto la propria vita, massacrato da un aguzzino. Dicono che la domanda più frequente rivolta agli insegnanti dai ragazzi in visita al museo della Resistenza, come in ogni altro luogo simile, racchiude una sorta di dolorosa e acerba incredulità: ma se avevano vent’anni perché accettavano di farsi ammazzare? Già, perché lo facevano e perché lo hanno fatto tante altre decine di migliaia di donne e di uomini?
C’è un mistero nella dedizione estrema a un’idea, a una fede, a un sogno che non può essere spiegata soltanto con le categorie del coraggio o dell’eroismo che già indicano, comunque, un comportamento eccezionale. Cosa spinge davvero un essere umano, senza che nessuno glielo chieda, a imbracciare un fucile, a compiere azioni rischiose, a mettersi nei guai per distribuire volantini o recapitare messaggi? Quale spinta interiore ha determinato nel loro agire quelle persone che esattamente come noi avevano amori, affetti, gioia di vivere e la giusta cura di se stessi? E che nessuno avrebbe biasimato se si fossero messi, tranquilli, ad attendere la fine della guerra e la sconfitta inevitabile del nazifascismo? La parola Resistenza non ha forse anche quell’altro significato dell’aver saputo resistere alle proprie umanissime paure e agli smarrimenti altrui? E tutto nel nome di una rivolta prima di tutto morale, contro la peggiore brutalità che si ricordi. Sono pensieri, emozioni mirabilmente trascritti nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Anche se nessuna parola potrà mai descrivere il tumulto del cuore quando nella notte qualcuno bussa alla tua porta.
Per questo pensiamo che la festa del 25 aprile debba guardarsi da due rischi opposti: la dura svalutazione e la pura celebrazione. Tutto sommato ai detrattori della Resistenza è facile replicare che negando e rifiutando una grande rivolta di popolo non fanno che darsi la zappa sui piedi. Se, per esempio, Marcello Veneziani può scrivere su «Libero» frasi tristi del tipo: «liberateci da questa memoria» lo deve a tutti quelli che, versando il loro sangue, hanno fatto in modo che oggi lui, liberamente, possa insultarli se ciò lo fa sentire migliore.
Più attenzione invece dovrebbe suscitare la prevalenza di un’immagine solo celebrativa del 25 aprile come se questa giornata fosse una ricorrenza da onorare come altre nel calendario. Scaldare il cuore di chi ha vent’anni diventa difficile se si dà la sensazione di una ritualità imposta o di una memoria obbligata. Meglio invece tornare all’origine di tutto, alla terribile domanda di quel loro coetaneo nella cella di via Tasso. Che si chiedeva perché, temendo l’azzardo di una vita buttata. Non conoscendo ciò che sul sacrificio suo e di un’intera generazione, altre generazioni avrebbero costruito.

l’Unità 25.4.07
«Credo nel socialismo, lascio i Ds»
L’addio di Angius: «Non ho avuto risposte dal congresso. Convergere con Mussi? Non lo escludo»
di Simone Collini


ANGIUS LASCIA «È una decisione sofferta e difficile, ma coerente con ciò che penso e sento». Ha voluto aspettare la fine del congresso dei Ds e anche quello della Margherita. Poi ha aspettato ancora un giorno. E ieri ha preso carta e penna e ha scritto una lettera a Piero Fassino: «Da sabato i Ds sono sciolti e la fase costituente del Partito democratico è largamente predeterminata». Il «dissenso» del vicepresidente del Senato sull’operazione in corso non si è attenuato dopo questo fine settimana, anzi. Per lui è ormai chiaro che il nuovo soggetto «è sì di centrosinistra, ma guarda più al centro». Per questo Angius non entrerà nel Comitato promotore per il Pd votato a Firenze, benché il suo nome sia stato inserito nella lista, né andrà avanti sulla strada imboccata dalla Quercia. «Non penso che tutti i riformisti italiani stiano nel Pd», ha scritto a Fassino. «Credo nella necessità storica della presenza in Italia, oggi e domani, di una autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista e parte integrante del Partito del socialismo europeo». A questo progetto intende ora dedicarsi, senza escludere convergenze con altre forze e personalità che intendono lavorare per questo stesso obiettivo, a cominciare da Fabio Mussi.
Perché non ha annunciato l’addio al congresso, senatore Angius?
«Sono andato a Firenze per un ultimo tentativo di correggere la rotta. Anche se, a dire la verità, questa speranza era andata attenuandosi già nel corso della campagna congressuale, anche per effetto del carattere perentorio che veniva impresso alla costruzione del cosiddetto Pd. Però ho atteso fino alla conclusione dei due congressi, non solo quello dei Ds».
E perché?
«Perché quello che fa testo, in questa vicenda politica, sono le risoluzioni comuni prese dai Ds e dalla Margherita. Le risoluzioni comuni, quelle che dettano gli orizzonti ideali, politici, culturali e programmatici del nuovo partito. Non mi hanno convinto. E non posso mettermi a costruire una forza di cui non sono convinto».
Non l’hanno convinta le risposte che ha ottenuto sulle questioni che ha sollevato, apertura ad altre forze e una parola più chiara sul Pse?
«Più chiara... una parola chiara. Che purtroppo è venuta, nel senso che si è detto che il Pd lavorerà “con” il Pse. E devo dire che è un piccolo ma significativo segno dei tempi il fatto che abbiamo sentito tante bellissime musiche al congresso, ma neanche una nota dell’Internazionale. Ma a parte questo, la questione che ho posto a cui più di tutte tenevo è che gli orizzonti ideali, i contenuti politici e programmatici del nuovo partito venissero discussi e definiti da un arco più ampio di forze del riformismo italiano, cioè che ci fosse un coinvolgimento pieno già nella fase della stesura del Manifesto fondativo delle forze socialiste, laiche, ambientaliste».
Fassino ha detto che il Manifesto sarà discusso e modificato da una larga platea.
«Nel dispositivo votato dai due congressi è scritto che si “assume il Manifesto dei saggi di Orvieto come orizzonte ideale e punto di riferimento in relazione ai contenuti politici, culturali e programmatici”».
L’ha chiamata qualcuno dopo che venerdì ha lasciato Firenze?
«No. No, ma guardi che non è questo un aspetto importante, perché a Firenze c’era da lavorare, c’erano due congressi che si svolgevano contestualmente. No, io ringrazio Fassino e D’Alema dell’attenzione che hanno avuto verso di me e verso quello che ho detto. C’è un dissenso politico, per quanto mi riguarda resta però assolutamente intatta la stima politica e personale verso questi due nostri compagni, che sono quelli che hanno il maggior prestigio e la maggiore autorevolezza nel parlare al Paese».
Però prende un’altra strada rispetto alla loro.
«È una decisione sofferta e difficile, però è anche coerente con quello che penso e sento. Le strade che percorreremo saranno comunque distinte ma parallele. Rimane l’impegno comune per garantire al Paese una prospettiva di governo che sia efficace nella sua azione riformatrice e l’impegno per garantire la coesione politica dell’Unione come condizione di questo compito».
Che farà ora?
«Non tutti i riformisti italiani stanno nel Pd, e penso non sia giusto che lo si affermi. Io credo nella necessità storica della presenza in Italia, oggi e domani, di una autonoma forza democratica e socialista, laica e riformista, parte integrante del Pse, tanto più ricca in quanto capace di raccogliere le forze riformiste più moderne, a cominciare dall’ambientalismo. Cercherò di dare un contributo in questa direzione, vedremo come».
In tanti si sono messi in movimento, ma l’obiettivo appare lontano.
«Le forze della sinistra italiana, nella loro variegata composizione, devono essere consapevoli dello spazio che hanno e della responsabilità che sono chiamate ad assumersi. Se lavorano con uno spirito di umiltà e coesione possono dare un contributo al Paese. Diversamente, non assolvono la loro funzione, che è quella di governare, guidare la modernizzazione, il rinnovamento dell’Italia».
Ci sarà una convergenza con Mussi?
«Ho parlato con Fabio, anche al congresso, non ci sono misteri, parlo con tante persone. Non escludo nulla. Naturalmente, penso che ci debba essere in noi che abbiamo fatto parte dei Ds, che abbiamo incarnato in modo anche diverso una cultura politica, una coerenza di scelte politiche».
Lascerà il gruppo dell’Ulivo?
«Onestamente, a questo non ci ho pensato. Adesso mi è già costato fatica compiere questa scelta. Ora valuterò ulteriori decisioni».
Al momento sembrano pochi quelli della sua mozione che la seguiranno.
«Ognuno si sentirà libero di scegliere secondo la propria coscienza. Non ho appelli da rivolgere a nessuno. Per quanto mi riguarda, mi sono richiamato a una coerenza personale rispetto a quello che in questi mesi ho detto e scritto, nelle riunioni e pubblicamente».

l'Unità 25.4.07
Bertinotti: «La Sinistra alternativa non può sperare in rendite di posizione»
Il presidente della Camera non apre a nuovi raggruppamenti. Diliberto presenta il congresso in nome dell’unità delle «forze di sinistra»
di Eduardo Di Blasi


Rimini 1991. Rimini 2007. Il luogo del prossimo congresso dei Comunisti Italiani, che si terrà nella cittadina romagnola dal 27 al 29 prossimo, non è stato scelto a caso. Così afferma il segretario del partito Oliviero Diliberto, mentre ricorda che da Rimini, da uno storico congresso dell’allora Pci svoltosi 16 anni fa, prese avvio la «diaspora dei comunisti». Alcuni, ricorda, «decisero di continuare a restare tali costituendo il Prc e altri aderirono al Pds». Fu la prima cesura, nella lettura storica del segretario del Pdci. La seconda avvenne dentro il Prc, con la caduta del governo Prodi nel ‘98: da una costola di quello nacque il Pdci.
Date le premesse, a Rimini, quindi, il Pdci (un partito che alle ultime politiche ha raccolto il 2,3%) torna «per invertire questo percorso» per ribadire «il tema dell’unità delle forze della sinistra». Per dirla con Diliberto per un «ricongiungimento familiare» con chi, da sinistra, è critico verso il progetto del Pd. La proposta politica è quella di una «federazione» della «sinistra», o del «lavoro», una «sinistra senza aggettivi» (suggerisce ai socialisti di Enrico Boselli, che proprio sull’aggettivo «socialista» puntano a rinverdire i propri fasti) che tenga assieme quello che c’è sulla riva sinistra del fiume del Pd. Franco Giordano, segretario del Prc, la porta la lascia aperta, anche a Gavino Angius: «Bisogna non disperdere questo patrimonio di valori e idealità e investire su una soggettività nuova a sinistra, pacifista». Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, lasciando la materia delle alleanze all’attuale segretario del Prc, non si sottrae alla discussione. Con la nascita di un nuovo soggetto politico nel campo di centrosinistra, qualcosa dovrà necessariamente muoversi anche nel campo della sinistra più radicale. Il presidente della Camera, però, non ritiene che il passaggio politico sia consequenziale: «La sinistra alternativa - afferma - deve dimostrare di avere in sé la soggettività, gli elementi di cultura politica, la forza di innovazione ed il coraggio di intraprendere un processo di innovazione. Non può sperare che le venga come una rendita di posizione». Serve, aggiunge, «un salto di qualità». È un’apertura che non fa però riferimento alla sinistra in uscita dai Ds.
I cantieri aperti a sinistra sono tanti. Lanfranco Turci, con una battuta riuscita, li paragona a quelli aperti sulla Salerno-Reggio Calabria. I delegati della Mussi si incontrano sabato prossimo (per preparare anche l’incontro del 5 maggio), c’è il congresso del Pdci, e c’è, sempre il 29, l’incontro di «Uniti a Sinistra», l’associazione di Pietro Folena che potrebbe contribuire a riavvicinare Prc e fuoriusciti Ds.
Gli ospiti passeranno da un’assemblea all’altro. Solo per citare gli invitati del Pdci, tra gli ospiti che prenderanno la parola al Congresso di Rimini, c’è Cesare Salvi, esponente della componente mussiana appena uscita dai Ds. Altri ospiti attesi sono Romano Prodi, i presidenti di Camera e Senato, Piero Fassino (che non ha ancora confermato la propria presenza), il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena. Non ci sarà Silvio Berlusconi. Sulla mancata presenza del presidente di Forza Italia, Diliberto Scherza: «Non l’ho invitato perché temo per la sua incolumità... I nostri mica starebbero lì a fotografarlo con il telefonino...».

l’Unità 25.4.07
La sinistra e il vizio della divisione
di Nicola Tranfaglia


La storia recente della sinistra nel nostro Paese è stata percorsa di continuo da contrasti e scissioni. Troppi e troppe, non c’è dubbio. E da una continuità impressionante nei gruppi dirigenti. Senza mai osservare regole elementari come quelle di sostituire i leader che hanno commesso errori gravi alla guida dei loro partiti, come ha dimostrato l’uno e l’altro congresso, ma anzitutto quello che si è svolto a Firenze dei Democratici di sinistra.
Quando Fabio Mussi, che ha parlato con grande franchezza ai suoi compagni di partito, ha detto che l’ultima svolta è figlia di un fallimento non sarebbe onesto contestarlo e dargli torto. Molti, la grande maggioranza degli editorialisti, hanno scritto in questi giorni che la nascita del Partito democratico ha introdotto una semplificazione del sistema politico ed elettorale e si può essere d’accordo. Ma bisogna aggiungere che, accanto a quel risultato, i contenuti sono cambiati e hanno messo da parte in maniera maggioritaria (molto maggioritaria) le ragioni della sinistra, di quella nuova come di quella maggioritaria.
I grandi temi della sinistra e del socialismo moderno che vanno dal lavoro, all’istruzione e ai saperi, all’ambiente, alla questione morale, alla riforma della politica, alla laicità dello Stato emergono impalliditi ed esangui nel congresso di Firenze. Come in quello della Margherita a Roma. Ci sono stati discorsi più freddi e altri più caldi ma i contenuti non sono diversi l’uno dall’altro.
Walter Veltroni a Firenze ha detto una cosa molto ragionevole come quella che mette insieme riformismo e radicalità e che non c’è l’uno senza l’altra, ma non ha fatto esempi chiari di questa connessione e soprattutto nessuno al congresso lo ha seguito su questa strada. Così il segretario dei Democratici di sinistra, nelle sue appassionate conclusioni, ha ricordato che essere democratici significa restare di sinistra.
Ma, nel suo lungo discorso introduttivo, Fassino che pure ha avuto parte centrale nella nascita del nuovo partito, non ha riempito di contenuti concreti una simile affermazione, eccetto il riferimento generico all’adesione di un Partito socialista europeo che ha assunto peraltro da anni posizioni indubbiamente moderate sia al parlamento europeo che in tutte le altre assise in cui è presente.
Si discute, insomma, di nomi e di schieramenti piuttosto che di problemi reali che segnano nella lotta politica le differenze notevoli che in Italia come altrove dividono i partiti di centro da quelli di sinistra.
La verità è che la nascita del Partito democratico nel nostro Paese rappresenta l’accantonamento della sinistra di fronte alla sconfitta elettorale del 1994 e all’egemonia di Berlusconi che ha percorso nell’ultimo decennio la politica italiana. Questo lo si vede da simboli assai chiari che ormai campeggiano nell’orizzonte mediatico e politico:si riabilita Craxi e si critica duramente Berlinguer, si difendono le ragioni dei governi statunitensi anche dove è difficile farlo, almeno finora nei lavori parlamentari si mantengono in vita quasi tutte le leggi approvate nella precedente legislatura berlusconiana. E, di conseguenza, si sfiora la crisi tutte le volte che si rischia di cadere perché si toccano temi controversi come la politica estera, l’informazione e molti altri temi che dispiacciono al centro-destra. Insomma, non si può parlare con chiarezza di “larghe intese” già realizzate ma i segni di una tale tendenza sono assai chiare in parlamento, come in tutte le altre istituzioni del Paese.
Il risultato complessivo dei due congressi, e in particolare di quello di Firenze, non sarà caratterizzato tanto dall’aderire oppure no al Partito socialista europeo quanto dalla concreta politica che farà il nuovo partito nei prossimi anni dell’attuale legislatura.
Da questo punto di vista è, a mio avviso, importante cogliere i mutamenti che interverranno nei prossimi mesi in Italia, a livello di governo e di scelta tra i numerosi obiettivi che sono davanti alla coalizione di centro-sinistra per quanto riguarda le riforme presenti nel programma dell’Unione, rispetto al quale tutti i partiti dichiarano ancora di esser fedeli. E si vedrà anche con la legge elettorale in discussione quale orizzonte si profilerà.
In questo senso, alla sinistra che vuole restar legata a quel programma e a quei contenuti, spetta un lavoro rapido di riorganizzazione e di unificazione che sostituisca all’attuale frammentazione la nascita di un nuovo soggetto politico, in grado di allearsi ma anche a competere con la prospettiva moderata che ormai caratterizza il nuovo Partito democratico. È una sfida che non si può perdere, pena davvero la fine delle forze socialiste nel nostro Paese.

Repubblica 25.4.07
Pd, anche Angius rinuncia "Serve una forza socialista"
Il senatore diessino: nessuna risposta alle domande avanzate al congresso
Rutelli: alle prossime elezioni speriamo di allargare l'alleanza ad altre forze moderate
Allarme nella sinistra radicale. Bertinotti: serve coraggio per fare un salto di qualità e innovare
di Gianluca Luzi


ROMA - «Non parteciperò alla nascita del nuovo partito». A Firenze l´addio sembrava scongiurato, nonostante il sofferto intervento al congresso. Ma alla fine, dopo il ministro Mussi, anche il senatore Gavino Angius ha deciso di non entrare nel Partito democratico. «E´ una decisione per me sofferta e difficile ma coerente con ciò che penso e sento», spiega in una lettera a Fassino il senatore della Quercia che lamenta di non aver avuto risposte soddisfacenti sulla laicità e sulla collocazione del nuovo partito nella famiglia socialista europea.
«Non penso che tutti i riformisti italiani stiano nel Pd. - sostiene Angius - Credo nella necessità storica, oggi e domani, in Italia, di un´autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista e parte integrante del Partito del socialismo europeo». Nella lettera al segretario dei Ds - che dice di rispettare ma di non comprendere la decisione di Angius - il senatore diessino ricorda che «i punti fermi della nostra proposta politica erano: appartenenza al Pse, laicità, garanzia di una fase costituente aperta e non chiusa ai soli Ds e Margherita».
A questi argomenti «il dibattito congressuale ed il dispositivo inclusivo non hanno dato alcuna risposta politica concreta» e quindi Angius ritiene il proprio dissenso «incompatibile» con la fase costituente del Partito democratico. Il Pd comunque è ormai un traguardo obbligato dopo i congressi di scioglimento di Ds e Margherita. Ieri ne hanno parlato per oltre un´ora Fassino e Prodi a Palazzo Chigi.
I due hanno analizzato la fase da qui alla costituente sottolineando la necessità di non far cadere nell´opinione pubblica l´attenzione verso il nuovo partito: il comitato nazionale si farà con il premier presidente e i leader dentro. E Rutelli in tv a Porta a porta ha accennato al possibile allargamento delle alleanze. «Io - ha detto il vicepremier e leader della Margherita - ho confermato l´alleanza dell´ultima campagna elettorale, ma allo stesso tempo alle prossime elezioni andremo con una alleanza di centrosinistra e confidiamo che questa alleanza si possa anche allargare ad altre forze moderate». Comunque, nel Pd, «gli uomini della sinistra troveranno a pieno titolo il loro posto».
Quanto alla leadership del Pd «ne parleremo a tempo debito e lo decideremo insieme e non io solo. Dovremo eleggere il leader con un grandissimo consenso, facendo votare centinaia di migliaia di persone». Anche se per la leadership non sarà in pista solo il Partito democratico, tuttavia «il leader del Pd è in pectore la persona più autorevole per guidare la coalizione».
Naturalmente la nascita del Pd ha delle conseguenze anche sul versante più di sinistra della maggioranza. Non solo per l´uscita dal progetto di alcuni esponenti della Quercia come Mussi e Angius, ma anche per la concorrenza tra partiti che si richiamano esplicitamente alla tradizione comunista come Rifondazione e Pdci. Non a caso, per Bertinotti «oggi alla sinistra alternativa è richiesto un salto di qualità. Deve dimostrare di avere in sè la soggettività, gli elementi di cultura politica, la forza di innovazione ed il coraggio di intraprendere un processo di innovazione. Non può sperare che le venga come una rendita di posizione».
E si prevedono scintille nella coabitazione nella stessa maggioranza tra Pd e sinistra radicale. Se è vero - come dice il segretario di Rifondazione Giordano - che «vogliamo stare anni luce lontano dal Partito democratico che si è formato con un´impostazione di modello americano, mentre il nostro è l´esatto contrario».
Al Senato, intanto, si fanno sentire le conseguenze della nascita del Pd nell´assetto dei gruppi. Dopo l´annuncio di Cesare Salvi che a giorni nascerà il gruppo della sinistra democratica, un altro gruppo parlamentare potrebbe arrivare a breve: quello del Partito democratico dei cittadini di Willer Bordon e Antonio Di Pietro. Al momento sono solo otto i senatori che darebbero vita al nuovo gruppo. Il nono potrebbe essere proprio Gavino Angius e a quel punto ne servirebbe ancora uno per formare il gruppo.

Repubblica 25.4.07
Alla convention del correntone anche dirigenti del socialismo europeo. E Boselli può aprire il varco
"Nel Pse ci andremo noi" i transfughi sfidano la Quercia
di Goffredo De Marchis


Prima dell'estate vedranno la luce i gruppi parlamentari dei dissidenti ds: circa 23 deputati e 11 senatori
Angius pranza con Mussi: andrà nella Sinistra democratica. Fassino: "Se ne va da solo, non capisco"

ROMA - Con Fabio Mussi a pranzo, in un ristorante davanti al Senato, Gavino Angius ha detto sì al matrimonio con il correntone. Poco prima aveva spedito a Piero Fassino la lettera d´addio alla Quercia o meglio la rinuncia a partecipare al processo costituente del Partito democratico. «Se ne va da solo», ha commentato stizzito il segretario dei Ds mostrando il testo ai suoi collaboratori. Ma non ha gradito la nuova uscita. «Angius ha scritto una mozione che è favorevole al progetto del Pd. Questa decisione proprio non la capisco». Poi ha preparato l´incontro con Romano Prodi e atteso di vedere la reazione della base legata alla corrente Angius. In effetti sono stati molti a prendere le distanze dal vicepresidente del Senato.
Con Angius andrà Alberto Nigra, ex deputato torinese. Non Mauro Zani, non Massimo Brutti che già al congresso di Firenze avevano accettato di rimanere nella Quercia. Franco Grillini, leader gay, ha detto che si prenderà del tempo per riflettere. Angius dice: «Lascio il Pd, ma non vado con nessuno». Non è esattamente così. Resta saldamente nel Partito del socialismo europeo, che è la sua stella polare. E lo diventerà per tutta quell´area che ha abbandonato la Quercia. È un ancoraggio, è una posizione politica. Può fare molto male agli ex compagni. «Nel Pse il Partito democratico non ci sarà mai. Lo sostiene Rutelli, ma anche Fassino ha rinunciato alla battaglia», spiega Angius. Dunque, gli scissionisti batteranno su questo tallone d´Achille. E cercheranno di prendersi la bandiera con la Rosa, quella del Pse, di soffiarla a Fassino e D´Alema, di metterli fuori dal socialismo continentale.
Angius sarà alla convention di Mussi il 5 maggio a Roma. E quel giorno la nuova formazione di Sinistra democratica porterà anche dei dirigenti del Pse per dimostrare che la bandiera del socialismo continentale è ormai saldamente nelle loro mani. Certo, Poul Rasmussen e Martin Schulz, presidente e capogruppo del Pse, sono appena stati a Firenze incoraggiando il gruppo dirigente ad andare avanti sulla strada di una grande forza riformista. È uno scoglio da superare. Ma Rasmussen era stato anche al congresso dello Sdi di Fiuggi e lì, durante un intervento nient´affatto diplomatico, aveva criticato le posizioni di Francesco Rutelli, fondatore del Partito democratico. Enrico Boselli può aprire un varco per Sinistra democratica nella famiglia socialista. I suoi rapporti con la Margherita sono pessimi. E di recente non sono buoni neanche quelli con Fassino. Lo Sdi è in grado di avvicinare i dissidenti la Quercia al Pse. Angius ieri ha chiamato il segretario dello Sdi. Gli ha detto che loro sono i suoi primi interlocutori. C´è un passato da dimenticare, gli anni di Craxi quando socialisti e comunisti erano nemici. Al vicepresidente del Senato non è piaciuta la proposta di Boselli di «ricostruire il Psi». Boselli gli ha spiegato: «Non mi riferivo a quello del 1993 cioè al Garofano. Ma a quello fondato cent´anni prima. E l´ho detto anche a Bertinotti quando l´ho incontrato a Firenze, al congresso diessino». È la fotografia della famiglia socialista prima di Livorno, prima delle scissioni. Che quindi potrebbe tenere dentro Sinistra democratica, Boselli e Rifondazione comunista, l´altro grande interlocutore dell´operazione a sinistra del Pd.
Alla convention del 5 maggio verranno invitati lo Sdi e Prc. Il giorno prima Mussi e Angius riuniranno i loro dirigenti per stringere definitivamente il patto. Prima dell´estate nasceranno i gruppi parlamentari. Alla Camera Sinistra democratica potrebbe avere dai 23 ai 25 deputati, al Senato 11 o 12 adesioni. Il capogruppo a Palazzo Madama dovrebbe farlo Massimo Villone. Per la Camera si pensa a una donna: Fulvia Bandoli o Katia Zanotti. Ma c´è anche la candidatura di Valdo Spini, che il vantaggio di non essere un ex comunista, ma un socialista di lungo corso che vanta ottimi rapporti con tutti i partiti socialisti d´Europa. Con il nuovo gruppo, l´Ulivo a Montecitorio perderà 400 mila euro l´anno di contributi statali. Il nuovo schieramento invece partirà con fondi per 600 mila euro. Una buona dote.
Il dialogo con Prc è lo snodo della costituente di sinistra. Angius, qualche mese fa, aveva detto: mai con Rifondazione. Anche a Boselli non vanno giù alcune dichiarazioni di Franco Giordano. «Ha detto: ripensiamo il socialismo. Ma solo in Italia si avverte questo bisogno. Non esiste la crisi del socialismo europeo, è che non c´è un grande partito socialista in Italia». Mussi, Angius, Boselli e Giordano. Intorno all´ideale socialista ruota la rivoluzione a sinistra. Ci vorrà tempo, bisogna soprattutto aspettare che Rifondazione organizzi l´addio al comunismo. Che è già stato immaginato da Fausto Bertinotti, appoggiato da Franco Giordano, ma non si è ancora realizzato. Però da ieri la scissione nei Ds si allarga.

il Riformista 25,4.07
Angius: «Non lascio. Mi lasciano loro»
di Alessandro De Angelis


Il dado è tratto. Anche per Angius, che comunica che non aderirà alla costituente del Pd. Aveva annunciato con una mozione che il suo Pd doveva essere «democratico e socialista», di nome e di fatto. Ovvero che non doveva uscire dal campo del socialismo europeo: aperto, rinnovato, magari contaminato, ma comunque delimitato. E che doveva essere dichiaratamente laico. Aveva ribadito al congresso, in un ultimo appello a Piero Fassino che c’era ancora tempo per invertire la rotta. Aveva chiesto un segnale, almeno uno, che attestasse che lo sbocco della fase costituente non fosse predeterminato a tavolino. Il segnale non è arrivato e, come si diceva nel vecchio Pci, Angius ne ha «tratto le conseguenze». Con uno stile, appunto, quasi da vecchio Pci: non una conferenza stampa, non una mail, non una lettera ai giornali ma una missiva fatta recapitare ieri pomeriggio a Piero Fassino. Se ne va, Angius, e la separazione, a parlarci, appare dolorosa come una scissione. Difficile dire quanti dei suoi lo seguiranno. Tra i primi nomi sicuri ci sono quelli dei deputati Grillini e Baratella, del senatore Montalbano, dell’assessore all’Ambiente della Regione Abruzzo Caramanico, del consigliere regionale emiliano Mezzetti, dell’ex portavoce della mozione Nigra. Altri, naturalmente, seguiranno. Intanto, sono in corso contatti con Mussi, che, come noto, darà vita a gruppi parlamentari autonomi, per definire possibili intese. È in corso, soprattutto, un dialogo serrato con lo Sdi che ha aperto la costituente socialista, per stabilire un possibile percorso comune per la costruzione di «una autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista, parte integrante del Pse».

Repubblica 25.4.07
Gramsci: ceneri vietate
Settant'anni dalla morte. Ecco le carte dell'Ovra che documentano l'ultima persecuzione del regime


Non il primo maggio. La cremazione di Antonio Gramsci, il nemico pubblico numero uno del regime, non poteva avvenire in quel giorno. La coincidenza con la festa dei lavoratori soppressa da Mussolini avrebbe potuto avere, forse, un valore simbolico esplosivo anche nell´Italia addomesticata di quegli anni. E per impedirlo la polizia fascista arrivò a "sabotare" il forno crematorio del cimitero, in modo che l´incinerazione fosse posticipata di quattro giorni. A rivelarlo sono alcuni documenti ritrovati negli archivi della Direzione centrale polizia prevenzione (il vecchio Ucigos), trasmessi dall´Ufficio affari riservati che a sua volta li ereditò dall´Ovra, la polizia segreta fascista. Li ha ripescati lo storico Aldo Giannuli, per anni collaboratore della commissione stragi e consulente del giudice milanese Guido Salvini nell´inchiesta sulla strage di Brescia. Ed è stato proprio nel corso di questa consulenza che, tra i faldoni dei servizi segreti italiani, è spuntato il fascicolo sul detenuto "Gramsci Antonio di Francesco". L´incartamento mostra come l´agonia e la morte - avvenuta alle 4 del mattino del 27 aprile di settant´anni fa - del fondatore del partito comunista italiano siano state, per il regime, un caso delicato da gestire con la massima cura per evitare anche il più piccolo incidente.
È il 1937, gli echi del biennio rosso sono ormai lontani, di attentati alla vita del Duce non si parla più da almeno cinque anni, gli antifascisti sono quasi tutti al confino o esuli. Sono ancora considerati, però, nemici potenzialmente pericolosi: due di loro, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, saranno uccisi un mese dopo in Francia. L´Opera di vigilanza e di repressione dell´antifascismo non si sentiva così al sicuro, a quei tempi. E quando muore Gramsci, impartisce precise disposizioni per evitare che i funerali e la cremazione del più importante oppositore al fascismo si trasformino in un evento destabilizzante.
Così, una "notizia fiduciaria" datata primo maggio 1937 informa che «l´Autorità di P.S. che fece piantonare le adiacenze della Clinica Quisisana in via Gian Giacomo Porro (...) sa bene che la salma fu portata al forno crematorio al Verano, da dove è stata tolta perché l´Autorità stessa ha voluto evitare l´eventuale cremazione nella giornata del I° maggio». Si accenna a un problema di autorizzazioni all´incinerazione da parte dei fratelli di Gramsci (tre di loro sono all´estero). Un´altra nota, però, mostra come il giorno prima, in realtà, la manomissione del forno sia già avvenuta: «Per notizia - scrive un agente alla Squadra politica della Questura di Roma - si comunica che questa mattina, alle ore 8,30, il Marsico, comandante la stazione agenti del Verano, d´accordo con la direzione, ha provveduto a far smontare l´apparecchio crematorio, rendendolo così provvisoriamente inservibile, in modo che la cremazione della salma dell´ex deputato comunista non abbia luogo domani, I° maggio, rimandandola ad altro giorno, sempre, però, previo relativo avviso a questa Regia Questura». Un inganno confezionato per il fratello di Antonio Gramsci, Carlo: «Informato che l´apparecchio crematorio era guasto e che per ripararlo occorre un congruo periodo di tempo, è partito in aereo vuoto in Sardegna». Per Giannuli non c´è altra spiegazione: «Il Regime voleva evitare la sovrapposizione con una ricorrenza ancora molto sentita dai lavoratori». La cremazione avverrà quattro giorni dopo, il 5 maggio. Solo allora la polizia fascista può tirare un sospiro di sollievo considerando scongiurato il rischio di una sia pur minima manifestazione di dissenso.
Già la malattia di Gramsci era stata una grana: mal volentieri, nel corso dei vari ricoveri, i medici si assumevano la responsabilità di ospitare un paziente così "scomodo". Il direttore sanitario del Policlinico di Roma fa sapere, il 13 dicembre del 1936, che «in via eccezionale acconsente a che sia ivi ricoverato, a pagamento, il noto Gramsci Antonio, purché vigilato con agenti in abito borghese». La retta richiesta è, per l´epoca, onerosa: milleottocento lire al mese, esclusa l´assistenza medica e i medicinali. La polizia teme l´evasione: «La camera, che è situata nel corridoio del II° piano - annota l´ufficio politico della questura - ha una sola porta di accesso, ed una finestra, grande, che dà su via Virgilio. Da questo lato la clinica è recintata da uno stretto cortile con cancellata. La vigilanza potrebbe eseguirsi a mezzo di due agenti posti nel corridoio da cui si accede alla camera e dove vi sono dei tavoli e delle poltrone in vimini, mentre un altro agente potrebbe trattenersi sulla via Virgilio per vigilare il lato dove dà la finestra».
Dalla corrispondenza tra polizia e sanitari si evince che la morte di Gramsci è avvenuta per cause naturali. «Appare infondato - commenta Giannuli, che presto dedicherà al caso un saggio sulla rivista "Libertaria" - l´ipotesi di un avvelenamento. Una tesi che invece Bettino Craxi era interessato a dimostrare». Nel 1989 l´ex Presidente del consiglio aveva chiesto di vedere il fascicolo «per motivi imprecisati», come scrive la direzione centrale della polizia di prevenzione. Secondo Giannuli, il leader del Psi era interessato ad accreditare la storia dell´assassinio di Gramsci da parte di emissari di Mosca che, se riscontrata, avrebbe trasferito il fondatore del Pci nel Pantheon socialista-riformista.
Ma indizi di spy story nelle carte non ce ne sono. La polizia fascista si limita a descrivere Gramsci come un "confidente dell´Ambasciata russa". Gli agenti ne sbagliano spesso il cognome - a volte lo chiamano "Gramisch" - oppure lo indicano come "anarchico". Ma, soprattutto, temono per i possibili echi della sua morte. In un libro pubblicato negli anni Settanta dagli Editori riuniti - Gramsci in carcere e il Partito - Paolo Spriano riporta i ricordi della cognata Tatiana sull´imponente presenza, in quei giorni, di funzionari del ministero dell´Interno e riferisce di un fonogramma del questore di Roma nel quale si richiamano misure per "evitare manifestazioni sovversive".
Le informative contenute nel fascicolo documentano un´attenzione maniacale: «Nella decorsa notte nella clinica Quisisana è deceduto il noto anarchico Gramsci. Ufficio P.S. Flaminio e Ufficio Politico intensificheranno vigilanza interno ed esterno clinica predetta e mi faranno conoscere in tempo debito giorno, ora e modalità funerali». I dettagli arriveranno il giorno dopo. «I dirigenti i commissariati di Flaminio e di San Lorenzo provvederanno nei limiti delle proprie giurisdizioni a riservatissimi servizi di vigilanza e d´ordine». Precise prescrizioni vanno seguite per evitare il "funerale politico": «Il carro dovrà procedere al trotto e non dovrà essere consentita alcuna manifestazione comunque contraria al sentimento della Nazione. Particolare attenzione dovrà essere portata sulle scritte e sui colori dei nastri delle corone e adottare tutte le misure necessarie per prevenire e impedire qualsiasi incidente». Bisognerà inoltre «prendere stretto conto delle persone che eventualmente si recassero alla clinica o dovessero partecipare ai funerali». E mantenere «conveniente vigilanza anche sul loculo». Una preoccupazione che sembra eccessiva, vista la solitudine in cui muore il padre degli intellettuali di sinistra italiani. «Il Cavaliere Amatucci ha telefonato alle ore 19 ed ha detto che: non sono state inviate partecipazioni; la notizia però è stata comunicata a dei parenti fuori Roma; non sa se vi parteciperanno altre persone». Al funerale partecipano il fratello Carlo e la cognata. A funerali svolti, però, un funzionario di polizia fa notare che è stato «notato un mazzo di garofani rossi». Unica concessione a una morte che nell´apice dell´era imperiale fascista poteva sembrare innocua nella sua mestizia. E che invece andava a tutti i costi censurata.

Repubblica 25.4.07
Intervista a Giuseppe Vacca, del quale è appena uscito un saggio sul fondatore del Pci
"I fascisti temevano manifestazioni pubbliche"


Gramsci tra Mussolini e Stalin s´intitola il libro che Giuseppe Vacca ha scritto in collaborazione con Angelo Rossi, e che è comparso in questi giorni, in concomitanza con il settantesimo anniversario della morte dello storico leader comunista (27 aprile 1937).
L´opera, pubblicata da Fazi editore (pagg. 250, euro 18), verte in gran parte sulla personale attenzione che il dittatore italiano prestava ad Antonio Gramsci, alle condizioni che presiedevano alla sua detenzione e alle ipotesi (mai divenute effettive) di una sua liberazione. A Vacca - che è presidente della Fondazione Gramsci - abbiamo rivolto alcune domande in relazione ai documenti inediti, di fonte Ovra, che pubblichiamo in questa pagina.
Quali preoccupazioni poteva nutrire il regime - e, per esso, l´Ovra - in occasione dei funerali di Antonio Gramsci?
«Si potevano temere manifestazioni pubbliche, organizzate sia da frammenti della rete clandestina del Partito comunista, eventualmente sfuggite al controllo repressivo del governo, sia da semplici antifascisti. Anche se non numericamente significativi, gesti di questo tipo avrebbero avuto l´effetto di acuire l´interesse internazionale già assai vivo intorno alla figura di Gramsci martire del fascismo».
Si trattava, evidentemente, di preoccupazioni eccessive.
«In effetti, alle esequie di Gramsci parteciparono due sole persone: il fratello Carlo - cui toccò di predisporre la cremazione del defunto - e la cognata Tatiana, che si era dedicata all´assistenza del recluso nei suoi ultimi anni di vita. E´ facile spiegare il perché d´un tale deserto politico-funerario: chiunque avesse seguito il feretro avrebbe attirato su di sé, a proprio danno, l´attenzione della polizia. D´altronde la notizia della morte di Gramsci venne diffusa a funerale compiuto, in poche righe, con stile burocratico e senza alcun risalto. Almeno sul momento. Più tardi, nel dicembre del ´37, Mussolini, commentando un articolo apparso su un foglio anarchico italo-americano, avrebbe deplorato in una sua nota sul Popolo d´Italia che i comunisti avevano tentato di fare di Gramsci "una specie di santo del comunismo" oltre che "una vittima del fascismo". In realtà, egli precisava, il capo comunista "ebbe la concessione di vivere in cliniche semiprivate o completamente private". Comunque, concludeva Mussolini, "egli è morto di malattia, non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti di Russia, quando dissentono - anche un poco - da Stalin e come sarebbe accaduto al Gramsci stesso se fosse andato a Mosca"».
Anche nel libro da lei scritto insieme ad Angelo Rossi risulta attenuata la tesi d´un Gramsci vittima sacrificale del governo fascista.
«L´obiettivo di Mussolini non era di farlo morire di morte lenta in carcere. Di obiettivi egli se ne poneva altri due, ben diversi: ottenere da Gramsci un´abiura, con relativa domanda di grazia da lui firmata, il che avrebbe assestato un forte colpo sia alla propria immagine di recluso che al suo stesso partito; oppure usare il prigioniero come merce di scambio nei riguardi del potere sovietico. In realtà, Antonio Gramsci morì di estenuazione, non in seguito a un deliberato proposito del regime fascista, ma in conseguenza d´un trattamento carcerario che le sue condizioni non gli consentivano di sostenere».
Gramsci, dunque, moneta di scambio. E´ un pensiero che si collegava a manovre diplomatiche che, se pur tentate, non ebbero alcun risultato.
«L´unico tentativo vero di liberare Gramsci risale al 1933: quando sembrò che la liberazione dell´ex capo comunista fosse a portata di mano inserendosi in un´iniziativa bilaterale Roma-Mosca. In questo caso la liberazione stessa avrebbe assunto la veste d´un gesto "grazioso" compiuto dal duce nei riguardi di Gramsci e del governo sovietico, senza che il Partito comunista in esilio potesse vantare alcun ruolo nell´operazione. Ma la disponibilità dell´Urss staliniana nel rendere possibile una simile soluzione si rivelò inesistente».

Repubblica 25.4.07
L'attrice di "Regista di matrimoni"
Placido: film su Moro Finocchiaro è Faranda

NAPOLI - È la prima volta che lo dice e per questo è «emozionata»: Donatella Finocchiaro, a Napoli per presentare la prima assoluta di Lungo la strada di Gigi Dall´Aglio, annuncia che «a metà maggio comincerà a girare con Michele Placido una fiction su Aldo Moro. Io interpreterò il ruolo di Adriana Faranda». Bruna, occhi scuri, l´attrice protagonista del Regista di matrimoni di Bellocchio, spiega di essere molto emozionata perché «è un progetto molto bello. Ne ho già parlato anche con Bellocchio». Teatro o cinema? La Finocchiaro se la cava così: «Non lo so. È come chiedere: a chi vuoi più bene, a mamma o a papà?».

Repubblica 25.4.07
Quando l’orco è una donna
di Umberto Galimberti


Quello che più impressiona in questa storia di (ormai dobbiamo dirlo) «ordinaria pedofilia», è la presenza, in questo gioco tragico e perverso, di quattro donne: tre educatrici e una bidella della scuola materna, a cui le mamme ogni mattina, in piena fiducia, affidavano i loro bambini. Le donne, durante la giornata, consegnavano i piccoli a loro affidati agli orchi, per le loro mostruosità fisiche e per giunta videoregistrate per la gioia dei perversi voyeur.
Probabilmente le maestre d´asilo lo facevano anche per denaro, dal momento che il denaro è diventato l´unico generatore simbolico di tutti i valori e i disvalori della nostra e delle altre culture. Ma chi è quella donna - che a differenza del maschio ha una particolare e specifica sensibilità per i bambini che genera, cresce, interpreta, ama - capace di questa terribile mediazione? Conosciamo i protettori che prostituiscono le minorenni, le tenutarie di appartamenti che gestiscono le ragazze spesso ridotte in schiavitù, ma non ancora le maestre d´asilo che affittano i bambini per le pratiche truci degli adulti. Per denaro, con molta fatica lo si capisce, ma non basta. In loro si è spezzato il più elementare dei sentimenti, quello che accomuna uomini e animali e che genera, immediatamente e senza riflessione, la cura dei piccoli che commuovono per la loro impotenza, la loro fragilità, la richiesta d´aiuto e protezione che traspare dai loro occhi pieni di invocazione. Questo sentimento primordiale, nucleo caldo a partire dal quale si generano i sentimenti meno innocenti, ma pur sempre significativi dell´età adulta, in loro non si è costituito o, non si sa per quale stravolgimento della natura, si è rotto.
E noi non ce ne siamo accorti. E quando dico «noi» dico la famiglia in cui queste educatrici sono cresciute, gli insegnanti che nella loro formazione hanno incontrato, gli esaminatori che le hanno abilitate alla professione, la direzione dell´asilo che le ha viste all´opera. Nessuno se ne è accorto. E questo per due motivi. Perché fatti del genere sono impensabili, anche se, come si vede, non impossibili, e perché sulla pedofilia, come avremo modo di verificare tra qualche giorno dopo questo episodio, regna un grande silenzio.
Innanzitutto perché è difficile veder chiaro in quella zona di confine dove i gesti truci dei pedofili sono così mescolati, intrecciati e confusi con i gesti di tenerezza, cura e amore per i bambini, da rendere indiscernibile dove finisce un gesto d´accoglienza e dove comincia un gesto di trasgressione. In secondo luogo perché le mura del riserbo, prima di essere del paese o del rione che un po´ sa e un po´ non sa, sono all´interno delle stesse mura di casa che non si vogliono profanate, e nella stessa interiorità individuale che rifiuta di veder chiaro tra le proprie fantasie, i propri impulsi, le proprie tendenze sconnesse e al tempo stesso forzate a fornire agli altri, e magari anche a se stessi, un´immagine impeccabile di sé.
Ma questa volta il grande silenzio è stato rotto. E sapete da chi? Dai bambini. Che non volevano più andare all´asilo, che piangevano davanti all´ingresso, che, aggrappandosi alle favole che avevano sentito raccontare, parlavano dell´«uomo nero» che faceva loro male. E i genitori, grazie a Dio, questa volta li hanno ascoltati.
I bambini non parlano mai per niente. I loro racconti utilizzano le favole che hanno sentito per dire cose vere. Sembra che divagano con la loro immaginazione. Sembra che facciano i capricci. Sembra che abbiano paure immotivate. Sembra. Ma non è così. Usano gli strumenti linguistici ed emozionali di cui dispongono per descrivere la realtà in cui vivono, e del cui malessere spesso non ci accorgiamo.
Nei loro frammentari e divaganti discorsi noi scrutiamo l´intelligenza, mai la paura. Ci inorgogliamo per le loro fulminee ideazioni e scartiamo, come prodotti delle fantasie, le loro ansie e quel che di terribile nella realtà può capitare a loro. E che per descriverlo non hanno parole, perché nella loro breve vita ancora non sanno che cos´è la sessualità e tanto meno cos´è la violenza sotto la specie dell´amore.
Le educatrici si sono inserite con abilità nell´ingenuità dei bambini, con astuzia perversa hanno sfruttato lo schema elementare, a loro ben noto, con cui i bambini visualizzano gli adulti e, allargando il campo dell´accoglienza, sono passate dal gesto di tenerezza al gesto truce verso soggetti che, per la loro età ancora troppo fragile e incerta, hanno un enorme bisogno d´amore e ancora non dispongono di conoscenza.
Come sarà il futuro di questi bambini? Il "danno" non sempre è risanabile, come mai lo è quando non si hanno dispositivi mentali per codificare le esperienze che si fanno. Il danno non lo abbiamo evitato. L´abbiamo semplicemente interrotto. E questo grazie all´ascolto attento dei genitori che non hanno scambiato per «fantasie» le parole incerte dei loro bambini.
Li hanno guardati da vicino, non hanno trascurato i loro sguardi tristi, i loro accenni vaghi, le loro paure che scoppiavano immotivate in circostanze normali, la loro gioia spenta, i loro silenzi che non si lasciavano sedurre neanche dalle cose che avevano sempre desiderato. Hanno raccolto i frammenti dei loro racconti. Li hanno messi insieme con cura. Hanno fatto i genitori come spesso non si fa.
L´invito a tutti noi è di seguire il loro esempio, mentre la richiesta forte e chiara da rivolgere a chi promuove e mette in ruolo bidelli, insegnanti, educatori, soprattutto nei primi anni in cui i bambini fanno esperienza in comune, è quella di esercitare un rigore e un´attenzione continua senza esitazione e senza pietà, perché il danno, il più delle volte, lascia una traccia che non si cancella più.

Corriere della Sera 25.4.07
Uscite eccellenti
Gavino e Fabio non sono soli. Il segretario fa l'ultimo appello e in Parlamento si trova a -30
di Fabrizio Roncone


ROMA — «Cerchi Angius?», ti chiedono all'ufficio stampa dell'Ulivo. Tutti cercano Gavino Angius: i cronisti politici per capire, i portaborse per regolarsi, i capi e i capetti del futuro Partito democratico per dire che gli dispiace, non se l'aspettavano, dopo Mussi un altro compagno di rango che si ferma, saluta, se ne va. La cosa sorprendente è che in tutti i ragionamenti si parli spesso solo di Mussi e di Angius e si affronti insomma la faccenda come se questa scissione, questa storia di lacrime e addii, non riguardi almeno altri dieci senatori e oltre ventidue deputati.
C'è un elenco preciso. Ci sono i nomi e i cognomi. Il foglietto lo tiene in tasca un deputato diessino, uno che fino a un mese fa avremmo detto che stava nel «correntone», «ma adesso mi sa proprio che dovrete prepararvi a qualche altra definizione». Di buon umore, quasi allegro. «Vuoi sapere chi siamo?». L'elenco completo. «Senatori e deputati che non entreranno nel Partito democratico?». Senatori e deputati. «Ecco qui, tieni, leggi...».
I senatori sono dieci. Giovanni Battaglia, Giovanni Bellini, Paolo Brutti, Piero Di Siena e poi Guido Galardi, Nuccio Piovene, Giorgio Mele, Silvia Pisa, Massimo Villone e Cesare Salvi, che a onor del vero già da qualche settimana passeggiava nei corridoi di Palazzo Madama, dicendo: «Il giorno che Fassino & company faranno l'appello, ho l'impressione che resteranno a bocca aperta dallo stupore...».
Accanto a quello dei senatori, sul foglietto, c'è un altro elenco, ed è ancor più lungo: è quello dei deputati e bisogna ammettere che alcuni di loro sono nomi assai noti al popolo della sinistra, sono nomi di compagni e compagne che hanno dato la voce, che hanno messo il cuore in molte battaglie. C'è, ad esempio, Fulvia Bandoli, sinistra ecologista, una che ancora poche sere fa era ospite in tivù, su La7, nella trasmissione di Gad Lerner, e stava lì a cercare di spiegare le ragioni del suo dissenso e si capiva dallo sguardo, oltreché dai suoi sospiri, che sperava in un congresso diverso, più accomodante e meno netto, meno definitivo. Poi ci sono Lalla Trupia e la bolognese Katia Zanotti, che a Vicenza si stanno battendo contro la costruzione della nuova base americana e che stanno tra la gente, che sono riconoscibili dalla gente, e che quindi portano consensi, e voti. «Leggi questi altri tre nomi...». Il dito indice del deputato sul suo foglietto. Sui nomi di Gloria Buffo, Titti Di Salvo e Olga D'Antona. «Perdono anche una come la Titti, sindacalista, donna che conosce il lavoro e le fabbriche... è un colpo duro, dammi retta, saranno costretti ad ammetterlo anche loro».
Ancora nella lista degli scissionisti: Valdo Spini, Carlo Leoni, Marco Fumagalli, Antonio Attili, Raffaele Aurisicchi, Massimo Cialente, Giovanni Farina, Massimo Fiorio, Angelo Maria Lomaglio, Claudio Maderloni, Massimo Nicchi, Luciano Pettinari, Alba Sasso, Arturo Scotto, Antonio Rotondo. «E non dimenticarti di ricordare che, giusto alla vigilia del congresso di Firenze, se ne era già andato anche Aleandro Longhi...».
Se è per questo, allora, suggerisce Alberto Nigra, portavoce della terza mozione di Gavino Angius, «allora forse non andrebbero dimenticati neppure compagni come Giuseppe Caldarola, che si sono già congedati...». Nigra aggiunge che il senatore Massimo Brutti, l'europarlamentare Mauro Zani e Sergio Gentili, che pure avevano firmato la terza mozione, «resteranno invece con i Ds e confluiranno nel Pd». Non come il deputato Fabio Baratella, che non sembra intenzionato a cambiar idea, che sembra pronto a seguire Angius, o come il senatore Accursio Montalbano che viene dato in pausa di riflessione o come il deputato Franco Grillini che, con voce un poco imbarazzata, chiede: «Ecco, quanto a me... può scrivere che sono uno un po' lento a prendere le decisioni?».
Gira voce che molte di queste decisioni un po' sofferte siano anche rallentate da numerose telefonate. Il tono delle telefonate ve lo potete immaginare. Dentro — ci è stato raccontato — c'è un po' di tutto: mozioni di affetto, vecchi debiti di riconoscenza da saldare, piccoli ricatti politici. Le falangi dei potenti capi diesse (fassiniani, veltroniani, dalemiani) per una volta, stanno lavorando tutte insieme.
Occorre riferire che Fabio Mussi, superate le ore dell'emozione, dello stordimento, del purissimo dispiacere — «quasi fisico...» — non se ne sta di certo immobile. Anzi. Egli è convinto che i circa 70 mila militanti che hanno preferito le due mozioni alternative a quella della segreteria, «siano destinati ad aumentare con il tempo, giorno dopo giorno: basta dargli il tempo di comprendere cosa sarà, realmente, il Pd...». Ed è proprio ragionando su questo notevole bacino di voti che sta cercando di convincere altri esponenti diessini, a Palazzo Madama e a Montecitorio, a passare con lui, a stare con lui.
Ci è stata sottolineata quella che, a un primo esame, potrebbe rivelarsi una solenne banalità: se fino a ieri pomeriggio era il solo Fabio Mussi a impegnarsi nella campagna acquisti, da questa mattina avrà al suo fianco anche Gavino Angius. Ma non è una riflessione scontata. Lo sanno bene al Botteghino. Lo sanno Fassino e Veltroni e anche D'Alema. Perché non sono pochi i senatori e i deputati che conoscono Angius, e che lo stimano, e che potrebbero subire perciò, nei prossimi giorni, il fascino del suo rigore politico.

Liberazione 25.4.07
Intervista a Giovanni Berlinguer dopo la conclusione del congresso Ds. «Bisogna agire e agire presto»
Ieri Gavino Angius ha scritto a Fassino per annunciargli la mancata adesione sua (e di altri) al partito democratico
Berlinguer: «Ci vuole un partito che unisca le forze a sinistra del Pd»
di Stefano Bocconetti


Due affermazioni dirompenti. Di quelle destinate a suscitare dibattito. «Mi chiedi come immagino la sinistra del futuro? Penso ad un partito che raggruppi tutto ciò che di buono si muove alla sinistra del partito democratico». Sì, un partito, che magari sarà una parola «demodè» ma «fino ad oggi non vedo una forma sostitutiva». Di più: questo partito andrebbe fatto subito. «A tappe accelerate». Giovanni Berlinguer, il professore, l'intellettuale, uno dei più autorevoli studiosi italiani di medicina sociale, oggi eurodeputato fra le fila del Pse, esattamente sei anni fa, fu candidato dalla minoranza dei ds a sfidare Fassino per la carica di segretario. Ora anche lui, pochi giorni prima che cominciasse il congresso di Firenze, ha annunciato pubblicamente che non entrerà nel piddì.

Qualcuno ha però notato che la tua scelta - capace di influenzare comunque molte altre persone - sia arrivata un po' in ritardo. A ridosso delle assisi del definitivo scioglimento dei diesse. Come mai, avevi dubbi?
Francamente non mi pare che le cose stiano così. Io ho sempre, pubblicamente, dubitato dell'utilità del partito democratico. Ho sempre accompagnato tutte le scelte della componente a cui faccio riferimento. Io non mi ricordo un solo caso in cui abbia avuto una distinzione con le scelte di Fabio (Mussi, ndr). Certo, ho pensato a lungo sulla vicenda. Se mi permetti: ho meditato molto su cosa fosse giusto fare. E se mi permetti ancora, sui giornali ho parlato esattamente quando mi hanno chiesto un'intervista. Gli altri, i miei compagni, hanno sempre saputo come la pensavo.
Sei stato a Firenze?
Sì, certo
E come ti è sembrato quel congresso?
Magari ti stupirò, ma credo sia stato un bel congresso.
Bello?
Sì, bello. E soprattutto serio. Come ti posso spiegare? L'occhio, molto spesso anche se non sempre, mi è parso rivolto soprattutto al paese. Con una discussione, certo basata su due ipotesi alternative, ma senza invettive. Tranne forse qualche tentativo di intimidazione o qualche paternalismo da parte della maggioranza.
Eppure un po' tutti gli osservatori hanno spiegato che se c'è stato un congresso "in politichese" è stato proprio quello di Firenze.
E si sbagliano. Si è parlato molto del paese. Tanto più rispetto al precedente congresso, in cui il dibattito era tutto rivolto all'interno del partito. Vi ricordate la discussione sulla Fed, la federazione dell'Ulivo, ecc? Ecco, quello era un dibattito lontano dal paese. Stavolta no.
E cos'è accaduto davvero la settimana scorsa?
Che una parte maggioritaria del partito, ha scelto di sciogliersi in un progetto più ampio. Ma necessariamente - sottolineo, necessariamente - quella scelta ha creato una situazione in cui un grande partito di sinistra, di sinistra democratica, diventa necessità impellente. Ma ti dico di più: diventa anche possibile.
Perché oggi è più possibile di ieri?
Per tante cose. Una sopra le altre, però: perché oggi c'è una chance di unità fino a ieri impensabile.
Più nel dettaglio: cos'è cambiato in questi anni?
Innanzitutto la collocazione di tutta la sinistra. Oggi tutti condividiamo le responsabilità di governo. Oltre ad avere responsabilità istituzionali, altrettanto rilevanti. Secondo, e ancora più importante. E qui parlo soprattutto di Rifondazione. E del suo cambiamento - se mi permetti: morale prima che politico, forse addirittura più morale che politico - che l'ha portata alla scelta della non violenza. Scelta che è diventata una pregiudiziale per il rapporto con le altre forze politiche e sociali. Terzo: una maggiore capacità di intervento sul piano sociale. Anche qui, penso soprattutto a Rifondazione e alla sua nuova capacità di sviluppare proposte proprie, realizzabili. Lontane mille miglia da qualsiasi demagogia.
E' cambiata tanta parte della sinistra d'alternativa. Forse sarà cambiata anche la sinistra ds, o no?
A voler essere sinceri, è cambiata meno degli altri. Io vedo che si è battuta soprattutto sulle questioni ambientali e sul lavoro. I temi che appunto dovranno essere al centro della nuova formazione di sinistra.
Magari, a voler fare i pignoli, qualcuno potrebbe dire che la sinistra ds avrebbe dovuto avere più coraggio negli anni scorsi. O neanche questo è vero?
Il coraggio? Scusami, ma non è una categoria misurabile. Quindi non saprei cosa risponderti.
Tutte queste cose assieme come ti fanno immaginare la sinistra del prossimo futuro?
Ti rispondo, ma permettimi una premessa. Questa: pure se ho contrastato quella scelta, sono convinto che anche nel partito democratico persisteranno idee, progetti di sinistra. Ed esisteranno persone che se ne faranno interpreti.
Quindi non è vero che il piddì sarà neocentrista?
Diciamo che non è un processo già consumato. Certo, è un processo che va in quella direzione. Ma vedo anche resistenze, scontro di posizioni. Fra un centro-sinistra del partito, un centro ma anche una sinistra interna. Insomma, io credo che comunque il nuovo soggetto della sinistra dovrà avere un rapporto coi democratici. Questo mi sembra scontato. Anche se....
Anche se cosa?
Sono convinto che dobbiamo evitare un rischio che invece vedo molto presente. Quello di considerare il piddì come un'entità qualitativamente superiore al resto della coalizione di governo.
Che vuoi dire esattamente?
Che al di là della consistenza quantitativa dei democratici - e tutto ci dice che in questo caso i numeri non sono affatto sicuri - la cosa che occorre impedire è che il piddì si attribuisca una sorta di virtù genetica. Come se fosse la guida precostituita dell'Unione.
Stai parlando del futuro leader della coalizione, se ho capito bene.
E che, vogliamo introdurre una nuova figura di leader: quello obbligatorio? Il leader coattivo? Non scherziamo. Sarà la coalizione a sceglierlo. E aggiungo: lasciamo anche perdere il linguaggio utilizzato in queste settimane. Per cui i democratici si definivano con un vocabolario nautico: "il timone", o automobilistico: "il motore", fino ad arrivare alla filosofia: "egemoni". Smettiamola.
Torniamo ai progetti per la sinistra.
Io so che se c'è una categoria vista con ostilità da parte degli italiani, questa è proprio quella dei partiti. Ricordo un recente sondaggio secondo il quale solo al 12% degli intervistati piaceva la parola "partito". Vale quel che vale ma é abbastanza indicativo. Io invece penso che un partito, un partito unitario della sinistra, di questa sinistra democratica, possa essere un punto di partenza. Tanto più che non vedo all'orizzonte forme sostitutive dei partiti.
E le tappe di costruzione di questa formazione?
Una cosa: devono essere accelerate. Perché è un'occasione irripetibile. Perchè c'è buona volontà fra le forze che sono interessate a questo cambiamento, perchè - lo vedo, lo sento - c'è un'aspettativa enorme. Soprattutto, fai attenzione, fra i tanti che in questi anni si sono tormentati, si sono allontanati e che invece ora potrebbero partecipare attivamente a questo progetto. E poi penso ai giovani, alle donne. E ovviamente al mondo del lavoro. Ti ripeto: i segnali che colgo vanno tutti in questa direzione.
Quindi neanche tu pensi ad un semplice assemblaggio dei partiti esistenti?
Io non ho nulla contro i partiti esistenti. E ti rispondo che la formazione dovrà "anche" metterli insieme. Il problema, però, è che il centro di tutto devono essere i contenuti, le scelte programmatiche. Una forte apertura al nuovo, un ricambio reale delle idee e delle persone.
Per capire: hai in mente qualche esperienza concreta? Qualche paese che possa aiutare questo progetto? Non so, la Germania della Linke?
Non so se la mia risposta sarà proprio calzante rispetto alla tua domanda. Però voglio dirti che mi sento molto vicino a quel che sta accadendo in America Latina. Lo sai che per 30 anni ho lavorato a stretto contatto con quei paesi, dove sono stato anche per lunghi periodi. E penso per esempio a Lula, che ho conosciuto quando era solo il segretario dei metalmeccanici di San Paolo. E a cui ho dato una mano a costruire un progetto sulla salute e sulla sicurezza in fabbrica.
E ora Lula è presidente.
Il Brasile, certo. Ma non solo. Perchè io vedo un enorme dinamismo politico. Certo molto diversificato ma ovunque si possono registrare cose straordinarie.
C'è un tratto comune in quelle esperienze?
Io penso di sì. E si trova nelle scelte politiche di governi che vogliono rendersi indipendenti dagli Stati Uniti. Indipendenti, non ostili, anche se continuano la collaborazione con l'America, in campi che vanno dall'economia alla cultura. Ed è un tratto che unisce tutti: dal dirigente operaio come Lula, a Tabaré Vasquez in Uruguay, che è diventato presidente grazie alla battaglia contro la privatizzazione dell'acqua. Dal presidente indio della Bolivia alla prima donna dell'America Latina, la Bachelet in Cile, fino all'argentino Nestor Kirchner, la cui importanza viene forse poco considerata. Insomma, tutto quest'immenso continente, da Capo Horn all'Alaska, sta assistendo a cambiamenti inimmaginabili. Di più: anche altri due presidenti, come Chavez o lo stesso Castro, pur in diverse situazioni, contribuiscono alla crescita del continente, introducendo elementi dialettici. E tutta insieme l'America Latina si batte per liberarsi dalle tenaglie del Fondo Monetario, della Banca Mondiale, per spostare risorse verso i lavoratori, i bambini, i disoccupati, i malati.
E queste esperienze hanno qualcosa da insegnare all'Italia?
Non voglio essere frainteso: io non penso all'America Latina come ad un modello. Troppo differenti le situazioni che non vale la pena spenderci altre parole. Però da lì viene un segnale: di quello che si può fare. Soprattutto se si afferma un modo di fare politica, di fare lotte in stretto rapporto con le persone, con i cittadini. E questo è un insegnamento che va al di là del continente sudamericano.
Visto che si parla di riferimenti internazionali, una domanda è d'obbligo: questa nuova formazione della sinistra la immagini "dentro" il socialismo europeo? E perché i partner di questo nuovo partito dovrebbero starci?
Non abbiamo proprio questa intenzione; e il nome di cui stiamo discutendo é "Sinistra democratica - per il socialismo europeo". Comunque sono abituato a pensare: una questione alla volta.
Ma intanto puoi dire che cos'è davvero questo socialismo europeo? Evocato in tutte le discussioni, sembra una molla che tutti tirano dalla loro parte. Non hai questa sensazione?
Io ne faccio parte. E so che è stato il fulcro di tante battaglie politiche. Certo, non fatte da soli, ma in rapporto al resto della sinistra, su grandi temi sociali. Ed anche assieme al gruppo liberaldemocratico, soprattutto su ciò che riguarda i diritti civili. E ancora: vedo che il socialismo europeo esprime molti segnali di movimento. C'è insomma una diffusa consapevolezza che la grande conquista del secolo scorso, lo stato sociale - che poi significa: non solo libertà ma anche giustizia sociale - si sta erodendo. E non per colpa di chissachì. Per responsabilità di chi ha disegnato un'Europa in cui pesano le merci e non le persone. Su questo sta crescendo la consapevolezza nel socialismo europeo.
L'ultima cosa, la più scontata. Come hai vissuto personalmente il congresso di Firenze? Lo stesso travaglio, lo stesso dolore della Bolognina?
Qualche affinità c'è stata. In ambedue i casi ho percepito subito il tormento di un dramma e al tempo stesso un senso di liberazione verso idee e progetti nuovi. Sì, vedo nuove opportunità che si manifestano. Nuove energie, nuove idee. Insomma, vedo un futuro per la sinistra. Una scommessa che vale la pena giocare.

martedì 24 aprile 2007

il Riformista 24.4.07
Francia. Doppio turno
L'ultrasinistra soffre e recrimina
Prc E PdcI guardano al Sudamerica, non al Pse
La sinistra radicale ammette la sconfitta
Solo i trotzkisti esultano per il loro candidato
di Ettore Colombo


Non è piaciuto né punto né poco, il risultato del primo turno delle presidenziali francesi alla sinistra radicale italiana, specie dalle parti di Rifondazione. Il problema non sta tanto nel (disastroso) risultato raccolto dai candidati a sinistra della Royal, risultato che anche se si sommano tutti i contendenti peraltro non ha fatto gioire proprio nessuno, tra i partiti della sinistra a sinistra del pd, ma anche nei suoi effetti indotti. Quelli del meccanismo elettorale a doppio turno che i maggiorenti dell'Ulivo vorrebbero importare anche in Italia. Il segretario del Prc Franco Giordano lo dice chiaro, via agenzie e parlandone con i suoi. Alle prime, stabilito che il ballottaggio «chiama la sinistra francese a una sfida unitaria per allargare il consenso intorno alla Royal», spiega che «l'affermazione dell'Udf di Bayrou ripropone le aporie di un bipolarismo che rischia di svuotarsi nella sfida per l'inseguimento al centro e che rivela i limiti intrinseci del sistema a doppio turno». Parlando con i suoi indica tutti i pericoli di un sistema elettorale basato solo sulla negoziazione dei posti, sulla contrattazione del potere, e di accordi per il secondo turno «fatti con la pistola alla tempia, per la sinistra, dove l'unica possibilità è quella di turarsi il naso e votare», ma soprattutto temendo uno scenario - brutalmente prospettato dall'intervento del presidente del Senato Marini - in cui «la maggioranza di una minoranza vuole decidere di volta in volta con chi allearsi in modo spregiudicato, e magari cominciare a trattare la sinistra alternativa come un orpello, mentre noi al confronto con il cattolicesimo democratico, all'interno dell'unica alleanza possibile, l'Unione, siamo seriamente interessati».
Ecco perché Rifondazione, dove peraltro le simpatie per il Pcf, già scarse anni fa, nonostante i due partiti siano alleati nel gruppo del Gue all'Europarlamento e nel progetto Sinistra europea, si sono ormai ridotte quasi allo zero («si tratta di un partito morto», si sente dire) punta al modello elettorale tedesco e teme come la peste il doppio turno.
I Verdi italiani, che naturalmente appoggiano la scelta dei Verdi francesi - la cui candidata Domenique Voynet si è fermata a un modesto 1,5% ma ha già annunciato di voler votare per la Royal - seguono lo stesso filo del ragionamento di Giordano. Criticano, cioè, con il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli il doppio turno, definito «un elemento negativo che favorisce la frammentazione a sinistra né dà garanzie di governabilità e pluralismo».
Se Sagunto, e cioè Prc e Pdci, i (presunti) omologhi italiani del Pcf francese, la cui candidata Marie-George Buffet si è fermata al 2%, in crollo anche dalla già disastrosa volta precedente (3,7), piange, Roma però non ride. Vanno male, infatti, anche i due candidati trotzkisti, anche se con una differenza sostanziale: Arlette Laguiller, storica pasionaria di Lotta Operaia, precipita all'1,5 (aveva il 5,2%), mentre il postino trotzkista Olivier Besancenot, leader della Lega comunista rivoluzionaria, non va oltre il 4,1%. I trotzkisti italiani, però, esultano anche perché, in questo caso, i legami della IV Internazionale (la cui “centrale” sta proprio a Parigi) pesano e Besancenot è nei loro cuori. «L'Arlette si è candidata per la sesta volta dal '74 e il suo partito è davvero una setta chiusa - spiega Salvatore Cannavò, deputato del Prc e leader della minoranza (in rotta aperta col partito) “Sinistra critica” - mentre Besancenot è l'unica forza in piedi a sinistra della Royal e in termini di voti assoluti è pure cresciuto. Oggi chiede un voto anti-Sarkozy, più che pro-Royal, per battere le destre e fa bene. L'idea della gauche plurielle, invece, tanto cara a Bertinotti, e cioè l'unità delle sinistre tra Pcf e Ps perseguita per anni, ma anche il progetto di Sinistra europea ne esce massacrato. Con il meccanismo del voto utile il Prc rischia la fine del Pcf».
Nello stato maggiore di Rifondazione, naturalmente, ci credono eccome, invece, nel progetto Sinistra europea, e ne stanno preparando alacremente il lancio per il 16 e 17 maggio a Roma. Se però Uniti a sinistra, il rassemblement che fa capo a Pietro Folena, ha chiesto lo status di osservatore al Pse e intreccia i rapporti più stretti con l'area di Mussi e Salvi (il 29 ci sarà un'assemblea comune), anche in tema di analisi sul voto francese, più di qualche accenno a rapporti «positivi» con le sinistre socialiste e socialdemocratiche europee non si strappa, parlandone al responsabile Esteri del Prc Fabio Amato, che preferisce puntare le sue carte e le sue speranze - come peraltro fa anche il responsabile Esteri del Pdci Jacopo Venier - sul Foro latinoamericano di San Paolo, dove si raccoglie il meglio, a loro dire, della sinistra radicale, socialista, comunista, cattolica e ambientalista (in una parola: altermondialista) di un continente che fa ancora sognare i “new comunist” all'italiana perché vince e governa, ma da posizioni anti-liberiste, pacifiste, populiste e anti-statunitensi.
«In Francia difficilmente sarebbe potuta andare peggio, a sinistra: la frammentazione si paga ma è stato un errore politico», spiega Amato, «lì l'obiettivo dell'unità a sinistra resta da perseguire mentre in Europa e nel mondo il discrimine per noi resta sempre lo stesso: il no alla guerra e al neoliberismo. Ecco perché il Pse e la stessa Internazionale socialista non ci bastano». Per Amato, in ogni caso, nel progetto Sinistra europea sono coinvolte anche forze della sinistra socialista e socialdemocratica: oltre alla Linke tedesca, dagli olandesi ai nordici, dai portoghesi ai greci. Forti dubbi nutre, sull'argomento, Venier del Pdci, partito che sta dentro il Gue e che verso Sinistra europea ha lo status dell'osservatore: «E' un luogo parziale, che divide quello che il Gue unisce, senza dire che quasi tutti i partiti della sinistra alternativa nordica e di altri paesi non vi partecipano». Ma in questo caso si torna nelle beghe interne italiche, quelle tra Pdci e Prc. Venier in ogni caso è molto più critico e severo nei giudizi: in particolare sulla mancanza di una «candidatura unitaria della sinistra già dal primo turno, in Francia, sull'esito triste che segna il destino del Pcf e sull'illusione della sinistra alternativa francese che ha condotto una dura battaglia contro la costituzione europea senza peraltro riuscire a capitalizzare quel risultato».
Non ha dubbi, invece, il senatore Cesare Salvi, leader con Mussi della minoranza Ds: «Il voto francese dice innanzitutto che il socialismo è vivo e vegeto, alla faccia di Rutelli, ora si tratterà di vedere se il voto francese si riposizionerà definitivamente sull'asse destra-sinistra, al ballottaggio. Poi, certo, a sinistra c'è il problema di fare, come direbbe Bertinotti, “massa critica”: i voti a sinistra della Royal se sommati stanno poco sotto il 10% ma si sono divisi. Gli elettori, anche in Italia, chiedono una sinistra capace di vincere e su cui contare. Una lezione importante, quella francese, e tutta da approfondire». Sistema elettorale permettendo.

Repubblica 24.4.07
Il leader di Sinistra Democratica: d'ora in poi le questioni di maggioranza dovranno essere trattate con noi
Mussi avvisa premier e alleati "Anche noi al tavolo dell'Unione"
di Umberto Rosso


ROMA - Adesso, c´è anche l´annuncio ufficiale. «Sì, ci saranno rappresentanze istituzionali del nostro movimento. In Parlamento, così come in giro per l´Italia, negli enti locali. A breve perciò nasceranno i nuovi gruppi alla Camera e al Senato». Consumato a Firenze l´addio ai Ds e al Pd, «senza torte in faccia, con grandissima civiltà», Fabio Mussi e (l´ex) correntone della Quercia sono alle prese con il day-after. E "Sinistra democratica" chiede già di aggiungere un nuovo posto al tavolo del centrosinistra.
Ministro Mussi, anche voi d´ora in poi ai vertici e alle trattative di maggioranza?
«Credo proprio di sì. Siamo una parte del centrosinistra, e al tavolo dobbiamo esserci. Non voglio che sia un seggio permanente, perché lavoriamo ad un movimento più grande, ad un big-bang di tutta la sinistra che non si riconosce nel Pd. Ma è certo che, avendo un ruolo parlamentare rilevante, dovremo poter dire la nostra».
Nuovo partito, e nuova frammentazione sotto il cielo dell´Unione.
«Inevitabile, con la nascita del Pd. Ma li vogliamo accendere i riflettori su quel che è successo davvero al congresso della Margherita?».
Accendiamoli.
«Rutelli annuncia, abbracciando Fassino: il Partito democratico è già qui. Ma come, e le architetture della Costituente, il processo allargato, e il motore che aspetta la potente benzina delle primarie? Niente. Già fatto. Il Pd è nato. Adesso non gli resta che la battaglia per stabilire chi comanda. E che dire di Franco Marini?».
Parliamone.
«E' stato chiaro: il Pd dovrà tenersi le mani libere nelle alleanze di governo».
Nella prossima legislatura, ha precisato.
«Certo, mica penso che Marini punti adesso al ribaltone. Ma i partiti non si fanno per una legislatura, l´orizzonte balistico è più ampio, nascono per durare. Domando: il Pd non doveva essere il timone riformista del centrosinistra? In Italia, lo abbiamo già avuto un grosso partito di centro che "guardava" a sinistra, e che per 50 anni ha lungamente governato alleandosi però ora con la sinistra ora con la destra. Si chiamava Democrazia cristiana».
Partito democratico uguale Dc?
«La formula delle mani libere di Marini lascia intuire nelle intenzioni un Pd che tende ad esercitare la funzione che fu della Dc, con alleanze ora di qua ora di là».
Forse sarà un sogno della Margherita. E sotto la Quercia?
«Già, i Ds. Che ne pensano? Chi lo sa. Un silenzio assordante. Nessun commento, neanche una parola sull´intervento di Marini. Eppure Fassino era seduto in prima fila, al congresso dielle di Cinecittà».
Se restava qualche dubbio sull´addio, il congresso della Margherita l´ha spazzato...
«Ha confermato in pieno la mia scelta di Firenze».
Dove ha parlato di "due" costituenti. Però quella del Pd è comunque in marcia. E la vostra, ministro?
«Ci siano appena messi in cammino. Non per aggiungere un nuovo partitino ad un arcipelago di sigle già affollato. L´obiettivo immediato è la costituzione di un movimento politico, al quale chiediamo l´adesione di iscritti ai Ds, intellettuali, compagni rimasti alla finestra, della grande area di sinistra "liberata" dal progetto centrista del Pd. Il 5 maggio prossimo, nella prima assemblea di "Sinistra democratica", eleggeremo gli organismi provvisori. Dopo l´estate, la struttura definitiva».
E i rapporti con i partiti della sinistra? Con Boselli o con Giordano?
«Il nostro movimento punta ad aprire un processo, a far da sponda, ad innescare un big bang di trasformazione e di aggregazione di tutta la sinistra. Se non avessi il senso del limite e della misura, parlerei di una Epinay italiana. Immagino un centrosinistra basato su due pilastri».
Quali sono?
«Uno è il Pd. L´altro la sinistra. Le aspettative di un Pd che può contare quasi su tutto lo spazio del centrosinistra, francamente mi sembrano esagerate. Per fare maggioranza di governo, ho l´impressione che serviranno altrettanti voti di quelli portati dal nuovo partito di Rutelli e Fassino».
Intanto, via libera ai gruppi parlamentari autonomi del correntone. Nome?
«Ne discuteranno i delegati. La proposta resta "Sinistra democratica"».
Simbolo? Si "libera" la Quercia, sta per sparire dal logo ds...
«Non è libera, apparterrà comunque a Fassino. In ogni caso, bisogna costruire cose nuove. I vecchi edifici a questo punto sono tutti crollati».
Non parliamo perciò di falce e martello.
«A quella ho rinunciato nel 1989».
In pista come Sd alle ammistrative di maggio?
«Troppo presto. Il quadro, piuttosto, sarà variegato. In alcune città, vedi Taranto, i nostri saranno candidati nelle liste civiche. Altrove con l´Ulivo. In altre città ancora nelle liste Ds».
Nessun disagio a trovarsi ancora sotto lo stesso tetto, dopo la scissione?
«No, perché l´obiettivo comune è far vincere il centrosinistra. E daremo una mano, visto che abbiamo una nostra forza anche elettorale».
Dopo, faranno gruppo a sé consiglieri comunali del correntone?
«Vedremo, caso per caso. Non sarà una questione dirimente. Del resto, c´è sempre un´elezione alle porte. Dopo il voto di maggio, ecco il successivo turno di amministrative. E poi le europee. Hai voglia. Qualunque cosa si faccia, c´è sempre a ridosso un´altra elezione... ».

Repubblica 24.4.07
Bertinotti sul monte Athos preghiere, silenzi e palmari
di Goffredo De Marchis


"Si sente la diversità, ma non esistono più aree protette, separate dal resto del mondo" Le telecamere del Tg1 ammesse alla visita
Il presidente della Camera per due giorni dai monaci

ROMA - Pranzo alle otto di mattina con pesce, formaggio, patate e vino rosso. Pasto successivo alle sette di sera. In mezzo tanta preghiera, il raccoglimento nel silenzio, le funzioni religiose. Per due giorni, sabato e domenica, Fausto Bertinotti ha vissuto la vita dei monaci del monte Athos, la comunità ortodossa che ha creato un´enclave autonoma all´interno della penisola greca. Raccolti intorno alla montagna, vivono, in 20 monasteri, 1500 monaci. Zona off limits per le donne e anche per gli animali di sesso femminile. Non ci sono né mucche né capre. Lontani da tutto, in un´atmosfera ascetica, i religiosi tengono viva una tradizione antichissima. E il presidente della Camera ha deciso di venire a vedere. «Ci sono più cose in cielo e in terra di quelle contenute nella nostra immaginazione», ha spiegato ieri al Tg1 citando Shakespeare. Lo ha spinto la curiosità, lo ha colpito il fatto che nemmeno lì, in mezzo alla penisola su cui sorge il monte Athos, si possa tenere a distanza la modernità. Mentre visitava con la delegazione un monastero (c´era il portavoce Fabio Rosati e il direttore di Radiorai Sergio Valzania, coautore del libro "La città degli uomini") un religioso con la tipica barba ha tirato fuori un palmare. Proprio lì dove non è ammessa la televisione. Con qualche eccezione, visto che il presidente della Camera è riuscito a farsi seguire dalle telecamere del Tg1, che ieri sera hanno mandato in onda un servizio sulla visita. Con tanto di nota di rammarico della conduttrice Tiziana Ferrario che ha sottolineato come purtroppo quei monasteri siano off limits per le donne.
Bertinotti ha partecipato alla preghiera, seduto accanto all´abate, in prima fila. È un altro pezzo del personalissimo mosaico bertinottiano, una parte del suo percorso spirituale mai nascosto. «Sono in ricerca», disse qualche anno fa. Un ateo attento alla profondità della fede. Disse anche, quando era il leader di Rifondazione, che il primo giornale letto la mattina era l´Osservatore romano. A breve a Montecitorio verrà inaugurata la sala di meditazione aperta a tutti gli abitanti del Palazzo che lui ha voluto. «Eppoi - ha spiegato dopo la visita - qui c´è una cura particolare delle radici. Si celebrano adesso i mille anni della comunità. Anch´io penso che le radici siano importanti per guardare al futuro».
È proprio il senso di futuro ad averlo colpito, in una terra che dovrebbe essere ferma nel tempo, distante dalla modernità, più attenta all´antico che al progresso. «È vero, sul monte Athos si sente la diversità di un´esperienza. Ma non esistono più aree protette, non c´è un luogo che possa davvero essere separato dal resto del mondo, oggi».
Bertinotti ha soggiornato nel monastero di Vatopedi, nella stanza dove dorme Carlo d´Inghilterra che ama questi luoghi. L´unica con il bagno privato. Al principe è stata dedicata una teca nel museo della comunità con tutti i regali fatti negli ultimi anni. Anche il presidente della Camera ha portato un piccolo omaggio: una mappa della penisola con l´Athos in evidenza. Ha visitato quattro monasteri, ha parlato con gli abati, con i monaci. Ne ha incontrato uno che era stato comunista, partigiano, esule durante la dittatura dei colonnelli. «Siamo due compagni», hanno scherzato abbracciandosi. E hanno discusso a lungo di Sarkozy. «Il mondo globalizzato - ha osservato - spinge questi monaci a non chiudersi completamente e spinge una persona come me a vedere un altro aspetto della vita. Questo ci obbliga a riflettere. I monaci sono gelosi delle loro tradizioni, dei loro riti, della loro storia ma vogliono anche aprirsi». Del resto, la parola più ascoltata nella breve visita è stata «sperimentare», ha raccontato Bertinotti. «Dobbiamo farlo tutti, soprattutto in questi tempi».

Corriere della Sera 24.4.07
Addio unione di sinistra
La partecipazione al voto e il crollo delle estreme
La sinistra può vincere solo insieme al centro
di Bernard-Henri Lévy


La prima bella sorpresa di queste elezioni è chiaramente il tasso di partecipazione. Qualcosa che non si era mai visto prima sotto la Quinta Repubblica francese. Di inaudito in questi ultimi trent'anni e più, dacché osservo le campagne per le elezioni presidenziali.
Questo popolo che si diceva stanco, sfiduciato, depoliticizzato, queste maggioranze indecise, quest'Homo politicus in agonia che avrebbe dovuto cedere il passo al telespettatore e al blogger, ebbene no, questo popolo vive e ci parla — come dirlo altrimenti? — di tutto il suo amore per la politica. Ripenso al Kant di «Che cos'è l'Illuminismo». Ripenso all'ingresso nell'età adulta, senza tutori, del cittadino emancipato, libero dalle catene del pensiero preconfezionato. Finalmente!
La seconda bella sorpresa è Le Pen. Non è mai caduto così in basso. La sua ascesa, che si credeva irresistibile, è stata chiaramente bloccata. Certo, si può anche cavillare. Si può spiegare che non serve a niente sfidare il Front national se non per salvare le proprie tesi. Sia pure così. Ma alla fin fine… non è meglio, tutto sommato, il fantasma del Fn nella testa di qualcuno che non vi appartiene? E si può ripetere, come noi facciamo da vent'anni, che tra l'originale e la sua copia gli elettori scelgono sempre l'originale e, quando smentiscono i pronostici, non si può non riconoscerlo lealmente e felicitarsene? Io non ho mai votato, e non voterò mai, per Nicolas Sarkozy. Ho votato e voterò per Ségolène Royal.
Ma qui si avverte, che lo si voglia o no, e a ragione, l'effetto della strategia del candidato dell'Ump.
La terza bella sorpresa è l'estrema sinistra. Non ho le cifre alla mano delle elezioni precedenti. Scrivo a caldo e non ho i dati esatti. Ma il cospirazionista Bové all'1 per cento, la Laguiller che finisce la sua vita politica su un risultato sconfortante, e il Partito comunista che tocca un livello così basso da mettere in dubbio la sua sopravvivenza: per un antitotalitario che si rispetti, che bella notizia! Per tutti coloro che non si sono ancora convinti che un totalitarismo di sinistra è meglio di un totalitarismo di destra, quale liberazione! Questa liberazione, questo successo, lo dobbiamo all'altra grande vincitrice della serata, la raggiante Ségolène Royal. Anche questo va detto.
La quarta bella sorpresa — dovuta al terzo uomo della campagna presidenziale, François Bayrou — è la comparsa, per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, di un centro degno di questo nome. Non il centro di Barre del 1988. Non il centro di Balladur del 1995. Un vero centro. Un vero terzo partito, centrista, dotato di valori e di principi propri. Gli manca ancora, certamente, una forma. Un nome. Il suo posto esatto sullo scacchiere. Deve ancora esplorare compiutamente la sua logica e dire, con fermezza, che non si tratta semplicemente di una «seconda destra», come sospettano alcuni. Ma se farà questo passo, se sarà capace di rompere, tutto cambierà. Ed è vero che, grazie a lui, l'alternanza sarà possibile.
Corollario di tutto questo è che Michel Rocard, Bernard Kouchner e Daniel Cohn-Bendit avevano visto giusto. Troppo in anticipo, forse. Ma avevano ragione. Perché se si allineano tutti i fatti, ciò che precede con quello che segue, se si ripensa alla breccia di Bayrou e al crollo dell'estrema sinistra, la conclusione è inevitabile: la sinistra non ha più la maggioranza di governo con l'appoggio dell'ala estrema; le strategie dette di sinistra pluralista o, peggio, dell'unione della sinistra, appartengono al passato; la sinistra, per dirla in altre parole, può vincere, ma lo farà soltanto alleandosi chiaramente, senza riserve, con questo terzo partito centrista. Un tempo c'era il programma di Maurice Clavel: spezzare la sinistra per vincere la destra. Quello di Claude Lefort: sbriciolare l'omonimia che dà lo stesso nome — «la sinistra» — agli eredi di Lenin e di Jaurès. Finalmente, siamo arrivati. Finalmente, usciamo dagli anni di piombo del socialismo e del marxismo.
Lo sa Mme Royal? Farà lei stessa quei gesti, molto presto, per dimostrare che l'ha capito? Una frase, una sola, rivolta a François Bayrou e a quei sei milioni di elettori che, in gran numero, sono pronti a unirsi a lei… Una frase, una sola, rivolta a Dominique Strauss-Kahn, del quale non smetto di ripetere — e me ne scuso con i miei lettori — che è l'incarnazione, accanto a lei, di questo rinnovamento e stringe in mano le chiavi del successo… Che pronunci queste due frasi, che scuota, pronunciandole, gli arconti del proprio partito, e che sappia cambiare il volto della Francia per vincere.
Perché dimenticavo l'essenziale. Lo stile di Ségolène Royal. Il suo fascino. Questo piglio, decisamente nuovo, di fare la politica e di dirla. La sua grinta. La sua tempra. Questa ostinazione salda che ha saputo superare i trabocchetti e le imboscate che le sono giunti, come capita spesso, dal suo stesso partito. A causa di tutto questo, a causa anche degli impegni presi nei confronti dell'Europa, a causa della sua volontà di farsi messaggera di una Francia che sia innanzitutto un'Idea e che porterà in ogni angolo del mondo, come dice lei, il messaggio dei diritti dell'uomo e dei Lumi, a causa di tutto questo, sì, e nella speranza, voglio ripeterlo, che sappia osare le parole per esprimere questa sinistra moderna, liberale, riformatrice che il Paese aspetta e merita, Ségolène Royal resta — naturalmente — la mia candidata.

(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 24.4.07
L'illusione di inventare una Francia all'italiana
di Massimo Franco


È come se stessero cercando nei risultati francesi conferme alle proprie tesi. Forse perché i partiti italiani inseguono l'elisir di una transizione senza scosse, e una riforma elettorale che la garantisca. Ed i risultati del primo turno delle presidenziali consegnano una situazione incerta, sulla quale è facile proiettare speranze e alleanze a tavolino. Si tratta di un gioco che rischia di sconfinare nel provincialismo. Ma diventa quasi automatico, per chi vuole cogliere il segnale di una conferma del bipolarismo o di un'archiviazione del centrismo. Da questo punto di vista, la Francia diventa lo specchio nel quale l'Italia politica cerca di riflettersi.
E pazienza se l'ex premier socialista Michel Rocard osserva le suggestioni italiane e l'evoluzione dell'Unione verso il Partito democratico con una punta di freddezza: come qualcosa sulla quale è ancora difficile scommettere, perché i fondatori appartengono a culture e tradizioni troppo distanti. A prevalere sono i desideri. Così, nel Romano Prodi che vorrebbe un accordo fra la socialista Ségolène Royal e il centrista François Bayrou, c'è «la speranza» che avvenga. Ed «è chiaro che sarebbe anche una scelta simile a quella italiana», aggiunge il presidente del Consiglio: un centrosinistra fotocopia o quasi del patto Ds-Margherita.
Diventerebbe il «testimonial» perfetto per il nascente Partito democratico: la conferma, per di più proveniente da un Paese-faro dell'Europa come la Francia, che la mescolanza tra forze diverse è possibile e viene premiata. Ma c'è anche una ragione più generale a giustificare il tifo dell'Unione: un calcolo di politica estera. L'impressione è che la maggioranza prodiana si aggrappi alla prospettiva di un'affermazione del duo Royal-Bayrou per esorcizzare i contraccolpi sull'Italia di una Francia di centrodestra presieduta da Nicholas Sarkozy; in sintonia col fronte berlusconiano; e sulla carta meno ostile agli Usa di George Bush.
È un atteggiamento politico a doppio taglio: simmetrico e opposto a quello dell'opposizione italiana. Il centrodestra allinea infatti tutte le ragioni per le quali Bayrou non avrebbe ragione di allearsi con la sinistra della Royal. Gianfranco Fini, leader di An, sostiene che è un elettorato antisinistra in marcia verso Sarkozy. D'altronde, anche alla vigilia del primo turno francese le forze politiche italiane hanno usato candidati e schieramenti d'Oltralpe per ragioni interne, perfino congressuali. Ma quanto sia fragile e un po' forzata una simile impostazione è segnalato da alcune preferenze eterodosse che soprattutto l'Unione fa emergere: con qualche tifoso a sorpresa di Sarkozy.
La stessa soddisfazione del ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, per la vittoria dei candidati «europeisti» rispetto all'euroscettico Le Pen, è in attesa di verifica. «Sia Sarkozy sia Royal si batterono per il sì referendario alla Costituzione europea: l'unico per il no fu proprio Le Pen», si rallegra D'Alema. Il problema è che alla fine la Francia ha bocciato quell'ipotesi di Costituzione. E durante la campagna presidenziale il tema dell'integrazione, dell'allargamento a est, del futuro dell'Ue è rimasto piuttosto in ombra. L'ipotesi che nelle prossime due settimane l'Europa diventi il cuore del confronto, dunque, per il momento è solo un'ipotesi.
L'Unione tifa ambiguamente per un patto Royal-Bayrou pensando al Pd

Corriere della Sera 24.4.07
Il Vaticano: terrorista chi propaganda l'aborto
Affondo dalla Congregazione per la dottrina della fede


ROMA — Oltre all'«abominevole terrorismo dei kamikaze» che assomiglia a un «perverso film sul male» girato ogni giorno in qualche regione diversa del mondo «con sceneggiature sempre nuove e crudeli», esiste anche «un cosiddetto terrorismo dal volto umano che viene subdolamente propagandato dai mezzi di comunicazione sociale». In tale categoria rientrano l'aborto, l'eutanasia, ma anche la pillola abortiva Ru 486 e i laboratori dove si manipolano gli embrioni, e quei Parlamenti che approvano leggi contrarie all'essere umano. Tutto ciò può essere paragonato alle sette sataniche che praticano «un vero e proprio culto sacrilego del male».
Questo durissimo j'accuse è stato lanciato da monsignor Angelo Amato, numero due della Congregazione per la dottrina della fede. Teologo autorevole, Amato è stato braccio destro dell'allora cardinale Ratzinger nell'ex Sant' Uffizio, a partire dal 2003.
Il «terrorismo dal volto umano», ha aggiunto Amato, «viene subdolamente propagandato dai mezzi di comunicazione, manipolando ad arte il linguaggio con espressioni che nascondono la tragica realtà dei fatti». Sempre ieri Benedetto XVI, in una lettera scritta ai vescovi del Messico, è intervenuto contro la depenalizzazione dell'aborto nel paese latinomericano.
«Chiarezza» ha chiesto anche il Sir, agenzia dei vescovi italiani, all'indomani dei congressi dei Ds e della Margherita, mettendo in guardia da «una vecchia concezione laicista di ispirazione ottocentesca». Essa, secondo il Sir, «non rappresenta più un utile cleavage su cui costruire una proposta politica, pure affermando la centralità della famiglia». Quanto al Family Day, i promotori, dovrebbero incontrare il leader della Margherita, Rutelli, giovedì prossimo.
Sul versante opposto il ministro Bonino,a Radio Radicale, ha commentato criticamente l'esito dei due congressi: «Noi abbiamo indetto per il 12 maggio il giorno dell'orgoglio laico, la Margherita sostiene il Family day e i Ds si dicono equidistanti rispetto ai due appuntamenti.Credo che questo esempio spieghi bene il mio scetticismo rispetto ad un modo di vivere la politica».

Corriere della Sera 24.4.07
«Favorevole al cambio di nome anche senza mutare connotati fisici»
La Turco e i transessuali «Giusto rimborsare chi armonizza il corpo»
Il ministro: il sì spetterebbe al medico, non al tribunale
di Margherita De Bac


ROMA — «Non ci trovo niente di scandaloso nel riconoscere ai transessuali maggiori attenzioni da parte del servizio pubblico. L'intimità della persona va rispettata e, quindi, credo che il nostro sistema sanitario debba fare uno sforzo. E' una questione di etica». Manderanno in estasi Luxuria le dichiarazioni di Livia Turco sull'iniziativa preannunciata sul Corriere
dal deputato di Rifondazione da poco riapparso in Parlamento con un naso rifatto: un disegno di legge che renda più accessibili, sul piano della rimborsabilità, gli interventi per transitare da un sesso all'altro. Sarà pronto entro maggio.
PARERE — Il ministro della Salute chiederà un parere al Consiglio Superiore di Sanità e al Comitato di bioetica. «Non mi sento di affermare che tutto ciò che riguarda il sesso vada considerato un diritto — aggiunge —. Credo però che il servizio ospedaliero debba prendersi carico di chi ha bisogno di armonizzare il corpo con la sua identità. Mi chiedo inoltre se sia giusto che a rilasciare le autorizzazioni per il cambiamento di genere debba essere un tribunale anziché un'equipe medica». Il ministro è inoltre favorevole alla proposta di consentire ai transessuali la modifica del nome anche senza aver mutato connotati fisici: «Deve essere una libera scelta. Poter adeguare i documenti a quello che un individuo sente di essere nell'intimo significa mantenere la propria integrità».
Dunque, massima disponibilità ad affrontare il tema degli interventi chirurgici rimborsati a chi è nato in un corpo sbagliato. Luxuria quasi non ci crede: «Grande Livia — commenta entusiasta —. Mi rendo conto che in molte Regioni il bilancio della Sanità è in rosso. Noi però abbiamo bisogno di maggiore assistenza, ci deve essere permesso di realizzare l'armonia tra fisico e spirito. Qui non si tratta di avere il lifting gratis e di rifarsi per apparire giovani e belli. Abbiamo diritto alla salute psicofisica».
BISTURI — Il 20% dei circa 20 mila trans italiani sono «transitati» grazie al bisturi. L'80% invece convive con aspetto e attributi sessuali indesiderati perché non tutti possono operarsi privatamente, a caro prezzo. Il 90% dei transitati ha compiuto il passaggio da uomo a donna. L'attuale sistema sanitario rimborsa alcune prestazioni chirurgiche ma solo per la correzione delle caratteristiche sessuali primarie (genitali).
Di regola, sono esclusemastoplastica, rinoplastica elettrocoagulazione per la depilazione definitiva, trattamenti ormonali. La situazione è molto diversa nelle Regioni. Toscana ed Emilia Romagna sono le più evolute e aperte nei confronti di pazienti così speciali. Lo stesso avviene in altre realtà isolate, come il San Camillo di Roma e il Mauriziano di Torino.
DONAZIONI — Al Policlinico Umberto I di Roma Nicolò Scuderi cerca di assecondare le necessità di chi vuole rettificare il sesso facendo rientrare nella rimborsabilità rinoplastica, correzione del pomo d'Adamo o zigomi. Il chirurgo è in attesa del via libera per un protocollo senza precedenti. Un doppio passaggio maschio-femmina e femmina-maschio. Funzionerebbe così. L'aspirante femmina dona l'organo sessuale che viene trapiantato all'aspirante uomo. Per Scuderi non è un azzardo: «Stiamo studiando i particolari tecnici. E' una soluzione possibile».

il Riformista 24.4.07
Omofobia in Polonia. Allarme Ue
di Sonia Oranges e Mariella Palazzolo


«Siamo venuti fin qui per impedire che la pedofilia e la omosessualità si approprino della nostra società»: questa la motivazione con cui Marcin Stronski, leader dei Giovani di Polonia, gruppo radicale di destra polacco, ha spiegato l'aggressione messa in atto dai suoi militanti alla Marcia per la Tolleranza di Cracovia, l'annuale iniziativa organizzata dai collettivi omosessuali polacchi. Gli ultradestri, che hanno accolto il corteo gay con un lancio di uova per poi passare direttamente alle mani, sono stati bloccati dalle forze dell'ordine che hanno represso duramente gli scontri, senza fare troppi distinguo. Certo è che, in questa stagione, l'intolleranza dell'ultradestra trova terreno fertile nel paese. Dopo i tafferugli in piazza, Stronski ha promesso lotta a oltranza per «difendere i valori familiari che hanno sempre prevalso in Polonia». L'organizzazione estremista mescola elementi xenofobi, nazionalisti e razzisti, ricalcando in alcuni punti (come sul rifiuto dell'omosessualità) i principi fondanti della Lega delle famiglie polacche, uno dei partiti ora al governo insieme con la formazione dei gemelli Kaczynski, autori dell'ondata di provvedimenti di stampo totalitaristico (dalla lustracja al censimento delle ragazze incinta in età scolare, alla lotta ai gay all'interno del corpo insegnante), tali da spingere il parlamento europeo a portare domani in aula il tema dell'omofobia.
Lo sdegno provocato dalla proposta di legge (presentata il mese scorso dal vicepremier ministro dell'educazione e dirigente della Lega delle famiglie polacche Roman Giertych) che proibiva qualsiasi accenno alla omosessualità nella scuola e prevedeva, tra l'altro, di escludere dall'insegnamento e sanzionare gli insegnanti dichiaratamente omosessuali, tiene viva l'attenzione sull'evolversi della vicenda polacca, anche se il governo ha prudentemente rinviato l'approvazione delle nuove norme sine die. «Notiamo con soddisfazione che il governo polacco ha deciso di non andare avanti con la proposta di legge, ma resta il biasimo per un proposito inammissibile da parte di un governo che dovrebbe invece sostenere la libertà di espressione e indirizzare la società verso la pacifica convivenza», commenta l'europarlamentare olandese Kathalijne Maria Buitenweg. L'eurodeputata verde sottolinea come «una corrente che spinge a discriminare le minoranze e a non rispettare i diritti civili si sta infiltrando nella politica e nella società polacche». La commissione per le libertà civili, presieduta dal francese Jean-Marie Cavada, del gruppo dell'Alleanza dei democratici e dei liberali per l'Europa, aveva messo immediatamente all'ordine del giorno il dibattito sulla proposta polacca e aveva chiesto all'agenzia europea per i diritti fondamentali di valutare il rischio del dilagare dell'omofobia nei paesi della Ue. Gli eurodeputati hanno inserito nell'agenda di giovedì la votazione di una risoluzione: sostengono che l'omofobia si manifesta nella sfera pubblica e privata sotto forme diverse «quali discorsi intrisi di odio e istigazioni alla discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e omicidio, discriminazioni in violazione del principio di uguaglianza, limitazioni arbitrarie e irragionevoli dei diritti, spesso giustificate con motivi di ordine pubblico, libertà religiosa e diritto all'obiezione di coscienza».
Alcuni europarlamentari polacchi hanno cercato di difendere il proprio governo, sostenendo che il disegno di legge sia opera di una parte minoritaria della coalizione (la Lega della Famiglie Polacche) e che il primo ministro Jaroslaw Kaczynski si fosse immediatamente dichiarato contrario alle norme previste. «Non era la proposta di tutto il governo, ma di un ministro e criticata pubblicamente dal premier. Non rappresentativa di una politica condivisa - ribadisce Konrad Szymanski, europarlamentare del Partito giustizia e legge, che fa parte della coalizione al governo - e il governo polacco non avrebbe mai permesso e mai permetterà che sia discussa in Parlamento una legge che è in contrasto con tutte le norme contro la discriminazione». Lo stesso Kaczynski ha respinto con fastidio le accuse di intolleranza contro gli omosessuali, annunciando che gli europarlamentari polacchi non sosterranno alcuna risoluzione che faccia esplicito riferimento alla Polonia. A Varsavia, dice, «non c'è alcun retaggio culturale di persecuzione nei confronti degli omosessuali».
I fatti, però, lo smentiscono. Poco più di un anno fa, nel gennaio 2006, il Parlamento europeo, aveva già adottato una risoluzione sul tema, a seguito di una serie di dichiarazioni, dal sapore chiaramente omofobico, rilasciate proprio da esponenti politici polacchi. In quell'occasione, il Parlamento europeo chiese di garantire alle coppie gay il rispetto, la dignità e la protezione riconosciuti al resto della società, la libertà di circolazione e la non discriminazione in materia di successione e fiscalità, concludendo con la richiesta agli stati membri e alla Commissione, di intensificare la lotta all'omofobia mediante «un'azione pedagogica» e campagne sociali ad hoc. Ma a Varsavia questo dettaglio deve essere sfuggito.

l'Unità 24.4.07
Dopocongresso, anche Angius tentato dall’uscita
Giudizio negativo su Firenze del leader della terza mozione. E Mussi prepara il lancio di Sd
di Simone Collini


L’ADDIO ai Ds Mussi l’ha dato dal palco del congresso, e ora sta lavorando insieme ai suoi per lanciare il 5 maggio “Sinistra democratica - Per il socialismo euro-
peo”, un movimento politico che si doterà tra breve di gruppi autonomi in Parlamento. Angius al congresso non ha fatto annunci, ma dall’assise di Firenze è uscito con un giudizio ancora più negativo sull’operazione in corso. Il Partito democratico, è la conclusione a cui è arrivato il vicepresidente del Senato, non sarà «né originale né di sinistra, come ci è stato detto». E non a caso quelli con cui ha parlato nelle ultime ore si dicono certi che tra breve ci sarà un altro addio clamoroso all’ombra della Quercia, il suo.
Angius si aspettava «una più coraggiosa apertura» da parte di Fassino ad altre forze oggi non coinvolte, che «non c’è stata»; aveva proposto «una radicale riscrittura del manifesto per il Pd» e ha visto invece il congresso chiudersi con un voto che «nulla ha messo in discussione dei passi fin qui compiuti»; aveva chiesto di sgombrare il campo da «visioni vecchie della laicità» e «chiarezza sul fatto che la collocazione rimane nel campo del socialismo europeo», e né sull’una né sull’altra cosa ha avuto «risposta soddisfacente». Per questi motivi Angius è sempre più tentato di non andare avanti. O meglio, di prendere un’altra strada. Del resto già dopo essere intervenuti venerdì mattina al congresso, Angius e Mussi avevano avuto un lungo colloquio per fare una valutazione a caldo di quanto visto e ascoltato. E le conclusioni a cui erano arrivati non erano poi molto distanti. Solo, il primo firmatario della terza mozione ha voluto aspettare la fine del congresso per capire se ci fossero margini per far compiere qualche correzione di rotta. Ma la relazione di chiusura di Fassino (ascoltata lontano da Firenze) e soprattutto i lavori nelle commissioni e il voto finale sul dispositivo per il Pd gli hanno lasciato ancora di più l’amaro in bocca. A breve, scioglierà la riserva.
Chi ha già compiuto il passo fuori dai Ds è invece già al lavoro per dar vita a un movimento politico autonomo che partecipi al «cantiere» per riunificare le forze di sinistra oggi divise. Mussi ha dato appuntamento a tutti i delegati per sabato. In quella sede si darà il via a una serie di assemblee regionali per preparare il lancio della “Sinistra democratica”, che avverrà a Roma il 5 maggio. Verrà creato un comitato promotore nazionale e anche a dei comitati sul territorio che avranno il compito di raccogliere adesioni al di là dei confini dell’ex sinistra Ds. E a breve verranno anche organizzate iniziative in particolare su quattro tematiche: lavoro salariato, ambiente, qualità della politica, forme nuove di partecipazione. Partire dai contenuti è la parola d’ordine per questa operazione. Ma che si stiano studiando anche formule di aggregazione con le forze a sinistra del Pd è palese. Colloqui con Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Boselli ci sono già stati. E Bertinotti non rimane estraneo a tutto ciò che si sta mettendo in movimento, anche se sta attento a rimanere rispettoso del ruolo di presidente della Camera. Colloqui che hanno dato alcuni risultati. Mussi interverrà il 4 maggio al congresso dei Verdi a Genova e Salvi prenderà la parola al congresso dei Comunisti italiani a Rimini domenica. Giorno in cui è convocata a Roma l’assemblea di Uniti a Sinistra, di cui è promotore l’indipendente Prc Pietro Folena, e anche qui Mussi sarà presente. Tanto attivismo serve a preparare il terreno per il futuro «cantiere» della sinistra, necessario a fare quella «massa critica» invocata qualche settimana fa da Bertinotti.
Il primo passo dell’ex minoranza diessina, comunque, è la creazione di “Sinistra democratica”, che si doterà in tempi rapidi di gruppi autonomi in Parlamento ma anche nelle istituzioni locali. Mussi ha già visionato i primi bozzetti del simbolo, che avrà al centro una rosa stilizzato e lungo la corona la scritta “Per il socialismo europeo”.