NUOVA SINISTRA
L’appello di Giordano. Poi il 5 maggio la nascita di Sinistra democratica
di e.d.b.
La data non è stata scelta a caso. Il primo maggio, festa dei lavoratori, il segretario del Prc Franco Giordano pubblica su «Liberazione» un editoriale in cui propone «un patto di unità e d’azione sul lavoro» tra le forze che si collocano a sinistra del Pd. Indicando la strada da percorrere: «Dalla pratica dell’oggi la soggettività unitaria del domani».
Nel merito, Giordano, indica due temi in cui esercitare la pratica: «Saremo intransigenti nel difendere pensioni e salari nella lotta alla precarietà». E spiega: «Per troppo tempo Confindustria ha esercitato un potere di condizionamento molto grande, riproponendo per il nostro paese una logica di riduzione del costo del lavoro e di competitività di prezzo. la forma più incisiva per far vivere oggi una nuova sinistra è dunque quella di rimettere al centro il lavoro. allo stesso tempo approfondendo l’innovazione della propria cultura e pratica politica».Sempre restando alla «pratica», la prossima settimana (mercoledì e giovedì) ci sarà la prima riunione operativa del «patto di consultazione» tra i gruppi di Camera e Senato che si riconoscono nel nuovo progetto (Prc-Pdci-Verdi-Sd).
Sinistra Democratica chiederà di costituirsi in gruppo dopo l’appuntamento del 5 maggio al Palazzo dei Congressi dell’Eur. Da quel momento passeranno altre due settimane circa affinché il passaggio sia ufficiale. Frattanto si lavora assieme, anche per creare nelle realtà locali delle configurazioni simili a quelle che si creeranno in Parlamento. Non manca qualche precisazione. Chiarisce infatti Alberto Nigra, portavoce della mozione Angius al congresso Ds: «Dobbiamo evitare di commettere gli errori del Pd, di mettere in piedi un progetto già preconfezionato. È stata fatta una proposta per un “patto di consultazione” tra i gruppi di sinistra ma è bene discuterne perché lavoriamo ad un Ulivo della sinistra e non per un’izquierda unida». Uno dei temi in discussione è quello di lasciare aperta la porta allo Sdi. Proprio il segretario dello Sdi Enrico Boselli, sarà presente, assieme a Giordano e al segretario del Pdci Diliberto, all’assise dell’Eur.
l’Unità 1.5.07
Falce e martello infiammano solo Diliberto. I mussiani: siamo già ben oltre...
Un soggetto politico di sinistra e i suoi simboli. Rc ne discute il superamento. Russo Spena: «Anche se non ora». L’angiusiano Nigra: «Meglio la Rosa del socialismo»
di Wanda Marra
È ANCORA TEMPO di Falce e Martello? Diliberto è pronto a difenderlo con tutto il suo peso. Ma il resto della futura «Cosa di
sinistra» che dice? Il simbolo non è ufficialmente in discussione per Rifondazione comunista, che però, di fatto, l’ha già affiancato con la stellina della Sinistra europea. E se per i Verdi, nel nome di una pluralità arcobaleno, ognuno può farsi rappresentare dall’icona che preferisce, gli ex Ds guardano oltre e - in vista di una nuova soggettività politica - non vedono possibile che il simbolo sia quello che fu del Pci. Intanto la pubblicitaria Annamaria Testa avverte: «Difficile quantificare il peso elettorale di Falce e Martello. Quello che posso dire è che spero che i cittadini scelgano di andare oltre e di votare per i contenuti e i programmi».
«Ci terremo per sempre nome e simbolo», ha avvertito da Rimini il segretario del Pdci, rispondendo indirettamente anche a Armando Cosutta, che aveva consigliato di rinunciarvi (dopo che nell’89 aveva sbattuto la porta in faccia ad Occhetto in loro nome) perché «se dovessimo accettare l'invito, dovremmo dire che aveva ragione Occhetto e che potevamo risparmiarci la fatica di questi 20 anni». Invece, «abbiamo portato la Falce e Martello nel terzo millennio, chi ci avrebbe scommesso?». In casa Rifondazione, dove il nome comunista e la Falce e Martello, sono ad oggi una realtà identitaria non da poco, si usano toni più sfumati. Nessuno sostiene che si è sulla strada di abbandonarli, ma non sembra neanche che a questo punto ci sia un vero tabù in questo senso. «Per adesso stiamo andando verso un sistema aperto, composto di partiti e associazioni. E non sono in discussione né nome, né simbolo - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - dopodiché è chiaro che si tratta di un work in progress. Non mettiamo il carro davanti ai buoi». Il problema, in effetti, appare più ampio. Se Mussi l’ha detto chiaro e tondo che bisogna andare verso un «partito» molti dei protagonisti del Cantiere in movimento della sinistra parlano più indefinitamente di «nuova soggettività politica». «L’opinione di Mussi è un’opinione tra le altre- dichiara Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera - chi l’ha detto che si va verso un nuovo partito? All’ordine del giorno c’è una soggettività unitaria, le forme le decideremo insieme. L’autonomia politica di Rifondazione non è in discussione». Ma intanto, il Prc alla Falce e Martello ha già affiancato la stella rossa con tante stelline gialle della Sinistra europea. «Non si tratta di una scelta casuale - afferma Elettra Deiana - anche se non è aperta una discussione su nome e simbolo nel partito. Ma non mi stupirei se alla fine, invece di Falce e Martello, scegliessimo la stellina rossa». Se la cava dicendo, che la forma-partito tradizionale è ormai superata, Paolo Cento dei Verdi. «In un coordinamento plurale, ognuno può scegliere il modo che prefisce per rappresentarsi». Sembrano già ragionare in termini di simbolo unico gli ex diessini. «Falce e Martello, perché no? In fondo ce ne siamo separati non troppo tempo fa. Ma ho la sensazione che il simbolo non sarà quello», scherza Cesare Salvi (sinistra Ds). Mentre Katia Zanotti (area Mussi) spiega: «Una nuova soggettività politica ha senso solo se è innovativa per forme e contenuti». E Alberto Nigra, in quota Angius, è netto nel rimarcare le sue aspirazioni identitarie: «Falce e Martello non ci appartengono. Per il nuovo soggetto politico vedrei magari la Rosa del socialismo».
l’Unità 1.5.07
La storia. Quei simboli antichi «incrociati» da Lenin
La Falce e Martello incrociati sono il simbolo dell'unità delle masse contadine, rappresentate dalla falce, e della classe operaia e dei lavoratori, rappresentati dal martello. All'inizio, il vessillo che rappresenta le lotte operaie e popolari è la bandiera rossa che simboleggia il sangue versato dai lavoratori e dal popolo. Sembra che la prima volta sia stato usato in Germania nel 1512. Nel 1848 il popolo di Parigi la innalzò sulle barricate. Lo stesso fecero i comunardi nel 1871. In seguito, fu adottata da tutti i partiti socialisti e comunisti. Nel 1917 la adottò l'Urss come bandiera nazionale. Lo stesso fece la Cina di Mao nel 1949. Più recente è la storia del simbolo della Falce e Martello. Questi due emblemi vengono già adottati dai partiti della seconda Internazionale nel 1889. Ma appaiono per la prima volta "incrociati" nel 1917 durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel 1918, il simbolo della Falce e Martello è al centro dello stemma della Repubblica federativa socialista sovietica russa. Nel 1924, quando entra in vigore la Costituzione dell'Urss, esso campeggia anche nella bandiera rossa accompagnato dalla stella che indica la via del socialismo. Sotto la spinta del Partito e dell'Urss di Lenin diviene il simbolo principale dei partiti comunisti e socialisti aderenti alla III Internazionale.
In Italia il PSI di Turati adottò tale simbolo per la prima volta al
congresso di Bologna nel 1919. Fu mantenuto per 59 anni, accompagnato da un libro e dal sole, fino al 1978 quando Craxi lo cancellò. Il Pci lo adottò fin dalla sua nascita a Livorno nel 1921. Renato Guttuso disegnò l’intreccio tra Falce e Martello e Bandiera rossa, che diventò poi il simbolo del partito nel dopoguerra.Con la nascita del Pds il simbolo divenne la Quercia sotto al quale rimase quello del Pci. Il passaggio ai Ds cancellò la falce e martello e introdusse la rosa del Pse. Sopravvive nei simboli di Prc e Pdci.
Repubblica 1.5.07
Bertinotti: "Per Sarkozy quel sogno è un incubo"
PALERMO - Sarkozy «vive il Sessantotto come un incubo e non si è reso conto che per molti quel ciclo di lotta è stato un sogno». Fausto Bertinotti interviene a margine di un convegno a Palermo per commentare le parole del candidato neogollista all´Eliseo secondo cui il Sessantotto sarebbe all´origine della «decadenza morale del Paese». «Forse Sarkozy è troppo francese - aggiunge Bertinotti -. Se fosse vissuto in Italia avrebbe potuto vedere il dispiegarsi negli anni ‘70 di una grande partecipazione operaia, popolare. Forse dei metalmeccanici potrebbero aiutarlo meglio a capire di cosa si sia davvero trattato».
Corriere della Sera 1.5.07
Istat, il matrimonio non piace Aumentano celibi e divorziati
di G. Fas.
MILANO — Piccola ma inesorabile. La flessione dei matrimoni in Italia non va oltre lo 0,5%. Abbastanza, però, per tracciare una tendenza al ribasso. Questo racconta l'ultima indagine Istat che ha «fotografato», fra mille indicatori, anche quello relativo allo stato civile dei residenti nel nostro Paese (al 1 gennaio 2006). Vero è che un italiano su due è sposato (il 50,4%) ma in quattro anni il popolo dei mariti-e-mogli è diminuito di quello 0,5%, a tutto vantaggio dei celibi/nubili (+0,4) o dei divorziati (+0,3).
Sull'argomento matrimonio le differenze più forti sono fra uomini e donne. Il 44,6% dei maschi non è sposato contro il 36,5% delle femmine, mentre è invertito il rapporto per i divorziati: più bassa la quota maschile (1,2%) rispetto a quella femminile (1,7%) e questo perché gli uomini sono più propensi delle donne a sposarsi una seconda volta. Se vogliamo rimanere fra i dati che riguardano le coppie ce n'è uno che colpisce: la percentuale di vedove è cinque volte superiore a quella dei vedovi (12,6% contro 2,4%) per via del vantaggio di sopravvivenza femminile. E se si parla di sopravvivenza non si può fare a meno di notare quanto l'Italia sia uno dei Paesi più «vecchi» del panorama internazionale. Al 1 gennaio dell'anno scorso gli italiani che avevano spento almeno 65 candeline erano il 19,7% del totale, quasi un residente su cinque, contro il 18,7% del 1 gennaio 2002 (lo stesso indicatore era del 13,1 agli inizi degli anni Ottanta). In crescita anche l'Italia che ha 80 anni o più: è il 5,1% della popolazione, cioè uno su venti.
C'è un dato, nelle stime Istat, che indica più di ogni altro quanto sia in costante flessione la popolazione dei giovani fino a 14 anni. Negli ultimi 25 anni, raccontano i numeri dell'Istituto di statistica, gli italiani da 1 a 14 anni sono calati dal 22,6% (1980) al 14,1% (1 gennaio 2006).
Ci sono novità (un aumento) anche nelle cifre che riguardano il totale dei residenti. Il primo giorno dell 'anno scorso erano 58.751.711 mentre alla stessa data del 2005 se ne contavano 58.462.375. L'Istat spiega che la crescita della popolazione non significa che siamo un popolo improvvisamente più fecondo. L'incremento è invece stato «favorito prevalentemente dal saldo positivo delle migrazioni con l'estero (+260.644)».
Gli stranieri residenti in Italia sono 2.670.514 (il 4,5% della popolazione), un numero che segna un aumento consistente rispetto all'anno precedente (+268.357, cioè +11,2%). Eppure l'incremento registrato tra il 2005 e il 2006 è inferiore a quello annotato fra il 2004 e il 2005 (all'epoca era +411.998 unità, +20,7%). Facendo i conti a partire dall'inizio del 2003 il numero di stranieri iscritti all'anagrafe nel nostro Paese è aumentato del 72%. E i non italiani, a differenza nostra, sono percentualmente meno anziani: un cittadino straniero su due ha un'età compresa fra i 18 e i 39 anni.
Corriere della Sera 1.5.07
Dopo gli interventi di Galli della Loggia e Galasso sulle origini del terrorismo
All'inizio ci fu la «rivoluzione tradita»
Un mito che alimenta ancora oggi la violenza politica
di Giovanni Belardelli
Perché in Italia sopravvive ancora oggi, sia pure in forme decisamente minoritarie, un terrorismo rosso? E perché questo terrorismo gode ancora di qualche simpatia in certe frange della sinistra cosiddetta antagonista, come hanno mostrato le celebrazioni milanesi del 25 aprile? Era da questo duplice interrogativo che muoveva Galli della Loggia nell'editoriale che ha suscitato, due giorni fa, le obiezioni di Giuseppe Galasso. A sua volta l'articolo di Galasso, pur contenendo non poche osservazioni convincenti, mi pare soffrisse del limite di ignorare del tutto i drammatici interrogativi che ho richiamato. Proviamo dunque a ripartire da questi interrogativi, e dalle ragioni per le quali la violenza politica, non soltanto dunque il terrorismo rosso, ha avuto nella storia italiana una notevole durata e un notevole radicamento.
Anzitutto, lascerei da parte il Risorgimento, poiché il processo di unificazione italiana, oltre ad utilizzare come arma decisiva il tradizionalissimo strumento di una guerra tra Stati (i franco-piemontesi contro gli austriaci) sconfiggendo o inglobando con successo l'alternativa democratico-rivoluzionaria, fu segnato da un tasso di violenza politica assai inferiore a quello da cui nacquero alcune grandi democrazie moderne, come la Francia o l'Inghilterra. Su questo Galasso ha ragione. Anche se il punto davvero rilevante non è — o non è soltanto — che lo Stato italiano sia nato senza tagliare la testa ad alcun re e senza bisogno di una sanguinosa rivoluzione; ciò che caratterizza la nostra storia, ed ha direttamente a che fare con il problema in discussione, è soprattutto la successiva difficoltà del nuovo assetto statal- nazionale italiano, per molto e molto tempo, a eliminare o almeno a marginalizzare la violenza politica, intesa sia come pratica effettiva di una via rivoluzionaria sia come delegittimazione radicale delle istituzioni politiche, messa in atto da forze e partiti antisistema (con qualche analogia dunque, da questo punto di vista, con le vicende francesi). Per certi versi, la stessa reciproca delegittimazione che in Italia ha segnato, negli ultimi anni, i rapporti tra centrodestra e centrosinistra — per la quale si è parlato non a caso di «guerra civile fredda» — è stata l'ultima manifestazione (ormai limitata in gran parte, per fortuna, al piano linguistico) di quell'antica difficoltà a eliminare la violenza dall'arena politica.
Dopo il 1860 furono gli stessi mazziniani a contribuire alla difficoltà di cui si sta dicendo, alimentando il mito di un Risorgimento come rivoluzione tradita o interrotta che l'iniziativa popolare doveva riprendere e condurre fino in fondo (un paradigma utilizzato poi altre volte, fino alla Resistenza e alla stessa «rivoluzione» di Mani pulite). Nel 1914 la «settimana rossa», l'insurrezione scoppiata nelle Marche e in Romagna, era capeggiata dal socialista rivoluzionario Mussolini, dall'anarchico Errico Malatesta ma anche dall'allora repubblicano Pietro Nenni, i quali impersonavano le principali tradizioni sovversive del Paese (compresa, potremmo dire, quella fascista che pure doveva ancora nascere). E mi pare innegabile che, come ha osservato Galli della Loggia, appunto nella varia presenza di culture rivoluzionarie vada cercata una delle principali ragioni (in senso, diciamo così, storico-strutturale) della diffusione della violenza politica nella storia italiana dell'ultimo secolo, nonché della problematica accettazione di cui ha sofferto (e continua a soffrire) da noi lo Stato di diritto: che è un complesso di norme da rispettare, ma anche un insieme di corrispondenti modelli culturali che in Italia continuano a non avere troppo successo.
Quanto alla Resistenza, possiamo ancora riproporne la «storia sacra» (come la definiva ironicamente Enzo Forcella), scandalizzandoci se invece la si chiama in causa nella ricerca delle ragioni storiche della violenza politica? Davvero la Resistenza non ha alimentato anch'essa, prima e dopo il 1945, il mito della rivoluzione? Davvero non vi sono testimonianze di brigatisti che ricordano l'importanza del mito della «Resistenza rossa» nel determinare la scelta terrorista dei singoli? La Resistenza, scrive Galasso, non è stata «solo» questo. Certo, ma nessuno lo sostiene, mi pare. Si sta qui parlando non della Resistenza in blocco, ma di sue componenti, di quella cospicua minoranza che cercò di unire, alla liberazione dallo straniero, l'attuazione di una resa dei conti rivoluzionaria, a volte (si pensi a quei partigiani comunisti che si misero al servizio di Tito) mostrando di avere più a cuore questa di quella.
Tornando al quesito iniziale, mi pare assodato da tempo, almeno dal famoso articolo di Rossana Rossanda sull'appartenenza delle Br all'album di famiglia della sinistra comunista, quale sia stata la cultura politica che direttamente ha contributo a generare consensi attorno al terrorismo rosso. Come non meno assodato è il fatto che per la sconfitta del brigatismo fu determinante la posizione di intransigenza assunta dal Pci di Berlinguer durante il sequestro Moro. Ed è singolare che di recente l'onorevole Fassino abbia preso retrospettivamente le distanze proprio dalla scelta dura, senza compromessi, a favore dello Stato fatta dall'allora Pci nel 1978, sostenendo che forse con le Brigate rosse sarebbe stato meglio trattare per salvare la vita di Moro. Un'opinione singolare, appunto, perché è anche e forse soprattutto per questo, per lo strappo sancito a suo tempo dalla linea della fermezza, che oggi la consistenza del terrorismo brigatista appare incomparabile con quella di trent'anni fa.
Corriere della Sera 1.5.07
Bertolucci. A Rovereto grande omaggio al regista. Che parla della malattia e del rapporto con gli interpreti: «Li psicanalizzo e non li utilizzo più»
«Prigioniero della mia schiena, ma tornerò a girare Ora voglio scoprire gli idoli dei film per ragazzine»
di Maurizio Porro
Sono tutti pronti a fargli festa. E Bernardo Bertolucci, uno dei pochi autori rimasti al cinema italiano, anticipatamente ringrazia il Festival di Rovereto che dal 3 al 12 maggio gli dedica una retrospettiva chiamando testimoni critici, amici, attori, collaboratori e gli amati musici Sakamoto e Barbieri, con due concerti. Sakamoto poi lo incontra in questi giorni perché il regista, lasciando il progetto dei guerriglieri del Perù, è tornato sulla figura e i tormenti del principe napoletano, musicista e assassino Gesualdo da Venosa, «una storia d'amore forte, un musical del '500».
Con che animo si reca a Rovereto?
«Gli omaggi in genere sono un'arma a doppio taglio. Sotto i 50 anni mi sembrava strano, prematuro, ma oggi accetto volentieri. Mi sento come un'oca che ingollano di eccessi di gratificazione, non bisogna crederci troppo: ma l'anno scorso a Bologna la festa dei 30 anni di "Novecento" mi ha ridato la carica. Non vedevo il film da allora ed ho definitivamente capito perché non ho mai girato la terza parte della saga italiana: perché i giovani, dopo la psicosi collettiva della politica degli anni 70 sono entrati nella più totale apatia, che ora sento più forte che mai».
E infatti i film per i teenagers di oggi sono l'assenza di ideologia.
«Non li ho visti, ma li vedrò. Mi interessa studiate la nuova generazione di attori diventata popolare con queste commediole».
Nell'omaggio a un grande regista che sa essere intimo e «kolossale» e magari le due cose insieme, vivendo prima e dopo le rivoluzioni, c'è anche un sentito grazie per il cinema italiano degli anni '60, il più bello del mondo. Anni di opposti estremismi anche cinematografici, nasceva la nostra nouvelle vague, fortissima.
«Tutto fu reso possibile dalla spinta che veniva da altri Paesi. Si era in un intreccio di cinema, amore, politica, una stagione molto speciale, come ho ricordato in "The dreamers". Noi avevamo la commedia italiana come cinema di papà, ma era il seguito del neorealismo. Io in particolare vedevo la Francia come la patria del cinema tanto che alla mia prima conferenza stampa per "La commare secca" parlai pure in francese e così fui bollato a lungo».
Bolli e bolle ne ha avute tante. L'unico film mai mandato al rogo era suo ed era un capolavoro, "L'Ultimo tango", «e non tutti ricordano che persi i diritti civili, voto compreso». Quel titolo a lungo maledetto fece fare harakiri a tutta la troupe, complice subliminale la mostra a Parigi di Bacon, cui Bernardo portava in visita separatamente i suoi attori e che mise nei titoli di testa. «Con Maria Schneider non ci parlammo più, fummo travolti. Con Marlon Brando fu una storia complessa, fu shock: ci vollero 10 anni per riprendere un'amicizia poi durata per sempre».
Che rapporti tiene con i suoi attori?
«Cerco di carpire loro segreti e misteri per arricchire sia la recitazione sia il film. Difficilmente, quando credo di averli scoperti, li uso di nuovo; è successo solo per la Sandrelli e la Sanda, che ripresi sul set di "Novecento", ma nessuna era protagonista».
Un metodo alla Kazan, anch'egli dice spesso di aver spremuto l'inconscio dei suoi divi, partendo da Marlon.
«Io provo ad essere il loro psicanalista, cerco un'esperienza intima e profonda e non solo di applicare una teoria, una scuola del metodo come quella di Strasberg».
E Brando come si sottopose al training, dopo aver subito l'Actor's Studio?
«Ci incontrammo la prima volta a Parigi. Emozionatissimo, gli esposi in due minuti la storia di "Ultimo tango". Lui non mi guardava negli occhi. Gli chiesi perché e mi rispose che teneva d'occhio il mio piede per vedere quando avrei smesso di muoverlo. Dovetti litigare con gli studi che giudicavano alta la richiesta di Marlon, di cui stava uscendo il "Padrino", di 200.000 dollari. Dopo lo scandalo fu una questione di tempo. Mentre ero a Los Angeles, un giorno lo chiamai e andai a casa sua: sentii mentre facevo manovra con l'auto la sua risata, vidi il suo pancione uscire dietro un albero del giardino. Era tutto risolto, continuammo a sentirci, mi chiamava il "bambino profeta". Ma non voleva accettare gli anni, preferiva la dimensione del grottesco sia nel fisico sia nelle scelte di lavoro, non fu mai più se stesso. Io fui l'unico che tentai di togliergli la maschera».
E con gli attori dei primi film?
«Sono tutte altre vite e altre storie. Ogni film è un mondo a parte. Adriana Asti, con cui lavorai in "Prima della rivoluzione" a Parma, è rimasta un'amica. Ma io sento sempre il bisogno di rinnovarmi e non replicare perché non voglio prosciugarli, mi affido alla loro creatività interiore, voglio soprattutto scoprire chi sono».
Bertolucci è un regista di uomini o donne?
«Pensavo di donne, anche per capire il lato femminile che è in me. Ma mia moglie dice che sono autore maschile, quindi costretto a guardarmi per sempre allo specchio».
Intanto Bernardo, che da due anni, dopo un intervento alla schiena, ha difficoltà motorie, fa il suo «outing» con piacere: «Sono stato agli arresti domiciliari in casa, quel disagio alla schiena mi impediva di mostrarmi in pubblico. Ora con un apposito aggeggio che somiglia alle racchette dello sci e mi aiuta a spostarmi, ho accettato di mostrarmi anche in questo mio nuovo svezzamento. Sono uscito, voglio riprendere in febbraio a girare: il pericolo è che la casa diventi tutto il tuo mondo. Chissà se questa difficoltà a camminare è la pena del contrappasso per tutti i carrelli che ho messo nei miei film: camminate, camminate. Il capo macchinista teneva conto ogni giorno dei metri e alla fine fece un totale di diversi chilometri. Mi è sempre stato impossibile tenere la macchina da presa fissa, proprio non sono capace».
Liberazione 1.5.07
Bertinotti ricorda Pio la Torre e Portella Il presidente della camera in Sicilia: «La mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato.
Bisogna minare le sue fondamenta economiche»
«Unità di popolo per sconfiggere la mafia»
di Gemma Contin
Un minuto di silenzio pesante come il cielo plumbeo. Fausto Bertinotti sta lì a testa china, le mani appoggiate a quella corona di orchidee che è venuto a posare qui a Palermo, nell'anniversario della carneficina mafiosa, davanti alla lapide che ricorda quel 30 aprile di 25 anni fa in cui sono caduti un membro del Parlamento, il segretario del Pci siciliano Pio La Torre, e il suo compagno e amico Rosario Di Salvo.
C'erano già state, una settimana fa a Roma in Campidoglio e sabato scorso a Teatro Politeama a Palermo, e ci saranno più tardi allo Steri, nella sede del Rettorato, e a Portella della Ginestra, dove ricorre anche il 60° anniversario di un'altra strage di contadini e sindacalisti, una serie di iniziative per ricordare l'uomo che fece della lotta alla mafia un «impegno d'onore», come ha detto il presidente della Camera: «Un figlio di questa terra e del nostro paese che ha fatto la propria parte fino al sacrificio».
Una commemorazione che si concluderà con l'intitolazione a Pio La Torre dell'aeroporto di Comiso, che da base missilistica contro cui il dirigente comunista si era battuto oggi è diventata uno scalo civile. Una commemorazione che è parsa subito qualcosa di più: come una presa di coscienza della società civile. Forse un passo avanti per capire e contrastare il fenomeno mafioso oggi, nei suoi interessi-obiettivi-relazioni-strategie, insomma "sistema", e nella sua mutazione «da mafia delle armi a mafia dei capitali», come dice il convegno del Centro Pio La Torre che in un intenso lavoro tra gli studenti di 53 scuole che hanno partecipato al "Progetto legalità", ha coinvolto magistrati, rappresentanti del governo, del parlamento e illustri studiosi.
«Vorrei rivolgere alle autorità, ai segretari dei sindacati che tanta parte hanno avuto nella lotta contro la mafia - ha esordito Fausto Bertinotti in via Turba in un discorso non rituale - alle donne e agli uomini che hanno responsabilità politiche e ai cittadini che sono qui a testimoniare un impegno di popolo contro la mafia, che qui oggi la Repubblica italiana ricorda due figli che hanno portato con onore l'impegno politico e istituzionale».
Vorrei però ricordare, ha detto il presidente della Camera, che «un impegno civile come la lotta contro la mafia non può essere semplicemente una testimonianza etico-morale, pure di grandissimo rilievo. E' un impegno senza il quale non è possibile immaginare la rinascita della Sicilia e del Mezzogiorno. Bisogna far vivere questo impegno in un'unità di popolo con le sue istituzioni e con le sue organizzazioni democratiche».
«Qualche giorno fa - ha proseguito - alcuni giovani hanno detto che sentono la mafia più forte dello Stato. Io non penso che vadano demonizzati: questa percezione rinvia al nostro impegno. Se la mafia appare così forte è perché accanto a uomini coraggiosi, fedeli alla Repubblica, ci sono stati servitori infedeli; è perché la mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato. Da qui deve venire un grande impegno civile e di riforma».
Nodi ripresi anche nell'intervento ufficiale. Dopo i discorsi dei capi della Cgil Guglielmo Epifani e della Cisl Raffaele Bonanni e l'introduzione del Magnifico Rettore, Bertinotti, oltre a sottolineare il compito della scuola nella cultura della legalità, ha anche ricordato il ruolo delle donne: «Madri come quella di Turiddu Carnevale», che chiedeva giustizia chiusa nel suo vestito nero; e come quelle di Plaza de Majo, che hanno costretto un intero paese a fare i conti con i carnefici; e «come Felicia, la mamma di Peppino Impastato», che diceva che non sarebbe morta fino a che non avesse potuto guardare negli occhi in un'aula di tribunale il mandante dell'uccisione di suo figlio.
«Un poeta diceva "beati i popoli che non hanno bisogno di eroi" - ha concluso il presidente - Speriamo che la Sicilia non abbia più bisogno di eroi, ma per questo bisogna che ciascuno faccia la propria parte. Ci vuole un'azione coerente per combattere la mafia nelle sue fondamenta economiche, nei suoi legami che vanno recisi, con un'unità di popolo per la liberazione e la rinascita di questa terra».
Liberazione 1.5.07
Portella, primo esempio di strategia della tensione
Dietro la tragedia l'incontro tra Dc e destra
di Salvatore Lupo*
Si sente dire spesso che il movimento contadino rappresentò in Sicilia un equivalente della Resistenza, che non c'era stata e che non poteva esserci. In effetti esso segnò la ripresa di un filo antico di sviluppo della democrazia che riporta alla fine dell'Ottocento, al movimento dei fasci siciliani: specie se pensiamo alla rottura di una serie di rapporti di subordinazione sociale, di tipo prepolitico, in luoghi "profondi" della vita collettiva, che un tale moto comportava. Su quest'onda, i due partiti di sinistra ebbero occasione di rifarsi sin dalle elezioni regionali dell'aprile del '47 conseguendo la maggioranza relativa e sfiorando il 30% dei suffragi: recuperando così un 9% rispetto all'anno precedente e superando la Dc. In quell'occasione, però, la destra nel suo complesso arrivò al 40% e la Dc al 20.
Con questo dato dobbiamo misurarci per evitare di sopravvalutare (come spesso si fa) il successo del Blocco del popolo: le elezioni del '47 legittimarono la sinistra, segnalarono il prossimo esaurimento dei sogni separatisti, ma soprattutto aprirono la strada alla convergenza tra una destra fortissima su scala regionale e una Democrazia Cristiana insediatasi alla guida dello schieramento nazionale ma debole (per il momento) nello specifico isolano. La convergenza avrebbe in effetti segnato tutta la prima stagione della vita politica isolana.
Fu allora che si perpetrò l'agguato di Portella della Ginestra, per cui caddero morti dodici contadini, e molti altri feriti, mentre erano impegnati a festeggiare il primo maggio in campagna come facevano sin dalla fine dell'Ottocento - con l'esclusione degli anni del fascismo. La strage fu la manifestazione di una feroce strategia della tensione attraverso la quale un ignoto regista voleva cementare appunto l'incontro tra la Dc e la destra monarchico-separatista puntando sulla radicalizzazione del conflitto politico-sociale. Qualcuno voleva vendere al prezzo più alto la sua collaborazione. Gli esecutori furono i membri della banda capitanata da Salvatore Giuliano, e ciò va ribadito non solo perché le indagini diedero su questo punto risultati non confutabili, ma perché quei banditi erano i logici interlocutori del progetto politico che abbiamo sopra esposto. Sin dal settembre del '45, i maggiorenti del Mis avevano deciso di utilizzare alcune delle bande brigantesche che percorrevano l'isola per costituire 1'Evis, una sorta di esercito clandestino. In particolare Giuliano nell'Evis era stato arruolato col grado di colonnello, proponendosi come punto di incrocio in una vicenda di violenza e complotti in cui si intrecciarono nella maniera più clamorosa mafia, banditismo e separatismo. A maggior chiarimento delle logiche politiche che stavano dietro la strage possiamo citare lo stesso Giuliano, che nel giugno 1947 inviò messaggi di amicizia ai carabinieri, forze «devote al nostro Re», mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli «agenti di Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli italiani)»; e dall'altro lato il cardinale palermitano Ernesto Ruffini, autorevole rappresentante dell'ala destra della gerarchia a suo tempo filo-monarchico, il quale ritenne di spiegare il tragico evento, scrivendone addirittura al Papa, come risposta dei patrioti del sud ai massacri perpetrati dai comunisti al nord, dicendo «inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti» (Lettera sempre del giugno 1947 in F.M.Stabile, La Chiesa nella società siciliana, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992, in particolare alla p. 265).
I mandanti non furono trovati, né cercati. Non induceva a grandi sforzi in tal senso il quadro politico, e lo stesso significato che la Democrazia cristiana ritenne di poter trarre dal test elettorale siciliano: confutazione della politica di unità nazionale, piccolo ma significativo segnale da inserirsi nei grandi eventi che stavano portando il mondo dentro la guerra fredda. Così, nello stesso maggio in cui si era perpetrata la strage, De Gasperi consumò la rottura con entrambi i partiti di sinistra, tra gli applausi della Chiesa, degli americani, degli imprenditori e della destra: ed a destra si orientò nell'immediato cercando e trovando sostegno nei liberali e nel gruppo parlamentare qualunquista. I risultati trionfali delle elezioni dell'aprile '48, meno di un anno dopo, gli avrebbero poi consentito di fare a meno di imbarazzanti sostegni di questa natura.
*Docente di Storia contemporanea
Università di Palermo