giovedì 10 maggio 2007

il Riformista 10.5.07
Evoluzione. Due libri di Pievani riportano il dibattito sul piano scientifico
Il dio degli spaghetti vale quanto quello di Bush
Il vero disegno intelligente è l’attacco politico da parte dei poteri cattolici alla ricerca. Ma perché esiste il reato di vilipendio alla religione e non quello di diffamazione della scienza?
di Massimiliano Parente


Succede che la parola, il suo valore, il suo rapporto con le cose conti sempre meno, e che qualsiasi parola equivalga a qualsiasi altra, e che perfino sulla politica internazionale il pensiero della Parietti, della Borromeo o dell’ultimo tronista valga quanto quella di Angelo Panebianco o Bernard Lewis. A questo siamo ormai abituati. Ma perfino per la scienza vale lo stesso discorso, perché, nel nome del multiculturalismo e del politicamente corretto, «le opinioni vanno rispettate», tutto è opinabile, controvertibile, suscettibile di urtare le suscettibilità altrui. Sul Foglio si leggeva l’ennesimo articolo neocreazionista, spacciato per discussione scientifica. Sono andati a rispolverare Barbara King, la solita fideista travestita da darwinista convinta, peccato che il suo darwinismo si fermi ai primati, per dire che «Dio c’è», anzi non può non esserci, come si legge sui cartelli delle autostrade, e cercare di dimostrare che biologia e religione sono compatibili, così come, per le varie Chiese, le religioni tra di loro, pur ciascuna, stranamente, con la sua verità assoluta. Ci prova ogni giorno anche il Corriere della Sera, un colpo al cerchio creazionista e uno alla botte evoluzionista, con la tendenza a considerarle un’unica botte da cui bere un unico vino conciliatore, e perfino il Domenicale riesuma vecchie vulgate già confutate dallo stesso Darwin ai suoi tempi, scrivendo in prima pagina «noi non veniamo dalla scimmia».
I più furbi, i credenti pseudoscientisti, praticanti o meno, i religiosi occidentalizzati che vivono come gli atei e la nuova schiatta degli atei devoti, si oppongono a una scienza “dogmatica”, che non esiste se non nella loro testa e nella loro strategia propagandistica, perché la scienza non è dogmatica per definizione. La verità, non rivelata, è che i fatti esistono, esistono quando abbiamo bisogno di un medico, esistono quando Berlusconi vola a Cleveland e ci vola col cuore in mano e non a farsi benedire, esistono quando non potremmo ammettere, in un processo, che il piccolo Samuele è stato ucciso dal diavolo, esistono quando dividiamo il vero dall’inverosimile, quando dubitiamo, per riprendere un’immagine di Bertrand Russell, che possa esistere una teiera cinese in orbita intorno al sole. Ma, nel caso e nell’assurdo si volesse sostenere, dovrebbe provarlo chi lo sostiene a chi dice che è impossibile, non il contrario. Mentre c’è un forte e sempre più invadente movimento politico-interreligioso che punta a screditare la scienza, e con essa il concetto di verità, confondendo continuamente la verità con la verità rivelata.
E così, mentre nei paesi anglossassoni diventa bestseller The God Delusion, l’ultimo saggio di Richard Dawkins, il più grande evoluzionista vivente, che va in televisione a parlarne e ne discute al Late Late Show, in Italia prosegue il retorico giochino di società tra credenti e finti non credenti, tra verità supposte e supposte di verità religiose, e nell’idea non del conflitto ma della conciliabilità di qualsiasi cosa con qualsiasi altra. E per fortuna ci sono libri come quelli di Telmo Pievani, del quale ne escono due contemporaneamente, Creazione senza Dio (Einaudi) e In difesa di Darwin (Bompiani), e peccato non ci siano, come negli Stati Uniti, trasmissioni serie in cui parlarne ma solo la Perego che stringe la mano commossa all’esorcista. Pievani direbbe nel suo ultimo libro agile ma denso, incazzato ma equilibrato, cose scontate, se le cose scontate non fossero diventate inerti e svuotate nell’indifferenza del pensiero postmoderno e disciolte nel chiacchiericcio mediatico.
La premessa è impressa sulla copertina di Creazione senza Dio, ovvia per chi ha un minimo di amor scientifico e buon senso holbachiano ma che oggi occorre ribadire a caratteri cubitali su fondo bianco: «L’evoluzione è un fatto. Chi si scaglia contro Darwin non lo fa per amore di verità. Chi vorrebbe insegnare nelle scuole il teorema del “disegno intelligente” ha in mente una società antimoderna, condizionata da valori pervasivi e dogmatici». O nella quarta del saggio In difesa di Darwin, perfino più efficace per il taglio serio ma anche satirico, dove Pievani comincia con il raccontare un grottesco risveglio: «Una mattina ci siamo svegliati e l’evoluzione non c’era più. Non è che ci fosse stato, prima, un dibattito, una proposta, un avviso, una provocazione, anche solo uno sberleffo: guardate che adesso togliamo Darwin dai programmi delle scuole, il vecchio naturalista inglese ha i giorni contati. No, nulla di tutto ciò. Abolito, punto. E qui comincia una rocambolesca storia di provincialismo culturale».
È un dibattito che in Italia, e non solo, vuole apparire come una normale disputa di punti di vista, ma così non è. Come spiega Pievani c’è un preciso disegno, questo sì intelligente, di attacco politico alla ricerca scientifica da parte dei poteri politici cattolici su presupposti antiscientifici. Non solo Vittorio Matthieu può scrivere ancora oggi che il neodarwinismo è una religione, e che «l’occhio non nasce da una singola mutazione: nasce da una serie di molte mutazioni casuali (...). La probabilità che queste, appunto perché casuali, si presentino tutte insieme è praticamente nulla». Si tratta di obiezioni dettate o dall’ignoranza o dalla malafede per far passare la fede, perché nulla di ciò che scrive Matthieu ha un senso scientifico, eppure costringe gli scienziati a rispondere mettendosi sullo stesso piano del delirante interlocutore. Per questa ragione Richard Dawkins e Stephen J. Gould siglarono un patto per non andare più a dibattiti con i neocreazionisti.
Eppure, nel frattempo, George W. Bush, ha autorizzato l’insegnamento della dottrina intelligente nella scuole americane, sotto l’alibi della libertà di confronto tra diverse “scuole di pensiero”. Ossia non ci sono fatti, solo opinioni. «Richard Dawkins», commenta Pievani, «ha fatto notare che sarebbe sbagliato mettere sullo stesso livello il credere all’esistenza di un essere supremo e il non credervi, come se fosse una scelta soggettiva e indifferente. Da un punto di vista logico, infatti, la teoria dell’esistenza di un disegno superiore è del tutto implausibile, mentre il suo contrario non lo è». Non si può trovare un punto di incontro tra scienza e fede (ammesso di riuscire a capire e spiegare cosa è la fede, perché non appena se ne parla non si sa più cos’è, già la parola definisce un controsenso logico). Pievani commenta che «esiste il reato di vilipendio della religione, ma non quello di diffamazione della scienza. Si potrebbe rispondere: perché l’infibulazione è un’offesa al corpo delle donne, mentre chi crede nella terra piatta non fa del male a nessuno. È vero, ma siamo sicuri che mandare il proprio figlio in una scuola privata dove si insegna la teoria che la Terra è piatta perché così è sancito nelle Scritture non comporti un danno piuttosto serio per l’educazione?».
Pertanto, se saltano i parametri logici e si tutelano le opinioni e le “scuole di pensiero”, non possiamo non dare pari dignità di opinione e di pensiero anche alla setta cibernetica del “Flying Spaghetti Monster”, il mostro volante degli spaghetti, fondata da un giovane laureato in fisica, Bobby Henderson. «La protesta di Henderson è ineccepibile» dice Pievani, e è difficile dargli torto. «La sua alternativa, nello specifico, è fondata sulla credenza di un dio degli spaghetti che ha previsto e creato tutto». D’altra parte, in termini di verità, non si capisce perché debba essere più vero il Dio di Bush, quello di Ratzinger, quello che fa ingoiare un’ostia che si transustanzia nel corpo di Cristo, di quello degli spaghetti o del dio che se ti fai esplodere in un ristorante ti manda in paradiso con settanta vergini pour l’éternité.

l’Unità 10.5.07
Sinistra democratica sbarca in Europa


ROMA Sinistra Democratica sbarca anche in Europa. Nel corso di una conferenza stampa al Parlamento europeo di Bruxelles, gli europarlamentari Claudio Fava, Giovanni Berlinguer, Pasqualina Napoletano e Giulietto Chiesa, hanno presentato «Sinistra Democratica per il socialismo europeo» un’area politica costituita all’interno della delegazione italiana del Pse che ha lo scopo di fornire un contributo «forte e significativo» al progetto di Fabio Mussi, per la creazione di una sinistra antagonista al Partito Democratico di Piero Fassino e Francesco Rutelli. «Il cantiere per una sinistra unita proposto in questi giorni in Italia potrà contare a Bruxelles su un laboratorio politicamente avanzato», ha assicurato Claudio Fava (Ds), coordinatore dell’iniziativa. «In questi anni abbiamo sviluppato con gli altri europarlamentari italiani della sinistra e dell’area ambientalista consuetudini di lavoro che adesso intendiamo consolidare».

l’Unità 10.5.07
«L’Unità» fa una domanda E Pezzotta si irrita...


ROMA Domanda della cronista dell’Unità a Savino Pezzotta: «Quanto è costato organizzare il Family Day e chi lo ha finanziato?».
Risposta: «Me l’aspettavo questa domanda. Lo chieda a un sindacato a lei vicino quanto costa organizzare una manifestazione».
«Agli organizzatori del Family Day chiedo quanto è costato il Family Day, non al sindacato».
Pezzotta: «C’è un retropensiero in questa domanda».
Cronista: «È legittimo o no fare domande di questo tipo?». Pezzotta: «Lo chiederebbe per un’altra manifestazione?».
Cronista: «Sì».
Pezzotta: «Abbiamo aperto una larga sottoscrizione, chi viene si finanzia singolarmente la propria partecipazione, non come avviene per altri eventi». Eugenia Roccella, co-portavoce del family interviene: «Tanto per capirci, non utilizziamo l’8 per mille destinato alla Chiesa, questo evento è stato finanziato dalle 23 associazioni che hanno aderito a cui fanno riferimento altre 47 associazioni, tutte con regolare bilancio. Il Forum delle Famiglie ha anche acceso un mutuo per far fronte alle spese». All’8 per mille nessuno ha fatto riferimento. Alla fine quanto è costato il Family day non si sa. Savino Pezzotta è visibilmente contrariato per la domanda e non fa nulla per nasconderlo. Lui, lunga storia di sindacalista, ne ha di familiarità con le manifestazioni, «ma stavolta è diverso, non ci sarà neanche il servizio d’ordine». E non ci sta a sentirsi dire che c’è chi vede l’ombra lunga del Vaticano stesa sopra piazza San Giovanni. Perciò a chi pone la questione risponde: «Non vedo perché ci dovrebbe essere l’ingerenza della Chiesa, probabilmente qualcuno dovrebbe cambiare gli occhiali. La nostra - precisa alzando il sopracciglio - è una piazza laica: ci riferiamo al concetto di famiglia come è scritto nell’articolo 29 della Costituzione. Come si può notare io non porto né la mitra, né il piviale». Come si può notare sono sempre meno gradite le domande dei giornalisti. m.ze.

Repubblica 10.5.07
Farà concorrenza a quella dell'Unità. Primi appuntamenti a Orvieto e Livorno il mese prossimo
E la sinistra di Mussi lancia la "Festa d'Aprile"
Ds già al lavoro per la kermesse nazionale che quest´anno torna a Bologna
di Goffredo De Marchis


ROMA - Nascerà a giugno ma si chiamerà Festa d´Aprile. Sarà la kermesse di Sinistra democratica, la costola dei diessini anti-Partito democratico guidata da Mussi e Angius. Aprile come il giornale on line dell´ormai ex correntone della Quercia. Ma anche, simbolicamente, "Festa d´Aprile" come una celebre canzone della Resistenza scritta dal partigiano Franco Antonicelli. «Forza che è giunta l´ora, infuria la battaglia per conquistare la pace, per liberare l´Italia; scendiamo giù dai monti a colpi di fucile; evviva i partigiani! È festa d´Aprile», recita il ritornello. Il mese prossimo i primi due appuntamenti: ad Orvieto e a Livorno, la città della prima grande scissione della sinistra italiana. Saranno manifestazioni organizzate a livello locale. In queste ore invece il gruppo dirigente pensa al grande momento d´incontro nazionale da celebrare dopo l´estate. In concorrenza con la festa dell´Unità.
La tradizionale iniziativa che fu del Pci e ora è dei Ds non scompare, anche se il Pd è alle porte. Il tesoriere del Botteghino Ugo Sposetti lo ripetuto in tutte le salse, anche nel modo brusco che gli è congeniale. «La festa non si tocca. È un marchio che funziona da decenni. È come la Nutella, guai a chi la mette in discussione». A Via Nazionale, la sede della Quercia, sono già partite le riunioni tecniche per preparare il terreno a un appuntamento che giocoforza non potrà essere lo stesso di sempre. Dovrà tenere insieme la passione dei militanti di sinistra per un appuntamento identitario e il futuro che corre verso il Pd. Ed è proprio questo che preoccupa i Ds. La fase di transizione rischia infatti di appannare il significato della festa, di raffreddare il calore della gente diessina e dunque di ridurre in parte il prezioso contributo dei volontari. Volontari, per meglio dire, indispensabili. Per il successo della festa, che però non è solo d´immagine, ma rappresenta una fonte di finanziamento consistente per i Ds. Questa festa in mezzo al guado (la kermesse nazionale torna a Bologna dopo aver girato un po´ l´Italia, nel capoluogo emiliano gli incassi sono più garantiti) dunque va studiata per bene.
Nelle difficoltà diessine cercano di infilarsi i transfughi. La festa d´Aprile, per loro vuole dire anche un lancio in grande stile del movimento Sinistra democratica, la possibilità di farsi conoscere e un luogo, più luoghi, dove raccogliere adesioni e fondi. I soldi sono il primo scoglio. Con la costituzione dei gruppi parlamentari (la prossima settimana verranno eletti i presidenti) la nuova forza potrà contare su un fido di 600 mila euro solo per la Camera. Cioè la cifra che deriva dai contributi ai singoli parlamentari (in tutto saranno 24) durante l´anno. Poi ovviamente vanno reperiti altri finanziamenti. E tra i primi impegni di Sd c´è la ricerca di un tesoriere. Ma oltre ai problemi tecnico-organizzativi, Sinistra democratica è alle prese con il primo braccio di ferro della sua storia, quello sul capogruppo della Camera. Al Senato è certa l´investitura di Cesare Salvi, dissidente che da tempo guarda a sinistra, in particolare a Rifondazione. A Montecitorio, per mantenere l´equivicinanza con i socialisti, l´ex Psi Valdo Spini è deciso a giocare fino in fondo le sue chance. Sul nome di Spini però si è aperta una lotta intestina. Molti giurano che con il voto segreto quel nome non passerebbe mai. Le donne di Sd, che sono molte, chiedono un segnale di rinnovamento e una compagna alla presidenza del gruppo. I nomi sono quelli di Fulvia Bandoli o Katia Zanotti. Spini però è stato netto: se non fa il capogruppo lascia Sinistra democratica. E apre una questione politica dentro il neonato movimento che punta a un dialogo aperto a tutto campo con le forze di sinistra.

Repubblica 10.5.07
Italiani sempre più distanti dai precetti della Chiesa. Rapporto sulla secolarizzazione su Critica liberale
La famiglia cattolica in declino calano battesimi e nozze religiose
di Francesco Bei


ROMA - Se persino Pier Ferdinando Casini arriva a giudicare «desueti» alcuni precetti della Chiesa, non c´è da stupirsi se, nel suo complesso, la società italiana si sia da tempo incamminata sulla strada della secolarizzazione. E´ un processo inesorabile quello del progressivo distacco degli italiani dalle indicazioni delle gerarchie in materia di famiglia, sesso, educazione dei figli, sacramenti. E c´è anche chi si è preso la briga di misurare la larghezza di questo fossato, inventandosi un indice per misurare la "de-cattolicizzazione" del Paese. Nell´ultimo numero di "Critica liberale" viene presentato infatti il «terzo rapporto sulla secolarizzazione», che conferma la difficoltà crescente del Vaticano a sintonizzarsi con la vita reale delle persone. «Si sbaglia - scrive il direttore Enzo Marzo - chi si ferma alle apparenze e si convince che la Chiesa cattolica stia vivendo un momento di trionfo. E´ il contrario. La gerarchia più avvertita sa che la Chiesa ha difficoltà ovunque».
Le cifre, tutte ufficiali e, per lo più, di fonte vaticana confermano infatti che, nonostante la prova di forza del Family-day, il secolo avanza. «La percentuale dei bambini con età inferiore a un anno che sono stati battezzati, rispetto al totale dei nati vivi, mostra tra il ‘91 e il ‘98 un andamento altalenante, che oscilla tra il massimo di 89,9% del ‘91 e il minimo di 85,8% del ‘96. In seguito - si legge nella ricerca di Silvia Sansonetti della Sapienza - la percentuale appare in diminuzione costante, assestandosi nel 2004 a 77,5%, con una perdita di più di tredici punti percentuali rispetto al 1994». Un´altra serie storica, quella dei matrimoni cattolici, fotografa lo stesso declino, con una diminuzione tra l´87,7% del 1991 e il 79,5% del 2004. All´opposto «la percentuale dei matrimoni celebrati solo civilmente sul totale dei matrimoni è in crescita continua, passando dal 17,5% del ‘91 al 31,2% del 2004. In aumento è anche il numero assoluto delle libere unioni (207 mila nel 1993 e 556 mila nel 2003, ultimo anno disponibile)». In costante crescita anche le separazioni civili, i divorzi, tanto che, notano i ricercatori, «si delinea una crescente indifferenza al modello di famiglia proposto dalla Chiesa cattolica».
Da questa montagna di dati Renato Coppi, ordinario di Statistica Multivariata alla Sapienza e Laura Cammarana, ricercatrice del Caspur di Roma, hanno estrapolato 25 indicatori di base, raggruppandoli poi in quattro aree: pratica religiosa, adesione alle indicazioni della Chiesa, organizzazione ecclesiastica, scelte nell´istruzione. Il risultato finale è «l´Indicatore generale di secolarizzazione» che pubblichiamo nel grafico di sinistra. Gli scienziati, in parallelo, hanno costruito anche un «Indicatore di presenza istituzionale della Chiesa», sulla base del numero delle scuole cattoliche, case di cura, centri di difesa della vita, tiratura delle opere religiose, ecc. E´ la presenza sul territorio della Chiesa (grafico di destra), che aumenta al crescere della secolarizzazione. «Si può immaginare - spiegano a questo proposito gli studiosi - che la Chiesa cattolica, consapevole della dinamica crescente del processo di secolarizzazione, tenti di fornire una risposta anche sul piano dell´offerta istituzionale». I risultati, tuttavia, «non appaiono al momento positivi».

Corriere della Sera 10.5.07
Giordano: «Oggi mi sento leader dell’opposizione»
S'incrina l'asse Prodi-Prc Giordano: serve collegialità o rischia la coalizione
Il leader di Rifondazione: i conti? Se ne fa un uso terroristico Parte il negoziato nella maggioranza per fermare lo sciopero
di Maria Teresa Meli


ROMA - «Oggi mi sento un leader d’opposizione»: quella di Franco Giordano è una battuta, è ovvio, ma la dice lunga sul sentimento - anzi, sul risentimento - di Rifondazione comunista nei confronti di Tommaso Padoa-Schioppa. Il leader del Prc è uso misurare le parole, ma questa volta non si trattiene, e avverte: «Così si rischia la rottura della coalizione». Insomma, per dirla in modo esplicito, mai e poi mai Rifondazione potrà votare una riforma delle pensioni che preveda i punti enunciati dal ministro dell’Economia. «Se andiamo avanti di questo passo - prosegue Giordano - arriveremo in rotta di collisione». Non che il Prc non si renda conto che una mossa del genere equivarrebbe a un’uscita dal governo, alla rottura dell’attuale maggioranza. Però oltre quell’asticella Giordano non può andare.
Ma quel che fa più arrabbiare la sinistra è l’idea che «Padoa-Schioppa dica una cosa, che l’Ulivo decida di conseguenza qual è la strada da intraprendere, e che alla fine, solo alla fine, venga chiamato il Prc per fare qualche emendamento a una riforma già stabilita in altre sedi». Giordano se la prende con il ministro dell’Economia, non solo per le pensioni. Anche sull’utilizzo del cosiddetto tesoretto il leader del Prc ha qualcosa da dire a Padoa-Schioppa che «vuole lasciare solo le briciole per la redistribuzione». Ma, tornando alle pensioni, il segretario di Rifondazione non può accettare «una riforma della previdenza che non è nel programma dell’Unione: su questo non transigo».
Secondo il leader del Prc, Padoa-Schioppa «fa un uso terroristico dei conti di cui si vuole occupare solo lui, perché ha già deciso di destinare la maggior parte di quei fondi al risanamento del debito e di dare solo gli spiccioli per chi ne ha bisogno, mentre ha dato tanto agli industriali». Sarà anche così, insomma, sarà pur vero che il ministro dell’Economia è «autistico», come dicono scherzando a Rifondazione, fatto sta che Prodi non lo ha smentito: che fine ha fatto il tanto decantato asse tra il Prc e il presidente del Consiglio? «E infatti - replica secco Giordano - chiedo la collegialità sulle politiche economiche (come del resto la chiedo su tutto) proprio perché voglio sapere, ufficialmente e direttamente da Prodi quale è il suo orientamento sulle pensioni. E comunque, sia il premier, che i dirigenti dell’Ulivo, devono sapere che noi non ci vogliamo trovare di fronte al fatto compiuto». «Noi - rincara il leader di Rifondazione - siamo molto irritati».
Per farla breve, se quella delineata da Padoa-Schioppa è la riforma delle pensioni che il governo intende mettere in atto, o anche se è solo la metà di quello che il ministro dell’Economia intende mettere in atto, Rifondazione voterà no. Anche a costo di mettere in fibrillazione la maggioranza. Ma il Prc teme di peggio. Ossia, ritiene che Padoa-Schioppa «abbia alzato il prezzo» soltanto per uno scopo, cioè quello di ottenere il mantenimento dello scalone previsto dalla legge Maroni. Quella è una riforma già fatta, e quindi non c’è bisogno alcuno di un altro voto in Parlamento. «E’ vero - spiega Giordano - su quello non si vota perché è una legge già approvata: ma dubito che il sindacato possa far passare una cosa del genere e, comunque, non la farà passare il nostro elettorato, e, quando intendo nostro, non penso a quello di Rifondazione, ma all’elettorato di tutta l’Unione che ci ha votato sulla base di un programma che prevedeva, nero su bianco, l’abolizione dello scalone».
E’ guerra? E’ crisi? No, piuttosto si è aperta una trattativa, che comunque facile non sarà. Rifondazione spera nella tenuta del sindacato, che però unitissimo non è. E confida anche nel fatto che comunque l’Ulivo con Padoa-Schioppa non è in idilliaci rapporti. Non per la questione delle pensioni. Ma, ad esempio, la Margherita è imbufalita per la riforma dell’Ici, su cui il ministro dell’Economia frena. E ancora: non c’è un partito, nell’Unione, che non si sia accorto che alcune leggi non passano perché Padoa-Schioppa non dà il parere sulla copertura finanziaria. «Mi dicono che c’è persino una legge per i fondi alla lotta all’Aids è rimasta arenata tanto tempo per questo motivo», commenta il capogruppo di Rifondazione alla Camera Gennaro Migliore. Il quale, però, è convinto, che alla fine «il ministro dell’Economia non potrà vincere questa partita, perché ha contro tutti: dalle forze politiche ai sindacati. Ha contro anche l’opinione pubblica, per quanto quella non pare che gli interessi tanto. Ma comunque uno sciopero generale neanche Padoa se lo può permettere».

Liberazione 10.5.07
Il sottosegretario alla Giustizia interviene dopo le cifre del viminale che parlano di 2mila reati in più: «Le analisi statistiche serie si fanno in tempi medio-lunghi»
Manconi: «I dati sull'indulto? Irresponsabili e superficiali»
di Davide Varì


«Si sono moltiplicati i crimini dopo ed a causa dell'indulto? Con la stessa sicurezza potrei dire che nello stesso periodo sono diminuiti gli infaticidi ma non per questo penso ad una correlazione tra i due eventi». Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia e sociologo, ha pochi dubbi: «Le analisi di questi giorni relative all'indulto sono superficiali, irresponsabili e del tutto inattendibili». Secondo Manconi non ha nessun senso considerare un periodo di tempo di tre mesi: «Come insegna qualunque criminologo tutte le statistiche vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo».
Eppure la polemica sull'indulto non sembra placarsi, anzi. Non basta neanche il dato sulla recidiva - un termine da patologo che sta ad indicare il tasso degli ex detenuti che commettono di nuovo reato - che parla di un 12%, di recidiva, appunto, contro il 60% abituale, fisiologico come direbbero gli addetti ai lavori. In tutto questo, ed è forse questo il vero problema da affrontare, la grande questione della depenalizzazione dei reati minori che determinerebbe un minor ingolfamento delle carceri e delle aule di tribunale: in Italia un processo medio dura non meno di 10 anni.
Del resto anche il presidente della repubblica Napolitano ha ribadito la necessità di punire con il carcere «solo chi commette reati particolarmente pericolosi». Un'affermazione non facile in tempi come questi, in tempi in cui sbandierare l'insicurezza e la necessità della tolleranza zero è diventato l'hobby preferito di mezzo ceto politico nostrano.

Insomma professor Manconi, questo indulto ha davvero reso l'Italia un Bronx?
Se noi consideriamo i dati con superficialità, ignorando una serie storica attendibile, potremmo avere dei singolarissimi risultati: leggendo la tabella del Viminale senza indagare in maniera intelligente e senza leggere il contesto, potremmo pensare ad effetti davvero strani di questo indulto. Per esempio, nel trimestre agosto-ottobre 2006 - il trimestre immediatamente successivo all'approvazione dell'indulto - un delitto terribile e grave come l'infanticidio risulta ridotto del 66%. Se non fossi persona responsabile direi che l'indulto avrebbe un effetto terapeutico e provvidenziale sui genitori che vogliono sopprimere i propri figli, tutto questo se fossi irresponsabili. Lo stesso irresponsabile gioco potrebbe essere fatto chessò assumendo come riferimento al fattispecie della rapina ai rappresentanti di preziosi. Ecco, nel trimestre agosto-ottobre 2004 le rapine sono state 21, nel 2005 1 e nel 2006 2. A questo punto dovrei dire che le rapine sono raddoppiate passando da 1 a 2 a causa dell'indulto. Insomma, voglio dire che, come insegna qualunque criminologo ,tutte le statistiche criminali vanno lette con prudenza e soprattutto in una serie storica di medio-lungo periodo.

Poi c'è il dato della recidiva: secondo i dati del viminale solo il 12% degli ex detenuti indultati ha commesso nuovi reati, contro il 60% della media abituale.
In effetti la recidiva ordinaria e fisiologica, quella registrata tra coloro che arrivano a fine pena senza sconti e benefici, oscilla tra il 60 ed il 68%. Noi dopo nove mesi di indulto siamo al 12%. E soprattutto vorrei sottolineare che il tasso di crescita mensile è tale che ricorrendo a qualsiasi proiezione possiamo star certi che non si arriverà mai a quella del tasso fisiologico.

Le ragioni di questo calo della recidiva?
La gran parte delle persone che hanno beneficiato dell'indulto sanno bene che in caso di recidiva rischiano di dover scontare la pena condonata più quella relativa al nuovo reato.

Dunque che idea si è fatto dell'indulto? Che giudizio ne dà?
Il mio è un giudizio è incondizionatamente positivo. E' stato un provvedimento che ha prodotto esiti virtuosi di fondamentale importanza e dunque la mia valutazione coincide perfettamente con quella del capo dello stato: una misura eccezionale ma indispensabile: un carcere così sovraffollato non si limitava a mortificare la dignità di quanti vi si trovavano custodi o custoditi, ma rappresentava un ostacolo insormontabile per qualunque progetto di riforma dell'intero sistema penitenziario e del complessivo sistema della giustizia.

Su tutto la riforma del sistema penale. In Italia abbiamo un record di reati puniti con la galera...
Anche qui devo ripetere le parole del capo dello stato del quale, come si vede, sono un piccolo fan. Anche su questo il presidente Napolitano si rivela intellettualmente coraggioso: mentre infuria la polemica sulla sicurezza, ha infatti la coerenza di ribadire che il carcere va considerato una soluzione estrema, destinata a coloro che sono responsabili di reati che suscitano allarme sociale.

A proposito di sicurezza, sembra che in Italia ci sia un gara ad appropriarsi del tema della sicurezza, anche tra molte personalità del nascente Piddì...
Le reazioni nascono da dati oggettivi di un'attività criminale evidente. Per come è organizzata la nostra società i costi ricadono sulle fasce deboli della popolazione che convivono con gli stranieri. Di fonte a queste cose ci sono due scelte possibili: elaborare politiche razionali di investimenti sociali di mediazione delle contraddizioni sociali - che non eliminano i problemi ma consentono di controllarli - e contenere l'eplosività; oppure si può scegliere di galvanizzare sentimenti di allarme: in Italia, soprattutto a destra ma anche a sinistra, è pieno di imprenditori-politici della paura. La politica deve stare attenta a disinnescare i conflitti interetnici elaborando politiche della sicurezza che non siano esclusivamente di ordine simbolico. La tolleranza zero in determinate condizioni può perfino essere efficace, ma dal momento che non aggredisce le cause ha un esito effimero.

Agi 10.5.07
Coraggio laico: Riccardo Lombardi, la vita cristiana non si impone
(AGI) - Roma, 10 mag - "Non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri: è pertanto giusto battersi contro la violenza imposta dal referendum e ribellarsi alla pretesa che la vita cristiana debba essere imposta dalla legge dello Stato".
Era il 24 aprile 1974 e così Riccardo Lombardi parlava del referendum contro la legge sul divorzio, dopo aver rifiutato il confronto con un esponente del Msi-Dn, come da sorteggio per le tribune referendarie trasmesse dalla rai e che iniziavano proprio quel giorno.
"La Costituzione sancisce - esordì Lombardi - il diritto di manifestare il proprio pensiero nel colloquio, nella discussione ma sul terreno democratico e, secondo la Costituzione, il terreno democratico e’ contrassegnato dall’accettazione dei valori della Resistenza e quindi del 25 Aprile”. L’acomunista per antonomasia chiarì ai telespettatori: “noi siamo disposti al dibattito ed anzi, lo sollecitiamo con tutti gli avversari più risoluti anche con coloro che sono stati fascisti nel passato: ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile per distruggerla”.
Pertanto con l’Msi-Dn “noi non abbiamo nulla da dire e nulla da ascoltare”, precisò il primo prefetto della Milano liberata dal nazifascismo.
Poi in merito al referendum sul divorzio voluto fortemente da Amintore Fanfani e dalle gerarchie ecclesiastiche e poi appoggiato dal Msi-Dn, fece riferimento al “Vangelo: suggerisce ai ricchi di spogliarsi dei propri beni e darli ai poveri, di offrire l’altra guancia a chi ha percosso sulla prima: bene, non ho mai sentito dire che la Dc proponga di introdurre una legge che obblighi i ricchi a spogliarsi dei loro beni per darli ai poveri”. Allora c’è da chiedersi “perché solo in campo matrimoniale si vuole imporre con la forza della legge”, quella che per i cristiani è “una virtù e un modello eccezionali”, l’indissolubilità del matrimonio. “L’indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile”, concluse Lombardi, facendo appello al buon senso della gente che il 12 maggio respinse col 59,3% dei voti il referendum sul divorzio sancendo così il primato dello Stato Laico sulla ‘credenza’ religiosa. Agi - Carlo Patrignani

Agi 10.5.07
Coraggio laico: il Riformista e i tanti 'Scomunicatemi'

(AGI) - Roma, 10 mag. - Partita, con un’indubbia dose di coraggio per la sfida in essa contenuta, è via via cresciuta la inusuale richiesta ‘scomunicatemi’ ed il quotidiano che l’ha ospitata, ‘il Riformista’, si è ritrovato inondato di lettere.
“Vorrei essere scomunicato dalla Chiesa cattolica” ha scritto sabato 5 maggio, Paolo Izzo, spiegando che lui e la sua compagna sono “una coppia di fatto” e entrambi “atei: siamo a favore della contraccezione, dell’amniocentesi, della fecondazione assistita ed eterologa, dell’aborto, della ricerca sulle cellule staminali embrionali, dell’eutanasia”. Scrittore per hobby e passione, Izzo aggiungeva: “preferiamo pensare invece di credere. Pensiamo a una nascita umana sana, senza perversioni, senza peccato originale”. La conclusione di Izzo è stata: “vogliamo pensare alle donne e agli uomini come noi, occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi. Può bastare? A chi devo rivolgermi per formalizzare la questione?”.
Il giorno dopo arrivano a ‘il Riformista’ numerose lettere di plauso e consenso e ancora il giorno successivo. “Sono una donna separata da oltre dieci anni - ha scritto mercoledì 9 Annamaria Dipiazza - sono atea e sono a favore di tutto ciò già detto nella lettera ‘scomunicatemi’. La Chiesa non si limita - aggiungeva Annamaria - all’esercizio spirituale, esercita un potere di estrema violenza su tutti gli esseri umani”. E Paola Capitani sempre lo stesso giorno chiedeva “come Paolo anch’io voglio esser scomunicata e come me ci sono altre persone che si riconoscono in quanto riportato nella lettera del 5 maggio”. E Simone Meschino è d’accordo: “chiedo di essere scomunicato perché profondamente convinto di essere innanzitutto nato e poi nato libero e sano, senza nessunissima forma endemica di peccato... Per questo e molto altro... scomunicatemi”.
Se c’è chi non è d’accordo come Pietro Parodi da Genova che parla oggi di “infantilismo dei miei 18 anni (quando, racconta, voleva esser ‘sbattezzato’) lo stesso infantilismo pare diffuso tra gente che avrebbe dovuto raggiungere da un pezzo la maturità di pensiero, oltre che scolastica”, c’è poi Francesco Marmorato d’accordo con la richiesta ‘scomunicatemi’. (AGI) Pat 101755 MAG 07

mercoledì 9 maggio 2007

l'Unità 9.5.07
«Voi di sinistra, antisemiti»
Gerusalemme, attacco a Bertinotti
«Troppi pregiudizi contro Israele». Così la comunità
ebraica italiana accoglie il Presidente della Camera
di Natalia Lombardo


«UN AGGUATO, un’imboscata…»: la sorpresa e l’indignazione è a fior di pelle nella Sinagoga italiana a Gerusalemme: Fausto Bertinotti ha subito un attacco durissimo da parte degli Ebrei italiani in Israele e dal Comites, che gli hanno buttato addosso, come ex segretario di Rifondazione, un’accusa a tutta la sinistra italiana: è filopalestinese e avrebbe fatto negli anni una «pulizia etnica» degli ebrei in Parlamento (tranne Umberto Terracini). Un trattamento che non è stato riservato neppure a Fini, tantomeno a D'Alema. Quasi con rabbia gli ebrei italiani hanno preso di mira Bertinotti come icona di una sinistra traditrice. Lui, sorpreso e furibondo, ha respinto la cannonata con durezza: «Ho avuto una grande emozione entrando qui, ma è stata spezzata dalle parole che ho ascoltato…». «Non me l'aspettavo», confessa dopo ai giornalisti, «ma ci siamo difesi». La moglie Lella è allibita: «non ho parole». Scoppia un caso diplomatico, ad essere fuori di sé è l'ambasciatore italiano a Gerusalemme, Sandro De Bernardin: «Questa è una pugnalata a me… E non me lo sarei aspettato dal Comites - il comitato degli italiani all'estero, qui diecimila persone, non solo ebrei - si sono arrogati il diritto di rappresentare tutti».
Eppure due ore prima il presidente della Camera aveva risposto con la stessa fermezza nell'università Al Quds a studenti e docenti palestinesi che accusano Israele di voler creare «uno stato razzista, con due cittadinanze». Bertinotti ribatte: «Ogni stato che nasce è uno “sgambetto alla storia, ma Israele è oggi è una realtà storica carica di valori simbolici” che vanno riconosciuti».
Hai voglia a spendere fiato in nome del riconoscimento reciproco, «appena esci dagli incontri ufficiali se non dai ragione al tuo interlocutore sei morto», commenta nel lasciare la Sinagoga. Eppure la visita era cominciata nel migliore dei modi, guidata nel museo da David Cassato, ex vicesindaco di Gerusalemme (arrabbiato anche lui per l’accaduto). Poi, in una saletta, il «benvenuto» di Vito Anav, presidente degli Ebrei italiani in Israele, si trasforma subito in requisitoria: «ci auguriamo corregga alcuni dei pregiudizi sul conflitto arabo israeliano che ha gran parte della sinistra italiana di cui lei è stato autorevole rappresentante». Bertinotti ascolta preoccupato. Anav lo chiama presidente della Camera solo per chiedergli un «riequilibrio dell'informazione», perché «metta fine alla parzialità della stampa di sinistra…». In stile berlusconiano Anav elenca le «menzogne circolanti…» contro il popolo ebraico, come il «mettere in prima fila i bambini a tirare i sassi contro i tanks israeliani per favorire incidenti e generare l'impatto mediatico di un esercito cinico che spara ai bambini». Bertinotti si drizza sulla sedia, scuote la testa. Anav attacca il governo: «Come può esserci equidistanza o equivicinanza verso la democrazia e il fondamentalismo?». E' ancora peggio quando parla Beniamino Lazar, presidente del Comites, che legge una lettera del professor Sergio della Pergola, noto demografo, partito lasciando il suo j'accuse alla sinistra che ormai gli ebrei italiani in Israele non votano più: «dal 1975 erano per l'80% per cento di sinistra, ora il 60% ha votato a destra». Poi parte la sparata: dal '67, dalla guerra dei Sei Giorni, la sinistra italiana «ha sempre preso il punto di vista palestinese, mai quello israeliano». Bertinotti è buio in volto. Arriva l'affondo: «dopo Sabra e Chatila - la strage di palestinesi in Libano compiuta dall'esercito israeliano - gli ebrei in Italia sono stati perseguitati, c'è stata una manifestazione davanti alla Sinagoga di Roma e un bambino morì in un attentato». È troppo. Bertinotti batte nervosamente un foglio sulla sedia, l'ambasciatore seduto accanto fa cenno a Lazar di fermarsi, ma il presidente della Camera sibila: «No, ora andiamo fino in fondo». Lazar ci va, fino alla richiesta al governo italiano di «essere più duro con l'Iran».
Il presidente della Camera prende deciso la parola citando De Gasperi: «Trovo qui tutto contro di me tranne la vostra cortesia». E cortesemente rimanda i colpi: «Non posso parlare a nome delle sinistre, semmai invitate uno dei leader; non faccio appello alla stampa perché modifichi i suoi orientamenti; non posso parlare per il governo ma la formula dell’equivicinanza voluta dal ministro degl Esteri è intelligente e parla di rispetto e di dialogo». Non rinnega nulla e ribadisce «l'impegno contro il terrorismo» ma anche il riconoscimento reciproco dei due popoli.
L'incontro finisce così, senza quasi contatti. «Certo sono due popoli che hanno entrambe ragione: i palestinesi sono convinti che Israele voglia creare uno stato di apartheid, e del resto quel muro che divide anche l'Università…» dice Bertinotti. «D'altra parte gli israeliani vivono nel terrore e dicono che il muro ha bloccato gli attentati». Quanto all'antisemitismo, «è un pericolo immanente che va combattuto a fondo» ma senza fare un referendum su ogni affermazione del presidente Napolitano (sull'antisionismo che porta all'antisemitismo). Ma quella «sgrammaticatura dell'attacco a una parte politica» proprio non gli è andata giù.
Agli studenti palestinesi (parecchie donne, ormai in gran parte velate) Bertinotti ha parlato della debolezza europea ed ha anche citato il tabu di Aushwitz. Ma anche qui c'è rabbia e Sami Mussallami, sindaco di Gerico, è durissimo: «L'Europa ha voluto la nascita di Israele, non faccia pagare a noi palestinesi il prezzo di quel che ha fatto agli ebrei».
Missione quasi impossibile quella del presidente della Camera in Medio Oriente: anche la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, gli ha chiesto conto dell'incontro con gli hezbollah in Libano: che siano stati eletti «non basta, il voto è solo un giudizio tecnico, la democrazia si fonda su valori e sui fatti». Il concetto è che non si possono presentare i terroristi in Parlamento, quindi Livni esclude trattative con Hamas. Unica soddisafazione, l'accoglienza fra bandiere italiane e Inno di Mameli da parte della presidente ad interim di Israele e speacker della Knesset, Dalia Itzik, che ha apprezzato gli italiani nella missione Unifil in Libano.
Oggi un'altra prova per il presidente della Camera: è il primo europeo a parlare al Consiglio Legislativo Palestinese, il Parlamento.

l'Unità 9.5.07
Il commento.
Gli attacchi subiti dal presidente della Camera sono stati a prescindere. Perché la sinistra è da condannare...
Un «processo politico». A priori
di Umberto De Giovannangeli


Non è solo un incidente diplomatico. È molto di più. E più grave. Quello che è andato in scena ieri a Gerusalemme è stato un vero e proprio «processo politico». Imputato: Fausto Bertinotti. Giuria e pubblico ministero: i vertici della comunità ebraica italiana in Israele. Bertinotti era in visita in qualita di presidente della Camera, terza carica dello Stato italiano. Di ciò ai «pubblici ministeri» riuniti nell’antica Sinagoga italiana di Gerusalemme, non è importato nulla. Come non è importato che poco prima, davanti a una platea di giovani palestinesi, Bertinotti avesse rilanciato le ragioni di una pace giusta, stabile, fondata sul principio di due popoli, due Stati, due democrazie. Una pace, aveva sottolineato Bertinotti ai suoi interlocutori palestinesi, che passa per un pieno riconoscimento del diritto di Israele ad esistere con la sua identità riconosciuta: quella di Stato ebraico.
Tutto ciò non conta per i «pubblici ministeri» di Gerusalemme. L’occasione è troppo ghiotta per farsela sfuggire: Bertinotti non è più il presidente di uno dei rami del Parlamento italiano, e in quanto tale rappresentante di una intera comunità nazionale; Bertinotti è un uomo di sinistra, un leader della sinistra, e come tale da condannare. Senza appello. E senza diritto di replica. L’incontro con la terza carica dello Stato diviene così l’occasione per scagliarsi contro «la sinistra e l’informazione italiana», accusate, nel migliore dei casi, di «parzialità», nel peggiore di parteggiare per i kamikaze jihadisti che hanno seminato morte e distruzione in terra d’Israele.
L’attacco è totale. Contro la faziosa stampa di sinistra. Contro i partiti della sinistra, senza distinzione alcuna, che dal 1967 in poi hanno operato «una vera e propria pulizia etnica nelle proprie liste elettorali...». E contro un ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, del quale, è la sentenza emessa, «è difficile comprendere come possa parlare di equidistanza o equivicinanza usando lo stesso metro per la democrazia (Israele, ndr.) ed il fondamentalismo (palestinese, ndr.). La sinistra italiana è colpevole tout court. Senza distinzioni, senza eccezioni. E di questa sinistra pregiudizialmente anti-israeliana, Fausto Bertinotti «è stato autorevole rappresentante». Non è uno sfogo, dettato dall’esasperazione. È un attacco politico frontale, meditato. Condotto con una aggressività verbale che non era stata neanche accennata in occasione di un analogo incontro che aveva avuto come protagonista l’allora ministro degli Esteri e leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, che pure, nel suo trascorso politico, aveva l’appartenenza, e un ruolo dirigente, in un partito, l’Msi, che non aveva certo preso le distanze dalle infami leggi razziali del ventennio fascista.
Che nel passato di una parte della sinistra vi siano state posizioni «filo-arabe», è fuori discussione. E che in settori di essa alberghino ancora atteggiamenti unilateralisti (pro-palestinesi), è altrettanto vero. Ma anche in quella sinistra radicale, della quale Fausto Bertinotti resta un punto di riferimento, sono maturate posizioni nuove, che nulla hanno a che spartire con il vecchio, e deprecabile, armamentario anti-sionista. Questa sinistra che ripensa il conflitto israelo-palestinese e che si assume responsabilità sul campo (come in Libano) riceve il plauso del governo israeliano. Questa sinistra che parla di due ragioni, di due diritti che o vivono insieme o insieme si annullano, ripensa (autocriticamente) il proprio rapporto con la leadership palestinese e con il «mito» di Yasser Arafat. Ma ciò non conta per i «pubblici ministeri» di Gerusalemme. Ad un unilateralismo (filo-palestinese) se ne contrappone un altro (filo-israeliano), e quest’ultimo diviene il metro di misura per «sdoganare» la sinistra, come è stato fatto, sul fronte opposto, con la destra «finiana». Un approccio miope, di corto respiro. Sbagliato per gli stessi interessi, e ragioni, che si vorrebbero difendere. La sinistra deve essere amica d’Israele. Ma un’amica vera, che sa distinguere tra pregiudizi, da respingere, e critiche costruttive. Con uno spartiacque fondamentale: che Israele può essere criticato, quando è il caso, per ciò che fa. Ma difeso, sempre, per quello che è: il focolaio nazionale del popolo ebraico. In questo, e per questo, Fausto Bertinotti può dirsi «amico di Israele». Un amico che andava riconosciuto e rispettato. Così non è stato.

l'Unità 9.5.07
Napolitano: carcere solo per i reati più gravi
Il Capo dello Stato in visita a Rebibbia: sulla giustizia soluzioni condivise
Indulto «eccezionale ma necessario». Mastella: in quel modo evitata una collera incontenibile
di Vincenzo Vasile


SOLUZIONI condivise su carceri e giustizia, impegno comune per diffondere la cultura della legalità. Giorgio Napolitano incita il Parlamento davanti a una platea speciale, quella dei detenuti del carcere romano di Rebibbia (in una visita che ha un solo precedente, quello di Carlo Azeglio Ciampi cinque anni fa al carcere di Spoleto). C’è tensione dietro le sbarre: quando il presidente passa qualcuno grida: «Amnistia». E quando gira nell’area nido, che ospita 17 delle 43 detenute con figli minori di 3 anni attualmente recluse assieme ai bambini in Italia, la maggior parte straniere. Ci sono anche, poco distante, le famigliari dei «collaboratori di giustizia», sottoposte a un programma di protezione analogo a quello dei loro congiunti reclusi. Una rappresentante delle detenute, nell'incontro pubblico con autorità e giornalisti, Grazia Middei, pronuncia un intervento sobrio e calibrato: «L'indulto - dice - ha fatto cambiare di colpo la condizione di molti noi reclusi, ma non ha risolto tutti i problemi». Resta soprattutto quello della lunghezza dei tempi processuali, e quello di «applicare tutte le leggi che ci riguardano» e di attuare lo spirito dell'articolo 27 della Costituzione sullo scopo rieducativo della pena. E rimane molto da fare per le misure alternative al carcere: «La detenzione dovrebbe essere veramente l’ultima soluzione». Dai tribunali di sorveglianza giungono molti rifiuti, «che non si comprendono», alle domande di accesso alle misure alternative. Soprattutto, ha aggiunto la detenuta, «per le madri con figli mancano nelle carceri adeguate strutture. Speriamo che in questa legislatura si riesca a provvedere».
Più infiammato, e salutato da applausi scroscianti, il discorso di un rappresentante della sezione maschile di Rebibbia, Emilio Cotugno. Che esprime, insieme, una forte volontà di dialogo con le istituzioni e denuncia le condizioni igieniche e ambientali inadeguate, e la mancanza di adeguate strutture per lo studio, e per agevolarne il reinserimento: «Chiediamo che la società sia meno rigida verso di noi». Napolitano risponde che è sua precisa convinzione che «la pena detentiva debba essere riservata a chi commette crimini che destano maggior allarme, che ledono gravemente valori e interessi preminenti e intangibili». E le misure alternative devono essere «più credibili ed efficaci». Insomma, «l’esecuzione della pena deve avvenire nel rispetto della dignità dei detenuti».
Sull'applicazione delle misure alternative e dei benefici, il presidente ha accolto l’appello dei detenuti affinché siano applicate in modo più continuativo. Napolitano ha ricordato che nel suo primo discorso al Csm pose il problema di ripensare l’intero sistema delle sanzioni. «In Parlamento, pur nella naturale dialettica tra le forze politiche e pur nel dissenso su soluzioni specifiche, si dovrebbe manifestare un impegno comune a perseguire con continuità la politica, che è indispensabile, per trasformare l'amministrazione della giustizia e il mondo penitenziario». Un impegno comune innanzitutto per diffondere fra gli italiani «la cultura della legalità», il più formidabile strumento di prevenzione su cui possiamo fare leva. Servono soluzioni condivise che garantiscano la sicurezza collettiva e il rispetto della legge». E nello stesso tempo «maggiore e più concreta attenzione alle vittime dei reati».
E proprio per gli effetti sul miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri, Napolitano ha spiegato di aver salutato positivamente il varo dell’indulto, che «resta un passo eccezionale ma necessario».
Poco prima il ministro Clemente Mastella aveva rivendicato: senza l’indulto «la collera» nelle carceri sarebbe esplosa «in modo incontenibile». E «quell’apocalisse che molti avevano prefigurato, con un aumento del crimine dopo il varo dell’indulto, non si è verificato: sono appena il 12% gli ex detenuti che hanno beneficiato dell’indulto e che sono rientrati in cella».

l'Unità 9.5.07
«Nella guerra alle Br Moro era il prezzo che dovevamo pagare»
Parla per la prima volta Steve Pieczenik che lavorò con Cossiga durante il sequestro
di Marco Dolcetta


A PARIGI, di passaggio dagli Usa, Steve Pieczenik - invitato dal giornalista Emmanuel Amara per intervistarlo per una serie di trasmissioni tv in Francia e la presentazione di un libro - ci permette di avere un colloquio con lui. Durante il sequestro Moro furono molto attivi tre Comitati per la gestione della crisi: ci sono pochi dati per ricostruire con precisione l'attività di questi gruppi, in quanto dagli archivi del Viminale a detta del senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Stragi, sono scomparsi i verbali delle riunioni e altri documenti. L'americano Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato, era il capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Usa, Ufficio che era stato istituito da Henry Kissinger. Come ci ha confermato l'ex ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, Pieczenik venne invitato subito dopo il rapimento di Aldo Moro a fare parte di un Comitato di esperti cui faceva capo, appunto, Cossiga, per fare fronte all’emergenza. Al suo fianco c'era anche il criminologo Franco Ferracuti, che in seguito risultò far parte della P2. Era allora il responsabile della cellula antiterrorista del Dipartimento di Stato. Finito il suo incarico alle dipendenze dell'Amministrazione Usa, molto dopo il caso Moro ha incominciato a scrivere numerosi romanzi di spionaggio.
«Ben Reid, che dipendeva da Cyrus Vance, il ministro degli Esteri, mi convocò - racconta Pieczenik - nel suo ufficio. Si rivolsero a me perché avevo studiato ad Havard e al Mit. Poi Kissinger qualche tempo dopo mi incaricò di dirigere la prima cellula antiterroristica degli Usa. Nel 1978 l'Italia, fino al rapimento Moro, era abbastanza trascurata dai nostri. Quando arrivai mi resi subito conto che il Paese era nel caos. Scioperi continui, manifestazioni sindacali ed estremisti di sinistra, mentre l'apparato dello Stato rimane in mano a vecchi fascisti che poi mi sono reso conto erano stati infiltrati dalla P2. Fra l'altro ho potuto constatare con il ministro dell'Interno di allora Cossiga che costui non aveva nessuna strategia ne alcun piano d'azione».
Cossiga ha parole forti nei confronti di quanto Pieczenik dice: «È alla ricerca di notorietà, visto che ha intrapreso definitivamente la sua attività di scrittore per i libri e per il cinema... Fa affermazioni quanto meno azzardate».
«Quello che mi aveva sorpreso - chi parla ora è sempre Pieczenik - in quei giorni è che i gruppi fascisti tenevano in permanenza le leve del potere in Italia. Mi resi conto in fretta che anch'io ero poco al sicuro. Mi ero quindi reso conto che le Br avevano degli alleati all'interno della macchina dello Stato. Dopo qualche riunione che consisteva nell'identificare il centro di gravità attorno al quale la storia del rapimento girava, ho subito capito che le forze conservatrici volevano la morte di Moro, le Br lo volevano vivo, i comunisti invece, la loro posizione era quella della fermezza politica. Francesco Cossiga lo voleva sano e salvo ma mi diede carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l'ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare. Tutto il sistema italiano era inaffidabile. Negli incontri al vertice, avevo di fronte quella che mi veniva presentata come l'elite dirigente, dei dinosauri dell'epoca mussoliniana e i loro giovani cloni. Erano soprattutto i membri dei Servizi. Anche i Servizi Segreti del Vaticano mi avevano detto di fare molta attenzione. I stessi Servizi Segreti del Vaticano ci avevano aiutato molto a capire come le Br si erano infiltrate nello Stato. Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro».
Pieczenik, continua a raccontare anche nel libro dal titolo Noi abbiamo ucciso Aldo Moro scritto con Emmanuel Amara, che sta per uscire in Francia presso l'editore Patrick Robin, decise la strategia per risolvere a modo suo il caso Moro. «Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l'Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare. Decidemmo quindi, d'accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti».
Il senatore Sergio Flamigni considera la presenza di Pieczenik di fondamentale importanza per l'esito avuto da tutta la vicenda Moro, identico interesse lo ha sempre dimostrato anche la magistratura italiana che si era interessata della questione. Uno di quei giudici, Rosario Priore, ci ha ricordato come a più riprese anche la Commissione Stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, abbia chiesto la sua testimonianza che però a suo tempo, all'ultimo minuto, ha sempre rifiutato. Rosario Priore però ricorda anche come quei Comitati fossero formati da esperti che in seguito si rilevarono essere «antenne» di servizi di Intelligenza di molte potenze straniere.
«Sono stato io - continua Pieczenik - a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. La mia ricetta per deviare la decisione delle Br era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati dicendo a tutti che ero l'unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto. Un giorno chiesi a Cossiga, guardandolo negli occhi se mi potevo fidare di lui. Lui - rispose francamente - lei non può… Presi in mano la situazione e decisi clinicamente come gestire l'esito finale delle Br, uno scambio mortale in termini di stabilità per il Paese e per i suoi alleati. Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarmi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto, questo non lo so. Avrebbero potuto concludere una trattativa con lo Stato, ottenendo delle pene ridotte liberando Moro ma erano troppo legati alla loro logica terrorista, in cui si preferisce essere più terroristi del terrorismo di Stato che io così bene conosco».
Cossiga vuole ribadire come le affermazioni attuali di Pieczenik non siano coerenti rispetto al suo atteggiamento di un tempo. Dopo aver realizzato il suo piano, Steve Pieczenik, in gran silenzio, come era venuto, se ne ritorna negli Usa. Più volte richiesta la sua testimonianza alle varie Commissioni parlamentari sul sequestro Moro non si è mai presentato.

l'Unità 9.5.07
Da oggi a domenica
Voci di «Confine» in scena all’Auditorium


La storica femminista Barbara Duden, che intervistiamo oggi, è uno degli ospiti del Festival di Filosofia di Roma, che si apre oggi all’Auditorium dove proseguirà fino al 13 maggio. Tema di quest’anno i «Confini», nodo nevralgico del nostro presente, in grado di proiettare la riflessione filosofica fuori del recinto delle accademie, mettendola in rapporto con l’esperienza collettiva e con il «senso comune» (un tema che percorre anche la Fiera del libro, che si inaugura domani a Torino). Tavole rotonde, Lectio Magistralis, incontri su «pensatori di confine», incontri su «voci di confine», Caffè filosofici, daranno voce ad alcuni tra i più interessanti pensatori, intellettuali e scrittori di oggi, tra i quali: Marc Augé, Marco Bellocchio, Remo Bodei, Andrea Camilleri, Franco Cordero, Peter Eisenmann, Carlo Freccero, Umberto Galimberti, Giulio Giorello, Edouard Glissant, Hanif Kureishi, Renato Parascandolo, Nicola Piovani, Tariq Ramadan, Fernando Savater, Eugenio Scalfari, Peter Sloterdijk, Gianni Vattimo.
Completano il programma, tre spettacoli teatrali (Io, Charles Darwin tracce e voci dalla mia vita, con la regia di Valeria Patera; Il suono del Logos, che propone voci e volti di Norberto Bobbio, Noam Chomsky, Hans Georg Gadamer, Emmanuel Levinas, Karl Popper, Olivier Sacks con musiche di Luca Francesconi, David Lang, Philip Jeck, Claude Lenners, Alvin Curran, Helmut Oehring, interpretate da Alter Ego, Alvin Curran e Philip Jeck; Quattro Cosmicomiche di Italo Calvino, una narrazione recitata e concertata, di e con Graziella Galvani), una rassegna di cinema, lezioni di yoga e una sezione dedicata ai bambini.

l'Unità 9.5.07
Guardare gli etruschi per vedere noi stessi
di Marco Innocente Furina


DUE MOSTRE a Siena e a Chiusi riuniscono per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali della Collezione Bonci Casuccini, una delle più importanti raccolte private italiane

A scuola abbiamo tutti studiato la storia di Porsenna, il potente re di Chiusi che cinse d’assedio Roma per rimettere sul trono Tarquinio il superbo scacciato dai cittadini che volevano instaurare la Repubblica. Lo storico dell’età d’Augusto, Tito Livio, racconta che il re etrusco, ammirato dal coraggio degli assediati - chi non ricorda Muzio Scevola che punì col fuoco la mano rea di aver fallito il colpo contro l’aggressore? - tolse le tende e lasciò liberi i romani. Probabilmente le cose andarono diversamente - lo lascia intendere Plinio il vecchio che, meno fazioso di Livio, ci informa che gli etruschi interdirono ai romani persino l’uso del ferro (il minerale con cui si fabbricavano le armi) - ma la storia, si sa, la scrivono i vincitori e coi secoli Roma conquistò un impero, mentre Chiusi s’addormentava fra le belle colline toscane che la circondano. Ma ai tempi del re Porsenna era una delle più importanti città d’Etruria. «Clevsi» (questo il suo nome etrusco) faceva parte della dodecapoli, la lega che riuniva le maggiori città-stato del tempo e si voleva addirittura fondata da Cluso, figlio di Tirreno, il principe lidio che, secondo Erodoto, guidò la migrazione di quell’antico popolo dalle coste dell’Asia minore fino in Italia. Insomma, una grande città dell’epoca di cui tuttavia, almeno in superficie, non è restato granché perché «gli etruschi costruivano tutto in legno» e per questo le loro città «sono svanite completamente, come i fiori». Sono rimaste «solo le tombe, i bulbi». E sono le tombe che anche a Chiusi ci hanno restituito la bellezza e il mistero di questa straordinaria civiltà.
Tutto comincia (o ricomincia) nei primi decenni dell’800 quando un proprietario terriero locale, Pietro Bonci Casuccini, grazie ai ritrovamenti sui terreni di famiglia, mette insieme il nucleo originale della collezione. Alla sua morte per evitare che gli eredi vendessero tutto al Louvre o al British Museum intervenne lo Stato italiano. Per la favolosa cifra di 50 mila lire il ministero della pubblica istruzione si aggiudicò i diecimila pezzi (diecimila!) della raccolta e li spedì a Palermo. Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, anche dimostrando che tutti gli abitanti della penisola condividessero la stessa cultura. Così gli «etruschi» finirono al museo A. Salinas del capoluogo siciliano. Ma il demone dell’archeologia si impadronì anche di un altro Bonci Casuccini, Emilio, pronipote di Pietro, che alla fine dell’800 tornò a scavare i terreni aviti. La formazione di questa seconda raccolta (conservata al museo archeologico di Siena) fu guidata dal grande storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora impegnato nella redazione della sua tesi di laurea proprio sulle necropoli chiusine.
Oggi, a distanza di 150 anni, la mostra dal titolo Etruschi. La collezione Bonci Casuccini, riunisce per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali di una delle più importanti e ricche raccolte private italiane. La rassegna, (in programma sino 4 novembre prossimo), propone una selezione di 200 reperti e si articola in due sedi: il complesso museale di Santa Maria della Scala a Siena e il museo archeologico di Chiusi. Nella più vasta sede senese si possono ammirare sculture in pietra di pregevole fattura (sarcofagi, urne, cippi, statue) e dei magnifici esempi di ceramica etrusco-greca figurata. Il percorso espositivo è inoltre arricchito dalla ricostruzione della Tomba del colle Casuccini, anche detta Tomba del Leone, un ipogeo a più camere impreziosito da un ciclo di affreschi raffiguranti scene di banchetto, giochi funebri e danze, risalente al 460 A.C. Gli affreschi della Tomba - oggi non visitabile per motivi di conservazione - furono riprodotti da Guido Gatti poco dopo la sua scoperta nel 1833. Conservati al museo archeologico di Firenze, nessuno li aveva più potuti ammirare dalla disastrosa alluvione del ’66. Una possibilità invece restituita dalla rassegna senese, che grazie alle riproduzioni del Gatti, permette ai visitatori di «entrare» nella Tomba e apprezzarne dall’interno la volumetria e i dipinti.
Piccola ma di gran pregio, la sezione chiusina è interamente dedicata alla scultura arcaica degli antichi tirreni. E dalle botteghe artigiane della città di Porsenna viene lo straordinario Plutone. La statua, uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca, rappresenta una figura maschile seduta, il cui busto cavo doveva servire probabilmente a contenere le ceneri del defunto.
Chi verrà a visitare questa mostra non si aspetti, come sempre quando si parla di arte etrusca, le grandi composizioni formali della civiltà classica; la perfezione, la gravità, la solennità dell’arte greco-romana. «Nell’istinto etrusco sembra esserci stato - scrive David H. Lawrence - un effettivo desiderio di conservare intatto il naturale senso di comicità della vita». Una civiltà quella etrusca che per l’autore de L’amante di lady Chatterley, racchiude, più d’ogni stratificazione successiva, l’anima profonda degli italiani. «L’Italia di oggi è più etrusca che romana nelle sue vene; e lo sarà sempre. In Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo ed il germogliare del grano: sarà sempre così». Per questo, se non potete andare a Siena e Chiusi, andate a Palermo, visitate Villa Giulia a Roma o i musei di Perugia, di Firenze, di Tarquinia, di Volterra. Insomma, andate ovunque ci siano gli etruschi, andateci per riscoprire, in quei visi, e in quei sorrisi, un po’ di noi stessi e delle nostre radici.

Repubblica 9.5.07
La riscoperta del socialismo
di Aldo Schiavone


Le parole, si sa, spesso durano più delle cose che indicano. E hanno molte vite: sembrano polverose e annerite – ridotte come fossili inerti – ma poi, all´improvviso, tornano (e non si sa per quanto) a riempirsi di luce. Sta accadendo con "socialismo", che adesso tutti riscoprono (dopo una lunga stagione diciamo non proprio fortunata), e fanno a gara per esporre, in un modo o nell´altro, ben visibile sulle proprie bandiere: da Fassino (che si impegna con appassionata solennità a non perderne in alcun modo la memoria), a Boselli (che vuole invece ricongiungere a quel nome il suo partito), per non dire di Mussi e di Angius, che idealmente vi dedicano una dolorosa separazione, fino a Bertinotti, a Diliberto.
E´ utile questo ritorno? A me pare, francamente, di sì, se sappiamo distinguere emozioni e concetti; idee e stati del cuore.
"Socialismo" è una parola che viene da un mondo scomparso. Perduto definitivamente, e che non riapparirà mai più. Ci riporta ai tratti di fondo della rivoluzione industriale; alla morfologia elementare della lotta di classe come motore della modernità; alla natura proteiforme, analiticamente sfuggente ma storicamente schiacciante, dello sfruttamento capitalistico lungo tutto l´arco dell´ascesa e del consolidamento borghese; alla contraddizione fra il carattere sociale della produzione nel sistema di fabbrica meccanizzato e il controllo privato dei suoi fattori e delle sue condizioni (la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, nel pensiero degli antichi maestri).
Oggi, di tutto questo non resta più nulla, o quasi, almeno nella nostra parte del mondo. Non la fabbrica meccanica come modello produttivo totale; non le strutture di classe; non il lavoro operaio (o comunque salariato) in quanto produttore della parte dominante della ricchezza sociale. Quasi due secoli di lotte – spesso condotte proprio in nome del socialismo – non meno di una sconvolgente rivoluzione tecnologica, hanno mutato radicalmente lo scenario intorno a noi. E il cambiamento ha travolto anche il fondamento concettuale (e politico) della variante "socialdemocratica" classica, che si fondava sulle stesse premesse materiali – base operaia e grandi industrie – solo prefigurando strategie correttive e rimedi diversi. Craxi e dopo di lui Blair, ciascuno a suo modo, lo avevano del resto capito benissimo e precocemente.
Se dunque, quando diciamo "socialismo", vogliamo riferirci a un´interpretazione trasformatrice della realtà, a un quadro di obiettivi politici definito, o a un´ipotesi concreta di configurazione sociale prospettabile per il nostro avvenire, quel nome non ha letteralmente più senso. Designa solo il vecchio futuro di un passato che ha preso un´altra direzione. Ma il punto è che quella parola non vuol dire solo questo. Due secoli di storia le hanno anche consegnato e radicato un valore evocativo del tutto diverso, e sganciato ormai completamente dal suo autentico e originario contenuto conoscitivo e programmatico. L´hanno tramutata, cioè, da paradigma a metafora, almeno per la coscienza europea.
Ne hanno fatto per antonomasia la metafora della lotta per l´eguaglianza, l´espressione moderna di un´aspirazione antichissima, che ha attraversato e dato forma alla storia dell´Occidente. Ebbene, se richiamarsi al socialismo vuol dire tenere aperto, qui e ora, l´orizzonte dell´eguaglianza, credo proprio che si faccia bene a non smarrirne la traccia, nel momento in cui un intero universo di significati e di esperienze sta sparendo sotto i nostri occhi, e l´intera organizzazione politica della sinistra sta prendendo faticosamente atto, finalmente anche in Italia, che un lungo e tormentato capitolo della sua storia si è chiuso per sempre. No, quel punto di riferimento non va cancellato. La rivoluzione in cui stiamo entrando – la terza rivoluzione tecnologica nella storia umana, dopo quella agricola e quella industriale – farà precipitare su di noi problemi e alternative che non potranno essere affrontati se non riproponendo con convinzione e con forza un´identità egualitaria dell´universalità umana come fine ultimo della nuova forma del mondo.
Ma di quale eguaglianza stiamo parlando?
Dobbiamo, oggi, saper liberare questa idea dalla catastrofe della sua versione comunista – un tragico sogno del mondo industriale, con dentro il fumo delle ciminiere e il sapore del carbone e del ferro – staccandola dal mito della socializzazione dei produttori, dalla falsa immagine di un´economia rovesciata rispetto a quella capitalistica, che potesse miracolosamente generare diffuse condizioni di parità in modo spontaneo e definitivo (il vecchio chiodo di Marx).
Bisogna spostare insomma l´asse dell´eguaglianza dall´economia alla morale: verso un´etica generale della specie e un´ipotesi di soggettività e di cittadinanza capaci di elaborare figure di equità non seriali, non ripetitive, mai divenute e sempre in atto, costruite come doveri della ragione morale e non come necessità dell´ordine economico. E immaginarvi intorno uno stile di socialità mite, dove la solidarietà e l´equilibrio comunitari mitighino la dismisura, la sproporzione e l´asprezza della competizione fra gli individui e fra i gruppi.
Come mantenere aperta questa prospettiva per tutta la specie, e non solo per quella sua parte privilegiata dallo sviluppo degli ultimi secoli, sarà la sfida cui dovremo dare una risposta, e sarà il discrimine fra chi guarda al nuovo come un´occasione di emancipazione e di riscatto, e chi lo vede invece solo come un´opportunità di profitto. Stare fra i primi, forse, vuol dire ancora dirsi socialisti.

Repubblica 9.5.07
La medicina. La scienza fra tecnologia e religione
di Umberto Galimberti


Il passato è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza

La scienza applicata alla salute si chiama "medicina". Il suo scopo, come dice Ippocrate, è quello di «evitare i mali evitabili». Il suo modo di procedere, come ci ricorda Aristotele figlio di un medico, è quello di «aiutare la natura a risanarsi. Non è infatti il farmaco a guarire, ma la natura coadiuvata dal farmaco». Questo non ci deve far dimenticare che è propria della natura umana la "mortalità" che i greci avevano ben presente, mentre i cristiani, sedotti dalla fede nella vita eterna, meno. Ciò ha determinato una sorta di "superstizione scientifica", come la chiama Jaspers, che investe la figura del medico di quell´alone di sacralità di cui, nel tempo antico, erano circondati i sacerdoti. Questa contaminazione tra scienza medica e fede religiosa è antica e ben radicata nel vissuto degli uomini.
Dai fondatori di religioni che acquisivano seguito per le guarigioni miracolose che operavano ai processi di santificazione che esigono come prove le guarigioni fisiche, è una sequenza ininterrotta dove la categoria religiosa della "salvezza" si contamina con quella medica della "salute". Questo stretto rapporto trova un´ulteriore conferma nella visione che la religione e la scienza hanno del tempo. Per la religione, infatti, il passato, contrassegnato dal peccato originale, è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza. Allo stesso modo per la scienza il passato è male da imputare all´ignoranza, il presente è riscatto reso possibile dalla ricerca, il futuro è speranza dischiusa dal progresso scientifico.
Oggi questa antica alleanza tra scienza medica e fede religiosa è entrata in profondissima crisi, dovuta al fatto che tra scienza e religione si è inserito quell´ospite inquietante che è la tecnica, la quale rende possibile quello che per natura è impossibile. Basti pensare alla fecondazione artificiale, al congelamento degli embrioni, al trapianto degli organi, al cambiamento di genere, alle cellule staminali in grado di ricreare tessuti, alle pratiche di rianimazione, all´accanimento terapeutico, per non parlare della genetica, capace di predire con buona approssimazione l´insorgenza ineluttabile di malattie, fino a quel limite che sottrae agli uomini l´imprevedibilità della loro morte. A regolare il procedimento tecnico-scientifico è il principio che "si deve fare tutto ciò che si può fare" in base alle conoscenze acquisite, a cui la religione contrappone il principio etico del limite che ha nell´ordine della natura il suo riferimento.
Come uscirne? Una strada c´è, percorrendo la quale incontriamo due segnalazioni. La prima ci dice che la natura non è "buona", ma semplicemente "indifferente" alla sorte umana. Non si spiegherebbero diversamente epidemie, pestilenze, inondazioni, siccità, fame, malattie, per porre rimedio alle quali è nata la scienza. La seconda ci dice che non possiamo utilizzare un´etica i cui principi scaturiscono da una concezione della natura come ordine immutabile, quando oggi la natura è in ogni suo aspetto manipolabile. Per il mutamento del contesto un´etica sì fatta non è più proponibile, dal momento che non si può impedire alla scienza che può di non fare ciò che può. Il problema allora diventa quello della "misura" che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità "phronesis", che siamo soliti tradurre con "saggezza", "prudenza", e la eleva a principio regolativo della prassi non solo medica, perché le decisioni e i comportamenti sono in continua evoluzione, e questo a maggior ragione in presenza dell´accadimento scientifico. Non resta allora che affidarci al buon uso della ragione, perché questa è la condizione umana da conciliare con l´altra nostra imprescindibile esigenza che è il bisogno di conoscenza.

Repubblica 9.5.07
In nome della Madre
di Massimo Cacciari


Da domani a Bologna una serie di incontri e letture
Il termine "patrius" è comune a tutti gli idiomi indo europei, mentre non si registra "matrius"
Con timore e tremore la mitologia e anche la cultura classica cercano la figura materna, il Grembo
È Rhea (o Terra o Hera) ad allevare Zeus e a permettere al nuovo Dio di vincere il padre
Il cristianesimo costruì l´immagine della Vergine che genera lo stesso Dio

La diffusione della figura della Madre lungo tutto il neolitico africano e asiatico, anatolico e mediterraneo, segna innegabilmente un´era nella quale, attraverso i volti di distinte divinità e differenti simboli, il mondo del divino si struttura attorno alla Signora, alla Donna come «potnia», colei che detiene il potere supremo. Di questo antico, pre-storico predominio, che non va inteso (e banalizzato!) in senso giuridico-politico, recano testimonianze evidenti tutte le mitologie e culture successive.
Gli dèi olimpici, il Comando del Padre Zeus si «innalzano» ancora su questo fondo, abissale e tremendo, invisibile e inattingibile come quello dell´alto mare, vero, cioè, fondo pelasgico, e sempre ne ricordano, loro malgrado, la pre-potenza. La mitologia greca narra, a saperla ascoltare, di un polemos incessante tra il dio del Cielo, svettante e ricoprente la Terra, e la Grande Madre ingenerata, come ingenerati sono Notte e Chaos, Gaia infaticabile.
Da lei lo stesso Urano stellato. Da lei la stessa stirpe di Zeus. È lei, Rhea (stesso nome di Terra, così come lo è Hera, la madre argiva) ad allevare Zeus, a permettere al nuovo dio di sopravvivere al padre. È lei a difendere il Figlio e a consentirne la vittoria.
E così le grandi dee dell´Olimpo conservano nomi pre-ellenici: Artemide ha in Efeso la sua dimora, Athena in Lindos. Nessun mito è più drammaticamente caratteristico della lotta condotta dagli olimpi per sottrarre alla Madre il dominio di quello di Athena generata dal Padre! Con quanta e quale fatica il Padre appare qui costretto ad avvalersi della natura della donna per prevalere! E tuttavia è Athena ad imporre il suo nome alla polis per antonomasia. E l´eroe eponimo, Eretteo, reca il nome della terra (Era) confitto nel proprio.
Con timore e tremore la mitologia e la cultura classica volgono lo sguardo alle Madri. E´ questo il viaggio più seducente e pericoloso. Lo sa ancora il Faust di Goethe, e ancor più la sua «guida» Mefistofele, che invano lo mette in guardia dal voler sprofondare nel loro regno. Esso è l´«inesplorato inesplorabile», «ciò» che dà vita e la toglie, grembo e tenebra, inizio e compimento, letto nuziale e talamo di Persefone. Dà vita a ciò che morrà, e dalla morte trae vita. A nessun ente permette di stare fisso nella forma in cui si manifesta. Per tutti è pharmakon: ciò che alimenta e ammala. Coincidenza di opposti.
Una lunga via conduce dalle leggi antiche, non scritte delle Madri alla esclamazione di Athena, generata dalla mente di Zeus: «del tutto io sono del Padre». Né le Erinni sono alla fine sconfitte e negate. E´ necessario conciliarle al nuovo potere. E ciò avviene sul luogo stesso, la collina dell´Areopago, dove le Amazzoni avevano stabilito il loro campo nella lotta contro il maschio Teseo. Oreste, difeso da Apollo, primo tra gli olimpi dopo Zeus, non viene sacrificato per l´uccisione della madre, ma «a patto» che Athena stessa assuma in sé gli attributi materni, che venga venerata nel Metroon di Atene. Insomma, che Atene sia metropoli, città della Madre.
Così noi, millenni dopo il processo decisivo rappresentato insuperabilmente da Eschilo nelle Eumenidi, dopo l´affermazione dell´Olimpo, da un lato, e del Dio Padre di Gerusalemme, dall´altro, continuiamo a dire «metropoli», a dire «lingua madre». Poiché sentiamo, senza più comprenderlo, che le radici del nostro linguaggio risalgono a un «fondo»che rimane incatturabile, a un grembo sempre generante e invisibile. Mentre invece l´artificio delle leggi che regolano la nostra esistenza e la determinatezza dello spazio in cui provvisoriamente viviamo, sono patrii, appartengono alla « evidenza» del padre. Il termine patrius è comune a tutti gli idiomi indo-europei. Mentre nessuno di essi conosce qualcosa di analogo a «matrius». Patrius indica ovunque il possesso, la salda, indiscutibile condizione del possedere. Le antiche leggi di Mani, tremendo testo delle origini indo-europee, stabilisce che madri, spose e schiave non posseggano nulla. Esse non possono avere «patria potestà». Vi è, sì, in latino «mater familias», ma l´espressione non ha assolutamente significato analogo a quella di «pater familias». Essa indica semplicemente colei che ha generato i filii, i discendenti liberi.
Rimanda, cioè, alla maternità, al maternus. E il suffisso «inus» indica sempre ciò di cui qualcosa è fatto, la materia di qualcosa.
Forse nulla, insomma, «giudica» il carattere delle nostre culture più del fatto che in tutti i nostri idiomi esista «maternus» e non «matrius». E tuttavia il dominio del Padre non può evitare di subire i ricorsi della Grande Dea, in forme sempre nuove, ma sempre sul fondamento del Simbolo originario.
Le forme necessariamente invecchiano. E più rapidamente ancora le leggi e le patrie. Il pensiero lo comprende ed è spinto, come Faust, a fare ritorno, oltre esse, alla Madre. Ma «dove è la Madre?». Non in questo o in quello, non in questa o quella fonte. Ma nella possibilità in generale che qualcosa sia, oltre ogni forma o apparenza. Nella forza che fa incessantemente che l´essere sia, senza arrestarsi mai nell´apparire determinato di questo o quell´ente. Nella forza che fa «correre» gli enti lungo un sentiero che lei sola conosce, e custodisce gelosa. L´opposto di quella «passività» del carattere femminile che è l´idea dominante delle epoche in cui il «diritto paterno» pretende di mascherare la propria avvenuta decadenza.
Quando gli dei maschi, che Plotino vede caratterizzati dal Nous, dal Pensiero, protraggono la loro vita, a difesa della propria forza e del proprio stato, aggrappati alle loro «leggi scritte» come potessero durare in eterno, allora necessariamente ricorre quel grido «alle Madri!»; «giù» di nuovo, per risalire alla potenza del grembo di tutte le forze, a nuove nascite, che nessuna legge può descrivere o prevedere. «Giù» di nuovo, «in alto», alla Grande Dea, generatrice magica delle apparenze, alla Aurora, Mater Matuta, che coccola il bimbo di sua sorella Notte, il Sole. Così avvenne con i trionfi tardo-antichi delle dee di Oriente, di Iside in particolare. Ma fu anche con tali simboli che il cristianesimo costruì la grande immagine della Vergine, di colei che è così potente nella sua umiltà da generare lo stesso Dio. Senza una tale immagine non si potrebbe spiegare la «lunga durata» del cristianesimo stesso.
Così forse sta avvenendo nel nostro secolo. Lo Spirito che soffia dove vuole e che col suo soffio rigenera, oltre ogni umana attesa e speranza, è «sophia» della Madre, sua sapienza e sua arte. «Mia Madre, lo Spirito»: questo affermano le grandi epoche di crisi, di contro al monoteismo astratto e assoluto di quello Spirito che analizza e dissacra, che conosce soltanto il linguaggio dell´utile e del possesso, incapace di danza e di dono, e i cui trionfi hanno perciò sempre il sapore della pesantezza, della vecchiaia e dell´impotenza, alla fine.

Repubblica 9.5.07
Con "Repubblica" una raccolta di scritti di Zagrebelsky
Se la Chiesa diventa un partito
di Nello Ajello


Raccogliendo sotto il titolo Lo Stato e la Chiesa un´antologia dei suoi scritti pubblicati negli ultimi sette anni su Repubblica - e il volume si può acquistarlo nelle edicole allegato al quotidiano - Gustavo Zagrebelsky ha disegnato un panorama molto attuale e di grande drammaticità. Attuale, perché negli ultimi anni, soprattutto dopo l´ascesa al trono pontificio di Joseph Ratzinger, l´interventismo della Santa Sede nelle vicende politiche italiane ha assunto un´accentuazione rilevante. Drammatico, perché sempre più di rado si levano, dall´interno delle pubbliche istituzioni, delle voci se non altrettanto combattive, almeno dissonanti in modo esplicito da questo genere di prevaricazioni.
Soprattutto quando si discutono argomenti di natura etica o attinenti alla scienza la Chiesa fa irruzione tra i contendenti che si misurano - o, a volte, fingono - nell´agone politico. E non lo fa soltanto come portatrice di quella «moral suasion» che si addice a una potenza di elevata dignità spirituale e di superiore portata ecumenica, ma con il linguaggio concitato, l´energia pragmatica, il tono pugnace e l´astuzia tattica di un partecipante alla contesa. Questo patrocinio esercitato sulle vicende dell´Italia trasforma l´autorità ecclesiastica - scrive Ezio Mauro nella sua prefazione al volume di Zagrebelsky - in un qualcosa che è insieme «parte e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione». Il tutto, naturalmente, molto «secolarizzato» e pochissimo solenne, al di là delle tradizioni di prudenza diplomatica che alla Santa Sede vengono di solito attribuite. Il fatto che la Chiesa stessa dia per automatica l´obbedienza dei politici cattolici alle tesi di cui la gerarchia è paladina si rivela, d´altronde, giusto: ogni sua richiesta trova chi la soddisfa nel nostro ambito parlamentare e perfino nelle file del governo, per desiderio di aderire a un conformismo che si presume imperante, o - che è un po´ lo stesso - per la sensazione che i cattolico-clericali siano in aumento, a dispetto della effettiva scristianizzazione del nostro Paese.
Va sottolineato a questo proposito il fatto che in determinate occasioni - come il referendum sulla procreazione assistita cui Zagrebelsky dedica un corposo capitolo - l´appello confessionale è stato rivolto direttamente ai partecipanti al voto, e nella forma più elementare e capziosa: quella dell´invito ad astenersi per evitare l´acquisizione del quorum. Quella volta la Chiesa ebbe facilmente partita vinta: ai «veri astensionisti», a coloro cioè che usano disertare gli appuntamenti referendari, si sommarono i «falsi astensionisti», persuasi dall´appello della Gerarchia. Qui - e non qui soltanto, i lettori potranno accorgersene - il rigore scientifico di uno studioso qual è Zagrebelsky cede a un surplus di sacrosanta passionalità, avvertendo quella campagna elettorale (anzi, più precisamente, anti-elettorale) della Chiesa, e l´obbedienza che le si prestò, come una manifestazione «di prepotenza, di imposizione, di slealtà».
La casistica del volume è ampia. I temi, i concetti e le discussioni che l´autore affronta scavalcano talvolta il caso-limite offerto dal nostro Paese. Affiora nelle pagine quella figura politico-culturale di conio relativamente nuovo che è «l´ateo clericale» o il «teologo politico», o il «radicalista cristiano», la cui attitudine a strumentalizzare la religione in funzione conservatrice lo rende un eroe del nostro tempo a prescindere dalla collocazione geografica: i Dominionists ne sono un´invadente versione statunitense, mentre i restauratori delle «radici cristiane», con relativa «identità» hanno scelto come loro atelier privilegiato l´Europa e le sue istituzioni unitarie. Zagrebelsky misura con accenti severi fino a che punto, qui da noi, la condotta interventista della Chiesa rischi di travolgere lo stesso Concordato, «corrodendone le basi di legittimità». Si domanda se negli «odierni rapporti tra Stato e Chiesa», particolarmente in Italia, si rifletta più lo spirito del Concilio Vaticano II o la dottrina di quel Cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), in virtù della quale si riteneva lecita l´ingerenza della Chiesa in ogni affare dello Stato tutte le volte che la Gerarchia «avesse invocato una ragione religiosa».
Su tutto questo aleggia un pericolo, che va registrato con l´accorata malinconia che in quest´opera si respira: il ritorno indietro della convivenza civile, l´impossibilità del dialogo. Il doloroso disagio, per dirlo con una citazione, di quei «cattolici fervidi» di cui scriverva Arturo Carlo Jemolo, «che conoscono la comunione quotidiana e l´adorazione notturna, che credono fermamente nei miracoli, e che invece sono dei laici». A qualcosa di molto simile allude Zagrebelsky quando esclama: «Che triste delusione per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare», il vedere «la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d´una partita». Con la politica a fare da arbitro.

Repubblica 9.5.07
La Bibbia sui banchi di scuola
Umberto Eco e Pietro Scoppola tra i firmatari


La tragica inefficienza dell´ora di religione
una serie di corsi per tutti i docenti
Oggi l'associazione Biblia presenterà al ministro Fioroni un appello con diecimila firme per promuovere la conoscenza del Libro dei Libri

La marcia dei diecimila termina oggi in Campidoglio. Diecimila firme per un appello che sollecita il ministro dell´Istruzione (e l´opinione pubblica) a rendersi conto che senza conoscenza della Bibbia non c´è cultura europea. Diecimila firme tra cui spiccano nomi eccellenti come gli scrittori Umberto Eco e Claudio Magris, lo storico Pietro Scoppola, i filosofi Massimo Cacciari e Remo Bodei, i biblisti Gianfranco Ravasi e Rinaldo Fabris, il rabbino di Ferrara Luciano Caro, il sociologo Giuseppe De Rita, il vescovo Bruno Forte, il teologo Piero Coda, il preside della Facoltà Teologica Valdese Daniele Garrone, l´astronoma Margherita Hack, il politico Vannino Chiti, il linguista Tullio De Mauro, gli ex presidenti delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi ed Amos Luzzatto, l´industriale Giancarlo Lombardi, il banchiere Alberto Milla, l´ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky e tanti altri ancora: cattolici, laici, protestanti ed ebrei.
A lanciare l´idea di raccogliere le firme è stata l´associazione Biblia, che dall´84 si batte per la riscoperta del Libro dei Libri. L´ha fondata Agnese Cini Tassinari, una tenace e amabile signora fiorentina, già dirigente Scout, interprete parlamentare e docente di storia e letteratura francese. Ci voleva una spinta protestante per dare una scossa alla pigrizia di un Paese che è cattolico al battesimo, al matrimonio, al funerale o (spesso per convenienza) sui banchi del parlamento, ma che coltiva una felice ignoranza del testo sacro del cristianesimo. «Mia madre è svedese – racconta la Cini Tassinari – e perciò avevo frequentato le scuole in Svezia. Lì la Bibbia si studia sul serio». Tornata in Italia lo shock: «Mi resi che conto che l´Italia cattolica conosceva così poco questo splendida biblioteca di libri, che è la Bibbia: tanto ricca di valori, domande, risposte».
Biblia è nata così. Un´avventura fatta di conferenze, di incontri, nei quali ben presto sono stati coinvolti laici, protestanti, ebrei, musulmani, teologi e scienziati. Proprio quando si è profilato il fantasma dello scontro di civiltà, Biblia ha organizzato due importanti convegni su «Bibbia e Corano» e «Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano».
L´appello è nato così, strada facendo. Nella convinzione che poco si capisce dell´Occidente, della sua storia, della sua arte, della sua letteratura e persino del suo diritto, della sua economia e della sua politica, se la Bibbia viene data per assente. La raccolta delle firme è partita sul finire del 2004, nel ventennale dell´associazione, con un proclama essenziale: «Il vasto, millenario influsso di temi e simboli, che hanno la loro origine nella Bibbia, permane nello spazio come nel tempo. E´ decisivo fino alla crisi del sacro nell´epoca moderna e resta ancor oggi fonte primaria di un processo culturale ineludibile».
Ciò che l´appello mette in evidenza, in controluce si può dire, è la tragica inefficienza di quell´ora di religione – finanziata dal bilancio pubblico con l´8 per mille – che accompagna lo studente dalle elementari (a volte anche prima) fino alla maturità senza dargli uno straccio di istruzione biblica. Si chiama testualmente «Insegnamento della religione cattolica», ci lavorano oltre quindicimila insegnanti e dopo anni ed anni gli studenti escono da scuola senza conoscere il Libro che Cristo citava e su cui si basa tutta la religione cristiana.
Stamane in Campidoglio l´iniziativa verrà presentata in un convegno con Pietro Scoppola, Rosario Gibellini e Antonio Paolucci. Ma subito dopo Agnese Cini contatterà il ministro Fioroni per andare a consegnargli personalmente le firme. Al Miur (Ministero dell´istruzione, università e ricerca) è già pronto nei dettagli un protocollo, che attende solo la firma del ministro, e che varerà corsi di aggiornamento per i docenti allo scopo di valorizzare il «giacimento biblico» della nostra cultura. Biblia, cui si sono aggiunte altre istituzioni interessate, ne sarà responsabile.
Un protocollo simile, in verità, era già stato firmato da Tullio De Mauro, ministro dell´Istruzione nell´ultimo governo di centro-sinistra, prima che Berlusconi vincesse le elezioni del 2001. Ma, cambiato il governo, non se ne fece nulla.
Ora si riparte. «Non vogliamo creare una nuova materia accanto alle altre», spiega il professor Piero Stefani, coordinatore del comitato scientifico dell´associazione. «Ciò che conta – sottolinea – è mettere in luce l´apporto della Bibbia nelle varie materie curricolari». Con il ministero sono già state individuate quattro aree di approfondimento: Bibbia ed Ellenismo (per i Licei classici), Bibbia e Scienza (per i Licei scientifici), Bibbia ed Europa, ed infine Bibbia e America. Da scoprire c´è moltissimo. Per esempio che la matrice biblica è stata un pungolo potente nella storia della ricerca scientifica occidentale. Anche attraverso i momenti di conflitto.

Repubblica 9.5.07
In quelle pagine le radici della nostra civiltà
Il testo del documento

Nel dibattito sulla riforma dei programmi di insegnamento permane un´attenzione inadeguata nei confronti della Bibbia e della sua influenza diretta e indiretta sulla storia dell´Occidente. E questo nonostante si tratti di una carenza storica - già più volte denunciata - della scuola italiana. Tale carenza incide negativamente sulla comprensione della letteratura, dell´arte, della musica, della politica, del diritto, dell´economia e in genere della storia culturale dell´Occidente. Il vasto, millenario influsso di temi e simboli che hanno la loro origine nella Bibbia permane nello spazio come nel tempo; è decisivo fino alla crisi del sacro nell´epoca moderna, e resta ancor oggi fonte primaria di un processo culturale ineludibile.
E´ necessario che la scuola italiana si accosti, in modo culturalmente maturo, ai testi sacri che hanno dato forma alle tradizioni religiose, alla storia, alla civiltà di cui siamo figli. La Bibbia ebraica e la Bibbia cristiana (quest´ultima formata dall´Antico Testamento e dal Nuovo) costituiscono, nel loro reciproco confronto, un nodo culturale ricco, e spesso drammatico, senza il quale la comprensione della nostra civiltà risulta fortemente penalizzata. L´importanza di questa eredità non è inferiore a quella della cultura greco-romana. Il raffronto tra il mondo biblico e quello classico testimonia che l´incontro con l´"altro" è componente intrinseca al sorgere stesso della civiltà occidentale.
Una riscoperta consapevole e rigorosa della matrice biblica dell´Occidente è urgente in questo momento storico, segnato dall´inedita presenza in Italia e in Europa di comunità religiose numericamente crescenti e diverse da quelle di origine ebraica e cristiana. In questa direzione appare tanto ovvio quanto doveroso ricordare che l´Islam, nel suo testo fondante, fa proprie moltissime componenti del messaggio biblico. Riflettere dunque sulla comune eredità biblica del Vicino Oriente e dell´Occidente non comporta chiusure né contrapposizioni, ma anzi potenzia le capacità di comprensione di altre civiltà e altri universi religiosi.
Alla luce delle considerazioni qui esposte, i membri del Comitato Promotore, del Consiglio Direttivo e del Comitato Scientifico di Biblia, che si riconoscono in orientamenti culturali e religiosi diversi, chiedono al Ministero della Pubblica istruzione, al mondo della scuola, a quello della comunicazione e in generale agli esponenti della cultura italiana e a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca culturale, di favorire, ciascuno con i propri strumenti, l´attuazione di iniziative concrete (intese, corsi di aggiornamento, revisioni di programmi, produzione di materiale didattico, dibattiti, interventi su riviste e organi di informazione, iniziative che partano dalla scuola e raggiungano cerchie sempre più ampie) volte a far sì che la conoscenza della Bibbia e dei suoi influssi venga sempre più considerata componente indispensabile nella formazione culturale di ogni studente e di ogni cittadino.
I proponenti sono consapevoli delle difficoltà metodologiche, didattiche e organizzative inerenti a questa proposta. Restano tuttavia convinti che la scelta migliore non sia quella di ignorare ulteriormente il problema o di affidarsi alla buona volontà di singoli docenti, ma stia nel progettare, con coraggio e inventiva, piste per la sua soluzione.

Repubblica 9.5.07
L’Intervista. Scoppola: perché è ignotata
di Simonetta Fiori

«Si studiano l´Iliade e l´0dissea, si legge l´Eneide, perché escludere la Bibbia che è un testo fondamentale per comprendere la storia dell´Occidente?». Pietro Scoppola presenterà oggi in Campidoglio insieme a Gibellini e Paolucci l´appello per la Bibbia.
Un´iniziativa laica, che vuole sottrarre il testo biblico a una lettura confessionale.
«La Bibbia è un´opera di straordinaria ricchezza, da diversi punti di vista: filosofico e artistico, letterario e anche politico. Non è un caso che oggi presenterò l´appello insieme a uno studioso di letteratura e a un esperto d´arte, e io da storico proporrò la Bibbia come fondamento del costituzionalismo moderno. Un´opera che meriterebbe d´essere assunta a pieno titolo nel canone occidentale».
Perché invece è largamente ignorata?
«Per più ragioni. Da una parte ha influito la discriminazione da parte laica, che ha liquidato la Bibbia come lettura chiesastica. Dall´altra c´è stata la tendenza della Chiesa a rivendicarne l´assoluto monopolio e, fino al Concilio Vaticano II, ha pesato un uso parziale e sospettoso da parte della gerarchie».
Colpisce oggi la straordinaria adesione, tra laici e cattolici.
«Sì, ci sono firme importanti. Già nell´84, con il nuovo Concordato, ponemmo la questione di sottrarre l´insegnamento delle religioni da una dimensione confessionale, ma la nostra iniziativa fallì».
Cosa è cambiato da allora?
«La nostra era è segnata da un riemergere prepotente del fattore religioso. Conoscere la Bibbia significa anche scoprire che molte componenti del messaggio biblico sono presenti nel Corano. In questo senso può favorire un dialogo fruttuoso con l´Islam».
Sarà interessante la reazione della Chiesa.
«Credo che approverà l´iniziativa, o forse ci sarà dibattito. Il cardinal Martini ha scritto pagine fondamentali sull´importanza culturale della Bibbia».

Left Avvenimenti del 10 marzo 2006
Quasi quasi mi sbattezzo
di Federico Tulli


"Almeno ne ha parlato con i suoi genitori?" "Beh Monsignore ho quarant'anni..". L'autore della domanda a bruciapelo è Monsignor La Rosa, direttore dell'Ufficio matrimoni del Vicariato di Roma. Era rivolta a chi scrive, convocato con urgenza in Curia, via raccomandata, per "importanti comunicazioni in merito alla sua richiesta di sbattezzo". Ateo da sempre, come mio modo di vita privato, per curiosità giornalistica due mesi fa avevo avviato la pratica, utilizzando il modulo prestampato che si può scaricare da www.uaar.it, il sito dell'unione degli atei e agnostici razionalisti, nel cui comitato di presidenza spiccano i nomi della scienziata Margherita Hack e del matematico Piergiorgio Odifreddi.

L'agevole consultazione offerta nel sito, sia di documenti che di riferimenti normativi, rende il procedimento relativamente semplice e di sicura riuscita; anche perché, si legge, "nel novembre 2002 la Conferenza dei vescovi italiani, riunita in assemblea plenaria, ha dovuto confermare la legittimità delle richieste formulate col modulo UAAR". Lo sbattezzo, che per ragioni diverse sta coinvolgendo migliaia di italiani, avviene con un'annotazione sul registro dei battezzati e soddisfa la richiesta di non essere più considerati cattolici, cioè, come recita la nota "non più aderenti alla confessione religiosa denominata Chiesa cattolica apostolica romana". Un semplice tratto di penna, che non cancella il fatto avvenuto, ma manifesta il proprio rifiuto verso uno status imposto quasi d'ufficio; avviene infatti, per la maggior parte degli italiani, a pochi giorni della nascita. Impossibile sottrarsi, anche solo fisicamente. Fu sant'Agostino ad esigere la trasformazione del sacramento in un rito destinato ai neonati per liberarli unicamente dal peccato originale. Fino ad allora il battesimo era una sorta di amnistia generalizzata dei peccati commessi; infatti quasi tutti, compreso Agostino, lo richiedevano in età adulta.

Circa ottocento anni dopo, nel tredicesimo secolo, troviamo il potere spirituale e temporale della Chiesa minacciato su più fronti e il battesimo assunse un significato politico, di distinzione. Era l'epoca in cui Innocenzo III organizzava l'ennesima crociata contro i mori e, in Europa, cominciava l'opera di sterminio dei Catari; e in particolare, nel 1215, anno in cui fu ufficialmente introdotta nei paesi cristiani la rotella, il cerchio di stoffa gialla che gli ebrei dovevano portare sui vestiti dall'età di dodici anni, battezzarsi divenne obbligatorio e fu istituito il registro battesimale; così la lavata di capo, più che a un obbligo, corrispose alla convenienza di non essere considerati al pari di animali. Infatti sempre nello stesso anno il Concilio lateranense IV stabilì definitivamente che "l'identità umana deriva dalla ricezione dei sacramenti e dal riconoscimento del papa come autorità". Ad oggi nulla di nuovo; il registro è lo stesso e papa Ratzinger all'Angelus del 4 dicembre 2005 ci ha ricordato che "l'uomo, tra tutte le creature di questa terra, è l'unica in grado di stabilire una relazione libera e consapevole con il suo creatore" e quindi che dallo status di credente "deriva la dignità dell'uomo"; ma anche l'ultimo catechismo della Chiesa cattolica firmato da Giovanni Paolo II, precisa che essere battezzati significa divenire «membra di Cristo, incorporati alla Chiesa». E poi andando più a fondo si legge: «il battezzato non appartiene più a se stesso» ma è chiamato «ad essere obbediente e sottomesso ai capi della Chiesa».

Condizioni che richiedono, al cittadino di uno stato laico, quantomeno una piccola riflessione; e infatti la sentenza della Corte Costituzionale n. 239 del 1984 ha stabilito che "l'adesione ad una qualsiasi comunità religiosa debba essere basata sulla volontà della persona". Nonostante ciò, in Italia oltre il 95 per cento della popolazione viene battezzato e senza espressione manifesta di consenso. Ed è interessante confrontare questo dato con gli ultimi forniti da Eurispes: solo il 30,6 per cento degli italiani, per lo più ultrasessantenni, si dice credente e va in chiesa.

"Dica la verità, è per colpa di un prete?" rilancia il Monsignore, "alcuni di noi magari finiscono troppo sui giornali - azzarda - con le loro dichiarazioni scomode e alla fine la gente si stufa...". Forse anche lui ha qualche dubbio, ci permettiamo, sull'ingresso a gamba tesa della Chiesa in tutte le questioni di vita, specie quelle più intime, degli italiani; dal no alla fecondazione eterologa, pretendendo di decidere con chi una donna dovrebbe fare un figlio, passando per il no all'aborto farmacologico con la Ru486 nonostante l'Oms l'abbia ascritta fra i farmaci essenziali, per il no ai Pacs e al sì ai volontari del Movimento per la vita, che fuori dalla legge 194, sono stati ammessi dal ministro Storace nei consultori pubblici. Un'ingerenza nei fatti privati e nelle leggi dello stato italiano che nel 2005 ha segnato un picco notevole con il cardinale Ruini, superstar della scorretta campagna di persuasione a non andare a votare per il referendum di modifica della legge sulla fecondazione assistita.

In realtà il fenomeno affonda in radici temporali più profonde, infatti le prime pratiche partirono negli anni '70, dopo la feroce demonizzazione del divorzio e dell'aborto; e subirono un'accelerazione nel 1987, dopo i calorosi abbracci in mondovisione tra Giovanni Paolo II e Pinochet. Il continuo rivolo di defezioni, insieme alle recenti, massicce, manifestazioni di piazza a difesa della legge 194 sull'aborto, raccontano forse di un'Italia che non è poi così disposta a genuflettersi ai veti posti, più o meno apertamente, dalla religione cattolica alla libertà di pensiero e ai rapporti umani.

"Per fortuna molti ci ripensano", insiste intanto Monsignor La Rosa. Per convincermi, mi mostra la pratica di una persona che "è stata riaccolta alla casa del padre", e poi quasi disarmato: "se mi avesse telefonato - dice - mi sarei preparato. E invece è arrivato in Vicariato così all'improvviso...". A dire il vero, nel novembre 2003 il Garante della Privacy ha stabilito che non è obbligatorio sottoporsi al colloquio per confermare la volontà di sbattezzarsi; l'appartenenza religiosa è un dato sensibile tutelato dalla legge 675/96 sulla privacy, quindi è sufficiente allegare una fotocopia del proprio documento d'identità al modulo firmato. E' stata anche dichiarata legittima l'eventuale attività della Curia volta a richiamare l'attenzione sugli effetti di ordine canonico che l'istanza produce e cioè, l'esclusione dai sacramenti, l'esclusione dall'incarico di padrino per battesimo e cresima, la necessità dell'autorizzazione dell'Ordinario per eventuale richiesta di matrimonio canonico e la privazione delle esequie ecclesiastiche in mancanza di segni di pentimento.

Conoscevo queste implicazioni dello sbattezzo, per cui alla domanda del Monsignore "lei sa quali sono le conseguenze vero..?" annuii e approfittati per salutare. Quand'ecco che concludendo sibilò: "... nei rapporti con Questo di sopra". Me ne andai sorridendo. Mi aveva fatto venire in mente queste parole di Margherita Hack: "Io sono atea, non penso ci voglia un gran coraggio... Ai tempi di Galileo forse ci voleva il coraggio... Oggi nessuno mi manderà al rogo!".

Apcom 9.5.07
CHIESA/ SU 'RIFORMISTA' MIETE CONSENSI LA RICHIESTA DI SCOMUNICA
Continuano adesioni dei lettori dopo lettera sabato scorso

(APCom) - Sul 'Riformista' miete consensi la proposta avanzata da un lettore - ateo dichiarato - che, giorni fa, domandava ragguagli su come ottenere la scomunica dalla Chiesa cattolica. Nella rubrica delle lettere alla redazione, da alcuni giorni - e ancora oggi - numerosi altri lettori hanno aderito alla provocazione. A tener banco tra le argomentazioni sono gli interventi dei vertici cattolici nel dibattito politico italiano, il tema della laicità e questioni come la bioetica e l'aborto. "Vogliamo pensare alle donne e agli uomini come noi, occuparci dei nostri bisogni e delle nostre esigenze di esseri umani, fatti di psiche e di biologia e nati non prima di aver visto la luce con i nostri occhi", scriveva sabato scorso il lettore che per primo ha lanciato la richiesta di scomunica, Paolo Izzo. "Può bastare? A chi devo rivolgermi per formalizzare la questione?". Ska

il Riformista 9.5.07
Bellocchio. Violenza e pellicole, malattia e realtà
Diavoli in corpo che si incarnano nei film
di Livia Profeti


C'è anche Marco Bellocchio tra i protagonisti del Festival romano di filosofia. L'11 maggio alle 21.30 ii regista discuterà insieme a Jean-Luc Nancy, Pietro Montani, Edoardo Bruno e Stefano Velotti sul tema "Ibridazioni del linguaggio cinematografico". L'incontro avviene in un momento molto denso per Bellocchio: impegnato nella sceneggiatura del suo prossimo film sulla storia tra Ida Dalser e Benito Mussolini, è reduce dall'incontro a sostegno del cinema italiano che si è svolto lunedì scorso tra il ministro Rutelli e il movimento "Centoautori", nel quale è molto attivo. Sabato prossimo sarà presente anche sul palco serale della manifestazione "Orgoglio laico" in risposta al Family day.
Bellocchio, al termine della cerimonia di presentazione delle candidature ai David di Donatello, dove Il regista di matrimoni è in lizza per il film, la regia, il montaggio e la protagonista femminile Donatella Finocchiaro, risponde ad alcune domande del Riformista. Visto che con il festival siamo in tema e il termine è di moda, ci sono dei filosofi nel suo pantheon personale? «La mia formazione è stata soprattutto teatrale-poetico-letteraria. A parte gli studi scolastici il mio interesse per i filosofi si è limitato al breve periodo della militanza politica, tra il '68 e il '69, quando leggevo Marx, Engels e un po' di Nietzsche. Mi affascinava l'idea di una trasformazione possibile di me stesso, che in quel periodo, dogmaticamente, speravo potesse venire dalla "rieducazione" comunista di stampo maoista che prevedeva un'immersione nel mondo operaio e contadino. A quei tempi, e data la mia formazione cattolica, pensavo che con quella potessi liberarmi dal senso di colpa della mia agiatezza borghese». Un tema piuttosto lontano da quelli che verranno affrontati nella tavola rotonda dell'11, tra i quali quello del rapporto e del confine tra realtà e finzione nell'immagine cinematografica. «lo faccio il regista e non il teorico, però su questo tema penso al concetto di immagine inconscia non onirica emerso dalla ricerca che si svolge nell'ambito dell'analisi collettiva, del quale si è parlato anche recentemente in un incontro a Parigi con Massimo Fagioli. Quando io penso a un film la prima cosa che mi viene in mente sono immagini. Anche se spesso non so cosa signiflcano, so che provengono da quello che io sono, dai rapporti e dalle cose che ho vissuto. Queste però possono essere inconsciamente trasformate creando immagini completamente diverse. Se uno avesse l'interesse e la curiosità di esaminare bene le mie immagini potrebbe scoprire qual è la loro realtà originaria». Che però continua a esserci e quindi, anche se non viene più riconosciuta, viene comunque comunicata.
A questo proposito un altro tema della tavola rotonda è l'influenza delle immagini sulle coscienze. Lei concorda sull'ipotesi per la quale certi film violenti istigherebbero alla violenza reale? «Mah, uno non fa una strage perché ha visto un film. Però da certe immagini può avere una conferma a una propria realtà». A parte la violenza palese, ci sono alcuni film dai quali si esce con un profondo senso di malessere. Secondo lei perché? «In modo molto semplice direi che al fondo propongono una visione malata del mondo e della vita, distruttiva, violenta in senso psichico. In quel caso il regista lavora su degli affetti che non sono solo disperati, ma immobili. Non si tratta di tragedia: io penso che le tragedie di Shakespeare non fanno stare, fanno pensare. Il fatto di "far star male" è legato alla proposizione di una specie di autocompiacimento della violenza, una disperazione senza sentimento, un cinismo in qualche modo futile». A proposito di tragedie, il suo prossimo film sulla storia di Ida Dalser non sembra promettere un lieto fine per la donna, al contrario della riuscita femminile che a partire da Diavolo in corpo sino all'ultimo Il regista di matrimoni ha spesso affollato le sue opere. «La tragicità di questa storia mi interessa. E una storia molto complessa perché si articola in venti anni, nei quali intervengono tutta una serie di mutazioni di questa donna in rapporto alle persone che la circondano, ma anche alla storia d'Italia. Non dimentichiamo che sullo sfondo c'è sempre Mussolini». Per rimanere al tema del festival, che tipo di rapporto ci sarà in questo film tra realtà e creazione? «Sarà un po' come Buongiorno, notte. Da una parte la storia con i suoi episodi principali ma poi, all'interno di questi, rivendico la libertà artistica di inventare».
Passiamo al suo impegno politico-sociale e quindi alla manifestazione di sabato prossimo a favore dei Dico, da alcuni accusata di essere solo anticlericale e non a favore della laicità. Lei cosa intende con il termine "laicità"? «Non sono d'accordo che la manifestazione sia solo anticlericale. Per me laicità significa pensare e agire senza credere in un dio trascendente e contemporaneamente, in senso un po' volteriano, pensare e agire con la massima tolleranza verso chi la pensa diversamente, rifiutando ogni forma di violenza. In questo senso è cardine la differenza fagioliana tra negazione e rifiuto: per fare un esempio l'opposizione anche da parte di alcuni deputati dell'Unione ai Dico è una negazione della realtà della società attuale, che è in trasformazione. La mentalità sta cambiando e le coppie di fatto sono in continua crescita, come moltissimi sono i figli nati fuori dal matrimonio. Al contrario rifiutare, ovvero "dire no" a chi vuole imporre le proprie credenze sugli altri, significa ribellarsi pacificamente alla violenza di chi nega questo cambiamento».
Un'ultima domanda: il suo cinema, da molti definito poetico e profondo, può essere anche definito "politico"? «Non è un cinema neutrale, perciò, anche se non fa propaganda, esprime implicitamente una posizione politica. A sinistra».

il Riformista 9.5.07
I confini sono frontiere portatili nella società globale d'occidente
Intervista con Marramao
di Viola Giannoli


«Il concetto di confine ha una valenza doppia: segna una divisione, una separazione, ma, stando al suo etimo, è anche limite condiviso. Da un lato si hanno opposizioni, confronti, dall'altro ibridazioni, contaminazioni. Gli eventi decisivi della nostra epoca sono destinati a verificarsi lungo le linee di confine». Così Giacomo Marramao, presidente dell'associazione culturale Multiversum, spiega la scelta del tema del Festival: il "confine", meglio "i confini", come nodo nevralgico del nostro presente, declinabili in moltissime accezioni, tra le quali resta fondamentale quella tra Oriente e Occidente. «Il confronto tra questi due poli è un tema vecchio che si ripropone nel mondo globalizzato, se è vero che il XXI secolo si delinea come un'era sino-americana, in cui le due grandi alternative globali sembrano essere rappresentate per un verso dal modello americano dell'individualismo competitivo, per l'altro dal modello comunitario-paternalistico-gerarchico del colosso asiatico».
Passaggio a Occidente. Proprio a questo confine-sconfinamento tra Oriente e Occidente è dedicato Passaggio a Occidente. Filosofia e giobalizzazione. Lontano dalle letture di Fukuyama e Huntington, Marramao non intende la globalizzazione né come omologazione del mondo, né come scontro di civiltà. La globalizzazione è piuttosto «un impervio, lungo e complicato passaggio a Occidente di tutte le culture, le identità, le forme di vita», nel quale a essere profondamente alterato è anche lo stesso Occidente. Si tratta di una fase di trasformazione multipla, che non riguarda solo l'economia e il lavoro, ma in primis l'identità. «Lo spazio globale è uno spazio non euclideo in cui le geometrie variabili disegnano nuove linee di divisione, a volte geopolitiche, in quanto dividono macroregioni, altre volte transterritoriali. poiché attraversano tutti i luoghi del pianeta e hanno a che fare con una dinamica "nomade" di costituzione deterritorializzata delle identità». Marramao parla in questo senso di "frontiere portatili". In una società multiculturale si vive in uno spazio unico, apparentemente ibridato, ma in cui sempre più netti sono i confini invisibili tra identità differenti che portano con sé forme di comportamento e rituali specifici. «È un po' il fenomeno anaIizzato dallo storico inglese Benedict Anderson delle comunità immaginate. A questo bisogna rispondere con un progetto nuovo, con una nuova idea di cittadinanza che non può essere né quella assimilazionista del modello francese - abbiamo visto come davanti alI'insistenza su questo progetto le banlieue si ribellino - ma neanche il modello "Londonistan", di una società multiculturale intesa non come confronto tra diversità, ma come divisione dello spazio metropolitano in tanti ghetti the non comunicano tra loro».
Glocalizzazione. La globalazione fa emergere dunque una nuova dimensione del "locale", non come residuo, resistenza "romantica" di forme comunitarie tradizionali. Piuttosto si tratta di quella che Marramao chiama «produzione globale di località». La globalizzazione non produce un'umanità omologata, bensì un'umanità sempre più differenziata e tendenzialmente conflittuale. «Per superare il rischio insito nella società globale di dar luogo al fenomeno delle "differenze blindate" che si trincerano dietro una logica separatista, che non stabilisce una feconda contaminazione comunicativa tra esperienze diverse, occorre partire dall'idea che le divisioni non sono tra una cultura e l'altra, una civiltà e l'altra. Le divisioni attraversano non solo tutti i gruppi e le comunità, ma sono anche interne a ciascuno di noi».
Confini di genere. Per Marramao occorre una "ritematizzazione" dell'identità come «identità multipla», dentro alla quale esistono faglie strutturali. Tra i "confini", dunque, anche quello tra uomo e donna. «Dopo le presidenziali francesi, ad esempio, abbiamo letto di un maschilismo presente anche nelle donne che hanno avuto una più o meno malcelata insofferenza verso Ségolène Royal. Se possono esserci atteggiamenti misogini anche nelle donne, le linee di confine non sono localizzate in modo semplice come in un mondo euclideo: da una parte gli uomini, dall'altra le donne. In un mondo non euclideo, le linee di confine sono simboliche. Questo rende la nuova sfida della politica molto più complessa, poiché deve agire sulla base di ratori più sofisticati».
Multiversalismo. La conflittualità non può essere annullata, ridotta a un'unica entità universale. Le diversità vanno tutelate riconoscendo la dignità dell'altro a essere differente. L'annullamento dell'idea universale di politica non rischia però di sfociare in un relativismo assoluto? Insomma, che ne è della politica e come può questa, nella sua nuova accezione, misurarsi con i problemi globali? «Il relativismo assoluto - spiega Marramao - paralizza la politica, così come l'assolutismo identitario. Occorre immaginare un nuovo spazio dell'universale. È Ramon Panikkar ad avvertirci che non sono gli occidentali i proprietari della "casa dell'universale", che devono accogliere con benevolenza e ospitalità gli "altri". La casa dell'universale va costruita multilateralmente». Nell'ultimo film di De Niro, The good sheperd, c'è uno scambio di battute chiave per comprendere cosa si intende per universalismo identitario. Alla domanda «noi italiani abbiamo la nostra comunità che è di origine familiare, gli ebrei hanno la comunità religiosa, i neri hanno la comunità dell'arte e della musica, voi wasp cosa avete?», l'agente Cia risponde: «noi abbiamo gli Stati Uniti d'America, voi siete al massimo ospiti». L'universalismo identitario presuppone una gerarchia implicita, una frontiera, invisibile, tra l'élite dirigente e chi è "ospite". L'universalismo multiplo assume invece come suo criterio la differenza. «Occorre allora - dice Marramao - pensare in termini di universalismo della differenza, quello che chiamo multiversalismo».
Dalla politica all'etica. L'esperienza del confine, nel nuovo mondo globale e tecnologico, è anche esperienza della soglia. Innanzitutto antropologica. Venute meno le distinzioni tra corpo e mente, naturale e artificiale, è necessaria una ridefinizione dell'etica. «A partire da Montaigne, e poi via via con l'emergere del concetto moderno di libertà, la definizione dell'individuo autonomo è apparsa ai tradizionalisti come una minaccia per le radici dell'etica classica, aristotelica, che non può darsi se non in presenza di una comunità con vincoli organici, comandamenti, norme». L'individuo libero, dotato di facoltà di autodecisione, rischia di essere quantomeno moralmente problematico. «Ha ragione Marc Augè - continua Marramao - quando dice che, a causa del potenziale tecnologico-digitale applicato al bios. alla vita la soglia antropologica non è più paragonabile alla fine della visione classica del mondo, ma addirittura alla nascita del neolitico». Siamo entrati in una dimensione radicalmente nuova in cui rivedere e riscrivere i principi etici fondamentali: libertà, necessità, dovere, dignità della persona: Qui il confine è tra il modo classico di pensare questi valori e quello moderno, oltre la soglia dell'umano. Una soglia che prelude all'ingresso in una nuova fase storica dell'umanità, quella del post-umano.