giovedì 26 aprile 2007

l’Unità 26.4.07
Sinistra democratica: Il terzo gruppo dell’Unione
Il movimento di Mussi conterà anche nelle istituzioni: ha i vicepresidenti di Camera e Senato
di Simone Collini


SARÀ IL TERZO GRUPPO della maggioranza, dopo Ulivo e Rifondazione comunista, sia alla Camera che al Senato. E sarà l’unico gruppo ad avere un vicepresidente in entrambi i rami del Parlamento: Carlo Leoni a Montecitorio e Gavino Angius a Palazzo Madama. A rimetterci sarà l’Ulivo, perché perderà più di una trentina di parlamentari tra deputati e senatori, ma anche perché rimarrà con un solo vicepresidente alla Camera (Pierluigi Castagnetti) e neanche uno al Senato.
La decisione sarà formalizzata a breve, ma ormai non ci sono più dubbi. Sia a Montecitorio che a Palazzo Madama nascerà il gruppo “Sinistra democratica”. Avrà come simbolo la Rosa e la scritta lungo la corona che la circonda “Per il socialismo europeo”. Sulla carta, al momento, ne fanno parte 23 deputati e 11 senatori. Tutti firmatari della mozione Mussi, più Angius. Ai quali potrebbero aggiungersi Giuseppe Caldarola, che già prima del congresso della Quercia aveva lasciato il partito ed espresso l’intenzione di abbandonare il gruppo dell’Ulivo per approdare al gruppo misto (ora potrebbe cambiare destinazione) e due deputati sostenitori della terza mozione che stanno meditando se seguire Angius: Franco Grillini e Fabio Baratella.
Come capigruppo, la scelta alla Camera potrebbe cadere su Valdo Spini o Fulvia Bandoli (nel qual caso sarebbe l’unica capogruppo donna di Montecitorio), mentre per il Senato il nome che circola è quello di Massimo Villone (Cesare Salvi dovrebbe rimanere presidente della Commissione Giustizia). Sul piano degli equilibri tra maggioranza e opposizione, la nascita del nuovo gruppo farebbe guadagnare un voto in più all’Unione nelle prossime riunioni della conferenza dei capigruppo e in quelle dell’ufficio di presidenza, visto che Sinistra democratica potrà nominare un proprio segretario che si andrà ad aggiungere a quelli già esistenti. Sul piano economico, i bilanci di Camera e Senato dovrebbero far fronte a una spesa ulteriore di circa 200 mila euro l’anno. In base alle regole vigenti, infatti, Sd potrà contare su circa 600 mila euro di contributi (sono previsti poco meno di duemila euro mensili per ogni parlamentare), mentre l’Ulivo ne perderà circa 400 mila (dal ventesimo parlamentare in su il contributo mensile scende a circa milletrecento euro).
Il lancio del movimento politico, del quale i gruppi saranno i rappresentanti in Parlamento, sarà il 5 maggio a Roma. Ci saranno Mussi, Salvi, Spini, Bandoli e i delegati e sostenitori della seconda mozione al congresso di Firenze, ma ci saranno anche Angius e il portavoce della terza mozione Alberto Nigra, che spiega: «Daremo il nostro contributo, le due aree, congiuntamente, daranno avvio a questo progetto di aggregazione delle forze della sinistra». E proprio perché il progetto è questo, all’iniziativa romana ci sarà anche il segretario dello Sdi Enrico Boselli, mentre contatti con le altre forze sono già stati presi. Salvi parlerà al congresso del Pdci domenica, Mussi interverrà a quello dei Verdi il 4 maggio. E non è casuale, poi, che il 10 il ministro dell’Università e il segretario del Prc Franco Giordano partecipino insieme alla presentazione del libro di Aldo Garzia sull’ex premier socialdemocratico svedese Olaf Palme.

l’Unità 26.4.07
La scelta di Bayrou divide la sinistra
Zani: «Il suo partito democratico sta al centro. Si faccia chiarezza sulla collocazione internazionale del Pd»
di Giuseppe Vittori


L’ECO DEI FATTI FRANCESI arriva in Italia e si inserisce nella discussione sul Partito democratico. François Bayrou conferma che non appoggerà al secondo turno delle presidenziali né Nicolas Sarkozy né Ségolène Royal e pochi minuti dopo si sente la voce
di chi è contrario al progetto unitario. «Chiedo agli amici della Margherita e a tutti coloro con cui condividiamo una comune responsabilità di governo di far giungere dall’Italia in Francia una voce concorde di sostegno a Ségolène Royal», è l’appello lanciato da Fabio Mussi. Per il quale quanto sta avvenendo in Francia «dimostra che non si sta formando nessun nuovo campo democratico-socialista in Europa, come invece è stato promesso nei recenti congressi». L’accusa riguarda la questione della collocazione internazionale del nascente Pd, e il ministro dell’Università, che per tutta la fase congressuale ha portato avanti una battaglia sulla permanenza nel Pse, non manca di sottolineare che «gli eventi italiani possono provocare rapidamente un indebolimento secco della sinistra in Europa»: «In Europa esiste un Partito Democratico Europeo, di cui fanno parte Bayrou, Prodi e Rutelli. In Francia Bayrou non sosterrà, al secondo turno delle presidenziali, né Sarkozy, né Royal, quindi né la destra, né la sinistra».
Ma anche chi ha deciso di impegnarsi nella fase costituente del Pd guarda alla posizione presa da Bayrou con preoccupazione. Mauro Zani, che pure ha contestato la decisione di Gavino Angius di lasciare, dice che la scelta del candidato centrista «rischia di tradursi in una disgrazia per la Francia»: «Basta guardare ai numeri del primo turno per capire che “l’equidistanza” di Bayrou serve solo ad aiutare Sarkozy». Ma al di là del risultato delle presidenziali francesi, per l’eurodeputato del Pse (eletto in quota Ulivo alle ultime europee) «la preannunciata nascita di un nuovo partito democratico in Francia che considera il centro come alternativo tanto alla destra che alla sinistra pone i Ds di fronte alla necessità di accelerare un vero chiarimento sull’adesione piena del costituendo Pd in Italia al campo del socialismo europeo».
Continua intanto a far discutere l’addio di Angius. Piero Fassino la definisce «una scelta individuale, che merita rispetto, ma che trovo errata e non fondata». L’addio del vicepresidente del Senato ha «sorpreso» il leader Ds: «Non ne vedo le ragioni, anche perché al congresso avevo accolto una serie di proposte della sua mozione, e trovo significativo che la stragrande maggioranza della mozione Angius non lo segua». Ma c’è anche chi, come il ministro per i Rapporti col Parlamento Vannino Chiti, ritiene possibile un ritorno degli ex compagni se la fase costituente sarà «così forte da sciogliere i nodi» che Angius e Mussi hanno sollevato nel corso della battaglia congressuale.

l’Unità 26.4.07
Pdci, congresso a Rimini dove iniziò la diaspora Pci
Lo slogan è noto: «Più forti i comunisti, più forte l’unità della sinistra». Domani apre Diliberto


«Più forti i comunisti, più forte l'unità della sinistra».
Lo slogan del quarto congresso nazionale del Pdci, che si terrà a Rimini da venerdì 27 a domenica 29 aprile, rivendica con forza l'identità comunista in cui si identifica il partito guidato da Oliviero Diliberto e soprattutto indica il suo principale obiettivo: rafforzare i comunisti nell'ambito di una sinistra più forte.
Dar vita alla Federazione della sinistra su cui Diliberto insiste da anni ma che adesso potrebbe davvero fare dei passi avanti alla luce degli ultimi congressi Ds e Dl che hanno dato il via libera alla nascita del Partito democratico. La scelta di Rimini per il congresso non è casuale, ha spiegato lo stesso Diliberto, è una «scelta politico-simbolica perché a Rimini nel '91 si sciolse il Pci e iniziò da allora il big bang della diaspora dei comunisti». Il partito dei Comunisti italiani nacque nell'ottobre del '98 in concomitanza con la crisi del governo Prodi, con la scissione dagli amici del Prc. In questi nove anni, il Pdci si è radicato nel territorio, facendo aumentare i propri consensi: alle ultime elezioni politiche ha ottenuto 885mila voti con una percentuale del 2,3% incrementando di quasi un terzo i propri consensi rispetto alle precedenti politiche del 2001 quando i Comunisti italiani ottennero 620mila voti pari all'1,7%.
Alle ultime elezioni europee il Pdci ha ottenuto 780mila voti eleggendo due europarlamentari a Strasburgo. I Comunisti italiani hanno formato gruppi parlamentari sia alla Camera che al Senato: a Montecitorio, con 16 deputati, e a Palazzo Madama con 5 senatori i quali, insieme a sei ambientalisti, hanno formato il gruppo Pdci-Verdi.
Il tesseramento del 2006 ha segnato quota 43.127. Il Pdci è presente in tutto il territorio italiano: 30% nel nord, 26,1% al centro, 33,4% al sud e 9,5% nelle isole. Quasi il 40% degli iscritti al Pdci è sotto i 35 anni. I giovani sono organizzati nella Fgci (Federazione giovanile dei comunisti italiani) che nel 2006 ha toccato quota 7mila iscritti (nel 2005 erano quasi 5mila). Le donne nel Pdci sono oltre un terzo degli iscritti: il 33,9%. Inoltre il partito ha, per statuto, il 50% delle donne nel suo parlamentino nazionale (il Comitato centrale). Il Pdci è presente anche negli Enti locali: il partito conta 6 assessori e 22 consiglieri regionali. A livello provinciale sono 45 gli assessori e 59 i consiglieri provinciali. I sindaci sono 8. Al congresso ci saranno 1000 delegati, 400 tra invitati e ospiti, 60 delegazioni estere. Venerdì alle 15, il segretario del Pdci Diliberto aprirà con la sua relazione, poi ci sarà un intervento di saluto di Romano Prodi. Saranno presenti i presidenti di Senato e Camera, Franco Marini e Fausto Bertinotti, quasi tutti i leader di centrosinistra, rappresentanti del mondo sindacale. Non sono stati invitati, invece, esponenti della Cdl, ad eccezione dell'Udc che sarà presente con Mario Tassone e i senatori Luca Marconi e Mauro Libè.

l’Unità 26.4.07
Luigi Cancrini. Lo psicologo ha fiancheggiato l’indagine: «Ovvio che c’è un surplus fatto di fantasie e incubi. Emulazione degli altri? No»
«Racconti attendibili. I bambini ricordano certi traumi»
di Massimo Solani


Lo psichiatra Luigi Cancrini conosce bene la vicenda di Rignano Flaminio, visto che alcuni dei bambini che hanno raccontato di aver subito molestie sono stati seguiti nei mesi scorsi nel “Centro d’aiuto al bambino abusato e maltrattato” del comune di Roma di cui è responsabile.
Professor Cancrini, quanto è attendibile il racconto di un piccolo di 3 o 4 anni che riferisce di abusi tanto gravi?
«Quando un bambino così piccolo subisce un trauma di questo tipo, riesce a raccontarlo con esattezza in quanto ha sufficiente capacità di fissare i ricordi e rievocarli. Ma certo nel suo racconto c’è spesso un “surplus” legato al lavoro della sua fantasia, ai sogni che fa quando è angosciato. Quello che il bambino racconta, preso nella sua interezza, è un insieme di fatti reali e fantasie allucinatorie. Ma c’è una serie di ricerche che concordano su un punto: bambini che sono stati abusati, e nei confronti dei quali la violenza è stata addirittura confessata dagli autori, avevano raccontato i fatti reali con l’aggiunta di elementi fantastici che complicavano la loro testimonianza. Bambini per i quali invece la violenza non è mai stata dimostrata, facevano racconti più rigidi e stereotipati senza l’aggiunta di particolari fantasiosi».
Quindi secondo lei l’aggiunta di dettagli che possono essere irreali testimonierebbe che di fondo una violenza c’è stata davvero?
«Possiamo dire che la presenza di questi racconti più bizzarri e fantastici non nega in alcun modo la fondatezza del nucleo principale del racconto stesso. Questo gli psicologi lo sanno bene e nelle perizie lo sottolineano spesso».
Dovendo basare su quelle parole un processo penale, è possibile isolare la verità dal “surplus” fantastico?
«È possibile all’interno di un legame di fiducia che il bambino stabilisce con gli esperti che lo hanno in cura, ma è un lavoro difficile che richiede grande pazienza e esperienza. Per quanto riguarda alcuni dei bambini protagonisti di questa storia, la convinzione che mi sono fatto è che alla base di tutto ci siano davvero elementi di gravità. E lo dico sapendo che nell’ambito dei racconti fatti ai periti c’è una grande ricchezza di particolari e che soltanto una parte di questi sarà davvero dimostrata. Ma questo è un compito che spetta agli inquirenti che dovranno suffragare le accuse anche con altri riscontri. Soprattutto credo vada fatto un approfondimento dell’organizzazione della personalità dei presunti abusanti».
Che cosa intende?
«Comportamenti di questo tipo dovrebbero presumere una alterazione psichica significativa. La pedofilia, così organizzata, presuppone due finalità fondamentali: una di tipo commerciale economica, su cui si basa l’industria della pedopornografia, e un’altra legata ad una seria patologia delle persone coinvolte. Questa patologia può e deve essere esplorata e studiata, perché così potremo provare a capirne di più di quanto successo. La pedofilia è caratterizzata da una irresistibile compulsione, per cui dobbiamo riflettere sulla possibilità di aiutare persone che, se lasciate sole con la propria malattia, sarebbero spinte a riprodurre simili comportamenti».
Una delle tesi della difesa è che i bambini che hanno raccontato queste vicende potrebbero essere partecipi di una specie di fenomeno di emulazione. Lo ritiene possibile?
«Su vicende di questo tipo non credo sia possibile l’emulazione fra bambini. Al limite può ingenerarsi un meccanismo di apprensione indotta fra i genitori, ma un perito preparato saprebbe distinguerla».

l’Unità 26.4.07
Gramsci, quel lungo viaggio della libertà
di Bruno Gravagnuolo


CON L’UNITÀ Domani in edicola la prima edizione digitale dei «Quaderni» e un’antologia sistematica degli scritti del pensatore sardo in rigoroso ordine cronologico a cura di Antonio A. Santucci, lo studioso scomparso allievo di Gerratana

Due straordinari «doni» troveranno domani i lettori de l’Unità, acclusi al nostro giornale. Che valgono davvero molto più del sovrapprezzo richiesto. Due opere insieme filologiche e di divulgazione rigorosa, da connettere in simultanea, sfogliare, consultare. E anche da gustare come avventura culturale, specie per chi s’accosti per la prima volta a un pensiero magmatico e per tanti versi ancora da decifrare, come quello di Antonio Gramsci, di cui proprio il 27 aprile ricorre il settantesimo della morte. Pensiero tante volte citato, evocato, ma in realtà poco conosciuto. Sovrastato inevitabilmente dalla «leggenda» del personaggio, dall’aura del «padre fondatore». E anche dalla concretissima vicenda delle sofferenze che il fascismo gli inflisse, che pure seppe contrastare, con la dirittura intellettuale di una personalità eroica (e non è una leggenda).
Eccole, quelle due opere a specchio. Il Cd Rom dei Quaderni del Carcere, a cura di Dario Ragazzini, prima versione digitale del capolavoro gramsciano, con le fonti, i rimandi, le occorrenze, la possibilità di raffrontare le diverse versioni delle note, di cui quei manoscritti sono fatti. Uno strumento formidabile per seguire passo passo non solo l’ordine cronologico dei Quaderni, magistralmente ricostruito a suo tempo da Valentino Gerratana. Ma anche quello ideale e tematico, sotteso in filigrana come progetto a venire del prigioniero pensante. L’altro dono è un’antologia: Le Opere, a cura di Antonio A. Santucci. Ripubblicata a diciasette anni dalla sua prima comparsa per gli Editori Riuniti per la collana le «Chiavi del tempo». Che mantiene intatto il suo carattere di rigoroso «thesaurum» filologico e diacronico, e che anzi resta come esempio di come andrebbe fatta un’antologia. Non scelta più o meno arbitaria quindi, legata ai gusti del curatore. Bensì in questo caso, autentico gesto di lettura sintetica, che dà conto in sviluppo delle idee dell’autore, così come si venivano formando nel vivo della sua battaglia (è la parola giusta per Gramsci). E qui mi sia consentita una divagazione, necessaria. Poiché chiarisce il senso di un volume, che è di per sè un’«opera». Antonio Santucci, scomparso prematuramente nel 2004, non solo era un amico de l’Unità, per la quale concepì volumi e iniziative gramsciane di formidabile spessore e successo. Fu un grande studioso di Gramsci, che accanto a Valentino Gerratana, fu protagonista di uno degli eventi più importanti per la cultura italiana: l’edizione critica, la prima, delle Opere di Gramsci per Einaudi. Anche grazie a lui è stato possibile ripristinare tutti i testi di cui parliamo, datarli, disporli, salvaguardarli. Inquadrarli. E ciò ben prima (1975) della prossima edizione nazionale degli scritti per l’Enciclopedia Italiana della Fondazione Istituto Gramsci, che verrà presentata a giorni al Capo dello Stato in Sardegna. Grazie al lavoro di Gerratana e Santucci, e senza dimenticare l’apporto infaticabile di Elsa Fubini, Caprioglio, Dino Ferreri, Spriano e tanti altri di quella stagione, il pianeta Gramsci è stato reso percorribile e anche «preparato» per ulteriori sistemazioni, che nondimeno non possono prescindere dalla mappatura del 1975. Dunque, chi aprirà l’antologia di Santucci, per formarsi una sua idea del Gramsci pensante, sa di essere in buone mani. Perché, e possiamo testimoniarlo personalmente, non v’era nessuno come Antonio in grado di agguantare il flusso fulmineo e stenografico dei pensieri gramsciani. E di districarne la selva, guidandovi dentro i profani.
Qual è il pregio di questa «antologia» strepitosa, con limpide istruzioini per l’uso, note contestualizzanti e indice dei nomi? Quello di una cronologia tematizzata. Che fa capire gli impulsi, e gli influssi temporali, che Gramsci accoglie e trasforma reattivamente. Illuminando al contempo il metodo di lavoro del prigioniero, allorchè si trovò ristretto in cella. Insomma, tra gli scritti giornalistici giovanili per il Grido del popolo e le splendide, attualissime pagine dei Quaderni su «Americanismo e fordismo» che chiudono idealmente il volume, c’è tutto Gramsci. Tutto, con le critiche teatrali, gli articoli sull’Ordine Nuovo e l’Avanti! - incluso il celebre «La rivoluzione (russa) contro il Capitale» del 1917 - lo scritto sulla Quistione meridionale, e la famosa polemica con Togliatti del 1926, riportata pari pari nel suo drammatico svolgimento epistolare, prima dell’arresto di Gramsci. Da un lato in quell’anno il realismo di Ercoli, che vede come necessità politica le misure contro l’opposizione di sinistra in Urss. Dall’altro la preveggenza di Gramsci, benché d’accordo con il Comintern, contro Trotsky: la disciplina forzosa «svuoterà» l’opera dei bolscevichi e renderà lo stato proletario una caserma autocratica. Nessuna elusione, nessuna celebrazione del «santino». Gramsci è lì cocciuto, nel 1926 e in altri momenti, a rivendicare la sua idea eretica della rivoluzione e della politica contro ogni tatticismo. E in tempi davvero tragici, di lealtà indiscusse, incipiente terrorismo staliniano e consolidantesi terrorismo fascista.
Qual è il problema di Gramsci, prima e dopo l’arresto, pur nella discontinuità della fase autocritica? Semplice, si fa per dire: un «pensiero-azione» della liberazione. Una filosofia pratica dell’emancipazione delle classi subalterne. Che passa attraverso due momenti. La ricognizione delle sconfitte popolari, durante il Risorgimento e col fascismo. E la comprensione del quadro mondiale, con lo spostamento del baricentro del «progresso» dalla rottura russa del 1917 alla nuova economia globale americana. Con in mezzo le «modernizzazioni conservatrici» fasciste, del pari contraccolpi della guerra e del sommovimento ad Oriente che spezza il mercato mondiale. E qui comincia la lunga marcia del pensiero di Gramsci. Il tentativo di indicare la strada ai «ceti subalterni» dentro la modernità della «società civile», addestrando individui e gruppi al governo capillare di istituzioni, economia e società. «Prima» della presa del potere, e scongelando le «forme simboliche» di cui il potere si nutre. Sul territorio, nella scuola, nelle riviste, nei giornali, nelle unità economiche. Nel «folklore» e nel senso comune. Un lavorìo democratico, tra scontri e alleanze. Dove l’impegno «filosofico» più alto è proprio la politica come intellettualità collettiva, dialogata e conflittuale. E dove la posta in gioco è sempre quella. Ieri con Gramsci, oggi dopo di lui. Rovesciare il gioco dei dominanti. Senza lasciarsi decapitare dalla passività e dal trasformismo. In fondo la «filosofia della praxis», anima delle idee di Gramsci era questa. Un lungo viaggio della libertà.

l’Unità 26.4.07
Caro Mussi, lascia che ti dica...
di Luigi Manconi


Fabio Mussi è vecchio. Ma non in quel senso lì (come vorrebbero i maligni e i “novissimi”). È più vecchio di me, addirittura: io sono nato esattamente trentun giorni dopo di lui. Lui a Piombino, io a Sassari. Pressapoco nello stesso periodo, ci siamo iscritti alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (io, combinando tale militanza con quella nell’Azione Cattolica Italiana). In prima liceo, lasciai il Pci per iscrivermi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup): e scelsi così, una volta per tutte (o quasi), il più irriducibile minoritarismo. E a quest’ultimo informai interamente la mia successiva vita politica. La radicalità e, spesso, l’estremismo delle mie posizioni politiche tendevano a riconoscersi in formazioni minori e minoritarie, irregolari e a vocazione libertaria. Non stupisce, dunque, che dalla militanza in Lotta Continua e attraverso un complesso itinerario “di movimento” (e di movimenti), mi trovai tra i Verdi; e qui, da “indipendente” e non iscritto, mi capitò di venire eletto Portavoce nazionale del partito. La passione per alcune idee-guida e per alcuni valori forti (dall’ecologia ai diritti civili, dal garantismo alle “questioni di frontiera” nel campo dell’etica) mi sembrava esigere, ancora una volta, una struttura organizzativa e una forma-partito, uno stile di lavoro e un modello di militanza e di mobilitazione, che fossero profondamente diversi da quelli dei partiti di massa, derivati dal movimento operaio.
Tutto questo durò fino al 1999, quando - dopo una bruciante sconfitta elettorale - mi dimisi da Portavoce nazionale dei Verdi. Scoprivo allora (con ritardo colpevole e imperdonabile) che «l’ecologia è questione troppo grande» per un partito monotematico (quello dei Verdi, appunto) che, prima e dopo la mia direzione, stava - e ha continuato pervicacemente a stare - intorno al 2% dei consensi (oggi, al 2,05%). Da qui, nel 2005, dopo qualche dubbio e molte esitazioni e la costituzione del Movimento Ecologista, il mio ingresso nei Democratici di Sinistra. Vi trovai Fabio Mussi che, da lì, coerentemente mai si era mosso, percorrendo le varie e successive tappe (dal Pci al PdS ai Ds).
Ora, entrambi ce ne congediamo, ma in due direzioni diverse. Lui verso un Movimento che vuole operare «per aggregare la sinistra»; io verso il Partito democratico. (Secondo mia moglie, è perché non ho “radici”: è vero, invece, che ho sempre coltivato “appartenenze deboli”, fin esili; ma le radici, quelle, sono state e continuano a essere - saldamente, credo - a sinistra). Entrambi, Mussi ed io, persuasi della bontà della propria scelta e della rispettiva coerenza. Io, per la verità, fino a un certo punto: in quel 1999, infatti, ho compiuto un vero e proprio salto. Mi sono convinto, in altre parole, di poter coltivare le mie opzioni - che ritengo continuino ad essere, e ne vengo rimproverato, radicali e, talvolta, minoritarie - dentro un partito non radicale e, soprattutto, non minoritario. Persuaso, allora come oggi (fino a ieri nei Ds, ora nel Pd), che le questioni alle quali mi dedico (ancora: ecologia e diritti civili, cittadinanza sociale e lotta alle dipendenze, garantismo e “questioni di vita e di morte”) possono essere più efficacemente tematizzate se sottratte al minoritarismo querimonioso e al massimalismo narcisistico. Per capirci: al fine di meglio trattare i temi cosiddetti radicali e quelli cosiddetti eticamente sensibili, di governarli e di tradurli in conquiste reali, ritengo più utile un partito capace di mobilitare ampie risorse (umane e materiali), di gestire la mediazione più razionale, di produrre una sintesi intelligente. Affidare, invece, quelle questioni a partiti che se le intitolano o che si frammentano nell’inseguirle e nell’appropriarsene, porta fatalmente a processi dissociativi: dove la competitività moltiplica i concorrenti e dove la concorrenza compromette la forza di ciascuna domanda sociale. E non solo. Fabio Mussi, nel suo intervento al congresso di Firenze, ha testualmente affermato che il suo Movimento intende stare «a sinistra del Partito democratico». È, a mio avviso, un’affermazione retorica. E che, purtroppo, perpetua un pigro luogo comune della sinistra: uno tra quelli che stanno all’origine delle sue disgrazie. «A sinistra del Pd»? E che vuol dire? Seguendo questa logica - che è eminentemente sub-giornalistica - i Comunisti italiani si troverebbero «all’estrema sinistra» del Partito democratico e, che so?, della mia modesta persona e della mia attività. Scherziamo? Chi usa tali categorie, e tali futili indicatori, è vittima di una concezione toponomastica della politica, fondata sul continuum destra-sinistra. Una concezione che colloca, per esempio, Marco Follini al centro geometrico dello spazio pubblico: e da lì, via via, verso sinistra, secondo un criterio tutto e solo logistico-spaziale, che si riproduce all’infinito. L’esito - ahimé - è fatale. Da Follini (e, ancor prima, da Pierferdinando Casini) in poi, passando per Clemente Mastella, il depliant promozionale presenta: centro, centrosinistra, sinistra, sinistra riformista, sinistra-sinistra, sinistra radicale, sinistra estremista, sinistra estremissima, sinistra-che-più-sinistra-non-si può e, infine, sinistra non sai quanto.
È una rappresentazione della politica e della sinistra decisamente fallace. Mi limito ad alcuni esempi. Il provvedimento di legge sulla cittadinanza, assai avanzato, è valorosamente “tutelato”, alla camera dei Deputati, da un esponente della Margherita (Claudio Bressa), che - se interpellato - si definirebbe magari «moderato». E su una misura squisitamente “di sinistra” - sotto il profilo giuridico, culturale, politico e morale - come quella dell’indulto, fortissimamente voluta da un ministro “democristiano” (Mastella), la sinistra cosiddetta radicale, in questi mesi, ha taciuto o si è opposta. Con poche, e lodevolissime, eccezioni. Su un’altra questione importante - come quella relativa alla sofferenza dei malati e all’accanimento terapeutico - si sta impegnando, con passione e competenza, un cattolico pacato, pacatissimo, come Ignazio Marino. E gli esempi di temi radicali, sui quali le scelte di singoli e di componenti non seguono la mappa convenzionale delle appartenenze e delle dislocazioni geometrico-ideologiche, sono decine. So bene che, per converso, all’interno del Partito democratico sono numerosi coloro che, sulle tematiche citate, hanno posizioni opposte alle mie (e, immagino, a quelle di Fabio Mussi): ma ciò vale anche per opzioni presenti tra i Verdi, nel PdCI, in Rifondazione Comunista e tra gli stessi aderenti al Movimento promosso da Mussi. Dunque, la questione è un’altra: dove meglio è possibile che posizioni diverse trovino sintesi efficace, forza collettiva e capacità di tradursi in obiettivi e risultati? Mussi ha concluso così il suo intervento a Firenze: «Si aprono due fasi costituenti. Sarebbe bello un doppio successo». Io penso, e temo, che il minoritarismo finisca col produrre solo ulteriore minoritarismo. Che non è esattamente ciò di cui abbiamo più bisogno.

P.s. L’aggettivo “radicale” andrebbe manovrato con prudenza: non solo per le ragioni fin qui esposte, ma anche perché esistono i Radicali, svolgono un ruolo significativo e, su alcune questioni, hanno posizioni davvero, e provvidenzialmente, radicali.

Repubblica 26.4.07
"Sì all'intesa con la sinistra Ds"
Rifondazione chiama Mussi. Fassino: Angius sbaglia
di Giovanna Casadio


Chiti: "Spero che la Costituente del Pd sciolga i dubbi di Fabio e Gavino"
Nigra: "Confluiremo nei gruppi parlamentari di Sinistra democratica"
Il leader del Prc: "Un partito che raccolga quanto di buono si muove aldilà del Pd"
Domani a Rimini il congresso del Pdci Interverrà anche il premier Prodi

ROMA - Grandi manovre alla sinistra del Partito democratico. Una situazione tutta in movimento dopo l´addio anche di Gavino Angius ai Ds. Al Botteghino prevale la freddezza. E gelido infatti è il commento di Piero Fassino: «Quella di Angius è una scelta individuale che rispetto ma che trovo errata e non fondata». «Gavino sbaglia» per il segretario della Quercia: «Mi ha sorpreso, non ne vedo le ragioni, anche perché al congresso di Firenze avevo accolto una serie di proposte della sua mozione, i suoi delegati hanno votato insieme alla maggioranza del partito il dispositivo ed è significativo che la gran parte dei suoi non lo segua». Incertezza tra gli eurosocialisti della mozione-Angius ce n´è molta, ma intanto Alberto Nigra (che con Angius ha lasciato il partito) annuncia: «Con la sinistra di Mussi partiremo insieme e, quando i tempi saranno maturi, confluiremo nei gruppi parlamentari e consiliari di Sinistra democratica».
Da Rifondazione comunista porte aperte ai transfughi Ds. Il Prc pensa all´unità a sinistra. Il segretario Franco Giordano in un´intervista oggi a Liberazione risponde all´invito di Giovanni Berlinguer («Ci vuole un partito che raccolga tutto ciò che di buono si muove alla sinistra del Partito democratico») e assicura: «Siamo pronti subito a un cammino comune con la sinistra dei Ds». Però «niente sommatoria di ceti politici» ma un confronto sulle questioni cruciali del lavoro, del welfare, dei diritti civili. Anche l´offerta del segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, è «l´unione a sinistra dei non allineati». Sarà la parola d´ordine del Pdci al congresso che comincia domani a Rimini. Ospiti, Romano Prodi domani e poi Cesare Salvi in rappresentanza dei transfughi Ds. Mussi sarà assente, andrà in Germania.
Per gli scissionisti ds comunque l´appuntamento sarà la convention dell´ex Correntone di Mussi il 5 maggio, e poi via libera ai gruppi parlamentari, che sottrarranno all´Ulivo almeno 23 deputati e 12 senatori. Un´erosione a sinistra che la segreteria Ds nega sia preoccupante: «Irritato Fassino? Piuttosto sorpreso, come lo siamo tutti, per la contraddittorietà della scelta di Gavino», afferma Maurizio Migliavacca, il coordinatore della segreteria. «Se fossi nel segretario, qualche preoccupazione l´avrei - attacca il ds Franco Grillini - Al Botteghino invece c´è aria di sufficienza...». Grillini non ha ancora deciso se seguire Angius o restare, ma è molto tentato dall´addio. Non si arrende all´erosione il ministro Vannino Chiti: «Spero che la fase costituente del Pd sia così forte da sciogliere i nodi che dicono Angius e Mussi e che, alla fine anche loro aderiscano, come altri dello Sdi e della costituente socialista. Della defezione di Gavino sono dispiaciuto, non me l´aspettavo». «Una ferita e un dispiacere» dice Gianni Cuperlo. «La Costituente del Pd sarà un treno che raccoglierà nuovi protagonisti», secondo il ministro Barbara Pollastrini. Ma dai transfughi avanti tutta. Mussi non manca di sottolineare come i fatti francesi con Bayrou che non sosterrà al ballottaggio la Royal né Sarkozy smentiscono i congressi di Ds e Dl: «Non si sta formando nessun nuovo campo democratico e socialista in Europa».

Repubblica 26.4.07
Una vita nel Pci, è stato per anni uno dei fedelissimi del ministro degli Esteri
Il giorno dopo di Gavino "Soffro, ma mi sento liberato"
di Goffredo De Marchis


L'onore delle armi dei dalemiani: è rigoroso
Latorre: "Sono stupito, è sempre stato un fautore del dialogo con i cattolici e un antisocialista"
La figlia Isabella: non ha pianto come Mussi. La differenza è genetica: uno è sardo l´altro di Piombino

ROMA - Domenica sera, quando i congressi dei Ds e della Margherita erano finiti da poche ore, è andato a cena dalla figlia Isabella. A tavola si è parlato del più e del meno. E di politica, naturalmente, visto che questa è la vita di Gavino Angius da quasi 40 anni. «Non c´è spazio per me nel Partito democratico. Avevo chiesto delle risposte, non n´è arrivata nemmeno una. Ci ho pensato a lungo, adesso ho deciso: me ne vado. Mi dispiace, ma mi sento anche liberato». A casa di Isabella, giornalista del Riformista e di A, mamma di Martina e in attesa della seconda figlia, non si è versata neanche una lacrima. Com´era successo a Firenze dove l´intervento di Angius, molto applaudito, aveva invitato la platea a riflettere più che a commuoversi. Mussi invece aveva fatto venire i lucciconi a tutti. «Uno è sardo, l´altro piombinese», scherza Isabella, «la differenza è genetica». Due caratteri opposti. Anche le origini sono diverse. Uno, Angius, figlio del direttore dell´Inps di Sassari, media borghesia. L´altro, Mussi, figlio di operaio. Pure nel Pci hanno seguito rotte distanti. Angius era con il fronte del no al momento della svolta. Al contrario, con Achille Occhetto, Mussi era nel pacchetto di mischia impegnato ad archiviare la falce e martello.
Angius e Mussi si ritroveranno insieme, a sinistra del Pd. Stesso gruppo parlamentare, stesso obiettivo: l´unità dei socialisti. «Gavino era berlingueriano - racconta Peppino Caldarola -. Dopo la Bolognina la sua preoccupazione era la rottura del campo della sinistra. Per quello prima era il per il no e poi diventò dalemiano. Massimo infatti garantiva il presidio del territorio spostandolo nell´area socialista». Ancora una volta però, con il Partito democratico, volevano ributtare Angius in campo aperto. Senza rete. Fra Bayrou e Royal, per dire. Nell´"eccezionalismo" italiano. Stavolta ha detto no. Per Nicola Latorre, collega senatore, la decisione di «Gavino stupisce. Perché è sempre stato antisocialista e un grande sostenitore, al contrario, del dialogo con i cattolici. Un cattocomunista, si sarebbe detto una volta».
Si riferisce, Latorre, all´altro punto che secondo Angius non ha avuto risposte serie: la laicità del Pd. La figlia Isabella lo prende spesso in giro: «Sai papà, sono incredibili le tue filippiche sui laici. Proprio tu che sei stato un prete del partito, un missionario della sinistra...». L´educazione di Angius è stata cattolica. Il padre era democristiano, corrente di Base. Ma fra i giovani democristiani e i giovani comunisti (è il ´68) Gavino va con i secondi. Ha 22 anni, si è appena laureato in Scienze politiche. Sceglie la politica di professione, quella che oggi non va più di moda ed è diventata una macchia. Fa la trafila: segretario cittadino, segretario regionale (salta la tappa del segretario di federazione, una piccola eresia allora). Nell´83 entra nella direzione del Pci e subito in segreteria. Deputato dall´87, poi senatore, capogruppo dei Ds la scorsa legislatura, oggi vicepresidente del Senato. Storia recente.
Fassino, ricevendo la lettera di addio, è rimasto di sasso. Tutto il gruppo dirigente, a cominciare da Massimo D´Alema, avevano capito che sarebbe rimasto. Gli hanno fatto ponti d´oro per convincerlo. «Ma non è con i ponti d´oro che mi possono far cambiare idea. Sarebbe bastato molto meno». Cioè delle risposte, un dialogo più chiaro sulla collocazione del Pd e sulla difesa della laicità. «Invece loro hanno accelerato, non avevano più tempo per un chiarimento, non potevano più ascoltare nessuno. Anche per questo ho deciso di andarmene subito. Non volevo creare un clima da resa dei conti. Perché tanto i nodi sarebbero venuti al pettine», spiega. La sua non vuole essere una rottura con rabbia. «Ma se lo conosco - dice Caldarola - si sentirà offeso per le risposte evasive di D´Alema e Fassino. Del resto questo gruppo dirigente dei Ds è il più maleducato d´Europa». Gianni Cuperlo, anche lui della famiglia dalemiana, gli rende l´onore delle armi: «È una persona rigorosa». Latorre continua a non capire: «Punta alla costituente socialista? Rinnega una storia che ha sempre difeso. È una posizione antitogliattiana, antigramsciana».
Anche per allontanare tutti commenti scatenati dalla sua scelta, Angius ha messo il mare tra lui e Roma, tra lui e il Partito democratico. Ieri è volato in Sardegna, deciso a non entrare nel circo mediatico fino alla prossima settimana. Lì dove ci sono le radici può diventare più chiaro anche il futuro.

Repubblica 26.4.07
Il sacro in Darwin
Un saggio di George Levine
di Elisabetta Ambrosi


Assistiamo ad una aggressione vergognosa contro la scienza
Persino Ratzinger arretra rispetto alle posizioni di papa Wojtyla
Si può conciliare la teoria evoluzionista con la religione? Lo sostiene l'autore di un libro controcorrente appena uscito negli Stati Uniti
"Dawkins e Dennett sono troppo aggressivi e non si rendono conto, lo dico da ateo, che la vita delle persone richiede qualcosa di più della razionalità"

«Charles Darwin viene ormai associato nella coscienza pubblica ad un mondo meccanicista e brutalmente competitivo. Considerato l´autore di una teoria controversa che ha fatto di lui un Anticristo, è sopravvissuto non tanto come l´icona di un passaggio rivoluzionario nel modo in cui pensiamo alle origini dell´umanità, ma come la spiacevole incarnazione del razionalismo scientifico che, secondo Weber, disincantò il mondo».
George Levine, professore di Letteratura inglese alla Rutgers University (New Jersey), racconta di come ha deciso di contestare questo cliché interpretativo nel suo ultimo libro, Darwin Loves You. Natural Selection and the Re-enchantment of the World (Princeton University Press). Un volume dal titolo curioso, che nasce da una guerra condotta a colpi di adesivi sui paraurti delle automobili americane (invase alternativamente da stickers con su scritto «Jesus Loves you» o, provocatoriamente, «Darwin Loves you») e che ha spinto il professore statunitense a mostrare come l´opposizione radicale «Jesus vs Darwin» possa essere superata. «La frase "Darwin ti ama" può sembrare ironica, ma in realtà essa contiene una profonda verità», ci spiega. «Sono convinto infatti che, malgrado tutto quello che è stato detto, Darwin amasse il mondo. Per me leggere L´origine delle specie è stata un´esperienza di grande gioia». E´ proprio grazie al naturalista inglese, infatti, che è possibile realizzare quello che a noi moderni sembra un ossimoro, cioè un "reincantamento" del mondo, seppure "secolare".
Richard Dawkins e Daniel Dennett, noti per il loro «ateismo darwinista» militante, sono avvisati: «Sono troppo aggressivi e mi sembra che non capiscano abbastanza che la vita richiede qualcosa di più della razionalità. La razionalità è sottile (thin), la vita invece ben più densa (thick)». Ma Levine non è tenero neanche verso tutti coloro, neocreazionisti e fondamentalisti religiosi, che tentano di negare la «verità» dell´evoluzionismo. «E´ una teoria che tutti siamo costretti ad accettare. Anche Wojtyla l´ha fatto, e non si può tornare indietro. Per questo non condivido le recenti dichiarazioni di Benedetto XVI sulla non dimostrabilità della teoria darwiniana».
Leggere Darwin, secondo lei, ci può rendere più felici. Eppure non tutti, specie i credenti, sarebbero d´accordo. Che spazio resta, ad esempio, per i sentimenti morali nella teoria darwiniana?
«Devo confessare che sono un ateo, quindi per me non è stato un problema studiare Darwin. Tuttavia sono convinto che per tutti, religiosi e non, sia molto importante sentire che il mondo ha un senso: ma credo che, rileggendo gli scritti di Darwin non solo come teorie scientifiche ma anche come un´opera letteraria, si possa intravedere in essi un modello per guardare alla vita con amore, trovando in essa bellezza e sentimento, pur senza trascendenza. So bene che Darwin dimostra che la realtà è piena di male, che non c´è nessun Dio, e che tutto è creato dal caso: non si tratta certo di una cosa piccola né che suscita piacere. Tuttavia, la "fede" nell´evoluzione si può tranquillamente coniugare con un sentimento profondo di meraviglia per il mondo naturale. Darwin lavorava con amore immenso verso tutte le cose biologiche. Amava le formiche, le zanzare, i vermi, tutto. Ne era intimamente commosso. In questo senso, non era uno scienziato distaccato dalla sfera dell´etica, perché, quando scriveva, avvertiva intensamente come ogni cosa fosse un "miracolo": un miracolo vero, sebbene "materialista". Tuttavia, essere materialisti non significa non avvertire il valore profondo del mondo».
Ma come è possibile essere materialisti e, ad esempio, avere credenze religiose?
«Per spiegarmi meglio utilizzo un argomento preso da quello che considero un altro mio "eroe" intellettuale, William James. Secondo James, la qualità di un´idea o di una persona non dipende dalle sue origini, ma dai suoi effetti. Ad esempio, la religione non viene sminuita dal fatto che possiamo ricostruirne l´origine. Allo stesso modo, secondo Darwin l´etica non perde il suo valore solo perché ammettiamo che i principi morali si siano evoluti mediante l´azione della selezione naturale. Al contrario. E lo stesso vale per l´estetica, che si è sviluppata anch´essa dal mondo biologico. Insisto, il disincanto non è l´effetto inevitabile della spiegazione naturalistica. Anzi, ritengo che una forma d´incanto sia la conseguenza naturale e positiva di un impegno intenso verso ciò che è interamente "secolare". Quando Darwin guardava gli organismi, provava certamente una grande passione e malgrado molti facessero cose terribili, erano per lui sempre stupefacenti, parte di quel grande organismo in cui tutti sono imparentati con tutti».
Una sorta di panteismo, insomma?
«Quasi, ma senza Dio. So che questa è una posizione filosoficamente molto problematica. Dennett è un filosofo, Dawkins uno scienziato e senz´altro sono in grado di difendere le loro posizioni in maniera ben più sofisticata, ma io credo che siano troppo aggressivi e mi sembra che non si rendano sufficientemente conto che la vita per tutte le persone richiede qualcosa di più della razionalità: richiede anche l´inclusione nella vita dei sentimenti morali. La razionalità è una cosa molto "esile", la vita esige molto di più. Chi dunque sostiene che l´evoluzione tramite selezione naturale abbia come conseguenza la rimozione di ogni significato e consolazione dal mondo è portatore di un razionalismo "trionfalistico" che calpesta gli aspetti affettivi ed immateriali dell´esistenza».
Il darwinismo è stato spesso strumentalizzato da più parti. Perché?
«E´ molto difficile essere neutrali riguardo al darwinismo e non incappare in interpretazioni ideologiche o morali. Le teorie di Darwin sono un testo (sign) che dà luogo a interpretazioni virtualmente infinite. Tutta la storia della ricezione delle idee darwiniane è piena d´ideologia».
Ma perché Darwin viene messo in discussione proprio oggi, quando le sue teorie sembravano ormai universalmente accettate? Quanto incide su questo fenomeno il "ritorno" della religione?
«L´aggressione odierna all´evoluzionismo è vergognosa. E credo, sì, che essa sia legata a quello che lei chiama ritorno della religione. Dopo l´attacco alle Torri gemelle e l´aumento della pressione migratoria, molte persone hanno finito per rifugiarsi nella religione, come posto sicuro dove ritrovare serenità. Che ciò sia avvenuto in America non mi stupisce, perché da noi c´è sempre stata una minoranza fondamentalista e una tradizione fortemente anti-intellettualistica, che si è accentuata con i cambiamenti del mondo moderno (e di cui Bush è la massima espressione). Che avvenga in Europa, invece, mi sorprende di più, visto che l´accettazione di Darwin sembrava ormai scontata: anche Wojtyla l´aveva esplicitamente riconosciuto».
In che modo, allora, è possibile contrastare l´ideologia neocreazionista che spesso si accompagna al fondamentalismo religioso?
«Io credo sia necessario assumere un duplice atteggiamento: da un lato riconoscere i bisogni e le paure della gente, dall´altro tuttavia insistere sul fatto che Darwin ha detto la verità sull´origine della vita; ma soprattutto occorre mostrare come sia possibile accettare la verità della realtà biologica e allo stesso tempo sentirsi a casa nel mondo».

Repubblica 26.4.07
Bertolucci. Io, Moretti e quel "ladro" di Pasolini
di Paolo D’Agostini


ROMA - Il "Festival delle Arti Contemporanee" di Rovereto celebrerà dal 3 al 12 maggio Bernardo Bertolucci. Anche con due concerti di musicisti che hanno collaborato con lui: Ryuichi Sakamoto il 3 e Gato Barbieri l´8. A Bertolucci, che si muove con difficoltà in seguito a un intervento alla colonna vertebrale, piace ricordare che sul numero 1 di Repubblica, il 14 gennaio 1976, Alberto Arbasino lo intervistava sul suo Novecento. L´occasione invita a guardare indietro ma cominciamo dal futuro. «Fino a qualche mese fa c´era il progetto di un film sui guerriglieri che nel ‘96 sequestrarono gli ospiti dell´ambasciata giapponese a Lima. Doveva esserci una grande festa per il compleanno dell´imperatore, alla presenza del presidente peruviano Fujimori che invece non intervenne. Durò cinque mesi. Ma invece sono ritornato sul vecchio progetto del principe musicista napoletano Gesualdo da Venosa. Anche se mi chiedo quando sarò in grado di essere su un set con la necessaria fisicità. Non è un segreto che ho avuto un´operazione due anni fa che mi ha invalidato. Non so se è troppo prosaico ma non mi dispiace parlarne. Sono stati due anni di arresti domiciliari, ma da un po´ riesco a uscire con l´aiuto di questo aggeggio a quattro ruote. Sarà una condanna per aver fatto troppe carrellate nei miei film?».
Che cosa è il cinema, oggi, per lei?
«A un certo punto è avvenuto in me un grande cambiamento. Mi è sembrato che i film che noi andiamo a guardare invece guardino noi. Come se i film siano diventati qualcosa di molto intimo. Non so spiegare meglio ma è una sensazione molto forte. Se poi parliamo di quello che accade nel cinema italiano, non sono d´accordo con il trionfalismo. Andiamoci piano. Ci sono segni di vitalità. Io comunque non ho mai sentito doveri nazionalisti. L´altra sera ero a cena con Nanni Moretti. E conversando mi chiedevo se girare in italiano o in inglese, se con attori italiani o stranieri. Mi piacerebbe sentire il dialetto napoletano della fine del ‘500, ma nel secondo caso avrei possibilità più ampie. È realismo. Il più rivoluzionario dei miei amici, Glauber Rocha, diceva che il regista è quello capace di trovare i soldi per fare il suo film».
Durante la prima Festa di Roma ci fu un confronto pubblico Bertolucci-Bellocchio, i due campioni della stagione che segnò l'irruzione del "nuovo".
«Non era mai accaduto anche se ci conosciamo da sempre. Io con le mie dolcezze parmigiane e lui con le sue asprezze piacentine. Eravamo diversi anche in quegli anni. Io dipendente dalla Nouvelle Vague francese e Marco legato al Free Cinema inglese, più "di prosa" per dirla con Pasolini».
In Italia la "nuova onda" non ebbe lo stesso esito che altrove. Il "cinema di papà" non si lasciò scalzare.
«La commedia all´italiana, che era il "cinema di papà" ed era la forza del cinema italiano, non era discontinua rispetto al Neorealismo. Tutta la mia protesta non teneva conto di questo. L´ho capito quando poi Risi è diventato Risì e Scola Scolà, quando ho scoperto che anche i miei amici dei Cahiers l´apprezzavano».
Un tratto che la definisce è la precocità di debuttante poco più che ventenne. A trent´anni con Ultimo tango a Parigi una fama clamorosa e "maledetta". Ne è stato travolto?
«I più travolti eravamo io e Maria Schneider, tanto che da allora non ci siamo più parlati. Era veramente fuori controllo quello che è accaduto. Fino al New York Times con un´intervista a Maria che dice di aver già avuto 75 amanti, 50 donne e 25 uomini. Io stesso ho fatto dei continui harakiri davanti alla stampa, dimenticando che Ultimo tango era un film, distinto dalla mia persona. Tutto si confondeva».
Pensando ancora a Bertolucci-Bellocchio: il peso della politica e dell´ideologia.
«Dopo L´ultimo imperatore mi sono detto: ma guarda, lui ha fatto La Cina è vicina ma poi in Cina ci sono andato io. C´era un gruppo di amici, tra cui Marco e Godard, che non resistevano alla tentazione della Rivoluzione Culturale. Quella febbre, quell´estasi estremistica io l´avevo provata un po´ prima. Con Prima della rivoluzione, in anticipo. E quando loro si sono scoperti comunisti e oltre, quando Marco seguiva Servire il Popolo, io prendevo la tessera del Pci».
I tre elementi che attraversano tutto il suo cinema - politica, amore, cinema - si trovano intrecciati nel più recente The Dreamers: omaggio proprio a quegli anni di estremismi.
«È la rivisitazione di passioni che dopo mi sono mancate. Di una stagione speciale in cui magicamente tutto questo stava insieme. Cui penso con gioia e non con l´amarezza di tanti che hanno cambiato idea. Io non ho mai pensato che da Valle Giulia saremmo passati alla rivoluzione. Mi ha enormemente sorpreso non tanto quello che ho sentito qualche sera fa dire a Giuliano Ferrara ma che non ci siano state reazioni. Parlando della strage in Virginia ha detto che dopo tanti anni di aborto libero la morte non fa più impressione».
Lei è cresciuto in un ambiente speciale. Lo ripeterebbe quel racconto della prima volta che Pasolini bussò alla vostra porta?
«Tre del pomeriggio di domenica, tutti a sonnecchiare, questo giovane vestito da festa che mi chiede di mio padre con uno sguardo così intenso. Io lo chiudo sul pianerottolo, vado da mio padre e dico: c´è uno che si chiama Pasolini, secondo me è un ladro. Diventò il primo dei miei molti padri alternativi».
C'è un partito che considera Il conformista il suo capolavoro.
«E mi irrita. Sono i miei coetanei americani, Coppola, Scorsese, che attraverso quel film hanno riscoperto il cinema americano. Li ha risvegliati in un momento in cui stavano guardando al cinema europeo con una certa invidia».
Novecento. Conserva la sua validità o risente degli anni?
«L'ho rivisto per il trentennale. Mi sono sentito molto orgoglioso. È l´unico che vorrei veder riuscire nei cinema, vedere che effetto farebbe ai giovani».
Lei ha fatto arrabbiare i dirigenti della sua parte politica molto prima di Moretti a piazza Navona. Quando gli interlocutori si chiamavano Pajetta e Amendola.
«A me sembrava di aver fatto un grande omaggio alla storia del Pci. Loro hanno reagito male. Ma tra i miei ricordi c´è anche questo: una volta Pasolini mi portò da Napolitano che mi disse: il partito ha più bisogno di poeti che di registi propagandisti. Allora mi sembrò una risposta moderata se non di destra. A Pasolini piacque».
Qual è il suo sentimento verso il Partito democratico?
«Qualcuno mi ha chiesto di firmare per il Partito democratico. Per la prima volta dopo che per decenni ho firmato qualsiasi cosa ho avuto quasi un problema fisico. Sono indeciso. Anche se non vedo alternative. Però la sensazione che ho provato di venire seppellito insieme al Pci è stata fortissima. Il sentir usare la parola "ideologico", magari da qualcuno per cui voto, in senso quasi insultante... Mi sembra che si siano accettati troppi rifiuti del passato».
Si rende conto che una benedizione come la sua fa gola?
«Sì. Ma i miei amici che fanno politica conoscono la mia sincerità».

Repubblica 26.4.07
Il buio da cui tutto discende
un saggio di Paolo Mauri fra letteratura e mito
di Umberto Galimberti


Il futuro non più promessa ma minaccia
La "giusta misura" dei greci antichi
È il luogo che precede la creazione del mondo, una specie di ventre primordiale È il più grande deposito del passato, dai libri alle leggende. E serve alla conoscenza di sé

Con un gesto preciso e senza esitazioni, Paolo Mauri, con il suo nuovo libro Buio (Einaudi, pagg. 120, euro 8.50) entra nella metafora della luce, che è poi la metafisica dell´Occidente, per prender congedo dal sole platonico che sta in cima a tutte le idee, e tornare nella caverna dove rientra anche lo schiavo che ne era uscito, per raccontare ai compagni che ha lasciato cos´è luce e cos´è oscurità, cos´è passaggio dall´oscurità alla luce, cos´è la cecità indotta dalla luce, cos´è quel non vedere, quel non capire dove di solito abita l´uomo, che per questo è in cerca, e non assiso a contemplare l´ordine del mondo.
E siccome è persuasione dell´umanità, fin dai suoi primordi, che è la luce ad esser venuta dopo (anche la Bibbia ne parla come della prima creazione di Dio: «Fiat lux»), indagare sul buio vuol dire portarsi in quel luogo che antecede la creazione del mondo, nell´oscurità di quel ventre materno primordiale da cui un giorno il mondo è nato, e di cui forse ogni giorno è ininterrotta memoria di questo accadimento.
Antecedente l´apparire del mondo, con la ribellione di Lucifero ("il portatore di luce") il buio è diventato nella tradizione giudaico-cristiana, la tentazione del mondo, la luce nera e così poco rassicurante che irradia sinistramente tutti i mali della terra. Non così per la Grecia antica che, insieme alla tradizione giudaico-cristiana, è l´altra fonte della cultura occidentale. Per i greci l´oscurità è il luogo dove si custodisce, prima del suo svelamento, la verità. Il termine, infatti, che sta per "verità": a-letheia, significa: "non latente", "non nascosto", "s-velato". La verità non è ciò che si oppone alla falsità secondo il regime dualistico di ogni dottrina religiosa, ma è ciò che si manifesta, si s-vela dal suo nascondimento che l´oscurità custodisce. Per questo Socrate è filosofo e non sapiente. I sapienti "sanno", i filosofi "cercano", inoltrandosi nell´oscurità dove la verità è celata e insieme custodita.
Paolo Mauri ci ricorda che fare scienza è muoversi nell´oscurità per portare alla luce quel minimo che ci consenta di decifrare il mondo, e, in una splendida e insieme enigmatica pagina su Freud (come è bene che sia là dove non tutto, grazie a dio, può essere portato alla luce), Mauri ci ricorda che anche la conoscenza di sé non è raggiungibile se non immergendoci, possibilmente accompagnati come Dante da Virgilio quando scende all´inferno, nell´oscurità dell´inconscio. Ma anche la coscienza può essere oscurata dalla luce nera della depressione che Paolo Mauri definisce: «Un buio in presenza della luce. Il depresso vede tutto, ma non sa che farsene. È morto mentre è vivo».
Ma c´è anche una cecità che è chiaroveggenza. Quella di Omero che «dicono fosse cieco», quella di Demodoco «a cui la musa tolse la vista corporea per conferirgli qualcosa di meglio: il dono del canto perché lo amava». Ciechi alla luce, i poeti vedono l´invisibile. Ad essi gli dèi conferiscono quella vista superiore (epopteia) che ha la sua controparte nella cecità per le cose della terra. Avvolto nel buio, il poeta vede quello che noi, immersi nella luce del presente, non vediamo. E perciò può accompagnarci nel passato che l´oblio può inghiottire in un buio irrecuperabile, e nel futuro dove il buio è ancora più intenso, essendo in gran parte legato al caso e all´imprevedibile.
Il buio, scrive Paolo Mauri, è il più grande deposito del passato che esista. Saperi scomparsi, libri dimenticati, leggende scadute, religioni abbandonate, miti perduti, dèi impotenti che attendono una formula, che forse non verrà mai pronunciata, per essere richiamati in vita. Anche il Dio cristiano oggi teme il suo oblio. Ma il buio avvolge anche il futuro che i nostri giovani non avvertono più come una promessa ma soprattutto come una minaccia, e perciò dicono: «Se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra». Chissà se tanta demotivazione giovanile e forse tanta violenza non dipendono proprio dal buio del futuro.
E perciò nel buio della notte avvengono quei piccoli sabba della vita giovanile (e non solo) con tanto di balli propiziatori e assunzione di alcol e droghe estasianti, in quei locali bui fiammeggiati da luci psichedeliche che stanno a dire che per i giovani la luce diurna ha la durata di un lampo. Immemori della storia, incuranti della politica, lontani dalle idee, desueti ai valori, i giovani oggi giocano con quell´"ospite inquietante" che Nietszche chiamava "nichilismo". E tutti sappiamo che anche il nulla ha il colore del buio. Viene prima della nascita del mondo, e attende il mondo dopo il suo tramonto. Chissà se è un caso che "occidente" voglia dire "tramonto" e sia percorso da voluttà nichilistiche.
E tutto questo senza tralasciare quel buio che è in noi se è vero che ormai più non ci segnaliamo con il nostro nome, ma solo con la nostra professione. E già duemila anni fa il mito gnostico riferiva la risposta del messaggero che dio aveva mandato sulla terra a recuperare le anime degli uomini: «Io le ho chiamate - riferiva il messaggero – ma loro non rispondevano, perché avevano dimenticato il loro nome nel buio della loro memoria».
«Il buio è infinito – scrive Paolo Mauri – la luce circoscrive». Circoscritti in questo piccolo cerchio, noi viviamo. Se ne avessimo consapevolezza, conosceremmo come gli antichi greci la "giusta misura". È a questa giusta misura che ci invita Paolo Mauri con il suo bellissimo libro sul buio, ai margini del quale, noi viviamo in un "indefinito oggi" fatto di presente e di presenzialismo. Come se il presente fosse l´eternità e non quell´attimo avvolto dal buio del passato inghiottito dall´oblio e dal buio del futuro avvolto dall´imprevedibile. Immemori che, come ci ricorda il poeta: «Ed è subito sera», e poi notte e sempre più notte.

Corriere della Sera 26.4.07
La Margherita difende Bayrou. Nel Pd si allarga la frattura
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il presidente del Pse Poul Rasmussen quando era venuto in Italia, qualche mese fa, lo aveva detto: «Voglio vedere cosa farà Bayrou se va in ballottaggio un candidato socialista e che cosa dirà Rutelli». Rutelli, che è co-presidente del Partito democratico europeo con Bayrou non dice niente, o quasi. Insomma non si schiera ancora apertamente con Ségolène Royal. E, del resto, anche Prodi, che di quel raggruppamento è il presidente onorario, ha concesso solo un video per la campagna elettorale della candidata del Psf. Oltre non è andato, anche se, una ventina di giorni fa, a Berlino, Hollande (che del partito socialista francese è il capo, oltre a essere il compagno della Royal) aveva chiesto esplicitamente a Fassino: «Mi dovete mandare Prodi per sostenere la nostra campagna».
Con gli amici, scherzando, Rutelli dice che lui voterebbe Sarkozy. Ovvio che è una battuta. Ma è altrettanto ovvio che il Pd, che non ha risolto ancora il problema della collocazione a Strasburgo, si presenta diviso alla sua prima prova europea. E il parisiano Franco Monaco non perde l'occasione per polemizzare con Rutelli: «Non capisco questa incertezza: è chiaro che tra destra e sinistra lui deve schierarsi per Royal». Chiaro sì. E non è detto che Rutelli non lo farà. Ma, nel giorno in cui Bayrou non sceglie, dalle parti della Margherita non demonizzano l'alleato europeo. Tutt'altro. Dice il ministro per le Comunicazioni Paolo Gentiloni, che di Rutelli è il braccio e la mente: «La Royal non ha fatto bene in campagna elettorale a respingere l'invito di Michel Rocard a siglare un patto con Bayrou. Quel patto allora era possibile: alleanza di centrosinistra o è strategia o non è. Purtroppo la strategia del partito socialista francese è ancora quella classica: niente nemici a sinistra. Ciò detto, mi sarebbe piaciuto un largo schieramento pro Ségolène — e spero che vinca lei — ma capisco perché Bayrou ha preso questa decisione». Rimanendo nei dintorni della Margherita la musica non cambia, anche se a suonarla, stavolta, è il ministro dell'Istruzione Beppe Fioroni, che di certo rutelliano non è: «Bayrou decide di fare un partito democratico senza schierarsi con nessuno? Bene, perché un seme va sempre messo. Il suo è un atto di coraggio perché vuole andare oltre i limiti degli schieramenti attuali puntando su un centro autorevole». E mentre dal Botteghino ci tengono a far sapere che, comunque, loro si schierano per la candidata del Psf, il leader dello Sdi Enrico Boselli quasi se la ride: «E' la dimostrazione che questo Pd è un accrocco». Naturale, che anche i fuoriusciti dalla Quercia rigirino con un certo piacere il coltello nella piaga. Dice Fabio Mussi: «I fatti francesi dimostrano che non si sta creando nessun nuovo campo democratico- socialista in Europa così come era stato invece promesso ai congressi di Ds e Dl».
La decisione di Bayrou mette in difficoltà anche chi, nella mozione Angius, ha preferito restare nei Ds. Tant'è che l'europarlamentare Mauro Zani si precipita a dire che «la scelta di Bayrou impone di accelerare l'adesione al Pse». Marina Sereni, vicecapogruppo dell'Ulivo alla Camera per conto della Quercia, tenta di riportare in Europa quel che rischia di diventare un problema italiano: «Bayrou è espressione di un elettorato moderato ed era abbastanza scontato che non si schierasse, altrimenti avrebbe diviso i suoi». Verissimo: lo spiegava l'altro giorno anche Casini che con Bayrou ha un rapporto molto stretto. Peccato però che comunque l'Udf in Europa abbia stretto un'alleanza con Rutelli e Prodi che stanno per convolare a nozze con i Ds. I quali si sono già schierati per Ségolène. E i problemi d'Oltralpe rischiano inevitabilmente di avere qualche ripercussione anche in Italia...

Corriere della Sera 26.4.07
La sinistra attacca Rutelli «Apertura ai moderati? Idea grave e autolesionista»
Rifondazione: difficile sostituirci con l'Udc, valiamo di più La Quercia: prudenza, prematuro parlare di intese future
di Paola Di Caro


ROMA — Ha indignato la sinistra estrema, ha lasciato perplessi i Ds e ha preoccupato gli ulivisti. Ha insomma creato tensioni nel centrosinistra Francesco Rutelli, dichiarando che per le prossime elezioni bisognerà lavorare a «un'alleanza allargata ai moderati».
Parole che arrivano dopo quelle pronunciate da Franco Marini: «Le alleanze? Con il partito democratico, possono anche cambiare». Parole che dall'Udc valutano «con cauta attenzione e cortesia, ma senza dar loro troppo peso perché contano i fatti, e aperture concrete non se ne vedono». Parole infine che Renzo Lusetti, per la Margherita, circoscrive e difende: «Marini e Rutelli non hanno mica messo in discussione il governo, gli impegni assunti si rispettano, ovvio. Ma va detto che il nostro non è un sistema bipartitico, è una democrazia dell'alternanza formata da due poli alquanto eterogenei al loro interno... Vedremo come si ristrutturerà il sistema politico. Ma sinceramente, è più destabilizzante per il governo il dibattito su alleanze future o quello sulla legge elettorale, dove c'è già chi minaccia crisi di governo?».
Già, ma proprio perché di grane ce ne sono tante, il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena si arrabbia: «Già era preoccupante Marini, con Rutelli la situazione si fa ancora più grave. Prima di tutto, perché non ci piace questo concetto arrogante per cui il Pd fa la guida della coalizione. E poi perché è davvero controproducente, è autolesionista in vista della discussione su salari, pensioni, sulla sorte del "tesoretto" parlare delle prossime alleanze: così si mina il governo». Sì perché il sospetto su parole che «non sono piaciute nemmeno ai Ds» è che sottintendano un «progetto caro ai poteri forti», quello di «andare alle elezioni tra un paio d'anni liberandosi della sinistra e accordandosi con Casini e altri pezzi di centro», progetto per altro «complicato, perché la nostra area può valere anche un 12-13%».
Ovviamente non si spinge così avanti Marina Sereni, vice capogruppo dell'Ulivo, ma a Rutelli manda un messaggio molto chiaro: «Su certe questioni è meglio essere prudenti, per tutelare la stabilità del governo, ma anche perché oggi è molto difficile dire quale sarà il quadro politico futuro. Siamo talmente distanti dal voto che avventurarci sul terreno delle future alleanze mi sembra a dir poco prematuro». Oggi piuttosto «il nostro obiettivo deve essere la costruzione del Pd come soggetto riformista: se qualcuno dal profilo giusto è interessato a farne parte è il benvenuto, di alleanze si parli dopo».
Rutelli non «scandalizza» il prodiano Franco Monaco, ma «in questa fase preferisco mettere l'accento sull'esigenza di stabilizzazione del bipolarismo, e «va detto che la sinistra estrema ha fatto sensibili passi avanti in termini di responsabilità di governo, che si sta assumendo con serietà: questo è un guadagno per il sistema politico». Insomma «non vanno alimentate le sirene neo-centriste, che non credo ispirino Marini e Rutelli, ma che potrebbero trarre linfa dai loro discorsi».

Corriere della Sera 26.4.07
Sarà Bruxelles a dare un unico via libera ai bio-medicinali dalla ricerca sulle staminali
Farmaci da embrioni, sì europeo
Via libera del Parlamento. Gli Stati potranno opporsi
di Giuseppe Sarcina


BRUXELLES — Una sola «euro-autorizzazione» e distribuzione più semplice per i bio-medicinali, la frontiera più avanzata per il contrasto di malattie come cancro, diabete, Alzheimer, Parkinson. L'Europarlamento ha approvato ieri «l'armonizzazione» delle procedure nei 27 Stati dell'Unione. Passa, dunque, sia pure dopo aspre polemiche, il regolamento proposto dalla Commissione di Bruxelles. Saranno gli organismi della Ue (tra i quali è centrale l'Emea, l'Agenzia europea di valutazione dei medicinali) a dare il via libera alle terapie genetiche.
Fino ad oggi la diffusione di questo tipo di cure era imbrigliata da regole diverse, e qualche volta contraddittorie, da Paese a Paese. Le nuove norme potrebbero entrare in vigore l'anno prossimo, manca solo il «sì» formale dei 27 governi che sono però sostanzialmente d'accordo. Il compromesso ha retto perché i singoli Stati mantengono una sorta di «veto etico». Ciò significa che la vendita o la somministrazione di un medicinale proveniente dalla Gran Bretagna o dall'Olanda (dove la ricerca biogenetica è più sviluppata) potrà essere comunque vietata nelle farmacie e negli ospedali di Paesi come Polonia, Slovacchia, Lituania, Malta e forse ancora Austria, dove, invece, le legislazioni sono più restrittive. In effetti il dibattito politico all'Europarlamento ha riportato in primo piano il confronto tra principi etici ed esigenze della ricerca scientifica. La nuova generazione di farmaci e di «bio-prodotti» per la ricostruzione dei tessuti nasce, tra l'altro, da esperimenti condotti sulle cellule staminali. Il punto cruciale è l'utilizzo di quelle embrionali (per le adulte non c'è problema). La normativa europea vieta la distruzione degli embrioni per usi scientifici e impone ai ricercatori di ricorrere solo a linee di staminali embrionali esistenti. Si vedrà come si comporterà il nuovo governo italiano, al cui interno convivono posizioni diverse sul rapporto tra ricerca ed etica.

Corriere della Sera 26.4.07
Di fronte all'offensiva delle posizioni confessionali Gian Enrico Rusconi ripropone gli ideali illuministi
Dio e democrazia
La politica non si fonda sulla religione ma sulla libera ricerca scientifica
di Giulio Giorello


Habermas sbaglia: il conflitto è più fecondo del consenso
Il gesuita George Coyne ha contraddetto il cardinale Schönborn

Dio non sembra essere mai stato di moda come oggi. I religiosi ne denunciano la mancanza, e così facendo ne ribadiscono il bisogno; gli atei finiscono per scoprirlo nei posti più impensati, magari nel computer; i politici dichiarano di cercarlo (anche se non è detto che Lui si faccia trovare). Di fronte a tante voci, spesso perentorie, che provengono da autorità mondane e spirituali, verrebbe da ribattere come fece Lutero alla Dieta di Worms: «Qui io sto saldo», al proprio posto nella barca della vita, squassata da venti e tempeste. Ma qualcuno esige maggiori sicurezze: «Può una società democratica ancorarsi nell'uomo anziché nel divino?» si chiede, fin dalla quarta di copertina, Gian Enrico Rusconi nella sua ultima fatica Non abusare di Dio (Rizzoli). Non si tratta di «porre restrizioni all'espressione pubblica di argomenti e convincimenti» da parte di chi si riconosce in questa o in quella religione (ci mancherebbe!); ma di distinguere tra la «sfera pubblica», ove si dispiega il confronto di tutte le posizioni, e il «discorso pubblico», inteso invece come il processo «che mira strategicamente alla decisione politica». Anche perché «non si capisce bene» quale Dio sarebbe evocato in tale contesto, e «a quale titolo».
Ma bisogna proprio «ancorare» la democrazia a qualcosa? Mi domando se il riferimento all'umano invece che al divino cambi la sostanza del problema. Kant insegnava che le domande che motivano la riflessione filosofica (Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?) si riassumevano nell'unico quesito: «Chi è l'uomo?». In pagine e pagine di «antropologia» non diede mai la risposta! A quale titolo, dunque, dovremmo riferirci a una delle tante versioni della «natura umana» che miti, religioni, filosofie ci hanno tramandato? A seconda degli atteggiamenti, l'essenza dell'uomo apparirà non meno elusiva del «Dio ignoto», oppure fin troppo esplicita, se dispone di questo o quel sostegno ideologico. Abbiamo guadagnato qualcosa rispetto a chi dichiarava che la storia non era altro che la manifestazione di Dio? Possiamo servirci delle acquisizioni della scienza, in particolare della biologia, ma le teorie scientifiche sono per principio spiegazioni controllabili e rivedibili che possono venir modificate, o addirittura sostituite, perché non pretendono di catturare le essenze di quello che studiano. Questa caratteristica fa del «discorso» scientifico un modello del «discorso » democratico, mostrando che quest'ultimonon si riduce alla sola regola della maggioranza. Se la comunità scientifica avesse messo ai voti le idee di Galileo o quelle di Darwin al momento in cui erano state proposte, sarebbero state bocciate. Invece, ha lasciato che potessero crescere.
Qualche anno fa (2004), nel corso di un dibattito con l'allora cardinale Joseph Ratzinger, il filosofo Jürgen Habermas definiva il laico (nel senso etico caro a Rusconi), un «religioso stonato», liquidando così l'intera critica illuministica alla religione: quel filosofo è sempre stato affascinato dai meccanismi che generano consenso, dimenticando che è il dissenso, cioè il libero conflitto delle opinioni e delle forme di vita, a far crescere insieme conoscenza e democrazia. Tale aspetto era invece compreso dall'uomo di Chiesa: non perché Ratzinger indossasse per l'occasione i panni di Voltaire (o confessasse di essere «scientificamente stonato»!), ma perché riconosceva con franchezza che la concezione delineata da Darwin ci faceva capire che «la natura come tale non è razionale, anche se in essa c'è comportamento razionale». Il problema è se quel comportamento razionale vada inteso come qualcosa calato dall'alto, oppure sia emerso dal basso in un lungo processo di tentativi ed errori. Su questo punto possono entrare in conflitto mentalità religiosa e atteggiamento illuministico: ma ciò è un male o semplicemente un'occasione per riflettere anzitutto sui nostri stessi presupposti e sui nostri ruoli? Tra l'altro, non è sempre facile definire questi ultimi. Per esempio, l'astrofisico George Coyne, gesuita ed ex direttore dell'Osservatorio Vaticano, ha dichiarato (in un'intervista pubblicata in America, 23 ottobre 2006): «Il mio punto di vista è questo: Dio non vuole avere tutto sotto controllo, vuole che l'Universo abbia la sua autonomia e il suo dinamismo… Ho dovuto affrontare il cardinal Schönborn: ha detto che l'evoluzione neodarwiniana non è compatibile con la dottrina cattolica. È sbagliato. Quando lo dico, molti mi chiedono: come hai potuto contraddire un cardinale? Rispondo che essere un cardinale, o persino un Papa, non significa che tutto quel che uno dice sia giusto».
Forse, Dio non vuole tenere sotto controllo nemmeno la politica, e non gli importa che la società democratica vada alla deriva — non perché manca il timoniere, ma perché troppi sono quelli che ambiscono al ruolo. Qui torniamo alle nostre responsabilità: la sfida non è far finta che Dio non ci sia, cioè autodisciplinarsi etsi Deus non daretur
(«anche se non ci fosse Dio o non si curasse delle faccende umane»), quanto procedere nell'indagine scientifica e nel libero dispiegamento delle preferenze dei cittadini, ovviamente col vincolo che nessuno rechi danno ad altri: anche (e soprattutto) se Dio c'è! Non si tratta di escludere religioni o ideologie dal «discorso pubblico» (come Rusconi lo definisce), bensì di resistere alle imposizioni liberticide o totalitarie di qualsiasi Grande Timoniere — qualunque siano le sue credenze, il suo ruolo istituzionale, la sua militanza in una data Chiesa o partito. Come ricorda Tzvetan Todorov nel suo Lo spirito dell'Illuminismo (Garzanti, pp. 127, e 11), si svuotano di significato le stesse conquiste tecnico-scientifiche e le norme morali, senza l'appello alla coscienza di ciascuno: questo vuol dire per noi il «Qui io sto saldo». L'Illuminismo è ancora tutto da realizzare — come programma nobilmente «luterano», non come piattaforma per un qualche partito degli illuministi.
Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza politica all'Università di Torino, è l'autore del saggio «Non abusare di Dio» (pagine 192, e
12,50) edito da Rizzoli

Corriere della Sera Milano 26.4.07
Odifreddi: «Il pensiero di oggi? Un frappé delle idee»
di L. Ang.


CREMA - Membro dell'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, autore di un libro dal titolo «Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)», che ci fa il matematico impertinente Piergiorgio Odifreddi al festival dei Dieci Comandamenti?
«Santificare le feste? Io sono d'accordissimo - anticipa Odifreddi - anzi, visto che i musulmani festeggiano il venerdì, gli ebrei il sabato e i cattolici la domenica, sarei per istituire il weekend lungo del monoteismo».
A dire la verità Stefano Moriggi, presidente del comitato scientifico di «Cremadelpensiero», dice che lei dovrebbe parlare dell'incubo del dì di festa. «È vero. Il dramma è che oggi ci si deve divertire a comando, quasi per obbligo, o meglio per gli interessi dell'industria del divertimento. A volte chiedo ai miei nipoti se si sono divertiti la sera prima e mi rispondono "Tantissimo, siamo tornati del 5 del mattino". Come se l'importante fosse rincasare tardi, non cosa si fa fino a quell'ora».
Torniamo al festival: non l'ha sorpresa essere invitato fra i relatori? «No, capita che mi chiamino a fare un po' il provocatore, soprattutto se ci sono in giro dei filosofi. A proposito, mi è piaciuto molto il titolo. "Cremadelpensiero" dà bene l'idea di questo pensiero poco solido, di questo frappé delle idee, più che debole cremoso, che si può quasi spalmare. Mi ricorda Nabokov, quando diceva che la psicanalisi è spalmarsi i miti greci sulle parti intime».
Ma le regole, come i Dieci Comandamenti, servono ancora? «A patto che non si cada nel dogmatismo. E poi certi comandamenti sono così interessanti che nessuno li segue, nemmeno i cattolici.
Prenda "non uccidere", per esempio».
Da matematico impertinente, che comandamenti si sentirebbe di aggiungere alla lista? «Non essere superstiziosi. Credo che questo in verità ne abolirebbe diversi altri. Ma non solo in campo religioso. Anche in politica o nella società spesso si è schiavi di credenze imposte».

Liberazione 26.4.07
Giordano: «D'accordo con Berlinguer, nuovo soggetto a sinistra. Da subito»
intervista di Stefano Bocconetti


Il segretario del Prc risponde all'intervista di ieri del dirigente ex-sinistra Ds. D'accordo anche sui tempi accelerati. «Le tappe poi le vedremo
Ma c'è qualcosa da fare subito: spostare a sinistra l'asse del governo, sui problemi concreti (a partire dal tesoretto) usando la nuova forza della sinistra»

La risposta è sì. Rifondazione ci sta, insomma. Franco Giordano ha appena letto l'intervista a Giovanni Berlinguer e non usa giri di parole per dirsi in sintonia con lui: è d'accordo sulla necessità di dar vita ad un nuovo soggetto politico della sinistra. Di più: è d'accordo anche sui tempi. Che devono essere rapidi, rapidissimi. «Condivido l'ansia di Giovanni, la sua fretta. Fare presto significa alimentare la speranza che sento circonda la proposta». Il segretario di Rifondazione quando parla di Berlinguer usa solo il nome: Giovanni. Lo conosce da moltissimo tempo ma non c'è solo questo. Il professore, lo studioso di medicina sociale, il dirigente degli ormai ex diesse per Franco Giordano è importante anche dal punto di vista simbolico. «Sì - racconta - Avevo quattordici anni, mi avvicinavo come può farlo un ragazzo alle lotte studentesche. Ero incuriosito da tante cose. E un prete mi suggerì un libro. Era un saggio di Giovanni Berlinguer sull'uso sociale della scienza. Ne rimasi affascinato al punto che decisi di iscrivermi alla federazione giovanile comunista». Ora tutti e due - chi scriveva e chi leggeva - sono leader politici. Il primo, Berlinguer ha fatto una proposta che, in parte, anticipa la stessa idea che tirerà fuori la sua componente, quella che fino ieri si chiamava «correntone»: unire in un'unica formazione tutto ciò che «di buono si muove alla sinistra dei democratici».
E il secondo, Giordano, cosa replica?
Condivido integralmente il progetto. E sono d'accordo con lui anche sulla necessità dei tempi accelerati.
Ma perché, secondo te, oggi c'è questa possibilità?
Soprattutto per una cosa. Perchè credo che oggi ci siano le condizioni nella società. Ma insomma vediamo cosa è avvenuto davvero in questi anni...
E cosa è accaduto?
Dopo Seattle, alla fine del secolo scorso, quello straordinario movimento antiliberista è riuscito a riverberarsi a Genova, è riuscito a diventare concreto anche in Italia. Cambiando radicalmente tutto, anche a sinistra. E quella soggettività sociale, quella che s'è definita "il movimento dei movimenti", è riuscita ad aprire un orizzonte nuovo. Noi, noi Rifondazione intendo, abbiamo avuto l'intuizione che quell'esplosione di soggettività sociale avrebbe cambiato anche noi. Altri sono, invece, andati in direzione opposta.
Stai parlando del partito democratico, immagino?
Sì. E non sto parlando solo della sua collocazione nello scacchiere politico. Sto parlando di qualcosa di più profondo, di più inquietante. Ma, insomma: dopo quella straordinaria stagione che ha posto domande drammatiche alla politica, cosa accade? Accade che i diesse scelgono di dare una risposta che è tutta dentro la logica separata della politica. Una risposta che è quasi simbolica di come la politica possa essere impermeabile. Una risposta che nega esattamente quelle soggettività che si sono manifestate in questi anni.
Ma ora un "pezzo" di quel partito, s'è staccato. E chiede al resto della sinistra di ridisegnarsi completamente. Di unirsi, di trovare le forme di una nuova possibile collaborazione.
E io sono d'accordo. Sono in totale sintonia con i tratti di questo nuovo soggetto così come li disegna Giovanni. Anch'io penso che debba essere costruita rapidamente e che abbia una chiara, riconoscibile impronta antiliberista e pacifista.
Pensi a qualcosa di simile alla Linke tedesca? Insomma, il progetto che hai, che avete, può prendere a prestito qualche modello internazionale?
Continuo a restare all'intervista di Giovanni. E mi intriga molto il discorso che ha fatto sull'America Latina. Coglie aspetti importanti. Perché è indiscutibile che, al di là delle diverse, singole realtà, quel continente sta vivendo una stagione nuova. C'è un enorme protagonismo dei paesi, dei governi, dei movimenti che li animano, in rapporto con le persone, con le comunità. E, se ci pensi, tenendo sempre comunque a mente le dovute differenze, sempre considerando, insomma, che le due realtà non sono paragonabili, se ci pensi, dicevo, è proprio l'obiettivo che poniamo noi alla sinistra: investire sull'Europa, sul nostro continente. Investire sui movimenti sociali europei, credere nel rapporto con le comunità, con le forme di autorganizzazione che nascono dai conflitti. Posso fare una battuta?
Ovviamente.
In questi giorni, nei giorni del congresso di Firenze, tanti osservatori hanno definito quella fra Ds e Margherita come una fusione a freddo. Ecco al contrario io immagino, quella nuova della sinistra, come "una soggettività calda". Che nasce nel vivo dei conflitti. Che cominci a delineare, già nelle sue vertenze, nelle sue battaglie, un'alternativa di società. Che cominci a disegnare un'altra società possibile, altre relazioni fra le persone. Basate sui valori della non violenza.
A proposito: Giovanni Berlinguer ha detto che la scelta della non violenza di Rifondazione è stato il vero elemento che potrebbe rendere possibile l'unità delle sinistre.
L'ho letto e lo ringrazio. E mi pare un riconoscimento decisivo. Anche se...
Anche se cosa?
Una cosa vorrei dirla a Giovanni. Lui sostiene che la nostra scelta è stata prima etica che politica. Mette molto l'enfasi sul carattere morale. Non è esattamente così. Per noi la "non violenza" è soprattutto una scelta politica. Perché implica l'abbandono di tante suggestioni del secolo scorso che puntavano alla presa del potere. O del governo, fa lo stesso. No, la "non violenza" porta con sé anche l'idea che il nostro obiettivo non è il ricambio delle classi dominanti ma la trasformazione sociale. Cambiare la vita, la vita concreta delle persone, le forme di governo. Nessuna presa del palazzo, insomma. Piuttosto una trasformazione molecolare, i cui protagonisti siano i soggetti che si autorganizzano. Se vuoi una forma mutuata più dalle esperienze del femminismo, dei nuovi movimenti per la pace piuttosto che dalle vecchie forme del socialismo.
Insisti molto sul sociale, sul carattere innovativo che dovrà avere la sinistra prossima ventura. Berlinguer, e tanti con lui, insistono però anche molto sul fatto che le attuali forme della sinistra - i partiti, insomma - dovranno mettersi assieme. Sei sicuro che la tua strada e quella di Berlinguer siano proprio la stessa cosa?
Sia chiaro: io non faccio alcuna discriminazione verso nessuno. Però non si scappa dal nodo centrale: la cifra del nuovo soggetto della sinistra dovrà essere un'idea alternativa della società, dovrà essere l'innovazione politico culturale. Non ci si può limitare a mettere insieme l'esistente.
Per capire ancora meglio: perché oggi si può fare e per esempio prima delle elezioni non si poté realizzare la proposta Asor Rosa di una lista comune di tutta la sinistra?
Appunto perché quella proposta si limitava a fotografare quel che c'era. Oggi, ti ripeto - e credo anche su questo di essere in sintonia con Giovanni - c'è una dinamica sociale che richiede di costruire una nuova soggettività. Dentro una logica che esce dalla separatezza della politica.
Le tappe di questo percorso? Come lo immagini?
Le tappe concrete le vedremo. C'è l'appuntamento del 5 maggio, l'assemblea nazionale della ex sinistra diesse. C'è il 16 giugno l'avvio della fase costituente della Sinistra europea. Ma io dico di più. E parlo delle cose da fare ora, adesso. Domani mattina.
Quali?
Vedo che il partito democratico si è autoattribuito la definizione di guida, motore della coalizione oggi al governo. La prima cosa che viene da dir loro è: ma chi vi ha dato la patente? Al di là delle battute, credo che siamo ad un passaggio decisivo per delineare l'identità politica e sociale del governo dell'Unione. Perché è irrinviabile l'apertura della stagione che abbiamo chiamato del "risarcimento sociale".
I soldi "del tesoretto", giusto?
Giusto. Che certo non potranno essere distribuiti come pretenderebbe Padoa Schioppa. Non è accettabile. E su questo vorrei che la sinistra, tutta, trovasse subito le forme di coordinamento possibile per un'iniziativa unitaria. E ancora: sta per partire la vertenza contrattuale dei metalmeccanici. Le stesse forze, questa sinistra è disposta, unitariamente, a fare da sponda politica a quella vertenza? E' disposta a dare voce ad una categoria che da troppo tempo è senza rappresentanza politica? Ecco queste sono le cose da fare subito, ora.
Stai dicendo di spostare a sinistra l'asse della coalizione. Anche se - ad essere sinceri - i discorsi, come quelli di Marini al congresso della Margherita vanno nella direzione opposta: c'è chi immagina governi senza Rifondazione.
Noi abbiamo espresso lealtà ad un governo dell'Unione fondato su un mandato preciso e su un programma. E bisogna sapere che chi tenta di modificare in senso moderato tutto ciò crea condizioni di instabilità e produce una rottura col popolo dell'Unione. Questo vale anche per il futuro.
Che vuoi dire?
Che l'appartenenza ai futuri governi dipenderà dalla natura dei programmi e dalle relazioni coi movimenti. Per essere chiari: la collocazione del governo non può essere un "a priori", ma una scelta che va verificata socialmente e politicamente.
Prima parlavi della Sinistra europea. Ma dì la verità: è difficile dare vita ad un soggetto che probabilmente già all'atto di nascita discuterà gli strumenti per superarsi.
E qui sbagli. Sbagli di grosso. La sinistra europea, come Rifondazione, non è a tempo, se è questo quello che mi chiedi. La Sinistra europea è l'approdo di un percorso che abbiamo cominciato fin da Genova. Guai a fare confusione. Si ricadrebbe nel drammatico errore, fatto da Fassino e Rutelli, per cui conta esclusivamente il contenitore. Noi nasciamo aperti, aperti al confronto con tutti. Ma quello è il luogo che abbiamo scelto per elaborare le nostre proposte, il nostro progetto. Ma insomma, non vedo perché dovremmo rinunciare alla nostra identità. Esattamente come non chiederemo a nessuno dei protagonisti che immaginiamo nel nuovo soggetto unitario della sinistra, di rinunciare alla loro. Sarebbe sbagliato, improponibile.
Un'ultima cosa: secondo te la débâcle della sinistra francese ha accelerato la discussione in Italia sulla riaggregazione della sinistra?
E' indubbio che lì la sinistra radicale è stata penalizzata dalla logica del "voto utile". Che ha premiato la Royal contro un candidato di una destra pericolosa che forse non abbiamo ancora analizzato a fondo. Capace di legare i vecchi elementi xenofobi e autoritari con discorsi di chiara impronta sociale. Molti hanno votato per paura, insomma. Ma resta anche, credo, la mancata innovazione delle forze della sinistra radicale francese. Incapaci, mi sembra, di proiettare in una dimensione continentale lo straordinario movimento che si è opposto alla Costituzione liberista.
E quel voto cosa insegna all'Italia?
Una cosa riguarda tutti.
Quale?
Una riflessione sul sistema elettorale, per esempio. Il doppio turno costringe ora tutti e due i candidati a rincorrere i voti del centro. Snaturando paradossalmente la stessa logica bipolare che pure era sottesa a quel sistema di voto.
L'altra cosa?
Riguarda la sinistra. E ci conferma che fuori dal rapporto coi movimenti non esistono chance di successo.

Corriere della Sera 26.4.07
«Il Pd avrà le facce di Craxi e Sofri»
«Con dolore, ma dico sì a Mussi»
di Fabrizio Roncone


ROMA — Onorevole Olga D’Antona, anche lei con Fabio Mussi, anche lei fuori dai Ds.
«Anche io. Con fatica, con dolore...».
Le va di spiegarlo, questo dolore?
«Sa a quanti anni presi la prima tessera del Pci? A 25. All’epoca lavoravo nelle assicurazioni, ero soprattutto una militante sindacale, ma stare nel Pci significava vivere dentro un mondo di valori che...».
Dava un senso di appartenenza.
«Ecco, sì. Ti faceva sentire partecipe di qualcosa. E poi, vede: non vorrei apparirle retorica, ma era anche una questione di comportamenti, di facce. Le facce erano importanti».
Lei sta pensando a Enrico Berlinguer...
«Sì, certo, chiaro... sto pensando a lui e a quelli che se ne vanno a fondare il partito democratico, dicendo che nel loro nuovo Pantheon, per uno come Berlinguer, non c’è posto».
L’ha detto il ministro Pierluigi Bersani.
«Guardi, credo l’abbiano fatto capire in molti, compreso Fassino, in un suo libro. Fassino, tra l’altro, ci ha persino spiegato di avere un Pantheon in cui c’è... c’è addirittura Craxi».
Craxi, sostiene Fassino, ebbe delle intuizioni che...
«Lasciamo stare, che è meglio. Prima parlavamo di valori, no? Beh, per me la questione morale è ancora un valore».
Lei, onorevole, ha un tono duro, polemico.
«Come immaginerà, ho preso certe decisioni così difficili attraversando un vero e proprio travaglio personale e...».
Senta: lei è in ottimi rapporti con Walter Veltroni, che di questo Pd è uno degli architetti politici. Ha cercato di convincerla?
«Vede, a Walter sono legata da un profondo senso di amicizia. Mi fu vicino quando le Br uccisero mio marito Massimo e poi fu sempre lui a chiedermi di candidarmi, nel 2001, alle elezioni. Ma, dopo avermi ascoltata, ha capito. Gli altri, invece...».
Gli altri, chi?
«Fassino e D’Alema. Con loro due non ho mai avuto l’opportunità di avere un colloquio».
Che, però, le sarebbe sembrato opportuno.
«Mi sarebbe sembrato logico ragionare tutti insieme, e invece alla fine è vero ciò che hanno scritto molti osservatori: è stata un’operazione decisa a freddo, da cinque, sei, sette persone al massimo».
Però poi c’è anche stato il congresso di Firenze, i militanti hanno votato, la mozione di Fassino è risultata largamente vincente.
«Vuol sapere cosa penso del nostro congresso e di quello della Margherita?».
Prego.
«Ha presente i matrimoni a distanza?»
Prodi sostiene che il Pd non sarà niente di meno dell’Ulivo...
«A me piaceva l’idea dell’Ulivo così come nacque. Ero disposta a quelle contaminazioni, mi sembrò un’utopia realizzabile. Oggi la scena mi sembra cambiata».
La spieghi, dal suo punto di vista.
«Fassino ci ha chiesto di fonderci con la Margherita, vale a dire con quel partito che più frequentemente fa sponda con un certo clero così tremendamente aggressiva... Devo continuare?».
Lei non crede alle parole di Rutelli, che promette equilibrio?
«Rutelli? Il quale ci dice chiaramente che il Pd non sarà mai nella famiglia del socialismo europeo? No, non credo alle sue promesse. Nella Margherita c’è chi mette in dubbio la legge sull’aborto, sappiamo ciò che pensano delle coppie di fatto... e poi, questo Pd: che tipo di rapporto intende avere con i lavoratori?».
Pensi: ad Adriano Sofri, il congresso di Firenze, invece, è piaciuto.
«Sì, lo so, è venuto ad assistere...».
Lei fu molto critica sulla sua presenza già quando lo vide sul palco del teatro Capranica di Roma, il pomeriggio in cui Fassino presentò la sua mozione.
«Se non avessi protestato, guardi, ce lo saremmo ritrovato pure sul palco di Firenze. Il che, diciamo, sarebbe stato un po’ troppo».