Gramsci, viaggio infinito al centro dei «Quaderni»
di Bruno Gravagnuolo
INTERVISTA a Gianni Francioni, storico della filosofia e direttore dell’edizione critica dei Quaderni del Carcere nella nuova edizione nazionale. Un’impresa filologica che riordina le note gramsciane con criteri nuovi e mirati all’ordine «logico»
«Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte «socializzarle»... e farle diventare... elemento di ordine intellettuale e morale»
Antonio Gramsci
C’era una volta l’edizione tematica dei Quaderni del carcere in sei volumi, quella voluta da Togliatti nel 1947. Arbitraria ma utile, e ricavata da alcuni titoli indicati dallo stesso Gramsci: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, il Risorgimento, Note sul Machiavelli, etc. Poi nel 1975 venne la capitale edizione Einaudi di Valentino Gerratana in quattro volumi, oggi ristampata, rigorosamente cronologica e senza i quaderni di traduzione (4 quaderni su 33). Oggi, non senza polemiche in passato, arriva invece l’Edizione Nazionale degli scritti, che include le traduzioni fatte dal prigioniero e tutti i carteggi paralleli (Gramsci, Schucht, Sraffa). E prevede per i soli Quaderni 6 o 7 tomi (Fondazione Gramsci-Istituto dell’Enciclopedia italiana). La novità, anticipata da l’Unità lunedì scorso, è grossa e anche controversa. Poiché il criterio non è più solo cronologico, bensì per «partizioni». Basato cioè sulle distinzioni interne che Gramsci stesso in carcere «immaginava» per tutto il suo lavoro. Resta «l’unità-Quaderno» ripristinata dallo scomparso Gerratana, e anche la sua cronologia, grosso modo. Tuttavia (con le traduzioni a parte) vengono separati i tipi di «quaderni»: «miscellanei», «misti» e «speciali». È un tentativo di radiografare l’ordine «ideale» e logico di una scrittura frammentaria e compressa dal carcere, ma aperta a un progetto continuo, fatto di «enunciati mobili». Un altro Gramsci? Anch’esso arbitrario? Il vero Gramsci? O un Gramsci più leggibile? Ne parliamo con Gianni Francioni, ordinario di storia della filosofia a Pavia, sassarese, 57 anni. Da oltre un trentennio sulle piste di un’impresa del genere, che oggi va in porto sotto la sua direzione (con Giuseppe Cospito e Fabio Frosini) proprio nel settantesimo della morte di Gramsci.
Professor Francioni, perché nel riordinare i «Quaderni del Carcere» nella nuova edizione nazionale, il criterio cronologico usato da Valentino Gerratana non bastava più?
«Ci ho lavorato per anni. Ma, detto in breve, mi sono convinto che esista un ordine dei Quaderni ideato da Gramsci stesso. E che sia stato l’autore stesso a conferire ad essi il carattere di un insieme strutturato in aree o settori abbastanzi precisi. E ciò sulla base del modo di stesura, dei vari sdoppiamenti dei Quaderni. Delle linee di sequenza. Ci sono infatti quaderni o blocchi di essi che nel momento di terminare, vengono proseguiti in un altro quaderno, e poi ci sono i ritorni all’indietro. Insomma, esiste una cronologia, ben ricostruita da Gerratana. Ma essa è in larga parte indiziaria, ricavata da vari elementi presuntivi, tra inizio e fine. Ciò che ho cercato di fare in più, è vedere se tra un quaderno e l’altro vi fossero dei collegamenti, e se agli occhi di Gramsci l’insieme fosse strutturato in ambiti. Se cioè lui stesso scorgesse queste aree distinte: traduzioni, quaderni miscellanei, speciali, etc. Il prigioniero era costretto dalle regole carcerarie a non poter disporre di più di quattro quaderni per volta, o cinque. Il che lo spinse a scegliere una certa struttura, inclusiva di cronologia e aree particolari, sovrapposte».
Nondimeno voi distinguete vari tipi di quaderni, separandoli in miscellanei, misti e speciali, pur nel dar conto della cronologia acquisita da Gerratana. È una rivoluzione...
«Nel caso dei quaderni di traduzione il problema non si pone, perché Gerratana non li aveva inclusi nella sua edizione, che collocava gli altri quaderni in sequenza cronologica di inizio. Scelta legittima. E tuttavia, allorché si decide di inserire i quaderni di traduzione, estraendoli dagli altri, deve cambiare tutta la strutturazione. Cosa peraltro che rende meglio l’idea complessiva del lavoro di Gramsci in carcere».
Perché è utile distinguere strutturalmente quaderni «miscellanei», «misti» e «speciali», e in che cosa consiste la loro differenza?
«La distinzione è data dal loro carattere. I quaderni speciali sono inventati da Gramsci nei primi mesi del 1932, in una fase in cui capisce che la mole di note che aveva scritto non era fruibile da un lettore a venire. Era persuaso che questa fosse la sua eredità letteraria, e perciò la concepiva al futuro, per scongiurare il rischio di un puro zibaldone illegibile. Lo “speciale” invece è un tentativo di riordinare la materia, benché per lui nessun quaderno di tal tipo fosse un libro o un saggio definitivo. Piuttosto una rielaborazione “in progress”»
Si può dire quindi che i «miscellanei» fossero degli «archivi/progetto» da cui Gramsci attingeva per i quaderni sucessivi?
«Senza dubbio. Se non fosse stato in carcere avrebbe usato delle schede. È proprio questo il carattere dei quaderni miscellanei»
Veniamo ai nuclei e ai titoli di possibili opere o monografie al futuro. Quali sono a suo avviso?
«Monografie in senso proprio nessuna. Gramsci parte con un elenco di argomenti principali ampio. Non con raggruppamenti di materie, come quelli usati dall’edizione Togliatti del 1947 ed enucleati più tardi rispetto all’inizio. Ecco l’elenco, dal Quaderno 1: Teoria della storia della storiografia, sviluppo della borghesia italiana fino al 1870, letteratura popolare, Cavalcanti, l’azione cattolica, il folklore. Questi sono i temi su cui si propone di scrivere note. Non c’è l’idea di monografie: è uno schedario di rubriche. Via via però Gramsci restringe e focalizza. Per esempio, quando nel 1930 compare il blocco di note intitolato “Appunti di filosofia, materialismo e idealismo”, è chiaro che non lo aveva previsto all’inizio. E che sta disegnando un ambito in cui condensare la sua idea del materialismo storico e della filosofia della prassi. Lo stesso vale in “Per la storia degli intellettuali italiani”, note della fine del 1930, e anche qui sta abbozzando un altro ambito particolare di ricerca, come scrive a Tatiana in quel momento. Infine nel 1932 c’è l’avvio dei Quaderni speciali, nei quali tenta di riordinare tutto il materiale già elaborato. In pratica Gramsci non aveva un solo programma di ricerca, ma se ne dà di successivi. E nemmeno c’è un tema dominante»
Impossibile circoscrivere un fulcro concettuale e tematico?
«Il fulcro ideale c’è a mio avviso, e sono i quaderni filosofici: 10, 11, 12, 13. Su Croce e il suo rovesciamento, su Bucharin contro il suo marxismo popolare, sugli intellettuali e su Machiavelli. Sono queste le pagine più costruite e più lavorate»
E la questione dell’«economia-mondo», con quella del fordismo ormai egemone nel tempo moderno?
«Questo più avanti, in “Americanismo e fordismo” ad esempio, negli ultimi quaderni. Poi, ovunque e in parallelo, tanti altri temi: la letteratura, il folklore, il senso comune. Meno importanti rispetto ai quaderni filosofici e a quelli sul fordismo. Va detto che i Quaderni del 1932 sono quelli più “energici” e lavorati. Da un certo momento invece Gramsci riversa e addirittura ricopia negli “speciali” elementi dei “miscellanei”»
Ma quali sono le «rocce» vere e proprie nei pensieri di Gramsci? Quelle cioè che parlano di più a un lettore contemporaneo?
«Stabilito un testo sicuro, la vera roccia è il tratto di una scrittura continua e metodica. La capacità di lavoro. Il riuscire, come lui dice, a “cavare sangue dalle rape”, da una pagina di giornale, da un dettaglio. Per incontrare il vasto mondo. E il concetto a mio avviso più forte è quello di “rivoluzione passiva”, davvero epocale. Con il quale Gramsci cercava di revisionare il marxismo del suo tempo»
Rivoluzione passiva come dipendenza delle aree geopolitiche più arretrate da quelle più avanzate, dentro la connessione mondiale? E come inclusione passiva dentro la modernità dei subalterni?
«Proprio così. E non per caso Gramsci inizia i Quaderni traducendo una rivista tedesca che parla di forme di vita americana, di narrativa, costume, cinema. Era attratto da quel mondo, dalla sua egemonia globale, di mercato e non solo, rispetto alla vecchia Europa. Tutto ciò verrà rielaborato nelle note sul fordismo. Quella di Gramsci è una teoria della modernità: dall’economia all’immaginario. Ecco ciò che la rende affascinante. Così come sono affascinanti i concetti di “egemonia”, di “Oriente e Occidente”, diversi e interconnessi per morfologia e livelli di sviluppo. Una visione larga, che ci mostra come l’oriente bolscevico fosse arretratezza per lui. Inadeguato a fungere da modello per la politica e la rivoluzione ad ovest».
Filosofia delle classi subalterne per attrezzarle al governo, senza farsi scavalcare dai processi di modernizzazione?
«A questo tendono tutti i fili dell’opera di Gramsci, anche quelli apparentemente più episodici e casuali, dal senso comune al folklore. Una capacità di vedere in grande la sua. Con l’idea che attorno alla teoria politica ruotassero tutta una serie di problemi “sovrastrutturali”, cruciali per la politica e l’azione egemonica»
E se l’opera di Gramsci stesse proprio nella sua «macchina di scrittura»? In una teoria della modernità, sprigionata dalla critica delle forme di potere dominanti?
«Possiamo dire di sì, senza esagerare. Visto che era condannato a essere uno scrittore di frammenti, in un mosaico infinito di tessere. Un modo a lui congeniale, per carattere e stile intellettuale, che procedeva per stratificazioni sucessive e aggiustamenti del tiro. Colpisce infatti nei Quaderni vedere come egli ritorni sugli stessi concetti, per limarli e modificarli. E poi aprire nuovi ambiti di ricerca. Una pratica di liberazione culturale, perseguita con coerenza e onestà, e coscienza di una provvisorietà bisognosa di ulteriori verifiche».
E cosa replica a chi potrebe accusare la vostra edizione “non cronologica” di ricadere nella tematizzazione arbitraria?
«Intanto non è un edizione tematica, come quella di Togliatti che smontava per temi i Quaderni, operazione allora meritoria. Bensì la proposta di una diversa partizione, rispondente all’ordine stesso che Gramsci voleva dare al suo lavoro. Del resto il filologo, dinanzi a un testo inedito come questo, non può che rappresentarlo cercando di decifrare la volontà dell’autore. Naturalmente tutto è discutibile, ma è una responsabilità a cui lo studioso non può venir meno».
l’Unità 7.5.07
ANNIVERSARI Domani a Roma si presenta il catalogo storico: un progetto di cui ancora oggi l’Italia ha bisogno
Bollati Boringhieri, cinquant’anni di cultura scientifica
di Pietro Greco
La casa editrice Bollati Boringhieri di Torino compie cinquant’anni. Nacque, infatti, nel 1957 per volontà di Paolo Boringhieri con un atto che fu di notevole coraggio imprenditoriale, ma anche e soprattutto di straordinaria lucidità culturale. Un gesto con cui Boringhieri dimostrò di saper navigare contro corrente.
Il coraggioso gesto imprenditoriale compiuto dal giovane (36 anni) redattore dell’Einaudi fu quello di acquisire dai suoi datori di lavoro i 110 titoli delle quattro collane di cui fino ad allora si era occupato: la Biblioteca di cultura scientifica; una parte della Biblioteca di cultura economica; la «collana viola» (ovvero la collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici); i Manuali Einaudi e i Testi per dirigenti, tecnici e operai. Titoli e collane scientifiche, dunque.
Il lucido gesto culturale di fu quello di puntare sulla cultura scientifica, convinto come pochi in Italia che la modernizzazione del paese passasse attraverso la scienza e attraverso la comunicazione della scienza. Attraverso una cultura scientifica diffusa.
Non era affatto scontata quella scelta. Per molte ragioni. Perché non era ancora senso comune il sodalizio stretto tra scienza e modernizzazione: dopo tutto solo quell’anno e solo dopo lo «schiaffo dello Sputnik» (l’Urss a sorpresa ha mandato nello spazio il primo satellite artificiale), gli Stati Uniti iniziano davvero a guardare alla scienza come al motore dello sviluppo e iniziano a investire in maniera massiccia nella ricerca scientifica. Perché, come denuncerà in un famoso libro del 1959 l’inglese Charles Percy Snow, si andava consumando una separazione tra le «due culture». Perché, infine, l’Italia era ancora avviluppata in quella matrice culturale idealistica che considera la scienza un mero sapere tecnico.
In questo panorama è «normale» che l’Einaudi, per ristrutturarsi, pensi alla «dolorosa amputazione» e ceda le sue collane scientifiche. Mentre è un gesto di lucido coraggio quello del redattore che le acquisisce per farne il nucleo di un progetto culturale molto articolato e pressocché unico, che consiste nell’indicare al paese che il suo futuro è nella scienza; che la scienza è per l’appunto cultura e che la cultura dell’uomo ha diverse dimensioni, ma non è divisibile; che non esistono le due culture.
Il progetto più ambizioso di Boringhieri - il rinnovamento della cultura del paese - non si realizza: pur con straordinarie eccezioni, l’Italia resta un paese che tuttora persegue un modello di «sviluppo senza ricerca». Ma il progetto editoriale funziona: una parte dl paese domanda cultura scientifica di qualità e Boringhieri soddisfa al meglio questa domanda, «coprendo» la scienza in tutte le sue dimensioni e al più alto livello: dalla logica (pubblica Gödel), alla fisica (pubblica Einstein, Bohr, Heisenberg), alla biologia (pubblica Darwin), fino alla psicoanalisi (pubblica Freud e Jung), all’economia, all’etnografia e diventa in breve un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della cultura scientifica italiana. Questa dimensione culturale ampia viene persino rafforzata quando, nel 1987, Boringhieri cede a Romilda Bollati il suo catalogo, che ormai conta 800 titoli. La casa editrice diventa la Bollati Boringhieri e la direzione viene assunta da Giulio Bollati, fratello di Romilda e amico e collega in Einaudi di Boringhieri, che apre la casa editrice anche ad altri generi, come la letteratura o la fotografia. In mezzo secolo di attività la Bollati Boringhieri propone cinquanta diverse collane (di cui 14 oggi attive).
Domani, 8 maggio, alle ore 17.30 presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso in via della Dogana Vecchia 5, a Roma, Bollati Boringhieri presenta il suo Catalogo Storico attraverso le voci del matematico Alberto Conte, dello psichiatra Giovanni Jervis, del filosofo Giacomo Marramao, della storica dell’editoria Luisa Mangoni, di Luisa Finocchi, direttrice della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, di Francesco Cataluccio, che della Bollati Boringhieri è direttore editoriale, di Riccardo Franco Levi, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega per l’informazione e l’editoria. Un concerto a più voci che indica la volontà di continuare a seguire, rinnovandolo, l’antico progetto di Paolo Boringhieri e Giulio Bollati. Un progetto di cui nell’era fondata sulla conoscenza, l’Italia ha più che mai bisogno.
l’Unità 7.5.07
Psicoterapia o Cenerentola?
di Luigi Cancrini
Sono uno psicoterapeuta di 37 anni in servizio presso un Centro di Salute Mentale. Da anni sono assunto in qualità di socio dipendente presso una cooperativa sociale che, in convenzione con l’Ulss locale fornisce personale a bassissimo costo per le strutture psichiatriche territoriali. Purtroppo anni di impegno e sacrificio negli studi, di gavetta ma di grande passione scoloriscono di fronte a una busta paga che indica un corrispettivo di 8,92 euro all’ora per prestazioni di psicoterapia che regolarmente somministro nel Servizio.
Tralascio altri aspetti relativi alla condizione di noi peones delle cooperative sociali (per esempio l’aspetto di tutela assicurativa) che ci vedono in una condizione di svantaggio rispetto ai colleghi dipendenti Ulss. Il rapporto poi con la cooperativa appare molto difficile semplicemente perché assente. Certo, di questi tempi per noi psicologi, l’assunzione tramite cooperativa è l’unica possibilità per trovare impiego, i concorsi risultano bloccati da diverso tempo, nella mia Ulss neanche a parlarne. La cooperativa quindi ha buon gioco a rendersi assente. Quanto illusorio idealismo viene fatto trasparire da questi cosiddetti “compagni” della cooperativa sotto le mentite spoglie di un rapporto associativo che sembra esistere a parole, quando poi la realtà dei fatti parla chiaramente di un rapporto di lavoro schiacciato da un senso di subordinazione. Mi sento critico anche verso le forze sindacali, così attente a tutelare i diritti di classi lavoratrici tradizionali non cogliendo la necessità ed i diritti di chi opera nei crescenti settori del sociale e di noi psicologi, col rischio di creare nuove fasce di proletarizzazione; nella nostra provincia gli operatori del sociale hanno superato in numero gli operai metalmeccanici e del tessile, antica gloria produttiva della zona, ridotti a minoranza dall’incipiente delocalizzazione delle industrie.
Leonardo Caneva
Ho partecipato di recente, a Napoli, ad una iniziativa promossa presso l’Ordine degli Psicologi dal Comitato di Lotta per la Difesa della Psicoterapia. L’occasione era quella della soppressione, da parte della Regione, dei contributi dati per la psicoterapia dei soggetti disabili. Una soppressione legata, ovviamente, a delle comprensibili difficoltà di bilancio. Una soppressione che la dice lunga, però, sulla scelta di dove tagliare che viene fatta tutte le volte in cui si pensa di dover tagliare. Colpendo un settore di attività dichiaratamente non protetto (o poco protetto) dal sindacato e dalle forze politiche, dai mass media e dall’opinione pubblica. Per cui conviene oggi ragionare. Segnalando i fatti che ci vengono proposti dalla clinica e dalla ricerca.
Le devianze, psichiatrice o criminologiche, si legano sostanzialmente a tre grandi tipologie di disturbo. Quelli psicotici, più tradizionalmente legati alla figura del matto o alla diagnosi (non superficiale) di schizofrenie che riguardano una quota vicina all’1% di tutte le popolazioni del mondo. Disturbi con cui la persona e la famiglia, che ad essa è legata da vincoli profondi e complessi, devono imparare a convivere: utilizzando i farmaci ma anche e soprattutto la psicoterapia. Sapendo che i farmaci da soli non ce la fanno e che un sostegno psicoterapeutico serio permette invece di limitare i danni legati al deterioramento della cronicità e al ripetersi delle crisi che chiedono il ricovero. Abbassando notevolmente i costi umani e quelli economici di una condizione di malattia che non siamo ancora in grado di prevenire o di guarire.
Sul fatto che il secondo tipo di disturbi, quelli più “nevrotici”, la psicoterapia rappresenti l’unica risposta in grado di dare risposte utili, non c’è oggi sostanzialmente più dubbio a livello delle persone dotate di un minimo di cultura. Da Freud in poi la nevrosi si origina intorno alla mancata soluzione di conflitti psichici che affondano le loro radici nell'inconscio profondo delle persone che ne soffrono. La cura non può essere in queste condizioni che quella legata all’ascolto, alla comprensione, allo sviluppo e alla modulazione di una relazione significativa con un terapeuta capace. Che la cosa non sia del tutto chiara a tanti medici e psichiatri che insistono a curare anche questi con i farmaci non cambia le cose. Il risultato abituale di queste pratiche è infatti quello di una cronicizzazione del disturbo e/o di un abuso di sedativi e di antidepressivi.
Il terzo tipo di disturbi, quello che si muovo nell’ambito dell’“oceano borderline” e che corrisponde clinicamente a tipi molto diversi di disturbo della personalità è quello di cui più mi interessa qui parlare. Esso riguarda infatti la gran parte delle dipendenze patologiche, dei disturbi gravi del comportamento alimentare, delle paranoie e dei comportamenti antisociali. Il fatto che strategie di livello psicoterapeutico siano in grado di incidere in modo serio e duraturo su una gran parte di queste condizioni di sofferenza e il fatto che tali condizioni non sono aiutate se non provvisoriamente dall'uso di grandi quantità di farmaci, dovrebbe essere considerato come uno dei progressi più significativi della clinica e della ricerca di questi ultimi trentanni. Poiché vi sono sempre molti ostacoli alla diffusione di scoperte scientifiche che mettono in crisi l’organizzazione dei servizi e delle istituzioni organizzati intorno ad un sapere antiquato ma difficile da superare, tuttavia, il lavoro degli psicoterapeuti che potrebbe aiutare questo tipo di paziente si svolge ancora in ambiti estremamente limitati e ristretti.
Nella pratica privata la psicoterapia può essere utilizzata solo, ancora oggi, da chi ha i soldi per pagarsela. Nell’ambito pubblico, fatte salve le doverose eccezioni, la psicoterapia è, nell’ambito di troppi dipartimenti di psichiatria e di troppe carceri una vera e propria Cenerentola. Come ben dimostra la lettera che tu scrivi e come bene dimostrano i documenti del Comitato di Lotta per la Difesa della Psicoterapia dei colleghi di Napoli.
Qualcosa di importante c’è, però, che emerge da quello che tutti voi scrivete e che io sperimento ogni giorno su cui vale la pena di insistere. Il sentimento con cui ognuno di noi torna a casa la sera per cui questo lavoro è faticoso ma utile. La battaglia culturale degli psicoterapeuti, voglio dire, è ancora oggi come ai tempi di Freud una battaglia di progresso e di civiltà. Chi la conduce sa di essere ancora in una condizione minoritaria e che quelli di cui ha bisogno sono soprattutto pazienza e fiducia. In attesa magari di una legge sull’accesso alla psicoterapia che fu presentata come legge d’iniziativa popolare nel 2000 e che verrà discussa in Commissione Affari Sociali in questo mese di Maggio. Sapendo, tutti insieme che quello che ci deve rincuorare è l’idea che nel tempo il cammino delle idee giuste comunque si compie. Le mode passano, le innovazioni scientifiche importanti restano e questo accadrà, credo che anche tu ne sia convinto, anche per la psicoterapia.
Corriere della Sera 7.5.07
Diliberto: Sinistra democratica nasce ambigua, Mussi scelga
intervista di Monica Guerzoni
«Angius con i socialisti fa un'operazione del 3 per cento. Non mi candido leader, noi siamo stati sepolti dalle rovine dell'89»
«Fabio ha volutamente lasciato tutte le opzioni aperte, ma i cantieri che rimangono aperti troppo a lungo si trasformano in grandi buche dove si finisce per cadere»
ROMA — «In un momento in cui tutto si muove, chi sta fermo è fottuto». Oliviero Diliberto ha fretta. Per tenere a battesimo una sinistra del 15 per cento rinsalda l'asse con gli ex fratelli coltelli di Rifondazione, suggerisce a Fabio Mussi di guardarsi le spalle da Gavino Angius che rende «ambigua» la neonata Sinistra democratica e lancia la sfida per l'egemonia: «Chi ha più filo, tesserà». E siccome è convinto che i figli della sconfitta dell'89 siano «rimasti sepolti sotto le rovine», è pronto a fare un passo indietro sulla leadership. «Io non mi candido a essere il capo della sinistra unita».
Mussi l'ha convinta?
«Ecumenico. Angius invece è stato molto chiaro».
Guarda ai socialisti.
«Trovo abbastanza singolare la sua scelta alla luce di una storia politica che è molto più simile alla mia che non a quella di Boselli. Ricordo con affetto che eravamo schierati insieme contro la svolta della Bolognina».
Le vostre strade sembrano destinate a non riunirsi.
«Angius fa una scelta che mostra plasticamente l'ambiguità intrinseca a ciò che è successo sabato al Palazzo dei congressi. Nella Sinistra democratica vi sono due opzioni distinte. Una, molto simile alla nostra, è quella lanciata da Mussi e cioè l'unificazione in forma federativa di tutti coloro che non aderiscono al Pd».
Tutti, Boselli compreso?
«Senza specificare. Mussi è stato molto bravo perché ha volutamente lasciato tutte le opzioni aperte».
Sinistra senza aggettivi, né comunista né socialista?
«Io voglio continuare a essere comunista, ma se Mussi non ha usato aggettivi di tipo identitario è perché avrebbero creato divisioni. Immagino che Angius voglia portare nella costituente socialista la maggior parte dell'ex Correntone».
Angius dentro Sd da cavallo di Troia?
«Nelle sue parole non c'è inganno. Angius fa un'operazione del tre per cento, la mia invece vale il 15. È lo spazio a sinistra del Pd, solo un cieco non lo capisce. Comprendo che Mussi non voglia spaccare il suo gruppo, ma deve scegliere».
Sembra voglia aspettare fino alle Europee.
«I cantieri che rimangono aperti troppo a lungo si trasformano in grandi buche dove si finisce per cadere. Mussi dica in fretta cosa vuol fare. Se nasce il Pd noi stiamo fermi? Il rischio è che non se ne faccia niente».
Giordano lancia un «patto d'unità d'azione». Lei ci sta?
«Mi sembra che il Prc avverta la mia urgenza politica. Dobbiamo partire anche da questa ritrovata sintonia tra due partiti che si richiamano al comunismo».
Nel Pantheon di Mussi ci sono Gramsci e Berlinguer. Nel suo?
«Tutti quelli che rappresentano un pezzo di storia comunista.
Nel mio non c'è Gandhi e in quello del Prc sì, ma sarebbe folle se fosse un elemento di divisione. Guardiamo avanti».
Vale anche per Cossutta?
«Se n'è andato lui, però il percorso unitario riguarda tutti. Ovvio che ciascuno conterà per il consenso che si porta dietro».
Non teme egemonie?
«La sfida per l'egemonia non mi spaventa, chi ha più filo tesserà. Riguardo alla mia persona, io non mi candido a fare il capo della sinistra unita e mi auguro che la leadership sia l'ultimo dei nostri problemi».
La corsa è già scattata.
«Se si vuole unire bisogna iniziare con atti di generosità personale. Non dico che io a 50 anni devo tirarmi indietro, parlo di atti di generosità in nome della sinistra. Se si facesse la confederazione sarebbe una cosa così importante che chiunque ne fosse il capo mi andrebbe bene. Si deciderà insieme e comunque non sarei io».
Nel Pd sembrano aver deciso che la guida della coalizione tocca a loro.
«Non hanno deciso niente, stanno furiosamente litigando su tutto. Il capo dell'alleanza non lo decide un partito solo. Per la maggioranza ci vuole il 51% e il Pd da solo non basta».
La «cosa rossa» avrà falce e martello nel simbolo?
«Il se e il come lo decideremo assieme. Prima dobbiamo riprogettare i contenuti e questo lo possono fare solo quelli che non sono figli della sconfitta dell'89. E cioè la generazione dopo la mia».
Fuori tutti? Diliberto, Mussi, Giordano?
«Noi abbiamo categorie di pensiero datate, mentre chi è nato l'anno del crollo del Muro non è rimasto sepolto sotto le sue rovine».
Corriere della Sera 7.5.07
Bertinotti in Libano: «Fiero delle nostre truppe»
di Gianna Fregonara
«Siete la vetrina migliore del nostro Paese e il Paese deve mettersi all'altezza di questa vetrina»
BEIRUT — È la Folgore ma a Bertinotti sembra Emergency.
Succede sotto il sole di Marraka'a, la base italiana nel sud del Libano: «Se ci fosse una Ong al posto dell'esercito qui farebbe la stessa cosa», commenta entusiasta il presidente della Camera uscendo da un ambulatorio medico creato dalla brigata italiana nel paesino di Yanouh: «È straordinario vedere un esercito che lavora per la pace, che crea una cultura di pace e non fa solo la sua attività di interposizione». Il paragone di Bertinotti vorrebbe essere un complimento, un segno di ammirazione non scontato per la brigata storicamente meno amata dalla sinistra.
Ma i militari tentennano: «Provino a mandare le Orsoline contro Hezbollah», mormorano.
Al comando Unifil e alla base italiana hanno preparato una visita su misura per il presidente della Camera: sorvolo in elicottero della zona, visita all'asilo di Yanouh, a pochi passi dalla postazione italiana, con la lezione tipo che i militari tengono ai bambini per insegnare a evitare le mine e le bombe inesplose nei campi, sosta all'ambulatorio e incontro con il sindaco che a Bertinotti ha pensato di dedicare — senza riferimenti alla politica italiana — un ulivo.
Dopo il giro in elicottero il presidente della Camera non è più imbarazzato come all'inizio, quando passa in rassegna le truppe insieme al generale Claudio Graziano, comandante della missione Unifil, e al generale di brigata Maurizio Fioravanti, comandante delle forze italiane, e saluta i militari con un «Buongiorno signori». Ora l'ex segretario di Rifondazione arriva a suggerire ai suoi colleghi di venire a scuola dai soldati: «Credo che tutti i politici, me compreso, prima di parlare dovrebbero ascoltare i nostri militari perché capirebbero come si possono portare la pace e la comprensione nel dialogo e nel rispetto di situazioni e culture diverse». E ancora: «Questa è la vetrina migliore del nostro Paese e il Paese dovrebbe mettersi all'altezza di questa vetrina», spiega entrando all'asilo.
Seguono scene di giubilo di bambini e bambine (quasi tutte velate) che ritmano: «Welcome sir! Welcome sir!». Il presidente della Camera interpreta il ruolo istituzionale fino in fondo e alla mensa di Makkara'a arriva a dire: «Vi sono grato e sono orgoglioso di appartenere al vostro stesso Paese». Ma che cosa spinge Bertinotti a dichiararsi «commosso» e ad arruolare l'intera brigata più che tra i pacificatori tra i «pacifisti»? Non certo i nomi delle compagnie — Condor, Diavoli neri, Pantere indomite, Sorci verdi —, scelti per suscitare altri sentimenti che non la commozione. Bertinotti lo spiega così: «Anche se sono consapevole che questa è una missione di pace è straordinario vedere militari, nonostante la nobiltà della divisa dell'esercito si sia già vista in altre situazioni in passato, fare opera di prevenzione dei danni per i civili di una guerra che altri hanno fatto». I militari applaudono, ma poi la prendono con ironia: «Siamo persone di media intelligenza — commenta il tenente colonnello Fabio Mattiassi — sappiamo fare il nostro lavoro, conosciamo le regole di ingaggio e ci adeguiamo».
Bertinotti parte per Israele. Un viaggio non senza imprevisti: secondo gli accordi presi dal 31esimo stormo l'aereo di Stato avrebbe dovuto portare il presidente della Camera direttamente a Tel Aviv, ma le autorità israeliane al momento dell'atterraggio hanno chiesto di cambiare rotta, atterrare a Larnaca e tornare al Ben Gurion.
Corriere della Sera 7.5.07
Il processo di Cogne. Satragni: psichiatri presuntuosi sulla Franzoni. La replica: assurdo
di C. Mar.
MILANO — Ada Satragni (foto), la psichiatra vicina di casa dei Lorenzi, che soccorse per prima Samuele nella villetta di Cogne, ha scritto una lettera al quotidiano La Stampa e ha ribadito la sua convinzione dell'innocenza della Franzoni, «che pazza non è». Ha attaccato i colleghi psichiatri «schiavi saccenti della presunzione», che hanno descritto Annamaria come «depressa, isterica, borderline, crepuscolare». «In questi cinque anni di autentico calvario la vita ha sottoposto la Franzoni ad un'autentica perizia psichiatrica — ha scritto la donna —.
Sopportare tutto questo è segno di integra struttura morale e psichica. Se così non fosse, la complessità del dramma non sarebbe sopportabile». Massimo Picozzi, che partecipò alla prima perizia psichiatrica come consulente dell'accusa ribatte: «E' assurdo dare giudizi così categorici. Invito la Satragni a leggere la letteratura scientifica e internazionale dove esistono casi di madri che hanno confessato di aver ucciso i figli dopo anni.
Uno per tutti, il caso americano di Susan Smith: nel '94 denunciò che un uomo si era portato via l'auto con a bordo i suoi figli. Commosse l'America, ma alla fine confessò di aver buttato in un lago l'auto con i bambini ben quattro anni prima». Ada Satragni alla Stampa scrive anche che le madri che uccidono i figli vengono aiutate nel ricordo, mentre Annamaria è stata costretta a rivedere le immagini del figlio morto. «Non è certo compito dei periti psichiatrici curare e far recuperare i ricordi — spiega Ugo Fornari, pure lui consulente —. Noi siamo chiamati a dare una valutazione sullo stato di mente. Piuttosto avrebbe dovuto essere interrogata subito in modo incalzante per farla confessare, ma gli investigatori non sono stati capaci di farlo. La confessione è comunque un compito dei magistrati, non certo dei periti ». Giancarlo Nivoli, altro psichiatra del caso è chiarissimo: «Ci sono pochissime persone che hanno letto gli atti, che conoscono le scienze giuridiche e psichiatriche. Tutti gli altri hanno diritto di parlare, ma raccontano solo le loro emozioni».
Corriere della Sera 7.5.07
Nel libro postumo scritto dopo l'11 settembre, Edward Said critica l'eurocentrismo
Umanesimo. Basta con i classici Scopriamo le culture delle altre civiltà
di Edward Said
È un fatto universalmente accettato che, mentre le discipline umanistiche un tempo proponevano lo studio dei testi classici permeati di cultura greca, latina ed ebraica, oggi un pubblico nuovo e più variegato, di provenienza multiculturale, chiede e ottiene che si presti maggiore attenzione a una galleria di personaggi e culture precedentemente negletti o inascoltati che hanno invaso gli spazi incontestati precedentemente occupati dalle culture europee. Persino i privilegi accordati a entità- modello come l'antica Grecia o Israele sono stati oggetto di una revisione nel complesso salutare, che ha notevolmente ridotto le loro pretese di originalità. (...) Per studiosi e insegnanti della mia generazione, educati inmodoessenzialmente eurocentrico, il paesaggio e la topografia degli studi umanistici risultano drammaticamente, e, credo, irreversibilmente, alterati. T.S. Eliot, Lukács, Blackmur, Frye, Williams, Leavis, Kenneth Burke, Cleanth Brooks, I.A. Richards e René Wellek vivevano in un universo mentale ed estetico che era linguisticamente, formalmente ed epistemologicamente radicato nel mondo dei classici europei e nordatlantici della Chiesa e dell'impero, con le loro tradizioni, linguaggi e capolavori, insieme a tutto l'apparato ideologico della canonizzazione, della sintesi, della centralità e della consapevolezza. Oggi a tutto questo è subentrato un mondo più variegato e complesso, pieno di contraddizioni e di correnti antinomiche e antitetiche. La visione eurocentrica era già stata mobilitata durante la guerra fredda, e per questo risultava sempre più screditata; inoltre, per la mia generazione di studiosi di formazione umanistica degli anni Cinquanta e Sessanta, essa sembrava restare sempre, in maniera rassicurante, in secondo piano, mentre in primo piano, nei corsi, in ambito accademico e nella discussione pubblica, l'umanesimo veniva raramente sottoposto a uno studio approfondito, ma sopravviveva nella sua magniloquente e indiscussa forma arnoldiana. La fine della guerra fredda ha coinciso con una serie di ulteriori trasformazioni che le guerre culturali degli anni Ottanta e Novanta hanno in qualche modo rispecchiato: le lotte contro la guerra e la segregazione all'interno, l'emergere, ovunque nel mondo, di un numero impressionante di voci di dissenso in campo storico, antropologico, nella ricerca femminista e delle minoranze e in altri settori marginali rispetto ai filoni principali delle discipline umanistiche e alle scienze sociali. Tutto ciò ha contribuito al lento, sismico mutamento della prospettiva umanistica che ora, all'inizio del XXI secolo, è sotto i nostri occhi.
Per fare solo un esempio: gli studi afroamericani, in quanto nuovo ambito degli studi umanistici universitari (scandalosamente ostacolati o messi in ombra), hanno avuto la capacità di fare due cose contemporaneamente. In primo luogo, hanno messo in discussione lo stereotipato e forse ipocrita universalismo del classico pensiero umanistico eurocentrico, e, in secondo luogo, hanno ottenuto il riconoscimento della propria rilevanza e urgenza come componente fondamentale dell'umanesimo americano contemporaneo. Questi due cambiamenti a loro volta hanno evidenziato come l'intera idea di umanesimo, che aveva per tanto tempo fatto a meno delle esperienze degli afroamericani, delle donne e di tutti i gruppi svantaggiati e marginalizzati, avesse sempre basato il proprio potere su una concezione dell'identità nazionale che era, quanto meno, altamente selettiva e riduttiva, ovvero limitata a un piccolo gruppo ritenuto rappresentativo dell'intera società, ma che in realtà non teneva conto di ampi segmenti di essa, segmenti la cui inclusione avrebbe permesso di riprodurre più fedelmente l'incessante flusso e a volte la spiacevole violenza delle realtà dell'immigrazione e del multiculturalismo.
Il 1992, anno dei festeggiamenti per i cinquecento anni dello sbarco di Colombo nelle Americhe, rappresentò l'occasione per un dibattito, sovente corroborante, sui suoi effetti nonché sulle atroci devastazioni qui simboleggiate dal celebre evento storico. So che alcuni umanisti conservatori hanno accusato questi dibattiti di violare la santità di un sedicente ambito spirituale, ma simili argomentazioni dimostrano solo, una volta di più, che per loro la teologia, non la storia, detta legge negli studi umanistici. Non si deve dimenticare la frase di Walter Benjamin: ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie. E soprattutto gli umanisti dovrebbero poter capire cosa significhi questa affermazione. Quindi gli studi umanistici oggi si trovano a questo punto: viene chiesto loro di prendere in considerazione tutto quello che, da una prospettiva tradizionale, è stato represso o deliberatamente ignorato. Nuovi storici dell'Umanesimo classico del primo Rinascimento (David Wallace per esempio) hanno per lo meno iniziato a esaminare le circostanze per cui figure chiave come quelle di Petrarca e Boccaccio hanno potuto elogiare ciò che è «umano» pur senza mai sentire il bisogno di opporsi alla tratta degli schiavi che aveva luogo nel Mediterraneo. Dopo decenni di celebrazioni dei «padri fondatori» americani e di altre eroiche figure nazionali si comincia a prestare attenzione alla loro equivoca relazione con la schiavitù, con l'eliminazione dei nativi americani e con lo sfruttamento delle donne e delle popolazioni che non possedevano terre. C'è un filo che lega strettamente queste figure un tempo occultate e il commento di Frantz Fanon: «La statua greco-romana si sta sgretolando nelle colonie». Oggi più che mai è legittimo affermare che la nuova generazione di studiosi di discipline umanistiche è più in sintonia di qualsiasi altra prima di lei con le energie e le correnti non europee, decolonizzate, decentrate, di genere del nostro tempo. Ma, ci si potrebbe chiedere, che cosa significa realmente questo? Innanzitutto significa che la critica è il cuore pulsante dell'umanesimo, la critica come forma di libertà democratica e pratica incessante di interrogazione e accumulazione del sapere, aperta alle, piuttosto che negazione delle, realtà storiche che rappresentano il mondo dopo la guerra fredda.
Corriere della Sera 7.5.07
Mentre una mostra lo propone come modello di Caravaggio, è nuova polemica sui prestiti
Dürer, maestro disprezzato ma copiato da tutti
di Pierluigi Panza
Sgarbi: «Ora gli Uffizi sono senza suoi quadri». I curatori: «Caso eccezionale»
Nell'arte, la cosiddetta ispirazione raramente nasce dal nulla come pensavano gli idealisti. Più spesso, come sostenuto in una prospettiva ermeneutica da Harold Bloom, un'opera nasce dal travisamento e dalla ritematizzazione dell'opera di un maestro precedente. La mostra in corso alle scuderie del Quirinale a Roma «Dürer e l'Italia» (aperta sino al 10 giugno, catalogo Electa a cura di Kristina Herrmann Fiore) consente una puntuale verifica di questo assunto, mostrando l'influenza esercitata da Dürer su alcuni pittori italiani. Il maestro di Norimberga, infatti, dapprima prese molto dal paesaggio e dalla pittura del Belpaese a partire dal suo Reise nach Italien del 1494, ma poi seppe restituire visto che diversi nostri pittori reinterpretarono o citarono soggetti di alcune sue incisioni.
La mostra - A lungo condizionati dal giudizio negativo del Vasari sul pittore di Norimberga, questo aspetto, già emerso negli studi di Günter Schweickhart, è ora sostenuto dalla curatrice Herrmann Fiore: «La quantità delle ispirazioni dureriane nell'arte italiana è tale — afferma — che si potrebbe immaginare un corpus illustrato con molte centinaia di casi. Basti accennare a Raffaello, Sodoma, Palma il Vecchio, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese…».
Accenniamo a tre casi emblematici. Il primo saggio pittorico di Caravaggio dopo aver lasciato la bottega del Cavalier d'Arpino, l'Autoritratto in veste di Bacco (1593) della Galleria Borghese, secondo la Fiore (sulla traccia di una considerazione di Maurizio Calvesi) è esemplato proprio sull'incisione intitolata Cristo deriso (Uffizi) realizzata da Dürer nel 1511. Testa, postura, posizione su una lastra di marmo e inclinazione della schiena fanno sembrare le due figure come viste allo specchio.
Homo deriso, del resto, si sentiva Caravaggio in quel momento della sua vita. Secondo la Fiore, «Caravaggio ha tenuto presente la xilografia di Dürer nel concepire la sua composizione».
Il secondo caso è quello del San Girolamo nello studio con due angeli (1617) di Bartolomeo Cavarozzi, il quale cita esplicitamente in un libro aperto alla sinistra del santo un'incisione di Dürer, la Madonna con il bambino seduta presso un muro del 1514. Del resto, scrive Marieke von Bernstorff nel catalogo: «La traduzione della Bibbia del santo e la rappresentazione grafica di Dürer perseguono lo stesso fine: la diffusione della parola di Dio».
Un ultimo esempio può essere quello fornito dal dipinto di Giovanni Maria Morandi Ritratto di Federico Zuccari del 1695. In questa tela, il teorico delle arti Zuccari (scrisse «L'idea de' Pittori, Scultori, ed Architetti» nel 1607) tiene in mano con la sinistra una tavola della simmetria dei corpi mani con figure non esemplare da Vitruvio bensì da una tavola del testo «Della simmetria dei corpi umani» scritto e pubblicato da Dürer nel 1528 e successivamente tradotto in latino (1532) e in italiano (1591).
Elogiata quindi la tesi dell'esposizione, passiamo a un aspetto, di ordine generale, che resta anche in questo caso controverso. Ovvero quello dei prestiti.
I prestiti - Mentre la commissione istituita dal ministro Rutelli è all'opera per stabilire i criteri generali ai quali i musei si devono attenere nel valutare il prestito di un quadro per una mostra, e aggiunto che non si potrà prescindere dal valutare «caso per caso», anche questa rassegna fa discutere intorno alla provenienza delle opere. Antonio Paolucci, presidente della Commissione Scientifica delle Scuderie del Quirinale, era tra gli esperti che si espressero con perplessità all'atto del prestito dell'Annunciazione di Leonardo dagli Uffizi a Tokio anche perché, tra gli altri motivi, «si privavano i visitatori degli Uffizi di vedere opere importanti». Ora, rilancia la polemica Vittorio Sgarbi, «i visitatori tedeschi che nei giorni scorsi hanno invaso gli Uffizi quanti Dürer hanno potuto vedere?». Risposta: «Nessuno». In effetti nella mostra, che è stata realizzata dal Polo Museale Romano con quello Fiorentino, una sessantina di opere provengono dagli Uffizi.
Certo, molte sono incisioni che provengono dal Gabinetto delle stampe; tuttavia il museo fiorentino ha prestato «tutte le opere di Dürer in suo possesso»: spogliare gli Uffizi di un Leonardo fa gridare allo scandalo, si può, invece, privarlo completamente di Dürer?
Alcune risposte a questa obiezione sono scontate: la scientificità della mostra, il fatto che il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi ospita in questo stesso periodo un'esposizione di Dürer che fa da complemento alla rassegna del Quirinale, il fatto che le opere saranno state giudicate trasportabili e in buone condizioni e che il viaggio era corto (ma questo vale anche in senso contrario: se la sede è vicina si vadano a vedere le opere lì). I curatori, nella presentazione, scrivono che quello degli Uffizi è un prestito «in via del tutto eccezionale». Ma in Italia l'eccezione diventa spesso regola.
L'idea che spogliare un museo di opere famose sia inopportuno ha trovato in politica un consenso bipartisan anche questa settimana. Alla decisione del ministro per i Beni Culturali di non prestare La primavera di Botticelli a Tokio ha fatto riscontro l'apprezzamento del senatore di Forza Italia, Paolo Amato (Commissione cultura), perché «si tratta dell'opera principale del fondo della Galleria degli Uffizi». Ma L'Adorazione dei Magi di Dürer è un'opera secondaria?
E c'è un ultimo caso. Qualcuno ha registrato proteste a Londra (National Gallery) o in Olanda perché in questi giorni è in mostra a Modena («piccola città», come cantava il suo Francesco Guccini, non Tokio), per la prima volta in Italia, la Ragazza con la spinetta di Vermeer? Bravi a Modena, che hanno ottenuto l'opera in cambio del prestito del Ritratto di Francesco I della Galleria Estense. Ma non vale anche per noi quel che vogliamo far valere per gli altri?
Repubblica 7.5.07
La letteratura come farmaco: una riflessione del premio Nobel
Perché scrivere è una terapia
di Orhan Pamuk
La necessità di rileggere autori classici quali Tolstoj e Thomas Mann
L'autoritratto dello scrittore turco in una nuova raccolta di saggi
Più vado avanti più vedo che i libri più belli sono opera di scrittori già morti
Da trent'anni più o meno ogni giorno scrivo per dieci ore seduto alla scrivania
Scrivo da trent´anni ed è da molto tempo che ripeto questa frase. E a furia di ripeterla ha smesso di essere vera perché siamo arrivati al trentunesimo anno. Ma dire scrivo romanzi da trent´anni è bello comunque. Ecco, neanche questo è del tutto vero. Ogni tanto scrivo anche altre cose: saggi, recensioni, cose su Istanbul o sulla politica, oppure discorsi per incontri come questo… Ma il mio vero lavoro, ciò che mi lega alla vita è scrivere romanzi… Ci sono scrittori molto brillanti che scrivono da più tempo di me, da quasi mezzo secolo senza mettersi in mostra… Scrittori da me amatissimi e che continuo a leggere con ammirazione come Tolstoj, Dostoevskij o Thomas Mann non hanno scritto attivamente per trent´anni ma per più di cinquanta… Allora perché parlo dei miei trent´anni? Perché vorrei parlare del mestiere di scrittore, di romanziere, come se parlassi di un´abitudine.
Perché io sia felice è necessario che ogni giorno mi occupi un po´ di letteratura. Proprio come i malati che ogni giorno devono prendere un cucchiaio di medicina. Quando da bambino ho imparato che per condurre una vita normale i diabetici hanno bisogno di un´iniezione al giorno, mi era dispiaciuto molto per loro. Ho pensato che fossero dei mezzi morti. Anche la mia dipendenza dalla letteratura mi ha trasformato in un "mezzo morto". Quando ero un giovane scrittore credevo che chi mi diceva che ero «distaccato dalla vita» indicasse questo modo di vivere "mezzo morto". Si potrebbe anche dire mezzo fantasma. Mi è capitato di pensare di essere un morto e di cercare di animare il cadavere che avevo dentro con la letteratura. La letteratura mi è necessaria come un farmaco. Come capita a chi ha una dipendenza, la letteratura, che devo "prendere" ogni giorno come una medicina che si prende col cucchiaio o con un´iniezione, ha una dose consigliata e degli effetti collaterali.
Prima di tutto la "medicina" deve essere buona. E con buona intendo dire vera e forte. Un brano di romanzo forte, intenso e profondo in cui credo, che mi rende felice più di tante altre cose e che mi lega alla vita. Preferisco gli scrittori già morti. In modo che l´ombra della minima gelosia non mi privi del gusto sincero dell´ammirazione nei loro confronti. (...)
Se invece a scrivere sono io, la "dose" di "letteratura" che devo prendere ogni giorno è completamente diversa. Perché nel mio stato la cura migliore, la massima fonte di felicità, è scrivere ogni giorno una buona mezza pagina. Da trent´anni, più o meno ogni giorno scrivo per dieci ore seduto alla scrivania, in una stanza. Ma quanto ho potuto produrre e pubblicare in questi trent´anni corrisponde mediamente a meno di mezza pagina al giorno. E per di più, probabilmente, una mezza pagina un po´ meno "buona" di come avrei voluto. Ecco due validi motivi per essere infelice.
Ma non voglio essere frainteso: chi come me è dipendente dalla letteratura non è così superficiale da essere felice con i bei libri che scrive, con il loro numero e il loro successo. Chi ne è dipendente non desidera la letteratura per salvarsi la vita ma soltanto per superare la difficile giornata che sta trascorrendo. I giorni sono sempre difficili. La vita è difficile perché non scrivi. Perché non riesci a scrivere. Ed è difficile anche quando scrivi perché scrivere è molto difficile. Tra tutte queste difficoltà, l´importante è riuscire a trovare la speranza per fare passare la giornata, anzi essere felice e gioire se il libro o la pagina che ti porta in un nuovo mondo sono buoni.
Vi racconto che cosa sento se un giorno non ho scritto bene o non mi sono perso nel conforto di un libro. In breve, il mondo si trasforma per me in un luogo insopportabile e tremendo e chi mi conosce bene capisce immediatamente che anche io sono diventato come quel mondo. Per esempio, quando si fa sera mia figlia capisce dall´espressione desolata del mio volto che durante la giornata non ho potuto scrivere bene. Glielo vorrei nascondere ma non mi riesce mai. In questi brutti momenti penso che vivere o non vivere sia la stessa cosa. Non ho voglia di parlare con nessuno e chi mi vede in quello stato non ha voglia di parlare con me. Questo umore in realtà comincia ad avvolgere lentamente il mio animo ogni giorno tra l´una e le tre di pomeriggio, ma dato che ho imparato a usare la scrittura e i libri come una medicina, mi salvo senza diventare completamente il cadavere di me stesso. Se capita che non possa prendere la mia medicina che sa di inchiostro e carta per lunghi periodi perché sono in viaggio o, come è accaduto in passato, a causa del servizio militare o perché devo andare a pagare la bolletta del gas o, come è capitato di recente, per problemi politici o chissà per quanti altri impedimenti, sento che l´infelicità mi trasforma in una specie di uomo di cemento. Non riesco a muovere nessuna parte del corpo, le mie articolazioni non funzionano, la testa si fa di pietra e sembra che il mio sudore abbia un odore diverso. Questa infelicità può durare a lungo: la vita è infatti piena di castighi che ci allontanano dalle consolazioni della letteratura. Partecipare a un´affollata riunione politica, chiacchierare con gli amici nel corridoio della facoltà, trovarsi a pranzo con i parenti in un giorno di festa, la conversazione forzata con una brava persona distratta e rintronata dalla televisione, un incontro di «lavoro» organizzato tempo prima, una banale uscita per fare la spesa, andare dal notaio, fare una foto tessera per ottenere un visto, sono tutte attività durante le quali mi si appesantiscono gli occhi e mi viene sonno. Quando sono lontano da casa e mi è impossibile ritornare nella mia stanza e rimanere solo, l´unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno.
Sì, forse ciò di cui ho bisogno non è la letteratura ma rimanere da solo in una stanza e fantasticare. Allora comincio a sognare cose bellissime su tutti quei luoghi affollati, sulle riunioni familiari e scolastiche, sui pranzi di famiglia nei giorni di festa e sulle persone che vi partecipano. Durante i pranzi dei giorni di festa fantastico su queste persone e le rendo più divertenti. Nella mia immaginazione tutto diventa interessante, attraente e vero. Parto da questo mondo noto e incomincio a immaginarne uno nuovo. Così siamo arrivati al cuore della questione. Per scrivere in modo soddisfacente devo annoiarmi per bene e per annoiarmi per bene devo immergermi nella vita.
il manifesto 6.5.07
Consigli per partecipare al Family day
di Alessandro Robecchi
Superiamo le barriere ideologiche! Partecipiamo anche noi a una buona riuscita del Family Day! Ecco qualche consiglio per l'organizzazione:
Prime e seconde mogli. Chi partecipi al Family Day con la famiglia deve dichiarare prima con quale famiglia viene. Con una speciale deroga (registrarsi sul sito internet), si può portare la prima moglie, o il primo marito, i figli di matrimoni precedenti, e (solo iscritti organizzazioni cattoliche) il nuovo fidanzato della prima moglie, purché non sia un prete.
Controlli a campione. Come evitare che qualcuno si porti l'amante al Family Day? Ai varchi d'ingresso, speciali incaricati potranno chiedere chiarimenti e fare controlli a campione, dal test del dna per conoscere la vera identità dei figli, alle domande private. E' sua moglie, questa? E' sicuro? Il bambino è suo? E' sicura? Servirà anche una squadra di psicologi.
Security anti-gay - E' ovvio che chi si rechi al Family Day da solo è di per sé sospetto. In ogni caso sarà distribuito al pubblico un numero verde anti-gay da chiamare in caso di avvistamenti tra la folla. Discretamente ma con decisione interverrà la polizia religiosa.
Pronto soccorso. Conoscendo le statistiche sulle donne picchiate in famiglia, e prevedendo un grande assembramento di famiglie, si consiglia l'installazione di centri per l'assistenza in caso di ferite lacero-contuse.
Vip. Per le personalità importanti e i leader politici l'ingresso è garantito senza controlli. C'è qualche timore di affollamento, perché se Silvio porta tutte le sue famiglie e pure le giovani badanti, bisognerà mettere un centinaio di sedie in più. La Santanché porterà le sue simpatizzanti, per l'occasione ribattezzate Divorziate per la Famiglia. Casini ha fatto sapere che deciderà con quale famiglia venire solo all'ultimo momento.
il manifesto 6.5.07
Rignano, il limite del dubbio
Parla lo psichiatra Luigi Cancrini, della commissione parlamentare per l'infanzia. La sessualità dei bambini, la loro credibilità nei processi, le ambiguità della Chiesa
di Eleonora Martini
Roma «In tutti i processi per pedofilia la difesa punta a far sorgere il dubbio. Compito non arduo perché i bambini, soprattutto quelli piccoli, sono più deboli degli adulti, meno credibili. E come si sa - giustamente - nel dubbio gli imputati vengono assolti. D'altra parte l'analisi del racconto dei piccoli è un lavoro molto complesso che va fatto con serietà. Ma non è difficile capire se il bambino ha subìto davvero un abuso. In un'epoca in cui la pedopornografia è diventata purtroppo un business molto vantaggioso, bisognerebbe informare di più nelle scuole, soprattutto nelle materne che sono l'anello debole». Non è una presa di posizione rispetto alla vicenda di Rignano Flaminio, quella di Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, deputato dei Comunisti italiani e vicepresidente della Commissione parlamentare per l'infanzia. Ma solo un monito a vigilare senza creare allarmismi. Cancrini è anche direttore scientifico da anni del «Centro aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia» del Comune di Roma.
Professore, ci parli della sessualità dei bambini di 3 o 4 anni di oggi. Quando i loro comportamenti sessualizzati devono allarmare gli adulti e quando invece vanno considerati normali.
Nello sviluppo della sessualità non ci sono molte differenze tra i bambini di oggi e quelli del '900 analizzati da Sigmund Freud o Sandor Ferenczi. Bisogna però distinguere i comportamenti sessualizzati dei bambini. Faccio due esempi: l'autoerotismo può essere particolarmente evidente in bambini che hanno sofferto, sia per traumi sessuali che psicologici. Ma è più indicativo di abuso l'avvicinarsi insistentemente ai genitali degli adulti. In ogni caso questi comportamenti non sono la prova di violenze subite, ma vanno correlati con molti altri elementi.
Ma la scoperta della sessualità dei bambini non viene accelerata dai numerosi stimoli esterni a cui sono sottoposti, come la televisione, o dall'evoluzione dei costumi e del linguaggio degli adulti?
Quando un bambino viene rispettato, in condizioni normali, vede quello che la sua fase evolutiva gli permette di vedere. Il bambino che sta sviluppando il controllo delle sue pulsioni, rimuove l'erotismo in una fase in cui questo entra in conflitto con se stesso. Bambini di 5 o 6 anni, in cui c'è una tematica edipica, quando vedono in tv degli adulti che si baciano, si coprono istintivamente gli occhi perché c'è una difesa rispetto a contenuti che per loro non sono in quel momento corrispondenti alla loro fase evolutiva. Invece, assistere a un rapporto sessuale tra i genitori, quello che Freud chiama «la scena primaria», è invece un trauma. In condizioni anormali, quando c'è molestia, abuso sessuale o forte trascuratezza della sua sensibilità, il bambino reagisce con molta angoscia.
Lei ha letto la descrizione dei genitori di Rignano riguardo i loro bambini che mimerebbero atti sessuali con i peluche o la masturbazione. Che idea si è fatto, possono rientrare nella normale scoperta del bambino della sessualità?
Dipende dal modo in cui mima l'atto sessuale. Se lo fa con freddezza o se lo ripete ossessivamente con livelli di angoscia molto forti. Sono due estremi che configurano situazioni molto diverse. Per esempio al termine di questo gioco il bambino può manifestare aggressività nei confronti del peluche o piangere a dirotto. In questo caso c'è congruità con un'esperienza grave vissuta. Se invece il bambino mima con una certa freddezza e in modo incostante, solo se sollecitato, magari solo in presenza dell'adulto sollecitante, come può essere una madre che accusa il padre, allora la carica di angoscia nel bambino non c'è.
Secondo la psicologa Fraschetti, perito d'ufficio, alcuni bambini della materna di Rignano soffrono l'incapacità di conciliare il piacere provato durante l'esperienza riportata e «lo scandalo che ne è seguito».
Proprio Ferenczi racconta di come il bambino generalmente viene sedotto dall'adulto abusante che all'inizio usa nei suo confronti un linguaggio d'amore. Lui la chiama «confusione di linguaggio»: il bambino non decifra il linguaggio dell'adulto, non vede l'intenzione nascosta che c'è dietro. Ci sono bambini abusati dal padre che scoprono l'orrore solo quando arrivano alla pubertà e solo allora passano dall'amore all'odio. Un bambino così piccolo, a 3 o 4 anni, può essere trattato con particolare affettuosità da seduttori «bravi», e può vivere queste esperienze in un modo che per lui risulta gradevole. E questo poi spiega anche perché i bambini parlano così tardi, avendo bisogno di un po' di tempo per comprendere gli abusi subiti.
Ma i bambini possono influenzarsi a vicenda, potrebbe essere tutto frutto di una fantasia condivisa tra bambini e con gli adulti?
Questo a me sembra molto difficile. I bambini a 3 o 4 anni difficilmente si influenzano con dei racconti perché è un'età in cui c'è poco spazio e poca capacità sul piano verbale per raccontarsi tra loro dei fatti e influenzarsi. Però questo attiene all'accuratezza con cui è stata svolta l'indagine. Una suggestione collettiva è anche possibile, ma va verificata caso per caso.
Quanto sono importanti i disegni che fa?
Molto, ma anche lì c'è un problema di tecnica. Non basta guardarli, vanno discussi con i piccoli e non è facile interpretarli, è un lavoro molto complesso. Nel nostro centro i terapeuti seguono corsi appositi, si usa lo specchio unidirezionale, il lavoro viene confrontato con gli altri membri dell'equipe e ridiscusso dopo un lasso di tempo necessario per far decantare le emozioni anche dei terapeuti.
Tutte accortezze che sembra non siano state usate dal perito d'ufficio, questo è un grave errore...
Bisogna vedere il livello di esperienza della psichiatra. Comunque la perizia fatta per la procura non può essere usata nel processo. Ci sarà un incidente probatorio sui bambini, cioè un incontro dei bambini con un esperto nominato dal tribunale a cui le parti assistono dietro lo specchio. Ovviamente se il racconto viene cambiato o rimodulato, diventa meno attendibile.
Dal suo osservatorio può dirci quanto spesso si verificano casi di falsi abusi, di adulti accusati che dopo anni si dimostrano innocenti?
Nella nostra esperienza, su 100 casi segnalati come sospetto abuso ce ne sono almeno 40 che poi si scoprono falsi. Però, ripeto, non è molto difficile capire che si tratta di un falso abuso proprio dal modo in cui il bambino racconta: il racconto viene fatto con freddezza, i particolari cambiano, non c'è una ricostruzione plausibile, e generalmente c'è un adulto che in buona o cattiva fede è interessato a sostenere l'accusa. Un altro 5% dei casi lascia molto perplessi, soprattutto con gli adolescenti. Nei restanti casi si trovano poi effettivi riscontri. Quello che sta accedendo negli ultimi anni è che ci sono più orecchie per ascoltare, maggiore sensibilità e più centri ad hoc, e anche le leggi sono più severe con gli abusanti e più protettive con i bambini.
Come la difesa delle maestre arrestate sostiene, la maggior parte delle violenze avviene in famiglia, è lì che va cercato il problema. Quasi sempre i processi per abusi nelle scuole finiscono con l'assoluzione degli imputati. E' così?
Il nostro sistema giudiziario è giustamente molto garantista. Non è semplice arrivare a una convinzione assoluta sulla base della sola testimonianza dei bambini. E' chiaro che gli adulti sono più potenti, il bambino abusato è debole, si difende solo con la memoria e con il racconto. E per loro l'esperienza di un'aula di tribunale è molto dura. Spesso la difesa gioca le stesse carte: i bambini si sono influenzati, sono inaffidabili, ecc. E raggiunge il suo scopo non se dimostra l'innocenza ma se insinua un dubbio. E nel dubbio si assolve. Comunque, ripeto, le garanzie processuali per gli imputati sono giustamente infinite anche se il danno morale non è riparabile. Secondo me la difesa però cataloga troppo rapidamente questi processi come pura montatura. Nel processo di Brescia dove sono imputate delle suore, per esempio, siamo di fronte a una situazione paradossale. In questi giorni insieme al Prc e Rnp abbiamo presentato un'interpellanza parlamentare perché è intollerabile che, con una circolare del 2001 emessa dall'allora presidente della congregazione delle fede Ratzinger, si sia imposto il segreto ecclesiastico sui casi di pedofilia commessi da preti. E' un problema serio: negli Usa in un processo contro preti pedofili gli estensori di quella circolare sono stati accusati di complicità. Accusa poi decaduta perché Ratzinger è diventato papa.
Secondo lei la scuola italiana è attrezzata ad affrontare la pedofilia?
Ci sono state una serie di campagne di informazione. Ma secondo me l'anello debole è proprio la scuola materna perché i bambini sono facilmente influenzabili da chi li seduce e ne abusa, hanno meno capacità di esprimersi e sono tendenzialmente meno attendibili. Credo che il ministro dovrebbe avviare una campagna di sensibilizzazione specifica. Soprattutto perché viviamo una fase in cui la pedopornografia sta diventando un'industria criminale che promette facili guadagni.
In questo caso di Rignano, secondo lei, le istituzioni scolastiche si sono comportate bene?
Nella Commissione infanzia abbiamo ricevuto a novembre la direttrice scolastica Loredana Cascelli. Ci ha raccontato che a settembre, appena arrivata nella scuola, si era trovata in mezzo a un paese diviso e di fronte a un collegio dei docenti che era schierato fermamente a difesa delle insegnanti, ancora non formalmente accusate. Ci ha detto di avere le mani legate e di confidare nell'intervento del ministero o dell'ufficio regionale. Anche il provveditorato e il ministero si sono mossi con lentezza aspettando segnali più chiari dalla procura di Tivoli. E ancora oggi c'è un brutto atteggiamento da parte del personale scolastico, di chiusura.
Che non fa altro che aumentare la spaccatura nel paese. Perché nessuno interviene?
E' sbagliato, infatti. Le autorità scolastiche dovrebbero intervenire con fermezza. E poi cercare di riconciliare l'intero paese, di ricostruire un clima di fiducia, magari in sedi diverse da Rignano. Anche se fino a che ci sarà il processo non sarà facile. Anche la stampa può aiutare molto a svelenire il clima evitando di schierarsi troppo da una parte o dall'altra. Mi auguro che a settembre per tutti i bambini del paese possa partire un davvero nuovo anno scolastico.
La Stampa 7.4.07
"L'obiettivo? L'unità della sinistra"
Intervista a Cesare Salvi
di Maria Grazia Bruzzone
La Sinistra democratica è nata, al di là dei Ds adesso c'è questo nuovo movimento ma non è molto chiaro dove vada. Ci spiega, senatore Salvi?
«Possiamo dire concretamente cosa faremo, così si comprende. Nei prossimi giorni daremo vita al Comitato promotore raccogliendo adesioni fra la gente, nei banchetti e attraverso il sito internet. Il punto di partenza sono naturalmente gli iscritti che hanno votato per la nostra mozione e per quella di Angius al congresso Ds».
Quanti in tutto?
«Tra i 40 e i 50.000, ma non li diamo per acquisiti. A ciascuno di loro chiederemo di aderire al movimento così come ci rivolgiamo a tutti i cittadini di sinistra».
Al mondo del lavoro, della cultura, agli studenti, alle giovani donne, agli imprenditori responsabili...come ha detto Mussi. Insomma, intanto vi volete contare ?
«Vogliamo avere degli aderenti perché poi - e questo è un passaggio molto importante -vogliamo decidere democraticamente con loro il modo di raggiungere il nostro obiettivo, che è l'unità di tutta la sinistra. Siamo un movimento che da un lato si forma intorno a un progetto, dall'altro prevede di strutturarsi autonomamente nel Parlamento, con propri gruppi».
I gruppi parlamentari li farete subito o dopo le amministrative?
«I gruppi sono imminenti. A oggi siamo 22 deputati (le adesioni più recenti sono Franco Grillini e Fabio Baratella, ex sindaco socialista di Rovigo) e 12 senatori: insieme a Gavino Angius è passato con noi anche il senatore Montalbano».
Verso l'unità della sinistra: quale sinistra?
«Ci rivolgiamo a tutte le forze di sinistra, a tutti gli interlocutori che sabato erano rappresentati fisicamente alla nostra manifestazione. E proporremo, a differenza del Pd, di confrontarci su due piani: i contenuti delle azioni politiche e, a un livello più generale, cosa significa socialismo nel nuovo millennio, al di là delle appartenenze internazionali».
Le appartenenza internazionali, appunto. Tutti rimarcano il fatto che voi considerate il Pse la vostra «famiglia», alla quale appartene anche lo Sdi. Mentre il Prc fa capo alla Sinistra europea, il Pdci al Gue, i Verdi al gruppo Verde.
«Non cadremo nella trappola del Pd. Non abbiamo fretta. La gente vuoi conoscere i nostri contenuti e i nostri ideali».
I contenuti sono anche azioni immediate, visto che siete al governo? Intendete cooordinarvi subito?
«C'è ovviamente un risvolto sull'azione di governo. Nel senso di sostenerlo e fare in modo che esca dalla crisi di consenso in cui si trova. Un esempio per tutti: i costi della politica. Secondo le proposte elaborate come Sd non solo si può rendere il sistema più moderno ed afficiente, ma si possono risparmiare 6 miliardi l'anno».
A sentire Mussi e altri interventi, la questione morale è uno dei vostri cavalli di battaglia.
«Certo. Che vuoi anche dire anche non lottizzare, lotta feroce alla criminalità nel sud, accogliere il codice di comportamento dell'Antimafia, separazione netta fra politica e affari come dice Mario Monti, di cui ho apprezzato gli interventi».
Arriverete subito al "patto d'azione" su lavoro e pensioni che propone il segretario del Prc Giordano?
«Lavoro e pensioni sono certo un altro tema. Come l'ambiente, il patto per il clima di cui parlano i Verdi, la formazione e la ricerca, la laicità dello Stato. Tutti temi su cui verificheremo le convergenze con le diverse forze della sinistra».
E alle amministrative del 2008 e alle europee del 2009, come vi presenterete?
«L'obiettivo è l'unità, ma non fissiamo date. Vogliamo far presto, ma l'aggregazione si formerà sui contenuti».
Da ultimo, cosa pensa della vittoria dì Sarkozy in Francia?
«Il dato di fondo è sociale: un terzo degli operai francesi al primo turno ha votato per Le Pen e fin che la sinistra in Europa non conquisterà il voto operaio, non riuscirà a vincere. Quanto all'amico di Prodi e Rutelli, Bayrou, ha fatto il pesce in barile fino alla fine».
il Riformista 8.5.07
Bertinotti sogna una rifondazione della sinistra europea
Se c’è una lezione che bisogna imparare dalle elezioni francesi è che urge una «rifondazione» di tutta la sinistra europea. Come il termine stesso suggerisce, la proposta viene dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, che dalla capitale dell’Autorità palestinese ha commentato i risultati delle elezioni in Francia. Certo, per Bertinotti sul valore dell’avversario c’è poco da discutere: Sarkozy «è uno forte», che ha saputo ben giocare sull’identità, «un messaggio spiazzante». Ma se la sinistra ha perso è soprattutto per la propria debolezza, che riflette la situazione di molti altri paesi nel continente («Preferisco parlare di Europa in generale, non di Italia», ammette il leader di Rifondazione). Insomma, «la sconfitta francese mette in luce una crisi della sinistra europea», una crisi «profonda», che riguarda, seppure in maniera diversa, tanto la «sinistra riformista» quanto la «sinistra alternativa» e che non può essere risolta con la consueta “politique politicienne”, fatta di riposizionamenti e alleanze (tradotto: inseguire Bayrou è stato un errore).
L’innovazione Royal. Dunque, urge una svolta, che secondo Bertinotti dovrebbe basarsi proprio sull’esperienza del Prc: «Il processo di rifondazione che noi abbiamo applicato a un partito si impone adesso come categoria per la sinistra europeea». Le due anime della sinistra europea devono «riprogettarsi per il Ventunesimo secolo» e ridefinire «il proprio rapporto con la modernità». Ovviamente, seguendo strade diverse. Dal punto di vista riformista, le elezioni francesi hanno dimostrato che l’innovazione rappresentata da Ségolène Royal, pur essendo un fatto «positivo e rilevante», non è sufficiente a vincere. Ségolène ha vinto «nonostante donna e nonostante l’innovazione della sua comunicazione», commenta Bertinotti. Il problema è che manca chiarezza su «quale modello economico e sociale la sinistra europea intende rifarsi». Per farla breve, «manca un’idea di fondo». In questo, bisogna riconoscere che «la destra parte avvantaggiata», perché può aderire a un nodo ben definito in nome di un’ideologia che possiede: «la superiorità del mercato». Ed è proprio per questo che le forze progressiste devono al più presto rielaborare un’ideologia, che «ridefinisca la sinistra come analisi, giudizi e proposte di modifica».
Unitaria e plurale. La «sinistra alternativa», invece, dovrebbe elaborare «una trasformazione delle proprie ragioni di esistenza»: invece dell’innamoramento della storia del Novecento, la sinistra radicale dovrebbe trovare la propria ragion d’essere «nell’idea di società». Secondo Bertinotti, la lezione francese è particolarmente istruttiva: «A Parigi, la sinistra alternativa ha reagito con la marginalizzazione, chiudendosi nelle rispettive identità partitiche, o simil-partitiche, come nel caso di José Bove». La divisione della sinistra radicale ha impedito di influenzare la politica di Ségolène, la lezione è: «Una gauche dove ognuno è abbarbicato alla propria bandiera» non serve proprio a nessuno. La via d’uscita, secondo il leader rifondarolo, è «una soggettività unitaria e plurale della sinistra alternativa» che intavoli un «sano rapporto di conflitto e di convergenza» con la sinistra riformista.
Il voto di classe. La «rifondazione» della sinistra europea, secondo il presidente della Camera, passa soprattutto dal recupero dei temi economici e sociali: «Non basta interessarsi delle questioni sociali, bisogna riportarli al centro della politica, da cui sono stati espulsi». Nelle ultime elezioni, nota Bertinotti, il voto è stato soprattutto un voto d’opinione, slegato dai temi sociali e dalle appartenenze di classe. Eppure, il voto di classe è un concetto che andrebbe recuperato. Il concetto non si estende solamente ai lavoratori: «Dopo tutto, anche il voto dei “bobo” (bohémien bourgeois), su cui ci sono stati tanti sfottò», ricorda Bertinotti, «era un voto che aveva una sua connotazione sociale».