giovedì 3 maggio 2007

Il Messaggero 03.05.07
L’INTERVISTA
Il presidente della Camera: la legge Biagi non è intoccabile, avanti con la lotta alla precarietà
Bertinotti: serve l’intervento pubblico
«Nelle telecomunicazioni spettano al Parlamento indirizzi e programmazione»
di ALBERTO GENTILI


ROMA «Con l’accusa di dirigismo si è abbattuta la capacità di programmazione economica. Il Parlamento deve fissare gli indirizzi di politica economica nei settori strategici». Fausto Bertinotti, in una intervista al Messaggero, torna sul caso Telecom e rivendica il diritto a tifare per l’italianità dei grandi gruppi nel settore delle telecomunicazioni e dei trasporti. Il presidente della Camera chiede di «andare avanti nella lotta alla precarietà: la legge Biagi non è intoccabile». «Le minacce a Cofferati? E’ più una strategia della comunicazione, che della tensione». Sul fronte della sinistra, Bertinotti ritiene la scissione di Mussi e Angius dai Ds produttiva di un «sommovimento»: «Bisogna andare verso un orizzonte unitario e plurale senza azzerare» i partiti.

Prudente, prudentissimo, Fausto Bertinotti sul j’accuse dell’Osservatore Romano che parla di terrorismo: «E’ meglio tacere, bisogna evitare che cresca inutilmente un rumore che non fa bene alla politica». Ma il presidente della Camera è molto più diretto quando affronta il tema delle politiche industriali e di Telecom. E fissa, per lo Stato, un ruolo da protagonista, con i grandi gruppi privati che operano nei settori strategici - come telecomnicazioni e trasporti - tenuti a seguire le indicazioni che il Parlamento dovrebbe dare in occasione della discussione del Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef). Ma partiamo al tema del momento.
Presidente Bertinotti, cresce la tensione in vista del family-day del 12 maggio. Parole del comico Rivera a parte, i movimenti cattolici chiedono a socialisti e radicali di rinunciare alla contro-manifestazione. Si unisce all’appello per distendere i toni?
«E’ fatta salva la libertà di manifestazione e mi pare difficile attribuire un carattere conflittuale l’una all’altra. Penso che quelli che Giovanni XXIII chiamava uomini di buona volontà debbano favorire la riapertura dei canali del dialogo e del confronto tra credenti e non credenti. E credo che la laicità dello Stato non sia un patrimonio che debba essere rivendicato unilateralmente dai non credenti, ma anche dai cattolici in politica. Non mi rassegno che la stagione conciliare, ecumenica, venga conclusa».
C’è un’escalation di minacce contro il presidente della Cei, Bagnasco. Qualcuno sostiene che se la Chiesa scende nell’agone politico, poi deve subirne anche le eventuali conseguenze. Lei?
«Sono contrarissimo a questa tesi. La divisa della non violenza è la divisa necessaria a questo tempo. E io voglio poter dire di non essere d’accordo con monsignor Bagnasco e di essere irriducibilmente avverso anche alla più piccola forma di violenza nei suoi confronti che considero una violenza anche contro di me».
Le minacce colpiscono anche Cofferati e il partito democratico...
«La violenza è figlia di una società che vive una crisi profonda, prodotta dalla mercificazione dei rapporti umani in nome del primato assoluto della competizione, del successo, dell’arricchimento. Però, devo dire, non vedo alcuna comparazione possibile - e vorrei che il dibattito politico non ripetesse stancamente e un po’ irresponsabilmente - con il dibattito drammatico che avvenne sul terrorismo negli anni Settanta. Qui siamo di fronte a manifestazioni del tutto marginali e periferiche. Siamo in presenza di una strategia della comunicazione, non della tensione, che rende il virtuale spesso più pesante del reale».
Un altro fronte aperto è quello di Telecom. Non volano minacce, ma lei è stato duramente attaccato per aver definito ”un pericolo scampato” il mancato accordo tra Tronchetti Provera e gli americani di At&t. Il ministro Bonino l’ha accusata di «sconcertante interventismo giornaliero».
«Interventismo? Se si discute, attraverso Telecom, di una grande questione nazionale che si chiama ”politiche industriali”, è mio dovere sottolineare come in Italia non esista, diversamente da altri Paesi, un luogo della rappresentanza politica-istituzionale in cui queste politiche industriali siano oggetto di una analisi, di una discussione e di un orientamento. E ritengo compatibile con il mio ruolo esprimere l’opinione che nei grandi assi strategici del Paese è necessaria una presenza di capitale, proprietà e competenze italiani».
Ma chiedere che sia il Parlamento ad indicare le linee di politica industriale non porta con sé il rischio del dirigismo?
«Con l’accusa di dirigismo si è abbattuta ogni capacità di programmazione. Forse bisognerebbe pur chiedersi perché la Francia ha un ufficio di programmazione e in Germania si parla di ”Modello renano”, cioè una modalità di organizzazione dell’intervento sulle politiche industriali. Credo che denudare un apparato produttivo e di creazione di servizi da qualsiasi forma di intervento pubblico, sia determinare un handicap grave per l’economia nazionale. Mi pare curioso che si vogliano formazione e ricerca e non indirizzo. La formazione e la ricerca non sono pubbliche? Il pubblico deve solo pagare? E poi, secondo questa impostazione, deve pagare anche il prezzo degli eventuali insuccessi della grande imprenditorialità strategica in termini di perdita di posti di lavoro e di assi strategici? Un Paese, ad esempio, potrebbe tranquillamente rinunciare ad avere un’industria automobilistica o delle telecomunicazioni? Ritengo che la programmazione è ancora la forma più intelligente e, se non mi sbaglio, ogni anno in Parlamento si discute del Documento di programmazione economica e finanziaria. Giuro, non l’ho inventato io».
Come dovrebbe fissare, il Parlamento, le linee di politica industriale?
«In occasione della discussione del Dpef si dovrebbe aprire una sessione dedicata alla definizione di indicazioni per le politiche industriali. La questione degli assetti proprietari è secondaria e non tocca a me intervenire».
Il privato, insomma, nei settori strategici dovrebbe ascoltare le indicazioni delle Camere?
«Esattamente. E dico una cosa, come ho ricordato, pienamente presente in Europa e che neppure a Sarkozy viene in mente di mettere in discussione. Non credo che esista una componente del mondo politico francese disposta a rinunciare alla compagnia di bandiera nel servizio aereo. E la Francia non è un paese che odia il mercato».
Il Primo maggio ha ricordato la lotta alla precarietà. E’ passato un anno dall’insediamento del governo Prodi, ma la legge Biagi sul mercato del lavoro è rimasta intatta e sembra intoccabile.
«Partirei dal Primo maggio. Un Primo maggio come quello di ieri è molto importante: ho visto una grande unità e un grande protagonismo dei sindacati. La questione del lavoro sta tornando in primo piano e saluto come un fatto di cultura politica rilevante il Tg1 di quella sera. Un mondo che era stato reso oscuro e invisibile (le morti bianche, la precarietà, la richiesta di giustizia sociale con un aumento delle pensioni e dei salari), è stato disvelato. Il clima è cambiato. Ma siamo ancora lontani dalla bisogna».
Dimentica la legge Biagi. E’ o no intoccabile?
«Tutte le leggi sono toccabili, perché la legge Biagi dovrebbe non esserlo?».
Ci sono forze nel centrosinistra che la ritengono tale.
«Invece bisogna combattere la precarietà, sia per fermare la tragedia delle morti sul lavoro, sia per dare un senso al lavoro. Quello dei giovani in particolare. Per il resto, sono arbitro del procedimento legislativo e non posso propormi sul terreno della produzione delle leggi».
Come deve essere utilizzato il ”Tesoretto”?
«Suggerisco al governo di ascoltare molto i sindacati. Non aggiungo altro».
In piazza il Primo maggio ha detto: «Sfilo con gli stessi sentimenti di quando ero sindacalista». L’abito istituzionale le va stretto?
«Ne sento, naturalmente, il senso del limite. E’ evidente se uno ha una responsabilità istituzionale non può esprimersi come se questa condizione non esistesse. Ma non accetto di ridurre la figura dei presidenti della Camera e del Senato alla visione anglosassone dello speaker, in base alla quale viene annichilita qualsiasi facoltà di espressione politica. Per fortuna, il presidente del Senato ed io, abbiamo atteggiamenti del tutto simili. Interpretiamo in maniera univoca e comune il nostro ruolo».
Lei e Marini siete due ex sindacalisti.
«Non è questo. E’ che abbiamo una comune cultura dello spazio pubblico e della responsabilità pubblica. C’è un’assonanza totale tra noi. E credo che questo sia un vantaggio per la democrazia italiana».
Ha espresso solidarietà a Segni per l’aggressione del primo maggio. C’è però chi l’ha accusata di aver fomentato il clima di tensione definendo il referendum un pericolo.
«Sono estraneo alle risse, dunque non ci casco. Ma vale la pena di fare chiarezza. Primo: penso che il referendum sia un grande strumento di democrazia partecipata. Secondo: il referendum sulla legge elettorale è considerato da molti giuristi un’anomalia, in quanto una legge elettorale dovrebbe essere fatta con il massimo di consenso e non con il 51%. Terzo: considero dunque rischioso non il referendum, ma il suo contenuto, il suo possibile esito in quanto la legge elettorale che ne uscirebbe nuocerebbe alla formazione di partiti autonomi in grado di dare consistenza alla società civile e politica».
A sinistra c’è un grande fermento. A Rimini, al congresso del Pdci, molti delegati le hanno chiesto: ”Fausto, ce la faremo a tornare uniti?”. La sua risposta è stata un sì. Come?
«Il come non spetta a me dirlo, non sono un dirigente di partito. Ma credo che siamo in presenza di un sommovimento. Siamo entrati in una fase di riorganizzazione delle forze politiche, da cui i partiti così come li abbiamo conosciuti, usciranno completamente diversi. Il fatto nuovo determinato dalla scelta di una componente importante del campo riformista di non accedere al Partito democratico e di dar luogo a una sua soggettività organizzata, cambia il panorama della sinistra di alternativa o sinistra radicale. E ora bisogna andare verso un’avventura, un orizzonte unitario e plurale».
Plurale significa che nessuno, né Rifondazione, né il Pdci, né Mussi né Angius... rinuncerà alla propria identità?
«Non condivido l’idea che per fare una cosa nuova bisogna azzerare. E’ un’idea banale, rozza e inconcludente. Invece le storie sono una ricchezza. Il punto fondamentale è la cultura politica comune su cui si fonderà la nuova soggettività. La sinistra di alternativa non deve imitare il Partito democratico, deve scegliere la propria strada».

L’Unità 03.05.07
«Terrorismo quegli attacchi al Papa»


Palco del Primo Maggio, l’«Osservatore» contro le frasi del comico Rivera: qualcuno ce l’ha messo...
UN TERRORISTA Poco meno, poco più. Il Vaticano usa il cannone contro Andrea Rivera che dal palco del primo maggio ha attaccato la Chiesa e il suo no ai funerali di Welby. «È terrorismo, e terrorista è alimentare furori ciechi... ». Il giorno dopo lo show già condannato dai sindacati l’Osservatore romano spara a zero e non ammette repliche. «È vile e terroristico lanciare sassi - incalza l’articolo – questa volta addirittura contro il Papa, sentendosi coperti dalle grida di approvazione di una folla facilmente eccitabile. Ed usando argomenti risibili, manifestando la solita sconcertante ignoranza sui temi sui quali si pretende di intervenire pur facendo tutt’altro mestiere». Un mese di minacce a monsignor Bagnasco neo presidente della Cei, pochi giorni dall’appuntamento più importante per i cattolici che ci credono, il Family Day che porterà in piazza – dopo decenni - anche i preti. La mobilitazione per alzare il muro contro i Dico è totale, come quella contro chiunque in questo momento minacci la Chiesa. E Rivera non ha tergiversato. Rivera ha detto: «Non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali di Welby. Invece non è stato così per Pinochet, per Franco e per uno della banda della Magliana ». Troppo per il Vaticano che non ha fatto sconti, nemmeno ai sindacati che si erano immediatamente dissociati. «Qualcuno lo deve avere pur scelto questo conduttore, o no?».
Le accuse dell’Osservatore sono come pietre: «Le parole di Andrea Rivera forse sono solo espressione di una sconcertante superficialità. Mala loro pericolosità non è altrettanto superficiale. Tutto questo di fronte a circa 400.000 persone ead un più numeroso pubblico televisivo ». «Sono di queste ore gli attacchi e le minacce, pesanti, rivolte al Presidente della Cei, l’Arcivescovo Angelo Bagnasco, cui è arrivata l’apprezzata solidarietà del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si sta battendo con coraggio anche sul tema degli incidenti sul lavoro. Sono di queste ore - continua l’articolo - anche gli slogan nei cortei inneggianti ai terroristi, i messaggi che appaiono su internet, provenienti da br in carcere, un’offensiva che cerca di trovare terreno fertile nell’odio anticlericale. Un odio purtroppo coscientemente alimentato da chi fa del laicismo la sua sola ragione d’essere, per convenienza politica».Anche i discorsi de presidente della Cei sono stati «forzati per aprire una guerra strisciante, una nuova stagione della tensione, dalla quale trae ispirazione chi cerca motivi per tornare ad impugnare le armi,e rivitalizzare organizzazioni che hanno perso su tutti i fronti, primo fra tutti quello della storia. Anacronismi. Come quella presenza sul palco a san Giovanni ». In serata padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede,cerca di stemperare: «Battute irresponsabili, ma è ora di abbassare i toni».E al Family Day manca ancora una settimana.






La Repubblica 03.05.07
Fassino sotto le pressioni di chi voleva una risposta netta. Sollievo per la correzione vaticana dell´anatema dell´"Osservatore"
E tra laici e cattolici è già tensione nel Pd
Turco: non facciamo della Chiesa la vittima. Lusetti: squallore in piazza
Cuperlo: assurdo trasformare in un caso le parole di chi conduce uno spettacolo
Bordon: cattolici feriti, ma se il Vaticano interviene si espone anche alle critiche
di G. Casadio


ROMA - A sera è arrivata la correzione del Vaticano e al Botteghino hanno cominciato a rilassarsi. Ma per tutta la giornata i Ds si sono trovati stretti tra i malumori laici del partito - dove è indigeribile l´attacco della Chiesa al diritto di satira - e l´attenzione a non urtare la sensibilità dei partner cattolici nel futuro Partito democratico. Piero Fassino un colpo "laico" non lo batte direttamente, ma lo affida a una nota del responsabile Informazione, suo ex portavoce, Roberto Cuillo. Comunicato misurato, prudente, però chiaro: «È eccessivo accusare un comico di terrorismo». Intanto le critiche della sinistra radicale alle ingerenze del Papa si affollano sulle agenzie di stampa.
E quando padre Raffaele Lombardi, il portavoce del Vaticano frena e invita a non fare di «una sciocchezza una tragedia», Cuillo annuisce: «Proprio così, quello che intendevamo dire anche noi. Non esasperiamo i toni, di fronte al concerto del Primo maggio è utile per il Paese che ci sia un passo indietro di tutti. Accusare un comico di terrorismo è eccessivo, i comici possono sbagliare ma non sparano, Però anche la destra deve smetterla di buttare benzina sul fuoco». Il segretario della Quercia sa quanto sia costellata di ostacoli la strada del Partito democratico e come la questione dei valori, il tema della laicità e del confronto tra credenti e non credenti, siano centrali. Sta attento a non farsi mettere alle corde né dai cattolici né dal fronte laico che ha del resto nei transfughi ds i più accesi supporter.
Un maggiore coraggio laico lo chiede a Fassino anche Gianni Cuperlo: «Resta inteso che ciascuno si assume la responsabilità di ciò che dice e soprattutto va fatta una distinzione tra quello che afferma un conduttore e le parole di un politico. Però trasformare in un "caso" ciò che un "caso" non è, sembra davvero assurdo». Persino una cattolica come il ministro della Salute, la ds Livia Turco è infastidita da tutta la faccenda e dalla reazione dell´Osservatore romano: «Qui manca la saggezza e la moderazione. Anche la satira deve avere rispetto, questo è certo e comunque dobbiamo evitare di fare in modo che la Chiesa assuma la parte della vittima. La laicità è la forza del dialogo. Evitare i rispettivi estremisti mi sembra il minimo».
Tutt´altra musica nella Margherita. Anche qui, è il responsabile dell´Informazione del partito di Rutelli, Renzo Lusetti a scendere in campo: «È squallido approfittare del concerto del Primo maggio per infierire contro la Chiesa. Prendiamo le distanze da Rivera, anche se è solo un comico che non è riuscito a far sorridere nessuno». Indignata la reazione dei Teodem. Paola Binetti si schiera con l´Osservatore che «fa bene, perché i toni sono di una gravità incredibile». Tanto più, aggiunge, che l´attore Rivera ha precisato come le sue battute siano state «concordate con gli autori». «Battute così stupide, acrimoniose nei confronti della Chiesa, dette poi davanti a una piazza eccitata, è imprudente, scorrette e pericoloso», avverte. «Ma smettiamola, non è in questo modo che si va verso il Pd», replica Willer Bordon, ultrà ulivista in rotta di collisione con la Margherita.«C´è il diritto di esprimersi anche quando si dice una sciocchezza. Rivera ha detto corse sgradevoli che vanno contro i sentimenti cattolici degli italiani ma io sono convinto che gli italiani condividono quanto ha sostenuto su Welby. La Chiesa del resto intervenendo si espone al diritto di critiche anche sgradevoli». Gli fa eco Natale D´Amico, liberaldemocratico: «La libera opinione di un uomo di spettacolo va difesa». I cattolico-democratici del Pd, come Dario Franceschini e Rosy Bindi preferiscono restare fuori dal polverone. Ad Antonello Soro, coordinatore della Margherita, è affidato il compito di mantenere l´equilibrio tra laici e cattolici a cui il Pd aspira: «Non è possibile che ci sia una guerra di religione su tutto. Stiamo andando verso divisioni non solo nelle famiglie politiche ma proprio dentro ciascuna famiglia. Quella di Rivera è stata un´uscita infelice, di cattivo gusto, fuori posto, ma l´accusa di terrorismo è sopra le righe».








La Repubblica 03.05.07
IL DIBATTITO
Incontro del segretario Ds con gli intellettuali: il Pd cerca risposte alle domande del mondo moderno
E Fassino va a lezione dai filosofi
"Fede e sinistra, servono nuove sintesi"
"Vero o falso che sia, oggi la Chiesa appare più convincente rispetto ai partiti nel fornire soluzioni alle ansie della società contemporanea"
"Il senso della laicità sta nel riconoscimento che ogni verità è parziale e che ho il dovere di dare valore al pluralismo"
di A. Longo


ROMA - «I valori attraversano il tempo. Sono le forme con cui ti organizzi per affermarli che non lo attraversano. E allora diventa un´operazione intellettualmente onesta ammettere che le nostre storie non ce la fanno, che occorre produrre un pensiero nuovo per un secolo nuovo. Ecco: io credo che il Partito democratico sia questo, sia la moderna forma della sinistra, un partito di credenti e non credenti, chiamato a esistere per necessità storica, per rispondere alle domande di senso di una società, di un mondo, completamente cambiati». Piero Fassino a porte chiuse, senza i riflettori, in maniche di camicia, alle prese con un pubblico esigente, riunito da Ivana Bartoletti, responsabile Diritti civili dei Ds: docenti di filosofia teoretica, filosofia del linguaggio, storia contemporanea, riuniti in un albergo romano a ragionare di etica e politica, a riflettere sul concetto di laicità, sulle chances di dialogo con i cattolici dentro e fuori il Pd.
Gennaro Sasso, professore di Filosofia teoretica a Napoli, esterna gran scetticismo sulla possibilità che, in una commissione bioetica, tanto per dirne una, si possa trovare un accordo tra componenti laiche e cattoliche: «Sono più facili la battaglia e la rottura che non le mediazioni. E io penso che il nuovo partito debba essere intransigente nella difesa del laicismo». Mediazioni difficili, equilibrismo impossibile «sul piano dei principi generali», dice anche Elio Matassi, docente di Filosofia a Roma Tre, che vede «la strada del Pd complessa e controversa». Fassino prende appunti, sa di aver davanti una platea che si muove sul piano della razionalità e non della passione o del tatticismo. Eppure si devono convincere, anche gli accademici che gli stanno di fronte, e vanno cauti sul Nuovo Umanesimo evocato da Alfredo Reichlin: «O la politica cerca di rispondere ad una società che ha visto svilire il lavoro, che assiste alla deriva dell´etica pubblica, che s´interroga sulla sostenibilità dello sviluppo, sulla vita e sulla morte decise dall´uomo, o la politica, dunque, sa tornare guida, o lo farà qualcun altro». Fassino è tranchant: «La religione, oggi, appare - vero o falso che sia - dare risposte più convincenti della politica all´ansia del mondo in trasformazione. Penso al fascino esercitato da Woytjla e dico che il ritorno alla religiosità per noi è una sfida. Averne paura rivela una regressione culturale, bisogna invece, al contrario, aprire una nuova stagione di confronto tra fede e ragione».
Commette perciò peccato di basso profilo chi pensa al Pd, vede il volto della Binetti e s´incaglia. Il nuovo partito, assicura l´ultimo segretario dei Ds, è una risposta «laica» di ultima generazione. Quasi si sublima Fassino quando dice: «Il senso della laicità sta nel riconoscimento che ogni verità è parziale, che io ho il dovere di scoprire il pezzo di verità diverso dal mio, di riconoscere il pluralismo delle opzioni, e poi di costruire una sintesi».
La sintesi culturale: è proprio questo il punto. A parte il professor Alberto Melloni, che, da cattolico liberal, respinge «un´idea caricaturale della Chiesa, ridotta a giannizzero e guardia giurata dei valori», e lascia intuire ottimismo su una futura «mobilità di pensiero», prima o poi anche in Italia («I vescovi spagnoli avrebbero firmato con due mani la bozza dei Dico»), a parte Melloni, regna un dotto scetticismo. Fassino conosce le obiezioni e ha i suoi controargomenti: «Non è affatto vero che non si possano costruire sin tesi su una frontiera progressista. Penso a leggi approvate all´unanimità come quelle sulle adozioni internazionali, contro la pedofilia, contro la violenza sessuale e a tutela delle donne. Quando non cerchi la sintesi laceri la società. E´ successo con la fecondazione assistita e l´arroganza della destra, decisa a imporre la sua legge. Da lì, in molti, hanno pensato che le questioni etiche portino alla rottura. E invece si può e si deve arrivare ad una condivisione il più possibile larga, non per compiacere i cardinali, ma per tenere unita la società».
E´ vero, «i principi non sono negoziabili», ammette Fassino, ma «compito della politica, della nostra politica, è costruire soluzioni condivise. La destra ha già fallito il suo progetto di guida della società italiana. Ora tocca a noi».
Mauro Visentin, ordinario di filosofia teoretica di Sassari, s´interroga su come si possa marcare un´identità di sinistra, «sia pur moderata», dentro un contenitore che nasce sostanzialmente dall´incontro «tra ex Pci e ex Dc». Gli risponde Reichlin: «Non stiamo facendo un mini compromesso storico, come dice Boselli. Il Pd nasce nel momento in cui vengono meno tutte le certezze, e gli uomini sono soli, in una condizione nuova. C´è bisogno di risposte, non le può dare certo il partito ridicolo di Diliberto che, all´epoca del digitale, fa ancora il pugno chiuso».










La Repubblica 03.05.07
Studio Camera: crescita del 70%
Sempre più i nati fuori dal matrimonio


ROMA - Sempre più figli fuori dal matrimonio, sempre più nascite da donne immigrate, sempre più famiglie "diverse" da quelle tradizionali. Sono alcuni degli aspetti dell´ "Indagine sulle condizioni sociali delle famiglie in Italia" approvata dalla commissione Affari sociali della Camera. Alcuni dati: in Italia le nascite fuori dal matrimonio sono aumentate del 70% nel periodo 1995-2004 (dall´8,1 al 13,7%) mentre il tasso di fecondità delle immigrate è molto più elevato di quello delle italiane: 2,6 figli contro 1,3. In linea più generale le nuove forme familiari, compresi i single non vedovi, le coppie non coniugate o ricostituite e i genitori soli, sono oltre 5 milioni nel 2005, il 23% del totale, rispetto ai 3milioni e 500mila nel 1995 (16,8 per cento).




L'Unità 03.05.07 Dico sul binario morto
Nell’Unione ora l’argomento è «tabù»
Mastella: farò di tutto per bloccare la legge
Binetti: tempi più lunghi. Zanotti: così non si farà mai


DICO - DIREI Era profezia quella del ministro Rosy Bindi quando, a proposito del Ddl sui Dico, disse, «sarebbe più appropriato “direi”»? Forse, sapeva bene in quale ginepraio sarebbe finita la discussione sulla legge per il riconoscimento di diritti e doveri alle coppie di fatto. Tanto per fare nomi, ieri il ministro della Giustizia Clemente Mastella ha dato la adesione ufficiale al Family Day ribadendo che l’Udeur farà del tutto per battersi contro i Dico.«Nel corso dell’incontro - ha fatto sapere l’Udeur dopo aver incontrato gli organizzatori del Family Day - sono state illustrate le motivazioni che hanno spinto le associazioni cattoliche a realizzare un evento teso a riaffermare il valore della famiglia e la contrarietà al ddl sulle unioni di fatto all’esame del Senato». Nella maggioranza non è solo il ministro a mettere i paletti. Anche la senatrice della Margherita Paola Binetti, dice che l’unica proposta di legge che i teodem potranno appoggiare sarà quella che riconoscerà soltanto i diritti individuali delle persone, «come previsto dal programma dell’Unione che abbiamo tutti sottoscritto. Per questo non intendiamo presentare noi, come teodem proposte di legge ad hoc». Alla capogruppo dell’Ulivo in Senato, Anna Finocchiaro, intanto ha chiesto di prolungare le sedute della Commissione Giustizia dedicate alla discussione generale - che secondo il presidente Cesare Salvi,dovrebbero chiudersi l’8maggio. Oltre a lei altri quattro senatori dell’Ulivo (Baio Dossi, Adragna, Banti e Papania) hanno avanzato analoga proposta «anche in vista del Familyday, evento di cui non si può non tener conto». Da Fi si unisce Laura Bianconi, mentre ieri Francesco D’Onofrio, Udc, nel suo intervento ha detto dei «no e dei si. No ad una legge che,direttamente o indirettamente, intenda assimilare alla famiglia naturale fondata sul matrimonio una qualunque unione civile; sì soltanto alla disciplina legislativa concernente i diritti, anche degli omosessuali, soprattutto se risultano da discriminazioni di fatto.
Nel centrosinistra serpeggia il sospetto che in realtà si voglia portare su un binario morto la discussione stessa. Anna Serafini, senatrice ds, assicura che quello rimane un punto qualificante non solo per l’Unione, ma per gli stessi Ds. «Ma per arrivare a un testo di legge davvero condiviso bisogna ascoltare anche coloro che hanno posizioni diverse dalle nostre.
Dialogo e confronto per arrivare ad un punto di sintesi. Lo stesso Prodi ha definito il Ddl Bindi-Pollastrini un contributo alla discussione parlamentare». Ma su un argomento così «non basta la sola maggioranza di coalizione - dice. E non sto chiedendo una maggioranza qualificata come ha scritto qualcuno distorcendo
il mio pensiero, chiedo soltanto di lavorare per un consenso ampio e una legge condivisa». Per katia Zanotti,Ds in uscita, (da oggi non sarà più capogruppo in Commissione Affari Sociali), si parla sempre meno di Dico«perché c’è una non resa esplicita consapevolezza che il percorso parlamentare è in una empasse definitiva. Credo che non si arriverà mai all’approvazione di una legge».







Corriere della Sera 03.05.07
DISCUSSIONI
Dopo gli interventi di Galasso e Belardelli, continua il dibattito sulle tesi di Galli della Loggia
Tutti sembrano uguali nella notte della violenza
Sbagliato mettere sullo stesso piano Garibaldi e Nenni, Mussolini e Gramsci


La storia è maestra di vita, si usa dire, tenendo dietro a Cicerone. Ma può capitare che il rimando al passato diventi poco più che un pretesto per propugnare tesi curvate dall'ideologia, che con la realtà della storia hanno poco o nulla a che fare. È il caso della riflessione di Ernesto Galli della Loggia, nel suo editoriale pubblicato sul Corriere del 27 aprile e intitolato «Brigatismo senza fine».
Galli della Loggia muove da un interrogativo pertinente: come mai l'Italia è l'unico Paese dell'Unione europea dove ancora scorre, a decenni di distanza dagli anni di piombo, un fiumicello di consenso (o comunque di tolleranza) verso la cultura terroristica? La risposta cui l'editorialista perviene, volgendosi a considerare il nostro passato nazionale, riesce tuttavia impossibile da condividere. «Un'antica e lunga contiguità con la violenza», di contro a uno Stato di diritto caro soltanto a «sparutissime minoranze»: questo il filo rosso della nostra storia nazionale, quale Galli della Loggia ritiene di poter riconoscere muovendo dall'ultimo episodio di cronaca, le celebrazioni milanesi del 25 aprile e la loro appendice di cartelli e slogan filo brigatisti. Peccato però che l'argomentazione storico-politica di Galli della Loggia risulti così ingarbugliata da offrire, più che un criterio felicemente esplicativo, un pot-pourri francamente indigesto.
Non si capisce l'utilità di un ragionamento sul nostro passato che precipiti in un unico calderone, relativamente al mito della rivoluzione e alla seduzione della violenza, Garibaldi con i suoi Mille e i socialisti massimalisti del «biennio rosso»; il duce del fascismo Benito Mussolini e la sua vittima politicamente più insigne, il comunista Antonio Gramsci; un capo azionista come Leo Valiani e i suoi nemici giurati delle Brigate rosse... Oltre un secolo di storia italiana, una varietà di culture politiche diverse e per molti aspetti contrapposte, implose nel buco nero del «brigatismo senza fine»?
In generale, non si capisce l'utilità di un amalgama fra situazioni di autentica guerra civile fra italiani, e tutto il resto della nostra storia moderna. O meglio: è un'utilità che si capisce, ma a condizione di identificarne il presupposto ideologico: la trasformazione della guerra civile del 1943-45, dello scontro armato tra nazifascisti e antifascisti, in un episodio fra i tanti di un'interminabile lotta di fazioni. La Resistenza come ennesima macelleria nella nostra storia, che l'improbabile filo rosso di Galli della Loggia cuce insieme, indifferentemente, con le fucilate di Nino Bixio a Bronte o con le sparatorie dei brigatisti in via Fani.
Meno che mai si capisce l'utilità di collegare il fiumicello carsico della cultura terroristica all'amazzonico fiume dell'illegalità di massa in Italia. Come se davvero il giovinastro che non paga il biglietto sull'autobus, il professionista che evade il fisco, il furbacchione che costruisce la casa abusiva, l'inquisito che diventa deputato, facessero tutt'uno con il pacifista che manifesta contro la base americana di Vicenza, o con il militante della sinistra «antagonista» che sbandiera striscioni filo Br nella Milano del 25 aprile. E come se tutti loro appartenessero alla stessa famiglia politica e culturale del terrorista che uccide professori di diritto del lavoro! Sono ragionamenti ai quali si fatica addirittura a replicare, tanto appaiono sprovvisti di qualunque fondamento.
Mal'ingrediente più difficile da digerire, nel pot-pourri di Galli della Loggia, è quello che legherebbe le culture politiche del socialismo e del fascismo, del comunismo e dell'azionismo, alle «più importanti organizzazioni storiche della criminalità europea»: cioè — sembra di capire — alla mafia e alla camorra. Una tesi, questa, che suona quasi come un insulto alla memoria di quanti, sentendosi di destra o (più spesso) di sinistra, nella lotta contro la criminalità organizzata hanno impegnato la vita. E magari, come Paolo Borsellino o Pio La Torre, hanno trovato la morte. Checché possa dirne Galli della Loggia, nei centocinquant'anni che ci separano dal Risorgimento i socialisti, gli azionisti, gli stessi comunisti (non i fascisti, evidentemente) hanno fatto moltissimo perché si affermasse in Italia uno Stato di diritto: altro che «sparutissime minoranze»... Liquidare in poche parole, gettandole nella discarica del «brigatismo senza fine», esperienze democratiche tanto qualificate e fondanti come quella del socialismo di un Sandro Pertini o di un Riccardo Lombardi, dell'azionismo di un Ugo La Malfa o di un Emilio Lussu, del comunismo di una Camilla Ravera o di un Enrico Berlinguer, corrisponde a un pessimo esempio di uso pubblico della storia.
Guarda caso, l'unica cultura politica che Galli della Loggia salva dalla scomunica è quella dei cattolici. E beninteso, ha tutte le ragioni per farlo, laddove ci si riferisca alla grande cultura politica degli Alcide De Gasperi o degli Oscar Luigi Scalfaro. Mentre appaiono meno rispettosi dello Stato di diritto i loro odierni nipotini: i «teo-dem» che si vantano di prendere ordini dal Vaticano più che di rispettare l'evoluzione della nostra cultura dei diritti.










Il Manifesto 03.05.07
Il segretario del Prc affonda la proposta di Mussi sul «partito unico della sinistra» e propone l'«unità d'azione» su welfare e pensioni.
Nel «cantiere» è il giorno delle paure
di Matteo Bartocci


Roma - Per le forze della sinistra serve «un patto di unità d'azione centrato sul lavoro che realizzi dalla pratica dell'oggi la soggettività unitaria del domani».
Con un editoriale che uscirà oggi su Liberazione Franco Giordano prova a sciogliere i dubbi sul «cantiere» della sinistra che verrà e chiede a tutti di partire dalle cose da fare. Rovesciare i termini del discorso come hanno fatto i sindacati in passato e come hanno fatto i movimenti da Seattle in poi. Con al centro il lavoro, tanti soggetti diversi che convergono sui problemi e sulle possibili soluzioni e provano a camminare sulle gambe e non sulla testa. Un approccio pragmatico (concordato con Bertinotti) a due livelli. Nell'immediato fa di lavoro e welfare una questione di «identità politica» dell'Unione, cioè una linea del Piave da non oltrepassare. «Qualcosa dal governo è stato fatto - scrive Giordano - ma siamo lontani dal necessario: per aprire la stagione del risarcimento sociale bisogna ricostruire una centralità del lavoro. E non ci ha convinto la ripartizione di Padoa Schioppa tra risanamento e redistribuzione».

D'altro canto rimanda a un imprecisato domani la necessaria «innovazione culturale» per dribblare le dispute identitarie che rischiano di azzerare il «cantiere» prima ancora che inizi i suoi lavori: contratti, «tesoretto», pensioni, welfare, «la sinistra», se c'è, si mostri da qui.
Non per frenare ma certo a via del Policlinico non è piaciuto l'auspicio del «partito unico» con cui domenica scorsa Mussi ha concluso il suo atteso intervento all'assemblea di «Uniti a sinistra». Appuntamento organizzato da Pietro Folena e Aldo Tortorella che ha annunciato entro l'autunno gli «stati generali della sinistra» e lanciato un «movimento» trasversale che propone tra l'altro le primarie per tutte le candidature e le funzioni di direzione, l'assoluta parità uomo-donna, «quote sociali» minime di lavoratori-lavoratrici e la volontà di andare alle prossime europee «almeno con un'unica lista».
Dal ministro della ricerca una mossa applaudita in sala ma che ha generato a margine più di qualche malumore in chi un partito già ce l'ha, come Prc e Pdci, e teme che i fuoriusciti dai Ds si candidino a dirigere da colonnelli la «cosa» che verrà senza avere i soldati. La sinistra Ds, d'altra parte, chiede un «big bang» che consenta a tutti di partire da zero, ha paura di essere inglobata dentro Rifondazione senza poter contare granché. Lo dice apertamente l'«angiusiano» Alberto Nigra: «Lavoriamo a un Ulivo della sinistra aperto ai socialisti e non per una izquierda unida, per una sinistra più larga, non una sinistra radicale».
Tutto intorno c'è di tutto. Cossutta si sbilancia su un «portavoce unico» che dà l'orticaria. Lo Sdi di Boselli vigila e pretende che la «nuova forza a sinistra faccia parte della famiglia socialista europea». Il Pdci ha chiuso il suo congresso a Rimini invitando a costruire un soggetto «unito e plurale» (ossimoro?) che teme gli occhiolini tra socialisti e punti alla federazione tra partiti cara a Diliberto fin dal 2001 (ma ci sarà un motivo se da allora non ha convinto i più). Pietro Folena ha paura di essere scavalcato dall'ex correntone nel suo ruolo di pontiere e gran tessitore. E tutte ipotesi - partito unico e federazione - che dal Prc giudicano con pacatezza semplicemente «improponibili». Perché «non esiste che ci mettiamo a rifare il Pci o il Psi». Tanto più in un'epoca che, per dire, non ha più nel sindacato una «cinghia» a cui riferirsi e che deve interrogarsi a fondo sulla crisi della democrazia e quindi anche sulla crisi dei partiti del Novecento.
L'ipotesi di «fusione fredda» tra gruppi dirigenti e di scioglimento dei partiti esistenti viene giudicata dai vertici di Rifondazione troppo simile alla nascita del Pd. «La sinistra, cioè partiti, collettivi studenteschi, associazioni, movimenti, comitati cittadini, centri sociali, comunisti, socialisti, ambientalisti, femministe, altermondialisti concorreranno ciascuno per la sua parte a costruire qualcosa di più, e per farlo non serve un soggetto, servono i predicati», chiosano con garbo a via del Policlinico.
Anche se il «patto di consultazione» dei gruppi parlamentari è stato siglato in meno di due giorni e l'invito più diffuso è «a fare in fretta», nel «cantiere» aleggiano visioni per ora difficilmente conciliabili tra loro. E tante paure umorali più che reali, di vertice più che di militanti o semplici «simpatizzanti» in carne e ossa. Il segretario di Rifondazione ha ragione: basta alibi. Ma valga per tutti.










Il Manifesto 03.05.07
«Non lasceremo solo Bagnasco»
Il presidente della Repubblica invia una lettera di solidarietà al capo della Cei. Anche il papa chiama l'arcivescovo, bersaglio di continue minacce.
E la politica si accapiglia
di Cinzia Gubbini


«L'Italia non lascerà solo monsignor Bagnasco». E' la massima carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a scendere in campo e esprimere solidarietà al capo della Cei, monsignor Angelo Bagnasco. L'arcivescovo - che ieri ha ricevuto anche una telefonata dal papa - finora era stato oggetto di scritte intimidatorie sui muri di varie città. Ma l'altro ieri è stato bersaglio di una minaccia più concreta, che ricorda tempi bui: una busta contenente un bossolo. Era stato il segretario di Stato Tarcisio Bertone a chiedere che l'arcivescovo non fosse «lasciato solo». Ha risposto ieri Napolitano, con una missiva ufficiale inviata proprio a Bertone. «Raccolgo le parole da lei pronunciate in relazione a recenti, gravi episodi di intolleranza nei confronti della Chiesa Cattolica - scrive Napolitano - Desidero assicurarle che l'Italia non lascerà solo monsignor Angelo Bagnasco di fronte alle inammissibili, vili minacce di oscura provenienza di cui è stato fatto oggetto». Ieri mattina era stato invece papa Ratzinger a chiamare Bagnasco: «Non abbia paura, vada pure avanti per la sua strada, senza sacrifici è difficile ottenere qualcosa di positivo». L'arcivescovo non ha commentato l'attestato di solidarietà di Napolitano, ma si sa che il messaggio è stato molto apprezzato in Vaticano.
I rapporti tra il presidente della Repubblica, ex comunista, e la Chiesa cattolica sono, com'è naturale, oggetto di analisi e osservazioni. Lo scorso novembre Napolitano varcò le porte del Vaticano per visitare Benedetto XVI, il primo pontefice tedesco. Incontro carico di suggestioni. Già allora - come aveva fatto in precedenti occasioni - Napolitano dimostrò di voler intessere un dialogo proficuo con la Chiesa cattolica in virtù, prima di tutto, della «coesione sociale». Ieri è tornato a ribadire questo concetto, in un momento in cui alta è la polemica tra laici e cattolici: «Occorre garantire il più sereno esercizio della missione pastorale del presidente della Conferenza episcopale italiana - scrive Napolitano - e il più pacato, responsabile e costruttivo dialogo tra la Chiesa Cattolica, la politica e la società civile, in linea con gli ottimi rapporti che intercorrono tra la Santa Sede e lo Stato italiano».
Un forte segnale da parte delle istituzioni era - in qualche modo - stato chiesto dalla Chiesa, con l'«appello» di Bertone. Sulle pagine di Repubblica era intervenuto ieri il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Ma la missiva del presidente della Repubblica ha tutt'altro peso, evidenziando che le minacce contro Bagnasco stiano davvero preoccupando le istituzioni, non solo per l'effettivo rischio che qualcuno decida di passare ai fatti, ma anche per i riflessi sul dibattito politico. Che intanto impazza, mischiando alle minacce contro Bagnasco la polemica tra cattolici e «laicisti», i Dico, il Family Day, la giornata dell'«Orgoglio laico» lanciata da Radicali e Sdi fino al rapporto Stato-Chiesa. Cerca di buttare acqua sul fuoco Romano Prodi, che non vuole legare le minacce contro il capo dei vescovi alla polemica sui Dico. Il premier ha chiamato Bagnasco lo stesso giorno in cui è stata recapitato il bossolo: «Lo ho rassicurato, purtroppo sono fatti inammissibili, ma si ripetono continuamente» ha detto Prodi, ricordando di essere stato anche lui oggetto «di parole ben gravi».
Ma gli attacchi a Bagnasco vengono letti da una parte (trasversale) del mondo politico come una più generale «propaganda anticristiana». Così l'ha definita ieri il presidente dell'Udc Rocco Buttiglione. Letture simili anche dalle fila della Chiesa: ieri don Giorgio Zucchelli, che dirige la Federazione italiana dei settimanali cattolici (160 testate), ha dichiarato su Sir, l'agenzia di informazione della Cei, che le minacce «vengono da gruppi ai margini della società, i quali tuttavia si alimentano in certi ambienti, anche politici, che fomentano nella base sociale sentimenti ostili alla Chiesa. Il loro tentativo è quello di metterla a tacere sui temi chiave della società di oggi: vita, famiglia, libertà d'educazione». Contro «il coro infame» di chi sostiene «che le gesta eversive contro monsignor Bagnasco siano il frutto avvelenato del clima derivato dal portare avanti le battaglie democratiche e non violente per difendere la laicità dello Stato e ampliare i diritti civili» si scaglia Roberto Villetti, capogruppo della Rosa nel pugno a Montecitorio.







Il Manifesto 03.05.07
E in Messico scomunicati i politici abortisti
La Chiesa scomunica tutti quelli che hanno votato la legge a favore dell'aborto a Città del Messico. A partire dal sindaco. Ed è polemica
di Gianni Proiettis


Tuoni, fulmini e scomuniche sono cominciati a piovere dall'episcopato messicano su tutti i politici che hanno votato, martedì scorso, la depenalizzazione dell'aborto nella capitale, sindaco compreso. Firmato dal cardinale primate Norberto Rivera Carrera, in visita in questi giorni alla Santa Sede, e dagli otto vescovi ausiliari di Città del Messico, il decreto di scomunica, che coinvolge «chiunque promuova, realizzi o assista questa pratica», è stato letto dal vescovo Marcelino Hernandez durante la messa di domenica nella cattedrale.
Il provvedimento ecclesiastico, che si fonda su una norma del codice di diritto canonico - l'articolo 1398 - raramente applicata, rappresenta il culmine di una virulenta campagna lanciata dalla destra clericale con l'appoggio del Pan, il partito del presidente Calderón. Utilizzando i toni apocalittici di una crociata, l'estrema destra messicana, che si crede ormai invincibile dopo la frode elettorale del luglio scorso con cui è riuscita ad usurpare la presidenza, ha occupato negli ultimi mesi i grandi media, senza farsi scrupolo di esacerbare la polarizzazione sociale già esistente.
Ma la propaganda martellante, i toni terroristici, le minacce di aggressioni - anche fisiche - ai legislatori della Asamblea del Distrito Federal, l'organo legislativo della capitale, non hanno potuto impedire l'approvazione di una legge che salverà la vita di migliaia di donne, affidando l'interruzione della gravidanza al sistema pubblico di sanità e sottraendolo al rischioso circuito clandestino. Le argomentazioni razionali, però, non sembrano scalfire la coscienza dell'alto clero e dei fanatici pro vida che, con un accanimento misogino, continuano ad anteporre il diritto di vita dell'embrione a quello della donna.
La polemica scatenata dagli antiabortisti - e l'aggressivo programma di «riconquista» disegnato dal Vaticano su scala mondiale - ha rivelato, in realtà, che in un paese considerato cattolicissimo come il Messico l'insofferenza per le intrusioni clericali in politica è ormai irreversibile e maggioritaria. Dalla promulgazione, nel 1857, delle storiche leyes de Reforma da parte di Benito Juarez, la separazione fra Stato e Chiesa è diventata un intoccabile dogma civile e la laicità dello Stato è un principio fondatore e non negoziabile del Messico moderno.
Gli unici a non averlo capito, a quanto pare, sono un pugno di fanatici reazionari - le manifestazioni indette dall'episcopato non hanno congregato più di tremila persone, in una metropoli di più di venti milioni di abitanti - e l'alto clero di obbedienza vaticana, ringalluzzito dall'appoggio del governo federale.
Il cardinale Norberto Rivera, che a luglio dovrà comparire di fronte a un tribunale californiano per aver protetto un sacerdote pederasta, lancia, da Roma, appelli a disobbedire alle leggi e rievoca i toni della storica guerra cristera, che insanguinò il Messico negli anni '20 lanciando i fedeli in armi contro la Rivoluzione. Ma il cardinale sembra non rendersi conto che la sua anacronistica battaglia è persa in partenza ed è utilizzata dal governo Calderón come una cortina fumogena per occultare i veri problemi del paese: criminalità, disoccupazione, crisi economica, perdita di sovranità, corruzione.
Da parte sua, Marcelo Ebrard, il popolare sindaco della capitale governata dal Prd, di centro-sinistra, pur essendo cattolico praticante, non si è mostrato preoccupato dalla scomunica e ha dichiarato che «non siamo nel XVI secolo, ma nel XXI, siamo obbligati a osservare la legge e lo faremo». Dando prova di uno spirito sanamente burocratico, Ebrard ha chiesto all'arcivescovado che gli invii una copia scritta del decreto di scomunica.








Il Manifesto 03.05.07
Biopoteri
Il post-umano tra Marx e Foucault
Oltreoceano Un'inchiesta dello studioso Nikolas Rose sulla politica della vita


Né Marx, né Foucault potevano prevedere fino a che punto il capitalismo e la biopolitica sono riusciti a penetrare nella soggettività e nella cittadinanza contemporanee. Mentre i filosofi continuano ad interrogarsi su come superare la frattura tra la mente e il corpo, dividendosi tra prospettive naturalistiche e creazionistiche, nel volume appena pubblicato The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power and Subjectivity in the Twenty-First Century (Princeton University Press) il sociologo britannico Nikolas Rose ha mostrato invece come tale frattura stia svanendo. La sua lunga e dettagliata inchiesta - quattrocento pagine - offre al dibattito sulla biopolitica un'impegnativa cartografia su come le ricerche sulla genetica umana stiano trasformando il paesaggio sociale, ristrutturando i limiti della medicina, della cittadinanza, e di tutte le forme del potere.
Rose è uno dei riconosciuti studiosi dell'opera di Michel Foucault sulla scena anglo-americana. In questo libro, si propone una sfida molto ambiziosa e si rivolge direttamente al futuro «post-umano», una prospettiva salutata favorevolmente da alcuni fautori della critica all'«umanesimo», da altri avversata con angoscia. Jürgen Habermas e Francis Fukuyama (l'autore del famigerato volume sulla «Fine della storia») sono, ad esempio, tra coloro che pensano di reagire ai progressi tecno-scientifici della ricerca genetica puntando a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che vincolano la natura umana al rispetto di valori originari stabiliti dalle autorità morali (la Chiesa o lo Stato).
Se i «liberali» reclamano un supplemento normativo per tenere sotto controllo gli imprevisti della realtà, le analisi marxiste classiche non riescono a nascondere lo stesso disagio davanti al post-umano. Il libro di Nikolas Rose dirada ogni retro-pensiero per cui il nostro futuro ci stia preparando una vita da topi di laboratorio. La «bio-economia» non fornisce solo la possibilità di ricombinare in laboratorio la grammatica cellulare della vita, e poi di darle un valore economico, ma trasforma la natura stessa del potere.
Rose esclude, infatti, che l'ingegneria genetica, eserciti un potere imperialistico che si abbatte sul corpo dei malati, dei devianti, della popolazione in generale. Il suo è un potere relazionale che chiede la collaborazione della popolazione al fine di migliorarne la vita. E' sul terreno di questa ambiguità, ancora tutta da comprendere, che il marxismo e la biopolitica si incontrano. Queste analisi spiegano la ragione per cui la bio-medicina (cioè l'intero apparato industriale farmaceutico e quello della ricerca sul genoma) rappresenti la fase che Marx, a suo tempo, ha definito della «sussunzione reale del lavoro». Oggi è la vita a rappresentare la fonte di ricchezza, ma anche il momento in cui il potere dsi trova costretto a gestire la libertà di ciascuno e non solo a reprimere i pensieri e le azioni dei «devianti» e degli «anormali».

martedì 1 maggio 2007

l’Unità 1.5.07
NUOVA SINISTRA
L’appello di Giordano. Poi il 5 maggio la nascita di Sinistra democratica
di e.d.b.


La data non è stata scelta a caso. Il primo maggio, festa dei lavoratori, il segretario del Prc Franco Giordano pubblica su «Liberazione» un editoriale in cui propone «un patto di unità e d’azione sul lavoro» tra le forze che si collocano a sinistra del Pd. Indicando la strada da percorrere: «Dalla pratica dell’oggi la soggettività unitaria del domani».
Nel merito, Giordano, indica due temi in cui esercitare la pratica: «Saremo intransigenti nel difendere pensioni e salari nella lotta alla precarietà». E spiega: «Per troppo tempo Confindustria ha esercitato un potere di condizionamento molto grande, riproponendo per il nostro paese una logica di riduzione del costo del lavoro e di competitività di prezzo. la forma più incisiva per far vivere oggi una nuova sinistra è dunque quella di rimettere al centro il lavoro. allo stesso tempo approfondendo l’innovazione della propria cultura e pratica politica».Sempre restando alla «pratica», la prossima settimana (mercoledì e giovedì) ci sarà la prima riunione operativa del «patto di consultazione» tra i gruppi di Camera e Senato che si riconoscono nel nuovo progetto (Prc-Pdci-Verdi-Sd).
Sinistra Democratica chiederà di costituirsi in gruppo dopo l’appuntamento del 5 maggio al Palazzo dei Congressi dell’Eur. Da quel momento passeranno altre due settimane circa affinché il passaggio sia ufficiale. Frattanto si lavora assieme, anche per creare nelle realtà locali delle configurazioni simili a quelle che si creeranno in Parlamento. Non manca qualche precisazione. Chiarisce infatti Alberto Nigra, portavoce della mozione Angius al congresso Ds: «Dobbiamo evitare di commettere gli errori del Pd, di mettere in piedi un progetto già preconfezionato. È stata fatta una proposta per un “patto di consultazione” tra i gruppi di sinistra ma è bene discuterne perché lavoriamo ad un Ulivo della sinistra e non per un’izquierda unida». Uno dei temi in discussione è quello di lasciare aperta la porta allo Sdi. Proprio il segretario dello Sdi Enrico Boselli, sarà presente, assieme a Giordano e al segretario del Pdci Diliberto, all’assise dell’Eur.

l’Unità 1.5.07
Falce e martello infiammano solo Diliberto. I mussiani: siamo già ben oltre...
Un soggetto politico di sinistra e i suoi simboli. Rc ne discute il superamento. Russo Spena: «Anche se non ora». L’angiusiano Nigra: «Meglio la Rosa del socialismo»
di Wanda Marra


È ANCORA TEMPO di Falce e Martello? Diliberto è pronto a difenderlo con tutto il suo peso. Ma il resto della futura «Cosa di
sinistra» che dice? Il simbolo non è ufficialmente in discussione per Rifondazione comunista, che però, di fatto, l’ha già affiancato con la stellina della Sinistra europea. E se per i Verdi, nel nome di una pluralità arcobaleno, ognuno può farsi rappresentare dall’icona che preferisce, gli ex Ds guardano oltre e - in vista di una nuova soggettività politica - non vedono possibile che il simbolo sia quello che fu del Pci. Intanto la pubblicitaria Annamaria Testa avverte: «Difficile quantificare il peso elettorale di Falce e Martello. Quello che posso dire è che spero che i cittadini scelgano di andare oltre e di votare per i contenuti e i programmi».
«Ci terremo per sempre nome e simbolo», ha avvertito da Rimini il segretario del Pdci, rispondendo indirettamente anche a Armando Cosutta, che aveva consigliato di rinunciarvi (dopo che nell’89 aveva sbattuto la porta in faccia ad Occhetto in loro nome) perché «se dovessimo accettare l'invito, dovremmo dire che aveva ragione Occhetto e che potevamo risparmiarci la fatica di questi 20 anni». Invece, «abbiamo portato la Falce e Martello nel terzo millennio, chi ci avrebbe scommesso?». In casa Rifondazione, dove il nome comunista e la Falce e Martello, sono ad oggi una realtà identitaria non da poco, si usano toni più sfumati. Nessuno sostiene che si è sulla strada di abbandonarli, ma non sembra neanche che a questo punto ci sia un vero tabù in questo senso. «Per adesso stiamo andando verso un sistema aperto, composto di partiti e associazioni. E non sono in discussione né nome, né simbolo - spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rc in Senato - dopodiché è chiaro che si tratta di un work in progress. Non mettiamo il carro davanti ai buoi». Il problema, in effetti, appare più ampio. Se Mussi l’ha detto chiaro e tondo che bisogna andare verso un «partito» molti dei protagonisti del Cantiere in movimento della sinistra parlano più indefinitamente di «nuova soggettività politica». «L’opinione di Mussi è un’opinione tra le altre- dichiara Gennaro Migliore, capogruppo di Rc alla Camera - chi l’ha detto che si va verso un nuovo partito? All’ordine del giorno c’è una soggettività unitaria, le forme le decideremo insieme. L’autonomia politica di Rifondazione non è in discussione». Ma intanto, il Prc alla Falce e Martello ha già affiancato la stella rossa con tante stelline gialle della Sinistra europea. «Non si tratta di una scelta casuale - afferma Elettra Deiana - anche se non è aperta una discussione su nome e simbolo nel partito. Ma non mi stupirei se alla fine, invece di Falce e Martello, scegliessimo la stellina rossa». Se la cava dicendo, che la forma-partito tradizionale è ormai superata, Paolo Cento dei Verdi. «In un coordinamento plurale, ognuno può scegliere il modo che prefisce per rappresentarsi». Sembrano già ragionare in termini di simbolo unico gli ex diessini. «Falce e Martello, perché no? In fondo ce ne siamo separati non troppo tempo fa. Ma ho la sensazione che il simbolo non sarà quello», scherza Cesare Salvi (sinistra Ds). Mentre Katia Zanotti (area Mussi) spiega: «Una nuova soggettività politica ha senso solo se è innovativa per forme e contenuti». E Alberto Nigra, in quota Angius, è netto nel rimarcare le sue aspirazioni identitarie: «Falce e Martello non ci appartengono. Per il nuovo soggetto politico vedrei magari la Rosa del socialismo».

l’Unità 1.5.07
La storia. Quei simboli antichi «incrociati» da Lenin


La Falce e Martello incrociati sono il simbolo dell'unità delle masse contadine, rappresentate dalla falce, e della classe operaia e dei lavoratori, rappresentati dal martello. All'inizio, il vessillo che rappresenta le lotte operaie e popolari è la bandiera rossa che simboleggia il sangue versato dai lavoratori e dal popolo. Sembra che la prima volta sia stato usato in Germania nel 1512. Nel 1848 il popolo di Parigi la innalzò sulle barricate. Lo stesso fecero i comunardi nel 1871. In seguito, fu adottata da tutti i partiti socialisti e comunisti. Nel 1917 la adottò l'Urss come bandiera nazionale. Lo stesso fece la Cina di Mao nel 1949. Più recente è la storia del simbolo della Falce e Martello. Questi due emblemi vengono già adottati dai partiti della seconda Internazionale nel 1889. Ma appaiono per la prima volta "incrociati" nel 1917 durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel 1918, il simbolo della Falce e Martello è al centro dello stemma della Repubblica federativa socialista sovietica russa. Nel 1924, quando entra in vigore la Costituzione dell'Urss, esso campeggia anche nella bandiera rossa accompagnato dalla stella che indica la via del socialismo. Sotto la spinta del Partito e dell'Urss di Lenin diviene il simbolo principale dei partiti comunisti e socialisti aderenti alla III Internazionale.
In Italia il PSI di Turati adottò tale simbolo per la prima volta al
congresso di Bologna nel 1919. Fu mantenuto per 59 anni, accompagnato da un libro e dal sole, fino al 1978 quando Craxi lo cancellò. Il Pci lo adottò fin dalla sua nascita a Livorno nel 1921. Renato Guttuso disegnò l’intreccio tra Falce e Martello e Bandiera rossa, che diventò poi il simbolo del partito nel dopoguerra.Con la nascita del Pds il simbolo divenne la Quercia sotto al quale rimase quello del Pci. Il passaggio ai Ds cancellò la falce e martello e introdusse la rosa del Pse. Sopravvive nei simboli di Prc e Pdci.

Repubblica 1.5.07
Bertinotti: "Per Sarkozy quel sogno è un incubo"


PALERMO - Sarkozy «vive il Sessantotto come un incubo e non si è reso conto che per molti quel ciclo di lotta è stato un sogno». Fausto Bertinotti interviene a margine di un convegno a Palermo per commentare le parole del candidato neogollista all´Eliseo secondo cui il Sessantotto sarebbe all´origine della «decadenza morale del Paese». «Forse Sarkozy è troppo francese - aggiunge Bertinotti -. Se fosse vissuto in Italia avrebbe potuto vedere il dispiegarsi negli anni ‘70 di una grande partecipazione operaia, popolare. Forse dei metalmeccanici potrebbero aiutarlo meglio a capire di cosa si sia davvero trattato».

Corriere della Sera 1.5.07
Istat, il matrimonio non piace Aumentano celibi e divorziati
di G. Fas.


MILANO — Piccola ma inesorabile. La flessione dei matrimoni in Italia non va oltre lo 0,5%. Abbastanza, però, per tracciare una tendenza al ribasso. Questo racconta l'ultima indagine Istat che ha «fotografato», fra mille indicatori, anche quello relativo allo stato civile dei residenti nel nostro Paese (al 1 gennaio 2006). Vero è che un italiano su due è sposato (il 50,4%) ma in quattro anni il popolo dei mariti-e-mogli è diminuito di quello 0,5%, a tutto vantaggio dei celibi/nubili (+0,4) o dei divorziati (+0,3).
Sull'argomento matrimonio le differenze più forti sono fra uomini e donne. Il 44,6% dei maschi non è sposato contro il 36,5% delle femmine, mentre è invertito il rapporto per i divorziati: più bassa la quota maschile (1,2%) rispetto a quella femminile (1,7%) e questo perché gli uomini sono più propensi delle donne a sposarsi una seconda volta. Se vogliamo rimanere fra i dati che riguardano le coppie ce n'è uno che colpisce: la percentuale di vedove è cinque volte superiore a quella dei vedovi (12,6% contro 2,4%) per via del vantaggio di sopravvivenza femminile. E se si parla di sopravvivenza non si può fare a meno di notare quanto l'Italia sia uno dei Paesi più «vecchi» del panorama internazionale. Al 1 gennaio dell'anno scorso gli italiani che avevano spento almeno 65 candeline erano il 19,7% del totale, quasi un residente su cinque, contro il 18,7% del 1 gennaio 2002 (lo stesso indicatore era del 13,1 agli inizi degli anni Ottanta). In crescita anche l'Italia che ha 80 anni o più: è il 5,1% della popolazione, cioè uno su venti.
C'è un dato, nelle stime Istat, che indica più di ogni altro quanto sia in costante flessione la popolazione dei giovani fino a 14 anni. Negli ultimi 25 anni, raccontano i numeri dell'Istituto di statistica, gli italiani da 1 a 14 anni sono calati dal 22,6% (1980) al 14,1% (1 gennaio 2006).
Ci sono novità (un aumento) anche nelle cifre che riguardano il totale dei residenti. Il primo giorno dell 'anno scorso erano 58.751.711 mentre alla stessa data del 2005 se ne contavano 58.462.375. L'Istat spiega che la crescita della popolazione non significa che siamo un popolo improvvisamente più fecondo. L'incremento è invece stato «favorito prevalentemente dal saldo positivo delle migrazioni con l'estero (+260.644)».
Gli stranieri residenti in Italia sono 2.670.514 (il 4,5% della popolazione), un numero che segna un aumento consistente rispetto all'anno precedente (+268.357, cioè +11,2%). Eppure l'incremento registrato tra il 2005 e il 2006 è inferiore a quello annotato fra il 2004 e il 2005 (all'epoca era +411.998 unità, +20,7%). Facendo i conti a partire dall'inizio del 2003 il numero di stranieri iscritti all'anagrafe nel nostro Paese è aumentato del 72%. E i non italiani, a differenza nostra, sono percentualmente meno anziani: un cittadino straniero su due ha un'età compresa fra i 18 e i 39 anni.

Corriere della Sera 1.5.07
Dopo gli interventi di Galli della Loggia e Galasso sulle origini del terrorismo
All'inizio ci fu la «rivoluzione tradita»
Un mito che alimenta ancora oggi la violenza politica
di Giovanni Belardelli

Perché in Italia sopravvive ancora oggi, sia pure in forme decisamente minoritarie, un terrorismo rosso? E perché questo terrorismo gode ancora di qualche simpatia in certe frange della sinistra cosiddetta antagonista, come hanno mostrato le celebrazioni milanesi del 25 aprile? Era da questo duplice interrogativo che muoveva Galli della Loggia nell'editoriale che ha suscitato, due giorni fa, le obiezioni di Giuseppe Galasso. A sua volta l'articolo di Galasso, pur contenendo non poche osservazioni convincenti, mi pare soffrisse del limite di ignorare del tutto i drammatici interrogativi che ho richiamato. Proviamo dunque a ripartire da questi interrogativi, e dalle ragioni per le quali la violenza politica, non soltanto dunque il terrorismo rosso, ha avuto nella storia italiana una notevole durata e un notevole radicamento.
Anzitutto, lascerei da parte il Risorgimento, poiché il processo di unificazione italiana, oltre ad utilizzare come arma decisiva il tradizionalissimo strumento di una guerra tra Stati (i franco-piemontesi contro gli austriaci) sconfiggendo o inglobando con successo l'alternativa democratico-rivoluzionaria, fu segnato da un tasso di violenza politica assai inferiore a quello da cui nacquero alcune grandi democrazie moderne, come la Francia o l'Inghilterra. Su questo Galasso ha ragione. Anche se il punto davvero rilevante non è — o non è soltanto — che lo Stato italiano sia nato senza tagliare la testa ad alcun re e senza bisogno di una sanguinosa rivoluzione; ciò che caratterizza la nostra storia, ed ha direttamente a che fare con il problema in discussione, è soprattutto la successiva difficoltà del nuovo assetto statal- nazionale italiano, per molto e molto tempo, a eliminare o almeno a marginalizzare la violenza politica, intesa sia come pratica effettiva di una via rivoluzionaria sia come delegittimazione radicale delle istituzioni politiche, messa in atto da forze e partiti antisistema (con qualche analogia dunque, da questo punto di vista, con le vicende francesi). Per certi versi, la stessa reciproca delegittimazione che in Italia ha segnato, negli ultimi anni, i rapporti tra centrodestra e centrosinistra — per la quale si è parlato non a caso di «guerra civile fredda» — è stata l'ultima manifestazione (ormai limitata in gran parte, per fortuna, al piano linguistico) di quell'antica difficoltà a eliminare la violenza dall'arena politica.
Dopo il 1860 furono gli stessi mazziniani a contribuire alla difficoltà di cui si sta dicendo, alimentando il mito di un Risorgimento come rivoluzione tradita o interrotta che l'iniziativa popolare doveva riprendere e condurre fino in fondo (un paradigma utilizzato poi altre volte, fino alla Resistenza e alla stessa «rivoluzione» di Mani pulite). Nel 1914 la «settimana rossa», l'insurrezione scoppiata nelle Marche e in Romagna, era capeggiata dal socialista rivoluzionario Mussolini, dall'anarchico Errico Malatesta ma anche dall'allora repubblicano Pietro Nenni, i quali impersonavano le principali tradizioni sovversive del Paese (compresa, potremmo dire, quella fascista che pure doveva ancora nascere). E mi pare innegabile che, come ha osservato Galli della Loggia, appunto nella varia presenza di culture rivoluzionarie vada cercata una delle principali ragioni (in senso, diciamo così, storico-strutturale) della diffusione della violenza politica nella storia italiana dell'ultimo secolo, nonché della problematica accettazione di cui ha sofferto (e continua a soffrire) da noi lo Stato di diritto: che è un complesso di norme da rispettare, ma anche un insieme di corrispondenti modelli culturali che in Italia continuano a non avere troppo successo.
Quanto alla Resistenza, possiamo ancora riproporne la «storia sacra» (come la definiva ironicamente Enzo Forcella), scandalizzandoci se invece la si chiama in causa nella ricerca delle ragioni storiche della violenza politica? Davvero la Resistenza non ha alimentato anch'essa, prima e dopo il 1945, il mito della rivoluzione? Davvero non vi sono testimonianze di brigatisti che ricordano l'importanza del mito della «Resistenza rossa» nel determinare la scelta terrorista dei singoli? La Resistenza, scrive Galasso, non è stata «solo» questo. Certo, ma nessuno lo sostiene, mi pare. Si sta qui parlando non della Resistenza in blocco, ma di sue componenti, di quella cospicua minoranza che cercò di unire, alla liberazione dallo straniero, l'attuazione di una resa dei conti rivoluzionaria, a volte (si pensi a quei partigiani comunisti che si misero al servizio di Tito) mostrando di avere più a cuore questa di quella.
Tornando al quesito iniziale, mi pare assodato da tempo, almeno dal famoso articolo di Rossana Rossanda sull'appartenenza delle Br all'album di famiglia della sinistra comunista, quale sia stata la cultura politica che direttamente ha contributo a generare consensi attorno al terrorismo rosso. Come non meno assodato è il fatto che per la sconfitta del brigatismo fu determinante la posizione di intransigenza assunta dal Pci di Berlinguer durante il sequestro Moro. Ed è singolare che di recente l'onorevole Fassino abbia preso retrospettivamente le distanze proprio dalla scelta dura, senza compromessi, a favore dello Stato fatta dall'allora Pci nel 1978, sostenendo che forse con le Brigate rosse sarebbe stato meglio trattare per salvare la vita di Moro. Un'opinione singolare, appunto, perché è anche e forse soprattutto per questo, per lo strappo sancito a suo tempo dalla linea della fermezza, che oggi la consistenza del terrorismo brigatista appare incomparabile con quella di trent'anni fa.

Corriere della Sera 1.5.07
Bertolucci. A Rovereto grande omaggio al regista. Che parla della malattia e del rapporto con gli interpreti: «Li psicanalizzo e non li utilizzo più»
«Prigioniero della mia schiena, ma tornerò a girare Ora voglio scoprire gli idoli dei film per ragazzine»
di Maurizio Porro

Sono tutti pronti a fargli festa. E Bernardo Bertolucci, uno dei pochi autori rimasti al cinema italiano, anticipatamente ringrazia il Festival di Rovereto che dal 3 al 12 maggio gli dedica una retrospettiva chiamando testimoni critici, amici, attori, collaboratori e gli amati musici Sakamoto e Barbieri, con due concerti. Sakamoto poi lo incontra in questi giorni perché il regista, lasciando il progetto dei guerriglieri del Perù, è tornato sulla figura e i tormenti del principe napoletano, musicista e assassino Gesualdo da Venosa, «una storia d'amore forte, un musical del '500».
Con che animo si reca a Rovereto?
«Gli omaggi in genere sono un'arma a doppio taglio. Sotto i 50 anni mi sembrava strano, prematuro, ma oggi accetto volentieri. Mi sento come un'oca che ingollano di eccessi di gratificazione, non bisogna crederci troppo: ma l'anno scorso a Bologna la festa dei 30 anni di "Novecento" mi ha ridato la carica. Non vedevo il film da allora ed ho definitivamente capito perché non ho mai girato la terza parte della saga italiana: perché i giovani, dopo la psicosi collettiva della politica degli anni 70 sono entrati nella più totale apatia, che ora sento più forte che mai».
E infatti i film per i teenagers di oggi sono l'assenza di ideologia.
«Non li ho visti, ma li vedrò. Mi interessa studiate la nuova generazione di attori diventata popolare con queste commediole».
Nell'omaggio a un grande regista che sa essere intimo e «kolossale» e magari le due cose insieme, vivendo prima e dopo le rivoluzioni, c'è anche un sentito grazie per il cinema italiano degli anni '60, il più bello del mondo. Anni di opposti estremismi anche cinematografici, nasceva la nostra nouvelle vague, fortissima.
«Tutto fu reso possibile dalla spinta che veniva da altri Paesi. Si era in un intreccio di cinema, amore, politica, una stagione molto speciale, come ho ricordato in "The dreamers". Noi avevamo la commedia italiana come cinema di papà, ma era il seguito del neorealismo. Io in particolare vedevo la Francia come la patria del cinema tanto che alla mia prima conferenza stampa per "La commare secca" parlai pure in francese e così fui bollato a lungo».
Bolli e bolle ne ha avute tante. L'unico film mai mandato al rogo era suo ed era un capolavoro, "L'Ultimo tango", «e non tutti ricordano che persi i diritti civili, voto compreso». Quel titolo a lungo maledetto fece fare harakiri a tutta la troupe, complice subliminale la mostra a Parigi di Bacon, cui Bernardo portava in visita separatamente i suoi attori e che mise nei titoli di testa. «Con Maria Schneider non ci parlammo più, fummo travolti. Con Marlon Brando fu una storia complessa, fu shock: ci vollero 10 anni per riprendere un'amicizia poi durata per sempre».
Che rapporti tiene con i suoi attori?
«Cerco di carpire loro segreti e misteri per arricchire sia la recitazione sia il film. Difficilmente, quando credo di averli scoperti, li uso di nuovo; è successo solo per la Sandrelli e la Sanda, che ripresi sul set di "Novecento", ma nessuna era protagonista».
Un metodo alla Kazan, anch'egli dice spesso di aver spremuto l'inconscio dei suoi divi, partendo da Marlon.
«Io provo ad essere il loro psicanalista, cerco un'esperienza intima e profonda e non solo di applicare una teoria, una scuola del metodo come quella di Strasberg».
E Brando come si sottopose al training, dopo aver subito l'Actor's Studio?
«Ci incontrammo la prima volta a Parigi. Emozionatissimo, gli esposi in due minuti la storia di "Ultimo tango". Lui non mi guardava negli occhi. Gli chiesi perché e mi rispose che teneva d'occhio il mio piede per vedere quando avrei smesso di muoverlo. Dovetti litigare con gli studi che giudicavano alta la richiesta di Marlon, di cui stava uscendo il "Padrino", di 200.000 dollari. Dopo lo scandalo fu una questione di tempo. Mentre ero a Los Angeles, un giorno lo chiamai e andai a casa sua: sentii mentre facevo manovra con l'auto la sua risata, vidi il suo pancione uscire dietro un albero del giardino. Era tutto risolto, continuammo a sentirci, mi chiamava il "bambino profeta". Ma non voleva accettare gli anni, preferiva la dimensione del grottesco sia nel fisico sia nelle scelte di lavoro, non fu mai più se stesso. Io fui l'unico che tentai di togliergli la maschera».
E con gli attori dei primi film?
«Sono tutte altre vite e altre storie. Ogni film è un mondo a parte. Adriana Asti, con cui lavorai in "Prima della rivoluzione" a Parma, è rimasta un'amica. Ma io sento sempre il bisogno di rinnovarmi e non replicare perché non voglio prosciugarli, mi affido alla loro creatività interiore, voglio soprattutto scoprire chi sono».
Bertolucci è un regista di uomini o donne?
«Pensavo di donne, anche per capire il lato femminile che è in me. Ma mia moglie dice che sono autore maschile, quindi costretto a guardarmi per sempre allo specchio».
Intanto Bernardo, che da due anni, dopo un intervento alla schiena, ha difficoltà motorie, fa il suo «outing» con piacere: «Sono stato agli arresti domiciliari in casa, quel disagio alla schiena mi impediva di mostrarmi in pubblico. Ora con un apposito aggeggio che somiglia alle racchette dello sci e mi aiuta a spostarmi, ho accettato di mostrarmi anche in questo mio nuovo svezzamento. Sono uscito, voglio riprendere in febbraio a girare: il pericolo è che la casa diventi tutto il tuo mondo. Chissà se questa difficoltà a camminare è la pena del contrappasso per tutti i carrelli che ho messo nei miei film: camminate, camminate. Il capo macchinista teneva conto ogni giorno dei metri e alla fine fece un totale di diversi chilometri. Mi è sempre stato impossibile tenere la macchina da presa fissa, proprio non sono capace».

Liberazione 1.5.07

Bertinotti ricorda Pio la Torre e Portella Il presidente della camera in Sicilia: «La mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato.
Bisogna minare le sue fondamenta economiche»
«Unità di popolo per sconfiggere la mafia»
di
Gemma Contin

Un minuto di silenzio pesante come il cielo plumbeo. Fausto Bertinotti sta lì a testa china, le mani appoggiate a quella corona di orchidee che è venuto a posare qui a Palermo, nell'anniversario della carneficina mafiosa, davanti alla lapide che ricorda quel 30 aprile di 25 anni fa in cui sono caduti un membro del Parlamento, il segretario del Pci siciliano Pio La Torre, e il suo compagno e amico Rosario Di Salvo.
C'erano già state, una settimana fa a Roma in Campidoglio e sabato scorso a Teatro Politeama a Palermo, e ci saranno più tardi allo Steri, nella sede del Rettorato, e a Portella della Ginestra, dove ricorre anche il 60° anniversario di un'altra strage di contadini e sindacalisti, una serie di iniziative per ricordare l'uomo che fece della lotta alla mafia un «impegno d'onore», come ha detto il presidente della Camera: «Un figlio di questa terra e del nostro paese che ha fatto la propria parte fino al sacrificio».
Una commemorazione che si concluderà con l'intitolazione a Pio La Torre dell'aeroporto di Comiso, che da base missilistica contro cui il dirigente comunista si era battuto oggi è diventata uno scalo civile. Una commemorazione che è parsa subito qualcosa di più: come una presa di coscienza della società civile. Forse un passo avanti per capire e contrastare il fenomeno mafioso oggi, nei suoi interessi-obiettivi-relazioni-strategie, insomma "sistema", e nella sua mutazione «da mafia delle armi a mafia dei capitali», come dice il convegno del Centro Pio La Torre che in un intenso lavoro tra gli studenti di 53 scuole che hanno partecipato al "Progetto legalità", ha coinvolto magistrati, rappresentanti del governo, del parlamento e illustri studiosi.
«Vorrei rivolgere alle autorità, ai segretari dei sindacati che tanta parte hanno avuto nella lotta contro la mafia - ha esordito Fausto Bertinotti in via Turba in un discorso non rituale - alle donne e agli uomini che hanno responsabilità politiche e ai cittadini che sono qui a testimoniare un impegno di popolo contro la mafia, che qui oggi la Repubblica italiana ricorda due figli che hanno portato con onore l'impegno politico e istituzionale».
Vorrei però ricordare, ha detto il presidente della Camera, che «un impegno civile come la lotta contro la mafia non può essere semplicemente una testimonianza etico-morale, pure di grandissimo rilievo. E' un impegno senza il quale non è possibile immaginare la rinascita della Sicilia e del Mezzogiorno. Bisogna far vivere questo impegno in un'unità di popolo con le sue istituzioni e con le sue organizzazioni democratiche».
«Qualche giorno fa - ha proseguito - alcuni giovani hanno detto che sentono la mafia più forte dello Stato. Io non penso che vadano demonizzati: questa percezione rinvia al nostro impegno. Se la mafia appare così forte è perché accanto a uomini coraggiosi, fedeli alla Repubblica, ci sono stati servitori infedeli; è perché la mafia ha potuto usare connivenze con le alte sfere della politica e dello Stato. Da qui deve venire un grande impegno civile e di riforma».
Nodi ripresi anche nell'intervento ufficiale. Dopo i discorsi dei capi della Cgil Guglielmo Epifani e della Cisl Raffaele Bonanni e l'introduzione del Magnifico Rettore, Bertinotti, oltre a sottolineare il compito della scuola nella cultura della legalità, ha anche ricordato il ruolo delle donne: «Madri come quella di Turiddu Carnevale», che chiedeva giustizia chiusa nel suo vestito nero; e come quelle di Plaza de Majo, che hanno costretto un intero paese a fare i conti con i carnefici; e «come Felicia, la mamma di Peppino Impastato», che diceva che non sarebbe morta fino a che non avesse potuto guardare negli occhi in un'aula di tribunale il mandante dell'uccisione di suo figlio.
«Un poeta diceva "beati i popoli che non hanno bisogno di eroi" - ha concluso il presidente - Speriamo che la Sicilia non abbia più bisogno di eroi, ma per questo bisogna che ciascuno faccia la propria parte. Ci vuole un'azione coerente per combattere la mafia nelle sue fondamenta economiche, nei suoi legami che vanno recisi, con un'unità di popolo per la liberazione e la rinascita di questa terra».


Liberazione 1.5.07

Portella, primo esempio di strategia della tensione
Dietro la tragedia l'incontro tra Dc e destra
di
Salvatore Lupo*

Si sente dire spesso che il movimento contadino rappresentò in Sicilia un equivalente della Resistenza, che non c'era stata e che non poteva esserci. In effetti esso segnò la ripresa di un filo antico di sviluppo della democrazia che riporta alla fine dell'Ottocento, al movimento dei fasci siciliani: specie se pensiamo alla rottura di una serie di rapporti di subordinazione sociale, di tipo prepolitico, in luoghi "profondi" della vita collettiva, che un tale moto comportava. Su quest'onda, i due partiti di sinistra ebbero occasione di rifarsi sin dalle elezioni regionali dell'aprile del '47 conseguendo la maggioranza relativa e sfiorando il 30% dei suffragi: recuperando così un 9% rispetto all'anno precedente e superando la Dc. In quell'occasione, però, la destra nel suo complesso arrivò al 40% e la Dc al 20.
Con questo dato dobbiamo misurarci per evitare di sopravvalutare (come spesso si fa) il successo del Blocco del popolo: le elezioni del '47 legittimarono la sinistra, segnalarono il prossimo esaurimento dei sogni separatisti, ma soprattutto aprirono la strada alla convergenza tra una destra fortissima su scala regionale e una Democrazia Cristiana insediatasi alla guida dello schieramento nazionale ma debole (per il momento) nello specifico isolano. La convergenza avrebbe in effetti segnato tutta la prima stagione della vita politica isolana.
Fu allora che si perpetrò l'agguato di Portella della Ginestra, per cui caddero morti dodici contadini, e molti altri feriti, mentre erano impegnati a festeggiare il primo maggio in campagna come facevano sin dalla fine dell'Ottocento - con l'esclusione degli anni del fascismo. La strage fu la manifestazione di una feroce strategia della tensione attraverso la quale un ignoto regista voleva cementare appunto l'incontro tra la Dc e la destra monarchico-separatista puntando sulla radicalizzazione del conflitto politico-sociale. Qualcuno voleva vendere al prezzo più alto la sua collaborazione. Gli esecutori furono i membri della banda capitanata da Salvatore Giuliano, e ciò va ribadito non solo perché le indagini diedero su questo punto risultati non confutabili, ma perché quei banditi erano i logici interlocutori del progetto politico che abbiamo sopra esposto. Sin dal settembre del '45, i maggiorenti del Mis avevano deciso di utilizzare alcune delle bande brigantesche che percorrevano l'isola per costituire 1'Evis, una sorta di esercito clandestino. In particolare Giuliano nell'Evis era stato arruolato col grado di colonnello, proponendosi come punto di incrocio in una vicenda di violenza e complotti in cui si intrecciarono nella maniera più clamorosa mafia, banditismo e separatismo. A maggior chiarimento delle logiche politiche che stavano dietro la strage possiamo citare lo stesso Giuliano, che nel giugno 1947 inviò messaggi di amicizia ai carabinieri, forze «devote al nostro Re», mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli «agenti di Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli italiani)»; e dall'altro lato il cardinale palermitano Ernesto Ruffini, autorevole rappresentante dell'ala destra della gerarchia a suo tempo filo-monarchico, il quale ritenne di spiegare il tragico evento, scrivendone addirittura al Papa, come risposta dei patrioti del sud ai massacri perpetrati dai comunisti al nord, dicendo «inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti» (Lettera sempre del giugno 1947 in F.M.Stabile, La Chiesa nella società siciliana, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992, in particolare alla p. 265).
I mandanti non furono trovati, né cercati. Non induceva a grandi sforzi in tal senso il quadro politico, e lo stesso significato che la Democrazia cristiana ritenne di poter trarre dal test elettorale siciliano: confutazione della politica di unità nazionale, piccolo ma significativo segnale da inserirsi nei grandi eventi che stavano portando il mondo dentro la guerra fredda. Così, nello stesso maggio in cui si era perpetrata la strage, De Gasperi consumò la rottura con entrambi i partiti di sinistra, tra gli applausi della Chiesa, degli americani, degli imprenditori e della destra: ed a destra si orientò nell'immediato cercando e trovando sostegno nei liberali e nel gruppo parlamentare qualunquista. I risultati trionfali delle elezioni dell'aprile '48, meno di un anno dopo, gli avrebbero poi consentito di fare a meno di imbarazzanti sostegni di questa natura.
*Docente di Storia contemporanea
Università di Palermo





lunedì 30 aprile 2007

Repubblica 30.4.07
L’obiettivo del cantiere della sinistra è di battere sul tempo il Pd. Dopo l’estate l'assemblea costituente
Portavoce unico per la "Cosa rossa"
In pole position Salvi e Bellillo. Mussi: spostiamo l’asse del governo
Già deciso il via libera al coordinamento dei gruppi parlamentari
di Giovanna Casadio


ROMA - Maura Cossutta, la figlia, dice che il portavoce unico della Sinistra in Parlamento si dovrebbe fare subito, meglio se donna. Armando, il padre, forte dei suoi ottant´anni e della lunga militanza comunista, indica la ricetta unitaria: gruppo unico parlamentare della Sinistra al più presto, portavoce entro l´estate - «Al Senato, Rifondazione è più numerosa quindi potrebbe imporre un proprio uomo ma Cesare Salvi è di gran lunga il più eminente, alla Camera non saprei» - e poi, Assemblea costituente subito. Battere insomma sul tempo la costituente del Partito democratico.
Pur senza correre come i Cossutta, Fabio Mussi, il leader dei transfughi Ds, è incalzante: parta ora un coordinamento dei gruppi parlamentari, sollecita, da lì in pratica comincia la riaggregazione della Sinistra. Creare la "Cosa rossa" sarebbe un approdo storico, significa mettere da parte i rancori (tra Rifondazione e il Pdci), accettare che la Sinistra democratica per il Socialismo europeo dei diessini Mussi-Salvi-Angius faccia da «lievito» e abbattere le resistenze dei Verdi. «Dobbiamo garantire che l´asse del governo sia al punto giusto con un giusto peso della sinistra della coalizione. Per oggi e per il futuro abbiamo bisogno di una sinistra forte per scongiurare stagioni neocentriste», afferma Mussi. E invita ad uscire ciascuno dalle proprie trincee: «Dobbiamo ribellarci a una sinistra che è un grumo di correnti in un partito spostato al centro o un grumo di partiti sparpagliati. Mi piacerebbe un "big bang" e l´obiettivo sarebbe un partito politico a sinistra». Applaudito il ministro alla convention di "Uniti a sinistra", l´associazione di Pietro Folena, Alto Tortorella, Antonello Falomi, Sandro Curzi che ieri al Centro congressi Cavour, propone scadenze concrete verso l´approdo unitario della sinistra anti Partito democratico.
Così alla fine, viene approvato un documento in cui ci si dà come "dead line" le europee del 2009 per una lista unica della Sinistra, e gli stati generali in autunno. Però a margine, grande chiacchiericcio sul portavoce unico e soprattutto via libera immediato al coordinamento politico parlamentare. Mercoledì, alla ripresa parlamentare, Giovanni Russo Spena il capogruppo del Prc riunirà i "suoi" 26 senatori e prospetterà le novità: «Un coordinamento, una cooperazione della sinistra partendo dalle scadenze immediate. Sul disegno di legge Lanzillotta sulle liberalizzazioni, che ancora non ci convince, va espressa una posizione comune come sulla moratoria per l´acqua, cioè nessuna micro-liberalizzazione». Riguardo al portavoce unico Russo Spena, che è uno dei papabili per Palazzo Madama, frena: «Riparliamone tra qualche mese». «Benissimo un portavoce unico della sinistra alle Camere, anche se se non subito per non creare malumori tra i capigruppo che potrebbero sentirsi esautorati», riflette il verde Paolo Cento. Di nomi se ne fanno già: a Montecitorio quelli di Fulvia Bandoli o di Katia Bellillo. Più imminente per la verità è la questione dei nuovi presidenti dei gruppi che si costituiranno dalla costola dei Ds, ovvero la Sinistra democratica. Quasi sicuramente sarà Cesare Salvi alla guida di 12 senatori transfughi e quindi lascerà la presidenza della commissione Giustizia. «Mercoledì ne discuterò con Anna Finocchiaro. Il portavoce unico? Bene, ma prima vengono le posizioni unitarie. Se al mediatore di Emergency, Hanefi non viene garantito un giusto processo, la sinistra potrebbe chiedere il ritiro delle truppe dall´Afghanistan. Saremo tutti d´accordo?». Finocchiaro, la capogruppo dell´Ulivo ha anche un appuntamento con Roberto Manzione per affrontare un´altra spina. Manzione, Bordon, D´Amico, i dipietristi (Formisano, Caforio, Giambrone, Rame) e l´ex Pdci, Rossi intendono partecipare al coordinamento politico della sinistra. Il «compagno senatore» Cossutta poi, per ora non lascerà il gruppo Pdci-Verdi che senza di lui non avrebbe più i numeri, pur avendo divorziato politicamente da Diliberto: «Sto a vedere cosa fanno questi miei estranei compagni». Sabato prossimo, Mussi all´assemblea di Sinistra democratica annuncerà i gruppi parlamentari autonomi e lì dovrà dare numeri certi: per ora 12 senatori, 23-25 deputati e malumori sul capogruppo alla Camera.

Repubblica 30.4.07
Bertinotti: "Questo degrado nuoce alla difesa della laicità"
Va condannata ogni violenza o minaccia di violenza ma soprattutto il degrado politico di cui è espressione
di Massimo Giannini


«Solidarietà», piena e affettuosa. E poi anche «condanna», netta e inequivocabile. Ma ora basta: serve anche «uno scatto etico e politico», per fermare «questo clima pericoloso». È una domenica serena, quella di Fausto Bertinotti. In Umbria, a giocare con i nipotini, per i quali «stravede» come ogni nonno che si rispetti. Una domenica importante, perché esattamente un anno fa, il 29 aprile, un leader non «ex» né «post», ma ancora «orgogliosamente comunista» come lui veniva eletto alla presidenza della Camera. Una ricorrenza significativa, che Fausto il Rosso trascorre in famiglia. Ma la nuova minaccia a Bagnasco è per lui motivo di un´inquietudine profonda.
Il presidente della Camera non nasconde la sua preoccupazione: «La mia solidarietà e la mia condanna sono scontate, ci mancherebbe. Il fatto è che e a questo punto non bastano più», osserva. Proprio lui, che da quando ha assunto la terza carica dello Stato, ha voluto manifestare il massimo rispetto nei confronti della Chiesa, ma ha puntigliosamente rivendicato il principio di indipendenza e sovranità dello Stato sancito dall´articolo 7 della Costituzione, oggi è convinto che episodi gravi di offesa, e ancora di più di violenza (per fortuna solo minacciata e non anche praticata) nei confronti delle più alte gerarchie ecclesiastiche nuocciono proprio a chi, come lui, è impegnato nella difesa della laicità dello Stato.
E il frutto di questo clima da «scontro di civiltà», che Bertinotti considera avvelenato e pericoloso. «Ogni violenza o minaccia di violenza va condannata», dice. «E soprattutto va contrastato il degrado di cultura pubblica di cui queste violenze e minacce sono espressione». È la frontiera della «non violenza», che il leader di Rifondazione ha valicato ormai da tempo, e che ormai professa con convinzione, e a tutto campo. In politica internazionale come in politica interna. Soprattutto nei confronti di certi suoi «compagni di strada». Quei settori della sinistra più estrema e radicale, che dal proscenio dei cortei in cui si bruciano bandiere «nemiche» o dall´anonimato dei muri su cui si scrivono slogan terroristici, vorrebbero riprecipitare l´Italia sotto una cappa di piombo da fine anni ‘70.
Sotto quella cappa, ormai, è finito anche il Vaticano. E da un mese a questa parte, il «bersaglio» prescelto sembra essere proprio il presidente della Cei. Un esito esecrabile della controffensiva ecclesiastica sui temi eticamente sensibili, dai Dico all´aborto all´eutanasia? Una reazione inaccettabile alla crociata ratzingeriana contro il «debole relativismo» dell´Occidente e la «deriva laicista» della politica italiana? Il nesso è evidente. Ma proprio qui, per Bertinotti, sta il rischio maggiore di questo «degrado di cultura pubblica». «Proprio la particolare delicatezza dell´attuale rapporto tra la Chiesa cattolica e lo Stato, e proprio l´esigenza di difendere e arricchire l´idea di laicità - riflette il presidente della Camera - richiedono a noi tutti di essere particolarmente vigili e attenti nei confronti di atteggiamenti che, oltre ad offendere chi ne è oggetto, determinano o possono determinare un clima generale».
Per questo, ormai, la solidarietà e la condanna non bastano più. Quello che si richiede è proprio un soprassalto etico e politico. Per fare argine al degrado, che impoverisce e imbarbarisce il discorso pubblico sul quale finiscono per lasciare un segno le «schegge impazzite» di qualunque colore.
Per porre fine al conflitto ideologico falsamente «huntingtoniano», che finisce per essere il vero brodo di coltura della violenza vecchia e nuova. «In questo momento - aggiunge Bertinotti - proprio non si sente il bisogno di un «clima generale così degradato». Servono ascolto e rispetto. Proprio perché le relazioni tra Stato e Chiesa vivono una fase complessa, in cui su certi temi, a partire dalla famiglia e dai diritti civili, è difficile trovare quella «sintesi» auspicata qualche mese fa dal presidente della Repubblica.
Più crescono le tensioni, più prolifera l´intolleranza, più diventa ardua la battaglia di chi, come lo stesso Bertinotti, è impegnato a difendere lo Stato laico. Il presidente della Camera l´ha detto chiaro, esattamente un mese fa, il 28 aprile, quando si è recato in visita al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, proprio nel giorno in cui la Conferenza episcopale di Bagnasco aveva diffuso la sua «Nota pastorale» sulla famiglia e sulle unioni di fatto: «La laicità dello Stato è elemento fondativo delle istituzioni. Bisogna avere il massimo rispetto per i fenomeni religiosi, in particolare per la presenza significativa della religione cattolica. Ma proprio per questo bisogna avere l´ambizione di realizzare ogni giorno la laicità dello Stato». Questa «ambizione» - è il ragionamento del presidente della Camera - rischia di venire frustrata proprio da episodi come quello appena accaduto a Genova. Ecco perché è necessario alzare il livello di attenzione e di vigilanza.
Si avvicinano scadenze delicate, da tutti i punti di vista. Mancano solo due settimane al «Family day». Bertinotti ne è giustamente preoccupato. In questo «clima di degrado», bisogna fare di tutto per evitare che, suo malgrado, questo evento sia caricato di significati non voluti e di implicazioni non previste. «Davvero, proprio non se ne sente il bisogno...» , ripete per l´ultima volta Bertinotti, prima di tornare a dedicarsi ai suoi nipotini. Oggi sarà in Sicilia, per commemorare Pio La Torre a Palermo e per ricordare la strage dei lavoratori a Portella delle Ginestre. Domani sarà a Torino, per la Festa del Primo maggio. Fausto il Rosso non ha dubbi: questo resta il modo migliore, per onorare il suo primo anno da presidente della Camera.

Corriere della sera 30.4.07
Prove d’intesa. Russo Spena: al voto uniti entro tre anni
Diliberto, Mussi e il Prc Il cantiere della sinistra


RIMINI — Riassumendo: «Le nostre radici risalgono al 1789», da lì si passa a «quel grande evento liberatorio che è stata la Rivoluzione d'Ottobre», quindi «la nascita del Pci nel '21» e il «partito nuovo di Togliatti nel '44», per arrivare all'89 «quando qualcuno ha pensato: si chiude qui». E invece no, agita il braccio Oliviero Diliberto, «noi non ci siamo arresi alla sconfitta, abbiamo portato quel simbolo nel terzo millennio!».
La morale del segretario dei Comunisti italiani, confermato ieri all'unanimità, è dedicata al non nominato ex presidente Armando Cossutta: «Se rinunciassimo, dovremmo dire che aveva ragione Occhetto, potevamo risparmiarci vent'anni! Ma noi ci terremo, oggi, domani e per sempre il nome "comunisti", la falce e il martello!». Tanto per mettere i puntini sulle "i", sapendo che «l'unità a sinistra» è in vista, richiede «coraggio» ma non sarà una passeggiata, «dobbiamo trovare un equilibrio perché non prevalga né la pulsione identitaria né la svendita».
E il problema delle sinistre è tutto qui: è stato Diliberto a lanciare l'idea di una «confederazione tra diversi», a nome dei diessini che non accettano il Pd (la «Sinistra democratica» di Mussi e Angius) Cesare Salvi ha ripetuto a Rimini che il «grande partito unitario e plurale» sarà unito «senza aggettivi né abiure». Tutti confermano il «coordinamento dei gruppi» alla Camera e al Senato, tutti si vedranno il 5 maggio. Bisogna fare «massa critica», diceva Bertinotti. Ma la faccenda è delicata. Per dire: come potranno mai chiamarsi? «La sinistra», «A sinistra», «Sinistra», al massimo associato a «unità» e varianti, vietatissimi gli aggettivi tipo «socialista» o «comunista» perché sennò si litiga: il nome della Cosa non si annuncia granché fantasioso, e meno male che ci pensa Franco Grillini, ultimo fuoriuscito dalla Quercia (con Cecchi Paone e altri creerà un movimento «lib-dem» che guarda in particolare all'universo gay) a ravvivare l'ambiente: «Proporrò la parola libertà, non possiamo lasciarla a Berlusconi».
Pure la leadership è «prematura». Anche se «non credo possa essere nessuno di noi "fondatori", ci vuole una personalità esterna», butta lì Diliberto. Prima bisogna badare ai «contenuti». E fare presto. Rifondazione, dice Russo Spena, immagina un «nuovo soggetto» che «comprenda i movimenti» e si presenti «con nome e simbolo» fra «due-tre anni, tra le europee 2009 e le politiche 2011». C'è chi pensa alle amministrative 2008. Ma il problema è come, «la politica non è presentarsi alle elezioni», spiega Salvi. Non un cartello elettorale. Né qualcosa come
Die Linke di Lafontaine, «quella è una cosa diversa e sbagliata: non è che Schröder abbia cambiato la ragione sociale della Spd come i Ds». Piuttosto il «modello Epinay» evocato da Bertinotti, Mitterrand che nel '71 rimette insieme i cocci socialisti.
«Suggestivo», dice Salvi. Mussi va all'assemblea di "Uniti a sinistra" e parla di «partito unico». Folena condanna «l'accoglienza dei Ds Berlusconi». Niente buonismi da Pd. E il Pdci dà l'esempio: bordate di fischi («Buffone!», «fascista!») a Emilio Fede che arriva a Rimini scortato da Diliberto. «Non ho sentito, e con Oliviero siamo buoni amici», commenta sportivo il direttore del Tg4. E Diliberto: «L'ho invitato io, sono contento sia venuto. E poi non l'hanno fischiato tanto, temevo peggio...».

il Riformista 30.4.07
Dico-Day. Pensando a San Giovanni e a una data che fu uno spartiacque
Perché il 12 maggio saremo in piazza Navona
Di Paolo Franchi


Non potrei giurare che Marco Pannella colga del tutto nel segno, quando dice che il Family Day si farà proprio il 12 di maggio perché i suoi promotori vogliono prendersi, a 33 anni di distanza, una clamorosa rivincita su un altro 12 maggio, quello della vittoria del No nel referendum sull'abrogazione della legge sul divorzio: chissà, potrebbe pure darsi che in un Paese come il nostro persino la Chiesa, ogni tanto, abbia dei vuoti di memoria, e che insomma questa data sia venuta fuori un po' per caso, e gli organizzatori della manifestazione romana di piazza San Giovanni per la famiglia e contro i Dico vi si siano affezionati, cogliendone l'evidente valore simbolico, strada facendo. E, almeno in partenza, non ero neanche sicurissimo che fosse una buona idea, quella avanzata dalla Rosa nel Pugno, o come si chiama adesso, di darci appuntamento lo stesso giorno, in piazza Navona, la stessa dove nel '74 ci ritrovammo a festeggiare la vittoria, per una contromanifestazione indetta in nome dell'«orgoglio laico»: va bene, benissimo, difendere puntigliosamente (e orgogliosamente, perché no) le libertà, i diritti, la laicità della politica e dello Stato, va un po' meno bene accettare la logica dello scontro frontale.
Ma con il trascorrere dei giorni, e il crescere delle polemiche, il giudizio di Marco si è fatto, almeno ai miei occhi, più convincente, e l'idea di ritrovarci in piazza Navona (spero in tanti, credenti e non credenti, etero ed omosessuali, sposati single e conviventi, e chi più ne ha più ne metta), pure. Quel 12 di maggio del '74 rappresentò uno spartiacque nella storia politica, civile e culturale italiana. Politicamente, civilmente, culturalmente entrammo in Europa, o almeno sperammo di esserci entrati. Molti lo hanno dimenticato, noi no: non vogliamo tornare indietro, e siamo certi di non essere soli. Dunque, il Riformista il 12 di maggio del 2007 ci sarà, perché quella piazza è, oggi come allora, la nostra piazza, quella gente, poca o molta, speriamo moltissima, che sarà, è la nostra gente, quell'orgoglio laico è il nostro orgoglio: senza arroganza, senza volontà di rivalsa, aperti, tolleranti, pronti al dialogo pure nei confronti di chi l'apertura, la tolleranza, la disponibilità al dialogo non sa nemmeno dove stiano di casa, e però per nulla inclini a ritirarci in buon ordine, e in silenzio.
A far maturare in noi questa convinzione tranquilla sono state, per curiosa che possa apparire la cosa, anche le reazioni all'iniziativa di alcuni tra i principali organizzatori del Family Day, come le accuse del portavoce, il nostro amico Savino Pezzotta, secondo il quale chi va in piazza Navona «vuole solo dividere il Paese», quasi che chi va in piazza San Giovanni volesse invece unirlo rispettando e garantendo la pluralità delle opinioni, o le proteste di Paola Binetti, che assicura che in piazza Navona, manifestando perché quella pur modesta riforma che sono i Dico non finisca definitivamente dispersa in Parlamento, si manifesterà in realtà «contro la famiglia». A questa logica, a questa indimostrata e presuntuosa certezza di rappresentare la stragrande maggioranza del Paese (anzi, l'unità vera e profonda degli italiani) che viene ostentata, a questa crescente inclinazione a costruire rappresentazioni di comodo del punto di vista altrui, non ci stiamo. Siamo sicuri, dicevo, di non essere soli. Ma il 12 maggio vorremmo che ci confortassero in questa convinzione (venendo in piazza Navona, e guardando in tv la manifestazione, con ogni probabilità ben più massiccia, di piazza San Giovanni) tutte le forze del centrosinistra che la legge sulle unioni di fatto la hanno voluta. E che quotidianamente ci assicurano di non considerare esaurito il loro compito.

l’Unità 30.4.07
Effetto Pd, a sinistra prove di unità
Rc, Pdci, Verdi, Mussi-Angius decidono un coordinamento parlamentare
Verso un’Unione meno frammentata.(...)
di Eduardo Di Blasi


L’Ulivo scuote l’Unione. Oliviero Diliberto conclude il congresso dei Comunisti italiani rilanciando l’unità della sinistra, pur nel ribadire l’identità comunista: «Dopo tanta navigazione finalmente avvertiamo la riva. Certo non è bello dire che noi lo avevamo sempre detto, però è dal 2001 che affermiamo la necessità di riunire la sinistra». Pdci, Verdi e la nascente Sinistra democratica aderiscono alla proposta di Rifondazione di «patti di consultazione» tra i rispettivi gruppi parlamentari (oggi si costituiscono i gruppi di Mussi e Angius, che saranno i terzi per quantità del centrosinistra). Mussi lo dice a chiare lettere: «Il nostro obiettivo deve essere un partito politico». Per garantire che l’asse del governo stia «al posto giusto». E per «scongiurare il rischio di apertura a nuove prospettive neocentriste».
Intanto, in un sondaggio realizzato da Demos-Eurisko per Repubblica il Pd è dato al 28%, in risalita, rispetto al 23-25% delle stime delle scorse settimane. «Quando si fanno le cose per bene, la gente lo capisce - commenta Romano Prodi - i due congressi sono stati un confronto serio, c’è stata una risposta popolare». Di Blasi e Marra
Il primo passo sarà il coordinamento dei gruppi alla Camera e al Senato. Una forza (Prc-Pdci-Verdi-Sinistra Europea), che da subito assicura il segretario del Pdci Oliviero Diliberto «potrà incidere fortemente sugli equilibri della coalizione». Una forza parla-
mentare, sia ben inteso. Perché il governo, ne è convinto Diliberto, «meno lo tocchiamo e meglio è. Anzi, dobbiamo preservarlo, incalzarlo sui temi sociali ma preservarlo».
Dal punto di vista parlamentare, però, sembra potersi aprire effettivamente una fase di equilibri diversi all'interno della coalizione, un equilibrio non più basato sui vecchi rapporti di forza tra «cattolici», «riformisti» e «sinistra» più o meno radicale. Così, in una ipotetica richiesta di cosa portare all'attenzione dell'aula, forti dei nuovi numeri, Diliberto confida «il disegno sui lavoratori precari che giace in commissione Lavoro alla Camera e quello sul conflitto di interessi, che speriamo arrivi presto in aula a Montecitorio. Il primo darebbe una risposta a un problema sociale, il secondo sarebbe anche un messaggio al nostro popolo».
Nella giornata conclusiva del congresso del Prci, il segretario dei Comunisti Italiani appare soddisfatto. Lo ha detto anche nel discorso di chiusura: «Dopo tanta navigazione finalmente avvertiamo la riva». E, più tardi, più rilassato, «certo non è bello dire che noi lo avevamo sempre detto, però è dal 2001 che affermiamo la necessità di riunire la sinistra». Rimini, scelta non a caso perché sede dello storico congresso che sciolse il Pci nel 1991, in questo senso, sembra aver portato bene al progetto.
Così, adesso, ribadita dal palco l'effettiva sopravvivenza dei «comunisti» nel terzo millennio («chi ci avrebbe scommesso dopo l'89?»), sottoscritta la battaglia per il «superamento del capitalismo», rivendicate le insegne della falce e del martello («se dicessimo di sì alla proposta di cancellarle è come se dessimo ragione alla scelta di Occhetto dell'89, e allora abbiamo fatto una fatica inutile in questi vent'anni…») e quella che Berlinguer definiva la "diversità" comunista (intesa come etica pubblica e rigore morale), chiede coraggio e generosità ai propri iscritti. Anche di «fare un passo indietro», se necessario, poiché, avverte, uno dei meccanismi che scatteranno nel processo confederale sarà «l'autoconservazione dei gruppi dirigenti». È iniziato un nuovo corso. «Abbiamo fatto bene a spostare il nostro congresso da febbraio a fine aprile, così da poter ragionare con chi è uscito dai Ds…».
Il 5 maggio, come già scritto nei giorni passati, Diliberto sarà al varo della Sinistra Democratica di Mussi e Angius. Ci andrà, ovviamente, da ospite, perché una delle cose che è emersa chiara da questo congresso, è che i soggetti politici della futura sinistra resteranno per ora autonomi. Federati ma autonomi («Resteremo per sempre comunisti», profetizza dal Palco Diliberto). Angius e Mussi li chiamerà al telefono già oggi. «Gavino Angius - ricorda il segretario del Pdci - era il mio segretario regionale, quando c'era il Pci». Poi sarà a tutte le altre riunioni dei costituenti: dai Verdi a Genova, all'assemblea di Rifondazione… E il segretario del Pdci continua a ritenere fondamentale l'apertura ricevuta dal capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena. «Indica che la strada si può percorrere».
La strada resta lunga, anche se, in questa fase, tutti puntano ad accelerare. La ricetta di Diliberto, per adesso, tiene: «Cerchiamo l'unità - dice dal palco - ma non dimentichiamo la diversità, che implica autonomia, competizione ma anche tratti di differenza rispetto a tutti gli altri alleati». Alla fine del percorso, qualora ci si presentasse uniti alle elezioni (Diliberto continua a non volersi «impiccare a una data», che sia quelle delle provinciali o quella delle europee), il segretario del Pdci vede un risultato «a due cifre» per il nuovo soggetto. Sempre che, usiamo una citazione di Palmiro Togliatti, fatta propria da Diliberto, l'analisi non sia sbagliata, «perché sbagliare l'analisi significa sbagliare tutto».

l’Unità 30.4.07
Un cielo un po’ confuso
di Gianfranco Pasquino


Alla ricerca di una casa comune, vari rappresentanti della sinistra, che ritengono la prospettiva del Partito Democratico inadeguata e probabilmente controproducente, sembrano avere raggiunto un accordo di massima. I Comunisti Italiani hanno di che festeggiare, almeno per il momento: è al loro Congresso che inizia, forse, un necessario processo di ricomposizione della sinistra. Mentre sembra di moda riaffermare le proprie identità per poi annunciare che si vuole andare «oltre», un oltre indefinito e che nessuno riesce effettivamente a definire, almeno il segretario del PdCI Oliviero Diliberto non ha rinunciato a ricordare a tutti che i Comunisti italiani sono proprio e intendono continuare ad essere tali: Comunisti.
Nel frattempo, non è chiara la posizione di Rifondazione Comunista che, dimostrando grande lealtà nel sostegno al governo, sembrerebbe volere procedere ad una ridefinizione dei suoi valori e delle sue prospettive, magari accentuando elementi di no-globalismo. Inoltre, rispetto ai suoi piccoli, ma necessari interlocutori, Rifondazione gode del vantaggio di essere meglio organizzata e molto più radicata sul territorio.
Difficile, invece, dire che cosa faranno davvero Mussi, Angius e Salvi insieme ai non pochi deputati e senatori che hanno scelto di non seguire la maggioranza dei Diesse nella costruzione del Partito democratico. Coerenza vorrebbe che, avendo dichiarato di preferire un partito laico inserito nel Partito del Socialismo Europeo, accentuassero questi due elementi e ne facessero l'asse portante della loro prospettiva politica. Naturalmente, in attesa di segnali e comportamenti convincenti, è lecito nutrire molte riserve sul tasso reale di socialismo di quei dirigenti diessini che hanno costantemente criticato le esperienze socialdemocratiche, dichiarandole di volta in volta «inadeguate», «in crisi», «superate», ma, poi, come la grande maggioranza dei loro compagni adesso diventati «Democratici», mai dedicarono tempo e pensiero al rinnovamento di quelle esperienze. Qui, però, sta la contraddizione della sinistra da unire. Né Rifondazione né i Comunisti Italiani potranno mai entrare nel Partito del Socialismo Europeo, né, immagino, lo vorrebbero, poiché il termine comunista è la loro storia e, entro certi limiti, il loro richiamo che li mette inevitabilmente in competizione con i socialisti (e che rende molto problematicamente la eventuale collocazione in questa sinistra dei socialisti di Borselli).
Come possano, dunque, Mussi, Angius e Salvi cercare un aggancio con il Pse e al tempo stesso mettere le fondamenta di una casa comune della Sinistra con i «comunisti» orgogliosi di essere tali, rimane un interrogativo legittimo al quale la risposta sfugge, certamente non soltanto a me. Tuttavia, alcune certezze politiche possiamo dire di possederle già. La costruzione del Partito Democratico spinge verso una riaggregazione auspicabile della sinistra che non ci sta. Un conto, però, è una riaggregazione difensiva, quella che si manifesta adesso; un conto molto diverso sarebbe una riaggregazione offensiva, meglio propositiva, ovvero che dia una prospettiva praticabile. La seconda certezza è che, contrariamente a quello che sembra credere il Presidente del Senato, la Sinistra che si unisce potrebbe anche significare non pochi problemi per il governo Prodi. Infatti, da un lato, la (vecchia-)nuova Sinistra dovrà marcare le sue caratteristiche antagonistiche, a maggior ragione se, su laicità, lavoro, riforma elettorale, il governo scivola verso il centro, dall'altro, in questa Sinistra non scompariranno affatto le questioni di politica estera che hanno già destabilizzato una volta il governo.
Tuttavia, molte di queste considerazioni sono, in un certo senso premature. Vorrei venissero interpretate anche come moniti. La Sinistra che si riaggrega ha potenzialità elettorali positive, ma presenta dei rischi politici. Inevitabilmente, entra anche in concorrenza con il Partito Democratico. Deve ribadire e addirittura insistere vocalmente sulla sua laicità. Non potrà fare a meno di esibirsi anche come coscienza critica del Partito Democratico. Il compagno Presidente Mao tse-tung (a scanso di equivoci, non esattamente un socialista europeo) si rallegrava quando grande era la confusione sotto il cielo. A me sembrerebbe, invece, che sia opportuno preoccuparsi quando, per quanto non sia un fenomeno nuovo e inusitato, grande appare la confusione sotto il cielo della sinistra (italiana).

l’Unità 30.4.07
Mussi: ora nasce Sinistra democratica, ma l’obiettivo è un partito
Patti di consultazione in Senato e alla Camera. Folena: variamo Case della Sinistra. Russo Spena: uniti anche sul territorio
di Wanda Marra


UNITÀ A SINISTRA «Il nostro obiettivo deve essere un partito politico». Fabio Mussi lo dice a
chiare lettere nell’assemblea di Uniti a Sinistra. In quella che è la quarta assemblea nazionale della rete di Pietro Folena e Aldo Tortorella si respira l’atmosfera di chi ha davanti a sé un obiettivo che, se non proprio immediatamente a portata di mano, sembra però possibile, molto di più oggi di quando la rete è nata, un paio d’anni fa: la riunificazione della sinistra “a sinistra” del Pd. Un’occasione concreta, resa davvero possibile dall’uscita dai Ds di Mussi e Angius. I passi da fare sono molti. Il primo, già da oggi, i «patti di consultazione» tra i gruppi in Parlamento, lanciati dal Prc e accolti dal Pdci, ai quali hanno aderito ieri anche Sinistra Ds e Verdi. Per fare dei paralleli con quel che succede nel “vicino” Pd sembra parlare già da leader Mussi, mentre delinea, all’orizzonte, «una forza della sinistra critica, larga, plurale, ma di governo». Dal canto suo, Folena propone «Case della sinistra», che sulla falsa riga delle storiche Case del popolo diventino un «luogo comune nel quale le esperienze e i diversi soggetti si confrontino, si coordinino, diano risposte concrete ai problemi più acuti della realtà». Parla di una «costituente» da fare «prima dell’estate», Maura Cossutta. E, mentre Diliberto chiude il congresso del Pdci nel nome dell’unità della sinistra (ma anche dell’identità comunista), Russo Spena rilancia: il confronto tra le diverse aree di sinistra «autorizza a scommettere su un soggetto unitario le cui ambizioni non si limitano alla contingenza politica immediata». E spiega: «Serve un lavoro culturale e politico ma anche, da subito, organizzativo. Nelle istituzioni, con i patti di consultazione tra i diversi gruppi in Parlamento e negli enti locali, e soprattutto sul territorio, con le Case della sinistra». Tuttavia, «in questa fase i tempi sono importantissimi: il tempo a disposizione non è infinito». Il più atteso è l’intervento di Mussi. Che fa un discorso a tutto campo, partendo dal governo, per arrivare alle matrici culturali che deve avere il nuovo soggetto della sinistra. «In questa legislatura è necessario lavorare a una sinistra che si unifica per garantire che l'asse della maggioranza e del governo stia al posto giusto». Dall'altro lato è necessario lavorare sulla lunga distanza: «Mi ha colpito la sincerità di Marini al congresso della Margherita, concetti poi ripresi da Rutelli. Non sospetto che ora si voglia fare un ribaltone, ma il mondo non si esaurisce in questa legislatura e per la prossima Marini dice che ci saranno “mani libere” per la maggioranza. Significa che si pensa a soluzioni neocentriste, a un allargamento all'Udc?». Per evitare questo, dunque, «serve una sinistra sufficientemente forte e coesa, per scongiurare il rischio di apertura a nuove prospettive neo-centriste». Nel frattempo bisogna «ribaltare i luoghi comuni». Perché, per esempio, «Berlusconi ha vinto non perché aveva le televisioni, che pure l’hanno aiutato, ma perché ha imposto delle idee: chi è ricco è bravo e, essendo ricco, può far diventare ricchi altri». Avverte anche Mussi, strappando un applauso convinto: «Se vogliamo fare questa sinistra non dobbiamo parlare degli operai, come gli antropologi parlano dei Maori». E mentre annuncia la costituzione di gruppi autonomi di Sinistra democratica alla Camera e al Senato (che diventeranno i terzi del centrosinistra in Parlamento) sottolineando come la manifestazione del 5 maggio che sancirà la nascita di questo movimento «sarà affollata di gente che si aspetta una novità a sinistra». In rappresentanza dei Verdi, anche Cento accoglie l’idea dei patti di consultazione tra i gruppi, che vanno arricchiti «con un'assemblea dei parlamentari che si riconoscono nel progetto di riunificazione della sinistra».

l’Unità 30.4.07
Le certezze di psicologi e magistrati:
«I racconti dei bambini sono attendibili»


L’ALLARME nasce l’estate scorsa quando i genitori notano in cinque bambin (poi diventeranno diciassette) comportamenti strani, preoccupanti. I bambini sono tutti fra i tre e i quattro anni. Comportamenti che l’avvocato Giacomo Augenti, che assiste sei famiglie, ieri, così descriveva: «I bambini hanno i medesimi comportamenti non consoni alla loro età. Si spogliano all'improvviso, hanno crisi di panico, vomitano in continuazione». L’avvocato aggiunge che presto ci saranno altre denunce e, particolarmente, ne cita una: «Una mamma che ha una bimba di 6 anni e una di 4. Prima ha scoperto gli abusi sulla più piccola e la più grande ha visto che la mamma parlava con dolcezza alla sorellina minore e non la sgridava, allora anche lei ha confessato di aver subito la stessa sorte e ha raccontato il suo calvario quando era all'asilo».
Poi ci sono le perizie pediatriche e psicologiche, la lunga inchiesta che porta d’apprima alla sospensione delle maestre e poi all’arresto di sei persone mentre si sa che altre cinque sono indagate. L’identificazione delle persone arrestate si basa, in parte, sul racconto dei bambini che raccontano il «gioco del dito dritto» e quello «tu mangi me io mangio te», parlano di un «uomo nero», che viene dagli investigatori identificato come Kelun Weramuni, un giovane benzinaio cingalese. Descrivono la casa che i carabinieri, sulla base dei particolari di quei racconti, riconosceranno nella villetta a schiera dove vivono due degli imputati. La maestra Patrizia Del Meglio e il marito, l’autore televisivo Gianfranco Scancarello. Nel racconto dei bambini ci sono anche i giocattoli (peluche) e i travestimenti degli adulti: cappucci, vestiti da prete. C’è la maestra nuda che cucina mentre loro giocano sul letto. Ci sono i succhi di frutta che, secondo l’ordinanza, contengono droghe o sedativi per rendere i piccoli più docili e disponibili.
Sulla attendibilità di questi racconti si sono pronunciati diversi psicologi. Luigi Cancrini, ad esempio, che ha seguito alcuni dei bambini, sostiene «quando un bambino così piccolo subisce un abuso ha la capacità di fissare nella memoria e raccontare ma, spesso, è un racconto nel quale c’è un surplus di fantasia che rende più complicata la testimonianza». Al contrario, in molti casi in cui la violenza non è stata dimostrata, il racconto era più stereotipato. Gli esperti, dunque, credono ai bambini e sono rafforzati nelle loro convinzioni dai referti medici che parlano di segni «compatibili con le violenze» sul corpo di alcune delle vittime.
Un punto molto delicato dell’inchiesta è quello relativo agli spostamenti dei piccoli allievi dalla scuola. Su questo punto viene citata la testimonianza di due agenti della polizia municipale, Elisabetta Palamides e Nadia Di Luca, che a maggio dello scorso anno incontrano un gruppo della «classe della Malagotti» (un’altra delle maestre indagate) fuori dalla scuola in orario scolastico.

l’Unità 30.4.07
L’orrore della pedofilia e il linguaggio della verità
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
ho letto alcune tue dichiarazioni sulla vicenda di Rignano Flaminio. Ma davvero pensi che cose di questo genere possono essere accadute? Più io ci penso più mi sembra impossibile.
Lettera firmata

La sensazione legata al «non può essere vero» purtroppo la provo spesso. In dieci anni di attività del Centro Aiuto al Bambino Maltrattato e Famiglia voluto da Rutelli e poi da Veltroni per il Comune di Roma ho ascoltato un numero in effetti assurdo di racconti su orrori impensabili. Quando il bambino parla il linguaggio della verità, tuttavia, arriva il momento in cui non si può e non si deve dubitare ed in cui bisogna sostenere il difficile percorso della denuncia e del processo. L'esperienza clinica e la letteratura internazionale dimostrano con grande chiarezza, purtroppo, che i bambini hanno spesso ragione. Il che non vuol dire, ovviamente, che tutte le accuse fatte da un bambino debbano essere prese per oro colato. I bambini possono mentire, a volte, quando dietro di loro c'è un adulto che, in buona o cattiva fede, li spinge a raccontare cose non vere. Chi ha avuto a che fare con delle separazioni altamente conflittuali sa bene che queste cose possono accadere. Se è un professionista esperto tuttavia sa anche che è possibile distinguere i racconti falsi da quelli veri. In contesti adeguati, con personale sufficientemente preparato, utilizzando strumenti diagnostici specifici, il clinico esperto sa che la differenza fra i racconti veri e quelli falsi salta agli occhi. E' evidente. Un'osservazione importante da fare a questo punto, tuttavia, è quella che riguarda i bambini più piccoli. Violenze e abusi subiti nella prima infanzia debbono essere visti per quello che sono, come traumi capaci, cioè, di produrre disturbi importanti nell'organizzazione psicologica del bambino. Un fenomeno che si verifica spesso in queste circostanze è che il racconto del bambino sia alterato da una serie di fantasie che hanno origine spesso nei suoi sogni e che arricchiscono il racconto di particolari bizzarri, poco realistici, che non trovano riscontro nei fatti. Verificato da un gruppo di ricercatori americani in un campione di più di 100 bambini abusati in tenera età da adulti che avevano confessato il loro crimine, questi racconti aggiuntivi, che tanto colpiscono la fantasia di chi li ascolta, possono indurre a ritenere infondata l'intera testimonianza. L'esperienza clinica e la ricerca altro non fanno invece che sottolineare il modo in cui, sollecitata dal trauma, la psiche del bambino reagisce drammatizzando e arricchendo i fatti realmente documentati che profondamente lo hanno ferito. Tutto quello che so dei fatti di Rignano Flaminio è legato ad una serie di racconti dei familiari e dei periti. L'impressione che ne ho tratta è che ci sia purtroppo qualcosa di molto serio alla base delle accuse formulate oggi dai giudici. Qualcosa che merita, voglio dire, un accertamento giudiziario. Non ho letto in dettaglio le perizie, tuttavia, e non ho parlato direttamente con i bambini. Non posso dunque dire con certezza che le cose stiano così come mi sembrano oggi. Viviamo in un paese democratico, la giustizia farà il suo corso. Quello che mi sento di affermare con grande chiarezza però sono almeno tre cose:
a. la prima è che i bambini di tre e di quattro anni ricordano con precisione gli eventi traumatici da cui sono colpiti; me lo dice l'esperienza di ogni giorno, me lo dicono i miei ricordi dei bombardamenti su Roma quando quell'età li avevo, me lo dice la letteratura concorde sui tempi dello sviluppo cognitivo del bambino;
b. la pedofilia esiste; esistono adulti malati condizionati da una pulsione irresistibile, si tratta di persone descritte molto spesso come del tutto insospettabili, più o meno spaventate esse stesse dal disturbo grave che condiziona la loro vita e che hanno grande bisogno di essere aiutate ma che aiutate possono essere spesso solo nel momento in cui arriva per loro la condanna;
c. la pedopornografia ugualmente esiste; ha un enorme giro d'affari, non utilizza più soltanto bambini e minori che vengono dai paesi del terzo mondo; quando sceglie bambini italiani o europei lo fa spesso scegliendo bambini di cui pensa che non parleranno perché sono o molto piccoli o molto indifesi.
Di tutte queste cose, credo, dobbiamo tenere conto seriamente. Proteggere i bambini chiede un insieme di interventi coordinati e intelligenti di tipo preventivo, educativo e repressivo. Anche questa è una sfida che una società civile deve saper affrontare con la dovuta serenità. Senza inutili clamori e senza pericolose sottovalutazioni.