domenica 29 aprile 2007

Corriere della Sera 29.4.07 pag.37
Il quaderno nero
Il figlio di Heidegger: ecco la prova che mio padre non credeva a Hitler
di Hermann Heidegger


Non mi posso lamentare in nessun modo di Martin Heidegger come padre. Per me è stato veramente un padre e il rapporto di fiducia che avevo con lui era straordinariamente buono. Durante la mia infanzia la vita quotidiana trascorreva così: era spaventoso quanto lui lavorasse, mentre mia madre si preoccupava che in casa regnasse la quiete e non vi fossero rumori. Perciò non ci era permesso portare altri ragazzi in casa e neppure fare chiasso in giardino o gridare, per non disturbarlo durante il suo lavoro.
All'epoca del ginnasio avevo delle difficoltà in latino e in greco, e la sera, dopo cena, mi era consentito entrare nel suo studio: mi spiegava il latino e il greco molto meglio dei miei insegnanti tanto che, quando era lui a spiegarmi qualcosa, riuscivo a capire. Si interessava anche a ciò che noi ragazzi facevamo, alla nostra attività di boy scout e più tardi a quella di dirigenti dell'organizzazione Jungvolk. È stato un padre attento e aperto. Era anche un ottimo sportivo: andavamo assieme a sciare oppure in canoa. Questi sono ricordi veramente stupendi del tempo passato con mio padre. (...) Naturalmente avrebbe preferito che io avessi intrapreso una carriera accademica. Non che si aspettasse che diventassi un filosofo, questo sicuramente no. Comunque non mi ha opposto una resistenza così dura come quella di mia madre, che era assolutamente contraria al fatto che diventassi un ufficiale, poiché lei stessa era figlia di un ufficiale e aveva imparato cosa significasse vivere nella famiglia di un militare di carriera: essere trasferiti ogni due o tre anni, essere continuamente strappati da ogni forma di legame giovanile e così via. Io però volevo seguire il modello del mio nonno materno, che appunto era ufficiale, e dicevo: «No, io diventerò come lui». Martin Heidegger non disse nulla in contrario. (...) Le passioni amorose giocarono un ruolo rilevante nella sua vita. Il matrimonio con Elfride entrò infatti in crisi. Mia madre dovette allora parlare con lui in modo molto duro e molto chiaro, affinché lui la smettesse una buona volta con le sue relazioni extraconiugali. Questo fu il momento cruciale, nel quale si giunse ad una rottura, come asseriscono alcuni, o ad un confronto, come invece affermano altri.
Io conoscevo una parte di queste donne. Mio padre mi ha sempre detto: «Le persone devono occuparsi del mio pensiero, la vita privata non ha nulla a che fare con la sfera pubblica». E io mi sono sempre attenuto a questa indicazione. Naturalmente, ero dispiaciuto e preoccupato per mia madre, in relazione a quello che succedeva, sebbene non fossi al corrente di tutto ... di alcune cose sono venuto a conoscenza soltanto adesso. Un giorno si presentò qui una donna e disse: «L'argomento Heidegger per me è definitivamente chiuso. Ecco qui le sue lettere». Io non conoscevo questa signora, non avevo mai sentito parlare di lei, ma ricevetti da lei un gran numero di lettere d'amore, che ho portato a Marbach dove rimarranno inaccessibili fino al 2046. Io penso che nel caso di grandi personaggi come Goethe, Picasso, Wagner, Benn, Mann ... ovunque accadono simili cose, forse questo appartiene alla vita dell'uomo. Oppure, proprio nel caso di grandi talenti, si tratta forse di un complemento necessario, o di un motivo di ispirazione. Alcune di queste donne le ho conosciute personalmente e devo dire sinceramente che erano delle donne straordinarie, tanto sul piano intellettuale, che su quello dell'aspetto fisico, cosa che come uomini ammiriamo molto volentieri. (...) Il 29 luglio 1932 Hitler tenne a Freiburg una manifestazione elettorale allo stadio Mösle. Mia madre vi si recò con i suoi due figli. Fu allora la prima volta che vidi Hitler. Mio padre non era presente. Due giorni dopo, in occasione delle elezioni, egli votò ancora per il partito dei viticultori del Württemberg. Sicuramente fu l'influsso di mia madre a portarlo a votare per il partito nazionalsocialista nelle successive elezioni per la Camera dei deputati del novembre del 1932 e poi del 1933.
Egli non entrò nel partito, come sempre viene affermato, con ostentazione il 1˚ maggio, ma solo il 3 di maggio. Il giorno dell'iscrizione venne antidatato dal partito che aveva disposto un blocco alle iscrizioni. Egli entrò nel partito su invito e su richiesta del dottor Kerber, allora borgomastro e al contempo direttore distrettuale. Mio padre lo fece, ritenendo che sarebbe stato per lui più facile dirigere l'università, se avesse avuto un certo sostegno nel partito. Questo fu un errore, questo è l'errore, che a ragione gli si rimprovera.
Ma il fatto che egli già il 1˚ ottobre 1933 in qualità di rettore nominato e non più eletto, investito a sua volta della facoltà di nominare i decani, abbia nominato come decani unicamente dei non nazionalsocialisti, e tra questi, come decano della facoltà di Medicina, il socialdemocratico von Möllendorff, che sei mesi prima era stato costretto alle dimissioni da rettore dai nazisti — ebbene questo fatto mostra inequivocabilmente che Martin Heidegger non lavorava assieme al partito e ai nazisti, ma che, al contrario, era molto distante da loro. E quando a fine febbraio 1934 venne convocato a Karlsruhe e si pretendeva da lui che destituisse i decani Wolf e von Möllendorff, invisi al partito, egli si rifiutò di farlo e in segno di protesta si dimise dalla carica di rettore. L'errore politico di mio padre nella primavera del 1933 è indiscutibile. Ma la convinzione che egli si sia sbagliato, si trova già espressa in un Quaderno nero che porta la data dell'aprile 1934. Questo sarà documentato nel momento in cui i Quaderni neri saranno pubblicati.

Corriere della Sera 29.4.07
Un ritratto controcorrente
Attratto dalle belle donne, deluso dal regime
UnMartin
di Dario Fertilio

Heidegger lontano dalle rappresentazioni consuete è al centro di questa conversazione pubblicata sull'ultimo numero di MicroMega, e di cui pubblichiamo in estratto alcuni brani. È il figlio Hermann a raccontare, stimolato dal ricercatore Angel Xoloctzi. Oltre al resoconto della lunga battaglia legale con la nipote Gertrud intorno alla pubblicazione di molte delle lettere d'amore del padre, il figlio ammette che i rapporti con le donne, anche fuori del matrimonio, sono stati una componente essenziale della sua personalità.
Hermann descrive il tormentato rapporto di Martin Heidegger con la chiesa cattolica, e soprattutto lo difende dall'accusa di compromissione con il regime nazionalsocialista. Hermann annuncia, anzi, l'esistenza di un «Quaderno nero» dell'aprile 1934, ancora non pubblicato, da cui risulterebbe, se non il pentimento, almeno la convinzione del filosofo di avere commesso un errore aderendo al regime.

Su «MicroMega»
Nel nuovo Almanacco di Filosofia di MicroMega compare — oltre all'intervista a Heidegger che pubblichiamo e a una sezione filosofica dedicata alla sua eredità — un saggio su Gesù di Paolo Flores d'Arcais. Ancora, Roberto Esposito e Stefano Rodotà si confrontano sull'idea di "persona" con tutte le implicazioni di diritto che ne scaturiscono. Inoltre, due tavole rotonde su fede, razionalità e fondamentalismo con, fra gli altri, Enzo Bianchi, Gille Kepel, Moni Ovadia e Orlando Franceschelli. Infine, e una tavola rotonda sul valore della politica con Giacomo Marramao, Jacqueline Bhabha, Emanuele Severino.

Corriere della Sera 29.4.07
Apocalisse
Ira del mondo e pazienza divina È l'Ora della battaglia finale
di Massimo Cacciari


Apocalisse è Rivelazione, definitivo strappo del velo che ci impedisce di leggere il «libro» dove tutto sta scritto ab aeterno, il Vangelo Eterno (espressione presente qui soltanto in tutto il Nuovo Testamento): esso rappresenta «la corona della vita» (Ap. 2,10), il «rotolo della vita» (Ap. 3,5). Esso darà finalmente da mangiare l'Albero della Vita! (Ap. 2,7). La «storia» iniziata nel Giardino necessariamente «trasgredito» mostra la sua conclusione. Il tempo è «perfetto»; i «fatti» del tempo hanno esaurito la propria energia e si rivelano, come un tutto, compiuti. «Guarda, viene!»: ora viene. Ora è parousia, presenza, cioè, di Colui che rivela il compiersi del tutto, che formula sul tempo il giudizio definitivo. Il tempo si contrae in quella esclamazione: ecco, vedi, viene. E la sua parousia in atto è perfetta rivelazione.
In un colpo d'occhio l'apocalisse abbraccia cielo e terra, gioia celeste e furore e lamento quaggiù, abbraccia come momenti, come un solo movimentum le tragedie che hanno avvinghiato re, mercanti, marinai, servi di Satana a testimoni dell'Agnello. Ma questo sguardo è possibile perché la parousia del Signore, la sua Visita è. L'Agnello tiene nel suo pugno ogni «divenire». La parola di questa Apocalisse erompe dalla voce del Logos che si è fatto carne e ha annunciato salvezza grazie alla fede in Lui. Salvezza dal «fiume immondo della storia» (Nietzsche): questa è la grande visione dell'Apocalisse: la storia è giudicata, la storia si è «arresa». Ma se il Regno è del Signore e del suo Messia (Ap. 11,15) perché queste lotte, perché Satana dovrebbe ancora essere rimesso in libertà (Ap. 20,2)? Ogni fatto è segnato dalla Croce dell'Agnello. Ogni fatto è fatto. Facta sunt. Tutto è già compreso in quel Segno, nessun evento può produrre qualcosa che in esso non sia già saputo.
Il tempo dell'apocalisse è il paradosso del tempo- che-si-fa-spazio. Il tempo, nello sguardo apocalittico, nello sguardo sulla totalità dei fatti «a partire» dall'Ultimo, non è che un «caso» dello spazio. La totalità degli eventi è disposta sulla Grande Scena e in uno questo sguardo li abbraccia. La sofferenza è realissima, il sangue dei martiri scorre realmente, come reale è la Croce e il grido dell'Uomo che vi sta appeso, reali le grandi crisi e le storie degli imperi di questo mondo, ma ecco l'Annuncio: di tutto ciò è ora evidente ( phaneròn: Mc. 4,22) la fine. Si badi: non l'annuncio che finirà ma che ora si compie. E ciò in perfetta coerenza con il Senso dei Sinottici ribadito da Giovanni: Sei tu il Messia? Ego sum.
L'Apocalisse contrae il tempo nel «luogo» onnicomprensivo della totalità degli eventi, celesti e terreni, e scopre il nesso che ab aeterno li collegava indissolubilmente. Che cosa «rimane»? Questo soltanto: cambiate subito mente e cuore, trasformatevi, credete; anzi, che la fede sia per voi metamorphosis. Sottilissimo, pressoché istantaneo «nondum»: il perfetto «aderire» di chi ascolta il Messaggio all'essere-perfetto del tempo.
Non vi è più tempo per l'alternanza di veglia e sonno, non v'è più tempo per «stare a vedere». L'attesa è compiuta. Ego sum. Il segno della Croce domina e comprehende. Vi è «tempo» solo per decidere. Il tempo apocalittico è quello della decisione ultima, che ognuno, ogni singolo deve assumere. «Naturalmente» ognuno cerca di sottrarsi a questa stretta; ognuno spera che i propri atti possano sempre essere rimediati, possano risultare «reversibili». Ora, non più. Vigilate, poiché ora viene. Decidete; è necessario ormai che ognuno sia-per-la-Sua-venuta, che avverrà in un colpo d'occhio, che ci coglierà come un ladro di notte. Ma così già vi è stato detto, perciò «estote parati», siate pronti. Il «lungo» tempo dei rinvii, delle incertezze, delle contraddizioni appare un unico «spazio», il cui senso è presente. Ora, è necessario decidere: o Suoi testimoni-martiri e con Lui «dove» non è più tempo assolutamente, o divorati come meri servi di questo mondo e del suo tempo nel Giudizio. Questa la krisis ultima che comprende in sé ogni possibile dramma. Da un lato, pistis, nomos, soteria, fede, obbedienza al Mandatum novum neo-testamentario che invera, compie, non abolisce un solo iota di quel mosaico, e perciò salvezza. Dall'altro, già giudicate, le potenze dell'apostasia, dell'anomia,che portano, anzi: che già vediamo aver portato all'apoleia, alla distruzione. Da un lato, Cristo; dall'altro, l'Anti-Cristo. Aut-aut.
Certo, qui l'essenziale non consiste nel «quando», bensì nel «come» ognuno, ogni singolo si rapporta all'Ora. Essenziale è essere-per-la-fine, il decidersi per essa. E tuttavia qui non si tratta affatto di vivere ogni istante «come se» fosse l'ultimo, «come se» dovessimo rispondere in questo istante della totalità del nostro esserci. Il «tempo» apocalittico è la realtà dell'Ultimo, rivelazione perfetta del significato escatologico dell'Agnello. L'essenziale non può consistere nel «quando» per la ragione fondamentale che ogni «quando» è trapassato, divenuto, sta sull'altare dell'Agnello: promessa e Venuta, attesa e compimento, sacrificio e resurrezione.
Chiediamoci seriamente: come corrispondere a una tale visione? Il nostro tempo non è tutto storico, da parte a parte? Non interpretiamo ogni accadimento sulla base della sua genesi storica e «aperto» alla sostanziale imprevedibilità del futuro? E non vediamo nel tempo futuro il «deposito» pauroso e affascinante del Novum? E non è del Nuovo, dell'ancora non visto, non rivelato, del Nondum, che abbiamo nostalgia? Questo tempo è l'esatto opposto di quello apocalittico, del tempo-spazio della Rivelazione contenuta nel Vangelo-Eterno. Il tempo del «progresso» indefinito può dar vita a una serie di crisi-e-decisioni, si dispiega in un fiume di «anni decisivi», ma per definizione non può essere pensato al suo compimento. La sua «insecuritas» non potrà mai essere definitivamente «curata», e cioè giudicata e «risolta». E tuttavia come non vedere che le decisioni che costituiscono la nostra storia assumono una forma che è «simia», che è a imitazione, diabolica forse, della Decisione cui ci chiama il Logos dell'Apocalisse? Si, ogni nostra decisione la imita, rovesciandola: vorrebbe presentarsi come «risolutiva», pretenderebbe di disvelare il senso del divenire fino a quel punto rimasto nascosto, di «scontare» in sé l'imprevedibilità del futuro. È come se ogni nostra decisione pretendesse di occupare lo spazio della Fine, o comunque tendere ad esso, ad «innalzarsi» fino ad esso. E hyper-airomenos, colui che vuole su tutto innalzarsi, è precisamente il nome dell'Avversario.
Con ciò vogliamo dire che l'Apocalisse, l'Annuncio che «la misura del tempo è colma», apre a una nuova storia, a un nuovo senso della storia. E che tale possibilità rimane confitta nel suo stesso segno, non ne rappresenta affatto un semplice «tradimento». È l'Apocalisse a spezzare ogni idea che la Fine possa ripetere l'Inizio, che «conversio» possa significare il ritorno a uno stato originario. Il divenire storico è segnato dall'irrompere di Novità radicali, anzi: dalla Novitas del Cristo. L'Adamo che essa produce è del tutto nuovo. È l'Apocalisse a rivelare che la miseria dell'esserci umano è ora figlia di Dio: «voi siete figli di Dio...», per quanto possiate ancora compiere le opere del diavolo. E quanto questa fiducia contraddistingue ancora i nostri atti! La fiducia, cioè, che qualsiasi distruzione apportiamo, qualsiasi violenza perpetriamo, saremo sopportati... che l'ira del mondo contro Dio mai potrà vincere la pazienza divina... L'Apocalisse certamente è la Rivelazione ultima che il Regno di Dio è «entos hymon» (Lc. 17,31), ma la «nostra» storia non solo ha inteso l'«entos» esclusivamente nel senso del «dentro» noi, «nell'intimo» di noi, ma questa radicale «intimità» nel senso di un possesso, di un'acquisizione definitiva, nel senso che il Regno è «nostro» e ora si tratta di realizzarlo, di portarlo a compimento «fuori» di noi.

Corriere della Sera 29.4.07
Un termine per l'uomo odierno sinonimo di guerre, terrorismo e disastro ecologico Ma il testo più oscuro e violento del Cristianesimo profetizza la sconfitta definitiva del Male
Una mostra e due spettacoli si confrontano con la sua forza visionaria

di Roberto Mussapi

L'isola, le stelle, le visioni Il testo che celebra la poesia
Quell'enigma del tempo ripreso da Foscolo, Shelley, Eliot

E si fece avanti un altro cavallo, rosso fiammante; al cavaliere Dio diede una grande spada e il potere di far sparire la pace dalla terra

Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna che sembrava vestita di sole... stava per dare alla luce un bambino... un drago enorme, rosso fuoco... voleva divorare il bimbo appena nato

La condizione in cui nasce l'Apocalisse pare tracciare una sorta di modello della creazione poetica: l'autore è confinato in un'isola, e da questa terra marginale, circondata dal mare, lontana dal centro del mondo, è rapito in spirito, posseduto da visioni. Visioni ispirate da un'urgenza incontenibile: comprendere la realtà dell'alfa, e dell'omega, del principio e della fine. Da un punto di vista poetico l'Apocalisse è in questo senso un modello, un archetipo della genesi dell'opera. Il principio: quante Arcadie, quanti Eden perduti, nella poesia, ma anche quanti modelli del passato idealizzati fino a renderli atemporali, come fu il mondo greco in tante età della poesia? Accanto a intuizioni che entravano nel cuore della specie, come il viaggio di Foscolo nei Sepolcri, verso la nascita della stirpe umana. Altrettanto presente, più vistosa nel Novecento, l'ossessione della fine, del destino ultimo, della eventuale meta di un moto che da Shakespeare e John Donne in poi appare cieco o comunque oscuro nel suo senso profondo.
Come nella poesia dei grandi autori cosmologici, Shelley, Leopardi, Whitman, la visione è preceduta da una mappa siderale, qui sette stelle, a cui corrispondono sette lampade, correlativo umano degli astri lucenti: la lampada di Ero e Leandro segna un momento aurorale della grande poesia occidentale d'amore e di navigazione, la lampada ardente è il fulcro poetico di grandi poeti sufi, immersi in una sorta di incantata e illuminata mistica islamica.
In mezzo, qui e ora, il tempo presente relativo per l'autore dell'Apocalisse, in un certo senso assoluto per il poeta: il quale parla, sempre, di realtà astoriche e atemporali in termini storici e temporali, attraverso la lingua che è astratta e condivisa nello stesso tempo.
Il repertorio visionario dell'Apocalisse è sterminato e animato da una congenita inesauribilità: sembrano non aver fine, nel presente della visione, i terremoti e i boati, i fragori selvaggi, i cavalli verdi irrompenti come i draghi dalle sette teste, l'angelo che fulmina il fulmine, il clangore fastoso e incandescente di una cavalcata inarrestabile, interrotta però da improvvisi, infinitamente quieti intertempi di silenzio.
Che pare la premonizione del tempo ultimo, che non sarà frutto di una distruzione ma di una trasformazione, una trasfigurazione. Non rovina finale, ma metamorfosi. La poesia mentre descrive il mondo nel suo apparire, ne coglie anche l'enigma, il volto invisibile, o nascosto, che ha in sé il germe di una trasfigurazione.
E' incongrua, rispetto al testo di Giovanni la letteratura apocalittica, vale a dire catastrofista, come sarebbe superficiale leggere, nella vertigine di simboli, un repertorio di base per poetiche surrealiste.
No, la visione qui, come in molta poesia, è oscura, ma mai gratuita, alogica, ma non insensata. Come avviene in certe poesie cosmologiche di Dylan Thomas.
Ma soprattutto, è quintessenziale la condizione di fondo: su un'isola, irrompe la visione, orientata da stelle e lampade. Il presente, il tempo in cui il poeta sta scrivendo e a cui ora deve rispondere, si dilata. Qui agisce il poeta: «Il tempo presente e il tempo passato/ Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,/ E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato».
Sono versi leggendari dai Quattro Quartetti
di T.S. Eliot, il massimo poeta del Novecento. E definiscono l'impresa poetica, in quella condensazione drammatica del tempo che l'Apocalisse mostra, sotto la sua travolgente esuberanza, nella sua purezza scheletrica.

Corriere della Sera 29.4.07
Per il priore di Bose, biblista, l'Apocalisse ci pone davanti a un bivio: imboccare subito la via dell'amore oppure affrontare il castigo
Bianchi: abbiamo perso l'inquietudine dell'attesa di Cristo
di Fabio Cutri

«Il Regno verrà, ci dice il profeta, i giusti che soffrono saranno premiati. Ma prima di assaporare la ricompensa, di poter entrare nella Gerusalemme celeste, siamo posti di fronte a un bivio: imboccare subito
la via dell'amore e della vita oppure quella della morte e della perdizione». Padre Enzo Bianchi, biblista e fondatore della comunità monastica di Bose, è convinto che l'Apocalisse non debba rassicurare l'uomo, bensì incalzarlo, scuoterlo.
Come devono essere lette oggi le visioni di Giovanni?
«Esattamente come duemila anni fa. Sono innanzitutto un appello alla libertà e un'invettiva contro chi sceglie il male o chi, altrettanto empio, non ha ancora scelto il bene. Dure sono le immagini perché dura è la condanna per gli avversari della Chiesa, ovvero il potere politico totalitario e le sue ideologie».
Quando il libro venne scritto, nel I secolo, i primi cristiani perseguitati credevano imminente il ritorno del Cristo. Oggi, trascorso tanto tempo, i fedeli non sembrano più vivere la tensione delle origini.
«Ed è un grande male. Un Cristianesimo che non attende, che non parla del Giudizio, rischia di essere autoreferenziale e consolatorio. Sono la disperata speranza e l'inquietudine per l'arrivo di Cristo a rendere autentica la vita del credente. È vero, è trascorso tanto tempo, ma per il Signore un millennio può valere un giorno e un giorno durare mille anni».
Qual è l'immagine dell'Apocalisse che le piace di più?
«Trovo di una creatività teologica straordinaria quella dell'Agnello. Rappresenta Gesù: Giovanni ce lo mostra ferito, è la vittima sacrificale. Ma non appena viene aperto il primo dei sette sigilli, ecco comparire in cielo un'altra immagine del Cristo, il cavaliere dell'Apocalisse che guida la riscossa contro il maligno: la vittima diventa vincitore, il debole esegue la suprema condanna».
Un Dio vendicatore impietoso...
«Penso ad Adorno, un filosofo che mi ha affascinato fin da giovane: diceva che persino di fronte a una società senza classi, ove regni la più perfetta delle armonie sociali, ci vorrebbe comunque un evento che restituisse la giustizia anche a tutte le generazioni passate! E comunque nell'Apocalisse si legge che se qualcuno non sarà iscritto nel libro della vita, allora verrà castigato. Ecco, tutto si gioca su quel "se", che lascia aperta la porta alla misericordia di Dio».
Lo stagno di zolfo e fuoco è una potente immagine dell'inferno?
«Sì, è il luogo in cui vengono gettate la bestia e il falso profeta, le figure sataniche. Ma per gli uomini il destino è ancora aperto: il profeta ci mostra l'Agnello di Dio, tocca a noi decidere come prepararci al suo ritorno. Su questo l'Apocalisse è chiarissima: non ci è rimasto molto tempo».

Corriere della Sera 29.4.07
L'ICONOGRAFIA DELL'APOCALISSE
Un lungo racconto tra bellezza e orrore
Dalle xilografie del Dürer alle guerre del XXI secolo, un tema da epoche tormentate
di Francesca Bonazzoli

Nelle catacombe, ovvero nei luoghi dove nasce l'iconografia cristiana, l'Apocalisse non compare mai. Per vederne le prime illustrazioni bisogna aspettare il V secolo quando, con i mosaici di Roma e Ravenna, la Rivelazione entra nel repertorio di immagini prodotte dalla nuova arte che sostituirà quella greco romana. Ma è nei secoli XI e XII che il tema giunge al suo apogeo, illustrato in codici miniati, tappezzerie, vetrate, affreschi.
Il motivo per cui intere epoche hanno ignorato l'Apocalisse, viene spiegato col fatto che la visione, scritta in un periodo di crisi sociale e politica, nonché di persecuzione della chiesa, ritrova la sua attualità in epoche di tribolazioni, nutrite dall'angoscia per la fine dei tempi. L'Apocalisse è la grande epopea della speranza cristiana, il canto di trionfo della chiesa perseguitata, messaggio di certezza nella vittoria di Cristo attraverso la sua seconda venuta (la Parusìa).
Non è un caso che una delle interpretazioni più magistrali, quella di Albrecht Dürer, grande devoto di Lutero, nacque in pieno conflitto fra la chiesa di Roma e quella che diventerà la chiesa protestante. Le sue quindici xilografie fecero scuola per tutta una serie di stampe che ebbero fortuna soprattutto nel Nord Europa perché i protestanti leggevano l'Apocalisse come la vittoria della chiesa riformata e perseguitata su quella corrotta della Roma papale, equiparata all'Anticristo.
Del resto l'Apocalisse era stata già interpretata come il trionfo sulla Roma imperiale persecutrice dai primi cristiani o sull'Islam da parte dei Crociati. Le stesse autorità ecclesiastiche ne avvertivano l'ambiguità tanto che, dopo lungo discutere, ne decisero la canonizzazione solo dal III secolo mentre la Chiesa d'Oriente la ammise non prima del XIV secolo. Ecco perché nell'arte bizantina il tema è tardo e non ha goduto di altrettanta rilevanza. Al contrario, gli artisti occidentali si sbizzarrirono nell'illustrazione degli episodi di cui si compone la visione: i quattro cavalieri, la pioggia di stelle, l'Eterno sopra le città in fiamme, le locuste con teste umane, gli angeli che colpiscono il papa, l'imperatore e il cittadino, il dragone dalle sette teste, la nuova Gerusalemme e così via. Fino al punto da sovrapporre e confondere diverse iconografie, soprattutto nella pittura a olio dove il tema viene illustrato in singoli episodi isolati. Alcuni, come per esempio la lotta dell'arcangelo Michele contro il Dragone, di cui Raffaello dipinse l'immagine per eccellenza, sono chiaramente riconoscibili.
Ma più spesso avvennero curiose commistioni, come nel caso dell'Immacolata Concezione. Il concepimento di Maria senza peccato originale nel grembo della madre Anna fu uno dei dibattiti teologici centrali nei secoli XII e XIII finché, all'inizio del XVII secolo, la Spagna ruppe gli indugi. Ma come rappresentare la Vergine concepita pura da Sant'Anna?
Fino ad allora si era fatto ricorso a Maria nuova Eva, intenta a calpestare un serpente, secondo le parole di Dio nella «Genesi»: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa...». Nel 1649, però, Francisco Pacheco del Rìo, pittore e censore artistico dell'Inquisizione, codificò l'immagine dell'Immacolata unendo i caratteri di Eva vincitrice sul serpente (Genesi) con quelli della donna incinta dell'Apocalisse (12,1-14,20): «...una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» sopra un Dragone con sette teste pronte per divorare il figlio che sta per nascere.
Anche il tema del Giudizio Universale si prestò a commistioni con l'episodio dell'Ultimo combattimento dall'Apocalisse. Il caso più spettacolare della loro ibridazione è il polittico dell'Agnello mistico di Jan Van Eyck. Il comparto centrale presenta la scena dell'Apocalisse con l'agnello sull'altare (7, 9-17), ma circondato invece che dal libro dei sette sigilli, dai simboli della Passione, come nell'iconografia del Giudizio universale di cui mancano però dannati, beati e San Michele che pesa le anime.
Esaurita la sua fortuna nel XVI secolo, l'Apocalisse ricompare in Russia nel XVIII secolo dopo i «temps des troubles» e, in Europa, dopo le ecatombi delle guerre mondiali con le incisioni di Edouard Goerg, Henry de Waroquier, Giorgio De Chirico. Oggi che si fa molta arte sulla religione, ma non più arte religiosa, l'Apocalisse ha cambiato significato e iconografia: non più lotta finale del bene sul male, certezza della seconda venuta di Cristo e della costruzione della Gerusalemme celeste, bensì forma stessa degli orrori dell'umanità: droga, violenza, sesso, guerra, terrore e ogni sorta di visione infernale, come quelle che la tv trasmette dall'Iraq, dal Darfur, dal Rwanda, dall'Afghanistan. Non l'avvento di una nuova terra sotto un nuovo cielo, ma l'inferno sulla terra di cui siamo diventati partecipi voyeur. Alla Royal Academy di Londra, nel 2000, la mostra «Apocalypse» proponeva il fascino di tale spettacolo: il connubio inestricabile fra orrore e bellezza. Un paradiso che giace nel cuore della tenebra, come sapevano Joseph Conrad e Francis Ford Coppola.

l’Unità 29.4.07
«Pedofili, il sesso senza limiti»
Roberto Cotroneo intervista Umberto Galimberti


Inquietudine è la parola giusta. Una inquietudine che si alterna all’orrore. E un orrore che non si riesce a sopportare. Il caso, ancora tutto da risolvere e da chiarire, di Rignano Flaminio, e delle presunte molestie e violenze ai bambini dell’asilo da parte di maestre e altri complici, riapre un argomento che negli ultimi anni si è rivelato costante e sempre più preoccupante: la pedofilia, e soprattutto il dilagare della pedofilia. Complici i nuovi strumenti di comunicazione come la rete internet, complice la possibilità di scambiarsi e commerciare in video e foto pedo-pornografiche, complice una società che tende a rimuovere e a nascondere, per paura e per sgomento.
«Riscopriamo i tabù: sono i nostri confini»
Il filosofo Umberto Galimberti sui fatti di Rignano e sul fenomeno della pedofilia: «È venuta a galla
da un grande silenzio. Adesso si sa, e sembra gigantesco. Non è un esercizio di sessualità, ma di potenza»

PERCHÉ, e cosa sta accadendo? È vero che la pedofilia sta diventando un male troppo diffuso? Cosa ha portato a questo? E cosa si può fare per contrastare un crimine così odioso? Ne parliamo con Umberto Galimberti, che ha una lettura del fenomeno di
due tipi. Da filosofo e da psicoanalista.
Umberto Galimberti, partiamo dalla domanda più semplice. Secondo te c'è un aumento della pedofilia?
«Intanto diciamo una prima cosa: la pedofilia è venuta a galla da un grande silenzio. Prima non si sapeva niente, e adesso si comincia a sapere qualcosa. Quindi non possiamo fare un termine di paragone. Questa è un'epoca di estrema attenzione verso i bambini, c'è quasi una sorta di sovraesposizione. E ogni volta che in una società un elemento è al centro dell'attenzione attrae le pulsioni peggiori».
Colpa delle ossessioni della civiltà dell'immagine, di un voyeurismo che può diventare patologia?
«Partirei da prima. Dal collasso della sessualità come tabù. E quando la sessualità non è più tabù il dilagare delle pulsioni è incontenibile. Teniamo conto che Freud definiva i bambini "perversi e polimorfi". Naturalmente il collasso del tabù sessuale fa sì che gli adulti si sentano autorizzati a scatenare le loro pulsioni, che hanno il loro corrispondente nella polimorfia dei bambini».
Ma noi abbiamo sempre detto che la liberazione dei tabù sessuali era una forma di modernità e di liberazione...
«Per carità... l'uomo ha bisogno di limiti, di confini e di tabù, e là dove cade un tabù, se ne deve trovare un altro. Il contenimento della sessualità limita i comportamenti. Quei comportamenti che oggi invece si ritengono non gravi. La psicoanalisi ad esempio non sarebbe mai nata senza l'esistenza del tabù sessuale, ed è per questo che oggi anche la psicoanalisi è in crisi».
Tutto questo è figlio della rivoluzione sessuale?
«Non c'è dubbio. Non dimentichiamo che nei dieci comandamenti quello più importante è "non commettere atti impuri". La religione ha controllato la società attraverso il controllo "dei ventri". Se questo non c'è più le pulsioni vengono fuori in un modo scatenato».
Ma come è possibile considerare un soggetto sessuale un bimbo di quattro anni?
«Questo mi risulta incomprensibile mentalmente».
Ma tu sei un analista, dovresti...
«Certo, so spiegarmelo ma non lo comprendo ugualmente. Però dobbiamo pensare almeno due cose. La prima è che la pedofilia più che un esercizio di sessualità è un esercizio di potenza. O se preferisci di impotenza. Se io sono impotente nella relazione adulta mi scarico sui bambini. Nella pedofilia c'è un primato della potenza e della violenza più che libido o piacere sessuale. La seconda è che il bambino scatena tutte le pulsioni sessuali che non si sono integrate nella funzione genitale».
Spiega meglio.
«Ciascuno di noi ha delle perversioni. Freud spiega che le perversioni sono tutti quelli atti che non sono rivolti al "giusto verso". Ovvero che non si sono integrate attorno agli organi sessuali maschili e femminili. Intorno alla destinazione naturale della sessualità. Tutte quelle pulsioni che rimangono fuori trovano il loro corrispondente nei bambini, che sono polimorfi perché non hanno ancora, essendo molto piccoli, indirizzato la loro sessualità».
Torniamo alla diffusione della pedofilia. Quanto pesa la tecnologia in questo processo. La facilità di scambio, la globalità della rete internet?
«La tecnologia non è responsabile dell'incremento della pedofilia, è responsabile della facilitazione della pulsione sessuale».
E porta a condividere le pulsioni perverse e criminali?
«La facilitazione tecnologica ha creato una sorta di comunità. Quante sono le comunità che si riuniscono attorno a internet a partire da un tema? Bene, diciamo che un pedofilo che un tempo poteva essere un solitario che seguiva le sue pulsioni e perversioni oggi può condividere con altri la sua perversione attraverso le comunità mediatiche che si vengono a creare con internet. E quindi in qualche modo tende ad alleggerire persino la responsabilità e il senso di colpa».
Dunque condividere queste perversioni con altri non porta ulteriore vergogna. E questo può avvenire anche in una piccola comunità?
«Una volta che si depotenzia la colpevolezza di questi scenari sessuali si sente meno responsabile sia quello che vive nella comunità di internet sia quello che vive nel piccolo paese».
Il fatto che un pedofilo sia stato un bambino violato è un luogo comune?
«C'è una certa frequenza. Un bambino violato non rimedia più. Mi dispiace di togliere tutte le speranze, ma il bambino violato è un bambino che si trova nella condizione di subire un'esperienza di cui non ha i codici interpretativi. E tutto ciò che noi non riusciamo a intepretare rimane un nucleo chiuso che si manifesta con il disprezzo di sé».
E non sono curabili?
«Non escludo questa possibilità. Ma io non l'ho mai vista».
Perché il primo luogo dove avvengono le molestie sessuali è la famiglia?
«Perché è più facile il contatto con i bambini, ma soprattutto perché è davvero indiscernibile quando si passa da una carezza di affetto a un gesto trasgressivo. I bambini arrivano all'età della ragione attorno ai 5 o 6 anni. E prima il messaggio di accettazione o rifiuto passa attraverso il corpo. E allora per il bambino diventa impossibile capire se una carezza è perversa o è solo una carezza di affetto. La famiglia può essere una zona grigia dove può accadere di non distinguere tra l'amore e la libido. E guarda che l'abuso dell'infanzia è sempre stata una costante nella storia, soprattutto nelle classi meno colte, nel mondo contadino, pastorale».
Quanto è attendibile un bambino di quattro o cinque anni quando racconta una violazione?
«Bisogna stare molto attenti al linguaggio dei bambini. I bambini non inventano, come si è soliti dire. Descrivono con il linguaggio che hanno a disposizione, fatti reali. Perché per inventare devi essere così adulto da avere una doppia coscienza. Mentire vuol dire sapere qual è la verità e inventarne un'altra. Un bambino non controlla neppure lo scenario reale. E quindi dice la verità con il linguaggio che ha disposizione, che è il linguaggio delle favole. O il linguaggio non verbale: i suoi lunghi silenzi, il pianto improvviso».
Da che età il bambino comincia a mentire?
«Intorno ai 5 o 6 anni».
E come è possibile non accorgersi in famiglia che il proprio bambino può essere stato molestato?
«È un processo di negazione. La famiglia, prima di accettare un evento rispetto al quale non c'è rimedio, cerca di negarlo. E non si verifica solo nei casi di pedofilia. Ma anche nei casi di droga, di alcolismo, e via dicendo».
Nella modernità in cui siamo immersi non c'è anche un aspetto voyeuristico paradossale? A cominciare dai pedofili che non fanno altro che scambiarsi video pornografici e si limitano a questo?
«Questo è un fenomeno nuovo, grazie a Internet soprattutto. Io distinguerei tra i pedofili "naturali" e i pedofili "indotti". Si produce moltissimo materiale video per un sacco di gente che forse pedofila non sarebbe diventata».
Certe perversioni senza questa facilità di diffusione rimarrebbero magari inespresse ?
«Probabilmente».
Ma stiamo ora parlando di voyeurismo, non di atti pedofili.
«Sì, il voyeurismo è una tendenza del nostro tempo. La sessualità oggi è spostata essenzialmente sul voyeurismo».
A Rignano Flaminio, la gente del paese è sconvolta. Se dovessero risultare veri i fatti contestati c'è lo sgomento di aver conosciuto quelle persone da sempre e aver scoperto che avevano un altro volto. Può accadere che da un momento all'altro si diventa quel che non si era mai stati prima?
«Certo, perché a un certo punto non si contengono più le pulsioni esistenti. Questo può avvenire per molte cause. Ma te ne dico soprattutto due: la noia e il denaro».
Il denaro può avere una forza così potente da passare sopra l'orrore della violenza a dei bambini?
«Sì. Se l'ossessione del denaro è forte, può fare questo è altro. Tenendo conto poi di un'altra cosa. Che si crede che poi i bambini possono dimenticare, che siccome sono cose che non capiscono, alla fine verranno superate, che il bambino neanche se ne accorge. Non è vero».
Mi sembri molto pessimista. Non c'è alcun modo per reagire a questi orrori, a questa pedofilia naturale e indotta così manifesta?
«Per prima cosa bisognerebbe ridurre l'esposizione della sessualità a livello mediatico».
Ma non suona un po' moralista?
«No. Questa continua esposizione della sessualità in televisione la rende una cosa banale. E dunque diventa necessario oltrepassare il confine della pulsione primaria».
Ma questa offerta di sessualità non ha a che fare con una domanda, come in tutte le leggi economiche?
«Ma anche la violenza ha a che fare con una domanda. Però c'è un tabù che limita l'aggressività. Nel profondo dell'inconscio ci sono aggressività e sessualità. La sessualità per procreare, l'aggressività per proteggere la prole. Se non poniamo limiti a queste pulsioni originarie e rendiamo la sessualità una cosa banale estinguiamo il desiderio delle persone. Perché un eccesso di sessualità riduce il desiderio».
E ridotto il desiderio che accade?
«Che dobbiamo cercare la perversione per eccitarci. E allora oltrepassiamo il limite, e il confine tra gesto sessuale e gesto trasgressivo diventa indistinguibile».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 29.4.07
Angius nel movimento di Mussi
Il 5 nasce «Sinistra democratica», in Parlamento gruppi autonomi
di Giuseppe Vittori


Il ministro della Ricerca: «Siamo viaggiatori liberi, dialoghiamo con tutti, ma vogliamo essere autonomi»

CANTIERI Angius starà nel movimento di Fabio Mussi. Insieme ieri hanno firmato un appello congiunto che è un po’ il manifesto del nuovo movimento. «Abbiamo condotto la battaglia congressuale all’interno dei Ds da posizioni diverse, ora ci troviamo insieme per affermare la necessità storica che anche in Italia oggi e domani sia presente un’autonoma forza democratica socialista, laica riformista e ambientalista parte integrante del Pse». Il nome del nuovo contenitore della sinistra è quello anticipato nei giorni scorsi, dopo la fuoriuscita dai Ds: “sinistra democratica per il socialismo europeo”. L’appuntamento è per il 5 maggio prossimo per la manifestazione costitutiva e l’obiettivo dichiarato è dialogare con tutti a sinistra, ma essere autonomi. «Noi - dice il promotore della seconda mozione - siamo come viaggiatori liberi, guardiamo in tutte le direzioni». Per ora arrivano segnali da Diliberto, dal congresso di Rimini, che ha manifestato grande interesse per un possibile più ampio progetto comune (la sinistra senza aggettivi, in pratica l’unificazione della sinistra radicale e di quella che non si riconosce nel partito democratico). Progetto ambizioso, ma anche molto lontano, a quanto pare.
Mussi infatti vuole andare per gradi e il primo passo è incardinare la nuova forza, creando autonomi gruppi parlamentari, distinti da quelli dell’Ulivo che, dice, «finora sono stati sterilizzati». «È da lì che si determina l’asse della coalizione», afferma il ministro dell’Università. In sostanza mani libere in parlamento sul piano delle proposte e dell’iniziativa. La lealtà a Prodi è fuori discussione, ma si sa cosa comporta l’obiettivo della visibilità: premier e maggioranza sono avvertiti. Tra l’altro in tema di mani libere Mussi ha avvertito che sulla questione morale il nuovo movimento sarà all’attacco. Ade esempio in Calabria. «Ora non abbiamo più i vecchi vincoli, parleremo fuori dai denti e se c’è metà consiglio regionale rinviato a giudizio, faremo nomi e cognomi».
Il tema più caldo è quello delle alleanze. «Tutti - dice Mussi - vogliono fare qualcosa con noi, ma noi non abbiamo un problema di corteo nuziale, dobbiamo parlare con tutti, ma evitare di farci stringere da qualche parte, che so con il partito dell’ambiente, con il Pdci, o con altri. Questa - dice Mussi - è la fase dell’autonomia e del dialogo, siamo appetibili perchè siamo gli unici che possono parlare contemporaneamente sia coi socialisti che con gli altri».
In effetti i messaggi dagli innumerevoli cantieri del centrosinistra non mancano. Pannella, ad esempio chiede a Mussi e Angius, in nome della battaglia per la laicità, di aderire alla sua manifestazione del 12 maggio a piazza Navona. E Mussi e Diliberto si parlano a distanza. «Qualcosa di nuovo può nascere - dice il ministro dell’Università - le affermazioni su una sinistra senza aggettivi mi sembrano rilevanti». Per Valdo Spini, in lizza per il ruolo di capogruppo del nuovo movimento alla Camera (ma il posto sembra destinato a Fulvia Bandoli), «è necessario che rimanga l’unità delle forze della sinistra che si riferiscono al socialismo europeo». Quanto a Cesare Salvi, che probabilmente sarà il capogruppo del movimento al Senato, auspica anche lui «una sinistra senza aggettivi», nella quale coinvolgere tutte le formazioni della sinistra, dal Pdci, a Rifondazione, allo Sdi e ai Verdi. Lo ha detto ieri con forza al congresso di Rimini e ha ottenuto un’ovazione. I cantieri non mancano e oggi Mussi sarà alla manifestazione dell’associazione di Pietro Folena «Uniti a sinistra».

l’Unità 29.4.07
Unità a sinistra. Diliberto dice sì a Salvi e Mussi
di Eduardo Di Blasi


IL PRESIDENTE del Senato Franco Marini arriva di prima mattina al Palacongressi di Rimini. E benedice il processo politico che il Congresso del Pdci, e il suo segretario Oliviero Diliberto, stanno portando avanti. Vale a dire quello di una proposta ai partiti della si-
nistra critica verso il Pd, di arrivare ad una unione «senza aggettivi», in cui ognuno possa rivendicare le proprie radici. «Apprezzo lo sforzo di coordinare una forza di sinistra - afferma Marini - va nella direzione della riduzione di una frammentazione eccessiva del sistema politico». Un'apertura importante, per chi, oltre a rappresentare la seconda carica dello Stato, è anche impegnato in prima persona nella costituzione del Pd, il soggetto politico che pur essendo naturale alleato di questa sinistra, viene confinato nel campo delle forze moderate. Deve, cioè, essere preso a paragone per poter affermare la distanza genetica tra una confederazione di partiti «ideologici» ma «senza aggettivi», e il partito, almeno tecnicamente, «nuovo». Ecco perché, dal palco di Rimini, la senatrice Manuela Palermi rivendica, applaudita, le proprie insegne (la falce e il martello) contro la proposta di Cossutta, il grande assente, che suggerisce di costruire un partito senza icone. E Marco Rizzo, applaudito anche lui, rivendica la propria ideologia: «Veltroni dice che essere di sinistra è stare con un bambino africano. Essere di sinistra significa anche capire perché quel bambino africano è in quelle condizioni, essere comunisti è provare a cambiare le condizioni di quel bambino. Il comunismo è morto, dicono. Ma perché se è morto ci rompono tanto le scatole?». Cita anche Fidel Castro, Rizzo, affermando che è merito suo se in America Latina sono nati i Chavez, i Morales, i Lula…
Letture geopolitiche a parte, il congresso del Pdci ieri è stato scaldato da altre aperture. La prima, arrivata da Roma, è quella di Fabio Mussi: «Le affermazioni su una sinistra senza aggettivi mi sembrano rilevanti. Io penso ad una sinistra larga. Si apre un processo lungo, ma se la direzione è quella giusta, si approderà».
La seconda, giunta forte e chiara alle orecchie dei delegati congressuali, è venuta a portarla il senatore Cesare Salvi. «Dobbiamo avviare subito il processo unitario. Subito. Senza perderci in formule o primati, ho proposto questo ho proposto quest'altro. Bisogna farlo innanzitutto, perch facendolo si capisce cosa abbiamo in mente. E noi abbiamo in mente tutti insieme queste due grandi parole: sinistra ed unità». Inutile sottolineare la standing ovation che è seguita. Salvi ha poi proseguito parlando degli operai («ci si ricorda di loro solo quando fischiano a Mirafiori»), di una legge immediata per prevenire gli infortuni sul lavoro, di Emergency e di Hanefi. Non sembra una lingua diversa da quella del segretario Diliberto, che, prima di chiudere, oggi, l'assise riminese, apprezza («un risultato straordinario»). E la platea con lui. Il 5 maggio, alla riunione della Sinistra Democratica di Mussi e Angius, ci sarà.

l’Unità 29.4.07
Coraggio laico contro Family day: la sfida del 12 maggio
Boselli invita alla contromanifestazione in piazza Navona. Intanto l’Agesci aderisce alla manifestazione contro i Dico


Il 12 maggio, a San Giovanni, per il Family Day «manifesterà la controriforma», a Piazza Navona, con la Rnp, ci sarà «la riforma». Il leader dello Sdi, Enrico Boselli, la mette così, nel presentare l'iniziativa che, insieme a Marco Pannella ed Emma Bonino, ha promosso per celebrare, 33 anni dopo, il «coraggio laico» (è questo lo slogan dell'iniziativa) della battaglia contro il referendum per la cancellazione della legge sul divorzio, nello stesso giorno in cui una piattaforma cattolica ha convocato il Family Day. «Mi auguro - dice senza mezzi termini Emma Bonino - che a questa giornata partecipino tutti coloro che non si rassegnano a vedersi scippato il 12 maggio». Pannella si rivolge poi direttamente a Gavino Angius e Fabio Mussi e li invita «a partecipare attivamente», a «spendersi» per il buon successo della manifestazione organizzata dalla Rnp. Dopo la fuoriuscita dai Ds, Pannella chiede a Mussi e Angius «sebbene impegnati a fare altro» di dar seguito «alle dichiarazioni di laicità fatte al congresso dello Sdi». «Una nuova “cosa” politica - dice - ha forse più successo se nasce direttamente nella lotta». Il 12 maggio, spiega Boselli, «non vogliamo fare una gara con l'altra piazza, semplicemente non lasciarli soli», dimostrare che «c'è un'altra Italia, quella delle conquiste civili». Il numero due dei socialisti, Roberto Villetti, parla della necessità di opporsi a quella che sembra voler essere «una vera e propria prova di forza da parte delle gerarchie ecclesiastiche», in un Paese come l'Italia, unico caso in cui «il Vaticano rivendica di fatto un proprio protettorato». Ma quella a difesa della laicità, osserva ancora, «non è una battaglia che si riferisce solo a coloro che non sono credenti, si tratta di una battaglia di libertà, che non vuole impedire nulla a nessuno». Con la Rnp, forse rivitalizzata e certamente cementata da questa occasione, in piazza ci saranno diversi partiti e associazioni, dai Liberali ai Repubblicani ai Verdi, dalle Famiglie Arcobaleno a Gay Left e diverse personalità del mondo accademico (da Margherita Hack a Gianfranco Pasquino) e del mondo dello spettacolo, da Luciana Littizzetto a Oliviero Toscani, passando per Giorgio Albertazzi, Pasquale Squitieri, Ferzan Ozpetek e Marco Bellocchio. Quest'ultimo, alla presentazione dell'iniziativa, si è detto «stupito e indignato» che «persone democratiche si oppongano a ovvietà democratiche». La manifestazione, comprenderà, oltre a un concerto a Piazza Navona anche un convegno, «Il mito della famiglia naturale: la rivoluzione dell'amore civile».
Ieri, dopo una lunga discussione l’Agesci ha deciso di sostenere il Family day. Lo ha anunciato la presidente Chiara Sapigni: «La famiglia è un tema che ci riguarda, anche in relazione alle difficoltà che hanno i nostri giovani a costruirsene una».

Corriere della Sera 29.4.07
Perché il tempo è inafferrabile
Un libro di Pietro Redondi
di Edoardo Boncinelli


Tutto avviene nel tempo, puntualmente e inesorabilmente. E il tempo non si può fermare. Quello passato, o perso, non si può recuperare. Quello che deve venire, verrà solo una volta, frettolosamente. Non avremo mai due volte la stessa età. Eppure noi non sappiamo dire che cosa è il tempo. Quello del tempo è uno dei concetti più sfuggenti e problematici che possano esistere, anche se, paradosso nel paradosso, abbiamo imparato a misurarlo con una precisione impressionante.
In questi casi non resta che tracciare una storia del concetto in discussione, per mostrarne le diverse sfaccettature, i diversi volti nelle diverse epoche, e lasciare magari che ognuno se ne faccia una sua idea. Questo è proprio quello che fa Pietro Redondi nel suo Storie del tempo
appena uscito da Laterza (pagine 391, e20). Un po' sussidiario — sontuosamente illustrato — un po' libro di lettura, per usare il linguaggio delle scuole elementari di una volta, il libro di Redondi ci offre una concreta possibilità di familiarizzarci con il concetto di tempo o almeno con le sue diverse visioni nella storia, in particolare nella nostra storia.
Il volume è infatti diviso in due parti: nella prima si fa una succinta ma sapida sintesi della storia del concetto di tempo dalla Bibbia e Platone ad Albert Einstein e Jean Piaget, nella seconda sono raccolti una ventina di testi originali di autori vari, tra i quali spiccano Aristotele, Sant'Agostino, David Hume, Immanuel Kant, Ernst Mach, Henri Bergson, lo stesso Einstein, Marcel Proust e il sociologo Norbert Elias. Il tempo ha una natura lineare e unidirezionale o circolare e quindi ciclica? In altre parole, gli intervalli di tempo sono consustanziali con il suo generico fluire? E ancora: è un contenitore vuoto o si identifica con la successione degli eventi che lo scandiscono? Trascorre continuamente o esiste immutabile? Gode di una realtà oggettiva o nasce almeno in parte dalla nostra percezione degli eventi e dalla nostra soggettività? Tutti i processi ritmici del mondo, dalla «ruota del vasaio» di Sant'Agostino ai nostri orologi, misurano la stessa cosa? E che cosa misurano? Queste sono solo alcune delle domande che si associano all'idea di tempo e alla sua problematica. E sono tutte domande prese in considerazione nel libro, tanto nella sua parte introduttiva, quanto nella parte antologica.
La narrazione dell'evoluzione storica del concetto di tempo offre moltissimi spunti interessanti. Una delle considerazioni che mi piacciono di più riguarda l'ingegnosità di Galileo nel cercare di oggettivare gli intervalli di tempo, «pesandoli». Nel suo studio sul moto di caduta dei gravi, di trucchi ingegnosi Galileo ne dovette mettere a punto diversi, a cominciare da quello, veramente geniale e innovativo, di farli scendere lungo un piano inclinato. Poiché la precisione nella misura del tempo era a quell'epoca piuttosto bassa, egli pensò di «rallentare» la caduta dei corpi, facendoli appunto scendere più adagio lungo piani inclinati aventi una diversa angolazione. Il fenomeno era però ancora troppo veloce per poter essere misurato con gli «orologi» del tempo e dovette ricorrere al trucco di pesare il tempo. Usò un recipiente contenente acqua con un piccolo foro sul fondo; raccolse in un bicchiere l'acqua che usciva durante un determinato lasso tempo e la pesò. A pesi uguali, tempi uguali, pensò. E il fatto di poter pesare il tempo, lo autorizzò e ci autorizza a far uso di qualsiasi altro metodo di misura più o meno spiccatamente artificiale.
Naturalmente il suo «orologio» funziona se si assume che l'acqua scorra sempre con lo stesso ritmo. E questa è una cosa da verificare, se si vuole essere più precisi. Ma ecco spuntare un altro paradosso della misura del tempo: ogni sistema di misura del tempo deve fare riferimento ad almeno un altro sistema di misura del tempo. E non esistono intervalli di tempo contemporanei, ma solo successivi; e così via, per l'eternità.
Ma se non sappiamo dire che cosa è, come siamo giunti a misurarlo con tanta precisione e a fare della misura del tempo che passa un elemento fondamentale e onnipresente della nostra vita quotidiana?
In un processo lento ma inesorabile durato qualche secolo, la misurazione del tempo è divenuta, almeno qui in Occidente, una scienza esatta e ha dato vita a una tecnologia sempre più sofisticata e affidabile. Ma perché proprio qui e proprio allora? Se lo chiede il nostro autore. È una domanda che ha avuto molte risposte, ma nessuna decisiva. Vale la pena di rifletterci.
Un tema approfondito da Aristotele Kant, Bergson e Einstein

Corriere della Sera 29.4.07
Una risposta a Ernesto Galli della Loggia sul rapporto fra storia d'Italia e terrorismo
Non c'è solo violenza nel nostro album di famiglia
Sbaglia chi riduce Risorgimento e Resistenza a fenomeni illegali
di Giuseppe Galasso


C'è una «presenza storica nella società italiana di un fondo di violenza duro, tenace, che da sempre oppone un ostacolo insormontabile alla diffusione della cultura della legalità»? E davvero gli italiani, «sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile», quale sarebbe il Risorgimento, se ne sono portati dietro «l'idea che a certe condizioni la violenza sia ammissibile, addirittura necessaria», cioè l'idea che «ha caratterizzato in modo netto tutte le moderne culture politiche» in Italia, dal socialismo massimalista al nazionalfascismo, al comunismo gramsciano e all'azionismo? E anche della Resistenza, fonte «della stessa legittimazione della Repubblica», si deve perciò ricordare il «mito rivoluzionario»?
Quel mito, con il quale, e «con la sua cultura, la democrazia da noi non ha potuto che vivere gomito a gomito, e spesso intrecciata»? Il che sarebbe tanto vero che, se non avesse fatto eccezione, «a livello di massa», la cultura politica cattolica, «è probabile che non ci sarebbe stata neppure l'Italia democratica che invece abbiamo avuto». E si spiega quindi, con questo «germe della violenza» che «l'Italia democratica porta in un certo senso (in un certo senso?, mi chiedo) dentro di sé, nella sua storia culturale e dunque nella sua antropologia accreditata», non solo il tenace allignare del terrorismo e del brigatismo evocato anche nelle recenti celebrazioni del 25 aprile, ma perfino il fatto che l'Italia sia «la patria delle più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea».
Confesso di essere rimasto più che interdetto a queste affermazioni di Ernesto Galli della Loggia nel suo fondo di venerdì, pur letto e riletto da me con la dovuta e meritata attenzione che porto a quanto egli scrive, anche quando ne dissento. Interdetto perché vedo qui davvero maltrattate — oltre tutto quello che a me, nel mio piccolo, pare possibile — la tradizione italiana e quella della libertà italiana. Questo mettere insieme con il terrorismo e con il brigatismo rosso, con la mafia e con la camorra, in un rapporto stretto di filiazione o di congenialità, il Risorgimento, la Resistenza, il socialismo massimalista, il nazional- fascismo, il gramscismo, l'azionismo, il liberalismo e la democrazia italiana, nel solco di un'unica vocazione configurata come un «carattere originale» (alla Marc Bloch) della storia nazionale, anzi come una sua «antropologia accreditata», mi pare inaccettabile e del tutto fuorviante. Oltre tutto, se ne potranno fare un vanto brigatisti e terroristi, mafiosi e camorristi, abilitati con ciò a presentarsi come esponenti e prosecutori di un tale «carattere originale» o «antropologia accreditata» della storia e della gente italiana.
La violenza? Ma essa è stata all'origine di tutte le democrazie moderne, da quella inglese (con le sanguinosissime e lunghe guerre civili del Seicento, l'esecuzione di Carlo I, la lunga oppressione dei cattolici, il frequente rischio della guerra civile nei primi tempi della rivoluzione industriale, e come fu in particolare fra il 1830 e il 1845) a quella francese (quattro rivoluzioni in meno di un secolo, la prima sanguinosissima, e così quella del 1870-71 con la guerra civile della «Commune», e lasciamo stare i violenti fermenti «fascistici» in tutto il Novecento). Giudicheremo con questo metro il Risorgimento, che fu molto meno sanguinoso e violento? Bisognerà allora condannare i movimenti e le rivolte di mezza Europa all'Est e all'Ovest per l'indipendenza nazionale? E la Resistenza? Solo «mito rivoluzionario»? Io non ho il «mito» della Resistenza, ma imputare a quest'ultima la violenza e la rivolta in presenza di un'occupazione militare dalla mano, diciamo così, non leggera, mi pare incredibile. E la libertà italiana dovuta alla cultura politica cattolica a livello di massa, anziché al liberalismo e alla democrazia che furono dei Cavour e degli Einaudi, dei Mazzini e degli Amendola, dei Turati e dei Saragat, tanto per fare qualche nome? Ricordo solo che la cultura cattolica a livello di massa è stata per molti decenni un ostacolo all'Italia liberaldemocratica, superato solo quando in quella cultura vi fu una piena accettazione del principio liberaldemocratico, con enorme guadagno dell'Italia e della sua libertà, ma forse anche dei cattolici. E ricordo pure che una certa sociologia cattolica è stata la matrice di un certo brigatismo (si pensi a Trento e a Renato Curcio, per un esempio). Ma basti qui (i motivi di tristezza della nostra vita pubblica sono già tanti!), anche se non posso fare a meno di pensare a quel che avrebbero pensato di questa visione del Risorgimento e del liberalismo italiano un Mario Pannunzio, un Rosario Romeo, uno Spadolini o un Valiani o cattolici come un Arturo Carlo Jemolo. Dopo di che sono del tutto d'accordo con Galli della Loggia sui blocchi di stazioni e autostrade e su altre amenities
della permissività di un conformismo populistico e demagogico (e di una certa inclinazione di larghi settori cattolici), che non ha nulla a che fare col liberalismo e con la democrazia.

Corriere della Sera Salute 29.4.07
Psicologi Una Carta per dare più garanzie ai pazienti
Patti chiari col dottor Freud
Nel «contratto» obiettivi, tempi, costi
di Maria Giovanna Faiella


Una Carta, per garantire i diritti dei pazienti nei confronti dello psicologo. Promossa dall'Ordine nazionale degli psicologi in collaborazione con 6 associazioni dei consumatori (Adiconsum, Adoc, Confconsumatori, Codacons, Movimento Difesa del Cittadino, Movimento Consumatori), entrerà in vigore il 1˚ luglio. «Vogliamo dare agli utenti informazioni chiare e trasparenti sui diritti e i doveri ( vedi sintesi, in alto) che regolano l'attività del professionista — spiega il presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi, Giuseppe Luigi Palma».
«Chi entra nello studio dello psicologo è un utente particolarmente fragile — aggiunge Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino —. Inoltre, la prestazione psicologica è tra quelle che più toccano la borsa del consumatore. Da qui, la funzione di tutela della Carta». È stato, così, concordato che, sin dalla fase iniziale del rapporto terapeutico, l'utente riceverà una copia della Carta dei diritti, del Codice deontologico e del tariffario degli psicologi e Gettyimages un vero e proprio contratto da parte del professionista. «La Carta è anche uno strumento per contrastare l'esercizio abusivo della professione e tutelare quindi la salute dei consumatori — sottolinea Palma —. L'utente, infatti, sarà sicuro di non imbattersi in presunti specialisti: chi aderirà alla Carta è iscritto all'Ordine e abilitato all'esercizio». Per i circa 60mila psicologi iscritti all'Albo l'adesione alla Carta è facoltativa. Chi la sottoscrive avrà una sorta di «bollino blu», garanzia di un rapporto terapeutico di qualità.

sabato 28 aprile 2007

La Gazzetta del Sud 28.04.07
Il delitto di Cogne. Dopo diciotto mesi e 22 udienze scritta la parola fine sul processo di secondo grado: la Corte non le ha riconosciuto la seminfermità
Pena dimezzata, 16 anni alla Franzoni Alla lettura della sentenza, non c'era. Il suo difensore: «Il dispiacere di Annamaria è enorme»
di Nicoletta Tamberlich


ROMA Dimezzata la pena ad Annamaria Franzoni, condannata in primo grado ad Aosta a 30 anni per la morte del figlioletto Samuele Lorenzi, di tre anni, ucciso il 30 gennaio 2002 nella casa di famiglia in frazione Montroz a Cogne. La corte d'appello di Torino le ha concesso le attenuanti generiche e l'ha condannata a 16 anni di reclusione. Dopo un anno e mezzo e 22 udienze è stata scritta così la parola fine sul processo di secondo grado, contro cui non farà ricorso il pg, a differenza della difesa. L'imputata, alla lettura della sentenza, non c'era. L'ha saputo per telefono. Il suo difensore: «Il dispiacere di Annamaria è enorme».
ANNAMARIA AI GIUDICI, SIATE GIUSTI – «Volevo dire, spero che siate giusti nel giudicare. Non ho ucciso mio figlio non gli ho fatto niente». Ieri l'ultimo appello ai giudici, tra le lacrime, per ribadire che non ha ucciso Samuele. Anche Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, per la prima volta ha pianto in aula. Le lacrime gli sono scese sul viso quando l'avvocato Paola Savio ha annunciato che era alla conclusione della sua replica. E ha continuato a piangere quando la moglie, Annamaria, si è asciugata gli occhi cercando di interrompere i singhiozzi, soffocati, ed è rimasta in silenzio, per qualche secondo, prima di proclamare per l'ennesima volta la sua innocenza.
SENTENZA – Poi la Corte presieduta da Romano Pettenati con il consigliere relatore Luisella Gallino e 6 giudici popolari, di cui 4 donne, si è riunita in camera di consiglio dove è rimasto chiusa per circa 10 ore. La Corte ha concesso ad Annamaria Franzoni le attenuanti generiche dichiarandole equivalenti all'aggravante che le era contestata, cioè quella di aver ucciso il proprio figlio. In tal modo la pena base è risultata di 24 anni, che è stata ridotta di un terzo, perché il processo è stato definito con rito abbreviato. Ai 24 anni ne sono stati dunque sottratti 8 e si è pertanto arrivati a determinare la pena in 16 anni. La Corte non le ha riconosciuto l'attenuante della seminfermità. Confermate le pene accessorie: l'interdizione dai pubblici uffici, lo stato di interdizione legale e la decadenza dalla potestà di genitore.
IL PG: COME UNA BIMBA CHE NON VUOLE AMMETTERE IL GUAIO – Nelle scorse udienze, in sede di requisitoria e di replica, l'accusa tenuta dal procuratore generale Vittorio Corsi aveva chiesto la conferma della condanna a 30 anni inflitta in primo grado. Annamaria Franzoni «è come una bimba che non vuole ammettere di aver combinato un grosso guaio», aveva affermato il pg. «Se confessa tutti le vorremo bene». Per Corsi, la Franzoni è colpevole: ha ucciso il piccolo Samuele «per un momento di discontrollo che può capitare a chiunque», per un black-out di «venti secondi dopo una brutta notte e un brutto inizio di giornata». Poi ha coperto il corpo con il piumone: un atto pietà, d'amore, o di rimozione, come «una bimba che ha rotto un vaso e cerca di nascondere il guaio».
Lo psichiatra esperto di «esordi psicotici» Francesco Riggio che rigetta concetti di stampo freudiano come rimozione o negazione, nel senso di bugia, ha spiegato: «Si può arrivare ad uccidere lucidamente e freddamente un bambino, un adulto e poi non crollare: sotto c'è la pulsione di annullamento, processo mentale con il quale, scomparsi gli affetti più profondi che fanno l'anaffettività, si toglie senso e significato alla vita di relazione umana.
LA DIFESA – Ma ieri è stato il giorno della difesa. L'avvocato Paola Savio, nel suo intervento, ha affermato che gli inquirenti non hanno fatto esaminare due macchie (chiamate traccia L e traccia 6 o «alfa 51») che «potenzialmente indicavano il percorso di uscita dell'assassino» dalla casa di Cogne. La Savio ha sostenuto anche che l'assassino di Samuele non indossava gli zoccoli di Annamaria e ha poi focalizzato l'attenzione su tre punti. In primo luogo il fatto che «non si può ritenere scientificamente provato che l'assassino indossasse il pigiama»; in secondo luogo «non si può ritenere scientificamente provato che l'assassino si trovasse sul piumone» e, terzo, «dalla tecnica del Bpa (Bloodstain Pattern Analysis) non si può ricavare la prova che l'assassino sia la madre». La Savio ha inoltre sostenuto che «l'altro grande assente è il movente: lo scopo punitivo non è sufficiente». Lapidario Carlo Taormina, difensore di primo grado: «è una soluzione errata, passa per elementi molto labili. Sarà una sentenza su cui la Cassazione potrà dire la sua».
FOLLA DI CURIOSI, INNOCENTISTI E COLPEVOLISTI – Anche per quest'ultima battuta del processo d'appello, il palazzo di giustizia di Torino è stato preso d'assalto da una folla di curiosi: alcuni si erano messi in fila fin dall'alba di oggi, provenienti da tutta Italia e addirittura dalla Svizzera. Per entrare hanno atteso ore davanti ai cancelli. Già alle otto, erano almeno cinquanta in coda stringendo tra le dita i biglietti numerati che erano stati distribuiti per rendere ordinato l'ingresso. Una folla composta da innocentisti e colpevolisti, anche se quelli che credevano nell'innocenza della Franzoni erano in maggioranza.

Agi 27.4,07
Cogne: lo psichiatra, il caso evidenzia una pulsione di annullamento

Roma, 27 apr. - Si puo' arrivare ad uccidere lucidamente e freddamente un bambino, un adulto e poi non crollare: sotto c'e' la pulsione di annullamento, processo mentale con il quale, scomparsi gli affetti piu' profondi che fanno l'anaffettivita', si toglie senso e significato alla vita di relazione umana. È quanto ribadisce lo psichiatra esperto di 'esordi psicotici' Francesco Riggio che rigetta concetti di stampo freudiano come rimozione o negazione, nel senso di bugia.
"Rimozione? Non dice nulla - spiega lo psichiatra romano di Villa Armonia Nuova a Roma - serve ad indicare al piu' lo spostamento fisico di un oggetto nello spazio. Negazione come bugia? E' un modo d'essere della veglia che lo stesso non dice nulla. Viceversa la pulsione di annullamento, che e' fare inesistente quanto e' esistente, la vita di un bambino o di un adulto, ci fa capire quel che accade in una persona normale ma anaffettiva, lucida e fredda, che riesce a mantenere un congruo rapporto con le cose e gli oggetti".
Insomma, il caso Cogne, evidenzia, porta alla luce quanto la psicoanalisi prima e la psichiatria organicista poi non hanno mai scoperto: la pulsione di annullamento e l'anaffettivita', che, conclude lo psichiatra romano, sono alla base della teoria della nascita di Massimo Fagioli, illustrata fin dal 1971 in 'Istinto di morte e Conoscenza', di cui sabato scorso e' uscita la dodicesima edizione. Pat 272150 APR 07

Agi 26,4.07
Asilo Rignano: lo psichiatra, un pedofilo lede la bellezza del bambino
Roma, 26 apr. - Chi e' il pedofilo, un orco, un sadico o un violentatore e perche' prima ricopre di attenzione un minore indifeso, non pronto alla sessualita' e poi lo violenta? "Ma quale orco o mostro che dir si voglia! Il pedofilo e' un perverso, un malato mentale che con lucidita' e freddezza lede la bellezza e la vitalita' di un bambino, il divenire del bambino".
A parlare della tremenda vicenda di Rignano Flaminio e' lo psichiatra Francesco Riggio, esperto di 'esordi psicotici', che rigetta l'idea, "di stampo freudiano", osserva, del bambino che inventa e dice bugie.
"Il bambino non sa mentire diversamente da un adulto come ad esempio il Padre della Psicoanalisi che - spiega lo psichiatra - nonostante avesse assistito all'esame autoptico di bambini prima violentati e poi uccisi, disse che il trauma non c'era stato e la seduzione era stata una totale invenzione delle piccole vittime: da qui derivo' la falsa tesi del bambino polimorfo e perverso che piu' tardi fu ripresa da uno dei profeti del '68, Michel Focault che sostenne la non punibilita' dei pedofili in quanto i bambini sarebbero consenzienti e capaci di sedurre un adulto".
Viceversa, "in queste persone che circuiscono per ingannare, non c'e' amore e non c'e' neanche odio ma c'e' la tendenza lucida e fredda a distruggere le qualita' umane di un bambino: il loro obiettivo appunto e' distruggere, perche' insopportabili, la bellezza, la vitalita', pulizia, la fantasia di un bambino".
La differenza con il sadico e' quindi rilevante. "Si', il sadico c'e' in quanto c'e' il masochista - risponde Riggio - in quanto, usando un potere, una posizione di forza, mira a far sta male, a far soffrire chi non sopporta e spesso e' una donna". Il pedofilo, insomma, ha in se una patologia seria: "il bambino va amato non toccato". E a volte, "se e quando il pedofilo arriva ad uccidere la vittima - conclude Riggio - lo fa con una sorta di emotivita', in verita' fredda e lucida: sa bene quel che fa, ha la piena facolta' d'intendere e di volere come prevede il codice penale, ma ha tolto con l'atto il senso e il significato alla vita dell'altro". (AGI) Pat 261710 APR 07

Agi 28.4.07, ore 16
COGNE: FAGIOLI, I GIUDICI HANNO INTUITO UNA GRAVE MALATTIA MENTALE

(AGI) - Roma, 28 apr. - Non è il delitto di un normale criminale né un raptus per stato confusionale o attacco di rabbia e odio, ma un atto efferato, freddo, lucido, calcolato e dovuto ad una gravissima malattia mentale: questo a interpretare la sentenza i giudici pare lo hanno intuito anche per la reazione anaffettiva tanto da aver ridotto la pena da 30 a 16 anni. È quanto sostiene lo psichiatra Massimo Fagioli, al termine della quinta lezione tenuta davanti ad alcune migliaia di persone e studenti all'Aula Magna dell'Università di Chieti. "Alla base di atti così efferati compiuti da persone perfettamente normali c'è l'anaffettività dovuta alla pulsione di annullamento che a sua volta - spiega lo psichiatra - porta all'anaffettività, per cui un bambino può esser buttato come fosse un telefonino tanto come il telefonino si può ricomprare così un bambino si può sempre rifare". Ed è quanto accaduto alla protagonista di Cogne. "Più si è anaffettivi e più si procede con la pulsione di annullamento che - precisa ancora l'autore di 'Istinto di morte e conoscenza', giunto alla dodicesima edizione dal 1971 - rende sempre più anaffettivi: e la pulsione di annullamento è più o meno grande da determinare la non esistenza degli altri fino a portare ad atti tanto efferati quanto lucidi e freddi". Finiti nel vortice anaffettività-pulsione di annullamento si perdono piano piano gli affetti più profondi, oltre la rabbia e l'odio? "Sì perché si fa il vuoto affettivo totale e - risponde lo psichiatra - si struttura il pensiero nazista di Heiddeger per cui gli altri esseri umani si eliminano rendendoli non esistenti, mai esistiti". E Samuele, in altre parole, non è esistito prima e poi mai esistito? "Non c'è l'affetto corrispondente al non sono stata io", conclude Fagioli. Pat 281510 APR 07 Cli

Repubblica 28.4.07
Il Pdci riabbraccia Bertinotti
Diliberto: unire la sinistra. Aperture a Rutelli, Fassino assente
Aperto ieri a Rimini il congresso dei Comunisti italiani
di Umberto Rosso


RIMINI - Oliviero Diliberto che lo saluta dal palco, grazie di essere qui carissimo compagno Bertinotti. Lui, all´inizio a disagio, poi si scioglie al calore degli applausi, e alla fine proprio si commuove. «Sono il presidente della Camera e non faccio commenti politici sulla relazione del segretario del Pdci. Però, questo sì, ringrazio tutti per l´accoglienza che il congresso mi ha riservato». E sono abbracci, baci, strette di mano, pacche sulle spalle, tutto un Fausto ciao, Fausto ti ricordi di me, presidente come stai, è bello rivederti. Un ritorno trionfale. La strada del Pdci e quella di Rifondazione, nove anni dopo la scissione, tornano ad incrociarsi. Quasi come se, in diretta, sotto gli occhi del migliaio di delegati, prendesse magicamente corpo quella riunificazione della sinistra anti-Pd che è la proposta che Diliberto rilancia, «una confederazione della sinistra, senza aggettivi, senza abiure, perché ogni aggettivo indica una simbologia, un vissuto, un´appartenenza». Ma il cammino è tutt´altro che facile. Schierato, giusto di fronte alla gigantesca falce e martello che domina la scenografia, c´è mezzo governo, Prodi in testa. Rutelli, Parisi, Santagata, Bianchi, c´è Boselli, Russo Spena, Epifani. Tutti in piedi per la standing ovation al nome di Antonio Gramsci (esattamente ieri i settanta anni della morte). Ma non c´è Piero Fassino. Non ci sono leader di primo piano del suo partito. La delegazione è guidata dal responsabile organizzazione Orlando, «il segretario era impegnato altrove - spiega - ma noi siamo qui per poi riferirgli tutto sui lavori». I comunisti italiani però si sentono snobbati e si arrabbiano. Pare che il grande gelo sia sceso dopo il commento di Diliberto al congresso di Firenze, quando disse «mi sento triste, perché i Ds hanno perduto la s di sinistra». Il capo della Quercia non ha gradito. Ma ora però dalla tribuna di Rimini il segretario del Pdci gli notifica un secondo, duro messaggio. «Il Pd inevitabilmente marcia verso una deriva moderata. Un partito di centrosinistra che guarda al centro, perfino il contrario di quel che fece la Dc. Se così è, il nostro interlocutore sarà un moderato». Chi? Sta seduto in prima fila, si chiama Francesco Rutelli. Al quale appunto il capo dei comunisti italiani riserva prima - aprendo il congresso con alla spalle tutta allineata come ai vecchi tempi la nomenklatura del suo partito - un caloroso saluto, e poi a sorpresa un´apertura di credito: «La Margherita ha presentato una proposta sull´Ici e sugli affitti che apprezziamo. Vogliamo perciò confrontarci con rispetto». Un nuovo schiaffo a Fassino. Diliberto accetta la sfida delle riforme, «ma occorre dire di quale riforma si tratta e favore di quale ceto sociale, altrimenti non vuol dire nulla», ma come sponda si sceglie la persona che a suo giudizio rappresenta la vera anima moderata del Pd.
Rutelli ricambia la cortesia, «interessante il riferimento alla necessità di recuperare a destra i consensi di elettori insidiosamente attratti dal populismo dei conservatori».
Ma Diliberto chiede garanzie al governo. Sulle pensioni, i salari e la scuola. Sul taglio degli stipendi per gli alti manager. Sull´intervento pubblico per Telecom, «è un dovere quello di prendere posizione, non solo un diritto». E soprattutto sulla legge elettorale. Capitolo sul quale, fatta salva la confermata lealtà Prodi, Diliberto si "mastellizza" contro il referendum e le soglie di sbarramento. Il Pdci è disposto solo a ragionare sul modello delle regionali messo a punto dal ministro Chiti. «Il governo non ceda alla sirene tentatrici. Qualcuno vagheggia di eliminare per via amministrativa alcuni partiti che evidentemente danno fastidio, con soglie di sbarramento per l´oggi o per il domani. E´ inaccettabile». Prodi parla e rassicura. Il Pd non sarà moderato. Lo conferma anche Arturo Parisi, «nessuno lavorerà per dividere il centrosinistra». Il leader del Pdci così si sente più garantito. Ma oggi arriva Franco Marini, l´uomo che al congresso della Margherita ha suonato l´ultimo giro di campanella per la sinistra radicale nell´Unione. Intanto, alla fine della prima giornata dei lavori, il congresso registra qualche piccolo passo avanti sulla strada della riunificazione a sinistra.
«Parliamone, c´è qualche accento diverso rispetto al passato - commenta il leader dello Sdi, Enrico Boselli - anche se le parole di Diliberto confermano che esistono sempre due diverse sinistre».

Repubblica 28.4.07
Ovidio, Euripide e l'Eros
Due studi sul tema del desiderio
di Nadia Fusini


Il testo originale e le nostre tentazioni
Le Baccanti una storia simile a un abisso
Ogni epoca crede di reinventare nuovi intrecci e nuovi contratti tra gli amanti
Il poeta latino coglie nella passione amorosa l'essenziale doppiezza e problematicità
Il saggio di Massimo Fusillo su Dioniso e quello di Victoria Rimell sugli "Amores" affrontano il mondo classico per trovarvi rimandi precisi al nostro Novecento

Da un po´ di tempo, confesso, non riesco a leggere un libro alla volta, ne leggo almeno due. Per voracità? Si, forse: sono stata sempre golosa di libri. Ma credo sia più vero riconoscere che a muovermi è l´angoscia del tempo che resta, la paura di non riuscire a leggerli tutti i libri che sono già stati scritti, e quelli altrettanto copiosi che vengono pubblicati ogni giorno. Non che valga la pena, poi rifletto, leggere tutti i libri in tempi in cui un criterio di mercato rozzo, ignorante, battezza col nome di libro merce a volte troppo estranea.
Ma quando leggo, spesso ho fortuna; una specie di sesto senso mi guida verso i libri veri, come in questo caso, quando quasi senza accorgermene, per una specie di scelta involontaria, mi sono ritrovata tra le mani un saggio di Massimo Fusillo su Dioniso, dal titolo Il dio ibrido (Il Mulino, pagg. 261, euro 23), e uno di Victoria Rimell, dal titolo Ovid´s Lovers (Cambridge U. P., pagg. 235, 50 sterline, o 106 euro da Tombolini).
Sono due giovani e prolifici studiosi del mondo classico che con agio si muovono tra idee moderne: il primo più della seconda interessato a stringere legami teorici con la contemporaneità. Mentre la seconda privilegia la centralità dell´immaginazione poetica (miracolosa e, come sappiamo, very sexy in Ovidio), e si stringe al testo originale in un corpo a corpo affascinante, il primo invece cerca tracce e rimandi, echi e variazioni dei temi che si annidano in quel testo sublime, Le Baccanti, e da lì irradiano investendo in particolare il Novecento.
In entrambi i casi, tanto in Ovidio, che in Euripide, a tema - ci convincono i due studiosi - è il desiderio, qualcosa di cui non smetteremo di parlare mai: un tema universale, in altri tempi si sarebbe detto. Ma anche e soprattutto un tema che ci troverà sempre impreparati, quand´anche riuscissimo a tenere a mente l´infinità di figure che poeti e scrittori celebrando le sue gesta hanno inventato.
In fondo, ogni epoca crede di reinventare nuove pose e posture, nuovi intrecci e nuovi nodi, nuovi contatti e contratti tra gli amanti - e in verità di intenti si dispone a reimmaginare il modo del loro incontro. E´ accaduto senz´altro nella fin de siècle che ha aperto sul Novecento, sta accadendo nell´inizio di millennio che viviamo adesso. A Vienna scoppiò l´incendio, lì risuonò lo sparo di Weininger, lì Freud svelò la sessualità fin nell´infanzia, e fior di scrittori si dedicarono a comprendere di nuovo e dunque ridefinire che cos´è un uomo, che cos´è una donna, che cos´è la sessualità, che cos´è il matrimonio, che cos´è l´amore.
Oggi, se si discute di Pacs e di Dico, è perché altre figure di amanti prendono la scena. Come si ameranno, è tutto da vedere. Come si congiungeranno, quali saranno le loro ebbrezze, qualcuno lo descriverà. C´è forse chi lo sta già facendo.
Leggendo questi due saggi, che intrattengono con la tradizione un rapporto ricco di aperture sul presente, intendevo prepararmi ad affrontare i tempi, a sostenere i mutamenti epocali, che certo non basterà una legge a registrare. Mi sono serviti? Si. Tutti e due in modo diverso.
Il libro di Victoria Rimell mi ha fatto riscoprire in Ovidio una voce complessa e originale, che nei testi elegiaci come nelle Metamorfosi immagina una relazione tra uomo e donna, maschio e femmina, l´io e l´altro davvero metamorfica. E non perché Rimell invochi i concetti abusati e postmoderni di ibridismo, maschera, travestitismo eccetera, eccetera, ma perché con eleganza e sapienza ci educa a leggere in Ovidio come egli colga della passione amorosa l´essenziale doppiezza e problematicità. A dimostrazione che aldilà e oltre il sesso, inteso come genere, si pone la questione.
E poi mi ha incantato il modo in cui la studiosa inglese lega nel poeta la dimensione erotica a quella dell´immaginazione, guidando il lettore alla conoscenza di una verità importante: non c´è poeta che alla fine non goda nella lingua, e della lingua. Lingua che nella versione inglese, dovuta alla stessa Rimell, suona viva, mobile, prensile, ironica; quasi che l´inglese traducesse meglio di ogni altra il latino.
Insieme più lontano e più vicino, sempre sul tema dell´amore, della sessualità e delle sue forme per l´appunto dionisiache, ci porta a riflettere Massimo Fusillo nel suo libro denso, colto, ipersensibile alle vicende della modernità. E giustamente, visto che ci invita a seguire le epifanie novecentesche del dio. Epifanie che folgorano più sulla scena teatrale, che nella pagina scritta.
Indimenticabile (cito quello che ho visto, perché l´epifania è un´esperienza della visione, non si può avere per sentito dire) Marisa Fabbri diretta da Ronconi a Prato nel ‘77, la quale si farà, per volontà del regista, interprete di ogni conflitto, sarà Dioniso e Penteo, e insieme tutte le Baccanti. In sé raccogliendo ogni tensione.
Proprio in questa intuizione brilla l´intelligenza viva di chi - il regista, che non è un critico - in un solo gesto coglie l´ombelico di un testo abissale per profondità come Le Baccanti e lo apre, lo dispiega: in sé ogni individuo, in sé, ripeto, non come classe né come genere, ma come individuo, è segnato dalla divisione; ognuno di noi è Penteo e la Baccante e il coro.
Il fine dello studioso Fusillo è quello di riattraversare (in pagine fitte di rimandi e saldamente radicate nella conoscenza del testo greco e capaci al tempo stesso di confrontarsi con media diversi, e penso al cinema), di riattraversare, dicevo, e qui cito dalla quarta di copertina: «le diverse esperienze dell´immaginario contemporaneo, dal neopaganesimo alle teorie sull´identità sessuale, dalle performance del post-human alla sperimentazione teatrale». Io gli sono andata dietro ed è stato un viaggio movimentato, ricco di panorami e vedute emozionanti.
Alla fine del quale viaggio, dirò che in genere ho notato che più si accetta la distanza, più l´intelligenza (non solo l´erotismo) cresce. Più ci si appropria di un testo per interpretare i proprii bisogni o pii desideri, più l´intelligenza del medesimo scema. E scema l´interesse dell´interpretazione. Pretendere che Dioniso faccia da mascotte alle confraternite queer o gay, pretendere che Dioniso con le sue baccanti abbiano anticipato i costumi sessuali contemporanei riduce fortemente l´intelligenza del testo originale.
D´accordo, un testo per sopravvivere dovrò accettare di essere manomesso, se non manipolato, se non stuprato, violentato. In fondo, nel caso delle Baccanti, siamo proprio in tema. Ma c´è, mi domandavo leggendo, ancora chi crede all´uso della letteratura come specchio? dei tempi, delle brame?
C´è ritorno e ritorno: Fusillo sarà d´accordo con me, penso. E anche se più di me benevolo nell´accoglienza di quel «dio del ritorno» per eccellenza che è Dioniso, converrà con me (e con un certo Marx) che se la prima volta è tragedia, la seconda può essere farsa. O con Ernest Jones, che se non è il ritorno di «a buried desire», di un desiderio sepolto, dov´è il pericolo? O con un certo Bataille, che Dioniso non è il dionisismo, né l´erotismo una teoria del godimento con un organo, piuttosto che un altro.

Corriere 28.4.07
UNIONE / Bersani si candida per la leadership del Pd: sono a disposizione, da uno a cento
Bertinotti «investe» Veltroni: «Lui può essere il leader»
«Rappresenterebbe bene il bisogno di un ricambio generazionale» Ovazione alle assise Pdci, il segretario lo abbraccia: caro compagno
di Roberto Zuccolini


ROMA — Ciò che i compagni del suo partito, i Ds, e del futuro suo partito, il Pd, non hanno mai voluto dire ufficialmente, lo dice Fausto Bertinotti: «Walter Veltroni potrebbe essere il leader della coalizione». E spiega anche perché: «Penso da tanto tempo che ci sia bisogno nella politica italiana di un ricambio generazionale. Il processo di rinnovamento deve maturare, può essere fatto senza strappi, ma è necessario». E, poi, aggiunge, «ha fatto bene il sindaco di Roma». A dire il vero Bertinotti — che al congresso di Rimini del Pdci ha incassato un'ovazione e un «caro compagno» da Diliberto — intervenendo a R retroscena
su La7, si sofferma anche sulla formazione unitaria che potrebbe nascere a sinistra del Pd.
E non esclude che, a quel punto, Rifondazione Comunista potrebbe cambiare nome e simbolo: «A mio giudizio il suo mantenimento in vita è compatibile con il progetto, però decideranno i dirigenti del Prc». Ma è il tema della leadership a tenere banco fra i partiti dell'Unione.
Tanto che nello stesso giorno tra i Ds esce allo scoperto, con una vera e propria autocandidatura per il Pd, Pierluigi Bersani: «Io sono a disposizione. Assolutamente: da uno a cento». Il ministro per lo Sviluppo spiega anche le sue idee sulle tappe che dovrebbero portare alla scelta del leader.
E spinge per un'accelerazione, come aveva fatto il giorno prima Dario Franceschini della Margherita: «Tra le cose da fare subito c'è la scelta del meccanismo di partecipazione, dai voti alle preferenze, con il quale si possa eleggere il leader all'Assemblea Costituente della nuova formazione unitaria». Cioè il prossimo ottobre, molto prima di quanto abbiano previsto la maggioranza di Ds e Margherita, orientati sul seguente percorso: prima le primarie per la Costituente, poi il congresso nella prossima primavera e ad ottobre 2008 la scelta di chi guiderà il Pd.
L'accelerazione, si vede subito, è vista con sospetto da un buon numero di esponenti del futuro Partito democratico. Frena subito il dalemiano Nicola Latorre: «Il tema della leadership è intempestivo. Ogni giorno ha la sua pena: ora dobbiamo mettere tutte le energie per costruire il partito e raccogliere le adesioni. Dopo la nascita del partito ci porremo la questione del leader». E si protegge dietro la «bandiera» dell'attuale guida dell'Unione: «La figura deve essere una sola. Per ora il leader è Prodi: solo dopo arriverà il momento in cui si sceglierà una guida unitaria».
In altre parole, all'interno dei diessini la maggioranza non ha intenzione di esporsi con un nome, come fa invece Bertinotti con Veltroni, ipotizzandolo, di fatto, alla guida di tutta la coalizione di governo. Anche perché siamo solo all'inizio di un'aspra battaglia interna, senza contare che ovviamente all'argomento è interessata da vicino anche la Margherita. Non a caso proprio il presidente dei Dl, Francesco Rutelli, intervenendo a Radio Anch'io, si colloca dalla parte di chi frena: «Il futuro leader sarà eletto con una votazione che coinvolgerà molte centinaia di migliaia di persone, ma c'è tempo per farlo. E per fare tutto, meno che aprire adesso una gara».
Lo stesso pensa Sebastiano Vassallo, uno dei saggi che ha scritto il manifesto del Pd. Per diversi motivi, tra i quali uno che reputa non secondario: «Abbiamo oltre metà legislatura avanti a noi e, se scegliere il leader del Pd vuol dire individuare anche il leader della coalizione, farlo subito vorrebbe dire sconfessare Prodi nel suo ruolo di presidente del Consiglio». Giuliano Amato poi sposta il discorso allargandolo: «Non so chi diventerà leader del Partito democratico, ma so che non dovrà sintonizzarsi solo con gli iscritti ai partiti che hanno fatto i congressi delle settimane scorse, ma necessariamente con la più larga platea che parteciperà al processo costitutivo della nuova formazione». In altre parole, dovrà essere una personalità gradita anche fuori dai partiti.

Corriere 28.4.07
Fausto, dietro il sì a Walter anche il lancio di Epifani al vertice dell'area radicale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Raccontano che Piero Fassino vada a trovarlo molto spesso nel suo ufficio a Montecitorio. Con Massimo D'Alema, invece, il rapporto è conflittuale ma paritario. Del ministro degli Esteri il presidente della Camera Fausto Bertinotti ama dire: è il migliore, con lui si può discutere veramente di politica. Il che non vuol dire che poi l'ex leader di Rifondazione comunista non ami ricordare, quando parla con gli amici, di tutte le volte che D'Alema ha minacciato di distruggere il suo partito (dal 1998, anno della caduta del governo Prodi, al 2006 anno in cui Bertinotti soffiò la poltrona di presidente della Camera all'esponente della Quercia) senza riuscirci. Con Anna Finocchiaro i rapporti sono assai meno intensi. La capogruppo dell'Ulivo a palazzo Madama, comunque, ha un ottimo feeling con il presidente dei senatori di Rifondazione Giovanni Russo Spena, il quale comincia quasi sempre così i suoi discorsi: «Io e Anna».
E, comunque, nel gruppo del Prc a palazzo Madama, Finocchiaro ha un suo seguito.
Il Partito Democratico sarà pure la novità della politica italiana, ma chiunque aspira a diventare candidato premier sa che deve avere il "via libera" del Prc. E, quindi, di Bertinotti. Il quale Bertinotti, subirà anche la fascinazione di D'Alema, ma da uomo pratico ha capito che con Veltroni in campo ottiene due risultati. Il primo, scongiurare la prospettiva che la sinistra radicale alle prossime elezioni sia messa da parte grazie a un gioco di sponda con l'Udc. Il secondo, evitare la sconfitta elettorale dell'Unione. Perché che Veltroni piaccia, che nei sondaggi sia sempre al top, è un fatto che il presidente della Camera si guarda bene dal trascurare. Anche se una delle sue battute preferite è questa: Veltroni è bravissimo nelle orazioni funebri e nei discorsi alle cerimonie, D'Alema è bravissimo nei discorsi politici.
Del resto, è difficile dimenticare che nel 2001, quando l'Ulivo separò le sue sorti da Rifondazione (su cui gravava ancora il marchio d'infamia della caduta del governo Prodi), alle elezioni amministrative di Roma Veltroni aprì al Prc e cercò subito di coinvolgerlo. Tanto che Bertinotti, allora segretario del partito, annunciò: «Se l'Ulivo a Roma candiderà Veltroni noi diremo di sì e poi procederemo al confronto programmatico». Un'affermazione singolare per un politico che amava (e ama) dire che prima «vengono i programmi e poi gli uomini». Ma l'allora segretario del Prc si rendeva ben conto che con Veltroni il suo partito poteva rientrare in gioco e perciò si comportò così. Sono passati svariati anni, ma le condizioni politiche non sono troppo cambiate. C'è un Partito democratico in cui Franco Marini avverte che le «alleanze non sono eterne», strizzando l'occhio agli ex amici democristiani dell'Udc. C'è un Partito democratico in cui D'Alema, solo qualche mese fa diceva alla senatrice di Rifondazione Rina Gagliardi: «Per fortuna che ci sono i democristiani».
Di fronte a tutto questo, Bertinotti sa che il sindaco di Roma è la garanzia che non ci saranno scenari diversi dall'alleanza tra il Pd e la sinistra cosiddetta radicale. Perché è vero che D'Alema è «il migliore», ed è vero che Fassino è un alleato che fa «proposte importanti e ragionevoli, come quella di aprire in Afghanistan un tavolo della pace con i talebani», ma è anche vero che Veltroni, alla fine della festa, viene ritenuto da Rifondazione il candidato vincente, e, soprattutto, il candidato che non tradirà il suo mandato elettorale. Bertinotti, quando chiacchiera in libertà con i suoi, non rinuncia a indirizzargli ironiche punture di spillo. E certo non lo convince il fatto che in un afflato di "captatio benevolentiae" il sindaco vada in Malawi a inaugurare con cento studenti romani una scuola dedicata ad Angelo Frammartino, volontario vicino a Rifondazione, ucciso a Gerusalemme da un giovane palestinese.
Ma Veltroni, per Bertinotti, ha un vantaggio in più rispetto a quelli già citati: un buon rapporto con colui che potrebbe diventare il leader della sinistra che sarà, di quella federazione che il presidente della Camera immagina prossima ventura, alla quale è disposto a sacrificare il progetto della sinistra europea, e, forse, anche il nome e il simbolo di Rifondazione comunista. Con quel Guglielmo Epifani che ha rapporti strettissimi con Bertinotti (i due si vedono molto spesso) e che sarebbe l'unico, dopo aver lasciato la Cgil, a poter mettere insieme comunisti, ex Ds e forse persino i socialisti. Epifani, sì, perché Bertinotti ormai per sé immagina una strada diversa, più istituzionale. Ma esattamente come quel D'Alema a cui non darà l'appoggio per un'eventuale candidatura a premier, il presidente della camera ha ritagliato per sé un ruolo di king maker. E, allora, avanti Veltroni, per palazzo Chigi, e avanti Epifani per quella Epinay mitterrandiana che Bertinotti sogna per la sinistra italiana.

Corriere 28.4.07
Il Prc vuole fare il king maker
Il presidente della Camera gioca d'anticipo candidando il sindaco di Roma

di Massimo Franco


Il «voto» di Fausto Bertinotti per Walter Veltroni nuovo leader del centrosinistra è una mossa d'anticipo, destinata a spiazzare altri candidati; e soprattutto, a fare apparire lente e farraginose le procedure che i fondatori del Partito democratico, Ds e Margherita, stanno discutendo. L'idea che il successore di Romano Prodi sarà designato dal solo Pd, è scontata a metà. L'indicazione del presidente della Camera, nonché leader del Prc, dice che gli alleati avranno una parola decisiva nel «suggerire» il candidato; e che il limbo dei prossimi mesi espone il Pd alle incursioni esterne.
Colpisce anche che non sia più Prodi l'unico baricentro dell'Unione. Finora, l'attuale premier era stato voluto perché vincente; e perché evitava la competizione fra diessini ed era ritenuto garante dell'alleanza con l'estrema sinistra. Ma è stato lui ad archiviare la propria leadership per il futuro. E a Bertinotti non dispiace di investire il sindaco di Roma a «guidare una coalizione che unisca riformisti e sinistra radicale rinnovati». Veltroni «come altri, naturalmente», concede con un pizzico di diplomazia il presidente della Camera. Sa, infatti, che il numero degli aspiranti già sfiora la decina.
Si tratta di diessini ed esponenti della Margherita. E le loro mire scoperte spiegano perché, nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, abbia riesumato la finzione del «leader che già c'è, ed è Prodi». Temeva l'inizio di una guerra nel partito maggiore del- l'Unione. Basta pensare al segretario dei Ds, Piero Fassino, che ha ammonito a non scrivergli «il coccodrillo», ossia lodi postume: nel senso che le sue ambizioni rimangono intatte. O al ministro Pierluigi Bersani, disponibile «al cento per cento». O al presidente dei senatori dell'Ulivo, Anna Finocchiaro.
L'elenco non include i candidati «coperti», a cominciare da Veltroni; né dirigenti della Margherita come Rutelli, Parisi e Rosy Bindi. Ma se questo è lo sfondo competitivo, l'obiettivo di Bertinotti diventa più comprensibile. Esprimendo una semplice opinione, il capo del Prc entra nelle manovre per il dopoProdi. Tende ad influenzarlo. E opta per un Veltroni che ufficialmente non si è fatto avanti; eppure viene percepito come uno dei leader più forti, se non altro per la virulenza con la quale da settimane il centrodestra attacca a freddo il Campidoglio.
Ma prevale la sensazione di una strategia che punta a riplasmare la sinistra; e che, nelle intenzioni del presidente della Camera, assegna al Prc il ruolo di perno, insieme col Pd. Quando stimola le frange più radicale ad unirsi, Bertinotti pensa a questo; e gli applausi dei «compagni separati» del Pdci sono una risposta. E additando Veltroni come candidato-cerniera fra Pd e antagonismo, tenta di legittimarsi come king maker. Vuole esorcizzare «la deriva centrista», negata anche ieri da Prodi ma diventata un'ossessione: un chiodo fisso e comodo, al quale appendere i dubbi dei diessini in bilico. Per poi, magari, accoglierli nel paradiso bertinottiano.

Corriere 28.4.07
Il rapporto tra storiografia e finzione in un confronto a Milano con Pietrangelo Buttafuoco, Antonio Scurati e Alessandro Piperno
Narrare i fatti
Borges: esistono soltanto punti di vista Momigliano: ma la verità non si inventa


La posta in gioco di ogni discussione su «storia e narrativa» è molto alta. Si tratta o di arrendersi di fronte all'ondata che declassa la storiografia a mero racconto possibile, non molto distinguibile — tranne che per essere meno attraente — da qualunque narrazione che sia frutto di fantasia artistica, ovvero di fare quadrato intorno alla discriminante, comunque, della ricerca della verità: anche quando questa sia una verità parziale (e dunque, potenzialmente, una non-verità). Le conseguenze dell'una o dell'altra opzione sono molto chiare. Esse furono costantemente e reiteratamente messe in luce dagli storici: ad esempio da Tucidide nel suo proemio polemicamente incentrato sull'antitesi fra «verità» (che è frutto, come egli si esprime, di «indagine») e «narratività» (muthòdes); ma anche, al tempo nostro, da Arnaldo Momigliano nelle memorabili Regole del gioco nello studio della storia antica (1974); o, per fare un esempio ancor più recente, nel lavoro di scavo, empirico e teorico insieme, di Carlo Ginzburg (soprattutto nel volume del 2000 Rapporti di forza). La riduzione della storiografia a non più che «racconto possibile» comporta anche, specie là dove la battaglia è ancora aperta, una insperata mano a sostegno dei «negazionismi».
C'è un sofisma alla base di certi virtuosismi «relativistici», fondati sull'ovvio richiamo alla parzialità della documentazione archivistica accessibile. E certo, chi non è consapevole del carattere provvisorio della documentazione su cui qualunque storico, anche il più fortunato, costruisce il suo racconto? Ma questo non può esimere dall'accettare acquisizioni inconfutabili né impedirà di respingere le menzogne quando esse sono inequivocabilmente tali (e non ci sarà documento che potrà «riabilitarle»).
Dunque il problema è mal posto. Non si tratta di due possibili verità al paragone (quella storiografica e quella narrativa), ma, semmai, di come tener conto della insostituibile, sui generis, «verità» della narrativa. Certa grandissima narrativa del Novecento è stata, a pieno titolo, storiografia sul Novecento. Del resto il contributo, non necessariamente intenzionale, della narrativa alla «verità storica» risale di molto nel tempo, e forse appartiene ad ogni tempo: dall'epos omerico (che è anche storia) al romanzo di Grimmelshausen, a Cervantes, a Stendhal, a Manzoni, eccetera. Nel capitolo IX della prima parte del Don Chisciotte, Cervantes definisce la storia, intendendo beninteso lo scrivere storia, «madre della verità». «L'idea è meravigliosa — commenta Borges —: non vede nella storia l'indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne» ( Finzioni). La questione del tasso di verità presente nel tessuto narrativo di una pagina storiografica è, ab origine, il problema dello scrivere storia. Ciò vale già per Tucidide, che pure condanna gli «abbellimenti» dei poeti e dei logografi loro imitatori, e che, nondimeno, fa parlare direttamente i personaggi (come faceva Omero) e dedica un intero capitolo alla questione di come si è regolato nel riferire la parola dei protagonisti. Non lo fa per esibire la sua bravura oratoria, e comunque questo è un obiettivo secondario. È per lui una via d'uscita di fronte ad una aporia capitale e onnipresente per chi tenti di scrivere storia: quella inerente al nesso e alla sintesi fra le volontà dei singoli, di quell'insieme di singoli che sono le masse, e la volontà direttiva dei capi. È il problema, che si pone a lungo Tolstoj ( Guerra e pace), di quanto valgano i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia. E non a caso il suo «eroe» è Kutuzov, il quale si addormenta mentre i generali prussiani e austriaci disquisiscono a tavolino intorno ai piani di una battaglia che nella realtà sarà il frutto di miriadi di comportamenti individuali e del loro intreccio.
Tucidide si è trovato, raccontando la guerra e la politica, di fronte alla medesima questione: quanto pesano le volontà collettive nella determinazione delle decisioni. O meglio: come avviene che tante volontà individuali si fondono in una decisione collettiva, che qualcuno «interpreta» e gli altri accettano? Nella sua diagnosi è la volontà dei capi che conta, in ultima analisi, più di ogni altra. Ed è per questo che risolve narrativamente la questione ponendo al centro la parola dei leader, riscritta o parafrasata. Ma forse non era un'arbitraria prospettiva, una sopravvalutazione dell'efficacia dell'arte del discorso. Forse la prassi dimostrava che per lo più le cose andavano effettivamente così. E forse la polarità, senza mediazioni, tra capi e popolo era effettiva, non un ritrovato letterario per dare la parola solo ad alcuni. Siamo ancora una volta sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. E quando invece lo dicono resta in noi il dubbio: in che misura interferisce in queste descrizioni, non sempre frutto di autopsia, la componente retorica?
La componente retorica investe anche un altro aspetto, indissolubile dalla questione della «verità», e cioè il pathos. Un verso notevolissimo di Lucrezio dice che «a causa del tempo intercorso» noi «non abbiamo provato alcun dolore» per le carneficine del tempo della guerra annibalica (III, 832: nil sensimus aegri): non soffrimmo perché non c'eravamo. Per Lucrezio quello è un semplice tassello nell'incalzante ragionamento demolitore della credenza nell'immortalità dell'anima, ma tocca, sia pure di sfuggita, la aporia capitale della comprensione storica: essere scevro delle emozioni, e indenne dalle sofferenze è un vantaggio o non piuttosto un limite per capire «cosa veramente accadde»? La distanza temporale, di solito esaltata come matrice di equanimità, non è forse in ultima analisi un danno?
Gli effetti dell'accrescersi progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il tempo comporta per la conservazione dei documenti, tema che qui lasciamo da parte), specie se coniugati con la velocità della trasformazione di civiltà, possono risolversi in una totale estraneazione, e quindi incapacità di intendere il passato.
Anche di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere storia. Arte a praticar la quale l'atarassia senza passioni non è la migliore, ma forse la peggiore condizione. Sicché, il pathos narrativo (la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo) non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi. Erodoto, greco d'Asia divenuto poi partigiano di Atene e storico delle guerre persiane, parlava di un passato che egli non aveva visto, ma che sentiva ancora come presente.
In questo senso, e con l'abilità immaginifica propria dell'idealismo italiano, Croce poté efficacemente scrivere, al principio della sua Storia come pensiero e come azione (1938): «L'uomo è un microcosmo, non in senso naturalistico, ma in senso storico: compendio della storia universale».

Liberazione 28.4.07
Intervista all'ex esponente della minoranza ds: «Bisogna cominciare a lavorarci dall'alto -
coordinando i gruppi - e dal basso, coinvolgendo chi in questi anni s'è tenuto in disparte»
Salvi: «Il soggetto della sinistra?
Farlo subito e farlo plurale»
di Stefano Bocconetti


E' molto più che un sì. Se esistesse sarebbe un superlativo del sì. «Mi chiedi se sono d'accordo con l'idea di Berlinguer di un soggetto unitario della sinistra? Io dico che va fatto assolutamente. Subito. Senza perdere tempo a discutere di pregiudiziali, di collocazioni internazionali. Senza farsi irretire da dibattiti ideologici, burocratici. Bisogna farlo. Subito». Cesare Salvi, fino a ieri era nei diesse. Due congressi fa aveva dato vita d una componente - «Socialismo 2000» - che stavolta, invece, ha fatto gruppo col correntone di Mussi. Naturalmente, non entrerà nel piddì.

Salvi come ti immagini la sinistra prossima futura?
Io un'idea - anche abbastanza precisa - ce l'ho. Però, la tengo per me. Perchè penso che questo non è il momento delle formule. Non bisogna rivendicare appartenenze. Deve essere una fase in cui si costruisce.

D'accordo, riformuliamo la domanda: si costruisce cosa?
Un soggetto plurale. Un soggetto che, non ti suoni assurdo, si candida ad essere maggioritario.

Maggioritario? Non ti sembra di correre?
Se ci pensi uso altre parole ma credo di dire le stesse cose sostenute da Bertinotti quando ha parlato di "massa critica". Sì, io penso che oggi ci sia la possibilità di mettere assieme le parti di questa sinistra, fino ad ora separate. Parti che possono diventare rilevanti. Quantitativamente e qualitativamente. Nel senso che possono candidarsi a guidare una stagione politica. Possono candidarsi a vincere.

Perché secondo te oggi è possibile e ieri non lo era?
Per due ragioni. La prima è che non esistono più i ds. Che comunque esercitavano una forza attrattiva in settori della sinistra.

E' il tuo caso?
Sì, ho creduto a quell'esperienza. Ma ora i dirigenti dei ds hanno fatto una scelta - legittima, beninteso - di portare quel partito ad un approdo moderato e neocentrista.

Lo definiresti così: neocentrista?
La scelta è quella. Io da sette anni ero in minoranza in quel partito che non c'è più. Ed è da tempo che si manifesta una tendenza verso quella direzione. IPer esempio ancora non ho capito perché si sia dovuta interrompere l'esperienza dei "progressisti", del '95, inventandosi un'assurda differenziazione fra le due sinistre. Una tendenza manifestata da tutti i dirigenti. Pensa alle analisi di D'Alema, al suo progetto di modernizzazione senza aggettivi. Ora quel progetto è arrivato a compimento. Liberando, però, al tempo stesso risorse, energie. Potenzialità.

La seconda "condizione"?
Che oggi la sinistra, tutta, è al governo. E può incidere. Anzi, se mi permetti, deve cominciare ad incidere. Perché il rischio che vedo è che - passami la battuta - con Prodi la sinistra avrà difficoltà a sopravvvere.

Che vuoi dire?
Ma, insomma: la stragrande maggioranza del paese è per il ritiro dall'Afghanistan, è per aggredire il dramma della precarietà. Per far crescere la cultura, le università. Per tutelare chi muore sul lavoro. E non mi pare che il governo abbia fatto molto su questi temi. Ecco perché dico che bisogna fare presto. Russo Spena propone un coordinamento dei gruppi parlamentari? Facciamolo, adesso. Questo dall'alto. Mentre dal basso dobbiamo far crescere il progetto del nuovo soggetto plurale. Mobilitando quel popolo di sinistra che in questi anni è rimasto a guardare.

C'è un problema, però. Avete appena condotto una battaglia, nei ds, per impedire il distacco dal socialismo europeo. Il soggetto che immagini dovrà aderire al Pse?
Ti ho già detto che immagino, un soggetto plurale. Poi, vedi, il socialismo europeo è un corpo composito, dove coesistono le spinte più diverse. A me, socialista e perché no? socialdemocratico, interessa una battaglia per spostare a sinistra quel campo. Ma rispetto le identità di tutti. Pluralità è questo: nessuno deve chiedere. E poi lasciami dire una cosa...

Quale?
Che me interessa sviluppare una discussione non sull'adesione ad un gruppo, ripercorrendo la brutta storia voluta da Fassino e Rutelli col piddì. A me interessa discutere di cosa è il socialismo oggi. Di come si esercita una moderna critica al capitalismo, come si salvaguarda la natura, come si tutela il lavoro, cosa vuol dire laicità. Come si fa crescere la partecipazione, la democrazia. E come si fa crescere tutto questo in un progetto. Se vuoi un po' quel che fece il Pci...

Cos'è, nostalgia?
Non fraintendermi. Quella è una storia chiusa. Mi serviva solo come esempio, per dire che bisogna mettere in campo, oggi, valori, progetti, unità. Accettando, ecco una distanza decisiva con le passate esperienze, la diversità delle ricerche. Ma ti ripeto: partire subito non è una variante. E' la condizione per vincere.

Liberazione 28.4.07
Pdci, Diliberto: «Unificare la sinistra»
Standing ovation dei delegati per Bertinotti
A Rimini senza Cossutta il 4° congresso dei comunisti italiani. Il segratario: «Accettiamo la sfida
della nuova formazione. Il Pd guarda al centro». Prodi: «Non intendiamo escludere nessuno»
di Castalda Musacchio


Unificare la sinistra dopo il vuoto lasciato "a sinistra" dal neonato Partito democratico. E' questa la sfida lanciata dal segretario del partito dei comunisti italiani Oliviero Diliberto dal palco del quarto congresso del suo partito a Rimini. Una scelta simbolica di una città (Rimini) e di una data (il 27 aprile del 1936 moriva Gramsci il più citato nella relazione del segretario Pdci, ndr) per «avviare un processo che non sia la simmetrica riproposizione a sinistra di ciò che hanno fatto Ds e Margherita, bensì una costruzione "in progress" che tuttavia si dia una tempistica certa, non accetti dilazioni o freni espliciti o impliciti, dettati magari dall'evidenza dell'autoconservazione dei gruppi dirigenti». Dunque una mano tesa a tutti quei soggetti a quelle forze politiche al movimento che si riconoscano nella necessità di «fare massa critica». E non è neppure un caso che Diliberto citi esplicitamente un'espressione adottata dal presidente della camera Fausto Bertinotti. Pur qui a Rimini in veste istituzionale, in verità è proprio il presidente della Camera ad essere il più applaudito dai delegati del Pdci. E lo stesso segretario dei comunisti italiani non risparmia neppure un saluto affettuoso "saltando il cerimoniale" aprendo la sua relazione e rivolgendosi allo stesso Bertinotti come un «caro compagno». Un segno di disgelo, «la fine - commenterà poi lo stesso capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena - di un settarismo nei confronti di Rifondazione». E di fatto questo congresso sancisce perlomeno nella forma la voglia di un cambiamento strategico anche, anzi soprattutto, nei rapporti con Rifondazione.
I messaggi che Diliberto lancia dal palco rivolgendosi direttamente agli invitati presenti, accanto a Bertinotti lo stesso Prodi e Rutelli, sono dunque espliciti. «La priorità ora - sostiene il segretario del Pdci - è quella di cimentarsi in una strada di unità. Da qui nella fase nuova che si è determinata dalle condizioni oggettive che la suggeriscono anzi che la dovrebbero imporre, riproponiamo ai soggetti della sinistra, non solo ai partiti ma anche alle associazioni, alle organizzazioni dei lavoratori, ai giornali di sinistra, alle singole personalità, a tutti insomma, di iniziare finalmente a parlarci non più sul se, ma sul come procedere sulla strada dell'unità». Un percorso certamente difficile e tutto in salita ma ora un obiettivo prioritario. E proprio questo è l'invito che persino il grande assente da questo congresso, Armando Cossutta, non ha mancato di rilasciare in un'intervista al Riformista. E che lo stesso Diliberto ha fatto proprio.
La sfida come si diceva è dunque per «una sinistra senza aggettivi», perché questi potrebbero indurre alcuni a non aderirvi. Boselli, l'altro invitato "eccellente" al congresso del Pdci, annuisce. Del resto quell'unità si potrebbe significamente inseguire su alcuni temi portanti su cui c'è la sintonia politica: il lavoro e i saperi, temi portanti della relazione di Diliberto. E proprio perché «il partito democratico è un'altra cosa rispetto alla sinistra, è di fatto un partito di centrosinistra che guarda al centro».
La sfida è lanciata. Una sfida a cui è chiamato a replicare lo stesso Prodi che dal palco del congresso non può che rassicurare i delegati del Pdci come proprio il Pd non intenda chiudere gli spazi. «Il partito democratico - dirà Prodi - non divide, non impone guide moderate e inciuci». Eppure a sinistra del Pd "la sinistra" è in fermento verso la costruzione di un nuovo progetto che oggi si misura con la necessità di arrivare a delineare le fondamenta di un nuovo soggetto politico. «Oggi - commenta infine Russo Spena - si è compiuto un importante passo avanti. Occorre perseverare su questa strada, per dar luogo a un nuovo soggetto politico della sinistra, che deve essere la sinistra senza ulteriori aggettivazioni». «La relazione di Diliberto - dirà ancora lo stesso Claudio Grassi dell'area Essere comunisti di Rifondazione presente al congresso insieme a Michele De Palma - può concretamente aprire una stagione nuova nei rapporti tra il Pdci e Rifondazione comunista lasciando alle spalle le divisioni del passato». «Eppure - conclude Russo Spena - occorre continuare sulla strada del cantiere per far sì che si realizzi una grande e concreta innovazione politica».

l’Unità on line 28.4.07
Un appello di Mussi e Angius «Verso la Sinistra Democratica»
Il 5 maggio l'assemblea costituente
qui

l’Unità 28.4.07
COSSUTTA. Il segretario lo saluta, ma lui replica:
m’impegno a costruire una sinistra larga


Assente, e si sente. È il primo congresso dei Comunisti italiani senza Armando Cossutta. All’inizio della sua relazione il segretario Oliviero Diliberto saluta «Armando». «Sarebbe stolto e ingeneroso che noi non sottolineassimo che questo congresso - dice - è il primo che teniamo senza la presenza, per sua scelta, di un compagno al quale tutti noi, ed io in particolare, dobbiamo moltissimo. Questo compagno ha scelto di lasciare il nostro partito e non gli lesina certo aspre critiche. Io, viceversa, non intendo, come sempre ho fatto finora - e a questo criterio intende continuare scrupolosamente ad attenersi - minimamente polemizzare con lui. Da me, nei suoi confronti, non sentirete mai alcuna parola che non sia di riconoscenza politica e di affetto. Egli è stato il fondatore di questo partito e ci dispiace non averlo qui tra noi: ma continuiamo a dirgli, anche attraverso questa tribuna: grazie, caro compagno Armando Cossutta».
Lui risponde, asciutto: «Ringrazio il compagno Diliberto per le parole che mi ha rivolto e per l'applauso del congresso. Ai delegati rivolgo un saluto affettuoso. Naturalmente confermo la validità delle decisioni che ho assunto di uscire dal partito e di impegnarmi come sempre e, se possibile, anche di più per costruire una grande formazione unitaria della sinistra italiana».
Intervistato dal riformista, spiega: «Nel Paese c'è una grande domanda di sinistra. E, soprattutto, ci sono le condizioni per dar vita a un nuovo soggetto della sinistra. Io ci sono, muoviamoci subito. Mi rivolgo a Prc, ai gruppi di Mussi e Angius, al Pdci, ai Verdi: diamo vita a gruppi parlamentari unificati, facciamo una proposta seria sulla legge elettorale e, in Europa, cerchiamo un rapporto con il Pse». E la Costituente socialista avviata da Boselli? «Io non ho dubbi - risponde Cossutta - non ho difficoltà ad avere un rapporto stretto con Enrico e spero che lui non abbia problemi a stringere la mano a un vecchio comunista come me. In questo processo ci deve essere anche lo Sdi».

l’Unità 28.4.07
OCCHETTO. A sinistra del Pd si riparta dal riformismo


«Sì, sono d'accordo con Bertinotti: c'è bisogno di una grande rivoluzione culturale d'idee e progetti per aggregare assieme le forze che nella sinistra si trovano distanti dal Pd. Per parte mia dico: riprendiamo quel riformismo forte di tradizione socialista che ebbe in Riccardo Lombardi l'ispiratore e il grande protagonista». A parlare e dire «sono d'accordo» con Fausto Bertinotti («a patto che non sia un modo per gettare acqua sul fuoco per dilazionare i tempi»), è Achille Occhetto che annuncia: il 12 maggio prossimo si riunisce il «Cantiere» per discutere di politica e del futuro della sinistra. «Riprendere in mano e ripartire - osserva Occhetto - da quel riformismo forte, dal riformismo rivoluzionario di Lombardi può essere, anzi, è il punto di partenza per avviare una costituente delle idee, quella rivoluzione culturale necessaria per costruire qualcosa di valido nella sinistra».

l’Unità 28.4.07
Gramsci globale, la scrittura contro il potere
di Bruno Gravagnuolo


IL CONVEGNO Al via a Roma «Gramsci, le culture, il mondo». Un taglio «multiculturalista» che fa emergere l’attualità di un pensiero duttile e avvolgente dalla parte dei ceti subalterni

Una straordinaria macchina di pensiero contro la passività. Contro la subalternità dei dominati, ma anche dei soggetti individuali come tali. Nel vasto campo, nazionale e globale, segnato dai conflitti sociali per l’«egemonia». Ecco era questo il filo conduttore più insistente che affiorava ieri al Convegno della Fondazione Istituto Gramsci e della International Gramsci Society, di là del taglio «globalista» e «culturalista» dei lavori, pensati per questo settantesimo anniversario della morte del pensatore sardo.
Un modo nuovo e originale di ripensare il fascino di Gramsci, con l’assopirsi delle passioni ideologiche di un tempo, e però «paradossalmente» con una diffusione senza pari del suo pensiero nell’ambito più disparato degli studi e delle lingue, specie nel settore delle scienze sociali.
Sicché l’approccio «multiculturale», non riusciva a sbiadire il tratto gramsciano di cui sopra. Ma anzi lo esaltava. Ovvero: genealogia del dominio, storia dei dominati. E rovesciamento continuo del pensiero in una filosofia «anti-passiva». Quella che una volta si chiamava (Gramsci la chiamava così) «filosofia della praxis». Al servizio della liberazione delle classi subalterne. Nei contesti locali e geopolitici più lontani e interdipendenti. Dove i Quaderni del Carcere si studiano ormai come un classico vivo e operante.
E c’erano all’Istituto Sturzo di Via delle Coppelle 35 alcuni dei più insigni studiosi italiani e internazionali di Gramsci. Da Giuseppe Vacca, a Marcus Green, a Stuart Hall, a Ursula Apitzsch, Anne Showstack Sassoon. Mentre domani fino a sera vi saranno Guido Liguori, Joseph A. Buttigieg, Renate Holub, Derek Bothman, Abdeselamm Cheddadi, Peter Mayo, Iain Chambers e tanti altri. Piccolo inciso a pro del Gramsci. Bene che «l’Istituto Sturzo» abbia ospitato un Convegno così importante. Ma quand’è che il Comune di Roma manterrà la sua promessa di una sede propria e adeguata all’Istituto, visto che quella annunciata di Vicolo Valdina è stata poi assegnata al Senato? Una volta il Gramsci era un vero crocevia culturale e di «massa». Un archivio al servizio della città. Oggi al Portuense è un po’ ristretto e in penombra. Non sarebbe il caso che Veltroni ci pensi seriamente?
Ciò detto veniamo al Convegno. Multiculturale, s’è detto. E perciò India, Usa, Gran Bretagna, America Latina, mondo arabao, teatri di una diffusione editoriale senza pari. Mentre in Italia, a parte il Gramsci con le sue iniziative - in primo luogo la nuova edizione nazionale degli scritti - c’è come una coltre di oblio. Rischiarata di tanto in tanto da clamori mediatici su «complotti» e «infamie» varie di Togliatti. E così a parte la verità storica - Gramsci era sì fonte di imbarazzi politici negli anni ’30 ma fu Togliatti a salvarne i manoscritti - si perde l’essenziale.
È l’essenziale è proprio la lettura «molecolare» del potere gramsciana nei processi di modernizzazione. Vuoi dove la modernizzazione mancava, nell’Oriente «gelatinoso», vuoi dove era (ed è) guidata in chiave conservatrice e passiva dai vecchi ceti dominanti. Perciò la sua lezione affascina oggi studiosi indiani come Ranajt Guha, la cui relazione è stata letta da Paolo Cappuzzo, tra i massimi studiosi dei «cultural studies» gramsciani. E l’approccio di Guha sta proprio nel vedere come le classi contadine in India resistano oggi alla «globalizzazione», inventando forme produttive e distributive solidali compatibili col mercato e non marginalizzate, dopo aver resistito alla dominazione coloniale inglese, i cui moduli le nuove borghesie autoctone tentano di riprodurre (e ne ha parlato anche Sandro Mezzadra). E negli Usa? Veri cultori di Gramsci sono i «neocon», secondo un tema caro a Joseph A. Buttigieg, che parlerà domani del «Gramsci di Edward Said». Nessuno come loro infatti ha compreso che il dominio è un’architettura del consenso che si vale di «forme simboliche», nel momento in cui l’«egemonia» immateriale della nuova economia liofilizza singoli e aggregati di massa. Ecco perché i think-tank, le riviste come il Weekly standard dei Kristoll padre e figlio, i political consultants e quant’altro. Ed «egemonia», lo «spiega» bene il metodo di Guha, è stile, linguaggio, folklore, «posture», il gusto di massa. Insomma, è l’insieme delle forme di coscienza rapprese in simboli fin dalla favole infantili, che a Gramsci interessavano moltissimo. Qual è allora il programma di Gramsci, affidato come diceva Giorgio Baratta a una scrittura vitale e fulminea? Decostruire la morfologia del potere. I «cristalli» di senso comune indotto dai dominanti nei dominati. Che si tratti, come diceva Green, di contestare il positivismo di Lombroso - e oggi della sociobiologia! - o di sfatare il mito di un’economia liberista «naturale». Protagonismo contro subalternità. E contro il trasformismo che decapita la politica di sinistra, rendendola oggetto di egemonia e non il suo contrario. Eccolo l’assillo vero di Gramsci. Un Nietzsche delle classi subalterne, con il demone della politica.

l’Unità 28.4.07
A TURI Visita al carcere in cui fu recluso cinque anni. E un convegno sull’eredità politica e editoriale del fondatore dell’«Unità»
Nella cella dove nacquero i «Quaderni»
di Maristella Iervasi

Turi (Bari) è la cittadina pugliese nel cui carcere fu rinchiuso il fondatore del Pci e del quotidiano l’Unità, Antonio Gramsci (1891-1937). Proprio qui il grande filosofo, uomo politico e scrittore fu recluso dal regime fascista fino a pochi giorni prima della morte. E fu qui, da detenuto, che scrisse 21 Quaderni, letti in tutto il mondo. Non è dunque un caso che a Turi si sia svolta una delle più significative celebrazioni per l’anniversario della morte.
La giornata si è aperta nella sala conferenze della biblioteca comunale - inaugurata due settimane fa e che porta il nome di Antonio Gramsci, e dove è custodito il patrimonio librario fornito dall’Istituto Gramsci. Al convegno, L’attualità di Gramsci, erano presenti Nicola Michele Mazzarano, segretario regionale dei Ds, Dario Ginefra, segretario provinciale Ds, l’avvocato Gianvito Mastroleo, presidente della fondazione di Vagno, il professor Luigi Masella, presidente regionale della Fondazione Antonio Gramsci, il professor Vito Antonio Leuzzi, presidente degli Studi antifascisti, Antonio Padellaro, direttore de l’Unità e Nicola Latorre, vicepresidente dei senatori Ds.
Mastroleo nel suo intervento ha ricordato quando Sandro Pertini, ex presidente della Repubblica nel 1989 andò a Turi, per visitare la cella di Gramsci. Erano stati compagni di cella. «E fu un omaggio di commozione vera». L’attualità di Gramsci nella politica di oggi è stata invece sottolineata da Masella e Leuzzi. Mentre il senatore Latorre - che insieme con una delegazione dei Ds è entrato nel carcere, si è soffermato su alcuni aspetti fondamentali della lezione gramsciana: «Nei suoi scritti c’è una chiave di lettura, un’analisi che ci ha aiutato a rivedere e a ripensare le teorie della crisi - ha sottolineato -. La sua attualità si può ritrovare nel concetto di egemonia e nelle teorie sulla società civile e sulla subalternità».
Al convegno è intervenuto anche Antonio Padellaro, direttore de l’Unità. «I giornali - ha detto - non sono solo contenitori di notizie ma trasmettitori di memoria. E in un momento in cui la memoria storica della sinistra viene svalutata, occorre conservare il ricordo per difendere l’identità. Altrimenti si finisce in una nebbia indistinta, inaccettabile. Il tentativo di negare la memoria esiste. Occorre continuare a battersi - ha concluso Padellaro -. L’Unità lo fa, per un’esigenza di rispetto ai lettori e per la sua storia. La testata Unità è un monumento nazionale che non può essere intaccato».

l’Unità 28.4.07
ROMA Al Cimitero acattolico
Sulle sue ceneri rose rosse e pochi politici
di Gioia Salvatori

Sulle ceneri di Gramsci che ispirarono Pasolini, al cimitero acattolico di Roma, magre celebrazioni, ieri, per il settantesimo anniversario della morte del fondatore del Pci. Tra le tombe a un passo dalla Piramide Cestia, là dove sono sepolti anche Keats, Shelley, Von Humboldt, si sono visti solo pochi volti noti della sinistra: il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il capogruppo al senato del Prc Giovanni Russo Spena e l’assessore alla cultura della Provincia di Roma, ex sottosegretario, il diessino Vincenzo Vita. Per il Pdci da ieri impegnato a congresso, è andato a deporre una corona per conto della direzione nazionale, il segretario romano Fabio Nobile, giovedì sera. Non si sono visti segretari o ex segretari di partito, che hanno detto di avere Gramsci nel cuore, non ci sono stati discorsi commemorativi né altro genere di orazioni. Come ogni anno ogni partito ha deposto una corona di fiori e le rappresentanze di Pdci, Ds e Prc sono andate, come al solito, separate. Ci sono anche i fiori di Iniziativa Comunista.
La delegazione più numerosa è stata quella dell’Istituto Gramsci che, prima dell’inizio del convegno internazionale Gramsci, le culture e il mondo, si è recata con tutti i relatori, stranieri compresi, al cimitero acattolico. Con loro c’era anche il nipote del fondatore del Pci: Antonio Gramsci junior, musicista e residente a Mosca come il padre Giuliano. Immancabili il presidente dell’Istituto Giuseppe Vacca, e i due vicedirettori Roberto Gualtieri e Alberto Provanzini, Giuseppe Zucconelli, diessino, responsabile del cerimoniale e organizzatore storico dell’appuntamento del 27 aprile.
Ogni tanto, però, qualcuno dei pochi visitatori del cimitero si avvicina alla tomba, indicata dalle frecce fin dall’ingresso, e vi fa sosta. Uno studente di filosofia depone una rosa rossa. Poi è la volta di un adolescente della periferia romana membro di una «famiglia rossa di contadini e partigiani umbri»; non sta con nessun partito ma è giunto per salutare Gramsci «che sapeva combattere per ideali giusti».