Mussi e Giordano, vicini ma non troppo
Anche qui il nodo è l’adesione al Pse
La “cosa rossa” si ritrova sulla critica alla globalizzazione. Ma Franco Giordano gela Fabio Mussi sul socialismo europeo: «Noi mai», dice il segretario del Prc. E Mussi non lo segue subito sul terreno di un’azione comune a proposito delle pensioni. La figura e l’esperienza di Olof Palme, come trait d’union per le sinistre italiane che cercano un cammino comune. Alla presentazione del libro di Aldo Garzia sulla «vita e l'assassinio di un socialista europeo» i leader di Rifondazione e di Sinistra democratica fanno un altro passo nella stessa direzione. Il terreno è quello «delle cose utili» come dice Mussi, cioè dei provvedimenti di governo. E il banco di prova delle pensioni è un esempio citato da entrambi, anche se Mussi dice che non vuole discutere le esternazioni e aspetta di vedere quale sarà la proposta portata in Consiglio dei ministri. «C'è un grande lavoro da fare sui contenuti ed è urgente - dice il ministro dell’Università - apparecchiare subito il tavolo per costruire un programma politico comune». Giordano non è meno deciso: «Serve una soggettività unitaria dell'intera sinistra, soprattutto per dare al paese una forma di rappresentanza politica del lavoro». Fin qui i due procedono paralleli, nonostante le differenze non misconosciute tra le rispettive tradizioni, perché, come dice Giordano, «se la socialdemocrazia è quella del programma di Palme, io firmo subito».
Le cose si complicano quando si passa dalle dichiarazioni di principio («il socialismo è una critica della globalizzazione capitalistica», dice Mussi raccogliendo l'identica espressione usata da Giordano) alle questioni per così dire fattuali. Mussi chiede a Giordano la critica del «totalitarismo e del socialismo reale» e l'adesione «ad un socialismo rinnovato». Giordano sul primo punto è d'accordo: «La critica al socialismo reale la facevamo io e te Fabio all'interno del Pci, e venivamo rimbrottati da quelli che ora fanno il Partito democratico», dice con sarcasmo. Sul secondo, invece, è categorico: «Noi nel Pse? non esiste proprio».
l’Unità 11.5.07
Su «Micromega» un’intervista al figlio Hermann con nuovi particolari sulla scelta nazista del filosofo fin dal 1932
Heidegger, dongiovanni e reticente
di Bruno Gravagnuolo
Buon numero l’ultimo fascicolo di Micromega, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais (3/2007, Almanacco di Filosofia, pp. 239, Euro 12). Dentro ci sono molti materiali tratti dal Festival di Filosofia romana del 2006 («Instabilità»), che escono a ridosso di quello ora in corso all’Auditorium capitolino. Un dialogo del 2005 tra Alberto Melloni e Gilles Keipel su «Fondamentalismo e religioni». Un lungo saggio di Flores sulla cristologia di Ratzinger, e un’intervista inedita di Angel Xolocotzi a Hermann Heidegger, figlio non naturale del filosofo e divenuto per vie impreviste curatore dell’opera omnia del genitore legale. La vera novità del fascicolo è questa, perché aggiunge molti dettagli sul romanzo familiare del filosofo, nonché sul tema della sua adesione al nazismo. Oltre a rivelarci che egli non avrebbe voluto l’opera omnia, almeno per 100 anni, prima che Hermann lo persudasse, prefigurandogli la catastrofe di una guerra nucleare.
Intanto però, veniamo al saggio di Paolo Flores: «Gesù e Ratzinger tra storia e teologia». Ci sembra salutare. Poiché ribadisce alcune verità acclarate dalla moderna critica neotestamentaria. E cioè: l’inserzione dei Vangeli sinottici, nella dogmatica posteriore dei Concili di Nicea e Calcedonia, è arbitraria. Essa taglia fuori i cosiddetti vangeli «apocrifi»(per la Chiesa!), rimuovendo le radici ebraiche di Gesù. La sua terrenità, il modo in cui fu percepito e lui stesso si percepiva: un riformatore sociale ebraico che si aspettava un Avvento apocalittico nell’immediato. E non in una Chiesa-Istituzione. Ratzinger invece sequestra ancora, nel solco della tradizione romana quel lascito. E lo (re)impone come verità di fede che oltretutto ambisce a diventare verità politica e civile. In una parola: controriforma. Con echi inquietanti a destra, aggiungiamo noi. Nel cattolicesimo politico nostrano e non solo in quello integralista (dai neodem, ai teodem, ai teocon ovviamente).
E adesso veniamo ad Heidegger. Hermann, era figlio di Elfriede Heidegger e di un amico di famiglia di lei, non del filosofo. E presumibilmente lo apprese fin dal 1956. Ricevendone ulteriore conferma nella vicenda dell’epistololario segreto del padre legale. Una storia questa che Hermann ci narra, evocando la controversia con una cugina venuta in possesso dele lettere: alle tante amanti del filosofo e alla moglie. Già, Heidegger, padre affettuoso e paziente, non fu solo l’amante di Hannah Arendt. Ma di molte belle signore e allieve e la cosa suscitò tempeste con la moglie Elfriede, che fu anche quella che nel 1932 lo spinse a votare nazista e nel 1933 a iscriversi al partito nazista. Cosa che poi gli fruttò la nomina al Rettorato di Friburgo, dove tenne il famoso discorso di appoggio al «movimento». Tanto apprendiamo dall’intervista inedita. Che però è reticente, comprensibilmente, in Hermann. Infatti è vero che il filosofo nominò a «decani» due docenti invisi al regime e perciò l’anno appresso si dimise, senza rinnovare la tessera nazi. Nondimeno fino al 1936 Heidegger si illuse ancora di poter cavalcare la tigre. Scorgendo nel nazismo il modo giusto di arginare e governare la tecnica: una sorta di custode politico del senso greco dell’Essere. All’insegna dell’anticapitalismo romantico: «suolo», «comunità», «decisione», «servizio del lavoro e del sapere» Ben per questo, dopo il famoso discorso rettorale, parlò di «grandezza» e «intima verità del nazionalsocialismo», che presumeva di aver capito. Poi cambiò idea, e vide in esso la Volontà nichilistica di potenza (nietzscheana). Ma non fece mai ammenda. E su ciò Hermann Heidegger non si sofferma, e neanche l’intervistatore in verità.
Repubblica 11.5.07
I paladini di Faurisson
Un docente dell'Università di Teramo vuole invitare il negazionista. Ed è polemica
di Gad Lerner
Viviamo oggi la necessità di desacralizzare l'approccio a una tragedia storica
Già Primo Levi rimase sconcertato dal tentativo di negare l'Olocausto
Domande avvelenate che si rincorrono fra le due sponde del Mediterraneo, tra un Medio Oriente in fiamme e un´Europa che vorrebbe scrollarsi di dosso i sensi di colpa di cui l´ha sovraccaricata una storia tragica: non ci siamo forse già sdebitati abbastanza? Liberiamoci del fardello dell´Olocausto! E chi lo dice poi, vista la scorpacciata di privilegi lucrati atteggiandosi a vittime, chi lo dice che gli ebrei non si siano perfidamente inventati tutto?
La conferenza di Robert Faurisson - lo studioso che definisce «una menzogna storica» le «pretese camere a gas hitleriane» e il «preteso genocidio degli ebrei» - viene quindi presentata agli studenti italiani come un evento liberatorio: parliamo finalmente senza tabù, basta con le persecuzioni degli intellettuali scomodi!
Nell´enfasi liberale che avvolge la conferenza di Teramo, riecheggiano gli argomenti di un leader abilissimo nel padroneggiare i media come l´iraniano Mahmud Ahmadinejad: ma vi rendete conto che quei (presunti) sei milioni di ebrei vi vengono rinfacciati come se voi europei non aveste avuto decine di milioni di morti in quella stessa guerra? O come il presidente siriano Bashar al-Assad che maliziosamente chiede: come mai in Occidente è consentito mettere in discussione Gesù Cristo ma non l´Olocausto?
Eppure vi vantate tanto della vostra libertà d´espressione.
Il contagio è purtroppo in atto, e non sarà una conferenza in più o in meno del negazionista di turno a fermare l´epidemia del sospetto. Nutrita dal clima di guerra e dall´identificazione frettolosa, dentro la medesima entità ostile, di Stati Uniti e ebraismo internazionale.
A vent´anni dalle prime sortite dei negazionisti, la demolizione del culto della Shoah si riconferma nucleo cruciale di questa sfida culturale. In effetti vi è qualcosa di eccezionale nella proliferazione di ricerche, libri, film sullo sterminio degli ebrei. Un vero e proprio exploit, a partire dagli anni Settanta. E oggi che abbiamo più chiaro il quadro degli altri genocidi novecenteschi, risalta con evidenza una sorta di sproporzione della memoria. Sia ben chiaro, tale disparità d´attenzione può essere ben spiegata con le dimensioni numeriche e la centralità geografica della Shoah, con gli interrogativi sociologici, religiosi, psicologici che solleva, come esito imprevedibile di una persecuzione secolare.
Ma non tutti hanno voglia di cimentarsi con la complessità del tema. E allora può venir più facile spiegare il boom mediatico dell´Olocausto ebraico sotto forma di complotto: sono loro, bene integrati ai vertici della finanza e dell´editoria globale, gli inventori dell´industria dell´Olocausto, un business vantaggioso per continuare a presentarsi come vittime (ammesso e non concesso che gli ebrei siano mai stati davvero vittime)!
In tale contesto, i negazionisti processati o addirittura incarcerati per le loro idee, non vedono l´ora di annoverarsi fra le vittime contemporanee degli ebrei.
Ricordo bene il disagio provocato in Primo Levi dalla vicenda personale di Robert Faurisson. Dapprima il testimone di Auschwitz aveva reagito con durezza ai rilievi «tecnici» del negazionista.
Com´è possibile che venissero stipate 2.500 persone dentro a camere a gas così piccole?, chiedeva quello. E Levi replicava citando la selezione cui egli stesso fu sottoposto in locali atrocemente sovraffollati. Ma ricordo bene, dicevo, il commento successivo, detto sottovoce nel salotto di corso Re Umberto a Torino: «Non riesco a non pensare a quell´uomo che ha perso il lavoro all´università di Lione a causa delle sue idee, per quanto aberranti. Poveretto, provo compassione per lui».
Forse Primo Levi avvertiva già l´insidia del vittimismo negazionista che oggi si ripresenta come anticonformismo, ben valorizzato da un establishment islamico che ne ha fatto strumento di guerra ideologica. Un establishment islamico capace di messaggi globali, intenzionato a rivolgersi dritto all´anima sofferente dell´Europa. Scommettendo su nuove generazioni infastidite dal senso di colpa storico; sui nazionalismi frustrati che pretendono la riabilitazione delle proprie vittime e rimuovono le sofferenze altrui; riattualizzando l´identificazione novecentesca fra ebrei e potere, fra ebrei e guerra.
L´infamia di questa operazione è pari alla sua capacità di scuotere, seminare dubbi. Ma il dubbio e il senso critico sono i benvenuti quando non pretendano di disconoscere le sofferenze di un popolo sterminato. Certamente viviamo oggi la necessità di desacralizzare l´approccio a una tragedia storica di entità tale da averci indotti a assolutizzarla. Per reagire all´insidia negazionista vanno moltiplicati gli sforzi di contestualizzare: la teoria dell´unicità dell´Olocausto ebraico - in un secolo che ha conosciuto almeno altri quattro genocidi - non potrebbe reggere alla verifica di una storiografia globale. Bisogna sottrarsi alla classifica delle sofferenze. Mettere in relazione l´esperienza vissuta nel cuore dell´Europa con le altre macchine di sterminio dispiegate in altre regioni del pianeta. Perché resta insoluto il mistero di come l´uomo riesca a trascinare tanti suoi simili, persone semplici e gentili, a uccidere in massa i loro vicini di casa. Per poi dimenticarselo o negarlo.
Repubblica 11.5.07
Da Mussolini a Bush. La lezione di Emilio Gentile
Quando la politica diventa una religione
di Simonetta Fiori
Una forma di integralismo che non tollera dissenso
Una versione totalitaria e un'altra democratica
L´inquilino della Casa Bianca accostato al dittatore del fascismo? Il titolo Le religioni della politica da Mussolini a Bush potrebbe far sobbalzare qualcuno, ma l´urto polemico è destinato a stemperarsi nell´ascolto della lectio magistralis che Emilio Gentile terrà oggi alle 18 alla Fiera del Libro di Torino. Uno studioso come Gentile è ben lontano da proporre paragoni azzardati tra personaggi così diversi, tuttavia la sua analisi coglie rischi di contiguità tra fenomeni pur distanti. E questo rischio consiste principalmente nella possibilità che l´attuale presidenza statunitense trasformi la tradizionale "religione civile" americana - quella inaugurata da George Washington e sostenuta per due secoli dai suoi successori - in una nuova e inquietante esperienza di "religione politica" all´americana, una sacralizzazione della politica che non tollera pluralismo né dissenso. Una versione integralista, in sostanza, sintetizzabile nel seguente sillogismo: chi è con Bush, è con l´America; chi è con l´America, è con Dio, dunque chi non è con Bush è contro Dio e incarna il male assoluto. È la nuova Democrazia di Dio alla quale una Gentile dedica un saggio uscito lo scorso anno da Laterza.
Il ragionamento di Gentile si fonda su una categoria interpretativa - "religione della politica" - di cui lo studioso è uno dei più acuti interpreti. La sacralizzazione della politica si verifica ogni volta che un´entità secolare - la nazione, la democrazia, lo Stato, la razza, la classe, il partito, il movimento - è trasformata in un´entità sacra, in oggetto di devozione o culto. Essa può essere declinata sia nella sua versione totalitaria - è il caso del fascismo o del comunismo - sia nella sua versione democratica. Gentile è stato il primo sulla scena internazionale a proporne una sistematizzazione sul piano concettuale e storico, scrivendo libri come Le religioni della politica. Tra democrazie e totalitarismi, tradotti in diverse lingue (Laterza, pagg. 250, euro 9). «In realtà non ho inventato niente», dice Gentile. «Tra i primi a usare il termine di "religione secolare" o "laica" per definire le ideologie totalitarie del Novecento sono state personalità cattoliche come Luigi Sturzo, teologi protestanti come Adolf Keller o grandi intellettuali europei come Raymond Aron. E ancor prima Bertrand Russell negli anni Venti aveva parlato di "religione" a proposito del comunismo sovietico. È stato l´incontro con queste interpretazioni che mi ha indotto ad approfondire la questione, non soltanto in riferimento al fascismo».
Nel "culto del littorio" - dal titolo d´un suo celebre saggio laterziano - Gentile ha rintracciato i tratti tipici di quella religione della politica che trasforma l´ideologia in dogma, attivando un sistema di simbologie, rituali, miti che interpretano e definiscono il significato e il fine dell´esistenza. «Per capire se questo fenomeno sia tipico solo del fascismo o del bolscevismo, o si sia verificato anche nel passato, è stato necessario risalire nei secoli fino a incontrare le prime forme di religione laica nelle grandi rivoluzioni democratiche di fine Settecento in America e in Francia». La religione laica nella sua versione democratica si distingue dall´esito totalitario perché comporta una sacralizzazione della politica nel rispetto delle altre ideologie e del pluralismo. Nella versione illiberale essa definisce il primato assoluto d´un capo o d´un partito nella totale intolleranza verso il dissenso. Elemento comune tra le due versioni è che la sacralizzazione dell´entità secolare avviene in modo indipendente dalle religioni tradizionali o dalle chiese (da qui la differenza dai nuovi fenomeni di teopolitica, ispirati invece da religioni ben definite). « Il dato più rilevante è che l´esperienza della religione della politica negli Stati Uniti è stata la più duratura, dalla fondazione della Repubblica a Bush, pur con declinazioni differenti. Questo è evidente nella simbologia degli Stati Uniti e nei discorsi inaugurali dei presidenti, che sin da Washington hanno fatto riferimento a Dio. Un fenomeno che culmina nel 1954 con il celebre motto In God we trust, che trionfa anche nella moneta americana».
Qual è allora l´elemento di novità portato da Bush? «Prima dell´11 settembre del 2001, anche in America la religione civile appariva in riflusso. Con l´attacco alle Torri Gemelle la sacralizzazione della politica come un vulcano dormiente è tornata improvvisamente e violentemente attiva, dando origine a una stagione tra le più rigogliose con la santificazione dell´America quale nazione eletta. Ma fin qui siamo nel solco tracciato dai padri. L´elemento di novità consiste nel tentativo operato da Bush e dalla destra repubblicana di imprimere una direzione esclusiva e assoluta alle proprie scelte politiche di guerra al Male: chi non è con Bush è il nemico dell´America, dunque complice dei terroristi. È in questo snodo il rischio d´un passaggio dalla tradizionale religione civile americana nel segno del pluralismo a una religione assoluta, che s´identifica con una sola ideologia, un solo partito, un solo capo». Una deriva ineludibile? «No, è la natura stessa della religione civile americana che impedisce l´assolutizzazione della fede politica incarnata in un solo capo. In America molti teologi democratici sostengono che la religione americana si realizza più in Martin Luther King che in Bush. Jim Wallis, uno dei principali esponenti dell´evangelismo protestante liberale, ha scritto che la politica dell´attuale presidente non è certo quella di Dio e che Bush nega gli ideali fondamentali della nazione americana. Il suo libro God's politics è un bestseller, anche questo un segno della vitalità americana».
il manifesto 11.5.07
Giordano e Mussi ripartono da Palme
Le radici. Dibattito sul libro di Aldo Garzia. Spunta il «padre» Berlinguer
di Loris Campetti
Il capitalismo è come una pecora: ogni tanto va tosata ma senza ammazzarla. Al di là dell'ossimoro - o forse è una devianza comunista pensare al capitalismo come a un lupo? - questa frase di Olof Palme aiuta ad aprire un ragionamento sul fallimento del socialismo reale e sulla crisi della socialdemocrazia. E' una semplificazione pensare che il comunismo volesse uccidere la pecora, mentre una sana socialdemocrazia l'avrebbe tenuta sott'occhio, correggendone la rotta con la democrazia e governandone gli squilibri e le dieseguaglianze con il welfare. Ma la metafora aiuta a riflettere chi, nel 2007, non rinuncia a dirsi di sinistra e dopo un paio di decenni almeno di rotture tenta di ricostruire un percorso comune.
La presentazione nella sala della Provincia di Roma del bel libro di Aldo Garzia «Olof Palme/ Vita e assassinio di un socialista europeo» ha offerto a due leader della sinistra italiana «in movimento», Franco Giordano e Fabio Mussi, di cercare in una memoria comune (stessa origine, il Pci) una rotta per doppiare la crisi della sinistra. Mettendo in campo «basi solide e grandi passioni», come suggerisce lo stesso Aldo Garzia la cui formazione è targata manifesto. Negli interventi sono due i fari che illuminano il dibattito: Olof Palme e Enrico Berlinguer, due percosi diversi che spesso si sono incrociati fino ad avvicinarsi sensibilmente dopo la rottura del segretario del Pci con l'Urss («Si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre»). Non è la presentazione di un libro la sede più opportuna per riflettere sui ritardi di quella rottura, su cui Garzia ha forse delle idee non necessariamente convergenti con quelle di Giordano e Mussi. Ma una cosa vuole dirla Garzia: la svolta di Occhetto e la nascita del Pds non sono state segnate da una ricerca nella via socialdemocratica ma dal nuovismo.
Il segretario del Prc Giordano non ha eluso le domande evidenti nel volto dei partecipanti al dibattito: che fare qui e ora, con i Ds che gettano il velo e confluiscono in una «cosa» che con l'esperienza socialdemocratica europea nulla ha a che fare, mentre chi non sta al gioco dell'autoaffondamento è frantumato in orgogliose «identità»? Giordano suggerisce due assi di ricerca comune per avviare una ricostruzione della sinistra, quello pacifista e quello anticapitalistico, dentro un processo politico-culturale che innovi entrambe le tradizioni della sinistra, comunista e socialdemocratica. Da subito alcune battaglie comuni sono possibili e urgenti, a partire dalla tutela e valorizzazione del lavoro e delle pensioni e dalla lotta alla precarietà, per costruire una rappresentanza politica del lavoro, «un soggetto unitario spendibile politicamente, con una partecipazione di massa».
Per Mussi gli intrecci del Pci con la socialdemocrazia vengono da lontano, «l'omicidio di Palme lo vivemmo come un nostro lutto». Intanto, bisogna ricordare che il socialismo europeo «non è stato acqua fresca», è stato welfare innanzitutto. E l'incontro tra Berlinguer e Palme è avvenuto su un terreno forte: la lotta per il disarmo, per fermare la corsa terribile al riarmo. «Oggi quella corsa riprende pericolosamente, 1.100 miliardi di dollari in armamenti, oltre la metà negli Usa», e i pericoli connessi allo scudo spaziale nel cuore dell'Europa. «In questa situazione si rimpiangono leader come Palme e Berlinguer». Mussi rifiuta l'idea che il futuro sia solo al centro e rilancia l'urgenza di un'alleanza a sinistra: il lavoro e le politiche sociali, un tavolo subito per costruire un programma: «un movimento, non un altro partito, che ha già una certa forza che mettiamo a disposizione di un progetto più ampio. Se non ora, quando?».
il manifesto 11.5.07
La discesa dell'arte negli inferi delle pulsioni
di Stefano Chiodi
Alla critica il compito di respingere la lettura dell'opera come sintomo dell'inconscio dell'artista: questo l'assunto di Massimo Recalcati nel suo libro «Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica», uscito da Bruno Mondadori, che si presenterà sabato alle 18.30 alla libreria Bibli di Roma
Stretta fra le imperiose esigenze del mercato e la crisi del suo tradizionale armamentario umanistico, la critica d'arte si è trovata nell'ultimo trentennio a dover fare i conti con la realtà delle esperienze artistiche contemporanee da una posizione doppiamente svantaggiata: da un lato la sua capacità di individuare percorsi originali e letture non ortodosse è stata via via erosa a vantaggio di altre forme di mediazione, in primo luogo quella offerta dalle ubique figure dei curatori, dall'altro la generale perdita di peso dell'interpretazione nell'universo dei media ne ha favorito l'emarginazione culturale, un ritrarsi che soprattutto in Italia ha spesso assunto i tratti della chiusura preventiva. A complicare ulteriormente il quadro interviene poi la sanzione di quanti (come ad esempio Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel loro Mercanti d'aura, Il Mulino 2006) leggono la scena artistica contemporanea in chiave schiettamente convenzionalista, e cioè individuando nel campo sociologico dell'arte ciò che conferisce valore a prodotti di per sé privi di qualsiasi specifica qualità.
Quali alternative è dunque possibile immaginare per una disciplina che finisce non solo per registrare ma per condividere lo smottamento delle categorie estetiche e delle pratiche artistiche più attuali? Ad esempio insistendo sulla necessità di una rifondazione teorica, di un confronto senza remore con il radicale ripensamento dell'immagine offerto dalla cultura della tarda modernità. È quanto si è proposto, tra gli altri, il gruppo riunito intorno alla rivista «October» da un trentennio a questa parte, soprattutto attraverso una ridefinizione intransigente del proprio bagaglio metodologico e in genere delle prospettive filosofiche del discorso sull'arte; o, ancora Georges Didi-Huberman, con le sue ricerche archeologiche e iconologiche, e ora anche Massimo Recalcati, che con il suo recente Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica (Bruno Mondadori 2007, pp. 222, euro 24,00) fornisce sull'argomento uno tra i contributi più interessanti apparsi negli ultimi anni in Italia. Basandosi su una attenta lettura dell'insegnamento di Jacques Lacan, Recalcati ne riprende la riformulazione matura riguardo al rapporto tra psicoanalisi e attività artistica: il problema non sarà più indagare l'opera d'arte assimilandola a un sintomo o a un sogno, ma coglierne invece il valore di pratica simbolica che punta a incontrare il reale, a ritrovarne la flagranza risvegliandoci «dal sonno dell'io». Occorre, insomma, superare una visione dell'opera come «patografia», pensarla non più come sintomo dell'inconscio dell'artista ma come qualcosa di dissimile, qualcosa che resiste a questa identificazione.
Si tratta quindi di interrogare «l'irriducibile presenza» dell'opera, secondo l'espressione di Alberto Burri, che mina alla radice l'idea dell'interpretazione come decodifica di un significato latente nell'immagine, riducibile alla dimensione semantica del linguaggio. Per Recalcati, in altre parole, la critica estetica deve oggi recuperare l'idea lacaniana di una psicoanalisi implicata all'arte, e cioè a una pratica che individui nell'eccedente, nel «miracolo» della forma, il suo terreno di indagine più autentico.
È proprio questa, del resto, una delle poste più rilevanti del libro: resistere, cioè, a quello che l'autore individua come il rischio maggiore per l'arte contemporanea, vale a dire precisamente la rinuncia alla forma a favore del culto dell'abiezione, della discesa agli inferi pulsionali. Il riferimento è tanto a quelle esperienze che fanno dello choc il loro elemento portante, alla poetica post human di Paul McCarthy, Robert Gober, Orlan o Cindy Sherman, quanto alla rilettura compiuta da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois della nozione, derivata da Bataille, di informe, trasformata in dispositivo antimetafisico attraverso cui rileggere la vicenda artistica del Novecento. L'apologia dell'informe tende tuttavia a svalutare, ad azzerare secondo Recalcati quei processi di sublimazione che restano invece per Freud e Lacan il modo essenziale per offrire alle pulsioni «un destino simbolicamente possibile»: l'irruzione del reale dissolve la struttura formale delle immagini, annulla la «velatura» che ne garantisce il potenziale di sublimazione.
Se questa lettura risulta assai stimolante nei confronti di artisti come Morandi, Burri, Tàpies, Kline o Pollock, nei quali resta essenziale la dialettica con la tradizione dell'immagine formata, con la materia pittorica, con la gestualità e lo strato simbolico dei linguaggi, meno incisiva appare nei confronti delle esperienze contemporanee, troppo schiacciate sull'opposizione tra anoressia e bulimia formale, tra riduzione a zero della visione e ostentazione dell'eccesso e dell'osceno. Non va dimenticato, infatti, che anche quando la pittura perde il suo primato e l'aspetto concettuale e speculativo diviene uno dei motori dell'immagine, anche quando sembra che l'opera lasci irrompere il reale senza valersi di mediazioni simboliche, gli artisti agiscono nella consapevolezza di iscriversi, comunque, in quella cornice simbolica per antonomasia che è lo spazio dell'arte. Come ha mostrato bene Hal Foster, un critico profondamente influenzato dalla lezione di Lacan, il «ritorno del reale» nell'arte contemporanea prende anche le forme di una esperienza traumatica, che segna il passaggio dalla contemplazione al contatto, che mette in gioco lo spettatore quanto l'artista e si presenta in modi formali ibridi, postumi, perversi. Warhol, dunque, con le sue icone moltiplicate che insieme schermano e indicano il trauma dell'incontro col reale; o Alighiero Boetti, il cui paradossale «niente da vedere, niente da nascondere» appare come il manifesto di una vertiginosa concentrazione dello sguardo sul punto di frattura del campo simbolico; o ancora Jeff Wall, con la sua capacità insieme di colmare e svuotare l'atto di vedere. C'è poi un altro piano, cui Recalcati accenna soltanto, ma che diventa inevitabilmente lo sfondo di ogni discorso sull'odierna condizione dell'arte nella società globalizzata, e cioè in un sistema che ha convertito ogni immagine, ogni tecnica, ogni forma alla misura sommamente alienante dell'immaginario mediatizzato.
Questo passaggio ha inevitabilmente eroso l'idea stessa di qualità estetica, le pietre di paragone dell'autonomia e del disinteresse; ciò che dava unità e sostanza alla missione cosmico-storica dell'artista moderno - la ricerca di una soggettività incondizionata, l'esigenza utopica ed etica, lo stato di veglia - è oggi esposto, banalizzato, consumato e rimpiazzato dal presente immemoriale delle icone pubblicitarie. È soprattutto su questo sfondo che va misurata oggi, con consapevolezza critica e politica, l'inammissibile pretesa dell'arte di misurarsi con il reale.
Avvenire, 10 Maggio 2007
Tragico e ridicolo condivisi: con coppia di tre!
di Rosso Malpelo (alias Gianni Gennari)
"Liberazione" e "Riformista" paiono lontani e forse lo sono, salvo una follia comune. La prima, l'altro ieri (p. 1) piange la sconfitta francese con titolone: "La destra moderna e populista vince. La sinistra ha perso la strada". Solo roba francese? Sì. Infatti loro vanno avanti. Strada sicura, con strillo lì sotto: "12 maggio del Coraggio laico. Rifondazione coi radicali". Lì accanto, per fare chiarezza, c'è anche una preghiera tra divino ed umano. A p. 3 poi, dalla Fiera del Libro di Torino, un reportage su 5 colonne informa sul programma, con "notizia bomba": "venerdì, a due giorni dal Family Day", ci sarà anche un libro del cardinale Ruini! Un sussulto: "coincidenza a dir poco preoccupante". Una tragedia. Comica però, perché da venerdì a sabato corre un solo giorno. Già! Anticlericali di oggi: al solo sentir parlare di Chiesa perdono il filo. E qui fanno coppia col "Riformista". Stesso giorno, in prima pagina, ancora sul deludente voto francese, e lì sotto il ricordo che "nel '48 il Papa non rispettò i comunisti", ma "li scomunicò"! Persa la memoria di ciò che successe in quei mesi ed anni in mezza Europa, con il plauso del Pci di allora? E infatti la scomunica è del '49. È il meno. Più in tema a p. 7 "Scomunicateci tutti": ben 5 lettere di sette lettori fuori dai gangheri per "le ingerenze della Chiesa". Comprensibile pur se opinabile, ma con una curiosità: la prima lettera, inviata da "una coppia di fatto", ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista", redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada".
il Riformista 11.5.07
Lupus in pagina
Gianni Gennari, autorevolissimo collaboratore dell' "Avvenire", si è occupato ieri delle richieste di scomunica che da giorni stanno intasando la nostra casella di posta. E di questo lo ringraziamo. A calamitare l'attenzione di Rosso Malpelo è stata soprattutto una lettera che abbiamo pubblicato martedì 9. Ci è stata inviata da Annio G. Stasi, Mary Tortolini e Viola Stasi. Gennari l'ha archiviata alla voce - parole sue - «curiosità». «Ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista" - ha annotato - redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada"». Avremmo tanto voluto essere noi della redazione a soddisfare la curiosità di Rosso Malpelo. E lo avremmo fatto, se non ci avessero già pensato gli autori della lettera. «Siamo una coppia di fatto con bambina, siamo indignati dalle continue intromissioni della chiesa nella nostra vita privata», scrivevano martedì. Quanto fa una coppia di fatto (a rigor di logica, Annio G. Stasi e Mary Tortolini) più bambina (Viola Stasi)? Questo glielo diciamo noi, a Gennari: tre.
Liberazione 11.5.07
Quella certa "sinistra" che insegue la destra e il totem della sicurezza
La legalità invocata come una caccia allo straniero porta al razzismo
di Cesare Salvi*
La democrazia non garantisce uguaglianza di condizioni: garantisce solo uguaglianza di opportunità. Ma non per tutti, ovviamente. Perché quelle opportunità quasi sempre sono solo appannaggio di pochi. Spesso vengono considerate dei piccoli "tesoretti" da tenere ben stretti per evitare che vadano a finire - non sia mai - nelle mani di quanti vivono ai margini della società.
Credo sia utile, dunque, oltre che interessante, approfondire il dibattito sul tema della sicurezza nelle città intrapreso dopo che un elettore del centrosinistra, con una lettera inviata a Corrado Augias, dalle colonne di Repubblica lanciava il suo s.o.s perché rischiava (e credo che rischi tuttora) di trasformarsi, ahinoi, nel primo esempio di "razzista-progressista-democratico". L'uomo, il giorno dopo, è stato subito rassicurato dal sindaco di Roma Walter Veltroni, che pur tra mille rivoli sulla tolleranza e la solidarietà della città eterna, ha in definitiva ammesso quali rischi potremmo correre se, "noi compagni", non mettiamo subito mano a questo tema che, fino a ieri, sembrava essere di proprietà della destra e della sua propaganda. Che bisogno aveva Veltroni di citare "gli immigrati" che spacciano droga o il borseggio di una vecchietta ad opera di un rom? Perché se lo spaccio l'avesse compiuto un romano e il borseggio un milanese, sarebbe stato diverso? E la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono forse di origine cingalese o peruviana? E se fosse stato un polacco adulto ad ammazzare una bambina napoletana di cinque anni, quante aperture di telegiornali e quante paginate di quotidiani "politically correct" avremmo ascoltato e letto?
Bene ha fatto il direttore di Liberazione a richiamare l'attenzione sui rischi di una deriva sarkozyana. Perché è proprio quando una causa sembra impopolare che scopriamo come anche a una certa "sinistra" - non più solo la destra e la Lega, dunque - ama togliersi la maschera e mostrare i muscoli, sbandierando il totem della sicurezza, per poi scrivere ricette che risulterebbero ineccepibili persino per Le Pen. Come, ad esempio, trasferire fuori dal grande raccordo della capitale tutti i rom e gli zingari.
È una storia già vista. Così, nelle lontane periferie, magari vicino una discarica, in una "terra di mezzo", come tanti piccoli Hobbit (quei "mezzi uomini" di tolkieniana memoria) potremo finalmente parcheggiare gli esclusi, gli ultimi.
In fin dei conti la multiculturalità e le "politiche dell'inclusione", come ama dire qualcuno, sono solo un espediente per i buoni propositi elettorali e propagandistici. Abbiamo visto l'anno scorso in Francia, con la rivolta nelle banlieues, gli effetti della politica della "tolleranza zero" dell'ex ministro dell'Interno Sarkozy, che tra qualche giorno occuperà ufficialmente la poltrona dell'Eliseo. Credo che sia questa la lezione che deve essere raccolta da chi, anche qui in Italia, oggi ama lanciare proclami apparentemente banali ma in realtà pericolosi, all'insegna di altrettanto facili slogan come quello per il quale la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Mentre c'è una politica per la sicurezza che appartiene alla destra e un'altra che dovrebbe appartenere alla sinistra. E quest'ultima passa, inevitabilmente, dai diritti che riusciamo a riconoscere a tutti, indistintamente.
Non so se il termine "fascismo", usato dal direttore Sansonetti, sia quello giusto; dico però che la legalità non può essere sempre e solo invocata come una sorta di caccia allo straniero, perché è proprio quella l'anticamera che porta al razzismo. Magari a un razzismo più subdolo, culturalmente differenzialista, ma comunque al razzismo che matura nel terreno dell'intolleranza e si manifesta nella pianta dell'odio e della violenza urbana.
Certo che la legalità di sinistra non si esaurisce nella politica dell'inclusione. Legalità di sinistra vuol dire anche tolleranza zero nei cantieri edilizi, dove a Roma migliaia di rumeni fanno i muratori in nero per quattro soldi, rischiando la vita tutti i giorni. Legalità di sinistra vuol dire un indulto concepito diversamente da quello imposto da Forza Italia, che ha escluso gli infortuni sul lavoro e si è allargato fino a tre anni per comprendere i corrotti, con gli effetti negativi sull'opinione pubblica che ben conosciamo. Legalità di sinistra vuol dire certezza della pena: abolire l'ergastolo, evitare leggi-manifesto che prevedono pene elevatissime al minimo allarme dell'opinione pubblica, ma anche tempi e modalità di applicazione della pena certi e sicuri: sei mesi di carcere, se scontati davvero e poco tempo dopo il crimine, sono una pena molto più seria che una condanna a otto anni mai scontata.
Quello che è successo in Francia deve essere per noi, uomini e donne di sinistra, un allarme, un monito che dovrebbe farci guardare in faccia la vera realtà anziché inseguire un certo malsano realismo. Chi è sceso per le strade di Parigi, dando sfogo alla rabbia che gli covava dentro, erano prevalentemente giovani con un'età compresa tra i 16 e i 25 anni. Abitano quelle periferie non per scelta, ma perché costretti da uno status sociale, da una dissennata politica che ha abbandonato ogni logica di integrazione, e che li ha voluti ghettizzare magari per poterli controllare meglio, senza che mai nessuno ascoltasse le loro ragioni, le loro aspettative, le loro paure, il loro malessere, le loro difficoltà a costruirsi un destino né migliore né peggiore ma uguale a quello degli altri loro coetanei che hanno la fortuna di appartenere alla razza "eletta" francese, quelli che abitano in centro, lontano dalle banlieues, e che possono comprare una baguette tre volte al giorno. Come fanno tutti i "veri" francesi. Non so se il sonno della ragione genera il fascismo. Di sicuro genera mostri. E noi, per quanto ci riguarda, preferiamo coltivare l'insonnia.
*senatore Sinistra Democratica
Liberazione 11.5.07
Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?
di Guido Liguori
L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso
I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia ( www.gramscitalia.it ) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.
Liberazione 11.5.07
Il ruolo fondamentale dell'informazione nella lotta contro la segregazione
Dietro l'alibi della follia
Riannodare i fili a trent'anni dalla legge Basaglia
di Giada Valdannini
La sala era gremita fino all'inverosimile. Di gente ce n'era seduta persino sulle scale. A quasi trent'anni dalla legge Basaglia, torna - urgente - il bisogno di «riannodare i fili di quella straordinaria congiuntura che portò gli operatori dell'informazione a misurarsi con il problema della salute mentale, dei diritti dei malati e del corretto funzionamento dei servizi psichiatrici». Con questo approccio, martedì sera, Psichiatria Democratica ha promosso un incontro al Teatro romano dei Dioscuri per ragionare su quanto l'informazione abbia concorso alla formulazione della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi in tutta Italia. Per farlo si è avvalsa del prezioso contributo di un film-inchiesta della Rai dal titolo "Dietro l'alibi della follia". Un lavoro prodotto nel 1976 e firmato da Piero Dorfles, Raffaele Siniscalchi e Renato Parascandalo. Proprio lui - oggi assistente del direttore generale della Rai - incalza sul ruolo fondamentale dell'informazione democratica nella lotta contro la segregazione dei malati di mente. «Allora, giornalisti, registi cinematografici e autori radiotelevisivi documentarono la violenza delle "istituzioni totali" dando la parola ai degenti degli ospedali psichiatrici. Inchieste e documentari che appartengono alla storia del nostro cinema ma, ancor più, alla storia del nostro paese». Sono tipi di lavori che - secondo Parascandalo - «latitano da troppo tempo dalla nostra televisione, sempre pronta a dare spazio a programmi d'intrattenimento e tribune politiche che non restituiscono mai la parola ai protagonisti delle vicende narrate. Noi, per lavorare al film, abbiamo passato mesi nel manicomio di Arezzo pur di documentare nel modo più pertinenti possibile quello che era il grande processo di trasformazione in atto». Se lo ricorda bene anche Luigi Attenasio, presidente Lazio di Psichiatria Democratica, che racconta come lui stesso, una degente e un'infermiera fossero stati coinvolti nel montaggio di alcuni lavori sviluppati in quel periodo. Non erano, quindi, solo protagonisti dei filmati ma piuttosto coautori del messaggio e del taglio dati a questi lavori d'indagine. E non è tutto. Durante la preparazione di "Dietro l'alibi della follia", furono chiamati proprio i degenti a discutere la scaletta e le riprese del documentario. «Ecco perché - dice Attenasio - oggi è tanto più importante ripartire da quell'aproccio. Perché, pur avendo superato i manicomi, quel che resta è lo stigma verso il disagio mentale. Per i media fa più notizia un fatto di sangue in cui sia implicata una persona con disturbi psichici piuttosto che l'apertura di una casa famiglia. Dovrebbe essere il contrario. Ma l'unico modo per ribaltare questo paradigma è investire sull'informazione, come si faceva un tempo». Dello stesso avviso, Giusy Gabriele (direttore della Asl Roma D) che ci tiene a precisare quanto tutto passi attraverso la comunicazione: «Oggi tra censura e reality si tenta di ammansire le coscienza ma, fortunatamente, esiste ancora quel giornalismo che fa della denuncia e della partecipazione democratica i propri tratti salienti. E' su di esso che bisogna puntare anche per ciò che riguarda, oggi, il disagio psichico. In fondo la salute mentale non è nient'altro che lo specchio dei costumi della nostra società». Ma la follia, talvolta, è stata anche emblema di creatività. Come ha sottolineato Danielle Mazzonis (sottosegretaria Ministero Beni e Attività Culturali) che ci tiene a ribadire che i cosiddetti matti non sono matti. «Sono, molto spesso, persone con enormi problemi comunicativi col resto del mondo. Persone che, talvolta, con l'aiuto di psichiatri e operatori, sono riuscite a fare dell'arte uno strumento per raccontarsi al di fuori di sé. Per uscire dalla propria condizione di isolamento». Citati, tra le inchieste e i documentari dello stesso periodo, anche Fortezze vuote di Gianni Serra, I giardini di Abele di Sergio Zavoli e Matti da slegare di Silvano Agosti.
Il potere diverso delle donne - Abstract
Annelore Homberg
Il potere. La parola evoca l'immagine di una grossa montagna che le donne hanno cominciato a scalare faticosamente e le vette del potere economico e di quello politico sembrano le più difficili da raggiungere
Come psichiatra, tuttavia, incontro e studio un'altra forma di potere. Un potere "privato" sugli affetti che viene esercitato dal sesso femminile. Questo potere sull'identità profonda dell'altro si svolge nella dialettica tra uomo e donna, ma solo se l'uomo in questione non è completamente refrattario alla realtà femminile, quindi non è un potere certo. Nella stanza dei bambini, viceversa, questo tipo di potere regna pressoché incontrastato.
Durante i millenni del patriarcato occidentale che ha sempre denigrato, sfruttato e coartato le donne, questo potere femminile sugli affetti ha finito per svilupparsi in un modo violento. Nel senso che le donne che lo esercitavano, costrette ad una realtà interna di rancore, angoscia, vuoto e frammentazione, hanno realizzato una triste parità con gli uomini. Una parità nella distruttività anche se in questo caso venivano aggredite la fantasia e l'affettività dell'altro e non la sua realtà materiale.
Così, il contropotere del cosiddetto matriarcato in casa non è stato un rifiuto del patriarcato bensì, al contrario, funzionale al mantenimento dello status quo in quanto produttore di figli castrati nella loro umanità e di figlie identificate con la rassegnazione materna.
Tuttavia, pensiamo che l'attitudine millenaria delle donne a sopravvivere gestendo gli affetti degli altri, a muoversi in dimensioni irrazionali, implichi comunque un rapporto intuitivo con il reale "nucleo dell'essere", con un'identità umana che non coincide esattamente con la razionalità.
E' affascinante, in effetti, ricostruire quanto la ricerca sulla mente non cosciente in Europa sia una storie di donne. Donne che sfidavano il loro medico a seguirle sul terreno scivoloso delle dinamiche inconsce.
La sfida attuale potrebbe essere quella di verificare se il rapporto intuitivo delle donne con l'identità preverbale dell'essere umano possa liberarsi dall'intento di rivalsa, e distruzione.
Se ciò riuscisse potrebbero aprirsi nuovi scenari: di donne che esercitano il potere decisionale spostando la prospettiva. Dalla realizzazione di un'identità sociale che è basata su competitività ed esclusione ‑ "la poltrona è mia o è tua" ‑ alla realizzazione di un'identità interna che per essere tale, ha bisogno che si realizzi anche l'altro: vita mea vita tua.