martedì 1 maggio 2007

l’Unità 1.5.07
NUOVA SINISTRA
L’appello di Giordano. Poi il 5 maggio la nascita di Sinistra democratica
di e.d.b.


La data non è stata scelta a caso. Il primo maggio, festa dei lavoratori, il segretario del Prc Franco Giordano pubblica su «Liberazione» un editoriale in cui propone «un patto di unità e d’azione sul lavoro» tra le forze che si collocano a sinistra del Pd. Indicando la strada da percorrere: «Dalla pratica dell’oggi la soggettività unitaria del domani».
Nel merito, Giordano, indica due temi in cui esercitare la pratica: «Saremo intransigenti nel difendere pensioni e salari nella lotta alla precarietà». E spiega: «Per troppo tempo Confindustria ha esercitato un potere di condizionamento molto grande, riproponendo per il nostro paese una logica di riduzione del costo del lavoro e di competitività di prezzo. la forma più incisiva per far vivere oggi una nuova sinistra è dunque quella di rimettere al centro il lavoro. allo stesso tempo approfondendo l’innovazione della propria cultura e pratica politica».Sempre restando alla «pratica», la prossima settimana (mercoledì e giovedì) ci sarà la prima riunione operativa del «patto di consultazione» tra i gruppi di Camera e Senato che si riconoscono nel nuovo progetto (Prc-Pdci-Verdi-Sd).
Sinistra Democratica chiederà di costituirsi in gruppo dopo l’appuntamento del 5 maggio al Palazzo dei Congressi dell’Eur. Da quel momento passeranno altre due settimane circa affinché il passaggio sia ufficiale. Frattanto si lavora assieme, anche per creare nelle realtà locali delle configurazioni simili a quelle che si creeranno in Parlamento. Non manca qualche precisazione. Chiarisce infatti Alberto Nigra, portavoce della mozione Angius al congresso Ds: «Dobbiamo evitare di commettere gli errori del Pd, di mettere in piedi un progetto già preconfezionato. È stata fatta una proposta per un “patto di consultazione” tra i gruppi di sinistra ma è bene discuterne perché lavoriamo ad un Ulivo della sinistra e non per un’izquierda unida». Uno dei temi in discussione è quello di lasciare aperta la porta allo Sdi. Proprio il segretario dello Sdi Enrico Boselli, sarà presente, assieme a Giordano e al segretario del Pdci Diliberto, all’assise dell’Eur.

l’Unità 1.5.07
Falce e martello infiammano solo Diliberto. I mussiani: siamo già ben oltre...
Un soggetto politico di sinistra e i suoi simboli. Rc ne discute il superamento. Russo Spena: «Anche se non ora». L’angiusiano Nigra: «Meglio la Rosa del socialismo»
di Wanda Marra


È ANCORA TEMPO di Falce e Martello? Diliberto è pronto a difenderlo con tutto il suo peso. Ma il resto della futura «Cosa di
sinistra» che dice? Il simbolo non è ufficialmente in discussione per Rifondazione comunista, che però, di fatto, l’ha già affiancato con la stellina della Sinistra europea. E se per i Verdi, nel nome di una pluralità arcobaleno, ognuno può farsi rappresentare dall’icona che preferisce, gli ex Ds guardano oltre e - in vista di una nuova soggettività politica - non vedono possibile che il simbolo sia quello che fu del Pci. Intanto la pubblicitaria Annamaria Testa avverte: «Difficile quantificare il peso elettorale di Falce e Martello. Quello che posso dire è che spero che i cittadini scelgano di andare oltre e di votare per i contenuti e i programmi».
«Ci terremo per sempre nome e simbolo», ha avvertito da Rimini il segretario del Pdci, rispondendo indirettamente anche a Armando Cosutta, che aveva consigliato di rinunciarvi (dopo che nell’89 aveva sbattuto la porta in faccia ad Occhetto in loro nome) perché «se dovessimo accettare l'invito, dovremmo dire che aveva ragione Occhetto e che potevamo risparmiarci la fatica di questi 20 anni». Invece, «abbiamo portato la Falce e Martello nel terzo millennio, chi ci avrebbe scommesso?». In casa Rifondazione, dove il nome comunista e la Falce e Martello, sono ad oggi una realtà identitaria non da poco, si usano toni più sfumati. Nessuno sostiene che si è sulla strada di abbandonarli, ma non sembra neanche che a questo punto ci sia un vero tabù in questo senso. «Per adesso stiamo andando verso un sistema aperto, composto di partiti e associazioni. E non sono in discussione né nome, né simbolo - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - dopodiché è chiaro che si tratta di un work in progress. Non mettiamo il carro davanti ai buoi». Il problema, in effetti, appare più ampio. Se Mussi l’ha detto chiaro e tondo che bisogna andare verso un «partito» molti dei protagonisti del Cantiere in movimento della sinistra parlano più indefinitamente di «nuova soggettività politica». «L’opinione di Mussi è un’opinione tra le altre- dichiara Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera - chi l’ha detto che si va verso un nuovo partito? All’ordine del giorno c’è una soggettività unitaria, le forme le decideremo insieme. L’autonomia politica di Rifondazione non è in discussione». Ma intanto, il Prc alla Falce e Martello ha già affiancato la stella rossa con tante stelline gialle della Sinistra europea. «Non si tratta di una scelta casuale - afferma Elettra Deiana - anche se non è aperta una discussione su nome e simbolo nel partito. Ma non mi stupirei se alla fine, invece di Falce e Martello, scegliessimo la stellina rossa». Se la cava dicendo, che la forma-partito tradizionale è ormai superata, Paolo Cento dei Verdi. «In un coordinamento plurale, ognuno può scegliere il modo che prefisce per rappresentarsi». Sembrano già ragionare in termini di simbolo unico gli ex diessini. «Falce e Martello, perché no? In fondo ce ne siamo separati non troppo tempo fa. Ma ho la sensazione che il simbolo non sarà quello», scherza Cesare Salvi (sinistra Ds). Mentre Katia Zanotti (area Mussi) spiega: «Una nuova soggettività politica ha senso solo se è innovativa per forme e contenuti». E Alberto Nigra, in quota Angius, è netto nel rimarcare le sue aspirazioni identitarie: «Falce e Martello non ci appartengono. Per il nuovo soggetto politico vedrei magari la Rosa del socialismo».

l’Unità 1.5.07
La storia. Quei simboli antichi «incrociati» da Lenin


La Falce e Martello incrociati sono il simbolo dell'unità delle masse contadine, rappresentate dalla falce, e della classe operaia e dei lavoratori, rappresentati dal martello. All'inizio, il vessillo che rappresenta le lotte operaie e popolari è la bandiera rossa che simboleggia il sangue versato dai lavoratori e dal popolo. Sembra che la prima volta sia stato usato in Germania nel 1512. Nel 1848 il popolo di Parigi la innalzò sulle barricate. Lo stesso fecero i comunardi nel 1871. In seguito, fu adottata da tutti i partiti socialisti e comunisti. Nel 1917 la adottò l'Urss come bandiera nazionale. Lo stesso fece la Cina di Mao nel 1949. Più recente è la storia del simbolo della Falce e Martello. Questi due emblemi vengono già adottati dai partiti della seconda Internazionale nel 1889. Ma appaiono per la prima volta "incrociati" nel 1917 durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel 1918, il simbolo della Falce e Martello è al centro dello stemma della Repubblica federativa socialista sovietica russa. Nel 1924, quando entra in vigore la Costituzione dell'Urss, esso campeggia anche nella bandiera rossa accompagnato dalla stella che indica la via del socialismo. Sotto la spinta del Partito e dell'Urss di Lenin diviene il simbolo principale dei partiti comunisti e socialisti aderenti alla III Internazionale.
In Italia il PSI di Turati adottò tale simbolo per la prima volta al
congresso di Bologna nel 1919. Fu mantenuto per 59 anni, accompagnato da un libro e dal sole, fino al 1978 quando Craxi lo cancellò. Il Pci lo adottò fin dalla sua nascita a Livorno nel 1921. Renato Guttuso disegnò l’intreccio tra Falce e Martello e Bandiera rossa, che diventò poi il simbolo del partito nel dopoguerra.Con la nascita del Pds il simbolo divenne la Quercia sotto al quale rimase quello del Pci. Il passaggio ai Ds cancellò la falce e martello e introdusse la rosa del Pse. Sopravvive nei simboli di Prc e Pdci.

Repubblica 1.5.07
Bertinotti: "Per Sarkozy quel sogno è un incubo"


PALERMO - Sarkozy «vive il Sessantotto come un incubo e non si è reso conto che per molti quel ciclo di lotta è stato un sogno». Fausto Bertinotti interviene a margine di un convegno a Palermo per commentare le parole del candidato neogollista all´Eliseo secondo cui il Sessantotto sarebbe all´origine della «decadenza morale del Paese». «Forse Sarkozy è troppo francese - aggiunge Bertinotti -. Se fosse vissuto in Italia avrebbe potuto vedere il dispiegarsi negli anni ‘70 di una grande partecipazione operaia, popolare. Forse dei metalmeccanici potrebbero aiutarlo meglio a capire di cosa si sia davvero trattato».

Corriere della Sera 1.5.07
Istat, il matrimonio non piace Aumentano celibi e divorziati
di G. Fas.


MILANO — Piccola ma inesorabile. La flessione dei matrimoni in Italia non va oltre lo 0,5%. Abbastanza, però, per tracciare una tendenza al ribasso. Questo racconta l'ultima indagine Istat che ha «fotografato», fra mille indicatori, anche quello relativo allo stato civile dei residenti nel nostro Paese (al 1 gennaio 2006). Vero è che un italiano su due è sposato (il 50,4%) ma in quattro anni il popolo dei mariti-e-mogli è diminuito di quello 0,5%, a tutto vantaggio dei celibi/nubili (+0,4) o dei divorziati (+0,3).
Sull'argomento matrimonio le differenze più forti sono fra uomini e donne. Il 44,6% dei maschi non è sposato contro il 36,5% delle femmine, mentre è invertito il rapporto per i divorziati: più bassa la quota maschile (1,2%) rispetto a quella femminile (1,7%) e questo perché gli uomini sono più propensi delle donne a sposarsi una seconda volta. Se vogliamo rimanere fra i dati che riguardano le coppie ce n'è uno che colpisce: la percentuale di vedove è cinque volte superiore a quella dei vedovi (12,6% contro 2,4%) per via del vantaggio di sopravvivenza femminile. E se si parla di sopravvivenza non si può fare a meno di notare quanto l'Italia sia uno dei Paesi più «vecchi» del panorama internazionale. Al 1 gennaio dell'anno scorso gli italiani che avevano spento almeno 65 candeline erano il 19,7% del totale, quasi un residente su cinque, contro il 18,7% del 1 gennaio 2002 (lo stesso indicatore era del 13,1 agli inizi degli anni Ottanta). In crescita anche l'Italia che ha 80 anni o più: è il 5,1% della popolazione, cioè uno su venti.
C'è un dato, nelle stime Istat, che indica più di ogni altro quanto sia in costante flessione la popolazione dei giovani fino a 14 anni. Negli ultimi 25 anni, raccontano i numeri dell'Istituto di statistica, gli italiani da 1 a 14 anni sono calati dal 22,6% (1980) al 14,1% (1 gennaio 2006).
Ci sono novità (un aumento) anche nelle cifre che riguardano il totale dei residenti. Il primo giorno dell 'anno scorso erano 58.751.711 mentre alla stessa data del 2005 se ne contavano 58.462.375. L'Istat spiega che la crescita della popolazione non significa che siamo un popolo improvvisamente più fecondo. L'incremento è invece stato «favorito prevalentemente dal saldo positivo delle migrazioni con l'estero (+260.644)».
Gli stranieri residenti in Italia sono 2.670.514 (il 4,5% della popolazione), un numero che segna un aumento consistente rispetto all'anno precedente (+268.357, cioè +11,2%). Eppure l'incremento registrato tra il 2005 e il 2006 è inferiore a quello annotato fra il 2004 e il 2005 (all'epoca era +411.998 unità, +20,7%). Facendo i conti a partire dall'inizio del 2003 il numero di stranieri iscritti all'anagrafe nel nostro Paese è aumentato del 72%. E i non italiani, a differenza nostra, sono percentualmente meno anziani: un cittadino straniero su due ha un'età compresa fra i 18 e i 39 anni.

Corriere della Sera 1.5.07
Dopo gli interventi di Galli della Loggia e Galasso sulle origini del terrorismo
All'inizio ci fu la «rivoluzione tradita»
Un mito che alimenta ancora oggi la violenza politica
di Giovanni Belardelli

Perché in Italia sopravvive ancora oggi, sia pure in forme decisamente minoritarie, un terrorismo rosso? E perché questo terrorismo gode ancora di qualche simpatia in certe frange della sinistra cosiddetta antagonista, come hanno mostrato le celebrazioni milanesi del 25 aprile? Era da questo duplice interrogativo che muoveva Galli della Loggia nell'editoriale che ha suscitato, due giorni fa, le obiezioni di Giuseppe Galasso. A sua volta l'articolo di Galasso, pur contenendo non poche osservazioni convincenti, mi pare soffrisse del limite di ignorare del tutto i drammatici interrogativi che ho richiamato. Proviamo dunque a ripartire da questi interrogativi, e dalle ragioni per le quali la violenza politica, non soltanto dunque il terrorismo rosso, ha avuto nella storia italiana una notevole durata e un notevole radicamento.
Anzitutto, lascerei da parte il Risorgimento, poiché il processo di unificazione italiana, oltre ad utilizzare come arma decisiva il tradizionalissimo strumento di una guerra tra Stati (i franco-piemontesi contro gli austriaci) sconfiggendo o inglobando con successo l'alternativa democratico-rivoluzionaria, fu segnato da un tasso di violenza politica assai inferiore a quello da cui nacquero alcune grandi democrazie moderne, come la Francia o l'Inghilterra. Su questo Galasso ha ragione. Anche se il punto davvero rilevante non è — o non è soltanto — che lo Stato italiano sia nato senza tagliare la testa ad alcun re e senza bisogno di una sanguinosa rivoluzione; ciò che caratterizza la nostra storia, ed ha direttamente a che fare con il problema in discussione, è soprattutto la successiva difficoltà del nuovo assetto statal- nazionale italiano, per molto e molto tempo, a eliminare o almeno a marginalizzare la violenza politica, intesa sia come pratica effettiva di una via rivoluzionaria sia come delegittimazione radicale delle istituzioni politiche, messa in atto da forze e partiti antisistema (con qualche analogia dunque, da questo punto di vista, con le vicende francesi). Per certi versi, la stessa reciproca delegittimazione che in Italia ha segnato, negli ultimi anni, i rapporti tra centrodestra e centrosinistra — per la quale si è parlato non a caso di «guerra civile fredda» — è stata l'ultima manifestazione (ormai limitata in gran parte, per fortuna, al piano linguistico) di quell'antica difficoltà a eliminare la violenza dall'arena politica.
Dopo il 1860 furono gli stessi mazziniani a contribuire alla difficoltà di cui si sta dicendo, alimentando il mito di un Risorgimento come rivoluzione tradita o interrotta che l'iniziativa popolare doveva riprendere e condurre fino in fondo (un paradigma utilizzato poi altre volte, fino alla Resistenza e alla stessa «rivoluzione» di Mani pulite). Nel 1914 la «settimana rossa», l'insurrezione scoppiata nelle Marche e in Romagna, era capeggiata dal socialista rivoluzionario Mussolini, dall'anarchico Errico Malatesta ma anche dall'allora repubblicano Pietro Nenni, i quali impersonavano le principali tradizioni sovversive del Paese (compresa, potremmo dire, quella fascista che pure doveva ancora nascere). E mi pare innegabile che, come ha osservato Galli della Loggia, appunto nella varia presenza di culture rivoluzionarie vada cercata una delle principali ragioni (in senso, diciamo così, storico-strutturale) della diffusione della violenza politica nella storia italiana dell'ultimo secolo, nonché della problematica accettazione di cui ha sofferto (e continua a soffrire) da noi lo Stato di diritto: che è un complesso di norme da rispettare, ma anche un insieme di corrispondenti modelli culturali che in Italia continuano a non avere troppo successo.
Quanto alla Resistenza, possiamo ancora riproporne la «storia sacra» (come la definiva ironicamente Enzo Forcella), scandalizzandoci se invece la si chiama in causa nella ricerca delle ragioni storiche della violenza politica? Davvero la Resistenza non ha alimentato anch'essa, prima e dopo il 1945, il mito della rivoluzione? Davvero non vi sono testimonianze di brigatisti che ricordano l'importanza del mito della «Resistenza rossa» nel determinare la scelta terrorista dei singoli? La Resistenza, scrive Galasso, non è stata «solo» questo. Certo, ma nessuno lo sostiene, mi pare. Si sta qui parlando non della Resistenza in blocco, ma di sue componenti, di quella cospicua minoranza che cercò di unire, alla liberazione dallo straniero, l'attuazione di una resa dei conti rivoluzionaria, a volte (si pensi a quei partigiani comunisti che si misero al servizio di Tito) mostrando di avere più a cuore questa di quella.
Tornando al quesito iniziale, mi pare assodato da tempo, almeno dal famoso articolo di Rossana Rossanda sull'appartenenza delle Br all'album di famiglia della sinistra comunista, quale sia stata la cultura politica che direttamente ha contributo a generare consensi attorno al terrorismo rosso. Come non meno assodato è il fatto che per la sconfitta del brigatismo fu determinante la posizione di intransigenza assunta dal Pci di Berlinguer durante il sequestro Moro. Ed è singolare che di recente l'onorevole Fassino abbia preso retrospettivamente le distanze proprio dalla scelta dura, senza compromessi, a favore dello Stato fatta dall'allora Pci nel 1978, sostenendo che forse con le Brigate rosse sarebbe stato meglio trattare per salvare la vita di Moro. Un'opinione singolare, appunto, perché è anche e forse soprattutto per questo, per lo strappo sancito a suo tempo dalla linea della fermezza, che oggi la consistenza del terrorismo brigatista appare incomparabile con quella di trent'anni fa.

Corriere della Sera 1.5.07
Bertolucci. A Rovereto grande omaggio al regista. Che parla della malattia e del rapporto con gli interpreti: «Li psicanalizzo e non li utilizzo più»
«Prigioniero della mia schiena, ma tornerò a girare Ora voglio scoprire gli idoli dei film per ragazzine»
di Maurizio Porro

Sono tutti pronti a fargli festa. E Bernardo Bertolucci, uno dei pochi autori rimasti al cinema italiano, anticipatamente ringrazia il Festival di Rovereto che dal 3 al 12 maggio gli dedica una retrospettiva chiamando testimoni critici, amici, attori, collaboratori e gli amati musici Sakamoto e Barbieri, con due concerti. Sakamoto poi lo incontra in questi giorni perché il regista, lasciando il progetto dei guerriglieri del Perù, è tornato sulla figura e i tormenti del principe napoletano, musicista e assassino Gesualdo da Venosa, «una storia d'amore forte, un musical del '500».
Con che animo si reca a Rovereto?
«Gli omaggi in genere sono un'arma a doppio taglio. Sotto i 50 anni mi sembrava strano, prematuro, ma oggi accetto volentieri. Mi sento come un'oca che ingollano di eccessi di gratificazione, non bisogna crederci troppo: ma l'anno scorso a Bologna la festa dei 30 anni di "Novecento" mi ha ridato la carica. Non vedevo il film da allora ed ho definitivamente capito perché non ho mai girato la terza parte della saga italiana: perché i giovani, dopo la psicosi collettiva della politica degli anni 70 sono entrati nella più totale apatia, che ora sento più forte che mai».
E infatti i film per i teenagers di oggi sono l'assenza di ideologia.
«Non li ho visti, ma li vedrò. Mi interessa studiate la nuova generazione di attori diventata popolare con queste commediole».
Nell'omaggio a un grande regista che sa essere intimo e «kolossale» e magari le due cose insieme, vivendo prima e dopo le rivoluzioni, c'è anche un sentito grazie per il cinema italiano degli anni '60, il più bello del mondo. Anni di opposti estremismi anche cinematografici, nasceva la nostra nouvelle vague, fortissima.
«Tutto fu reso possibile dalla spinta che veniva da altri Paesi. Si era in un intreccio di cinema, amore, politica, una stagione molto speciale, come ho ricordato in "The dreamers". Noi avevamo la commedia italiana come cinema di papà, ma era il seguito del neorealismo. Io in particolare vedevo la Francia come la patria del cinema tanto che alla mia prima conferenza stampa per "La commare secca" parlai pure in francese e così fui bollato a lungo».
Bolli e bolle ne ha avute tante. L'unico film mai mandato al rogo era suo ed era un capolavoro, "L'Ultimo tango", «e non tutti ricordano che persi i diritti civili, voto compreso». Quel titolo a lungo maledetto fece fare harakiri a tutta la troupe, complice subliminale la mostra a Parigi di Bacon, cui Bernardo portava in visita separatamente i suoi attori e che mise nei titoli di testa. «Con Maria Schneider non ci parlammo più, fummo travolti. Con Marlon Brando fu una storia complessa, fu shock: ci vollero 10 anni per riprendere un'amicizia poi durata per sempre».
Che rapporti tiene con i suoi attori?
«Cerco di carpire loro segreti e misteri per arricchire sia la recitazione sia il film. Difficilmente, quando credo di averli scoperti, li uso di nuovo; è successo solo per la Sandrelli e la Sanda, che ripresi sul set di "Novecento", ma nessuna era protagonista».
Un metodo alla Kazan, anch'egli dice spesso di aver spremuto l'inconscio dei suoi divi, partendo da Marlon.
«Io provo ad essere il loro psicanalista, cerco un'esperienza intima e profonda e non solo di applicare una teoria, una scuola del metodo come quella di Strasberg».
E Brando come si sottopose al training, dopo aver subito l'Actor's Studio?
«Ci incontrammo la prima volta a Parigi. Emozionatissimo, gli esposi in due minuti la storia di "Ultimo tango". Lui non mi guardava negli occhi. Gli chiesi perché e mi rispose che teneva d'occhio il mio piede per vedere quando avrei smesso di muoverlo. Dovetti litigare con gli studi che giudicavano alta la richiesta di Marlon, di cui stava uscendo il "Padrino", di 200.000 dollari. Dopo lo scandalo fu una questione di tempo. Mentre ero a Los Angeles, un giorno lo chiamai e andai a casa sua: sentii mentre facevo manovra con l'auto la sua risata, vidi il suo pancione uscire dietro un albero del giardino. Era tutto risolto, continuammo a sentirci, mi chiamava il "bambino profeta". Ma non voleva accettare gli anni, preferiva la dimensione del grottesco sia nel fisico sia nelle scelte di lavoro, non fu mai più se stesso. Io fui l'unico che tentai di togliergli la maschera».
E con gli attori dei primi film?
«Sono tutte altre vite e altre storie. Ogni film è un mondo a parte. Adriana Asti, con cui lavorai in "Prima della rivoluzione" a Parma, è rimasta un'amica. Ma io sento sempre il bisogno di rinnovarmi e non replicare perché non voglio prosciugarli, mi affido alla loro creatività interiore, voglio soprattutto scoprire chi sono».
Bertolucci è un regista di uomini o donne?
«Pensavo di donne, anche per capire il lato femminile che è in me. Ma mia moglie dice che sono autore maschile, quindi costretto a guardarmi per sempre allo specchio».
Intanto Bernardo, che da due anni, dopo un intervento alla schiena, ha difficoltà motorie, fa il suo «outing» con piacere: «Sono stato agli arresti domiciliari in casa, quel disagio alla schiena mi impediva di mostrarmi in pubblico. Ora con un apposito aggeggio che somiglia alle racchette dello sci e mi aiuta a spostarmi, ho accettato di mostrarmi anche in questo mio nuovo svezzamento. Sono uscito, voglio riprendere in febbraio a girare: il pericolo è che la casa diventi tutto il tuo mondo. Chissà se questa difficoltà a camminare è la pena del contrappasso per tutti i carrelli che ho messo nei miei film: camminate, camminate. Il capo macchinista teneva conto ogni giorno dei metri e alla fine fece un totale di diversi chilometri. Mi è sempre stato impossibile tenere la macchina da presa fissa, proprio non sono capace».

Liberazione 1.5.07

Bertinotti ricorda Pio la Torre e Portella Il presidente della camera in Sicilia: «La mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato.
Bisogna minare le sue fondamenta economiche»
«Unità di popolo per sconfiggere la mafia»
di
Gemma Contin

Un minuto di silenzio pesante come il cielo plumbeo. Fausto Bertinotti sta lì a testa china, le mani appoggiate a quella corona di orchidee che è venuto a posare qui a Palermo, nell'anniversario della carneficina mafiosa, davanti alla lapide che ricorda quel 30 aprile di 25 anni fa in cui sono caduti un membro del Parlamento, il segretario del Pci siciliano Pio La Torre, e il suo compagno e amico Rosario Di Salvo.
C'erano già state, una settimana fa a Roma in Campidoglio e sabato scorso a Teatro Politeama a Palermo, e ci saranno più tardi allo Steri, nella sede del Rettorato, e a Portella della Ginestra, dove ricorre anche il 60° anniversario di un'altra strage di contadini e sindacalisti, una serie di iniziative per ricordare l'uomo che fece della lotta alla mafia un «impegno d'onore», come ha detto il presidente della Camera: «Un figlio di questa terra e del nostro paese che ha fatto la propria parte fino al sacrificio».
Una commemorazione che si concluderà con l'intitolazione a Pio La Torre dell'aeroporto di Comiso, che da base missilistica contro cui il dirigente comunista si era battuto oggi è diventata uno scalo civile. Una commemorazione che è parsa subito qualcosa di più: come una presa di coscienza della società civile. Forse un passo avanti per capire e contrastare il fenomeno mafioso oggi, nei suoi interessi-obiettivi-relazioni-strategie, insomma "sistema", e nella sua mutazione «da mafia delle armi a mafia dei capitali», come dice il convegno del Centro Pio La Torre che in un intenso lavoro tra gli studenti di 53 scuole che hanno partecipato al "Progetto legalità", ha coinvolto magistrati, rappresentanti del governo, del parlamento e illustri studiosi.
«Vorrei rivolgere alle autorità, ai segretari dei sindacati che tanta parte hanno avuto nella lotta contro la mafia - ha esordito Fausto Bertinotti in via Turba in un discorso non rituale - alle donne e agli uomini che hanno responsabilità politiche e ai cittadini che sono qui a testimoniare un impegno di popolo contro la mafia, che qui oggi la Repubblica italiana ricorda due figli che hanno portato con onore l'impegno politico e istituzionale».
Vorrei però ricordare, ha detto il presidente della Camera, che «un impegno civile come la lotta contro la mafia non può essere semplicemente una testimonianza etico-morale, pure di grandissimo rilievo. E' un impegno senza il quale non è possibile immaginare la rinascita della Sicilia e del Mezzogiorno. Bisogna far vivere questo impegno in un'unità di popolo con le sue istituzioni e con le sue organizzazioni democratiche».
«Qualche giorno fa - ha proseguito - alcuni giovani hanno detto che sentono la mafia più forte dello Stato. Io non penso che vadano demonizzati: questa percezione rinvia al nostro impegno. Se la mafia appare così forte è perché accanto a uomini coraggiosi, fedeli alla Repubblica, ci sono stati servitori infedeli; è perché la mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato. Da qui deve venire un grande impegno civile e di riforma».
Nodi ripresi anche nell'intervento ufficiale. Dopo i discorsi dei capi della Cgil Guglielmo Epifani e della Cisl Raffaele Bonanni e l'introduzione del Magnifico Rettore, Bertinotti, oltre a sottolineare il compito della scuola nella cultura della legalità, ha anche ricordato il ruolo delle donne: «Madri come quella di Turiddu Carnevale», che chiedeva giustizia chiusa nel suo vestito nero; e come quelle di Plaza de Majo, che hanno costretto un intero paese a fare i conti con i carnefici; e «come Felicia, la mamma di Peppino Impastato», che diceva che non sarebbe morta fino a che non avesse potuto guardare negli occhi in un'aula di tribunale il mandante dell'uccisione di suo figlio.
«Un poeta diceva "beati i popoli che non hanno bisogno di eroi" - ha concluso il presidente - Speriamo che la Sicilia non abbia più bisogno di eroi, ma per questo bisogna che ciascuno faccia la propria parte. Ci vuole un'azione coerente per combattere la mafia nelle sue fondamenta economiche, nei suoi legami che vanno recisi, con un'unità di popolo per la liberazione e la rinascita di questa terra».


Liberazione 1.5.07

Portella, primo esempio di strategia della tensione
Dietro la tragedia l'incontro tra Dc e destra
di
Salvatore Lupo*

Si sente dire spesso che il movimento contadino rappresentò in Sicilia un equivalente della Resistenza, che non c'era stata e che non poteva esserci. In effetti esso segnò la ripresa di un filo antico di sviluppo della democrazia che riporta alla fine dell'Ottocento, al movimento dei fasci siciliani: specie se pensiamo alla rottura di una serie di rapporti di subordinazione sociale, di tipo prepolitico, in luoghi "profondi" della vita collettiva, che un tale moto comportava. Su quest'onda, i due partiti di sinistra ebbero occasione di rifarsi sin dalle elezioni regionali dell'aprile del '47 conseguendo la maggioranza relativa e sfiorando il 30% dei suffragi: recuperando così un 9% rispetto all'anno precedente e superando la Dc. In quell'occasione, però, la destra nel suo complesso arrivò al 40% e la Dc al 20.
Con questo dato dobbiamo misurarci per evitare di sopravvalutare (come spesso si fa) il successo del Blocco del popolo: le elezioni del '47 legittimarono la sinistra, segnalarono il prossimo esaurimento dei sogni separatisti, ma soprattutto aprirono la strada alla convergenza tra una destra fortissima su scala regionale e una Democrazia Cristiana insediatasi alla guida dello schieramento nazionale ma debole (per il momento) nello specifico isolano. La convergenza avrebbe in effetti segnato tutta la prima stagione della vita politica isolana.
Fu allora che si perpetrò l'agguato di Portella della Ginestra, per cui caddero morti dodici contadini, e molti altri feriti, mentre erano impegnati a festeggiare il primo maggio in campagna come facevano sin dalla fine dell'Ottocento - con l'esclusione degli anni del fascismo. La strage fu la manifestazione di una feroce strategia della tensione attraverso la quale un ignoto regista voleva cementare appunto l'incontro tra la Dc e la destra monarchico-separatista puntando sulla radicalizzazione del conflitto politico-sociale. Qualcuno voleva vendere al prezzo più alto la sua collaborazione. Gli esecutori furono i membri della banda capitanata da Salvatore Giuliano, e ciò va ribadito non solo perché le indagini diedero su questo punto risultati non confutabili, ma perché quei banditi erano i logici interlocutori del progetto politico che abbiamo sopra esposto. Sin dal settembre del '45, i maggiorenti del Mis avevano deciso di utilizzare alcune delle bande brigantesche che percorrevano l'isola per costituire 1'Evis, una sorta di esercito clandestino. In particolare Giuliano nell'Evis era stato arruolato col grado di colonnello, proponendosi come punto di incrocio in una vicenda di violenza e complotti in cui si intrecciarono nella maniera più clamorosa mafia, banditismo e separatismo. A maggior chiarimento delle logiche politiche che stavano dietro la strage possiamo citare lo stesso Giuliano, che nel giugno 1947 inviò messaggi di amicizia ai carabinieri, forze «devote al nostro Re», mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli «agenti di Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli italiani)»; e dall'altro lato il cardinale palermitano Ernesto Ruffini, autorevole rappresentante dell'ala destra della gerarchia a suo tempo filo-monarchico, il quale ritenne di spiegare il tragico evento, scrivendone addirittura al Papa, come risposta dei patrioti del sud ai massacri perpetrati dai comunisti al nord, dicendo «inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti» (Lettera sempre del giugno 1947 in F.M.Stabile, La Chiesa nella società siciliana, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992, in particolare alla p. 265).
I mandanti non furono trovati, né cercati. Non induceva a grandi sforzi in tal senso il quadro politico, e lo stesso significato che la Democrazia cristiana ritenne di poter trarre dal test elettorale siciliano: confutazione della politica di unità nazionale, piccolo ma significativo segnale da inserirsi nei grandi eventi che stavano portando il mondo dentro la guerra fredda. Così, nello stesso maggio in cui si era perpetrata la strage, De Gasperi consumò la rottura con entrambi i partiti di sinistra, tra gli applausi della Chiesa, degli americani, degli imprenditori e della destra: ed a destra si orientò nell'immediato cercando e trovando sostegno nei liberali e nel gruppo parlamentare qualunquista. I risultati trionfali delle elezioni dell'aprile '48, meno di un anno dopo, gli avrebbero poi consentito di fare a meno di imbarazzanti sostegni di questa natura.
*Docente di Storia contemporanea
Università di Palermo





lunedì 30 aprile 2007

Repubblica 30.4.07
L’obiettivo del cantiere della sinistra è di battere sul tempo il Pd. Dopo l’estate l'assemblea costituente
Portavoce unico per la "Cosa rossa"
In pole position Salvi e Bellillo. Mussi: spostiamo l’asse del governo
Già deciso il via libera al coordinamento dei gruppi parlamentari
di Giovanna Casadio


ROMA - Maura Cossutta, la figlia, dice che il portavoce unico della Sinistra in Parlamento si dovrebbe fare subito, meglio se donna. Armando, il padre, forte dei suoi ottant´anni e della lunga militanza comunista, indica la ricetta unitaria: gruppo unico parlamentare della Sinistra al più presto, portavoce entro l´estate - «Al Senato, Rifondazione è più numerosa quindi potrebbe imporre un proprio uomo ma Cesare Salvi è di gran lunga il più eminente, alla Camera non saprei» - e poi, Assemblea costituente subito. Battere insomma sul tempo la costituente del Partito democratico.
Pur senza correre come i Cossutta, Fabio Mussi, il leader dei transfughi Ds, è incalzante: parta ora un coordinamento dei gruppi parlamentari, sollecita, da lì in pratica comincia la riaggregazione della Sinistra. Creare la "Cosa rossa" sarebbe un approdo storico, significa mettere da parte i rancori (tra Rifondazione e il Pdci), accettare che la Sinistra democratica per il Socialismo europeo dei diessini Mussi-Salvi-Angius faccia da «lievito» e abbattere le resistenze dei Verdi. «Dobbiamo garantire che l´asse del governo sia al punto giusto con un giusto peso della sinistra della coalizione. Per oggi e per il futuro abbiamo bisogno di una sinistra forte per scongiurare stagioni neocentriste», afferma Mussi. E invita ad uscire ciascuno dalle proprie trincee: «Dobbiamo ribellarci a una sinistra che è un grumo di correnti in un partito spostato al centro o un grumo di partiti sparpagliati. Mi piacerebbe un "big bang" e l´obiettivo sarebbe un partito politico a sinistra». Applaudito il ministro alla convention di "Uniti a sinistra", l´associazione di Pietro Folena, Alto Tortorella, Antonello Falomi, Sandro Curzi che ieri al Centro congressi Cavour, propone scadenze concrete verso l´approdo unitario della sinistra anti Partito democratico.
Così alla fine, viene approvato un documento in cui ci si dà come "dead line" le europee del 2009 per una lista unica della Sinistra, e gli stati generali in autunno. Però a margine, grande chiacchiericcio sul portavoce unico e soprattutto via libera immediato al coordinamento politico parlamentare. Mercoledì, alla ripresa parlamentare, Giovanni Russo Spena il capogruppo del Prc riunirà i "suoi" 26 senatori e prospetterà le novità: «Un coordinamento, una cooperazione della sinistra partendo dalle scadenze immediate. Sul disegno di legge Lanzillotta sulle liberalizzazioni, che ancora non ci convince, va espressa una posizione comune come sulla moratoria per l´acqua, cioè nessuna micro-liberalizzazione». Riguardo al portavoce unico Russo Spena, che è uno dei papabili per Palazzo Madama, frena: «Riparliamone tra qualche mese». «Benissimo un portavoce unico della sinistra alle Camere, anche se se non subito per non creare malumori tra i capigruppo che potrebbero sentirsi esautorati», riflette il verde Paolo Cento. Di nomi se ne fanno già: a Montecitorio quelli di Fulvia Bandoli o di Katia Bellillo. Più imminente per la verità è la questione dei nuovi presidenti dei gruppi che si costituiranno dalla costola dei Ds, ovvero la Sinistra democratica. Quasi sicuramente sarà Cesare Salvi alla guida di 12 senatori transfughi e quindi lascerà la presidenza della commissione Giustizia. «Mercoledì ne discuterò con Anna Finocchiaro. Il portavoce unico? Bene, ma prima vengono le posizioni unitarie. Se al mediatore di Emergency, Hanefi non viene garantito un giusto processo, la sinistra potrebbe chiedere il ritiro delle truppe dall´Afghanistan. Saremo tutti d´accordo?». Finocchiaro, la capogruppo dell´Ulivo ha anche un appuntamento con Roberto Manzione per affrontare un´altra spina. Manzione, Bordon, D´Amico, i dipietristi (Formisano, Caforio, Giambrone, Rame) e l´ex Pdci, Rossi intendono partecipare al coordinamento politico della sinistra. Il «compagno senatore» Cossutta poi, per ora non lascerà il gruppo Pdci-Verdi che senza di lui non avrebbe più i numeri, pur avendo divorziato politicamente da Diliberto: «Sto a vedere cosa fanno questi miei estranei compagni». Sabato prossimo, Mussi all´assemblea di Sinistra democratica annuncerà i gruppi parlamentari autonomi e lì dovrà dare numeri certi: per ora 12 senatori, 23-25 deputati e malumori sul capogruppo alla Camera.

Repubblica 30.4.07
Bertinotti: "Questo degrado nuoce alla difesa della laicità"
Va condannata ogni violenza o minaccia di violenza ma soprattutto il degrado politico di cui è espressione
di Massimo Giannini


«Solidarietà», piena e affettuosa. E poi anche «condanna», netta e inequivocabile. Ma ora basta: serve anche «uno scatto etico e politico», per fermare «questo clima pericoloso». È una domenica serena, quella di Fausto Bertinotti. In Umbria, a giocare con i nipotini, per i quali «stravede» come ogni nonno che si rispetti. Una domenica importante, perché esattamente un anno fa, il 29 aprile, un leader non «ex» né «post», ma ancora «orgogliosamente comunista» come lui veniva eletto alla presidenza della Camera. Una ricorrenza significativa, che Fausto il Rosso trascorre in famiglia. Ma la nuova minaccia a Bagnasco è per lui motivo di un´inquietudine profonda.
Il presidente della Camera non nasconde la sua preoccupazione: «La mia solidarietà e la mia condanna sono scontate, ci mancherebbe. Il fatto è che e a questo punto non bastano più», osserva. Proprio lui, che da quando ha assunto la terza carica dello Stato, ha voluto manifestare il massimo rispetto nei confronti della Chiesa, ma ha puntigliosamente rivendicato il principio di indipendenza e sovranità dello Stato sancito dall´articolo 7 della Costituzione, oggi è convinto che episodi gravi di offesa, e ancora di più di violenza (per fortuna solo minacciata e non anche praticata) nei confronti delle più alte gerarchie ecclesiastiche nuocciono proprio a chi, come lui, è impegnato nella difesa della laicità dello Stato.
E il frutto di questo clima da «scontro di civiltà», che Bertinotti considera avvelenato e pericoloso. «Ogni violenza o minaccia di violenza va condannata», dice. «E soprattutto va contrastato il degrado di cultura pubblica di cui queste violenze e minacce sono espressione». È la frontiera della «non violenza», che il leader di Rifondazione ha valicato ormai da tempo, e che ormai professa con convinzione, e a tutto campo. In politica internazionale come in politica interna. Soprattutto nei confronti di certi suoi «compagni di strada». Quei settori della sinistra più estrema e radicale, che dal proscenio dei cortei in cui si bruciano bandiere «nemiche» o dall´anonimato dei muri su cui si scrivono slogan terroristici, vorrebbero riprecipitare l´Italia sotto una cappa di piombo da fine anni ‘70.
Sotto quella cappa, ormai, è finito anche il Vaticano. E da un mese a questa parte, il «bersaglio» prescelto sembra essere proprio il presidente della Cei. Un esito esecrabile della controffensiva ecclesiastica sui temi eticamente sensibili, dai Dico all´aborto all´eutanasia? Una reazione inaccettabile alla crociata ratzingeriana contro il «debole relativismo» dell´Occidente e la «deriva laicista» della politica italiana? Il nesso è evidente. Ma proprio qui, per Bertinotti, sta il rischio maggiore di questo «degrado di cultura pubblica». «Proprio la particolare delicatezza dell´attuale rapporto tra la Chiesa cattolica e lo Stato, e proprio l´esigenza di difendere e arricchire l´idea di laicità - riflette il presidente della Camera - richiedono a noi tutti di essere particolarmente vigili e attenti nei confronti di atteggiamenti che, oltre ad offendere chi ne è oggetto, determinano o possono determinare un clima generale».
Per questo, ormai, la solidarietà e la condanna non bastano più. Quello che si richiede è proprio un soprassalto etico e politico. Per fare argine al degrado, che impoverisce e imbarbarisce il discorso pubblico sul quale finiscono per lasciare un segno le «schegge impazzite» di qualunque colore.
Per porre fine al conflitto ideologico falsamente «huntingtoniano», che finisce per essere il vero brodo di coltura della violenza vecchia e nuova. «In questo momento - aggiunge Bertinotti - proprio non si sente il bisogno di un «clima generale così degradato». Servono ascolto e rispetto. Proprio perché le relazioni tra Stato e Chiesa vivono una fase complessa, in cui su certi temi, a partire dalla famiglia e dai diritti civili, è difficile trovare quella «sintesi» auspicata qualche mese fa dal presidente della Repubblica.
Più crescono le tensioni, più prolifera l´intolleranza, più diventa ardua la battaglia di chi, come lo stesso Bertinotti, è impegnato a difendere lo Stato laico. Il presidente della Camera l´ha detto chiaro, esattamente un mese fa, il 28 aprile, quando si è recato in visita al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, proprio nel giorno in cui la Conferenza episcopale di Bagnasco aveva diffuso la sua «Nota pastorale» sulla famiglia e sulle unioni di fatto: «La laicità dello Stato è elemento fondativo delle istituzioni. Bisogna avere il massimo rispetto per i fenomeni religiosi, in particolare per la presenza significativa della religione cattolica. Ma proprio per questo bisogna avere l´ambizione di realizzare ogni giorno la laicità dello Stato». Questa «ambizione» - è il ragionamento del presidente della Camera - rischia di venire frustrata proprio da episodi come quello appena accaduto a Genova. Ecco perché è necessario alzare il livello di attenzione e di vigilanza.
Si avvicinano scadenze delicate, da tutti i punti di vista. Mancano solo due settimane al «Family day». Bertinotti ne è giustamente preoccupato. In questo «clima di degrado», bisogna fare di tutto per evitare che, suo malgrado, questo evento sia caricato di significati non voluti e di implicazioni non previste. «Davvero, proprio non se ne sente il bisogno...» , ripete per l´ultima volta Bertinotti, prima di tornare a dedicarsi ai suoi nipotini. Oggi sarà in Sicilia, per commemorare Pio La Torre a Palermo e per ricordare la strage dei lavoratori a Portella delle Ginestre. Domani sarà a Torino, per la Festa del Primo maggio. Fausto il Rosso non ha dubbi: questo resta il modo migliore, per onorare il suo primo anno da presidente della Camera.

Corriere della sera 30.4.07
Prove d’intesa. Russo Spena: al voto uniti entro tre anni
Diliberto, Mussi e il Prc Il cantiere della sinistra


RIMINI — Riassumendo: «Le nostre radici risalgono al 1789», da lì si passa a «quel grande evento liberatorio che è stata la Rivoluzione d'Ottobre», quindi «la nascita del Pci nel '21» e il «partito nuovo di Togliatti nel '44», per arrivare all'89 «quando qualcuno ha pensato: si chiude qui». E invece no, agita il braccio Oliviero Diliberto, «noi non ci siamo arresi alla sconfitta, abbiamo portato quel simbolo nel terzo millennio!».
La morale del segretario dei Comunisti italiani, confermato ieri all'unanimità, è dedicata al non nominato ex presidente Armando Cossutta: «Se rinunciassimo, dovremmo dire che aveva ragione Occhetto, potevamo risparmiarci vent'anni! Ma noi ci terremo, oggi, domani e per sempre il nome "comunisti", la falce e il martello!». Tanto per mettere i puntini sulle "i", sapendo che «l'unità a sinistra» è in vista, richiede «coraggio» ma non sarà una passeggiata, «dobbiamo trovare un equilibrio perché non prevalga né la pulsione identitaria né la svendita».
E il problema delle sinistre è tutto qui: è stato Diliberto a lanciare l'idea di una «confederazione tra diversi», a nome dei diessini che non accettano il Pd (la «Sinistra democratica» di Mussi e Angius) Cesare Salvi ha ripetuto a Rimini che il «grande partito unitario e plurale» sarà unito «senza aggettivi né abiure». Tutti confermano il «coordinamento dei gruppi» alla Camera e al Senato, tutti si vedranno il 5 maggio. Bisogna fare «massa critica», diceva Bertinotti. Ma la faccenda è delicata. Per dire: come potranno mai chiamarsi? «La sinistra», «A sinistra», «Sinistra», al massimo associato a «unità» e varianti, vietatissimi gli aggettivi tipo «socialista» o «comunista» perché sennò si litiga: il nome della Cosa non si annuncia granché fantasioso, e meno male che ci pensa Franco Grillini, ultimo fuoriuscito dalla Quercia (con Cecchi Paone e altri creerà un movimento «lib-dem» che guarda in particolare all'universo gay) a ravvivare l'ambiente: «Proporrò la parola libertà, non possiamo lasciarla a Berlusconi».
Pure la leadership è «prematura». Anche se «non credo possa essere nessuno di noi "fondatori", ci vuole una personalità esterna», butta lì Diliberto. Prima bisogna badare ai «contenuti». E fare presto. Rifondazione, dice Russo Spena, immagina un «nuovo soggetto» che «comprenda i movimenti» e si presenti «con nome e simbolo» fra «due-tre anni, tra le europee 2009 e le politiche 2011». C'è chi pensa alle amministrative 2008. Ma il problema è come, «la politica non è presentarsi alle elezioni», spiega Salvi. Non un cartello elettorale. Né qualcosa come
Die Linke di Lafontaine, «quella è una cosa diversa e sbagliata: non è che Schröder abbia cambiato la ragione sociale della Spd come i Ds». Piuttosto il «modello Epinay» evocato da Bertinotti, Mitterrand che nel '71 rimette insieme i cocci socialisti.
«Suggestivo», dice Salvi. Mussi va all'assemblea di "Uniti a sinistra" e parla di «partito unico». Folena condanna «l'accoglienza dei Ds Berlusconi». Niente buonismi da Pd. E il Pdci dà l'esempio: bordate di fischi («Buffone!», «fascista!») a Emilio Fede che arriva a Rimini scortato da Diliberto. «Non ho sentito, e con Oliviero siamo buoni amici», commenta sportivo il direttore del Tg4. E Diliberto: «L'ho invitato io, sono contento sia venuto. E poi non l'hanno fischiato tanto, temevo peggio...».

il Riformista 30.4.07
Dico-Day. Pensando a San Giovanni e a una data che fu uno spartiacque
Perché il 12 maggio saremo in piazza Navona
Di Paolo Franchi


Non potrei giurare che Marco Pannella colga del tutto nel segno, quando dice che il Family Day si farà proprio il 12 di maggio perché i suoi promotori vogliono prendersi, a 33 anni di distanza, una clamorosa rivincita su un altro 12 maggio, quello della vittoria del No nel referendum sull'abrogazione della legge sul divorzio: chissà, potrebbe pure darsi che in un Paese come il nostro persino la Chiesa, ogni tanto, abbia dei vuoti di memoria, e che insomma questa data sia venuta fuori un po' per caso, e gli organizzatori della manifestazione romana di piazza San Giovanni per la famiglia e contro i Dico vi si siano affezionati, cogliendone l'evidente valore simbolico, strada facendo. E, almeno in partenza, non ero neanche sicurissimo che fosse una buona idea, quella avanzata dalla Rosa nel Pugno, o come si chiama adesso, di darci appuntamento lo stesso giorno, in piazza Navona, la stessa dove nel '74 ci ritrovammo a festeggiare la vittoria, per una contromanifestazione indetta in nome dell'«orgoglio laico»: va bene, benissimo, difendere puntigliosamente (e orgogliosamente, perché no) le libertà, i diritti, la laicità della politica e dello Stato, va un po' meno bene accettare la logica dello scontro frontale.
Ma con il trascorrere dei giorni, e il crescere delle polemiche, il giudizio di Marco si è fatto, almeno ai miei occhi, più convincente, e l'idea di ritrovarci in piazza Navona (spero in tanti, credenti e non credenti, etero ed omosessuali, sposati single e conviventi, e chi più ne ha più ne metta), pure. Quel 12 di maggio del '74 rappresentò uno spartiacque nella storia politica, civile e culturale italiana. Politicamente, civilmente, culturalmente entrammo in Europa, o almeno sperammo di esserci entrati. Molti lo hanno dimenticato, noi no: non vogliamo tornare indietro, e siamo certi di non essere soli. Dunque, il Riformista il 12 di maggio del 2007 ci sarà, perché quella piazza è, oggi come allora, la nostra piazza, quella gente, poca o molta, speriamo moltissima, che sarà, è la nostra gente, quell'orgoglio laico è il nostro orgoglio: senza arroganza, senza volontà di rivalsa, aperti, tolleranti, pronti al dialogo pure nei confronti di chi l'apertura, la tolleranza, la disponibilità al dialogo non sa nemmeno dove stiano di casa, e però per nulla inclini a ritirarci in buon ordine, e in silenzio.
A far maturare in noi questa convinzione tranquilla sono state, per curiosa che possa apparire la cosa, anche le reazioni all'iniziativa di alcuni tra i principali organizzatori del Family Day, come le accuse del portavoce, il nostro amico Savino Pezzotta, secondo il quale chi va in piazza Navona «vuole solo dividere il Paese», quasi che chi va in piazza San Giovanni volesse invece unirlo rispettando e garantendo la pluralità delle opinioni, o le proteste di Paola Binetti, che assicura che in piazza Navona, manifestando perché quella pur modesta riforma che sono i Dico non finisca definitivamente dispersa in Parlamento, si manifesterà in realtà «contro la famiglia». A questa logica, a questa indimostrata e presuntuosa certezza di rappresentare la stragrande maggioranza del Paese (anzi, l'unità vera e profonda degli italiani) che viene ostentata, a questa crescente inclinazione a costruire rappresentazioni di comodo del punto di vista altrui, non ci stiamo. Siamo sicuri, dicevo, di non essere soli. Ma il 12 maggio vorremmo che ci confortassero in questa convinzione (venendo in piazza Navona, e guardando in tv la manifestazione, con ogni probabilità ben più massiccia, di piazza San Giovanni) tutte le forze del centrosinistra che la legge sulle unioni di fatto la hanno voluta. E che quotidianamente ci assicurano di non considerare esaurito il loro compito.

l’Unità 30.4.07
Effetto Pd, a sinistra prove di unità
Rc, Pdci, Verdi, Mussi-Angius decidono un coordinamento parlamentare
Verso un’Unione meno frammentata.(...)
di Eduardo Di Blasi


L’Ulivo scuote l’Unione. Oliviero Diliberto conclude il congresso dei Comunisti italiani rilanciando l’unità della sinistra, pur nel ribadire l’identità comunista: «Dopo tanta navigazione finalmente avvertiamo la riva. Certo non è bello dire che noi lo avevamo sempre detto, però è dal 2001 che affermiamo la necessità di riunire la sinistra». Pdci, Verdi e la nascente Sinistra democratica aderiscono alla proposta di Rifondazione di «patti di consultazione» tra i rispettivi gruppi parlamentari (oggi si costituiscono i gruppi di Mussi e Angius, che saranno i terzi per quantità del centrosinistra). Mussi lo dice a chiare lettere: «Il nostro obiettivo deve essere un partito politico». Per garantire che l’asse del governo stia «al posto giusto». E per «scongiurare il rischio di apertura a nuove prospettive neocentriste».
Intanto, in un sondaggio realizzato da Demos-Eurisko per Repubblica il Pd è dato al 28%, in risalita, rispetto al 23-25% delle stime delle scorse settimane. «Quando si fanno le cose per bene, la gente lo capisce - commenta Romano Prodi - i due congressi sono stati un confronto serio, c’è stata una risposta popolare». Di Blasi e Marra
Il primo passo sarà il coordinamento dei gruppi alla Camera e al Senato. Una forza (Prc-Pdci-Verdi-Sinistra Europea), che da subito assicura il segretario del Pdci Oliviero Diliberto «potrà incidere fortemente sugli equilibri della coalizione». Una forza parla-
mentare, sia ben inteso. Perché il governo, ne è convinto Diliberto, «meno lo tocchiamo e meglio è. Anzi, dobbiamo preservarlo, incalzarlo sui temi sociali ma preservarlo».
Dal punto di vista parlamentare, però, sembra potersi aprire effettivamente una fase di equilibri diversi all'interno della coalizione, un equilibrio non più basato sui vecchi rapporti di forza tra «cattolici», «riformisti» e «sinistra» più o meno radicale. Così, in una ipotetica richiesta di cosa portare all'attenzione dell'aula, forti dei nuovi numeri, Diliberto confida «il disegno sui lavoratori precari che giace in commissione Lavoro alla Camera e quello sul conflitto di interessi, che speriamo arrivi presto in aula a Montecitorio. Il primo darebbe una risposta a un problema sociale, il secondo sarebbe anche un messaggio al nostro popolo».
Nella giornata conclusiva del congresso del Prci, il segretario dei Comunisti Italiani appare soddisfatto. Lo ha detto anche nel discorso di chiusura: «Dopo tanta navigazione finalmente avvertiamo la riva». E, più tardi, più rilassato, «certo non è bello dire che noi lo avevamo sempre detto, però è dal 2001 che affermiamo la necessità di riunire la sinistra». Rimini, scelta non a caso perché sede dello storico congresso che sciolse il Pci nel 1991, in questo senso, sembra aver portato bene al progetto.
Così, adesso, ribadita dal palco l'effettiva sopravvivenza dei «comunisti» nel terzo millennio («chi ci avrebbe scommesso dopo l'89?»), sottoscritta la battaglia per il «superamento del capitalismo», rivendicate le insegne della falce e del martello («se dicessimo di sì alla proposta di cancellarle è come se dessimo ragione alla scelta di Occhetto dell'89, e allora abbiamo fatto una fatica inutile in questi vent'anni…») e quella che Berlinguer definiva la "diversità" comunista (intesa come etica pubblica e rigore morale), chiede coraggio e generosità ai propri iscritti. Anche di «fare un passo indietro», se necessario, poiché, avverte, uno dei meccanismi che scatteranno nel processo confederale sarà «l'autoconservazione dei gruppi dirigenti». È iniziato un nuovo corso. «Abbiamo fatto bene a spostare il nostro congresso da febbraio a fine aprile, così da poter ragionare con chi è uscito dai Ds…».
Il 5 maggio, come già scritto nei giorni passati, Diliberto sarà al varo della Sinistra Democratica di Mussi e Angius. Ci andrà, ovviamente, da ospite, perché una delle cose che è emersa chiara da questo congresso, è che i soggetti politici della futura sinistra resteranno per ora autonomi. Federati ma autonomi («Resteremo per sempre comunisti», profetizza dal Palco Diliberto). Angius e Mussi li chiamerà al telefono già oggi. «Gavino Angius - ricorda il segretario del Pdci - era il mio segretario regionale, quando c'era il Pci». Poi sarà a tutte le altre riunioni dei costituenti: dai Verdi a Genova, all'assemblea di Rifondazione… E il segretario del Pdci continua a ritenere fondamentale l'apertura ricevuta dal capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena. «Indica che la strada si può percorrere».
La strada resta lunga, anche se, in questa fase, tutti puntano ad accelerare. La ricetta di Diliberto, per adesso, tiene: «Cerchiamo l'unità - dice dal palco - ma non dimentichiamo la diversità, che implica autonomia, competizione ma anche tratti di differenza rispetto a tutti gli altri alleati». Alla fine del percorso, qualora ci si presentasse uniti alle elezioni (Diliberto continua a non volersi «impiccare a una data», che sia quelle delle provinciali o quella delle europee), il segretario del Pdci vede un risultato «a due cifre» per il nuovo soggetto. Sempre che, usiamo una citazione di Palmiro Togliatti, fatta propria da Diliberto, l'analisi non sia sbagliata, «perché sbagliare l'analisi significa sbagliare tutto».

l’Unità 30.4.07
Un cielo un po’ confuso
di Gianfranco Pasquino


Alla ricerca di una casa comune, vari rappresentanti della sinistra, che ritengono la prospettiva del Partito Democratico inadeguata e probabilmente controproducente, sembrano avere raggiunto un accordo di massima. I Comunisti Italiani hanno di che festeggiare, almeno per il momento: è al loro Congresso che inizia, forse, un necessario processo di ricomposizione della sinistra. Mentre sembra di moda riaffermare le proprie identità per poi annunciare che si vuole andare «oltre», un oltre indefinito e che nessuno riesce effettivamente a definire, almeno il segretario del PdCI Oliviero Diliberto non ha rinunciato a ricordare a tutti che i Comunisti italiani sono proprio e intendono continuare ad essere tali: Comunisti.
Nel frattempo, non è chiara la posizione di Rifondazione Comunista che, dimostrando grande lealtà nel sostegno al governo, sembrerebbe volere procedere ad una ridefinizione dei suoi valori e delle sue prospettive, magari accentuando elementi di no-globalismo. Inoltre, rispetto ai suoi piccoli, ma necessari interlocutori, Rifondazione gode del vantaggio di essere meglio organizzata e molto più radicata sul territorio.
Difficile, invece, dire che cosa faranno davvero Mussi, Angius e Salvi insieme ai non pochi deputati e senatori che hanno scelto di non seguire la maggioranza dei Diesse nella costruzione del Partito democratico. Coerenza vorrebbe che, avendo dichiarato di preferire un partito laico inserito nel Partito del Socialismo Europeo, accentuassero questi due elementi e ne facessero l'asse portante della loro prospettiva politica. Naturalmente, in attesa di segnali e comportamenti convincenti, è lecito nutrire molte riserve sul tasso reale di socialismo di quei dirigenti diessini che hanno costantemente criticato le esperienze socialdemocratiche, dichiarandole di volta in volta «inadeguate», «in crisi», «superate», ma, poi, come la grande maggioranza dei loro compagni adesso diventati «Democratici», mai dedicarono tempo e pensiero al rinnovamento di quelle esperienze. Qui, però, sta la contraddizione della sinistra da unire. Né Rifondazione né i Comunisti Italiani potranno mai entrare nel Partito del Socialismo Europeo, né, immagino, lo vorrebbero, poiché il termine comunista è la loro storia e, entro certi limiti, il loro richiamo che li mette inevitabilmente in competizione con i socialisti (e che rende molto problematicamente la eventuale collocazione in questa sinistra dei socialisti di Borselli).
Come possano, dunque, Mussi, Angius e Salvi cercare un aggancio con il Pse e al tempo stesso mettere le fondamenta di una casa comune della Sinistra con i «comunisti» orgogliosi di essere tali, rimane un interrogativo legittimo al quale la risposta sfugge, certamente non soltanto a me. Tuttavia, alcune certezze politiche possiamo dire di possederle già. La costruzione del Partito Democratico spinge verso una riaggregazione auspicabile della sinistra che non ci sta. Un conto, però, è una riaggregazione difensiva, quella che si manifesta adesso; un conto molto diverso sarebbe una riaggregazione offensiva, meglio propositiva, ovvero che dia una prospettiva praticabile. La seconda certezza è che, contrariamente a quello che sembra credere il Presidente del Senato, la Sinistra che si unisce potrebbe anche significare non pochi problemi per il governo Prodi. Infatti, da un lato, la (vecchia-)nuova Sinistra dovrà marcare le sue caratteristiche antagonistiche, a maggior ragione se, su laicità, lavoro, riforma elettorale, il governo scivola verso il centro, dall'altro, in questa Sinistra non scompariranno affatto le questioni di politica estera che hanno già destabilizzato una volta il governo.
Tuttavia, molte di queste considerazioni sono, in un certo senso premature. Vorrei venissero interpretate anche come moniti. La Sinistra che si riaggrega ha potenzialità elettorali positive, ma presenta dei rischi politici. Inevitabilmente, entra anche in concorrenza con il Partito Democratico. Deve ribadire e addirittura insistere vocalmente sulla sua laicità. Non potrà fare a meno di esibirsi anche come coscienza critica del Partito Democratico. Il compagno Presidente Mao tse-tung (a scanso di equivoci, non esattamente un socialista europeo) si rallegrava quando grande era la confusione sotto il cielo. A me sembrerebbe, invece, che sia opportuno preoccuparsi quando, per quanto non sia un fenomeno nuovo e inusitato, grande appare la confusione sotto il cielo della sinistra (italiana).

l’Unità 30.4.07
Mussi: ora nasce Sinistra democratica, ma l’obiettivo è un partito
Patti di consultazione in Senato e alla Camera. Folena: variamo Case della Sinistra. Russo Spena: uniti anche sul territorio
di Wanda Marra


UNITÀ A SINISTRA «Il nostro obiettivo deve essere un partito politico». Fabio Mussi lo dice a
chiare lettere nell’assemblea di Uniti a Sinistra. In quella che è la quarta assemblea nazionale della rete di Pietro Folena e Aldo Tortorella si respira l’atmosfera di chi ha davanti a sé un obiettivo che, se non proprio immediatamente a portata di mano, sembra però possibile, molto di più oggi di quando la rete è nata, un paio d’anni fa: la riunificazione della sinistra “a sinistra” del Pd. Un’occasione concreta, resa davvero possibile dall’uscita dai Ds di Mussi e Angius. I passi da fare sono molti. Il primo, già da oggi, i «patti di consultazione» tra i gruppi in Parlamento, lanciati dal Prc e accolti dal Pdci, ai quali hanno aderito ieri anche Sinistra Ds e Verdi. Per fare dei paralleli con quel che succede nel “vicino” Pd sembra parlare già da leader Mussi, mentre delinea, all’orizzonte, «una forza della sinistra critica, larga, plurale, ma di governo». Dal canto suo, Folena propone «Case della sinistra», che sulla falsa riga delle storiche Case del popolo diventino un «luogo comune nel quale le esperienze e i diversi soggetti si confrontino, si coordinino, diano risposte concrete ai problemi più acuti della realtà». Parla di una «costituente» da fare «prima dell’estate», Maura Cossutta. E, mentre Diliberto chiude il congresso del Pdci nel nome dell’unità della sinistra (ma anche dell’identità comunista), Russo Spena rilancia: il confronto tra le diverse aree di sinistra «autorizza a scommettere su un soggetto unitario le cui ambizioni non si limitano alla contingenza politica immediata». E spiega: «Serve un lavoro culturale e politico ma anche, da subito, organizzativo. Nelle istituzioni, con i patti di consultazione tra i diversi gruppi in Parlamento e negli enti locali, e soprattutto sul territorio, con le Case della sinistra». Tuttavia, «in questa fase i tempi sono importantissimi: il tempo a disposizione non è infinito». Il più atteso è l’intervento di Mussi. Che fa un discorso a tutto campo, partendo dal governo, per arrivare alle matrici culturali che deve avere il nuovo soggetto della sinistra. «In questa legislatura è necessario lavorare a una sinistra che si unifica per garantire che l'asse della maggioranza e del governo stia al posto giusto». Dall'altro lato è necessario lavorare sulla lunga distanza: «Mi ha colpito la sincerità di Marini al congresso della Margherita, concetti poi ripresi da Rutelli. Non sospetto che ora si voglia fare un ribaltone, ma il mondo non si esaurisce in questa legislatura e per la prossima Marini dice che ci saranno “mani libere” per la maggioranza. Significa che si pensa a soluzioni neocentriste, a un allargamento all'Udc?». Per evitare questo, dunque, «serve una sinistra sufficientemente forte e coesa, per scongiurare il rischio di apertura a nuove prospettive neo-centriste». Nel frattempo bisogna «ribaltare i luoghi comuni». Perché, per esempio, «Berlusconi ha vinto non perché aveva le televisioni, che pure l’hanno aiutato, ma perché ha imposto delle idee: chi è ricco è bravo e, essendo ricco, può far diventare ricchi altri». Avverte anche Mussi, strappando un applauso convinto: «Se vogliamo fare questa sinistra non dobbiamo parlare degli operai, come gli antropologi parlano dei Maori». E mentre annuncia la costituzione di gruppi autonomi di Sinistra democratica alla Camera e al Senato (che diventeranno i terzi del centrosinistra in Parlamento) sottolineando come la manifestazione del 5 maggio che sancirà la nascita di questo movimento «sarà affollata di gente che si aspetta una novità a sinistra». In rappresentanza dei Verdi, anche Cento accoglie l’idea dei patti di consultazione tra i gruppi, che vanno arricchiti «con un'assemblea dei parlamentari che si riconoscono nel progetto di riunificazione della sinistra».

l’Unità 30.4.07
Le certezze di psicologi e magistrati:
«I racconti dei bambini sono attendibili»


L’ALLARME nasce l’estate scorsa quando i genitori notano in cinque bambin (poi diventeranno diciassette) comportamenti strani, preoccupanti. I bambini sono tutti fra i tre e i quattro anni. Comportamenti che l’avvocato Giacomo Augenti, che assiste sei famiglie, ieri, così descriveva: «I bambini hanno i medesimi comportamenti non consoni alla loro età. Si spogliano all'improvviso, hanno crisi di panico, vomitano in continuazione». L’avvocato aggiunge che presto ci saranno altre denunce e, particolarmente, ne cita una: «Una mamma che ha una bimba di 6 anni e una di 4. Prima ha scoperto gli abusi sulla più piccola e la più grande ha visto che la mamma parlava con dolcezza alla sorellina minore e non la sgridava, allora anche lei ha confessato di aver subito la stessa sorte e ha raccontato il suo calvario quando era all'asilo».
Poi ci sono le perizie pediatriche e psicologiche, la lunga inchiesta che porta d’apprima alla sospensione delle maestre e poi all’arresto di sei persone mentre si sa che altre cinque sono indagate. L’identificazione delle persone arrestate si basa, in parte, sul racconto dei bambini che raccontano il «gioco del dito dritto» e quello «tu mangi me io mangio te», parlano di un «uomo nero», che viene dagli investigatori identificato come Kelun Weramuni, un giovane benzinaio cingalese. Descrivono la casa che i carabinieri, sulla base dei particolari di quei racconti, riconosceranno nella villetta a schiera dove vivono due degli imputati. La maestra Patrizia Del Meglio e il marito, l’autore televisivo Gianfranco Scancarello. Nel racconto dei bambini ci sono anche i giocattoli (peluche) e i travestimenti degli adulti: cappucci, vestiti da prete. C’è la maestra nuda che cucina mentre loro giocano sul letto. Ci sono i succhi di frutta che, secondo l’ordinanza, contengono droghe o sedativi per rendere i piccoli più docili e disponibili.
Sulla attendibilità di questi racconti si sono pronunciati diversi psicologi. Luigi Cancrini, ad esempio, che ha seguito alcuni dei bambini, sostiene «quando un bambino così piccolo subisce un abuso ha la capacità di fissare nella memoria e raccontare ma, spesso, è un racconto nel quale c’è un surplus di fantasia che rende più complicata la testimonianza». Al contrario, in molti casi in cui la violenza non è stata dimostrata, il racconto era più stereotipato. Gli esperti, dunque, credono ai bambini e sono rafforzati nelle loro convinzioni dai referti medici che parlano di segni «compatibili con le violenze» sul corpo di alcune delle vittime.
Un punto molto delicato dell’inchiesta è quello relativo agli spostamenti dei piccoli allievi dalla scuola. Su questo punto viene citata la testimonianza di due agenti della polizia municipale, Elisabetta Palamides e Nadia Di Luca, che a maggio dello scorso anno incontrano un gruppo della «classe della Malagotti» (un’altra delle maestre indagate) fuori dalla scuola in orario scolastico.

l’Unità 30.4.07
L’orrore della pedofilia e il linguaggio della verità
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
ho letto alcune tue dichiarazioni sulla vicenda di Rignano Flaminio. Ma davvero pensi che cose di questo genere possono essere accadute? Più io ci penso più mi sembra impossibile.
Lettera firmata

La sensazione legata al «non può essere vero» purtroppo la provo spesso. In dieci anni di attività del Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e Famiglia voluto da Rutelli e poi da Veltroni per il Comune di Roma ho ascoltato un numero in effetti assurdo di racconti su orrori impensabili. Quando il bambino parla il linguaggio della verità, tuttavia, arriva il momento in cui non si può e non si deve dubitare ed in cui bisogna sostenere il difficile percorso della denuncia e del processo. L'esperienza clinica e la letteratura internazionale dimostrano con grande chiarezza, purtroppo, che i bambini hanno spesso ragione. Il che non vuol dire, ovviamente, che tutte le accuse fatte da un bambino debbano essere prese per oro colato. I bambini possono mentire, a volte, quando dietro di loro c'è un adulto che, in buona o cattiva fede, li spinge a raccontare cose non vere. Chi ha avuto a che fare con delle separazioni altamente conflittuali sa bene che queste cose possono accadere. Se è un professionista esperto tuttavia sa anche che è possibile distinguere i racconti falsi da quelli veri. In contesti adeguati, con personale sufficientemente preparato, utilizzando strumenti diagnostici specifici, il clinico esperto sa che la differenza fra i racconti veri e quelli falsi salta agli occhi. E' evidente. Un'osservazione importante da fare a questo punto, tuttavia, è quella che riguarda i bambini più piccoli. Violenze e abusi subiti nella prima infanzia debbono essere visti per quello che sono, come traumi capaci, cioè, di produrre disturbi importanti nell'organizzazione psicologica del bambino. Un fenomeno che si verifica spesso in queste circostanze è che il racconto del bambino sia alterato da una serie di fantasie che hanno origine spesso nei suoi sogni e che arricchiscono il racconto di particolari bizzarri, poco realistici, che non trovano riscontro nei fatti. Verificato da un gruppo di ricercatori americani in un campione di più di 100 bambini abusati in tenera età da adulti che avevano confessato il loro crimine, questi racconti aggiuntivi, che tanto colpiscono la fantasia di chi li ascolta, possono indurre a ritenere infondata l'intera testimonianza. L'esperienza clinica e la ricerca altro non fanno invece che sottolineare il modo in cui, sollecitata dal trauma, la psiche del bambino reagisce drammatizzando e arricchendo i fatti realmente documentati che profondamente lo hanno ferito. Tutto quello che so dei fatti di Rignano Flaminio è legato ad una serie di racconti dei familiari e dei periti. L'impressione che ne ho tratta è che ci sia purtroppo qualcosa di molto serio alla base delle accuse formulate oggi dai giudici. Qualcosa che merita, voglio dire, un accertamento giudiziario. Non ho letto in dettaglio le perizie, tuttavia, e non ho parlato direttamente con i bambini. Non posso dunque dire con certezza che le cose stiano così come mi sembrano oggi. Viviamo in un paese democratico, la giustizia farà il suo corso. Quello che mi sento di affermare con grande chiarezza però sono almeno tre cose:
a. la prima è che i bambini di tre e di quattro anni ricordano con precisione gli eventi traumatici da cui sono colpiti; me lo dice l'esperienza di ogni giorno, me lo dicono i miei ricordi dei bombardamenti su Roma quando quell'età li avevo, me lo dice la letteratura concorde sui tempi dello sviluppo cognitivo del bambino;
b. la pedofilia esiste; esistono adulti malati condizionati da una pulsione irresistibile, si tratta di persone descritte molto spesso come del tutto insospettabili, più o meno spaventate esse stesse dal disturbo grave che condiziona la loro vita e che hanno grande bisogno di essere aiutate ma che aiutate possono essere spesso solo nel momento in cui arriva per loro la condanna;
c. la pedopornografia ugualmente esiste; ha un enorme giro d'affari, non utilizza più soltanto bambini e minori che vengono dai paesi del terzo mondo; quando sceglie bambini italiani o europei lo fa spesso scegliendo bambini di cui pensa che non parleranno perché sono o molto piccoli o molto indifesi.
Di tutte queste cose, credo, dobbiamo tenere conto seriamente. Proteggere i bambini chiede un insieme di interventi coordinati e intelligenti di tipo preventivo, educativo e repressivo. Anche questa è una sfida che una società civile deve saper affrontare con la dovuta serenità. Senza inutili clamori e senza pericolose sottovalutazioni.

domenica 29 aprile 2007

Corriere della Sera 29.4.07 pag.37
Il quaderno nero
Il figlio di Heidegger: ecco la prova che mio padre non credeva a Hitler
di Hermann Heidegger


Non mi posso lamentare in nessun modo di Martin Heidegger come padre. Per me è stato veramente un padre e il rapporto di fiducia che avevo con lui era straordinariamente buono. Durante la mia infanzia la vita quotidiana trascorreva così: era spaventoso quanto lui lavorasse, mentre mia madre si preoccupava che in casa regnasse la quiete e non vi fossero rumori. Perciò non ci era permesso portare altri ragazzi in casa e neppure fare chiasso in giardino o gridare, per non disturbarlo durante il suo lavoro.
All'epoca del ginnasio avevo delle difficoltà in latino e in greco, e la sera, dopo cena, mi era consentito entrare nel suo studio: mi spiegava il latino e il greco molto meglio dei miei insegnanti tanto che, quando era lui a spiegarmi qualcosa, riuscivo a capire. Si interessava anche a ciò che noi ragazzi facevamo, alla nostra attività di boy scout e più tardi a quella di dirigenti dell'organizzazione Jungvolk. È stato un padre attento e aperto. Era anche un ottimo sportivo: andavamo assieme a sciare oppure in canoa. Questi sono ricordi veramente stupendi del tempo passato con mio padre. (...) Naturalmente avrebbe preferito che io avessi intrapreso una carriera accademica. Non che si aspettasse che diventassi un filosofo, questo sicuramente no. Comunque non mi ha opposto una resistenza così dura come quella di mia madre, che era assolutamente contraria al fatto che diventassi un ufficiale, poiché lei stessa era figlia di un ufficiale e aveva imparato cosa significasse vivere nella famiglia di un militare di carriera: essere trasferiti ogni due o tre anni, essere continuamente strappati da ogni forma di legame giovanile e così via. Io però volevo seguire il modello del mio nonno materno, che appunto era ufficiale, e dicevo: «No, io diventerò come lui». Martin Heidegger non disse nulla in contrario. (...) Le passioni amorose giocarono un ruolo rilevante nella sua vita. Il matrimonio con Elfride entrò infatti in crisi. Mia madre dovette allora parlare con lui in modo molto duro e molto chiaro, affinché lui la smettesse una buona volta con le sue relazioni extraconiugali. Questo fu il momento cruciale, nel quale si giunse ad una rottura, come asseriscono alcuni, o ad un confronto, come invece affermano altri.
Io conoscevo una parte di queste donne. Mio padre mi ha sempre detto: «Le persone devono occuparsi del mio pensiero, la vita privata non ha nulla a che fare con la sfera pubblica». E io mi sono sempre attenuto a questa indicazione. Naturalmente, ero dispiaciuto e preoccupato per mia madre, in relazione a quello che succedeva, sebbene non fossi al corrente di tutto ... di alcune cose sono venuto a conoscenza soltanto adesso. Un giorno si presentò qui una donna e disse: «L'argomento Heidegger per me è definitivamente chiuso. Ecco qui le sue lettere». Io non conoscevo questa signora, non avevo mai sentito parlare di lei, ma ricevetti da lei un gran numero di lettere d'amore, che ho portato a Marbach dove rimarranno inaccessibili fino al 2046. Io penso che nel caso di grandi personaggi come Goethe, Picasso, Wagner, Benn, Mann ... ovunque accadono simili cose, forse questo appartiene alla vita dell'uomo. Oppure, proprio nel caso di grandi talenti, si tratta forse di un complemento necessario, o di un motivo di ispirazione. Alcune di queste donne le ho conosciute personalmente e devo dire sinceramente che erano delle donne straordinarie, tanto sul piano intellettuale, che su quello dell'aspetto fisico, cosa che come uomini ammiriamo molto volentieri. (...) Il 29 luglio 1932 Hitler tenne a Freiburg una manifestazione elettorale allo stadio Mösle. Mia madre vi si recò con i suoi due figli. Fu allora la prima volta che vidi Hitler. Mio padre non era presente. Due giorni dopo, in occasione delle elezioni, egli votò ancora per il partito dei viticultori del Württemberg. Sicuramente fu l'influsso di mia madre a portarlo a votare per il partito nazionalsocialista nelle successive elezioni per la Camera dei deputati del novembre del 1932 e poi del 1933.
Egli non entrò nel partito, come sempre viene affermato, con ostentazione il 1˚ maggio, ma solo il 3 di maggio. Il giorno dell'iscrizione venne antidatato dal partito che aveva disposto un blocco alle iscrizioni. Egli entrò nel partito su invito e su richiesta del dottor Kerber, allora borgomastro e al contempo direttore distrettuale. Mio padre lo fece, ritenendo che sarebbe stato per lui più facile dirigere l'università, se avesse avuto un certo sostegno nel partito. Questo fu un errore, questo è l'errore, che a ragione gli si rimprovera.
Ma il fatto che egli già il 1˚ ottobre 1933 in qualità di rettore nominato e non più eletto, investito a sua volta della facoltà di nominare i decani, abbia nominato come decani unicamente dei non nazionalsocialisti, e tra questi, come decano della facoltà di Medicina, il socialdemocratico von Möllendorff, che sei mesi prima era stato costretto alle dimissioni da rettore dai nazisti — ebbene questo fatto mostra inequivocabilmente che Martin Heidegger non lavorava assieme al partito e ai nazisti, ma che, al contrario, era molto distante da loro. E quando a fine febbraio 1934 venne convocato a Karlsruhe e si pretendeva da lui che destituisse i decani Wolf e von Möllendorff, invisi al partito, egli si rifiutò di farlo e in segno di protesta si dimise dalla carica di rettore. L'errore politico di mio padre nella primavera del 1933 è indiscutibile. Ma la convinzione che egli si sia sbagliato, si trova già espressa in un Quaderno nero che porta la data dell'aprile 1934. Questo sarà documentato nel momento in cui i Quaderni neri saranno pubblicati.

Corriere della Sera 29.4.07
Un ritratto controcorrente
Attratto dalle belle donne, deluso dal regime
UnMartin
di Dario Fertilio

Heidegger lontano dalle rappresentazioni consuete è al centro di questa conversazione pubblicata sull'ultimo numero di MicroMega, e di cui pubblichiamo in estratto alcuni brani. È il figlio Hermann a raccontare, stimolato dal ricercatore Angel Xoloctzi. Oltre al resoconto della lunga battaglia legale con la nipote Gertrud intorno alla pubblicazione di molte delle lettere d'amore del padre, il figlio ammette che i rapporti con le donne, anche fuori del matrimonio, sono stati una componente essenziale della sua personalità.
Hermann descrive il tormentato rapporto di Martin Heidegger con la chiesa cattolica, e soprattutto lo difende dall'accusa di compromissione con il regime nazionalsocialista. Hermann annuncia, anzi, l'esistenza di un «Quaderno nero» dell'aprile 1934, ancora non pubblicato, da cui risulterebbe, se non il pentimento, almeno la convinzione del filosofo di avere commesso un errore aderendo al regime.

Su «MicroMega»
Nel nuovo Almanacco di Filosofia di MicroMega compare — oltre all'intervista a Heidegger che pubblichiamo e a una sezione filosofica dedicata alla sua eredità — un saggio su Gesù di Paolo Flores d'Arcais. Ancora, Roberto Esposito e Stefano Rodotà si confrontano sull'idea di "persona" con tutte le implicazioni di diritto che ne scaturiscono. Inoltre, due tavole rotonde su fede, razionalità e fondamentalismo con, fra gli altri, Enzo Bianchi, Gille Kepel, Moni Ovadia e Orlando Franceschelli. Infine, e una tavola rotonda sul valore della politica con Giacomo Marramao, Jacqueline Bhabha, Emanuele Severino.

Corriere della Sera 29.4.07
Apocalisse
Ira del mondo e pazienza divina È l'Ora della battaglia finale
di Massimo Cacciari


Apocalisse è Rivelazione, definitivo strappo del velo che ci impedisce di leggere il «libro» dove tutto sta scritto ab aeterno, il Vangelo Eterno (espressione presente qui soltanto in tutto il Nuovo Testamento): esso rappresenta «la corona della vita» (Ap. 2,10), il «rotolo della vita» (Ap. 3,5). Esso darà finalmente da mangiare l'Albero della Vita! (Ap. 2,7). La «storia» iniziata nel Giardino necessariamente «trasgredito» mostra la sua conclusione. Il tempo è «perfetto»; i «fatti» del tempo hanno esaurito la propria energia e si rivelano, come un tutto, compiuti. «Guarda, viene!»: ora viene. Ora è parousia, presenza, cioè, di Colui che rivela il compiersi del tutto, che formula sul tempo il giudizio definitivo. Il tempo si contrae in quella esclamazione: ecco, vedi, viene. E la sua parousia in atto è perfetta rivelazione.
In un colpo d'occhio l'apocalisse abbraccia cielo e terra, gioia celeste e furore e lamento quaggiù, abbraccia come momenti, come un solo movimentum le tragedie che hanno avvinghiato re, mercanti, marinai, servi di Satana a testimoni dell'Agnello. Ma questo sguardo è possibile perché la parousia del Signore, la sua Visita è. L'Agnello tiene nel suo pugno ogni «divenire». La parola di questa Apocalisse erompe dalla voce del Logos che si è fatto carne e ha annunciato salvezza grazie alla fede in Lui. Salvezza dal «fiume immondo della storia» (Nietzsche): questa è la grande visione dell'Apocalisse: la storia è giudicata, la storia si è «arresa». Ma se il Regno è del Signore e del suo Messia (Ap. 11,15) perché queste lotte, perché Satana dovrebbe ancora essere rimesso in libertà (Ap. 20,2)? Ogni fatto è segnato dalla Croce dell'Agnello. Ogni fatto è fatto. Facta sunt. Tutto è già compreso in quel Segno, nessun evento può produrre qualcosa che in esso non sia già saputo.
Il tempo dell'apocalisse è il paradosso del tempo- che-si-fa-spazio. Il tempo, nello sguardo apocalittico, nello sguardo sulla totalità dei fatti «a partire» dall'Ultimo, non è che un «caso» dello spazio. La totalità degli eventi è disposta sulla Grande Scena e in uno questo sguardo li abbraccia. La sofferenza è realissima, il sangue dei martiri scorre realmente, come reale è la Croce e il grido dell'Uomo che vi sta appeso, reali le grandi crisi e le storie degli imperi di questo mondo, ma ecco l'Annuncio: di tutto ciò è ora evidente ( phaneròn: Mc. 4,22) la fine. Si badi: non l'annuncio che finirà ma che ora si compie. E ciò in perfetta coerenza con il Senso dei Sinottici ribadito da Giovanni: Sei tu il Messia? Ego sum.
L'Apocalisse contrae il tempo nel «luogo» onnicomprensivo della totalità degli eventi, celesti e terreni, e scopre il nesso che ab aeterno li collegava indissolubilmente. Che cosa «rimane»? Questo soltanto: cambiate subito mente e cuore, trasformatevi, credete; anzi, che la fede sia per voi metamorphosis. Sottilissimo, pressoché istantaneo «nondum»: il perfetto «aderire» di chi ascolta il Messaggio all'essere-perfetto del tempo.
Non vi è più tempo per l'alternanza di veglia e sonno, non v'è più tempo per «stare a vedere». L'attesa è compiuta. Ego sum. Il segno della Croce domina e comprehende. Vi è «tempo» solo per decidere. Il tempo apocalittico è quello della decisione ultima, che ognuno, ogni singolo deve assumere. «Naturalmente» ognuno cerca di sottrarsi a questa stretta; ognuno spera che i propri atti possano sempre essere rimediati, possano risultare «reversibili». Ora, non più. Vigilate, poiché ora viene. Decidete; è necessario ormai che ognuno sia-per-la-Sua-venuta, che avverrà in un colpo d'occhio, che ci coglierà come un ladro di notte. Ma così già vi è stato detto, perciò «estote parati», siate pronti. Il «lungo» tempo dei rinvii, delle incertezze, delle contraddizioni appare un unico «spazio», il cui senso è presente. Ora, è necessario decidere: o Suoi testimoni-martiri e con Lui «dove» non è più tempo assolutamente, o divorati come meri servi di questo mondo e del suo tempo nel Giudizio. Questa la krisis ultima che comprende in sé ogni possibile dramma. Da un lato, pistis, nomos, soteria, fede, obbedienza al Mandatum novum neo-testamentario che invera, compie, non abolisce un solo iota di quel mosaico, e perciò salvezza. Dall'altro, già giudicate, le potenze dell'apostasia, dell'anomia,che portano, anzi: che già vediamo aver portato all'apoleia, alla distruzione. Da un lato, Cristo; dall'altro, l'Anti-Cristo. Aut-aut.
Certo, qui l'essenziale non consiste nel «quando», bensì nel «come» ognuno, ogni singolo si rapporta all'Ora. Essenziale è essere-per-la-fine, il decidersi per essa. E tuttavia qui non si tratta affatto di vivere ogni istante «come se» fosse l'ultimo, «come se» dovessimo rispondere in questo istante della totalità del nostro esserci. Il «tempo» apocalittico è la realtà dell'Ultimo, rivelazione perfetta del significato escatologico dell'Agnello. L'essenziale non può consistere nel «quando» per la ragione fondamentale che ogni «quando» è trapassato, divenuto, sta sull'altare dell'Agnello: promessa e Venuta, attesa e compimento, sacrificio e resurrezione.
Chiediamoci seriamente: come corrispondere a una tale visione? Il nostro tempo non è tutto storico, da parte a parte? Non interpretiamo ogni accadimento sulla base della sua genesi storica e «aperto» alla sostanziale imprevedibilità del futuro? E non vediamo nel tempo futuro il «deposito» pauroso e affascinante del Novum? E non è del Nuovo, dell'ancora non visto, non rivelato, del Nondum, che abbiamo nostalgia? Questo tempo è l'esatto opposto di quello apocalittico, del tempo-spazio della Rivelazione contenuta nel Vangelo-Eterno. Il tempo del «progresso» indefinito può dar vita a una serie di crisi-e-decisioni, si dispiega in un fiume di «anni decisivi», ma per definizione non può essere pensato al suo compimento. La sua «insecuritas» non potrà mai essere definitivamente «curata», e cioè giudicata e «risolta». E tuttavia come non vedere che le decisioni che costituiscono la nostra storia assumono una forma che è «simia», che è a imitazione, diabolica forse, della Decisione cui ci chiama il Logos dell'Apocalisse? Si, ogni nostra decisione la imita, rovesciandola: vorrebbe presentarsi come «risolutiva», pretenderebbe di disvelare il senso del divenire fino a quel punto rimasto nascosto, di «scontare» in sé l'imprevedibilità del futuro. È come se ogni nostra decisione pretendesse di occupare lo spazio della Fine, o comunque tendere ad esso, ad «innalzarsi» fino ad esso. E hyper-airomenos, colui che vuole su tutto innalzarsi, è precisamente il nome dell'Avversario.
Con ciò vogliamo dire che l'Apocalisse, l'Annuncio che «la misura del tempo è colma», apre a una nuova storia, a un nuovo senso della storia. E che tale possibilità rimane confitta nel suo stesso segno, non ne rappresenta affatto un semplice «tradimento». È l'Apocalisse a spezzare ogni idea che la Fine possa ripetere l'Inizio, che «conversio» possa significare il ritorno a uno stato originario. Il divenire storico è segnato dall'irrompere di Novità radicali, anzi: dalla Novitas del Cristo. L'Adamo che essa produce è del tutto nuovo. È l'Apocalisse a rivelare che la miseria dell'esserci umano è ora figlia di Dio: «voi siete figli di Dio...», per quanto possiate ancora compiere le opere del diavolo. E quanto questa fiducia contraddistingue ancora i nostri atti! La fiducia, cioè, che qualsiasi distruzione apportiamo, qualsiasi violenza perpetriamo, saremo sopportati... che l'ira del mondo contro Dio mai potrà vincere la pazienza divina... L'Apocalisse certamente è la Rivelazione ultima che il Regno di Dio è «entos hymon» (Lc. 17,31), ma la «nostra» storia non solo ha inteso l'«entos» esclusivamente nel senso del «dentro» noi, «nell'intimo» di noi, ma questa radicale «intimità» nel senso di un possesso, di un'acquisizione definitiva, nel senso che il Regno è «nostro» e ora si tratta di realizzarlo, di portarlo a compimento «fuori» di noi.

Corriere della Sera 29.4.07
Un termine per l'uomo odierno sinonimo di guerre, terrorismo e disastro ecologico Ma il testo più oscuro e violento del Cristianesimo profetizza la sconfitta definitiva del Male
Una mostra e due spettacoli si confrontano con la sua forza visionaria

di Roberto Mussapi

L'isola, le stelle, le visioni Il testo che celebra la poesia
Quell'enigma del tempo ripreso da Foscolo, Shelley, Eliot

E si fece avanti un altro cavallo, rosso fiammante; al cavaliere Dio diede una grande spada e il potere di far sparire la pace dalla terra

Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna che sembrava vestita di sole... stava per dare alla luce un bambino... un drago enorme, rosso fuoco... voleva divorare il bimbo appena nato

La condizione in cui nasce l'Apocalisse pare tracciare una sorta di modello della creazione poetica: l'autore è confinato in un'isola, e da questa terra marginale, circondata dal mare, lontana dal centro del mondo, è rapito in spirito, posseduto da visioni. Visioni ispirate da un'urgenza incontenibile: comprendere la realtà dell'alfa, e dell'omega, del principio e della fine. Da un punto di vista poetico l'Apocalisse è in questo senso un modello, un archetipo della genesi dell'opera. Il principio: quante Arcadie, quanti Eden perduti, nella poesia, ma anche quanti modelli del passato idealizzati fino a renderli atemporali, come fu il mondo greco in tante età della poesia? Accanto a intuizioni che entravano nel cuore della specie, come il viaggio di Foscolo nei Sepolcri, verso la nascita della stirpe umana. Altrettanto presente, più vistosa nel Novecento, l'ossessione della fine, del destino ultimo, della eventuale meta di un moto che da Shakespeare e John Donne in poi appare cieco o comunque oscuro nel suo senso profondo.
Come nella poesia dei grandi autori cosmologici, Shelley, Leopardi, Whitman, la visione è preceduta da una mappa siderale, qui sette stelle, a cui corrispondono sette lampade, correlativo umano degli astri lucenti: la lampada di Ero e Leandro segna un momento aurorale della grande poesia occidentale d'amore e di navigazione, la lampada ardente è il fulcro poetico di grandi poeti sufi, immersi in una sorta di incantata e illuminata mistica islamica.
In mezzo, qui e ora, il tempo presente relativo per l'autore dell'Apocalisse, in un certo senso assoluto per il poeta: il quale parla, sempre, di realtà astoriche e atemporali in termini storici e temporali, attraverso la lingua che è astratta e condivisa nello stesso tempo.
Il repertorio visionario dell'Apocalisse è sterminato e animato da una congenita inesauribilità: sembrano non aver fine, nel presente della visione, i terremoti e i boati, i fragori selvaggi, i cavalli verdi irrompenti come i draghi dalle sette teste, l'angelo che fulmina il fulmine, il clangore fastoso e incandescente di una cavalcata inarrestabile, interrotta però da improvvisi, infinitamente quieti intertempi di silenzio.
Che pare la premonizione del tempo ultimo, che non sarà frutto di una distruzione ma di una trasformazione, una trasfigurazione. Non rovina finale, ma metamorfosi. La poesia mentre descrive il mondo nel suo apparire, ne coglie anche l'enigma, il volto invisibile, o nascosto, che ha in sé il germe di una trasfigurazione.
E' incongrua, rispetto al testo di Giovanni la letteratura apocalittica, vale a dire catastrofista, come sarebbe superficiale leggere, nella vertigine di simboli, un repertorio di base per poetiche surrealiste.
No, la visione qui, come in molta poesia, è oscura, ma mai gratuita, alogica, ma non insensata. Come avviene in certe poesie cosmologiche di Dylan Thomas.
Ma soprattutto, è quintessenziale la condizione di fondo: su un'isola, irrompe la visione, orientata da stelle e lampade. Il presente, il tempo in cui il poeta sta scrivendo e a cui ora deve rispondere, si dilata. Qui agisce il poeta: «Il tempo presente e il tempo passato/ Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,/ E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato».
Sono versi leggendari dai Quattro Quartetti
di T.S. Eliot, il massimo poeta del Novecento. E definiscono l'impresa poetica, in quella condensazione drammatica del tempo che l'Apocalisse mostra, sotto la sua travolgente esuberanza, nella sua purezza scheletrica.

Corriere della Sera 29.4.07
Per il priore di Bose, biblista, l'Apocalisse ci pone davanti a un bivio: imboccare subito la via dell'amore oppure affrontare il castigo
Bianchi: abbiamo perso l'inquietudine dell'attesa di Cristo
di Fabio Cutri

«Il Regno verrà, ci dice il profeta, i giusti che soffrono saranno premiati. Ma prima di assaporare la ricompensa, di poter entrare nella Gerusalemme celeste, siamo posti di fronte a un bivio: imboccare subito
la via dell'amore e della vita oppure quella della morte e della perdizione». Padre Enzo Bianchi, biblista e fondatore della comunità monastica di Bose, è convinto che l'Apocalisse non debba rassicurare l'uomo, bensì incalzarlo, scuoterlo.
Come devono essere lette oggi le visioni di Giovanni?
«Esattamente come duemila anni fa. Sono innanzitutto un appello alla libertà e un'invettiva contro chi sceglie il male o chi, altrettanto empio, non ha ancora scelto il bene. Dure sono le immagini perché dura è la condanna per gli avversari della Chiesa, ovvero il potere politico totalitario e le sue ideologie».
Quando il libro venne scritto, nel I secolo, i primi cristiani perseguitati credevano imminente il ritorno del Cristo. Oggi, trascorso tanto tempo, i fedeli non sembrano più vivere la tensione delle origini.
«Ed è un grande male. Un Cristianesimo che non attende, che non parla del Giudizio, rischia di essere autoreferenziale e consolatorio. Sono la disperata speranza e l'inquietudine per l'arrivo di Cristo a rendere autentica la vita del credente. È vero, è trascorso tanto tempo, ma per il Signore un millennio può valere un giorno e un giorno durare mille anni».
Qual è l'immagine dell'Apocalisse che le piace di più?
«Trovo di una creatività teologica straordinaria quella dell'Agnello. Rappresenta Gesù: Giovanni ce lo mostra ferito, è la vittima sacrificale. Ma non appena viene aperto il primo dei sette sigilli, ecco comparire in cielo un'altra immagine del Cristo, il cavaliere dell'Apocalisse che guida la riscossa contro il maligno: la vittima diventa vincitore, il debole esegue la suprema condanna».
Un Dio vendicatore impietoso...
«Penso ad Adorno, un filosofo che mi ha affascinato fin da giovane: diceva che persino di fronte a una società senza classi, ove regni la più perfetta delle armonie sociali, ci vorrebbe comunque un evento che restituisse la giustizia anche a tutte le generazioni passate! E comunque nell'Apocalisse si legge che se qualcuno non sarà iscritto nel libro della vita, allora verrà castigato. Ecco, tutto si gioca su quel "se", che lascia aperta la porta alla misericordia di Dio».
Lo stagno di zolfo e fuoco è una potente immagine dell'inferno?
«Sì, è il luogo in cui vengono gettate la bestia e il falso profeta, le figure sataniche. Ma per gli uomini il destino è ancora aperto: il profeta ci mostra l'Agnello di Dio, tocca a noi decidere come prepararci al suo ritorno. Su questo l'Apocalisse è chiarissima: non ci è rimasto molto tempo».

Corriere della Sera 29.4.07
L'ICONOGRAFIA DELL'APOCALISSE
Un lungo racconto tra bellezza e orrore
Dalle xilografie del Dürer alle guerre del XXI secolo, un tema da epoche tormentate
di Francesca Bonazzoli

Nelle catacombe, ovvero nei luoghi dove nasce l'iconografia cristiana, l'Apocalisse non compare mai. Per vederne le prime illustrazioni bisogna aspettare il V secolo quando, con i mosaici di Roma e Ravenna, la Rivelazione entra nel repertorio di immagini prodotte dalla nuova arte che sostituirà quella greco romana. Ma è nei secoli XI e XII che il tema giunge al suo apogeo, illustrato in codici miniati, tappezzerie, vetrate, affreschi.
Il motivo per cui intere epoche hanno ignorato l'Apocalisse, viene spiegato col fatto che la visione, scritta in un periodo di crisi sociale e politica, nonché di persecuzione della chiesa, ritrova la sua attualità in epoche di tribolazioni, nutrite dall'angoscia per la fine dei tempi. L'Apocalisse è la grande epopea della speranza cristiana, il canto di trionfo della chiesa perseguitata, messaggio di certezza nella vittoria di Cristo attraverso la sua seconda venuta (la Parusìa).
Non è un caso che una delle interpretazioni più magistrali, quella di Albrecht Dürer, grande devoto di Lutero, nacque in pieno conflitto fra la chiesa di Roma e quella che diventerà la chiesa protestante. Le sue quindici xilografie fecero scuola per tutta una serie di stampe che ebbero fortuna soprattutto nel Nord Europa perché i protestanti leggevano l'Apocalisse come la vittoria della chiesa riformata e perseguitata su quella corrotta della Roma papale, equiparata all'Anticristo.
Del resto l'Apocalisse era stata già interpretata come il trionfo sulla Roma imperiale persecutrice dai primi cristiani o sull'Islam da parte dei Crociati. Le stesse autorità ecclesiastiche ne avvertivano l'ambiguità tanto che, dopo lungo discutere, ne decisero la canonizzazione solo dal III secolo mentre la Chiesa d'Oriente la ammise non prima del XIV secolo. Ecco perché nell'arte bizantina il tema è tardo e non ha goduto di altrettanta rilevanza. Al contrario, gli artisti occidentali si sbizzarrirono nell'illustrazione degli episodi di cui si compone la visione: i quattro cavalieri, la pioggia di stelle, l'Eterno sopra le città in fiamme, le locuste con teste umane, gli angeli che colpiscono il papa, l'imperatore e il cittadino, il dragone dalle sette teste, la nuova Gerusalemme e così via. Fino al punto da sovrapporre e confondere diverse iconografie, soprattutto nella pittura a olio dove il tema viene illustrato in singoli episodi isolati. Alcuni, come per esempio la lotta dell'arcangelo Michele contro il Dragone, di cui Raffaello dipinse l'immagine per eccellenza, sono chiaramente riconoscibili.
Ma più spesso avvennero curiose commistioni, come nel caso dell'Immacolata Concezione. Il concepimento di Maria senza peccato originale nel grembo della madre Anna fu uno dei dibattiti teologici centrali nei secoli XII e XIII finché, all'inizio del XVII secolo, la Spagna ruppe gli indugi. Ma come rappresentare la Vergine concepita pura da Sant'Anna?
Fino ad allora si era fatto ricorso a Maria nuova Eva, intenta a calpestare un serpente, secondo le parole di Dio nella «Genesi»: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa...». Nel 1649, però, Francisco Pacheco del Rìo, pittore e censore artistico dell'Inquisizione, codificò l'immagine dell'Immacolata unendo i caratteri di Eva vincitrice sul serpente (Genesi) con quelli della donna incinta dell'Apocalisse (12,1-14,20): «...una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» sopra un Dragone con sette teste pronte per divorare il figlio che sta per nascere.
Anche il tema del Giudizio Universale si prestò a commistioni con l'episodio dell'Ultimo combattimento dall'Apocalisse. Il caso più spettacolare della loro ibridazione è il polittico dell'Agnello mistico di Jan Van Eyck. Il comparto centrale presenta la scena dell'Apocalisse con l'agnello sull'altare (7, 9-17), ma circondato invece che dal libro dei sette sigilli, dai simboli della Passione, come nell'iconografia del Giudizio universale di cui mancano però dannati, beati e San Michele che pesa le anime.
Esaurita la sua fortuna nel XVI secolo, l'Apocalisse ricompare in Russia nel XVIII secolo dopo i «temps des troubles» e, in Europa, dopo le ecatombi delle guerre mondiali con le incisioni di Edouard Goerg, Henry de Waroquier, Giorgio De Chirico. Oggi che si fa molta arte sulla religione, ma non più arte religiosa, l'Apocalisse ha cambiato significato e iconografia: non più lotta finale del bene sul male, certezza della seconda venuta di Cristo e della costruzione della Gerusalemme celeste, bensì forma stessa degli orrori dell'umanità: droga, violenza, sesso, guerra, terrore e ogni sorta di visione infernale, come quelle che la tv trasmette dall'Iraq, dal Darfur, dal Rwanda, dall'Afghanistan. Non l'avvento di una nuova terra sotto un nuovo cielo, ma l'inferno sulla terra di cui siamo diventati partecipi voyeur. Alla Royal Academy di Londra, nel 2000, la mostra «Apocalypse» proponeva il fascino di tale spettacolo: il connubio inestricabile fra orrore e bellezza. Un paradiso che giace nel cuore della tenebra, come sapevano Joseph Conrad e Francis Ford Coppola.

l’Unità 29.4.07
«Pedofili, il sesso senza limiti»
Roberto Cotroneo intervista Umberto Galimberti


Inquietudine è la parola giusta. Una inquietudine che si alterna all’orrore. E un orrore che non si riesce a sopportare. Il caso, ancora tutto da risolvere e da chiarire, di Rignano Flaminio, e delle presunte molestie e violenze ai bambini dell’asilo da parte di maestre e altri complici, riapre un argomento che negli ultimi anni si è rivelato costante e sempre più preoccupante: la pedofilia, e soprattutto il dilagare della pedofilia. Complici i nuovi strumenti di comunicazione come la rete internet, complice la possibilità di scambiarsi e commerciare in video e foto pedo-pornografiche, complice una società che tende a rimuovere e a nascondere, per paura e per sgomento.
«Riscopriamo i tabù: sono i nostri confini»
Il filosofo Umberto Galimberti sui fatti di Rignano e sul fenomeno della pedofilia: «È venuta a galla
da un grande silenzio. Adesso si sa, e sembra gigantesco. Non è un esercizio di sessualità, ma di potenza»

PERCHÉ, e cosa sta accadendo? È vero che la pedofilia sta diventando un male troppo diffuso? Cosa ha portato a questo? E cosa si può fare per contrastare un crimine così odioso? Ne parliamo con Umberto Galimberti, che ha una lettura del fenomeno di
due tipi. Da filosofo e da psicoanalista.
Umberto Galimberti, partiamo dalla domanda più semplice. Secondo te c'è un aumento della pedofilia?
«Intanto diciamo una prima cosa: la pedofilia è venuta a galla da un grande silenzio. Prima non si sapeva niente, e adesso si comincia a sapere qualcosa. Quindi non possiamo fare un termine di paragone. Questa è un'epoca di estrema attenzione verso i bambini, c'è quasi una sorta di sovraesposizione. E ogni volta che in una società un elemento è al centro dell'attenzione attrae le pulsioni peggiori».
Colpa delle ossessioni della civiltà dell'immagine, di un voyeurismo che può diventare patologia?
«Partirei da prima. Dal collasso della sessualità come tabù. E quando la sessualità non è più tabù il dilagare delle pulsioni è incontenibile. Teniamo conto che Freud definiva i bambini "perversi e polimorfi". Naturalmente il collasso del tabù sessuale fa sì che gli adulti si sentano autorizzati a scatenare le loro pulsioni, che hanno il loro corrispondente nella polimorfia dei bambini».
Ma noi abbiamo sempre detto che la liberazione dei tabù sessuali era una forma di modernità e di liberazione...
«Per carità... l'uomo ha bisogno di limiti, di confini e di tabù, e là dove cade un tabù, se ne deve trovare un altro. Il contenimento della sessualità limita i comportamenti. Quei comportamenti che oggi invece si ritengono non gravi. La psicoanalisi ad esempio non sarebbe mai nata senza l'esistenza del tabù sessuale, ed è per questo che oggi anche la psicoanalisi è in crisi».
Tutto questo è figlio della rivoluzione sessuale?
«Non c'è dubbio. Non dimentichiamo che nei dieci comandamenti quello più importante è "non commettere atti impuri". La religione ha controllato la società attraverso il controllo "dei ventri". Se questo non c'è più le pulsioni vengono fuori in un modo scatenato».
Ma come è possibile considerare un soggetto sessuale un bimbo di quattro anni?
«Questo mi risulta incomprensibile mentalmente».
Ma tu sei un analista, dovresti...
«Certo, so spiegarmelo ma non lo comprendo ugualmente. Però dobbiamo pensare almeno due cose. La prima è che la pedofilia più che un esercizio di sessualità è un esercizio di potenza. O se preferisci di impotenza. Se io sono impotente nella relazione adulta mi scarico sui bambini. Nella pedofilia c'è un primato della potenza e della violenza più che libido o piacere sessuale. La seconda è che il bambino scatena tutte le pulsioni sessuali che non si sono integrate nella funzione genitale».
Spiega meglio.
«Ciascuno di noi ha delle perversioni. Freud spiega che le perversioni sono tutti quelli atti che non sono rivolti al "giusto verso". Ovvero che non si sono integrate attorno agli organi sessuali maschili e femminili. Intorno alla destinazione naturale della sessualità. Tutte quelle pulsioni che rimangono fuori trovano il loro corrispondente nei bambini, che sono polimorfi perché non hanno ancora, essendo molto piccoli, indirizzato la loro sessualità».
Torniamo alla diffusione della pedofilia. Quanto pesa la tecnologia in questo processo. La facilità di scambio, la globalità della rete internet?
«La tecnologia non è responsabile dell'incremento della pedofilia, è responsabile della facilitazione della pulsione sessuale».
E porta a condividere le pulsioni perverse e criminali?
«La facilitazione tecnologica ha creato una sorta di comunità. Quante sono le comunità che si riuniscono attorno a internet a partire da un tema? Bene, diciamo che un pedofilo che un tempo poteva essere un solitario che seguiva le sue pulsioni e perversioni oggi può condividere con altri la sua perversione attraverso le comunità mediatiche che si vengono a creare con internet. E quindi in qualche modo tende ad alleggerire persino la responsabilità e il senso di colpa».
Dunque condividere queste perversioni con altri non porta ulteriore vergogna. E questo può avvenire anche in una piccola comunità?
«Una volta che si depotenzia la colpevolezza di questi scenari sessuali si sente meno responsabile sia quello che vive nella comunità di internet sia quello che vive nel piccolo paese».
Il fatto che un pedofilo sia stato un bambino violato è un luogo comune?
«C'è una certa frequenza. Un bambino violato non rimedia più. Mi dispiace di togliere tutte le speranze, ma il bambino violato è un bambino che si trova nella condizione di subire un'esperienza di cui non ha i codici interpretativi. E tutto ciò che noi non riusciamo a intepretare rimane un nucleo chiuso che si manifesta con il disprezzo di sé».
E non sono curabili?
«Non escludo questa possibilità. Ma io non l'ho mai vista».
Perché il primo luogo dove avvengono le molestie sessuali è la famiglia?
«Perché è più facile il contatto con i bambini, ma soprattutto perché è davvero indiscernibile quando si passa da una carezza di affetto a un gesto trasgressivo. I bambini arrivano all'età della ragione attorno ai 5 o 6 anni. E prima il messaggio di accettazione o rifiuto passa attraverso il corpo. E allora per il bambino diventa impossibile capire se una carezza è perversa o è solo una carezza di affetto. La famiglia può essere una zona grigia dove può accadere di non distinguere tra l'amore e la libido. E guarda che l'abuso dell'infanzia è sempre stata una costante nella storia, soprattutto nelle classi meno colte, nel mondo contadino, pastorale».
Quanto è attendibile un bambino di quattro o cinque anni quando racconta una violazione?
«Bisogna stare molto attenti al linguaggio dei bambini. I bambini non inventano, come si è soliti dire. Descrivono con il linguaggio che hanno a disposizione, fatti reali. Perché per inventare devi essere così adulto da avere una doppia coscienza. Mentire vuol dire sapere qual è la verità e inventarne un'altra. Un bambino non controlla neppure lo scenario reale. E quindi dice la verità con il linguaggio che ha disposizione, che è il linguaggio delle favole. O il linguaggio non verbale: i suoi lunghi silenzi, il pianto improvviso».
Da che età il bambino comincia a mentire?
«Intorno ai 5 o 6 anni».
E come è possibile non accorgersi in famiglia che il proprio bambino può essere stato molestato?
«È un processo di negazione. La famiglia, prima di accettare un evento rispetto al quale non c'è rimedio, cerca di negarlo. E non si verifica solo nei casi di pedofilia. Ma anche nei casi di droga, di alcolismo, e via dicendo».
Nella modernità in cui siamo immersi non c'è anche un aspetto voyeuristico paradossale? A cominciare dai pedofili che non fanno altro che scambiarsi video pornografici e si limitano a questo?
«Questo è un fenomeno nuovo, grazie a Internet soprattutto. Io distinguerei tra i pedofili "naturali" e i pedofili "indotti". Si produce moltissimo materiale video per un sacco di gente che forse pedofila non sarebbe diventata».
Certe perversioni senza questa facilità di diffusione rimarrebbero magari inespresse ?
«Probabilmente».
Ma stiamo ora parlando di voyeurismo, non di atti pedofili.
«Sì, il voyeurismo è una tendenza del nostro tempo. La sessualità oggi è spostata essenzialmente sul voyeurismo».
A Rignano Flaminio, la gente del paese è sconvolta. Se dovessero risultare veri i fatti contestati c'è lo sgomento di aver conosciuto quelle persone da sempre e aver scoperto che avevano un altro volto. Può accadere che da un momento all'altro si diventa quel che non si era mai stati prima?
«Certo, perché a un certo punto non si contengono più le pulsioni esistenti. Questo può avvenire per molte cause. Ma te ne dico soprattutto due: la noia e il denaro».
Il denaro può avere una forza così potente da passare sopra l'orrore della violenza a dei bambini?
«Sì. Se l'ossessione del denaro è forte, può fare questo è altro. Tenendo conto poi di un'altra cosa. Che si crede che poi i bambini possono dimenticare, che siccome sono cose che non capiscono, alla fine verranno superate, che il bambino neanche se ne accorge. Non è vero».
Mi sembri molto pessimista. Non c'è alcun modo per reagire a questi orrori, a questa pedofilia naturale e indotta così manifesta?
«Per prima cosa bisognerebbe ridurre l'esposizione della sessualità a livello mediatico».
Ma non suona un po' moralista?
«No. Questa continua esposizione della sessualità in televisione la rende una cosa banale. E dunque diventa necessario oltrepassare il confine della pulsione primaria».
Ma questa offerta di sessualità non ha a che fare con una domanda, come in tutte le leggi economiche?
«Ma anche la violenza ha a che fare con una domanda. Però c'è un tabù che limita l'aggressività. Nel profondo dell'inconscio ci sono aggressività e sessualità. La sessualità per procreare, l'aggressività per proteggere la prole. Se non poniamo limiti a queste pulsioni originarie e rendiamo la sessualità una cosa banale estinguiamo il desiderio delle persone. Perché un eccesso di sessualità riduce il desiderio».
E ridotto il desiderio che accade?
«Che dobbiamo cercare la perversione per eccitarci. E allora oltrepassiamo il limite, e il confine tra gesto sessuale e gesto trasgressivo diventa indistinguibile».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 29.4.07
Angius nel movimento di Mussi
Il 5 nasce «Sinistra democratica», in Parlamento gruppi autonomi
di Giuseppe Vittori


Il ministro della Ricerca: «Siamo viaggiatori liberi, dialoghiamo con tutti, ma vogliamo essere autonomi»

CANTIERI Angius starà nel movimento di Fabio Mussi. Insieme ieri hanno firmato un appello congiunto che è un po’ il manifesto del nuovo movimento. «Abbiamo condotto la battaglia congressuale all’interno dei Ds da posizioni diverse, ora ci troviamo insieme per affermare la necessità storica che anche in Italia oggi e domani sia presente un’autonoma forza democratica socialista, laica riformista e ambientalista parte integrante del Pse». Il nome del nuovo contenitore della sinistra è quello anticipato nei giorni scorsi, dopo la fuoriuscita dai Ds: “sinistra democratica per il socialismo europeo”. L’appuntamento è per il 5 maggio prossimo per la manifestazione costitutiva e l’obiettivo dichiarato è dialogare con tutti a sinistra, ma essere autonomi. «Noi - dice il promotore della seconda mozione - siamo come viaggiatori liberi, guardiamo in tutte le direzioni». Per ora arrivano segnali da Diliberto, dal congresso di Rimini, che ha manifestato grande interesse per un possibile più ampio progetto comune (la sinistra senza aggettivi, in pratica l’unificazione della sinistra radicale e di quella che non si riconosce nel partito democratico). Progetto ambizioso, ma anche molto lontano, a quanto pare.
Mussi infatti vuole andare per gradi e il primo passo è incardinare la nuova forza, creando autonomi gruppi parlamentari, distinti da quelli dell’Ulivo che, dice, «finora sono stati sterilizzati». «È da lì che si determina l’asse della coalizione», afferma il ministro dell’Università. In sostanza mani libere in parlamento sul piano delle proposte e dell’iniziativa. La lealtà a Prodi è fuori discussione, ma si sa cosa comporta l’obiettivo della visibilità: premier e maggioranza sono avvertiti. Tra l’altro in tema di mani libere Mussi ha avvertito che sulla questione morale il nuovo movimento sarà all’attacco. Ade esempio in Calabria. «Ora non abbiamo più i vecchi vincoli, parleremo fuori dai denti e se c’è metà consiglio regionale rinviato a giudizio, faremo nomi e cognomi».
Il tema più caldo è quello delle alleanze. «Tutti - dice Mussi - vogliono fare qualcosa con noi, ma noi non abbiamo un problema di corteo nuziale, dobbiamo parlare con tutti, ma evitare di farci stringere da qualche parte, che so con il partito dell’ambiente, con il Pdci, o con altri. Questa - dice Mussi - è la fase dell’autonomia e del dialogo, siamo appetibili perchè siamo gli unici che possono parlare contemporaneamente sia coi socialisti che con gli altri».
In effetti i messaggi dagli innumerevoli cantieri del centrosinistra non mancano. Pannella, ad esempio chiede a Mussi e Angius, in nome della battaglia per la laicità, di aderire alla sua manifestazione del 12 maggio a piazza Navona. E Mussi e Diliberto si parlano a distanza. «Qualcosa di nuovo può nascere - dice il ministro dell’Università - le affermazioni su una sinistra senza aggettivi mi sembrano rilevanti». Per Valdo Spini, in lizza per il ruolo di capogruppo del nuovo movimento alla Camera (ma il posto sembra destinato a Fulvia Bandoli), «è necessario che rimanga l’unità delle forze della sinistra che si riferiscono al socialismo europeo». Quanto a Cesare Salvi, che probabilmente sarà il capogruppo del movimento al Senato, auspica anche lui «una sinistra senza aggettivi», nella quale coinvolgere tutte le formazioni della sinistra, dal Pdci, a Rifondazione, allo Sdi e ai Verdi. Lo ha detto ieri con forza al congresso di Rimini e ha ottenuto un’ovazione. I cantieri non mancano e oggi Mussi sarà alla manifestazione dell’associazione di Pietro Folena «Uniti a sinistra».

l’Unità 29.4.07
Unità a sinistra. Diliberto dice sì a Salvi e Mussi
di Eduardo Di Blasi


IL PRESIDENTE del Senato Franco Marini arriva di prima mattina al Palacongressi di Rimini. E benedice il processo politico che il Congresso del Pdci, e il suo segretario Oliviero Diliberto, stanno portando avanti. Vale a dire quello di una proposta ai partiti della si-
nistra critica verso il Pd, di arrivare ad una unione «senza aggettivi», in cui ognuno possa rivendicare le proprie radici. «Apprezzo lo sforzo di coordinare una forza di sinistra - afferma Marini - va nella direzione della riduzione di una frammentazione eccessiva del sistema politico». Un'apertura importante, per chi, oltre a rappresentare la seconda carica dello Stato, è anche impegnato in prima persona nella costituzione del Pd, il soggetto politico che pur essendo naturale alleato di questa sinistra, viene confinato nel campo delle forze moderate. Deve, cioè, essere preso a paragone per poter affermare la distanza genetica tra una confederazione di partiti «ideologici» ma «senza aggettivi», e il partito, almeno tecnicamente, «nuovo». Ecco perché, dal palco di Rimini, la senatrice Manuela Palermi rivendica, applaudita, le proprie insegne (la falce e il martello) contro la proposta di Cossutta, il grande assente, che suggerisce di costruire un partito senza icone. E Marco Rizzo, applaudito anche lui, rivendica la propria ideologia: «Veltroni dice che essere di sinistra è stare con un bambino africano. Essere di sinistra significa anche capire perché quel bambino africano è in quelle condizioni, essere comunisti è provare a cambiare le condizioni di quel bambino. Il comunismo è morto, dicono. Ma perché se è morto ci rompono tanto le scatole?». Cita anche Fidel Castro, Rizzo, affermando che è merito suo se in America Latina sono nati i Chavez, i Morales, i Lula…
Letture geopolitiche a parte, il congresso del Pdci ieri è stato scaldato da altre aperture. La prima, arrivata da Roma, è quella di Fabio Mussi: «Le affermazioni su una sinistra senza aggettivi mi sembrano rilevanti. Io penso ad una sinistra larga. Si apre un processo lungo, ma se la direzione è quella giusta, si approderà».
La seconda, giunta forte e chiara alle orecchie dei delegati congressuali, è venuta a portarla il senatore Cesare Salvi. «Dobbiamo avviare subito il processo unitario. Subito. Senza perderci in formule o primati, ho proposto questo ho proposto quest'altro. Bisogna farlo innanzitutto, perch facendolo si capisce cosa abbiamo in mente. E noi abbiamo in mente tutti insieme queste due grandi parole: sinistra ed unità». Inutile sottolineare la standing ovation che è seguita. Salvi ha poi proseguito parlando degli operai («ci si ricorda di loro solo quando fischiano a Mirafiori»), di una legge immediata per prevenire gli infortuni sul lavoro, di Emergency e di Hanefi. Non sembra una lingua diversa da quella del segretario Diliberto, che, prima di chiudere, oggi, l'assise riminese, apprezza («un risultato straordinario»). E la platea con lui. Il 5 maggio, alla riunione della Sinistra Democratica di Mussi e Angius, ci sarà.

l’Unità 29.4.07
Coraggio laico contro Family day: la sfida del 12 maggio
Boselli invita alla contromanifestazione in piazza Navona. Intanto l’Agesci aderisce alla manifestazione contro i Dico


Il 12 maggio, a San Giovanni, per il Family Day «manifesterà la controriforma», a Piazza Navona, con la Rnp, ci sarà «la riforma». Il leader dello Sdi, Enrico Boselli, la mette così, nel presentare l'iniziativa che, insieme a Marco Pannella ed Emma Bonino, ha promosso per celebrare, 33 anni dopo, il «coraggio laico» (è questo lo slogan dell'iniziativa) della battaglia contro il referendum per la cancellazione della legge sul divorzio, nello stesso giorno in cui una piattaforma cattolica ha convocato il Family Day. «Mi auguro - dice senza mezzi termini Emma Bonino - che a questa giornata partecipino tutti coloro che non si rassegnano a vedersi scippato il 12 maggio». Pannella si rivolge poi direttamente a Gavino Angius e Fabio Mussi e li invita «a partecipare attivamente», a «spendersi» per il buon successo della manifestazione organizzata dalla Rnp. Dopo la fuoriuscita dai Ds, Pannella chiede a Mussi e Angius «sebbene impegnati a fare altro» di dar seguito «alle dichiarazioni di laicità fatte al congresso dello Sdi». «Una nuova “cosa” politica - dice - ha forse più successo se nasce direttamente nella lotta». Il 12 maggio, spiega Boselli, «non vogliamo fare una gara con l'altra piazza, semplicemente non lasciarli soli», dimostrare che «c'è un'altra Italia, quella delle conquiste civili». Il numero due dei socialisti, Roberto Villetti, parla della necessità di opporsi a quella che sembra voler essere «una vera e propria prova di forza da parte delle gerarchie ecclesiastiche», in un Paese come l'Italia, unico caso in cui «il Vaticano rivendica di fatto un proprio protettorato». Ma quella a difesa della laicità, osserva ancora, «non è una battaglia che si riferisce solo a coloro che non sono credenti, si tratta di una battaglia di libertà, che non vuole impedire nulla a nessuno». Con la Rnp, forse rivitalizzata e certamente cementata da questa occasione, in piazza ci saranno diversi partiti e associazioni, dai Liberali ai Repubblicani ai Verdi, dalle Famiglie Arcobaleno a Gay Left e diverse personalità del mondo accademico (da Margherita Hack a Gianfranco Pasquino) e del mondo dello spettacolo, da Luciana Littizzetto a Oliviero Toscani, passando per Giorgio Albertazzi, Pasquale Squitieri, Ferzan Ozpetek e Marco Bellocchio. Quest'ultimo, alla presentazione dell'iniziativa, si è detto «stupito e indignato» che «persone democratiche si oppongano a ovvietà democratiche». La manifestazione, comprenderà, oltre a un concerto a Piazza Navona anche un convegno, «Il mito della famiglia naturale: la rivoluzione dell'amore civile».
Ieri, dopo una lunga discussione l’Agesci ha deciso di sostenere il Family day. Lo ha anunciato la presidente Chiara Sapigni: «La famiglia è un tema che ci riguarda, anche in relazione alle difficoltà che hanno i nostri giovani a costruirsene una».

Corriere della Sera 29.4.07
Perché il tempo è inafferrabile
Un libro di Pietro Redondi
di Edoardo Boncinelli


Tutto avviene nel tempo, puntualmente e inesorabilmente. E il tempo non si può fermare. Quello passato, o perso, non si può recuperare. Quello che deve venire, verrà solo una volta, frettolosamente. Non avremo mai due volte la stessa età. Eppure noi non sappiamo dire che cosa è il tempo. Quello del tempo è uno dei concetti più sfuggenti e problematici che possano esistere, anche se, paradosso nel paradosso, abbiamo imparato a misurarlo con una precisione impressionante.
In questi casi non resta che tracciare una storia del concetto in discussione, per mostrarne le diverse sfaccettature, i diversi volti nelle diverse epoche, e lasciare magari che ognuno se ne faccia una sua idea. Questo è proprio quello che fa Pietro Redondi nel suo Storie del tempo
appena uscito da Laterza (pagine 391, e20). Un po' sussidiario — sontuosamente illustrato — un po' libro di lettura, per usare il linguaggio delle scuole elementari di una volta, il libro di Redondi ci offre una concreta possibilità di familiarizzarci con il concetto di tempo o almeno con le sue diverse visioni nella storia, in particolare nella nostra storia.
Il volume è infatti diviso in due parti: nella prima si fa una succinta ma sapida sintesi della storia del concetto di tempo dalla Bibbia e Platone ad Albert Einstein e Jean Piaget, nella seconda sono raccolti una ventina di testi originali di autori vari, tra i quali spiccano Aristotele, Sant'Agostino, David Hume, Immanuel Kant, Ernst Mach, Henri Bergson, lo stesso Einstein, Marcel Proust e il sociologo Norbert Elias. Il tempo ha una natura lineare e unidirezionale o circolare e quindi ciclica? In altre parole, gli intervalli di tempo sono consustanziali con il suo generico fluire? E ancora: è un contenitore vuoto o si identifica con la successione degli eventi che lo scandiscono? Trascorre continuamente o esiste immutabile? Gode di una realtà oggettiva o nasce almeno in parte dalla nostra percezione degli eventi e dalla nostra soggettività? Tutti i processi ritmici del mondo, dalla «ruota del vasaio» di Sant'Agostino ai nostri orologi, misurano la stessa cosa? E che cosa misurano? Queste sono solo alcune delle domande che si associano all'idea di tempo e alla sua problematica. E sono tutte domande prese in considerazione nel libro, tanto nella sua parte introduttiva, quanto nella parte antologica.
La narrazione dell'evoluzione storica del concetto di tempo offre moltissimi spunti interessanti. Una delle considerazioni che mi piacciono di più riguarda l'ingegnosità di Galileo nel cercare di oggettivare gli intervalli di tempo, «pesandoli». Nel suo studio sul moto di caduta dei gravi, di trucchi ingegnosi Galileo ne dovette mettere a punto diversi, a cominciare da quello, veramente geniale e innovativo, di farli scendere lungo un piano inclinato. Poiché la precisione nella misura del tempo era a quell'epoca piuttosto bassa, egli pensò di «rallentare» la caduta dei corpi, facendoli appunto scendere più adagio lungo piani inclinati aventi una diversa angolazione. Il fenomeno era però ancora troppo veloce per poter essere misurato con gli «orologi» del tempo e dovette ricorrere al trucco di pesare il tempo. Usò un recipiente contenente acqua con un piccolo foro sul fondo; raccolse in un bicchiere l'acqua che usciva durante un determinato lasso tempo e la pesò. A pesi uguali, tempi uguali, pensò. E il fatto di poter pesare il tempo, lo autorizzò e ci autorizza a far uso di qualsiasi altro metodo di misura più o meno spiccatamente artificiale.
Naturalmente il suo «orologio» funziona se si assume che l'acqua scorra sempre con lo stesso ritmo. E questa è una cosa da verificare, se si vuole essere più precisi. Ma ecco spuntare un altro paradosso della misura del tempo: ogni sistema di misura del tempo deve fare riferimento ad almeno un altro sistema di misura del tempo. E non esistono intervalli di tempo contemporanei, ma solo successivi; e così via, per l'eternità.
Ma se non sappiamo dire che cosa è, come siamo giunti a misurarlo con tanta precisione e a fare della misura del tempo che passa un elemento fondamentale e onnipresente della nostra vita quotidiana?
In un processo lento ma inesorabile durato qualche secolo, la misurazione del tempo è divenuta, almeno qui in Occidente, una scienza esatta e ha dato vita a una tecnologia sempre più sofisticata e affidabile. Ma perché proprio qui e proprio allora? Se lo chiede il nostro autore. È una domanda che ha avuto molte risposte, ma nessuna decisiva. Vale la pena di rifletterci.
Un tema approfondito da Aristotele Kant, Bergson e Einstein

Corriere della Sera 29.4.07
Una risposta a Ernesto Galli della Loggia sul rapporto fra storia d'Italia e terrorismo
Non c'è solo violenza nel nostro album di famiglia
Sbaglia chi riduce Risorgimento e Resistenza a fenomeni illegali
di Giuseppe Galasso


C'è una «presenza storica nella società italiana di un fondo di violenza duro, tenace, che da sempre oppone un ostacolo insormontabile alla diffusione della cultura della legalità»? E davvero gli italiani, «sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile», quale sarebbe il Risorgimento, se ne sono portati dietro «l'idea che a certe condizioni la violenza sia ammissibile, addirittura necessaria», cioè l'idea che «ha caratterizzato in modo netto tutte le moderne culture politiche» in Italia, dal socialismo massimalista al nazionalfascismo, al comunismo gramsciano e all'azionismo? E anche della Resistenza, fonte «della stessa legittimazione della Repubblica», si deve perciò ricordare il «mito rivoluzionario»?
Quel mito, con il quale, e «con la sua cultura, la democrazia da noi non ha potuto che vivere gomito a gomito, e spesso intrecciata»? Il che sarebbe tanto vero che, se non avesse fatto eccezione, «a livello di massa», la cultura politica cattolica, «è probabile che non ci sarebbe stata neppure l'Italia democratica che invece abbiamo avuto». E si spiega quindi, con questo «germe della violenza» che «l'Italia democratica porta in un certo senso (in un certo senso?, mi chiedo) dentro di sé, nella sua storia culturale e dunque nella sua antropologia accreditata», non solo il tenace allignare del terrorismo e del brigatismo evocato anche nelle recenti celebrazioni del 25 aprile, ma perfino il fatto che l'Italia sia «la patria delle più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea».
Confesso di essere rimasto più che interdetto a queste affermazioni di Ernesto Galli della Loggia nel suo fondo di venerdì, pur letto e riletto da me con la dovuta e meritata attenzione che porto a quanto egli scrive, anche quando ne dissento. Interdetto perché vedo qui davvero maltrattate — oltre tutto quello che a me, nel mio piccolo, pare possibile — la tradizione italiana e quella della libertà italiana. Questo mettere insieme con il terrorismo e con il brigatismo rosso, con la mafia e con la camorra, in un rapporto stretto di filiazione o di congenialità, il Risorgimento, la Resistenza, il socialismo massimalista, il nazional- fascismo, il gramscismo, l'azionismo, il liberalismo e la democrazia italiana, nel solco di un'unica vocazione configurata come un «carattere originale» (alla Marc Bloch) della storia nazionale, anzi come una sua «antropologia accreditata», mi pare inaccettabile e del tutto fuorviante. Oltre tutto, se ne potranno fare un vanto brigatisti e terroristi, mafiosi e camorristi, abilitati con ciò a presentarsi come esponenti e prosecutori di un tale «carattere originale» o «antropologia accreditata» della storia e della gente italiana.
La violenza? Ma essa è stata all'origine di tutte le democrazie moderne, da quella inglese (con le sanguinosissime e lunghe guerre civili del Seicento, l'esecuzione di Carlo I, la lunga oppressione dei cattolici, il frequente rischio della guerra civile nei primi tempi della rivoluzione industriale, e come fu in particolare fra il 1830 e il 1845) a quella francese (quattro rivoluzioni in meno di un secolo, la prima sanguinosissima, e così quella del 1870-71 con la guerra civile della «Commune», e lasciamo stare i violenti fermenti «fascistici» in tutto il Novecento). Giudicheremo con questo metro il Risorgimento, che fu molto meno sanguinoso e violento? Bisognerà allora condannare i movimenti e le rivolte di mezza Europa all'Est e all'Ovest per l'indipendenza nazionale? E la Resistenza? Solo «mito rivoluzionario»? Io non ho il «mito» della Resistenza, ma imputare a quest'ultima la violenza e la rivolta in presenza di un'occupazione militare dalla mano, diciamo così, non leggera, mi pare incredibile. E la libertà italiana dovuta alla cultura politica cattolica a livello di massa, anziché al liberalismo e alla democrazia che furono dei Cavour e degli Einaudi, dei Mazzini e degli Amendola, dei Turati e dei Saragat, tanto per fare qualche nome? Ricordo solo che la cultura cattolica a livello di massa è stata per molti decenni un ostacolo all'Italia liberaldemocratica, superato solo quando in quella cultura vi fu una piena accettazione del principio liberaldemocratico, con enorme guadagno dell'Italia e della sua libertà, ma forse anche dei cattolici. E ricordo pure che una certa sociologia cattolica è stata la matrice di un certo brigatismo (si pensi a Trento e a Renato Curcio, per un esempio). Ma basti qui (i motivi di tristezza della nostra vita pubblica sono già tanti!), anche se non posso fare a meno di pensare a quel che avrebbero pensato di questa visione del Risorgimento e del liberalismo italiano un Mario Pannunzio, un Rosario Romeo, uno Spadolini o un Valiani o cattolici come un Arturo Carlo Jemolo. Dopo di che sono del tutto d'accordo con Galli della Loggia sui blocchi di stazioni e autostrade e su altre amenities
della permissività di un conformismo populistico e demagogico (e di una certa inclinazione di larghi settori cattolici), che non ha nulla a che fare col liberalismo e con la democrazia.

Corriere della Sera Salute 29.4.07
Psicologi Una Carta per dare più garanzie ai pazienti
Patti chiari col dottor Freud
Nel «contratto» obiettivi, tempi, costi
di Maria Giovanna Faiella


Una Carta, per garantire i diritti dei pazienti nei confronti dello psicologo. Promossa dall'Ordine nazionale degli psicologi in collaborazione con 6 associazioni dei consumatori (Adiconsum, Adoc, Confconsumatori, Codacons, Movimento Difesa del Cittadino, Movimento Consumatori), entrerà in vigore il 1˚ luglio. «Vogliamo dare agli utenti informazioni chiare e trasparenti sui diritti e i doveri ( vedi sintesi, in alto) che regolano l'attività del professionista — spiega il presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi, Giuseppe Luigi Palma».
«Chi entra nello studio dello psicologo è un utente particolarmente fragile — aggiunge Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino —. Inoltre, la prestazione psicologica è tra quelle che più toccano la borsa del consumatore. Da qui, la funzione di tutela della Carta». È stato, così, concordato che, sin dalla fase iniziale del rapporto terapeutico, l'utente riceverà una copia della Carta dei diritti, del Codice deontologico e del tariffario degli psicologi e Gettyimages un vero e proprio contratto da parte del professionista. «La Carta è anche uno strumento per contrastare l'esercizio abusivo della professione e tutelare quindi la salute dei consumatori — sottolinea Palma —. L'utente, infatti, sarà sicuro di non imbattersi in presunti specialisti: chi aderirà alla Carta è iscritto all'Ordine e abilitato all'esercizio». Per i circa 60mila psicologi iscritti all'Albo l'adesione alla Carta è facoltativa. Chi la sottoscrive avrà una sorta di «bollino blu», garanzia di un rapporto terapeutico di qualità.