mercoledì 9 maggio 2007

l'Unità 9.5.07
«Voi di sinistra, antisemiti»
Gerusalemme, attacco a Bertinotti
«Troppi pregiudizi contro Israele». Così la comunità
ebraica italiana accoglie il Presidente della Camera
di Natalia Lombardo


«UN AGGUATO, un’imboscata…»: la sorpresa e l’indignazione è a fior di pelle nella Sinagoga italiana a Gerusalemme: Fausto Bertinotti ha subito un attacco durissimo da parte degli Ebrei italiani in Israele e dal Comites, che gli hanno buttato addosso, come ex segretario di Rifondazione, un’accusa a tutta la sinistra italiana: è filopalestinese e avrebbe fatto negli anni una «pulizia etnica» degli ebrei in Parlamento (tranne Umberto Terracini). Un trattamento che non è stato riservato neppure a Fini, tantomeno a D'Alema. Quasi con rabbia gli ebrei italiani hanno preso di mira Bertinotti come icona di una sinistra traditrice. Lui, sorpreso e furibondo, ha respinto la cannonata con durezza: «Ho avuto una grande emozione entrando qui, ma è stata spezzata dalle parole che ho ascoltato…». «Non me l'aspettavo», confessa dopo ai giornalisti, «ma ci siamo difesi». La moglie Lella è allibita: «non ho parole». Scoppia un caso diplomatico, ad essere fuori di sé è l'ambasciatore italiano a Gerusalemme, Sandro De Bernardin: «Questa è una pugnalata a me… E non me lo sarei aspettato dal Comites - il comitato degli italiani all'estero, qui diecimila persone, non solo ebrei - si sono arrogati il diritto di rappresentare tutti».
Eppure due ore prima il presidente della Camera aveva risposto con la stessa fermezza nell'università Al Quds a studenti e docenti palestinesi che accusano Israele di voler creare «uno stato razzista, con due cittadinanze». Bertinotti ribatte: «Ogni stato che nasce è uno “sgambetto alla storia, ma Israele è oggi è una realtà storica carica di valori simbolici” che vanno riconosciuti».
Hai voglia a spendere fiato in nome del riconoscimento reciproco, «appena esci dagli incontri ufficiali se non dai ragione al tuo interlocutore sei morto», commenta nel lasciare la Sinagoga. Eppure la visita era cominciata nel migliore dei modi, guidata nel museo da David Cassato, ex vicesindaco di Gerusalemme (arrabbiato anche lui per l’accaduto). Poi, in una saletta, il «benvenuto» di Vito Anav, presidente degli Ebrei italiani in Israele, si trasforma subito in requisitoria: «ci auguriamo corregga alcuni dei pregiudizi sul conflitto arabo israeliano che ha gran parte della sinistra italiana di cui lei è stato autorevole rappresentante». Bertinotti ascolta preoccupato. Anav lo chiama presidente della Camera solo per chiedergli un «riequilibrio dell'informazione», perché «metta fine alla parzialità della stampa di sinistra…». In stile berlusconiano Anav elenca le «menzogne circolanti…» contro il popolo ebraico, come il «mettere in prima fila i bambini a tirare i sassi contro i tanks israeliani per favorire incidenti e generare l'impatto mediatico di un esercito cinico che spara ai bambini». Bertinotti si drizza sulla sedia, scuote la testa. Anav attacca il governo: «Come può esserci equidistanza o equivicinanza verso la democrazia e il fondamentalismo?». E' ancora peggio quando parla Beniamino Lazar, presidente del Comites, che legge una lettera del professor Sergio della Pergola, noto demografo, partito lasciando il suo j'accuse alla sinistra che ormai gli ebrei italiani in Israele non votano più: «dal 1975 erano per l'80% per cento di sinistra, ora il 60% ha votato a destra». Poi parte la sparata: dal '67, dalla guerra dei Sei Giorni, la sinistra italiana «ha sempre preso il punto di vista palestinese, mai quello israeliano». Bertinotti è buio in volto. Arriva l'affondo: «dopo Sabra e Chatila - la strage di palestinesi in Libano compiuta dall'esercito israeliano - gli ebrei in Italia sono stati perseguitati, c'è stata una manifestazione davanti alla Sinagoga di Roma e un bambino morì in un attentato». È troppo. Bertinotti batte nervosamente un foglio sulla sedia, l'ambasciatore seduto accanto fa cenno a Lazar di fermarsi, ma il presidente della Camera sibila: «No, ora andiamo fino in fondo». Lazar ci va, fino alla richiesta al governo italiano di «essere più duro con l'Iran».
Il presidente della Camera prende deciso la parola citando De Gasperi: «Trovo qui tutto contro di me tranne la vostra cortesia». E cortesemente rimanda i colpi: «Non posso parlare a nome delle sinistre, semmai invitate uno dei leader; non faccio appello alla stampa perché modifichi i suoi orientamenti; non posso parlare per il governo ma la formula dell’equivicinanza voluta dal ministro degl Esteri è intelligente e parla di rispetto e di dialogo». Non rinnega nulla e ribadisce «l'impegno contro il terrorismo» ma anche il riconoscimento reciproco dei due popoli.
L'incontro finisce così, senza quasi contatti. «Certo sono due popoli che hanno entrambe ragione: i palestinesi sono convinti che Israele voglia creare uno stato di apartheid, e del resto quel muro che divide anche l'Università…» dice Bertinotti. «D'altra parte gli israeliani vivono nel terrore e dicono che il muro ha bloccato gli attentati». Quanto all'antisemitismo, «è un pericolo immanente che va combattuto a fondo» ma senza fare un referendum su ogni affermazione del presidente Napolitano (sull'antisionismo che porta all'antisemitismo). Ma quella «sgrammaticatura dell'attacco a una parte politica» proprio non gli è andata giù.
Agli studenti palestinesi (parecchie donne, ormai in gran parte velate) Bertinotti ha parlato della debolezza europea ed ha anche citato il tabu di Aushwitz. Ma anche qui c'è rabbia e Sami Mussallami, sindaco di Gerico, è durissimo: «L'Europa ha voluto la nascita di Israele, non faccia pagare a noi palestinesi il prezzo di quel che ha fatto agli ebrei».
Missione quasi impossibile quella del presidente della Camera in Medio Oriente: anche la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, gli ha chiesto conto dell'incontro con gli hezbollah in Libano: che siano stati eletti «non basta, il voto è solo un giudizio tecnico, la democrazia si fonda su valori e sui fatti». Il concetto è che non si possono presentare i terroristi in Parlamento, quindi Livni esclude trattative con Hamas. Unica soddisafazione, l'accoglienza fra bandiere italiane e Inno di Mameli da parte della presidente ad interim di Israele e speacker della Knesset, Dalia Itzik, che ha apprezzato gli italiani nella missione Unifil in Libano.
Oggi un'altra prova per il presidente della Camera: è il primo europeo a parlare al Consiglio Legislativo Palestinese, il Parlamento.

l'Unità 9.5.07
Il commento.
Gli attacchi subiti dal presidente della Camera sono stati a prescindere. Perché la sinistra è da condannare...
Un «processo politico». A priori
di Umberto De Giovannangeli


Non è solo un incidente diplomatico. È molto di più. E più grave. Quello che è andato in scena ieri a Gerusalemme è stato un vero e proprio «processo politico». Imputato: Fausto Bertinotti. Giuria e pubblico ministero: i vertici della comunità ebraica italiana in Israele. Bertinotti era in visita in qualita di presidente della Camera, terza carica dello Stato italiano. Di ciò ai «pubblici ministeri» riuniti nell’antica Sinagoga italiana di Gerusalemme, non è importato nulla. Come non è importato che poco prima, davanti a una platea di giovani palestinesi, Bertinotti avesse rilanciato le ragioni di una pace giusta, stabile, fondata sul principio di due popoli, due Stati, due democrazie. Una pace, aveva sottolineato Bertinotti ai suoi interlocutori palestinesi, che passa per un pieno riconoscimento del diritto di Israele ad esistere con la sua identità riconosciuta: quella di Stato ebraico.
Tutto ciò non conta per i «pubblici ministeri» di Gerusalemme. L’occasione è troppo ghiotta per farsela sfuggire: Bertinotti non è più il presidente di uno dei rami del Parlamento italiano, e in quanto tale rappresentante di una intera comunità nazionale; Bertinotti è un uomo di sinistra, un leader della sinistra, e come tale da condannare. Senza appello. E senza diritto di replica. L’incontro con la terza carica dello Stato diviene così l’occasione per scagliarsi contro «la sinistra e l’informazione italiana», accusate, nel migliore dei casi, di «parzialità», nel peggiore di parteggiare per i kamikaze jihadisti che hanno seminato morte e distruzione in terra d’Israele.
L’attacco è totale. Contro la faziosa stampa di sinistra. Contro i partiti della sinistra, senza distinzione alcuna, che dal 1967 in poi hanno operato «una vera e propria pulizia etnica nelle proprie liste elettorali...». E contro un ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, del quale, è la sentenza emessa, «è difficile comprendere come possa parlare di equidistanza o equivicinanza usando lo stesso metro per la democrazia (Israele, ndr.) ed il fondamentalismo (palestinese, ndr.). La sinistra italiana è colpevole tout court. Senza distinzioni, senza eccezioni. E di questa sinistra pregiudizialmente anti-israeliana, Fausto Bertinotti «è stato autorevole rappresentante». Non è uno sfogo, dettato dall’esasperazione. È un attacco politico frontale, meditato. Condotto con una aggressività verbale che non era stata neanche accennata in occasione di un analogo incontro che aveva avuto come protagonista l’allora ministro degli Esteri e leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, che pure, nel suo trascorso politico, aveva l’appartenenza, e un ruolo dirigente, in un partito, l’Msi, che non aveva certo preso le distanze dalle infami leggi razziali del ventennio fascista.
Che nel passato di una parte della sinistra vi siano state posizioni «filo-arabe», è fuori discussione. E che in settori di essa alberghino ancora atteggiamenti unilateralisti (pro-palestinesi), è altrettanto vero. Ma anche in quella sinistra radicale, della quale Fausto Bertinotti resta un punto di riferimento, sono maturate posizioni nuove, che nulla hanno a che spartire con il vecchio, e deprecabile, armamentario anti-sionista. Questa sinistra che ripensa il conflitto israelo-palestinese e che si assume responsabilità sul campo (come in Libano) riceve il plauso del governo israeliano. Questa sinistra che parla di due ragioni, di due diritti che o vivono insieme o insieme si annullano, ripensa (autocriticamente) il proprio rapporto con la leadership palestinese e con il «mito» di Yasser Arafat. Ma ciò non conta per i «pubblici ministeri» di Gerusalemme. Ad un unilateralismo (filo-palestinese) se ne contrappone un altro (filo-israeliano), e quest’ultimo diviene il metro di misura per «sdoganare» la sinistra, come è stato fatto, sul fronte opposto, con la destra «finiana». Un approccio miope, di corto respiro. Sbagliato per gli stessi interessi, e ragioni, che si vorrebbero difendere. La sinistra deve essere amica d’Israele. Ma un’amica vera, che sa distinguere tra pregiudizi, da respingere, e critiche costruttive. Con uno spartiacque fondamentale: che Israele può essere criticato, quando è il caso, per ciò che fa. Ma difeso, sempre, per quello che è: il focolaio nazionale del popolo ebraico. In questo, e per questo, Fausto Bertinotti può dirsi «amico di Israele». Un amico che andava riconosciuto e rispettato. Così non è stato.

l'Unità 9.5.07
Napolitano: carcere solo per i reati più gravi
Il Capo dello Stato in visita a Rebibbia: sulla giustizia soluzioni condivise
Indulto «eccezionale ma necessario». Mastella: in quel modo evitata una collera incontenibile
di Vincenzo Vasile


SOLUZIONI condivise su carceri e giustizia, impegno comune per diffondere la cultura della legalità. Giorgio Napolitano incita il Parlamento davanti a una platea speciale, quella dei detenuti del carcere romano di Rebibbia (in una visita che ha un solo precedente, quello di Carlo Azeglio Ciampi cinque anni fa al carcere di Spoleto). C’è tensione dietro le sbarre: quando il presidente passa qualcuno grida: «Amnistia». E quando gira nell’area nido, che ospita 17 delle 43 detenute con figli minori di 3 anni attualmente recluse assieme ai bambini in Italia, la maggior parte straniere. Ci sono anche, poco distante, le famigliari dei «collaboratori di giustizia», sottoposte a un programma di protezione analogo a quello dei loro congiunti reclusi. Una rappresentante delle detenute, nell'incontro pubblico con autorità e giornalisti, Grazia Middei, pronuncia un intervento sobrio e calibrato: «L'indulto - dice - ha fatto cambiare di colpo la condizione di molti noi reclusi, ma non ha risolto tutti i problemi». Resta soprattutto quello della lunghezza dei tempi processuali, e quello di «applicare tutte le leggi che ci riguardano» e di attuare lo spirito dell'articolo 27 della Costituzione sullo scopo rieducativo della pena. E rimane molto da fare per le misure alternative al carcere: «La detenzione dovrebbe essere veramente l’ultima soluzione». Dai tribunali di sorveglianza giungono molti rifiuti, «che non si comprendono», alle domande di accesso alle misure alternative. Soprattutto, ha aggiunto la detenuta, «per le madri con figli mancano nelle carceri adeguate strutture. Speriamo che in questa legislatura si riesca a provvedere».
Più infiammato, e salutato da applausi scroscianti, il discorso di un rappresentante della sezione maschile di Rebibbia, Emilio Cotugno. Che esprime, insieme, una forte volontà di dialogo con le istituzioni e denuncia le condizioni igieniche e ambientali inadeguate, e la mancanza di adeguate strutture per lo studio, e per agevolarne il reinserimento: «Chiediamo che la società sia meno rigida verso di noi». Napolitano risponde che è sua precisa convinzione che «la pena detentiva debba essere riservata a chi commette crimini che destano maggior allarme, che ledono gravemente valori e interessi preminenti e intangibili». E le misure alternative devono essere «più credibili ed efficaci». Insomma, «l’esecuzione della pena deve avvenire nel rispetto della dignità dei detenuti».
Sull'applicazione delle misure alternative e dei benefici, il presidente ha accolto l’appello dei detenuti affinché siano applicate in modo più continuativo. Napolitano ha ricordato che nel suo primo discorso al Csm pose il problema di ripensare l’intero sistema delle sanzioni. «In Parlamento, pur nella naturale dialettica tra le forze politiche e pur nel dissenso su soluzioni specifiche, si dovrebbe manifestare un impegno comune a perseguire con continuità la politica, che è indispensabile, per trasformare l'amministrazione della giustizia e il mondo penitenziario». Un impegno comune innanzitutto per diffondere fra gli italiani «la cultura della legalità», il più formidabile strumento di prevenzione su cui possiamo fare leva. Servono soluzioni condivise che garantiscano la sicurezza collettiva e il rispetto della legge». E nello stesso tempo «maggiore e più concreta attenzione alle vittime dei reati».
E proprio per gli effetti sul miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, Napolitano ha spiegato di aver salutato positivamente il varo dell’indulto, che «resta un passo eccezionale ma necessario».
Poco prima il ministro Clemente Mastella aveva rivendicato: senza l’indulto «la collera» nelle carceri sarebbe esplosa «in modo incontenibile». E «quell’apocalisse che molti avevano prefigurato, con un aumento del crimine dopo il varo dell’indulto, non si è verificato: sono appena il 12% gli ex detenuti che hanno beneficiato dell’indulto e che sono rientrati in cella».

l'Unità 9.5.07
«Nella guerra alle Br Moro era il prezzo che dovevamo pagare»
Parla per la prima volta Steve Pieczenik che lavorò con Cossiga durante il sequestro
di Marco Dolcetta


A PARIGI, di passaggio dagli Usa, Steve Pieczenik - invitato dal giornalista Emmanuel Amara per intervistarlo per una serie di trasmissioni tv in Francia e la presentazione di un libro - ci permette di avere un colloquio con lui. Durante il sequestro Moro furono molto attivi tre Comitati per la gestione della crisi: ci sono pochi dati per ricostruire con precisione l'attività di questi gruppi, in quanto dagli archivi del Viminale a detta del senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Stragi, sono scomparsi i verbali delle riunioni e altri documenti. L'americano Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato, era il capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Usa, Ufficio che era stato istituito da Henry Kissinger. Come ci ha confermato l'ex ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, Pieczenik venne invitato subito dopo il rapimento di Aldo Moro a fare parte di un Comitato di esperti cui faceva capo, appunto, Cossiga, per fare fronte all’emergenza. Al suo fianco c'era anche il criminologo Franco Ferracuti, che in seguito risultò far parte della P2. Era allora il responsabile della cellula antiterrorista del Dipartimento di Stato. Finito il suo incarico alle dipendenze dell'Amministrazione Usa, molto dopo il caso Moro ha incominciato a scrivere numerosi romanzi di spionaggio.
«Ben Reid, che dipendeva da Cyrus Vance, il ministro degli Esteri, mi convocò - racconta Pieczenik - nel suo ufficio. Si rivolsero a me perché avevo studiato ad Havard e al Mit. Poi Kissinger qualche tempo dopo mi incaricò di dirigere la prima cellula antiterroristica degli Usa. Nel 1978 l'Italia, fino al rapimento Moro, era abbastanza trascurata dai nostri. Quando arrivai mi resi subito conto che il Paese era nel caos. Scioperi continui, manifestazioni sindacali ed estremisti di sinistra, mentre l'apparato dello Stato rimane in mano a vecchi fascisti che poi mi sono reso conto erano stati infiltrati dalla P2. Fra l'altro ho potuto constatare con il ministro dell'Interno di allora Cossiga che costui non aveva nessuna strategia ne alcun piano d'azione».
Cossiga ha parole forti nei confronti di quanto Pieczenik dice: «È alla ricerca di notorietà, visto che ha intrapreso definitivamente la sua attività di scrittore per i libri e per il cinema... Fa affermazioni quanto meno azzardate».
«Quello che mi aveva sorpreso - chi parla ora è sempre Pieczenik - in quei giorni è che i gruppi fascisti tenevano in permanenza le leve del potere in Italia. Mi resi conto in fretta che anch'io ero poco al sicuro. Mi ero quindi reso conto che le Br avevano degli alleati all'interno della macchina dello Stato. Dopo qualche riunione che consisteva nell'identificare il centro di gravità attorno al quale la storia del rapimento girava, ho subito capito che le forze conservatrici volevano la morte di Moro, le Br lo volevano vivo, i comunisti invece, la loro posizione era quella della fermezza politica. Francesco Cossiga lo voleva sano e salvo ma mi diede carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l'ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare. Tutto il sistema italiano era inaffidabile. Negli incontri al vertice, avevo di fronte quella che mi veniva presentata come l'elite dirigente, dei dinosauri dell'epoca mussoliniana e i loro giovani cloni. Erano soprattutto i membri dei Servizi. Anche i Servizi Segreti del Vaticano mi avevano detto di fare molta attenzione. I stessi Servizi Segreti del Vaticano ci avevano aiutato molto a capire come le Br si erano infiltrate nello Stato. Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro».
Pieczenik, continua a raccontare anche nel libro dal titolo Noi abbiamo ucciso Aldo Moro scritto con Emmanuel Amara, che sta per uscire in Francia presso l'editore Patrick Robin, decise la strategia per risolvere a modo suo il caso Moro. «Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l'Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare. Decidemmo quindi, d'accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti».
Il senatore Sergio Flamigni considera la presenza di Pieczenik di fondamentale importanza per l'esito avuto da tutta la vicenda Moro, identico interesse lo ha sempre dimostrato anche la magistratura italiana che si era interessata della questione. Uno di quei giudici, Rosario Priore, ci ha ricordato come a più riprese anche la Commissione Stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, abbia chiesto la sua testimonianza che però a suo tempo, all'ultimo minuto, ha sempre rifiutato. Rosario Priore però ricorda anche come quei Comitati fossero formati da esperti che in seguito si rilevarono essere «antenne» di servizi di Intelligenza di molte potenze straniere.
«Sono stato io - continua Pieczenik - a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. La mia ricetta per deviare la decisione delle Br era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati dicendo a tutti che ero l'unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto. Un giorno chiesi a Cossiga, guardandolo negli occhi se mi potevo fidare di lui. Lui - rispose francamente - lei non può… Presi in mano la situazione e decisi clinicamente come gestire l'esito finale delle Br, uno scambio mortale in termini di stabilità per il Paese e per i suoi alleati. Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarmi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto, questo non lo so. Avrebbero potuto concludere una trattativa con lo Stato, ottenendo delle pene ridotte liberando Moro ma erano troppo legati alla loro logica terrorista, in cui si preferisce essere più terroristi del terrorismo di Stato che io così bene conosco».
Cossiga vuole ribadire come le affermazioni attuali di Pieczenik non siano coerenti rispetto al suo atteggiamento di un tempo. Dopo aver realizzato il suo piano, Steve Pieczenik, in gran silenzio, come era venuto, se ne ritorna negli Usa. Più volte richiesta la sua testimonianza alle varie Commissioni parlamentari sul sequestro Moro non si è mai presentato.

l'Unità 9.5.07
Da oggi a domenica
Voci di «Confine» in scena all’Auditorium


La storica femminista Barbara Duden, che intervistiamo oggi, è uno degli ospiti del Festival di Filosofia di Roma, che si apre oggi all’Auditorium dove proseguirà fino al 13 maggio. Tema di quest’anno i «Confini», nodo nevralgico del nostro presente, in grado di proiettare la riflessione filosofica fuori del recinto delle accademie, mettendola in rapporto con l’esperienza collettiva e con il «senso comune» (un tema che percorre anche la Fiera del libro, che si inaugura domani a Torino). Tavole rotonde, Lectio Magistralis, incontri su «pensatori di confine», incontri su «voci di confine», Caffè filosofici, daranno voce ad alcuni tra i più interessanti pensatori, intellettuali e scrittori di oggi, tra i quali: Marc Augé, Marco Bellocchio, Remo Bodei, Andrea Camilleri, Franco Cordero, Peter Eisenmann, Carlo Freccero, Umberto Galimberti, Giulio Giorello, Edouard Glissant, Hanif Kureishi, Renato Parascandolo, Nicola Piovani, Tariq Ramadan, Fernando Savater, Eugenio Scalfari, Peter Sloterdijk, Gianni Vattimo.
Completano il programma, tre spettacoli teatrali (Io, Charles Darwin tracce e voci dalla mia vita, con la regia di Valeria Patera; Il suono del Logos, che propone voci e volti di Norberto Bobbio, Noam Chomsky, Hans Georg Gadamer, Emmanuel Levinas, Karl Popper, Olivier Sacks con musiche di Luca Francesconi, David Lang, Philip Jeck, Claude Lenners, Alvin Curran, Helmut Oehring, interpretate da Alter Ego, Alvin Curran e Philip Jeck; Quattro Cosmicomiche di Italo Calvino, una narrazione recitata e concertata, di e con Graziella Galvani), una rassegna di cinema, lezioni di yoga e una sezione dedicata ai bambini.

l'Unità 9.5.07
Guardare gli etruschi per vedere noi stessi
di Marco Innocente Furina


DUE MOSTRE a Siena e a Chiusi riuniscono per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali della Collezione Bonci Casuccini, una delle più importanti raccolte private italiane

A scuola abbiamo tutti studiato la storia di Porsenna, il potente re di Chiusi che cinse d’assedio Roma per rimettere sul trono Tarquinio il superbo scacciato dai cittadini che volevano instaurare la Repubblica. Lo storico dell’età d’Augusto, Tito Livio, racconta che il re etrusco, ammirato dal coraggio degli assediati - chi non ricorda Muzio Scevola che punì col fuoco la mano rea di aver fallito il colpo contro l’aggressore? - tolse le tende e lasciò liberi i romani. Probabilmente le cose andarono diversamente - lo lascia intendere Plinio il vecchio che, meno fazioso di Livio, ci informa che gli etruschi interdirono ai romani persino l’uso del ferro (il minerale con cui si fabbricavano le armi) - ma la storia, si sa, la scrivono i vincitori e coi secoli Roma conquistò un impero, mentre Chiusi s’addormentava fra le belle colline toscane che la circondano. Ma ai tempi del re Porsenna era una delle più importanti città d’Etruria. «Clevsi» (questo il suo nome etrusco) faceva parte della dodecapoli, la lega che riuniva le maggiori città-stato del tempo e si voleva addirittura fondata da Cluso, figlio di Tirreno, il principe lidio che, secondo Erodoto, guidò la migrazione di quell’antico popolo dalle coste dell’Asia minore fino in Italia. Insomma, una grande città dell’epoca di cui tuttavia, almeno in superficie, non è restato granché perché «gli etruschi costruivano tutto in legno» e per questo le loro città «sono svanite completamente, come i fiori». Sono rimaste «solo le tombe, i bulbi». E sono le tombe che anche a Chiusi ci hanno restituito la bellezza e il mistero di questa straordinaria civiltà.
Tutto comincia (o ricomincia) nei primi decenni dell’800 quando un proprietario terriero locale, Pietro Bonci Casuccini, grazie ai ritrovamenti sui terreni di famiglia, mette insieme il nucleo originale della collezione. Alla sua morte per evitare che gli eredi vendessero tutto al Louvre o al British Museum intervenne lo Stato italiano. Per la favolosa cifra di 50 mila lire il ministero della pubblica istruzione si aggiudicò i diecimila pezzi (diecimila!) della raccolta e li spedì a Palermo. Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, anche dimostrando che tutti gli abitanti della penisola condividessero la stessa cultura. Così gli «etruschi» finirono al museo A. Salinas del capoluogo siciliano. Ma il demone dell’archeologia si impadronì anche di un altro Bonci Casuccini, Emilio, pronipote di Pietro, che alla fine dell’800 tornò a scavare i terreni aviti. La formazione di questa seconda raccolta (conservata al museo archeologico di Siena) fu guidata dal grande storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora impegnato nella redazione della sua tesi di laurea proprio sulle necropoli chiusine.
Oggi, a distanza di 150 anni, la mostra dal titolo Etruschi. La collezione Bonci Casuccini, riunisce per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali di una delle più importanti e ricche raccolte private italiane. La rassegna, (in programma sino 4 novembre prossimo), propone una selezione di 200 reperti e si articola in due sedi: il complesso museale di Santa Maria della Scala a Siena e il museo archeologico di Chiusi. Nella più vasta sede senese si possono ammirare sculture in pietra di pregevole fattura (sarcofagi, urne, cippi, statue) e dei magnifici esempi di ceramica etrusco-greca figurata. Il percorso espositivo è inoltre arricchito dalla ricostruzione della Tomba del colle Casuccini, anche detta Tomba del Leone, un ipogeo a più camere impreziosito da un ciclo di affreschi raffiguranti scene di banchetto, giochi funebri e danze, risalente al 460 A.C. Gli affreschi della Tomba - oggi non visitabile per motivi di conservazione - furono riprodotti da Guido Gatti poco dopo la sua scoperta nel 1833. Conservati al museo archeologico di Firenze, nessuno li aveva più potuti ammirare dalla disastrosa alluvione del ’66. Una possibilità invece restituita dalla rassegna senese, che grazie alle riproduzioni del Gatti, permette ai visitatori di «entrare» nella Tomba e apprezzarne dall’interno la volumetria e i dipinti.
Piccola ma di gran pregio, la sezione chiusina è interamente dedicata alla scultura arcaica degli antichi tirreni. E dalle botteghe artigiane della città di Porsenna viene lo straordinario Plutone. La statua, uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca, rappresenta una figura maschile seduta, il cui busto cavo doveva servire probabilmente a contenere le ceneri del defunto.
Chi verrà a visitare questa mostra non si aspetti, come sempre quando si parla di arte etrusca, le grandi composizioni formali della civiltà classica; la perfezione, la gravità, la solennità dell’arte greco-romana. «Nell’istinto etrusco sembra esserci stato - scrive David H. Lawrence - un effettivo desiderio di conservare intatto il naturale senso di comicità della vita». Una civiltà quella etrusca che per l’autore de L’amante di lady Chatterley, racchiude, più d’ogni stratificazione successiva, l’anima profonda degli italiani. «L’Italia di oggi è più etrusca che romana nelle sue vene; e lo sarà sempre. In Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo ed il germogliare del grano: sarà sempre così». Per questo, se non potete andare a Siena e Chiusi, andate a Palermo, visitate Villa Giulia a Roma o i musei di Perugia, di Firenze, di Tarquinia, di Volterra. Insomma, andate ovunque ci siano gli etruschi, andateci per riscoprire, in quei visi, e in quei sorrisi, un po’ di noi stessi e delle nostre radici.

Repubblica 9.5.07
La riscoperta del socialismo
di Aldo Schiavone


Le parole, si sa, spesso durano più delle cose che indicano. E hanno molte vite: sembrano polverose e annerite – ridotte come fossili inerti – ma poi, all´improvviso, tornano (e non si sa per quanto) a riempirsi di luce. Sta accadendo con "socialismo", che adesso tutti riscoprono (dopo una lunga stagione diciamo non proprio fortunata), e fanno a gara per esporre, in un modo o nell´altro, ben visibile sulle proprie bandiere: da Fassino (che si impegna con appassionata solennità a non perderne in alcun modo la memoria), a Boselli (che vuole invece ricongiungere a quel nome il suo partito), per non dire di Mussi e di Angius, che idealmente vi dedicano una dolorosa separazione, fino a Bertinotti, a Diliberto.
E´ utile questo ritorno? A me pare, francamente, di sì, se sappiamo distinguere emozioni e concetti; idee e stati del cuore.
"Socialismo" è una parola che viene da un mondo scomparso. Perduto definitivamente, e che non riapparirà mai più. Ci riporta ai tratti di fondo della rivoluzione industriale; alla morfologia elementare della lotta di classe come motore della modernità; alla natura proteiforme, analiticamente sfuggente ma storicamente schiacciante, dello sfruttamento capitalistico lungo tutto l´arco dell´ascesa e del consolidamento borghese; alla contraddizione fra il carattere sociale della produzione nel sistema di fabbrica meccanizzato e il controllo privato dei suoi fattori e delle sue condizioni (la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, nel pensiero degli antichi maestri).
Oggi, di tutto questo non resta più nulla, o quasi, almeno nella nostra parte del mondo. Non la fabbrica meccanica come modello produttivo totale; non le strutture di classe; non il lavoro operaio (o comunque salariato) in quanto produttore della parte dominante della ricchezza sociale. Quasi due secoli di lotte – spesso condotte proprio in nome del socialismo – non meno di una sconvolgente rivoluzione tecnologica, hanno mutato radicalmente lo scenario intorno a noi. E il cambiamento ha travolto anche il fondamento concettuale (e politico) della variante "socialdemocratica" classica, che si fondava sulle stesse premesse materiali – base operaia e grandi industrie – solo prefigurando strategie correttive e rimedi diversi. Craxi e dopo di lui Blair, ciascuno a suo modo, lo avevano del resto capito benissimo e precocemente.
Se dunque, quando diciamo "socialismo", vogliamo riferirci a un´interpretazione trasformatrice della realtà, a un quadro di obiettivi politici definito, o a un´ipotesi concreta di configurazione sociale prospettabile per il nostro avvenire, quel nome non ha letteralmente più senso. Designa solo il vecchio futuro di un passato che ha preso un´altra direzione. Ma il punto è che quella parola non vuol dire solo questo. Due secoli di storia le hanno anche consegnato e radicato un valore evocativo del tutto diverso, e sganciato ormai completamente dal suo autentico e originario contenuto conoscitivo e programmatico. L´hanno tramutata, cioè, da paradigma a metafora, almeno per la coscienza europea.
Ne hanno fatto per antonomasia la metafora della lotta per l´eguaglianza, l´espressione moderna di un´aspirazione antichissima, che ha attraversato e dato forma alla storia dell´Occidente. Ebbene, se richiamarsi al socialismo vuol dire tenere aperto, qui e ora, l´orizzonte dell´eguaglianza, credo proprio che si faccia bene a non smarrirne la traccia, nel momento in cui un intero universo di significati e di esperienze sta sparendo sotto i nostri occhi, e l´intera organizzazione politica della sinistra sta prendendo faticosamente atto, finalmente anche in Italia, che un lungo e tormentato capitolo della sua storia si è chiuso per sempre. No, quel punto di riferimento non va cancellato. La rivoluzione in cui stiamo entrando – la terza rivoluzione tecnologica nella storia umana, dopo quella agricola e quella industriale – farà precipitare su di noi problemi e alternative che non potranno essere affrontati se non riproponendo con convinzione e con forza un´identità egualitaria dell´universalità umana come fine ultimo della nuova forma del mondo.
Ma di quale eguaglianza stiamo parlando?
Dobbiamo, oggi, saper liberare questa idea dalla catastrofe della sua versione comunista – un tragico sogno del mondo industriale, con dentro il fumo delle ciminiere e il sapore del carbone e del ferro – staccandola dal mito della socializzazione dei produttori, dalla falsa immagine di un´economia rovesciata rispetto a quella capitalistica, che potesse miracolosamente generare diffuse condizioni di parità in modo spontaneo e definitivo (il vecchio chiodo di Marx).
Bisogna spostare insomma l´asse dell´eguaglianza dall´economia alla morale: verso un´etica generale della specie e un´ipotesi di soggettività e di cittadinanza capaci di elaborare figure di equità non seriali, non ripetitive, mai divenute e sempre in atto, costruite come doveri della ragione morale e non come necessità dell´ordine economico. E immaginarvi intorno uno stile di socialità mite, dove la solidarietà e l´equilibrio comunitari mitighino la dismisura, la sproporzione e l´asprezza della competizione fra gli individui e fra i gruppi.
Come mantenere aperta questa prospettiva per tutta la specie, e non solo per quella sua parte privilegiata dallo sviluppo degli ultimi secoli, sarà la sfida cui dovremo dare una risposta, e sarà il discrimine fra chi guarda al nuovo come un´occasione di emancipazione e di riscatto, e chi lo vede invece solo come un´opportunità di profitto. Stare fra i primi, forse, vuol dire ancora dirsi socialisti.

Repubblica 9.5.07
La medicina. La scienza fra tecnologia e religione
di Umberto Galimberti


Il passato è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza

La scienza applicata alla salute si chiama "medicina". Il suo scopo, come dice Ippocrate, è quello di «evitare i mali evitabili». Il suo modo di procedere, come ci ricorda Aristotele figlio di un medico, è quello di «aiutare la natura a risanarsi. Non è infatti il farmaco a guarire, ma la natura coadiuvata dal farmaco». Questo non ci deve far dimenticare che è propria della natura umana la "mortalità" che i greci avevano ben presente, mentre i cristiani, sedotti dalla fede nella vita eterna, meno. Ciò ha determinato una sorta di "superstizione scientifica", come la chiama Jaspers, che investe la figura del medico di quell´alone di sacralità di cui, nel tempo antico, erano circondati i sacerdoti. Questa contaminazione tra scienza medica e fede religiosa è antica e ben radicata nel vissuto degli uomini.
Dai fondatori di religioni che acquisivano seguito per le guarigioni miracolose che operavano ai processi di santificazione che esigono come prove le guarigioni fisiche, è una sequenza ininterrotta dove la categoria religiosa della "salvezza" si contamina con quella medica della "salute". Questo stretto rapporto trova un´ulteriore conferma nella visione che la religione e la scienza hanno del tempo. Per la religione, infatti, il passato, contrassegnato dal peccato originale, è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza. Allo stesso modo per la scienza il passato è male da imputare all´ignoranza, il presente è riscatto reso possibile dalla ricerca, il futuro è speranza dischiusa dal progresso scientifico.
Oggi questa antica alleanza tra scienza medica e fede religiosa è entrata in profondissima crisi, dovuta al fatto che tra scienza e religione si è inserito quell´ospite inquietante che è la tecnica, la quale rende possibile quello che per natura è impossibile. Basti pensare alla fecondazione artificiale, al congelamento degli embrioni, al trapianto degli organi, al cambiamento di genere, alle cellule staminali in grado di ricreare tessuti, alle pratiche di rianimazione, all´accanimento terapeutico, per non parlare della genetica, capace di predire con buona approssimazione l´insorgenza ineluttabile di malattie, fino a quel limite che sottrae agli uomini l´imprevedibilità della loro morte. A regolare il procedimento tecnico-scientifico è il principio che "si deve fare tutto ciò che si può fare" in base alle conoscenze acquisite, a cui la religione contrappone il principio etico del limite che ha nell´ordine della natura il suo riferimento.
Come uscirne? Una strada c´è, percorrendo la quale incontriamo due segnalazioni. La prima ci dice che la natura non è "buona", ma semplicemente "indifferente" alla sorte umana. Non si spiegherebbero diversamente epidemie, pestilenze, inondazioni, siccità, fame, malattie, per porre rimedio alle quali è nata la scienza. La seconda ci dice che non possiamo utilizzare un´etica i cui principi scaturiscono da una concezione della natura come ordine immutabile, quando oggi la natura è in ogni suo aspetto manipolabile. Per il mutamento del contesto un´etica sì fatta non è più proponibile, dal momento che non si può impedire alla scienza che può di non fare ciò che può. Il problema allora diventa quello della "misura" che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità "phronesis", che siamo soliti tradurre con "saggezza", "prudenza", e la eleva a principio regolativo della prassi non solo medica, perché le decisioni e i comportamenti sono in continua evoluzione, e questo a maggior ragione in presenza dell´accadimento scientifico. Non resta allora che affidarci al buon uso della ragione, perché questa è la condizione umana da conciliare con l´altra nostra imprescindibile esigenza che è il bisogno di conoscenza.

Repubblica 9.5.07
In nome della Madre
di Massimo Cacciari


Da domani a Bologna una serie di incontri e letture
Il termine "patrius" è comune a tutti gli idiomi indo europei, mentre non si registra "matrius"
Con timore e tremore la mitologia e anche la cultura classica cercano la figura materna, il Grembo
È Rhea (o Terra o Hera) ad allevare Zeus e a permettere al nuovo Dio di vincere il padre
Il cristianesimo costruì l´immagine della Vergine che genera lo stesso Dio

La diffusione della figura della Madre lungo tutto il neolitico africano e asiatico, anatolico e mediterraneo, segna innegabilmente un´era nella quale, attraverso i volti di distinte divinità e differenti simboli, il mondo del divino si struttura attorno alla Signora, alla Donna come «potnia», colei che detiene il potere supremo. Di questo antico, pre-storico predominio, che non va inteso (e banalizzato!) in senso giuridico-politico, recano testimonianze evidenti tutte le mitologie e culture successive.
Gli dèi olimpici, il Comando del Padre Zeus si «innalzano» ancora su questo fondo, abissale e tremendo, invisibile e inattingibile come quello dell´alto mare, vero, cioè, fondo pelasgico, e sempre ne ricordano, loro malgrado, la pre-potenza. La mitologia greca narra, a saperla ascoltare, di un polemos incessante tra il dio del Cielo, svettante e ricoprente la Terra, e la Grande Madre ingenerata, come ingenerati sono Notte e Chaos, Gaia infaticabile.
Da lei lo stesso Urano stellato. Da lei la stessa stirpe di Zeus. È lei, Rhea (stesso nome di Terra, così come lo è Hera, la madre argiva) ad allevare Zeus, a permettere al nuovo dio di sopravvivere al padre. È lei a difendere il Figlio e a consentirne la vittoria.
E così le grandi dee dell´Olimpo conservano nomi pre-ellenici: Artemide ha in Efeso la sua dimora, Athena in Lindos. Nessun mito è più drammaticamente caratteristico della lotta condotta dagli olimpi per sottrarre alla Madre il dominio di quello di Athena generata dal Padre! Con quanta e quale fatica il Padre appare qui costretto ad avvalersi della natura della donna per prevalere! E tuttavia è Athena ad imporre il suo nome alla polis per antonomasia. E l´eroe eponimo, Eretteo, reca il nome della terra (Era) confitto nel proprio.
Con timore e tremore la mitologia e la cultura classica volgono lo sguardo alle Madri. E´ questo il viaggio più seducente e pericoloso. Lo sa ancora il Faust di Goethe, e ancor più la sua «guida» Mefistofele, che invano lo mette in guardia dal voler sprofondare nel loro regno. Esso è l´«inesplorato inesplorabile», «ciò» che dà vita e la toglie, grembo e tenebra, inizio e compimento, letto nuziale e talamo di Persefone. Dà vita a ciò che morrà, e dalla morte trae vita. A nessun ente permette di stare fisso nella forma in cui si manifesta. Per tutti è pharmakon: ciò che alimenta e ammala. Coincidenza di opposti.
Una lunga via conduce dalle leggi antiche, non scritte delle Madri alla esclamazione di Athena, generata dalla mente di Zeus: «del tutto io sono del Padre». Né le Erinni sono alla fine sconfitte e negate. E´ necessario conciliarle al nuovo potere. E ciò avviene sul luogo stesso, la collina dell´Areopago, dove le Amazzoni avevano stabilito il loro campo nella lotta contro il maschio Teseo. Oreste, difeso da Apollo, primo tra gli olimpi dopo Zeus, non viene sacrificato per l´uccisione della madre, ma «a patto» che Athena stessa assuma in sé gli attributi materni, che venga venerata nel Metroon di Atene. Insomma, che Atene sia metropoli, città della Madre.
Così noi, millenni dopo il processo decisivo rappresentato insuperabilmente da Eschilo nelle Eumenidi, dopo l´affermazione dell´Olimpo, da un lato, e del Dio Padre di Gerusalemme, dall´altro, continuiamo a dire «metropoli», a dire «lingua madre». Poiché sentiamo, senza più comprenderlo, che le radici del nostro linguaggio risalgono a un «fondo»che rimane incatturabile, a un grembo sempre generante e invisibile. Mentre invece l´artificio delle leggi che regolano la nostra esistenza e la determinatezza dello spazio in cui provvisoriamente viviamo, sono patrii, appartengono alla « evidenza» del padre. Il termine patrius è comune a tutti gli idiomi indo-europei. Mentre nessuno di essi conosce qualcosa di analogo a «matrius». Patrius indica ovunque il possesso, la salda, indiscutibile condizione del possedere. Le antiche leggi di Mani, tremendo testo delle origini indo-europee, stabilisce che madri, spose e schiave non posseggano nulla. Esse non possono avere «patria potestà». Vi è, sì, in latino «mater familias», ma l´espressione non ha assolutamente significato analogo a quella di «pater familias». Essa indica semplicemente colei che ha generato i filii, i discendenti liberi.
Rimanda, cioè, alla maternità, al maternus. E il suffisso «inus» indica sempre ciò di cui qualcosa è fatto, la materia di qualcosa.
Forse nulla, insomma, «giudica» il carattere delle nostre culture più del fatto che in tutti i nostri idiomi esista «maternus» e non «matrius». E tuttavia il dominio del Padre non può evitare di subire i ricorsi della Grande Dea, in forme sempre nuove, ma sempre sul fondamento del Simbolo originario.
Le forme necessariamente invecchiano. E più rapidamente ancora le leggi e le patrie. Il pensiero lo comprende ed è spinto, come Faust, a fare ritorno, oltre esse, alla Madre. Ma «dove è la Madre?». Non in questo o in quello, non in questa o quella fonte. Ma nella possibilità in generale che qualcosa sia, oltre ogni forma o apparenza. Nella forza che fa incessantemente che l´essere sia, senza arrestarsi mai nell´apparire determinato di questo o quell´ente. Nella forza che fa «correre» gli enti lungo un sentiero che lei sola conosce, e custodisce gelosa. L´opposto di quella «passività» del carattere femminile che è l´idea dominante delle epoche in cui il «diritto paterno» pretende di mascherare la propria avvenuta decadenza.
Quando gli dei maschi, che Plotino vede caratterizzati dal Nous, dal Pensiero, protraggono la loro vita, a difesa della propria forza e del proprio stato, aggrappati alle loro «leggi scritte» come potessero durare in eterno, allora necessariamente ricorre quel grido «alle Madri!»; «giù» di nuovo, per risalire alla potenza del grembo di tutte le forze, a nuove nascite, che nessuna legge può descrivere o prevedere. «Giù» di nuovo, «in alto», alla Grande Dea, generatrice magica delle apparenze, alla Aurora, Mater Matuta, che coccola il bimbo di sua sorella Notte, il Sole. Così avvenne con i trionfi tardo-antichi delle dee di Oriente, di Iside in particolare. Ma fu anche con tali simboli che il cristianesimo costruì la grande immagine della Vergine, di colei che è così potente nella sua umiltà da generare lo stesso Dio. Senza una tale immagine non si potrebbe spiegare la «lunga durata» del cristianesimo stesso.
Così forse sta avvenendo nel nostro secolo. Lo Spirito che soffia dove vuole e che col suo soffio rigenera, oltre ogni umana attesa e speranza, è «sophia» della Madre, sua sapienza e sua arte. «Mia Madre, lo Spirito»: questo affermano le grandi epoche di crisi, di contro al monoteismo astratto e assoluto di quello Spirito che analizza e dissacra, che conosce soltanto il linguaggio dell´utile e del possesso, incapace di danza e di dono, e i cui trionfi hanno perciò sempre il sapore della pesantezza, della vecchiaia e dell´impotenza, alla fine.

Repubblica 9.5.07
Con "Repubblica" una raccolta di scritti di Zagrebelsky
Se la Chiesa diventa un partito
di Nello Ajello


Raccogliendo sotto il titolo Lo Stato e la Chiesa un´antologia dei suoi scritti pubblicati negli ultimi sette anni su Repubblica - e il volume si può acquistarlo nelle edicole allegato al quotidiano - Gustavo Zagrebelsky ha disegnato un panorama molto attuale e di grande drammaticità. Attuale, perché negli ultimi anni, soprattutto dopo l´ascesa al trono pontificio di Joseph Ratzinger, l´interventismo della Santa Sede nelle vicende politiche italiane ha assunto un´accentuazione rilevante. Drammatico, perché sempre più di rado si levano, dall´interno delle pubbliche istituzioni, delle voci se non altrettanto combattive, almeno dissonanti in modo esplicito da questo genere di prevaricazioni.
Soprattutto quando si discutono argomenti di natura etica o attinenti alla scienza la Chiesa fa irruzione tra i contendenti che si misurano - o, a volte, fingono - nell´agone politico. E non lo fa soltanto come portatrice di quella «moral suasion» che si addice a una potenza di elevata dignità spirituale e di superiore portata ecumenica, ma con il linguaggio concitato, l´energia pragmatica, il tono pugnace e l´astuzia tattica di un partecipante alla contesa. Questo patrocinio esercitato sulle vicende dell´Italia trasforma l´autorità ecclesiastica - scrive Ezio Mauro nella sua prefazione al volume di Zagrebelsky - in un qualcosa che è insieme «parte e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione». Il tutto, naturalmente, molto «secolarizzato» e pochissimo solenne, al di là delle tradizioni di prudenza diplomatica che alla Santa Sede vengono di solito attribuite. Il fatto che la Chiesa stessa dia per automatica l´obbedienza dei politici cattolici alle tesi di cui la gerarchia è paladina si rivela, d´altronde, giusto: ogni sua richiesta trova chi la soddisfa nel nostro ambito parlamentare e perfino nelle file del governo, per desiderio di aderire a un conformismo che si presume imperante, o - che è un po´ lo stesso - per la sensazione che i cattolico-clericali siano in aumento, a dispetto della effettiva scristianizzazione del nostro Paese.
Va sottolineato a questo proposito il fatto che in determinate occasioni - come il referendum sulla procreazione assistita cui Zagrebelsky dedica un corposo capitolo - l´appello confessionale è stato rivolto direttamente ai partecipanti al voto, e nella forma più elementare e capziosa: quella dell´invito ad astenersi per evitare l´acquisizione del quorum. Quella volta la Chiesa ebbe facilmente partita vinta: ai «veri astensionisti», a coloro cioè che usano disertare gli appuntamenti referendari, si sommarono i «falsi astensionisti», persuasi dall´appello della Gerarchia. Qui - e non qui soltanto, i lettori potranno accorgersene - il rigore scientifico di uno studioso qual è Zagrebelsky cede a un surplus di sacrosanta passionalità, avvertendo quella campagna elettorale (anzi, più precisamente, anti-elettorale) della Chiesa, e l´obbedienza che le si prestò, come una manifestazione «di prepotenza, di imposizione, di slealtà».
La casistica del volume è ampia. I temi, i concetti e le discussioni che l´autore affronta scavalcano talvolta il caso-limite offerto dal nostro Paese. Affiora nelle pagine quella figura politico-culturale di conio relativamente nuovo che è «l´ateo clericale» o il «teologo politico», o il «radicalista cristiano», la cui attitudine a strumentalizzare la religione in funzione conservatrice lo rende un eroe del nostro tempo a prescindere dalla collocazione geografica: i Dominionists ne sono un´invadente versione statunitense, mentre i restauratori delle «radici cristiane», con relativa «identità» hanno scelto come loro atelier privilegiato l´Europa e le sue istituzioni unitarie. Zagrebelsky misura con accenti severi fino a che punto, qui da noi, la condotta interventista della Chiesa rischi di travolgere lo stesso Concordato, «corrodendone le basi di legittimità». Si domanda se negli «odierni rapporti tra Stato e Chiesa», particolarmente in Italia, si rifletta più lo spirito del Concilio Vaticano II o la dottrina di quel Cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), in virtù della quale si riteneva lecita l´ingerenza della Chiesa in ogni affare dello Stato tutte le volte che la Gerarchia «avesse invocato una ragione religiosa».
Su tutto questo aleggia un pericolo, che va registrato con l´accorata malinconia che in quest´opera si respira: il ritorno indietro della convivenza civile, l´impossibilità del dialogo. Il doloroso disagio, per dirlo con una citazione, di quei «cattolici fervidi» di cui scriverva Arturo Carlo Jemolo, «che conoscono la comunione quotidiana e l´adorazione notturna, che credono fermamente nei miracoli, e che invece sono dei laici». A qualcosa di molto simile allude Zagrebelsky quando esclama: «Che triste delusione per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare», il vedere «la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d´una partita». Con la politica a fare da arbitro.

Repubblica 9.5.07
La Bibbia sui banchi di scuola
Umberto Eco e Pietro Scoppola tra i firmatari


La tragica inefficienza dell´ora di religione
una serie di corsi per tutti i docenti
Oggi l'associazione Biblia presenterà al ministro Fioroni un appello con diecimila firme per promuovere la conoscenza del Libro dei Libri

La marcia dei diecimila termina oggi in Campidoglio. Diecimila firme per un appello che sollecita il ministro dell´Istruzione (e l´opinione pubblica) a rendersi conto che senza conoscenza della Bibbia non c´è cultura europea. Diecimila firme tra cui spiccano nomi eccellenti come gli scrittori Umberto Eco e Claudio Magris, lo storico Pietro Scoppola, i filosofi Massimo Cacciari e Remo Bodei, i biblisti Gianfranco Ravasi e Rinaldo Fabris, il rabbino di Ferrara Luciano Caro, il sociologo Giuseppe De Rita, il vescovo Bruno Forte, il teologo Piero Coda, il preside della Facoltà Teologica Valdese Daniele Garrone, l´astronoma Margherita Hack, il politico Vannino Chiti, il linguista Tullio De Mauro, gli ex presidenti delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi ed Amos Luzzatto, l´industriale Giancarlo Lombardi, il banchiere Alberto Milla, l´ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky e tanti altri ancora: cattolici, laici, protestanti ed ebrei.
A lanciare l´idea di raccogliere le firme è stata l´associazione Biblia, che dall´84 si batte per la riscoperta del Libro dei Libri. L´ha fondata Agnese Cini Tassinari, una tenace e amabile signora fiorentina, già dirigente Scout, interprete parlamentare e docente di storia e letteratura francese. Ci voleva una spinta protestante per dare una scossa alla pigrizia di un Paese che è cattolico al battesimo, al matrimonio, al funerale o (spesso per convenienza) sui banchi del parlamento, ma che coltiva una felice ignoranza del testo sacro del cristianesimo. «Mia madre è svedese – racconta la Cini Tassinari – e perciò avevo frequentato le scuole in Svezia. Lì la Bibbia si studia sul serio». Tornata in Italia lo shock: «Mi resi che conto che l´Italia cattolica conosceva così poco questo splendida biblioteca di libri, che è la Bibbia: tanto ricca di valori, domande, risposte».
Biblia è nata così. Un´avventura fatta di conferenze, di incontri, nei quali ben presto sono stati coinvolti laici, protestanti, ebrei, musulmani, teologi e scienziati. Proprio quando si è profilato il fantasma dello scontro di civiltà, Biblia ha organizzato due importanti convegni su «Bibbia e Corano» e «Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano».
L´appello è nato così, strada facendo. Nella convinzione che poco si capisce dell´Occidente, della sua storia, della sua arte, della sua letteratura e persino del suo diritto, della sua economia e della sua politica, se la Bibbia viene data per assente. La raccolta delle firme è partita sul finire del 2004, nel ventennale dell´associazione, con un proclama essenziale: «Il vasto, millenario influsso di temi e simboli, che hanno la loro origine nella Bibbia, permane nello spazio come nel tempo. E´ decisivo fino alla crisi del sacro nell´epoca moderna e resta ancor oggi fonte primaria di un processo culturale ineludibile».
Ciò che l´appello mette in evidenza, in controluce si può dire, è la tragica inefficienza di quell´ora di religione – finanziata dal bilancio pubblico con l´8 per mille – che accompagna lo studente dalle elementari (a volte anche prima) fino alla maturità senza dargli uno straccio di istruzione biblica. Si chiama testualmente «Insegnamento della religione cattolica», ci lavorano oltre quindicimila insegnanti e dopo anni ed anni gli studenti escono da scuola senza conoscere il Libro che Cristo citava e su cui si basa tutta la religione cristiana.
Stamane in Campidoglio l´iniziativa verrà presentata in un convegno con Pietro Scoppola, Rosario Gibellini e Antonio Paolucci. Ma subito dopo Agnese Cini contatterà il ministro Fioroni per andare a consegnargli personalmente le firme. Al Miur (Ministero dell´istruzione, università e ricerca) è già pronto nei dettagli un protocollo, che attende solo la firma del ministro, e che varerà corsi di aggiornamento per i docenti allo scopo di valorizzare il «giacimento biblico» della nostra cultura. Biblia, cui si sono aggiunte altre istituzioni interessate, ne sarà responsabile.
Un protocollo simile, in verità, era già stato firmato da Tullio De Mauro, ministro dell´Istruzione nell´ultimo governo di centro-sinistra, prima che Berlusconi vincesse le elezioni del 2001. Ma, cambiato il governo, non se ne fece nulla.
Ora si riparte. «Non vogliamo creare una nuova materia accanto alle altre», spiega il professor Piero Stefani, coordinatore del comitato scientifico dell´associazione. «Ciò che conta – sottolinea – è mettere in luce l´apporto della Bibbia nelle varie materie curricolari». Con il ministero sono già state individuate quattro aree di approfondimento: Bibbia ed Ellenismo (per i Licei classici), Bibbia e Scienza (per i Licei scientifici), Bibbia ed Europa, ed infine Bibbia e America. Da scoprire c´è moltissimo. Per esempio che la matrice biblica è stata un pungolo potente nella storia della ricerca scientifica occidentale. Anche attraverso i momenti di conflitto.

Repubblica 9.5.07
In quelle pagine le radici della nostra civiltà
Il testo del documento

Nel dibattito sulla riforma dei programmi di insegnamento permane un´attenzione inadeguata nei confronti della Bibbia e della sua influenza diretta e indiretta sulla storia dell´Occidente. E questo nonostante si tratti di una carenza storica - già più volte denunciata - della scuola italiana. Tale carenza incide negativamente sulla comprensione della letteratura, dell´arte, della musica, della politica, del diritto, dell´economia e in genere della storia culturale dell´Occidente. Il vasto, millenario influsso di temi e simboli che hanno la loro origine nella Bibbia permane nello spazio come nel tempo; è decisivo fino alla crisi del sacro nell´epoca moderna, e resta ancor oggi fonte primaria di un processo culturale ineludibile.
E´ necessario che la scuola italiana si accosti, in modo culturalmente maturo, ai testi sacri che hanno dato forma alle tradizioni religiose, alla storia, alla civiltà di cui siamo figli. La Bibbia ebraica e la Bibbia cristiana (quest´ultima formata dall´Antico Testamento e dal Nuovo) costituiscono, nel loro reciproco confronto, un nodo culturale ricco, e spesso drammatico, senza il quale la comprensione della nostra civiltà risulta fortemente penalizzata. L´importanza di questa eredità non è inferiore a quella della cultura greco-romana. Il raffronto tra il mondo biblico e quello classico testimonia che l´incontro con l´"altro" è componente intrinseca al sorgere stesso della civiltà occidentale.
Una riscoperta consapevole e rigorosa della matrice biblica dell´Occidente è urgente in questo momento storico, segnato dall´inedita presenza in Italia e in Europa di comunità religiose numericamente crescenti e diverse da quelle di origine ebraica e cristiana. In questa direzione appare tanto ovvio quanto doveroso ricordare che l´Islam, nel suo testo fondante, fa proprie moltissime componenti del messaggio biblico. Riflettere dunque sulla comune eredità biblica del Vicino Oriente e dell´Occidente non comporta chiusure né contrapposizioni, ma anzi potenzia le capacità di comprensione di altre civiltà e altri universi religiosi.
Alla luce delle considerazioni qui esposte, i membri del Comitato Promotore, del Consiglio Direttivo e del Comitato Scientifico di Biblia, che si riconoscono in orientamenti culturali e religiosi diversi, chiedono al Ministero della Pubblica istruzione, al mondo della scuola, a quello della comunicazione e in generale agli esponenti della cultura italiana e a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca culturale, di favorire, ciascuno con i propri strumenti, l´attuazione di iniziative concrete (intese, corsi di aggiornamento, revisioni di programmi, produzione di materiale didattico, dibattiti, interventi su riviste e organi di informazione, iniziative che partano dalla scuola e raggiungano cerchie sempre più ampie) volte a far sì che la conoscenza della Bibbia e dei suoi influssi venga sempre più considerata componente indispensabile nella formazione culturale di ogni studente e di ogni cittadino.
I proponenti sono consapevoli delle difficoltà metodologiche, didattiche e organizzative inerenti a questa proposta. Restano tuttavia convinti che la scelta migliore non sia quella di ignorare ulteriormente il problema o di affidarsi alla buona volontà di singoli docenti, ma stia nel progettare, con coraggio e inventiva, piste per la sua soluzione.

Repubblica 9.5.07
L’Intervista. Scoppola: perché è ignotata
di Simonetta Fiori

«Si studiano l´Iliade e l´0dissea, si legge l´Eneide, perché escludere la Bibbia che è un testo fondamentale per comprendere la storia dell´Occidente?». Pietro Scoppola presenterà oggi in Campidoglio insieme a Gibellini e Paolucci l´appello per la Bibbia.
Un´iniziativa laica, che vuole sottrarre il testo biblico a una lettura confessionale.
«La Bibbia è un´opera di straordinaria ricchezza, da diversi punti di vista: filosofico e artistico, letterario e anche politico. Non è un caso che oggi presenterò l´appello insieme a uno studioso di letteratura e a un esperto d´arte, e io da storico proporrò la Bibbia come fondamento del costituzionalismo moderno. Un´opera che meriterebbe d´essere assunta a pieno titolo nel canone occidentale».
Perché invece è largamente ignorata?
«Per più ragioni. Da una parte ha influito la discriminazione da parte laica, che ha liquidato la Bibbia come lettura chiesastica. Dall´altra c´è stata la tendenza della Chiesa a rivendicarne l´assoluto monopolio e, fino al Concilio Vaticano II, ha pesato un uso parziale e sospettoso da parte della gerarchie».
Colpisce oggi la straordinaria adesione, tra laici e cattolici.
«Sì, ci sono firme importanti. Già nell´84, con il nuovo Concordato, ponemmo la questione di sottrarre l´insegnamento delle religioni da una dimensione confessionale, ma la nostra iniziativa fallì».
Cosa è cambiato da allora?
«La nostra era è segnata da un riemergere prepotente del fattore religioso. Conoscere la Bibbia significa anche scoprire che molte componenti del messaggio biblico sono presenti nel Corano. In questo senso può favorire un dialogo fruttuoso con l´Islam».
Sarà interessante la reazione della Chiesa.
«Credo che approverà l´iniziativa, o forse ci sarà dibattito. Il cardinal Martini ha scritto pagine fondamentali sull´importanza culturale della Bibbia».

Left Avvenimenti del 10 marzo 2006
Quasi quasi mi sbattezzo
di Federico Tulli


"Almeno ne ha parlato con i suoi genitori?" "Beh Monsignore ho quarant'anni..". L'autore della domanda a bruciapelo è Monsignor La Rosa, direttore dell'Ufficio matrimoni del Vicariato di Roma. Era rivolta a chi scrive, convocato con urgenza in Curia, via raccomandata, per "importanti comunicazioni in merito alla sua richiesta di sbattezzo". Ateo da sempre, come mio modo di vita privato, per curiosità giornalistica due mesi fa avevo avviato la pratica, utilizzando il modulo prestampato che si può scaricare da www.uaar.it, il sito dell'unione degli atei e agnostici razionalisti, nel cui comitato di presidenza spiccano i nomi della scienziata Margherita Hack e del matematico Piergiorgio Odifreddi.

L'agevole consultazione offerta nel sito, sia di documenti che di riferimenti normativi, rende il procedimento relativamente semplice e di sicura riuscita; anche perché, si legge, "nel novembre 2002 la Conferenza dei vescovi italiani, riunita in assemblea plenaria, ha dovuto confermare la legittimità delle richieste formulate col modulo UAAR". Lo sbattezzo, che per ragioni diverse sta coinvolgendo migliaia di italiani, avviene con un'annotazione sul registro dei battezzati e soddisfa la richiesta di non essere più considerati cattolici, cioè, come recita la nota "non più aderenti alla confessione religiosa denominata Chiesa cattolica apostolica romana". Un semplice tratto di penna, che non cancella il fatto avvenuto, ma manifesta il proprio rifiuto verso uno status imposto quasi d'ufficio; avviene infatti, per la maggior parte degli italiani, a pochi giorni della nascita. Impossibile sottrarsi, anche solo fisicamente. Fu sant'Agostino ad esigere la trasformazione del sacramento in un rito destinato ai neonati per liberarli unicamente dal peccato originale. Fino ad allora il battesimo era una sorta di amnistia generalizzata dei peccati commessi; infatti quasi tutti, compreso Agostino, lo richiedevano in età adulta.

Circa ottocento anni dopo, nel tredicesimo secolo, troviamo il potere spirituale e temporale della Chiesa minacciato su più fronti e il battesimo assunse un significato politico, di distinzione. Era l'epoca in cui Innocenzo III organizzava l'ennesima crociata contro i mori e, in Europa, cominciava l'opera di sterminio dei Catari; e in particolare, nel 1215, anno in cui fu ufficialmente introdotta nei paesi cristiani la rotella, il cerchio di stoffa gialla che gli ebrei dovevano portare sui vestiti dall'età di dodici anni, battezzarsi divenne obbligatorio e fu istituito il registro battesimale; così la lavata di capo, più che a un obbligo, corrispose alla convenienza di non essere considerati al pari di animali. Infatti sempre nello stesso anno il Concilio lateranense IV stabilì definitivamente che "l'identità umana deriva dalla ricezione dei sacramenti e dal riconoscimento del papa come autorità". Ad oggi nulla di nuovo; il registro è lo stesso e papa Ratzinger all'Angelus del 4 dicembre 2005 ci ha ricordato che "l'uomo, tra tutte le creature di questa terra, è l'unica in grado di stabilire una relazione libera e consapevole con il suo creatore" e quindi che dallo status di credente "deriva la dignità dell'uomo"; ma anche l'ultimo catechismo della Chiesa cattolica firmato da Giovanni Paolo II, precisa che essere battezzati significa divenire «membra di Cristo, incorporati alla Chiesa». E poi andando più a fondo si legge: «il battezzato non appartiene più a se stesso» ma è chiamato «ad essere obbediente e sottomesso ai capi della Chiesa».

Condizioni che richiedono, al cittadino di uno stato laico, quantomeno una piccola riflessione; e infatti la sentenza della Corte Costituzionale n. 239 del 1984 ha stabilito che "l'adesione ad una qualsiasi comunità religiosa debba essere basata sulla volontà della persona". Nonostante ciò, in Italia oltre il 95 per cento della popolazione viene battezzato e senza espressione manifesta di consenso. Ed è interessante confrontare questo dato con gli ultimi forniti da Eurispes: solo il 30,6 per cento degli italiani, per lo più ultrasessantenni, si dice credente e va in chiesa.

"Dica la verità, è per colpa di un prete?" rilancia il Monsignore, "alcuni di noi magari finiscono troppo sui giornali - azzarda - con le loro dichiarazioni scomode e alla fine la gente si stufa...". Forse anche lui ha qualche dubbio, ci permettiamo, sull'ingresso a gamba tesa della Chiesa in tutte le questioni di vita, specie quelle più intime, degli italiani; dal no alla fecondazione eterologa, pretendendo di decidere con chi una donna dovrebbe fare un figlio, passando per il no all'aborto farmacologico con la Ru486 nonostante l'Oms l'abbia ascritta fra i farmaci essenziali, per il no ai Pacs e al sì ai volontari del Movimento per la vita, che fuori dalla legge 194, sono stati ammessi dal ministro Storace nei consultori pubblici. Un'ingerenza nei fatti privati e nelle leggi dello stato italiano che nel 2005 ha segnato un picco notevole con il cardinale Ruini, superstar della scorretta campagna di persuasione a non andare a votare per il referendum di modifica della legge sulla fecondazione assistita.

In realtà il fenomeno affonda in radici temporali più profonde, infatti le prime pratiche partirono negli anni '70, dopo la feroce demonizzazione del divorzio e dell'aborto; e subirono un'accelerazione nel 1987, dopo i calorosi abbracci in mondovisione tra Giovanni Paolo II e Pinochet. Il continuo rivolo di defezioni, insieme alle recenti, massicce, manifestazioni di piazza a difesa della legge 194 sull'aborto, raccontano forse di un'Italia che non è poi così disposta a genuflettersi ai veti posti, più o meno apertamente, dalla religione cattolica alla libertà di pensiero e ai rapporti umani.

"Per fortuna molti ci ripensano", insiste intanto Monsignor La Rosa. Per convincermi, mi mostra la pratica di una persona che "è stata riaccolta alla casa del padre", e poi quasi disarmato: "se mi avesse telefonato - dice - mi sarei preparato. E invece è arrivato in Vicariato così all'improvviso...". A dire il vero, nel novembre 2003 il Garante della Privacy ha stabilito che non è obbligatorio sottoporsi al colloquio per confermare la volontà di sbattezzarsi; l'appartenenza religiosa è un dato sensibile tutelato dalla legge 675/96 sulla privacy, quindi è sufficiente allegare una fotocopia del proprio documento d'identità al modulo firmato. E' stata anche dichiarata legittima l'eventuale attività della Curia volta a richiamare l'attenzione sugli effetti di ordine canonico che l'istanza produce e cioè, l'esclusione dai sacramenti, l'esclusione dall'incarico di padrino per battesimo e cresima, la necessità dell'autorizzazione dell'Ordinario per eventuale richiesta di matrimonio canonico e la privazione delle esequie ecclesiastiche in mancanza di segni di pentimento.

Conoscevo queste implicazioni dello sbattezzo, per cui alla domanda del Monsignore "lei sa quali sono le conseguenze vero..?" annuii e approfittati per salutare. Quand'ecco che concludendo sibilò: "... nei rapporti con Questo di sopra". Me ne andai sorridendo. Mi aveva fatto venire in mente queste parole di Margherita Hack: "Io sono atea, non penso ci voglia un gran coraggio... Ai tempi di Galileo forse ci voleva il coraggio... Oggi nessuno mi manderà al rogo!".

Apcom 9.5.07
CHIESA/ SU 'RIFORMISTA' MIETE CONSENSI LA RICHIESTA DI SCOMUNICA
Continuano adesioni dei lettori dopo lettera sabato scorso

(APCom) - Sul 'Riformista' miete consensi la proposta avanzata da un lettore - ateo dichiarato - che, giorni fa, domandava ragguagli su come ottenere la scomunica dalla Chiesa cattolica. Nella rubrica delle lettere alla redazione, da alcuni giorni - e ancora oggi - numerosi altri lettori hanno aderito alla provocazione. A tener banco tra le argomentazioni sono gli interventi dei vertici cattolici nel dibattito politico italiano, il tema della laicità e questioni come la bioetica e l'aborto. "Vogliamo pensare alle donne e agli uomini come noi, occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi", scriveva sabato scorso il lettore che per primo ha lanciato la richiesta di scomunica, Paolo Izzo. "Può bastare? A chi devo rivolgermi per formalizzare la questione?". Ska

il Riformista 9.5.07
Bellocchio. Violenza e pellicole, malattia e realtà
Diavoli in corpo che si incarnano nei film
di Livia Profeti


C'è anche Marco Bellocchio tra i protagonisti del Festival romano di filosofia. L'11 maggio alle 21.30 ii regista discuterà insieme a Jean-Luc Nancy, Pietro Montani, Edoardo Bruno e Stefano Velotti sul tema "Ibridazioni del linguaggio cinematografico". L'incontro avviene in un momento molto denso per Bellocchio: impegnato nella sceneggiatura del suo prossimo film sulla storia tra Ida Dalser e Benito Mussolini, è reduce dall'incontro a sostegno del cinema italiano che si è svolto lunedì scorso tra il ministro Rutelli e il movimento "Centoautori", nel quale è molto attivo. Sabato prossimo sarà presente anche sul palco serale della manifestazione "Orgoglio laico" in risposta al Family day.
Bellocchio, al termine della cerimonia di presentazione delle candidature ai David di Donatello, dove Il regista di matrimoni è in lizza per il film, la regia, il montaggio e la protagonista femminile Donatella Finocchiaro, risponde ad alcune domande del Riformista. Visto che con il festival siamo in tema e il termine è di moda, ci sono dei filosofi nel suo pantheon personale? «La mia formazione è stata soprattutto teatrale-poetico-letteraria. A parte gli studi scolastici il mio interesse per i filosofi si è limitato al breve periodo della militanza politica, tra il '68 e il '69, quando leggevo Marx, Engels e un po' di Nietzsche. Mi affascinava l'idea di una trasformazione possibile di me stesso, che in quel periodo, dogmaticamente, speravo potesse venire dalla "rieducazione" comunista di stampo maoista che prevedeva un'immersione nel mondo operaio e contadino. A quei tempi, e data la mia formazione cattolica, pensavo che con quella potessi liberarmi dal senso di colpa della mia agiatezza borghese». Un tema piuttosto lontano da quelli che verranno affrontati nella tavola rotonda dell'11, tra i quali quello del rapporto e del confine tra realtà e finzione nell'immagine cinematografica. «lo faccio il regista e non il teorico, però su questo tema penso al concetto di immagine inconscia non onirica emerso dalla ricerca che si svolge nell'ambito dell'analisi collettiva, del quale si è parlato anche recentemente in un incontro a Parigi con Massimo Fagioli. Quando io penso a un film la prima cosa che mi viene in mente sono immagini. Anche se spesso non so cosa signiflcano, so che provengono da quello che io sono, dai rapporti e dalle cose che ho vissuto. Queste però possono essere inconsciamente trasformate creando immagini completamente diverse. Se uno avesse l'interesse e la curiosità di esaminare bene le mie immagini potrebbe scoprire qual è la loro realtà originaria». Che però continua a esserci e quindi, anche se non viene più riconosciuta, viene comunque comunicata.
A questo proposito un altro tema della tavola rotonda è l'influenza delle immagini sulle coscienze. Lei concorda sull'ipotesi per la quale certi film violenti istigherebbero alla violenza reale? «Mah, uno non fa una strage perché ha visto un film. Però da certe immagini può avere una conferma a una propria realtà». A parte la violenza palese, ci sono alcuni film dai quali si esce con un profondo senso di malessere. Secondo lei perché? «In modo molto semplice direi che al fondo propongono una visione malata del mondo e della vita, distruttiva, violenta in senso psichico. In quel caso il regista lavora su degli affetti che non sono solo disperati, ma immobili. Non si tratta di tragedia: io penso che le tragedie di Shakespeare non fanno stare, fanno pensare. Il fatto di "far star male" è legato alla proposizione di una specie di autocompiacimento della violenza, una disperazione senza sentimento, un cinismo in qualche modo futile». A proposito di tragedie, il suo prossimo film sulla storia di Ida Dalser non sembra promettere un lieto fine per la donna, al contrario della riuscita femminile che a partire da Diavolo in corpo sino all'ultimo Il regista di matrimoni ha spesso affollato le sue opere. «La tragicità di questa storia mi interessa. E una storia molto complessa perché si articola in venti anni, nei quali intervengono tutta una serie di mutazioni di questa donna in rapporto alle persone che la circondano, ma anche alla storia d'Italia. Non dimentichiamo che sullo sfondo c'è sempre Mussolini». Per rimanere al tema del festival, che tipo di rapporto ci sarà in questo film tra realtà e creazione? «Sarà un po' come Buongiorno, notte. Da una parte la storia con i suoi episodi principali ma poi, all'interno di questi, rivendico la libertà artistica di inventare».
Passiamo al suo impegno politico-sociale e quindi alla manifestazione di sabato prossimo a favore dei Dico, da alcuni accusata di essere solo anticlericale e non a favore della laicità. Lei cosa intende con il termine "laicità"? «Non sono d'accordo che la manifestazione sia solo anticlericale. Per me laicità significa pensare e agire senza credere in un dio trascendente e contemporaneamente, in senso un po' volteriano, pensare e agire con la massima tolleranza verso chi la pensa diversamente, rifiutando ogni forma di violenza. In questo senso è cardine la differenza fagioliana tra negazione e rifiuto: per fare un esempio l'opposizione anche da parte di alcuni deputati dell'Unione ai Dico è una negazione della realtà della società attuale, che è in trasformazione. La mentalità sta cambiando e le coppie di fatto sono in continua crescita, come moltissimi sono i figli nati fuori dal matrimonio. Al contrario rifiutare, ovvero "dire no" a chi vuole imporre le proprie credenze sugli altri, significa ribellarsi pacificamente alla violenza di chi nega questo cambiamento».
Un'ultima domanda: il suo cinema, da molti definito poetico e profondo, può essere anche definito "politico"? «Non è un cinema neutrale, perciò, anche se non fa propaganda, esprime implicitamente una posizione politica. A sinistra».

il Riformista 9.5.07
I confini sono frontiere portatili nella società globale d'occidente
Intervista con Marramao
di Viola Giannoli


«Il concetto di confine ha una valenza doppia: segna una divisione, una separazione, ma, stando al suo etimo, è anche limite condiviso. Da un lato si hanno opposizioni, confronti, dall'altro ibridazioni, contaminazioni. Gli eventi decisivi della nostra epoca sono destinati a verificarsi lungo le linee di confine». Così Giacomo Marramao, presidente dell'associazione culturale Multiversum, spiega la scelta del tema del Festival: il "confine", meglio "i confini", come nodo nevralgico del nostro presente, declinabili in moltissime accezioni, tra le quali resta fondamentale quella tra Oriente e Occidente. «Il confronto tra questi due poli è un tema vecchio che si ripropone nel mondo globalizzato, se è vero che il XXI secolo si delinea come un'era sino-americana, in cui le due grandi alternative globali sembrano essere rappresentate per un verso dal modello americano dell'individualismo competitivo, per l'altro dal modello comunitario-paternalistico-gerarchico del colosso asiatico».
Passaggio a Occidente. Proprio a questo confine-sconfinamento tra Oriente e Occidente è dedicato Passaggio a Occidente. Filosofia e giobalizzazione. Lontano dalle letture di Fukuyama e Huntington, Marramao non intende la globalizzazione né come omologazione del mondo, né come scontro di civiltà. La globalizzazione è piuttosto «un impervio, lungo e complicato passaggio a Occidente di tutte le culture, le identità, le forme di vita», nel quale a essere profondamente alterato è anche lo stesso Occidente. Si tratta di una fase di trasformazione multipla, che non riguarda solo l'economia e il lavoro, ma in primis l'identità. «Lo spazio globale è uno spazio non euclideo in cui le geometrie variabili disegnano nuove linee di divisione, a volte geopolitiche, in quanto dividono macroregioni, altre volte transterritoriali. poiché attraversano tutti i luoghi del pianeta e hanno a che fare con una dinamica "nomade" di costituzione deterritorializzata delle identità». Marramao parla in questo senso di "frontiere portatili". In una società multiculturale si vive in uno spazio unico, apparentemente ibridato, ma in cui sempre più netti sono i confini invisibili tra identità differenti che portano con sé forme di comportamento e rituali specifici. «È un po' il fenomeno anaIizzato dallo storico inglese Benedict Anderson delle comunità immaginate. A questo bisogna rispondere con un progetto nuovo, con una nuova idea di cittadinanza che non può essere né quella assimilazionista del modello francese - abbiamo visto come davanti alI'insistenza su questo progetto le banlieue si ribellino - ma neanche il modello "Londonistan", di una società multiculturale intesa non come confronto tra diversità, ma come divisione dello spazio metropolitano in tanti ghetti the non comunicano tra loro».
Glocalizzazione. La globalazione fa emergere dunque una nuova dimensione del "locale", non come residuo, resistenza "romantica" di forme comunitarie tradizionali. Piuttosto si tratta di quella che Marramao chiama «produzione globale di località». La globalizzazione non produce un'umanità omologata, bensì un'umanità sempre più differenziata e tendenzialmente conflittuale. «Per superare il rischio insito nella società globale di dar luogo al fenomeno delle "differenze blindate" che si trincerano dietro una logica separatista, che non stabilisce una feconda contaminazione comunicativa tra esperienze diverse, occorre partire dall'idea che le divisioni non sono tra una cultura e l'altra, una civiltà e l'altra. Le divisioni attraversano non solo tutti i gruppi e le comunità, ma sono anche interne a ciascuno di noi».
Confini di genere. Per Marramao occorre una "ritematizzazione" dell'identità come «identità multipla», dentro alla quale esistono faglie strutturali. Tra i "confini", dunque, anche quello tra uomo e donna. «Dopo le presidenziali francesi, ad esempio, abbiamo letto di un maschilismo presente anche nelle donne che hanno avuto una più o meno malcelata insofferenza verso Ségolène Royal. Se possono esserci atteggiamenti misogini anche nelle donne, le linee di confine non sono localizzate in modo semplice come in un mondo euclideo: da una parte gli uomini, dall'altra le donne. In un mondo non euclideo, le linee di confine sono simboliche. Questo rende la nuova sfida della politica molto più complessa, poiché deve agire sulla base di ratori più sofisticati».
Multiversalismo. La conflittualità non può essere annullata, ridotta a un'unica entità universale. Le diversità vanno tutelate riconoscendo la dignità dell'altro a essere differente. L'annullamento dell'idea universale di politica non rischia però di sfociare in un relativismo assoluto? Insomma, che ne è della politica e come può questa, nella sua nuova accezione, misurarsi con i problemi globali? «Il relativismo assoluto - spiega Marramao - paralizza la politica, così come l'assolutismo identitario. Occorre immaginare un nuovo spazio dell'universale. È Ramon Panikkar ad avvertirci che non sono gli occidentali i proprietari della "casa dell'universale", che devono accogliere con benevolenza e ospitalità gli "altri". La casa dell'universale va costruita multilateralmente». Nell'ultimo film di De Niro, The good sheperd, c'è uno scambio di battute chiave per comprendere cosa si intende per universalismo identitario. Alla domanda «noi italiani abbiamo la nostra comunità che è di origine familiare, gli ebrei hanno la comunità religiosa, i neri hanno la comunità dell'arte e della musica, voi wasp cosa avete?», l'agente Cia risponde: «noi abbiamo gli Stati Uniti d'America, voi siete al massimo ospiti». L'universalismo identitario presuppone una gerarchia implicita, una frontiera, invisibile, tra l'élite dirigente e chi è "ospite". L'universalismo multiplo assume invece come suo criterio la differenza. «Occorre allora - dice Marramao - pensare in termini di universalismo della differenza, quello che chiamo multiversalismo».
Dalla politica all'etica. L'esperienza del confine, nel nuovo mondo globale e tecnologico, è anche esperienza della soglia. Innanzitutto antropologica. Venute meno le distinzioni tra corpo e mente, naturale e artificiale, è necessaria una ridefinizione dell'etica. «A partire da Montaigne, e poi via via con l'emergere del concetto moderno di libertà, la definizione dell'individuo autonomo è apparsa ai tradizionalisti come una minaccia per le radici dell'etica classica, aristotelica, che non può darsi se non in presenza di una comunità con vincoli organici, comandamenti, norme». L'individuo libero, dotato di facoltà di autodecisione, rischia di essere quantomeno moralmente problematico. «Ha ragione Marc Augè - continua Marramao - quando dice che, a causa del potenziale tecnologico-digitale applicato al bios. alla vita la soglia antropologica non è più paragonabile alla fine della visione classica del mondo, ma addirittura alla nascita del neolitico». Siamo entrati in una dimensione radicalmente nuova in cui rivedere e riscrivere i principi etici fondamentali: libertà, necessità, dovere, dignità della persona: Qui il confine è tra il modo classico di pensare questi valori e quello moderno, oltre la soglia dell'umano. Una soglia che prelude all'ingresso in una nuova fase storica dell'umanità, quella del post-umano.

martedì 8 maggio 2007

MolecularLab.it 7.5.07
A Roma si è svolto un convegno su bioetica e utilizzo embrioni umani
Religiosi e scienziati si sono confrontati sul tema dell'inizio della vita umana


Si è svolto un convegno dal titolo "Bioetica, Cellule Staminali, Embrione Umano: il Pensiero Religioso e Laico" presso la sala del Grand Hotel Parco dei Principi di Roma dove si tiene il "Cord Blood Transplant European Conference" di cui Franco Mandelli è Presidente onorario. Il dibattito è durato quattro ore e alla presenza di più di mille persone.
Erano presenti tre esponenti religiosi: don Andrea Manto, docente di Teologia Morale della Pontificia Università Lateranense; Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma; l'ambasciatore Mario Scialoja, membro del Centro culturale Islamico; lo psichiatra Massimo Fagioli, il bioeticista Maurizio Mori e il filosofo Eugenio Lecaldano. A coordinare gli interventi l'ematologo Lucio Luzzatto dell'Istituto Toscano Tumori di Firenze.
Durante la discussione, don Manto ha ribadito un deciso "no" all'utilizzo degli embrioni per la ricerca e la sperimentazione a fini terapeutici, anche se si tratta degli embrioni cosiddetti sovrannumerari. A questa tesi si sono contrapposti i "sì" di Scialoja, Di Segni, Mori, Fagioli e Lecaldano che hanno ribaltato l'impostazione religiosa sull'inizio della vita.
Fagioli ha affermato: "Ci vuole la nascita, il vagito, il respiro per avere la vita umana: è solo alla nascita che si attiva e si forma per la stimolazione della retina da parte della luce il pensiero umano non ancora verbale ma fatto di immagini".

Sempre secondo Fagioli: la retina è la parte della sostanza cerebrale più esposta all'esterno e la sua importanza è dimostrata dal fatto che solo a partire dalla 24esima settimana (quando si forma la retina) che il feto "ha possibilità di vita". Quindi mentre lo psichiatra pone l'inizio della vita umana alla nascita (prima il feto è vitale, non vivo e lo diventa quando si forma il pensiero), don Manto invece ribadisce l'inizio della vita umana "a partire dal concepimento".
Secondo il filosofo Lecaldano, il credo religioso ostacola la ricerca scientifica, mentre il bioeticista Mori sostiene che è dimostrato scientificamente che l'embrione non è ancora una persona ma potrà diventarlo, quindi: "vietare la ricerca sulle cellule staminali in ragione del fatto che l'embrione sia uno di noi, è un danno al progresso della medicina che ha la possibilità, oggi, di passare da riparatrice a rigeneratrice di organi. Quindi non vedo nulla di male nel creare appositamente degli embrioni per la loro utilizzazione ai fini della ricerca scientifica", ha concluso il bioeticista.
Le posizioni dell'Ebraismo e dell'Islam sono state chiarite da Di Segni e da Scialoja. "Riteniamo del tutto legittima - ha sostenuto Di Segni - la ricerca scientifica sugli embrioni a tre condizioni: se l'embrione è in vitro cioè extracorporeo alla donna; se ha meno di 40 giorni e se il fine è salvare altre vite umane". L'uovo fertilizzato e isolato non è ancora una persona e quindi non ha le stesse tutele. Scialoja ha sottolineato che queste posizioni sono condivise dalla religione islamica: "per il Corano il feto diventa essere umano successivamente e non al concepimento: dunque la distruzione di un embrione non è infanticidio". Inoltre, ha aggiunto che per l'Islam "la ricerca sugli embrioni sovrannumerari è anzi un obbligo per raggiungere maggiori conoscenze, anche se siamo contrari alla creazione ad hoc di embrioni da usare per la ricerca". Concludendo ha sottolineato che in Iran, Egitto, Turchia, Arabia Saudita e Singapore sono in corso studi su cellule staminali embrionali: nel mondo islamico c'è un consenso per un uso responsabile degli embrioni ai fini della ricerca".
L'incontro e il dibattito con il pubblico è stato animato ed intenso e al termine, William Arcese, ematologo dell'Università romana di Tor Vergata si è detto molto soddisfatto: "È stato qualcosa di inaspettato e di inusuale".

il Riformista 8.5.07
Bertinotti sogna una rifondazione della sinistra europea


Se c’è una lezione che bisogna imparare dalle elezioni francesi è che urge una «rifondazione» di tutta la sinistra europea. Come il termine stesso suggerisce, la proposta viene dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, che dalla capitale dell’Autorità palestinese ha commentato i risultati delle elezioni in Francia. Certo, per Bertinotti sul valore dell’avversario c’è poco da discutere: Sarkozy «è uno forte», che ha saputo ben giocare sull’identità, «un messaggio spiazzante». Ma se la sinistra ha perso è soprattutto per la propria debolezza, che riflette la situazione di molti altri paesi nel continente («Preferisco parlare di Europa in generale, non di Italia», ammette il leader di Rifondazione). Insomma, «la sconfitta francese mette in luce una crisi della sinistra europea», una crisi «profonda», che riguarda, seppure in maniera diversa, tanto la «sinistra riformista» quanto la «sinistra alternativa» e che non può essere risolta con la consueta “politique politicienne”, fatta di riposizionamenti e alleanze (tradotto: inseguire Bayrou è stato un errore).

L’innovazione Royal. Dunque, urge una svolta, che secondo Bertinotti dovrebbe basarsi proprio sull’esperienza del Prc: «Il processo di rifondazione che noi abbiamo applicato a un partito si impone adesso come categoria per la sinistra europeea». Le due anime della sinistra europea devono «riprogettarsi per il Ventunesimo secolo» e ridefinire «il proprio rapporto con la modernità». Ovviamente, seguendo strade diverse. Dal punto di vista riformista, le elezioni francesi hanno dimostrato che l’innovazione rappresentata da Ségolène Royal, pur essendo un fatto «positivo e rilevante», non è sufficiente a vincere. Ségolène ha vinto «nonostante donna e nonostante l’innovazione della sua comunicazione», commenta Bertinotti. Il problema è che manca chiarezza su «quale modello economico e sociale la sinistra europea intende rifarsi». Per farla breve, «manca un’idea di fondo». In questo, bisogna riconoscere che «la destra parte avvantaggiata», perché può aderire a un nodo ben definito in nome di un’ideologia che possiede: «la superiorità del mercato». Ed è proprio per questo che le forze progressiste devono al più presto rielaborare un’ideologia, che «ridefinisca la sinistra come analisi, giudizi e proposte di modifica».

Unitaria e plurale. La «sinistra alternativa», invece, dovrebbe elaborare «una trasformazione delle proprie ragioni di esistenza»: invece dell’innamoramento della storia del Novecento, la sinistra radicale dovrebbe trovare la propria ragion d’essere «nell’idea di società». Secondo Bertinotti, la lezione francese è particolarmente istruttiva: «A Parigi, la sinistra alternativa ha reagito con la marginalizzazione, chiudendosi nelle rispettive identità partitiche, o simil-partitiche, come nel caso di José Bove». La divisione della sinistra radicale ha impedito di influenzare la politica di Ségolène, la lezione è: «Una gauche dove ognuno è abbarbicato alla propria bandiera» non serve proprio a nessuno. La via d’uscita, secondo il leader rifondarolo, è «una soggettività unitaria e plurale della sinistra alternativa» che intavoli un «sano rapporto di conflitto e di convergenza» con la sinistra riformista.

Il voto di classe. La «rifondazione» della sinistra europea, secondo il presidente della Camera, passa soprattutto dal recupero dei temi economici e sociali: «Non basta interessarsi delle questioni sociali, bisogna riportarli al centro della politica, da cui sono stati espulsi». Nelle ultime elezioni, nota Bertinotti, il voto è stato soprattutto un voto d’opinione, slegato dai temi sociali e dalle appartenenze di classe. Eppure, il voto di classe è un concetto che andrebbe recuperato. Il concetto non si estende solamente ai lavoratori: «Dopo tutto, anche il voto dei “bobo” (bohémien bourgeois), su cui ci sono stati tanti sfottò», ricorda Bertinotti, «era un voto che aveva una sua connotazione sociale».

l'Unità 8.5.07
«La sinistra? Ha perso perché non aveva un’idea», parola di Bertinotti
Il presidente della Camera in viaggio in Israele commenta i risultati francesi: «Sarkozy mi ha spiazzato, non mi piace ma è forte»
di Natalia Lombardo


«Scusate se uso questa parola, ma la sinistra in Europa ha bisogno di una “rifondazione”. In Francia ha perso perché è debole e non ha un'idea di fondo, e la sinistra alternativa è rimasta isolata, ognuna abbarbicata alla propria bandiera di partito». Fausto Bertinotti ha molta voglia di commentare la sconfitta di Sègoléne Royal, parlando da Gerusalemme dopo aver incontrato le autorità palestinesi a Ramallah. «Spiazzato» dalla forza del messaggio di Sarkozy vede nella crisi della sinistra francese lo specchio di quella europea.
Delle questioni italiane non vuole parlare («no, altrimenti sembra che penso alle alleanze con questo o quel partito…»). Ma alla luce di quel che è successo a Parigi l'ex leader di Rifondazione insiste proprio su questa parola: ritrovare i «fondamentali», l'ordine dei problemi che si ripropongono «ogni cinquant'anni, negli anni 20, nel dopoguerra e ora», anziché perdersi nel contingente della presa di posizione sui singoli temi, quel «mimetismo» dare una risposta ai temi del giorno, siano pure i diritti o le pensioni.
Problema europeo, ma il fine è il contraltare al Partito Democratico, quindi la ricerca di «una soggettività unitaria e plurale della sinistra alternativa, che pungoli la sinistra riformista in un costante corpo a corpo».
Superare i vecchi schemi anche sociali, sfidare la modernizzazione e la globalizzazione, terreno in cui la destra è in vantaggio dal momento che si fonda «sulla libertà di mercato», mentre a sinistra, sia in quella riformista che in quella alternativa, un «valore fondante non c'è».
Ma se perde il connotato sociale, «la sinistra si perde» e la destra vince perché ha dalla sua parte i poteri forti. Il problema, per Bertinotti, è ricreare una cultura politica (non avendo più quel «vento in poppa» delle lotte operaie, quando «il contratto dei metalmeccanici dettava la scena»). Ora hai il contratto ma non più gli operai che si mobilitano. Quanto ai riformisti, «facciano vedere cosa sanno fare». A Bertinotti non interessa: «Piuttosto che dare una risposta socialdemocratica classica è meglio riproporre la categoria di Antonio Gramsci dell'egemonia di una classe sulla società». Questo il concetto, da estendere ai mutamenti di una classe debole che non ha più solo il marchio operaio.
Bertinotti sembra pensare che in Francia la sinistra abbia sbagliato tutto, mentre è rimasto colpito, anzi «spiazzato» dalla «forza del messaggio» del vincitore Sarkozy, se pur di destra: «Bastava vederlo esultare a Place de la Concorde, tutta la piazza che cantava la Marsigliese, questo richiamo alla Francia, un segno identitario fortissimo… un colpo d'ala». Una destra compatta perché ha «un'idea forte», anche se sposata al populismo, l’«antipolitica». Niente di più che l'alleanza di Berlusconi con la Lega. E non è bastato il «nuovismo» di Ségolène, l'essere andata avanti contro «tutti gli elefanti» (i grandi vecchi del Partito socialista francese). Il nodo di fondo, per Bertinotti «è la mancanza di un'idea: qual è l'idea di società per una forza riformista? Quale modello economico, sociale e di democrazia propone anche in Europa?».
Però non salva neppure la sinistra che chiama alternativa, frantumata e chiusa nei recinti dei partiti (non lo dice, ma il pensiero vola dritto ai satelliti italiani, preoccupati di essere annullati in una Rifondazione al quadrato). Insomma, senza perdersi nella lista della spesa quotidiana, la sinistra se vuole vincere trovi la sua ragione di esistenza in «un'idea di società». Ma senza far passare cinquant'anni.

l'Unità 8.5.07
Il «Coraggio laico» riempie l’altra piazza del 12 maggio
In piazza Navona, concerto fino a notte. Crescono le adesioni all’iniziativa della Rnp: Sinistra democratica, Prc, Arcigay...


Il «Coraggio laico» si organizza. Le adesioni di forze politiche e singole personalità a quello che sarà il contraltare del family-day stanno aumentando, anche se a tutt’oggi non è chiaro quanta gente si riuscirà a mobilitare. Gli organizzatori, ossia i radicali e i socialisti della Rosa nel Pugno, provano a serrare le fila puntando sull’effetto ricordo: il 12 maggio sarà il 33° anniversario del referendum sul divorzio, ma anche il 30° della morte di Giorgiana Masi la studentessa uccisa a Roma a Ponte Garibaldi durante una manifestazione dell’estrema sinistra. La giornata prevede dalle 10 alle 16 un convegno in piazza Montecitorio dal titolo indicativo: «Il mito della famiglia naturale, la rivoluzione dell’amore civile». Seguirà manifestazione-concerto a piazza Navona fino a notte fonda, dove sarà allestita anche una mostra sulle grandi battaglie laiche degli anni ‘70.
Riuscirà «Coraggio laico» a disperdere l’impressione di una manifestazione più anticlericale che laica? La scommessa è questa. Finora hanno aderito partiti ed esponenti della sinistra radicale, associazioni, movimenti per i diritti individuali, Arcigay. Ci saranno anche Achille Occhetto e Giuseppe Caldarola, Manuela Palermi del Pdci, l’ex ministro Katia Bellillo, il sottosegretario all’economia Paolo Cento, il segretario del Nuovo Psi Gianni De Michelis che da poco ha annunciato l’adesione al cantiere socialista. Ma la vera novità politica, oltre alle polemiche aspre contro il family-day e le posizioni dei Ds e della Margherita che sono pane quotidiano dall’inizio, è la conferma dell’adesione di Sinistra Democratica, il movimento dei fuoriusciti dalla Quercia che ha avuto quattro giorni fa il suo battesimo. Cesare Salvi e Fulvia Bandoli, due dirigenti del neonato cantiere, sono stati coperti di complimenti dai radicali che parlano di fatto storico: «Annunciando formale adesione alla manifestazione del Coraggio Laico di piazza Navona hanno aperto la strada alla possibilità di una nuova pagina della sinistra ufficiale del nostro Paese, finora incapace di organizzare concretamente mobilitazioni sociali attorno a obiettivi di laicità e libertà civili». In poche parole esultanza per la fine «del tabù antiradicale a sinistra». Promossi quelli di Sinistra Democratica, i radicali incassano l’adesione anche dell’Arcigay: «Il 12 - dicono - saremo a piazza Navona per la laicità», spiegando che il family-day sarà una festa delle discriminazioni. «Siamo alla santa Alleanza Omofobica», dice il segretario dell’associazione che proprio ieri ha polemizzato duramente sia con i cattolici che col rabbino capo di Roma Di Segni.
I Verdi attaccano Fassino, che dice di guardare con attenzione al family-day pur non condividendo e partecipando alla manifestazione, e contestano che sia possibile l’equidistanza rispetto alle due manifestazioni. «Non esistono due fronti contrapposti - dice il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli - c’è solo una parte che non vuole riconoscere i diritti a chi vuole convivere». «Con le sue dichiarazioni - aggiunge - Fassino ha inaugurato la politica di equidistanza del partito democratico su un tema così delicato».

l'Unità 8.5.07
FILOSOFI Riflessioni sui dubbi e le domande sollecitate dalla lettura di un saggio rigoroso e audace come «Passaggio a Occidente»
Globalizzazione e glocalizzazione, identità e differenza. Capire l’oggi con Marramao
di Roberto Esposito


Per sapere cosa è l’oggi bisogna fissare un punto apparentemente lontano nel tempo e nello spazio

Nel suo lucido intervento compreso nel volume Figure del conflitto, Ida Dominjanni lega il grande rilievo della riflessione di Giacomo Marramao all’interno della discussione filosofica contemporanea alla sua piena appartenenza a quell’ontologia dell’attualità a suo tempo teorizzata da Michel Foucault. Rapportarsi all’attualità significava già per Foucault considerare la modernità non più come un’epoca tra le altre, ma come l’attitudine, la volontà, di assegnarsi il proprio presente come compito. C’è qualcosa in questa opzione - di Foucault come di Marramao - una tensione, un impulso che va anche aldilà della definizione hegeliana della filosofia come il proprio tempo appreso nel pensiero, perché fa del pensiero la leva che sottrae il presente alla continuità lineare del tempo, sospendendolo alla decisone su ciò che siamo e su ciò che possiamo essere.
Ma l’elemento più caratterizzante della ricerca di Marramao non è solo questa domanda di fondo sull’attualità, quanto la prospettiva apparentemente inattuale - nel senso che Nietzsche ha dato a quest’espressione - attraverso cui egli cerca di darle risposta. Per sapere cosa è l’oggi - e anche dove situarsi rispetto ai conflitti che lo solcano - bisogna fissare un punto apparentemente lontano, nel tempo e nello spazio, anche se in realtà, guardato da una prospettiva sagittale, coincidente con esso.
È quello che fin dall’inizio degli anni Ottanta Marramao ha inteso richiamare con la categoria di secolarizzazione all’interno di una riflessione sicuramente all’altezza di quelle messe in campo prima da Loewith e poi da Blumenberg - naturalmente in dialogo critico con la teologia politica di Schmitt.
L’elemento centrale di tale riflessione, che distingue radicalmente tra secolarizzazione e laicizzazione, sta non tanto nella trasformazione lessicale, quanto nel nucleo di permanenza del sacro all’interno della desacralizzazione - nel continuo affiorare dell’arcaico nell’attuale. Tale dialettica è al centro anche dell’ultimo libro, Passaggio a Occidente, come il ripiegamento localistico non solo compresente, ma prodotto delle stesse dinamiche globali. In questo senso si può dire che - ed è il tratto più innovativo dell’ermeneutica di Marramao - tra teologia e politica, così come tra globale e locale, si determina insieme la massima divergenza e la massima convergenza. Del resto, come hanno sostenuto in modo differente Gauchet, Nancy e Vattimo, ad avviare la secolarizzazione è stato lo stesso cristianesimo attraverso un’opera di continua autodecostruzione.
L’altro vettore teoretico dell’opera di Marramao - evidente in Passaggio a Occidente, ma già operante in Dopo il Leviatano e forse ancora prima - sta nella relazione costitutiva tra la trasformazione del politico e il mutamento del rapporto tra interno ed esterno, dove interno ed esterno vanno intesi e in senso spaziale e in senso temporale. La globalizzazione - sia nella semantica del globus sia in quella del mundus - è definibile come la scomparsa dell’esterno, del fuori, in uno spazio liscio che tende ad interiorizzare ogni difformità. Ma ciò - tale movimento - può essere interpretato anche in direzione contraria, vale a dire come l’occupazione, da parte dell’esterno, di ogni interno, come l’esteriorizzarsi di ogni dentro.
Direi anzi che il punto di vista più radicale, nell’ottica sinottica adottata da Marramao, si situi proprio nel punto di giuntura e di frizione tra queste due prospettive contrapposte - nella sovrapposizione antinomica tra interiorizzazione ed esteriorizzazione: come un fuori che si fa dentro e insieme, nello stesso tempo e nello stesso spazio, un dentro che si fa fuori. Quello che ci si potrebbe chiedere - ma non vorrei spingere la riflessione di Marramao in una direzione che non le appartiene - quale sia la natura, la sostanza, la materia, di questo «fuori» che invade il dentro scompaginando le categorie politiche classiche nel tempo della fine del Leviatano.
Marramao giustamente sostiene che il conflitto attuale non riguarda solo o tanto gli interessi, quanto soprattutto i valori identitari dei soggetti. Ma chi sono questi soggetti? I soggetti formali dotati di volontà e ragione, le persone titolari di diritti inalienabili, gli atomi logici dell’autorappresentazione moderna? Oppure anche e soprattutto corpi viventi? Ma se è così, basta operare sulla relazione, ancora classica, hegeliana, tra identità e differenza, tra individuale e universale, o non bisogna porre in campo anche un altro lessico che ha a che fare con l’impersonalità della vita biologica? Sono dubbi, domande, che un pensiero rigoroso ed audace come quello di Marramao è in grado di stimolare.

l'Unità 8.5.07
Due lettere


Caso Rivera: io mi chiedo dove sono finiti gli intellettuali italiani?
Cara Unità,
a questo punto entra in campo la cultura. Dove sono gli intellettuali? Dove sono le persone che dovrebbero gridare a difesa di ciò che permette loro di esistere (pensare ed esprimersi di conseguenza)? Probabilmente Rivera non è un intellettuale eppure è un essere pensante che ha deciso di esprimersi secondo il suo pensiero. Nessuno si leva indignato e contesta l'uso di parole come «terrorista» o «vile». Se Andrea Rivera sparge il terrore per destabilizzare l'ordine ecclesiastico non esistono nomi di sufficiente gravità per indicare uno che si fa saltare in aria imbottito di esplosivo. Forse ultra-terrorista potrebbe essere la nuova definizione. Se qualcuno dovesse scrivere un libro o un articolo contestando la linea della Chiesa Cattolica Romana che dice a tutti cosa è giusto e cosa non lo è contravvenendo ai principio fondatore della sua stessa religione, cioè la libertà della coscienza che è sola di fronte a Dio? Probabilmente dovremmo arrestare la persona in questione. Se gli intellettuali tacciono di fronte a ciò dobbiamo piangere la morte del nostro futuro perché l'abbiamo sacrificato alla dea della pace di vivere. Vorrei chiudere, in stile doppiamente marzulliano, facendomi due domande e dandomi due risposte. È stato stupido? Che qualcuno dica perché. Ha detto cose false? Che qualcuno provi il contrario.
Andrea Bias

Le gerarchie cattoliche e le opinioni che offendono...
Cara Unità,
tutti d'accordo, giornalisti, uomini politici, scrittori e via di seguito, che, come scrive Moni Ovadia su l'Unità (5 maggio), sia «indiscutibile il diritto sacrosanto dei cattolici, di tutti i cattolici, ad esprimere le proprie opinioni, quand'anche siano scomode o scabrose per i laici...». Però sembra si ignori che il diritto cade qualora tali opinioni, pur non potendosi configurare come reato, non siano solo scomode o scabrose, ma anche offensive; qualora possano creare discriminazioni, patemi d'animo, angosce, o cose peggiori. Il diritto viene meno anche quando si esprimono «opinioni» come queste: «Il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge» (Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, n. 10 - approvato il 28 marzo 2003, da Giovanni Paolo II e firmato dal cardinale Joseph Ratzinger). È ovvio che nessuno può chiudere la bocca alla gerarchia ecclesiastica, però bisogna ricordare a chi usa con disinvoltura la parolina «diritto», che questo «indica il potere di fare ciò che non è espressamente vietato da una legge» (Samuel Pufendorf; 1632 - 1694). Se estendiamo il concetto alla legge morale, vediamo che, col pretesto della libertà di opinione, non di rado ci arroghiamo diritti che non abbiamo.
Renato Pierri


Corriere della Sera 8.5.07
Nuove cure, summit a Milano. Altamura: spesso i sintomi ignorati dai medici
La depressione? Aumenta in primavera
di Simona Ravizza


MILANO — Maledetta primavera. Girare pagina sul calendario non favorisce solo l'innamoramento facile, come cantava Loretta Goggi: il cambio di stagione può mettere anche al tappeto l'umore. Lo fa in media per un adulto su quindici, colpito con l'arrivo di aprile e maggio dal disturbo affettivo stagionale, scientificamente definito
Sad.
È quanto emerge da nuovi dati scientifici che saranno al centro del forum internazionale «Innovazione in psichiatria», in corso da domani a venerdì all'hotel Sol Melià di Milano. «Il seasonal affective disorder è una delle forme meno conosciute di depressione, poco diagnosticata soprattutto dai medici di famiglia — spiega Alfredo Carlo Altamura, una cattedra in Clinica psichiatrica all'Università di Milano, direttore del Centro per i disturbi depressivi dell'ospedale Sacco e organizzatore del convegno —. È necessaria più informazione sull'argomento, altrimenti c'è il rischio di una cronicizzazione della malattia».
Una sessione del simposio sarà dedicata interamente al disturbo affettivo stagionale, che scatena episodi di depressione legati soprattutto alle variazioni del rapporto giorno- notte. Tra i sintomi del Sad, ci sono ansia, irritabilità, stanchezza, mal di testa e insonnia. Gli italiani che ne soffrono sono oltre tre milioni. In questo caso, gli sbalzi di umore non sono dovuti a un carattere difficile. Alla base della depressione da primavera ci sono motivi scientifici. «I cambiamenti luce-buio possono influenzare la produzione di neurotrasmettitori (sostanze che consentono la comunicazione tra le cellule nervose,
ndr) come la serotonina e di ormoni come la melatonina, entrambi fondamentali per la regolazione dell'umore — spiega Altamura —. La nuova scommessa della ricerca adesso è arrivare a individuare cure mirate per ciascun paziente, con un occhio anche alla mappa genetica e ai farmaci in grado di agire sui ritmi biologici (dal sonno, all'appetito, fino all'attività sessuale, ndr) ».
Con cinquanta relatori al top della ricerca psichiatrica, da domani la città diventa, dunque, per quattro giorni capitale degli studi sulle malattie mentali. Tra i partecipanti italiani, Mario Maj (presidente della Società mondiale di psichiatria e docente dell'Ateneo Federico II di Napoli), Giovan Battista Cassano (Università di Pisa) e Paolo Pancheri (Università di Roma).
Numerosi anche gli stranieri presenti, da Siegfried Kasper (Università di Vienna), ad Anissa Abi-Dargham (Columbia University), fino a Stuart Montgomery (Università di Londra) e Jean-Pierre Lepine (Università di Parigi). Avverte Altamura: «Se il Sad diventa cronica possono insorgere altri disturbi psicologici e può associarsi a problemi come l'alcolismo e uso di stupefacenti». La sfida è lanciata.

Corriere della Sera 8.5.07
Libri. La più importante edizione di Democrito
Quando Platone bruciò gli atomi
di Armando Torno


Democrito è un filosofo che irrompe nella storia delle scienze da quasi due millenni e mezzo. Del resto, il maestro di Abdera elaborò la prima concezione materialista dell'Occidente invitando allo studio della natura e a intendere la realtà come composizione di atomi qualitativamente simili, di ampiezza spaziale e temporale finita. Con lui cominciò — lo testimonia Aristotele! — il metodo definitorio e dimostrativo che spiega i fenomeni risalendo a quanto nell'esperienza sensibile è conosciuto con immediatezza.
Ora, per la prima volta, dopo le ricerche dei filologi tedeschi, appare in Occidente (e per fortuna nella nostra lingua) la traduzione del lavoro più importante su Democrito, quello che Salomon Luria pubblicò nel 1970 a Leningrado. Giovanni Reale ne ha coordinata l'edizione italiana. In
Democrito. Raccolta dei frammenti, interpretazione e commentario (Bompiani, pp. 1792, euro 36; con greco e russo) si scopre il doppio dei testi presenti nella raccolta dei presocratici di Diels-Kranz. L'opera è un riferimento obbligato per ogni discorso sul materialismo. Non a caso la tesi di laurea di Marx fu su Democrito ed Epicuro.
Luria ha rivoluzionato la lettura di questo filosofo, mostrandoci intuizioni più feconde di quelle aristoteliche nell'ambito delle ricerche di fisica e biologia. Che fosse una miniera senza fondo, la comunità scientifica lo sapeva dal 1948, allorché uscì il saggio, con testi e commenti, di Federigo Enriques e Manlio Mazziotti: Le dottrine di Democrito d'Abdera. Il volume, edito dalla Zanichelli che fu, era prefato da Guido Castelnuovo. Lo si ricordava quale «fondatore e precursore di quella scuola razionalista che, risorta nel Rinascimento con Galileo, Descartes e Newton, doveva dare l'impulso al mirabile sviluppo della scienza moderna». Enriques, da buon matematico, aveva raccolto i testi evidenziando l'atomismo geometrico, l'ottica, la statica, l'acustica, la meteorologia ma anche i libri di calcolo. Ancora: a pagina 201 di quella benemerita edizione veniva riportata una critica di Luria, apparsa in tedesco nel 1932, che evidenziava i contrasti tra le teorie atomistiche e la geometria greca.
C'è di più. Nell'introduzione dello stesso Luria al grosso tomo di Bompiani, alcune righe vanno meditate: «Platone voleva dare fuoco agli scritti di Democrito, almeno a tutti quelli che fosse stato in grado di raccogliere, ma gli fu impedito dai pitagorici Amicla e Clinia, perché non era un gesto di alcuna utilità, in quanto quei libri erano già diffusi tra molte persone». Insomma, un censore di prima grandezza lo ritenne pericoloso. E Platone, che cita tutti gli antichi filosofi, mai si lasciò scappare il nome di Democrito, neanche quando — sottolinea Luria — «avrebbe dovuto controbattere le sue posizioni».
Che dire? In un saggio del 1936, The Story of Uman Error, Joseph Jastrow, professore a Wisconsin, notò che se Archimede non fosse stato trucidato nel 212 a.C. e poi seguito come maestro al posto di Platone, nel 100 d.C. il Cesare di turno avrebbe mandato «il primo e il secondo squadrone di incrociatori della flotta aerea romana da Ostia ad Atene». Forse è vero, ma i barbari sarebbero stati ancor più pericolosi con quei mezzi e, soprattutto, avrebbero fatto un falò con maggior sarcasmo sia delle ricerche di Archimede sia delle teorie dei sensi o dei nuovi metodi in agricoltura del povero Democrito.

Corriere della Sera Roma 8.5.07
Il Festival all'Auditorium Si apre domani la seconda edizione della rassegna. L'ingresso costa due euro
Filosofia. Quei confini invisibili
Si discuterà sulle barriere naturali o politiche. Attesa per le lezioni magistrali
di Paolo Conti


Alessandro Baricco, ragionando tempo fa sulle fortune dell'Auditorium ideato e realizzato da Renzo Piano, ha messo in luce una grande novità di fondo: forse per la prima volta nella storia di Roma (e non solo) è uno spazio, per le sue proprie peculiarità, a sollecitare nuove proposte culturali. E non il contrario.
Ovvero stavolta è il luogo fisico a chiedere e poi a creare qualcosa che non sia solo un concerto, una mostra, una rappresentazione di prosa o lirica. Aggiungiamo a questa originale attitudine dell'Auditorium (che forse attirerà ancora altre e chissà quali proposte) un immenso bisogno continuamente mostrato da Roma: appuntamenti sganciati dai vari star-system (politica, tv, cinema, calcio) e ancorati all'universo delle idee, del confronto interpersonale. In molti si sono rivolti la stessa domanda. Ovvero: il successo delle recenti lezioni di storia, per fare un esempio concreto, mostrano un bisogno vecchio (la tradizionale cultura «alta») o nuovo (l'esigenza di profondità rispetto alla superficialità del continuo, ossessivo reality che ci circonda)?
Vedremo. Fatto sta che da domani Roma può contare su un'altra occasione per capire come stia cambiando la domanda di cultura in città E perchè. Si apre infatti all'Auditorium Parco della Musica il secondo Festival della Filosofia. Stavolta il tema è «Confini» (l'anno scorso si discusse di «instabilità»). Merito dell'operazione, l'asse Comune di Roma- MicroMega. Nella presentazione si promette un'analisi disposta su diversi livelli: confini come barriere naturali o politiche, come linee che insieme dividono ma rendono vicini, confini come limiti e freni. Filosofia nel senso più scientifico del termine, dunque, ma anche arte, scienza, sociologia, religione, inevitabilmente la politica. Fa pensare che tutto questo diventi un avvenimento in una città che può offrire innumerevoli appuntamenti filosofici con tre grandi università statali e altre private. Una constatazione che la dice lunga sulla crisi dell'Università come luogo capace di attirare studenti ma anche un pubblico più ampio. Per dirla in un semplice quesito: perchè un festival del genere all'Auditorium crea attesa mentre l'università, con le sue innumerevoli cattedre e i suoi spazi, non riesce a proporre qualcosa di ugualmente appetibile?
Ma questo è ancora un altro problema. Nel frattempo cerchiamo di comprendere cosa potrà accadere, per esempio proprio domani sera alle 20, con il faccia a faccia tra Paolo Flores d'Arcais e Giuliano Ferrara su «Laicità: la "volontà di Dio" è compatibile con la democrazia?». È solo un appuntamento tra i tanti, d'accordo, ma può aiutare a capire. Così come capiterà per «La politica oltre i confini dello stato» domenica 13 alle 16 con Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia, Giacomo Marramao, Stefano Rodotà (conduce Antonio Gnoli). Ma attirano già le lezioni magistrali di Marc Augé su «Ripensare la frontiera» (giovedì 10) o di Umberto Galimberti su «Ragione e follia» (sabato alle 21: scommettiamo che ci sarà il pienone, se non altro in odio verso l'orrore proposto da Raiuno con i monologhi, quelli sì sgangherati e «folli», di Gianfranco Funari?) Un'ultima annotazione. Per fortuna si paga. Non si capisce perchè la cultura, in un Paese pronto a spendere qualsiasi cifra per i più stupidi gadget destinati ai bambini come agli adulti, debba essere gratis. Volete ascoltare una bella discussione su storia e identità tra fedi religiose e illuminismi? Bene. Tirate fuori due modici euro, grazie. Ed ecco il biglietto.

l’Unità 8.5.07
Verso la legge. Meeting dei Centoautori
Il cinema italiano mai così unito. Rutelli: «Sono con voi»
di Gabriella Gallozzi


«Zero cultura è uguale a feroce ignoranza distruttiva». Quando Bernardo Bertolucci dal palco dell’Ambra Jovinelli comincia il suo intervento, il teatro romano è così stracolmo da lasciar fuori ancora tantissime persone. «Gente di cinema», autori, attori, sceneggiatori, maestranze che in questi altimi tempi hanno sposato la sigla dei «Centautori», diventati ormai più di mille, come è stato facile verificare dal vivo ieri pomeriggio. Tutti lì per quell’incontro con la «politica» affinché ascolti le richieste di questo un’iniverso profondamente in crisi, ma per la prima volta unito, saldissimo, e deciso a riprendersi la parola nel momento in cui la «politica» sta varando l’attesa legge di sistema. «Vi faccio una proposta, se da questa assemblea tirate fuori una delegazione vi assicuro che potrà seguire passo passo la riforma del cinema, e potremo farla insieme» garantisce Rutelli dal palco, al termine di un confronto serratissimo di oltre due ore, fatto di applausi, entusiasmo e un fiume di interventi. Intorno al ministro c’è una “delegazione” che mette insieme un pezzo intero della storia del nostro cinema di ieri e di oggi: Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Verdone, Luchetti - che fa da moderatore -, Virzì, Francesca e Cristina Comencini, Giuseppe Piccioni, Francesca Archibugi, gli sceneggiatori Rulli e Petraglia. Mentre giù in platea e nelle balconate stracolme Francesco Rosi, Silvio Orlando, Margherita Buy, Mario Martone e ancora i vertici del cinema pubblico. È più facile citare chi non c’è. Bertolucci chiede «l’eleborazione di un progetto culturale ambizioso e costoso almeno quanto le opere pubbliche di cui abbiamo sentito parlare fino alla nausea». A cominciare da un canale culturale italiano come Arte. e giù applausi. Così come per Verdone quando chiede più spazio al cinema in tv: «basterebbe tagliare una puntata su Cogne che non ne possiamo più». C’è un’aria di «riscatto» in sala. Di desiderio di «aria nuova» come sottolinea Piccioni tornando sulla «questione morale» sollevata proprio durante la scorsa campagna elettorale. «Il paese sta cambiando - dice il regista - e si avverte nuovo orgoglio e fiducia». Giù applausi. Ed uno scroscio è pure per Stefano Rulli: «Oggi per la prima volta siamo qui tutti insieme a testimoniare che un cinema italiano esiste. Siamo qui signor ministro per dirle che anche noi siamo un potere forte perché non siamo più autori divisi e dispersi, ma un cinema. Speriamo che il governo Prodi faccia una legge che apra veramente il mercato, che consenta di vedere più film e film migliori». Della legge accenna Vittoria Franco, presidente della Commissione cultura al Senato, affiancanta dalla sottosegretaria ai Beni culturali Elena Montecchi e da Andrea Colasio responsabile cultura della Margherita. Si ribadisce la necessità di un Centro nazionale per la cinematografia su modello francese, la tassa di scopo, l’antitrust. Da Veltroni arriva un saluto via lettera per ribadire la necessità di una «buona legge di riforma e basta. Lì si deve fermare la politica». Bellocchio ricorda l’importanza delle «competenze» riferendosi al Centro Sperimentale diretto da Alberoni «mio concittadino che stimo ma che di cinema...». Applausi, ancora applausi e su tutto il ricordo di Alberto Grifi, appena scomparso, evocato a più riprese da quel mondo del cinema che poco, davvero, ha saputo accoglierlo.

Corriere della Sera 8.5.07
Il segretario del Prc.
Giordano: Ségo brava sui media. Ma è il simbolo di una sinistra che non aiuta chi vuole cambiare
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — No, grazie, niente caffè. «Bene, allora possiamo cominciare subito». Franco Giordano — ottimo umore, bella camicia aperta sul collo — è nel suo ufficio da segretario di Rifondazione, un ufficio austero, largo, che misura a passi lenti, sostenendo d'avere intuito le ragioni di una probabile vittoria di Nicolas Sarkozy «già da qualche giorno, mentre ascoltavo i comizi, mentre analizzavo i discorsi che Ségolène faceva nella sua campagna elettorale».
Segretario, racconti le sue sensazioni. «Faccio una premessa: Ségolène ha dimostrato, ha ribadito che nella grande politica può esserci spazio per le donne. Detto questo, occorre però ammettere che non siamo purtroppo andati oltre la novità mediatica». Lei vuol dire che i tailleur erano di fascino, mentre i discorsi... «Io dico che avrebbe dovuto metterci dentro un'idea di trasformazione della società, invece mancavano persino i riferimenti sociali concreti. E questo sa perché? Perché la sinistra, negli ultimi 40 anni, non ha saputo introdurre una proposta di evoluzione della società, non sa rispondere alle richieste di cambiamento, lascia che...». Che sia la destra a fornire prospettive di innovazione. «Esatto. Così noi veniamo percepiti come conservatori, mentre i leader della destra...». Sta pensando anche al primo Berlusconi? «Sto pensando, certo, anche a lui... e mi duole, è chiaro, ammetterlo: ma i Berlusconi e i Sarkozy riescono a proporsi come personaggi in grado di dare risposte, certezze, orizzonti. Lo fanno utilizzando argomenti che ovviamente non condivido minimamente. Tuttavia riconosco il fatto che ci provano, e con determinazione».
A questo punto, lo sguardo di Franco Giordano si fa grigio. Il buon umore con cui pure aveva cominciato la nostra conversazione si tramuta in preoccupazione, pena, ansia.
Insomma, segretario: Sarkò ha saputo cogliere le richieste di cambiamento della società francese? «Guardi, le dico una cosa che, per me, è terribile: Sarkò, proprio lui, un neogollista, a tratti sembrava rivolgersi a soggetti sociali in carne e ossa. Dava l'idea di sapere con chi stava parlando, e cosa si aspettassero da lui». Parla di lavoro, di precarietà... «Fa di più: allude, e anche questo sembra incredibile, al tema dei cambiamenti climatici... un tema, questo, che dovrebbe al contrario risultare decisivo per una sinistra che volesse dimostrare come sia urgente modificare certi modelli di società capitalista e i loro sistemi produttivi».
E in Italia? Cosa insegnano le elezioni francesi? Giordano parla — e lo fa, se è possibile interpretare certe smorfie, con un senso di rammarico — di «una sinistra maggioritaria che, fondendosi con la Margherita, ha addirittura deciso di sparire». Quanto poi «alla sinistra che, ancora, resta e si dichiara come tale» — allusione al suo partito e naturalmente al Pdci, ai Verdi, agli scissionisti diessini e persino ai socialisti dello Sdi — «io temo che rischi di restare frammentata, divisa e tragicamente legata a logiche identitarie antiche».
A Giordano, la sinistra italiana ricorda quella francese — «un po' tecnocratica e un po' elitaria, proprio come la sua Ségolène» — e perciò avverte: «A sinistra è il momento di pensare in modo diverso». Che sinistra immagina, segretario? «Penso che occorra darsi riferimenti sociali nuovi, penso ai movimenti No Tav, penso a chi protesta contro la base Usa di Vicenza, penso che si sta aprendo una stagione di grandi rinnovi contrattuali...». Segretario: cosa dirà, Prodi, di questa intervista? «Penserà che dovremmo tornare a occuparci, per esempio, dei lavoratori».

Repubblica 8.5.07
Bertinotti dopo la sconfitta di Ségolène Royal
"Alla sinistra europea serve una rifondazione"


ROMA - «È la sinistra che ha perso. Sarkozy ha dimostrato di avere una forza propria». Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, non usa mezzi termini commentando il voto francese e lancia un messaggio anche ai progressisti italiani. «La sinistra perde, perché è debole. La sconfitta di Ségolène Royal - spiega - è grave e mette in luce la crisi della sinistra in tutta Europa. Davanti ad una crisi così profonda, si richiede una rifondazione della sinistra». E «questo problema vale sia per la sinistra riformista sia per quella di alternativa». Insomma è entrata in discussione «l´idea di società e di Europa che la sinistra vuole prospettare». Secondo Bertinotti, allora, «non basta più un partito del lavoro piuttosto che una risposta socialdemocratica classica. Aiuta di più la nozione gramsciana di egemonia».
Insomma le elezioni francesi hanno impartito una lezione. Che, secondo Prodi però, è stata già «tratta». «Credo - dice il premier - che grandi alleanze e grandi blocchi sociali e politici che guardino più al futuro che al passato siano quelli più adatti a ricevere il favore popolare. Questo è il motivo che ci ha guidato verso l´Ulivo e che ci sta guidando verso il completamento del partito democratico». Anche per Walter Veltroni, «il risultato è chiaro e inequivocabile. Ora c´è un problema di riflessione più ampia». Una valutazione che lo accomuna a Piero Fassino secondo il quale la vittoria di Sarzkozy «conferma la strada intrapresa in Italia» per il PD e la necessità per «la sinistra di conti con il centro».

Repubblica 8.5.07
Il giorno dopo l'elogio della Folgore fatto dal presidente della Camera durante la visita in Libano
Bertinotti-parà fa discutere la sinistra
"Maschilista" per la Menapace, la ds Pinotti: "Basta stereotipi"
di Alberto Custodero


ROMA -«Fausto Bertinotti è un maschilista». Ha fatto discutere, a sinistra, la dichiarazione del presidente della Camera, leader del Prc, sui parà della Folgore di stanza a Makaara, nel sud del Libano, definiti «la migliore vetrina del Paese». Dura la critica di Lidia Menapace, senatrice indipendente di Prc, della commissione Difesa del Senato, ex partigiana e pacifista. «Quella di Bertinotti - ha detto - è un´esternazione che mi stupisce. Può anche darsi che abbiano cambiato formazione politica, ma i trascorsi della Folgore non sono rassicuranti. Se metto insieme la sua visita ai frati del Monte Athos e la battuta sulla Folgore, viene fuori un´immagine di Bertinotti molto maschilista, e questo è fuori linea nella cultura di rifondazione comunista per la quale le donne sono importanti e il femminismo riconosciuto». Ancora Menapace: «Io penso che sia nostro dovere aiutare i soldati a diventare cittadini in armi, rappresentati da sindacati, ma per fare questo dobbiamo liberarci dalla retorica militarista e patriottarda, come sventolio di bandiere, fanfare, marce, fascino della divisa e altre cavolate». Non tutti, però, sono d´accordo con la senatrice Menapace che mancò la presidenza della commissione Difesa per aver definito «inutili» le Frecce Tricolori. Tana De Zulueta, deputato Verde della commissione Difesa della Camera, dà ragione a Bertinotti, anche se non le sfugge il fatto che, a tessere le lodi dei parà («che hanno una tradizione di simpatia politica a destra»), sia stato proprio il leader di rifondazione. «Ma in questo caso - è il parere di Tana de Zulueta - la collocazione politica della Folgore è irrilevante e non inficia la serietà del suo lavoro: è l´effetto del berretto blu». Chi non s´è stupita della parole del presidente della Camera («folgorato dalla Folgore»), è Roberta Pinotti, Ds, la prima donna riuscita a diventare presidente della commissione Difesa della Camera. «Sì, ha ragione Bertinotti, la Folgore, anche se l´immaginario collettivo la colloca a destra, è la migliore vetrina dell´Italia. È forse il momento di liberarci da questi stereotipi. I nostri militari in Libano hanno insegnato ai bambini libanesi a riconoscere le cluster bomb. Ma mi permetto di aggiungere che questa vetrina non può restare pulita con i tagli del 40 per cento delle spese di esercizio della Difesa voluti nel 2005 dalla Finanziaria di Berlusconi e Tremonti. Nonostante i correttivi di questo Governo, per mantenere addestrate ed efficienti le nostre truppe mancano ancora 830 milioni di euro». Cautela dalla Margherita: per Antonello Soro, coordinatore di Dl, «la Folgore in questo momento rappresenta i soldati italiani, e Bertinotti, prima di essere uomo di Rifondazione, è presidente della Camera». Per Elettra Deiana, infine, deputata del Prc, membro della commissione Difesa della Camera, l´espressione di Bertinotti «è un po´ fuori luogo e inappropriata. Mi auguro che l´Italia abbia ben altre vetrine. Non vorrei che Bertinotti abbia preso fischi per fiaschi scambiando l´Unifil per l´Italia».

Repubblica 8.5.07
Esperimento del Max Planck Institute: "Per prevenire attentati e formulare strategie di marketing"
Le intenzioni fotografate nel cervello un computer leggerà i nostri pensieri
di Luigi Bignami


ROMA - E´ possibile entrare nella mente di una persona e anticiparne le mosse? Sì, se quanto sostiene John-Dylan Haynes, ricercatore di scienze della cognizione e del cervello presso il Max Planck Institute, troverà conferma. In tal modo se da un lato si potranno anticipare le mosse di un terrorista, dall´altro si potrebbe arrivare al punto che desideri ancora inconsci nelle masse siano anticipate da politici o industriali con conseguenze ancora tutte da scoprire. Spiega Haynes a Le Monde: «Ad ogni pensiero e ad ogni intenzione sono associati particolari schemi di attività del cervello. Se si è in grado di riconoscerli è possibile predire ciò che ha in mente una determinata persona». Così se un individuo ha intenzione di concretizzare un attacco terroristico, il suo cervello dovrà lavorare in un determinato modo.
A tali conclusioni il ricercatore è giunto realizzando un esperimento su volontari il cui cervello è stato monitorato attraverso una risonanza magnetica allorché veniva loro chiesto di realizzare un´addizione o una sottrazione e di mostrarne il risultato tra i 3 e i 10 secondi dopo la scelta. Un software, messo a punto da Haynes, che elabora i risultati della risonanza magnetica delle immagini prese nella corteccia mediana prefrontale (nota per l´elaborazione dei movimenti volontari di una persona) è stato in grado di comprendere con una precisione del 71% quale sarebbe stata la scelta.
Haynes si rende conto che quanto sperimentato potrebbe avere risvolti assai inquietanti, simili a quelli raccontati nel film Minority Report dove, seppur grazie ad individui dotati di poteri paranormali e non a macchine, si arriva a punire persone che hanno solo l´intenzione di compiere atti ostili alla società senza averli commessi.
Ovviamente non tutti sono convinti che la lettura dei nostri pensieri sia davvero a portata di mano. Jean-Claude Ameisen, presidente del comitato etico della dell´Inserm-Cea (centro di ricerca per lo studio delle funzioni cognitive dell´uomo), sostiene che il pericolo sta «nella tentazione di giungere a spiegazioni semplici di pensieri complicati». E tuttavia il desiderio di conoscere il pensiero dell´uomo non si ferma al Max Planck Institute, come dimostra l´alto numero di centri di ricerca che lavorano in questo campo. Un´azienda di Reston, in Virginia (Usa), ha messo a punto un software che si dice capace di decifrare il comportamento delle persone (sembra sia già stato utilizzato in Iraq dai soldati americani). Mentre l´Ibm ne sta studiando un altro in grado di capire cosa sta cercando una persona al supermarket, così da farle comparire davanti agli occhi la lista dei prodotti desiderati.

Il Riformista 7.5.07
Giustizia: ecco il vaccino per la "malattia carcere"
di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia)


All’indomani dell’approvazione dell’indulto, invitato con il ministro Clemente Mastella a uno spettacolo della compagnia teatrale di Rebibbia penale, ho assistito a una scena surreale: man mano che lo spettacolo andava avanti, la compagnia si assottigliava e, tra abbracci e lacrime, alcune vecchie glorie e consumati attori dell’istituto romano si congedavano dai loro compagni, improvvisamente raggiunti dall’ordine di scarcerazione della Procura della Repubblica.
"Correre il rischio del bene" è l’unico modo per far fronte radicalmente - ovvero, a partire dalle radici del problema - alla "malattia carcere" di cui scrivono dal carcere di Biella: correre il rischio del bene significa restituire il carcere alla società, perché se ne faccia carico, senza infingimenti. Una cura omeopatica (capace cioè di curare la febbre con la febbre) e tutt’altro che astratta, anzi: fatta di uomini e donne in carne e ossa che escono dal confino carcerario e scommettono insieme con noi su una second life, reale e non virtuale.
Ci abbiamo provato, poco meno di un anno fa, e ad oggi pare che ci abbiamo azzeccato: una mobilitazione straordinaria di risorse umane, finanziarie e materiali, dei ministeri, delle Regioni, degli Enti locali, del terzo settore e del volontariato, cui finora corrisponde un tasso di recidiva estremamente contenuto, ben lontano dai suoi livelli abituali (tra coloro che finiscono di scontare la pena senza usufruire di sconti e benefici).
Oggi la popolazione detenuta nelle carceri italiane non raggiunge la capienza regolamentare di 43mila unità: non succedeva da quindici anni. Oggi è possibile sperimentare, per coloro che sono rimasti in carcere, politiche e interventi più attenti ai bisogni umani e di reinserimento sociale che quelle persone esprimono. Abbiamo iniziato da una piccola, ma simbolicamente rivoluzionaria, iniziativa: la chiusura del reparto detentivo per detenute madri nel carcere milanese di San Vittore e l’apertura di una casa a custodia attenuata.
Un luogo (un appartamento) dove i figli di quelle donne possano non percepire la clausura forzata delle madri e la loro esclusione dal mondo grande che c’è oltre le sbarre. Ora ci attendono la riforma del sistema di assistenza sanitaria e il superamento di quel residuo manicomiale che si annida negli ospedali psichiatrici giudiziari.
Ma il discorso dovrà allargarsi al recupero delle finalità trattamentali delle case di l’esclusione e alle offerte di istruzione, formazione, lavoro e cura per la generalità delle perone detenute. Anche per persone assegnate a circuiti alta sicurezza, per i quali deve valere - come per chiunque altro - il principio della finalità rieducativa della pena.
Nelle scorse settimane, il Consiglio dei ministri ha fatto la sua parte, proponendo la riforma della legge sull’immigrazione e l’abrogazione delle norme più odiose sulla recidiva ("ex Cirielli"). Speriamo che si possa fare altrettanto, e altrettanto bene, sulle droghe. Intanto la Camera ha trasmesso al Senato la proposta dell’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà.
Ognuno di questi piccoli passi contribuisce a dare senso alla audace scelta di correre il rischio del bene. Affrontare la "malattia carcere" richiede, infatti, un lavoro faticoso, che ha bisogno di scelte legislative coerenti, ma soprattutto del concorso di molti altri soggetti, istituzionali e non.
Nel bene come nel male, quelle movimentate settimane delle scarcerazioni seguite all’indulto ce lo hanno insegnato: una politica penitenziaria non ottusamente reclusoria ha bisogno del concorso di tutto il pubblico e il privato-sociale disponibile; il ministero della Giustizia ha molte responsabilità, ma non è autosufficiente, non ha il monopolio delle risorse e delle competenze necessarie ad accompagnare i detenuti nella loro second life.
Ne siamo consapevoli e consapevolmente chiamiamo a raccolta le forze, magari anche - se ne è iniziato a discutere - in una grande assise di enti e istituzioni, operatori e responsabili, uomini e donne di buona volontà, riuniti nella prima conferenza nazionale sull’esecuzione penale.

Associazione Antigone, 7 maggio 2007
Giustizia: Antigone; gli Opg sono inaccettabili, vanno superati

L’associazione Antigone ha visitato tutti e sei gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani. "Alla data del 3 maggio - ricorda l’associazione - gli internati risultano essere 1.266, di cui 116 stranieri, che costituiscono il 9,16% del totale. Una percentuale molto più bassa rispetto al 35,31% (corrispondente a 15.017 detenuti) di popolazione reclusa straniera. Ad oggi il totale dei detenuti è pari a 42.533 unità, di cui 1.842 donne".
Continua Antigone: "Nei sei ospedali psichiatrici giudiziari il numero di internati è il seguente: Aversa 316 (capienza regolamentare 164), Barcellona Pozzo di Gotto 215 (capienza regolamentare 216), Castiglione dello Stiviere 225 di cui 90 donne (capienza regolamentare 193), Montelupo Fiorentino 137 (capienza regolamentare 100), Napoli Sant’Eframo 105 (capienza regolamentare 150), Reggio nell’Emilia 268 (capienza regolamentare 120). Aversa e Reggio Emilia risultano drammaticamente sovraffollati".
In questo senso, per Antigone "l’indulto non ha inciso granché sugli Opg. I motivi dell’internamento sono in ordine di consistenza numerica: proscioglimento per totale infermità psichica, applicazione di una misura di sicurezza provvisoria, sopravvenuta infermità psichica, minorazione psichica, invio da istituti penitenziari per osservazione psichiatrica temporanea".
Sempre secondo l’associazione, "è elevato il numero di internati negli Opg che non avrebbero più ragione di permanervi in quanto non più ritenuti socialmente pericolosi, e che invece restano per decenni in condizioni disumane. Ad esempio, 45 internati a Reggio Emilia e ben 100 ad Aversa si trovano in questa situazione".
Si registra, poi, un uso frequente della coercizione. "Almeno 515 episodi di coercizione in un anno, secondo i dati ufficiali - evidenzia Antigone -. Un internato su sei, spesso più di una volta, vive l’esperienza della contenzione. I letti di contenzione sono abitualmente usati in tutti e sei gli istituti, secondo protocolli operativi e terapeutici non sempre chiari. Nel 2006 a Napoli si sono registrati 52 casi di coercizione. Ciò significa che un internato su due è stato contenuto. Il protocollo prevede la sola registrazione del caso, con verifica periodica da parte del personale, senza che la direzione specifichi ogni quanto tempo questa ha luogo".
Gli ospedali, poi, sono gestiti principalmente da agenti di polizia penitenziaria, e solo secondariamente da specialisti medici, in numero assai inferiore. "Ad esempio ad Aversa lavorano 116 agenti e 7 psichiatri a contratto. Per gli stranieri la condizione di vita diviene peggiore a causa della mancanza di operatori specifici. A Napoli e Aversa, ad esempio, non opera alcun mediatore culturale.
A Napoli le condizioni igieniche di alcuni reparti sono inaccettabili, sino a toccare livelli in cui la detenzione diviene degradante. Ad Aversa le condizioni igieniche sono relativamente migliori, ma comunque notevolmente al di sotto di un qualsiasi carcere nonché degli standard richiesti dal Regolamento. Barcellona Pozzo di Gotto pare si appresti a ricevere tutte le donne oggi internate a Castiglione delle Stiviere, che rischieranno ora un sempre maggiore isolamento e abbandono da parte dei famigliari".
"La situazione è tale da richiedere un progressivo superamento - conclude Antigone -, attraverso soluzioni di carattere normativo, degli ospedali psichiatrici giudiziari, così come sono stati chiusi trent’anni fa i manicomi. Nel frattempo Opg come quello di Napoli non possono rimanere aperti."

Ansa, 7 .5.07
Giustizia: Antigone; in visita all’Opg di Napoli, un vero inferno

Resti di cibo in terra, odore di urina nelle stanze e lungo i corridoi. Questa è la descrizione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli fatta dal presidente dell’associazione Antigone del capoluogo campano, Dario Stefano Dell’Aquila, in visita, con gli altri componenti dell’osservatorio nazionale sulla detenzione, agli Opg di Napoli e Aversa, per avviare il quarto rapporto nazionale sulla condizione della detenzione. "Malgrado lo sforzo degli operatori penitenziari e delle direzioni delle strutture - sottolinea Dell’Aquila - la situazione è molto grave, in particolare nella struttura di Sant’Eframo a Napoli".
In Campania ci sono 2 dei 6 Opg del Paese, 320 i detenuti e gli internati ad Aversa, 105 a Napoli. Secondo il presidente dell’associazione Antigone "sarebbe più onesto chiamarli manicomi giudiziari e andrebbero subito chiusi". Altro problema sollevato dai componenti dell’osservatorio sulla detenzione è quello degli internati in regime di proroga della misura di sicurezza (detenuti che hanno scontato la pena, ma vengono tenuti negli Opg perché non ci sono alternative): le Asl di residenza non possono occuparsene e, anche al termine della detenzione, restano negli Opg.
È il caso di C.C., 58 anni, in ospedale da 20. È stato colpito da ictus durante la sua permanenza ad Aversa, non c’è parere negativo all’uscita, ma non esiste un’altra struttura di accoglienza diversa dagli Opg. "L’Asl di appartenenza dovrebbe prendersene cura e non lo fa - spiega Dell’Aquila - mentre l’Asl territoriale non accetta cittadini appartenenti ad altra azienda sanitaria". L’associazione Antigone conta 150 persone nell’Opg di Aversa in regime di proroga della misura di sicurezza e aggiunge che alcuni casi sono incompatibili con la detenzione. La soluzione? Regionalizzare le strutture.
"La chiusura e il superamento delle strutture e l’immediata presa a carico, da parte servizi sociali e socio sanitari, degli internati per i quali è cessata pericolosità sociale - aggiunge il presidente napoletano di Antigone - Bisogna superare il modello manicomiale e creare strutture residenziali per 15 persone, come in Gran Bretagna, in ogni regione.
I pazienti e i detenuti devono rimanere nella regione di appartenenza". L’Opg di Napoli ha solo 4 educatori, addirittura 3 in quello di Aversa. "Gli internati sono in completo abbandono, nonostante la coscienziosa attività di infermieri e operatori sociali. La responsabilità è delle istituzioni e del sistema sanitario che non si fanno carico del problema", conclude Dario Stefano Dell’Aquila.

Notiziario Aduc, 7.5.07
Droghe: rischio schizofrenia per troppe "canne" da adolescenti

Su sette adolescenti che consumano cannabis, uno diventa dipendente. Non solo, in soggetti vulnerabili le molte "canne" creano un maggiore rischio di sviluppare malattie psichiatriche come la schizofrenia. Se ne parla in un corso di formazione organizzato dalla Società Italiana di Psichiatria che inizia oggi a Roma e che si terrà in 16 città italiane sino al 19 giugno.
Gli adolescenti che diventano dipendenti da cannabis sono più spesso maschi, e possono facilmente manifestare comportamenti antisociali, aggressivi e violenti. "Un altro rischio sottovalutato per gli adolescenti che diventano dipendenti da cannabis - sottolinea il Presidente SIP, Mariano Bassi, coordinatore scientifico del corso - è quello di passare al consumo di altri tipi di sostanze illecite e dannose, di manifestare sintomi depressivi e psicotici. Questi rischi sono ormai stati confermati dai risultati di numerosissimi studi internazionali su vastissimi gruppi di adolescenti e di giovani, attraverso osservazioni protratte nel tempo".
L’uso di cannabis viene da tempo studiato in rapporto a disturbi e malattie psichiche. "Il quesito principale riguarda il rapporto causa-effetto che potrebbe esistere tra uso di cannabis e la manifestazione di sintomi psicotici, sia in persone non malate che in persone portatrici di una particolare vulnerabilità e quindi a maggiore rischio di ammalarsi di un grave disturbo mentale come la schizofrenia".
Numerosi fattori e variabili condizionano il rischio di utilizzare cannabis e il rischio di sviluppare un disturbo psicotico. Una delle più significative e recenti prove scientifiche della correlazione tra uso di cannabis e insorgenza di manifestazioni psicotiche deriva dai risultati di una ricerca prospettica, durata 15 anni, su una platea di circa 50 mila giovani svedesi. "I risultati della ricerca - spiega ancora il presidente della Società italiana di psichiatria, Mariano Bassi - dimostrano che la relazione tra il rischio di ammalarsi di schizofrenia e l’uso di cannabis è significativa dal punto di vista statistico ed è influenzata dalla quantità di canne fumate dai giovani oggetto della ricerca dall’età di 18 anni".
Uno studio successivo ha riportato i dati di un’osservazione di 27 anni sulla stessa platea di giovani svedesi. Questa seconda ricerca ha messo in evidenza risultati coerenti a quelli del primo studio, conferendo tuttavia "maggiore attendibilità ed autorevolezza" allo studio stesso, realizzato utilizzando strumenti diagnostici più appropriati e procedure statistiche più sofisticate. "I risultati hanno dimostrato una inequivocabile correlazione tra intensità nell’uso di cannabis e rischio di ammalarsi di disturbi psicotici: in poche parole, maggiore è il consumo di canne durante l’adolescenza e maggiore è il rischio di ammalarsi di disturbi mentali gravi e persistenti, come i disturbi psicotici".
Anche una ricerca condotta in Olanda su circa 5 mila giovani per 3 anni ha portato alle stesse conclusioni. I giovani che hanno preso parte a questo studio, si ricava sempre dal materiale della Società italiana di psichiatria, non avevano avuto mai manifestazioni disturbi mentali prima della ricerca. Anche in questo caso il rischio di ammalarsi è stato molto maggiore per coloro che avevano consumato la maggiore quantità di cannabis durante il periodo di osservazione.
In Germania la stessa ricerca è stata effettuata per 4 anni su circa 2.500 adolescenti tra il 1995 e il 1999. I giovani che all’inizio del periodo di osservazione avevano riportato un uso più massiccio di cannabis sono stati quelli che durante il periodo dello studio si sono più frequentemente ammalati di psicosi.
"È opinione comune che l’uso di cannabis si possa identificare, per le persone affette da schizofrenia, con una forma di terapia auto-indotta. L’ipotesi dell’uso di cannabis come auto-terapia tuttavia non viene confermata da buona parte degli studi sugli adolescenti, dato che l’insorgenza precoce di sintomi psicotici non sarebbe un elemento predittivo di un maggiore rischio di divenire un consumatore abituale di cannabis". Questi risultati sono stati confermati da una ricerca condotta a Bordeaux, in Francia, nel 2002. Lo studio francese ha anche confermato, insieme ad altre ricerche, che la presenza nella storia familiare di disturbi dello spettro psicotico (una sorta di vulnerabilità ad ammalarsi di disturbi psicotici trasmessa geneticamente) rende ancora più elevato il rischio di ammalarsi nei giovani consumatori di cannabis. "In piena coerenza con i risultati degli studi precedentemente citati - conclude Bassi - si è dimostrata una correlazione biologica tra cannabinoidi e i neurotrasmettitori dopaminergici, che sono responsabili della genesi dei sintomi e dei disturbi psicotici".

La Stampa.it 8.5.07
Napolitano parla dell'indulto: "E' stato un fatto necessario"
Il Presidente durante la visita a Rebibbia: «Detenzione per solo per i crimini che allarmano»


L’indulto è stato «un fatto eccezionale ma necessario per rendere più vivibili e degne carceri italiane». Lo ha ricordato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervenendo a un incontro con alcuni rappresentanti dei detenuti e dell’amministrazione carceraria durante la sua visita alla Casa circondariale di Rebibbia. «È pensando alla condizione di chi paga soffrendo il suo debito con la giustizia che ho salutato positivamente - ha ricordato Napolitano davanti al ministro della Giustizia Clemente Mastella - l’accordo in Parlamento sul provvedimento di indulto come fatto eccezionale ma necessario» anche considerando le difficoltà dell’edilizia carceraria.
«CARCERE SOLO PER I REATI CHE DESTANO ALLARME»
Il presidente della Repubblica auspica poi che, in una complessiva e necessaria revisione del sistema delle sanzioni e delle pene, la detenzione debba essere riservata solo ai reati più gravi e che suscitano allarme. «Ribadisco la convinzione che la pena detentiva - ha detto Napolitano - debba essere riservata a chi commette crimini che destano allarme, che ledono gravemente valori e interessi preminenti e intangibili». Il capo dello Stato, accolto tra gli applausi nel piccolo auditorium della Casa circondariale, ha ribadito che «l’esecuzione della pena deve avvenire nel rispetto della dignità del detenuto e offrendo condizioni per favorire il suo reinserimento sociale».
L'APPELLO DEI DETENUTI AL CAPO DELLO STATO: «SERVONO SEGNALI FORTI»
La visita del Capo dello Stato «è un momento da ricordare in modo indelebile», ha detto un detenuto prendendo la parola durante la cerimonia nel teatro di Rebibbia: «La preghiamo di dare un segnale forte per l’efficienza della giustizia - ha aggiunto rivolgendosi al Capo dello Stato - e degli istituti di pena. Il vero dilemma presente in noi è il reinserimento, la nostra volontà è l’uguaglianza davanti alla legge, senza condanne all’emarginazione. Un detenuto recuperato è un danno in meno per la società».
Anche una detenuta di Rebibbia femminile ha voluto ricordare al Presidente come l’indulto non sia stato «la soluzione di tutti i nostri problemi», e dunque la necessità di maggiori aperture alle misure alternative che, ha detto, «sarebbero più adeguate per il reinserimento». Alla luce di ciò, «il problema della lentezza della giustizia è vissuto un pò in tutte le carceri - ha aggiunto la detenuta - vogliamo sperare che nel corso di questa legislatura qualcosa cambi. Lo Stato si deve adoperare per le politiche sociali, per poter guardare al futuro e ad una vita migliore».
LA RISPOSTA DI NAPOLITANO: «MI SENTO PERSONALMENTE INVESTITO»
«Terrò conto di questo suo invito nell’ambito delle mie responsabilità e dei miei poteri di stimolo e controllo» ha detto il Capo dello Stato, dopo aver ascoltato l’intervento di una detenuta nel corso della visita di questa mattina a Rebibbia. Analogo impegno Napolitano lo ha promesso ad un rappresentante dei detenuti uomini, soprattutto nel campo «del reinserimento nel mondo del lavoro» dopo la fine della detenzione. «Di questo problema mi sento personalmente investito» ha aggiunto.
Non è mancato il «plauso» del capo dello Stato agli agenti penitenziari di cui, ha detto Napolitano, «non mi sfuggono i delicati problemi» ma il presidente si è anche detto «certo che
dallo sforzo congiunto e competente ispirato ai principi della Costituzione e al senso umanità si potrà trovare impulso per una moderna politica della giustizia e della gestione della pena».