Intolleranza. La società dell’odio
La psicoanalisi del perdono contro l’odio
di Julia Kristeva
Lectio magistralis alla Fiera del Libro
Oggi (ore 12, Sala rossa) alla Fiera del Libro di Torino, Julia Kristeva tiene la «lectio magistralis» Il bisogno di credere. Il punto di vista laico di una grande protagonista del nostro presente, di cui in questa pagina anticipiamo ampi stralci della prima parte. Kristeva, nata in Bulgaria nel 1941, ma di nazionalità francese, è studiosa di linguistica, semiologia, psicoanalisi, letteratura del XIX secolo. È una delle più note psicoanaliste a livello internazionale. I suoi ultimi libri, come la trilogia sul Genio femminile, sono stati pubblicati in Italia dall’editore Donzelli.
CONFLITTI Come gestire e superare violenza e contrapposizioni etniche in un mondo che le esalta? Essenziale è una nuova etica della compassione psicanalitica, da oppore alla «reattività» identitaria
Il rifugio nelle identità chiuse è un modo di contrastare la depressione
La politica non può che essere un impegno finalizzato a scopi singoli
L’incontro con l’altro somiglia all’elaborazione del lutto nel «transfert»
Noi diciamo «sono francese, italiano, cattolico, ebreo», «sono un artista, un operaio, un uomo, una donna, un bambino, un anziano...», ricorrendo in tal modo alla polifonia del verbo essere. Non preoccupatevi: non mi addentrerò né in un’analisi linguistica, né nel dibattito filosofico che dura dai presocratici passando per Platone fino a Heidegger e i suoi commentatori...
No, il mio personale nomadismo e la mia riflessione sull’esperienza degli stranieri, dell’estraneità, mi ha convinta che si possa «essere» senza «esserci». Vi propongo di riflettere su questo: essere non significa «esserci» è semmai e soprattutto una posizione filosofica che si rifà al pensiero di Hannah Arendt, una «donna che viene da lontano» (come si definiva citando una poesia di Schiller), che ha meditato, forse meglio di chiunque altro, sulle origini del totalitarismo.
Criticando l’assimilazione degli ebrei in Francia ma anche l’insieme del sistema clanico (del clan, ndr) della società francese, questa politologa che era anche una lettrice di Proust ricorda le ironiche affermazioni dello scrittore affermando in sostanza che i francesi hanno trasformato la massima dell’Amleto di William Shakespeare «essere o non essere, questo è il problema» in «essere o non esserci». Voi sapete che, in Le origini del totalitarismo, Arendt prende assai sul serio tale affermazione e analizza la rete di «ambienti» di influenza separati tra loro (famiglie, società più o meno segrete, clan religiosi, politici e sessuali, salotti, ecc.) che, in effetti, costituisce la società francese sotto le sue ambizioni di universalismo e uguaglianza. Affronta, strada facendo, gli effetti perversi dell’assimilazione denunciata da Bernard Lazare: liberando gli ebrei, la Repubblica li affranca dalla religione che conferisce loro il proprio essere, ma li riduce in definitiva a dei «paria» in una nazione suddivisa in compartimenti che, mentre pretende far condividere loro i suoi valori universali, di fatto li rinchiude in particolarismi etnici, psicologici, sociali - quelli in cui i nazisti vedranno dei «vizi» da sterminare...
Io cerco di portare avanti l’interrogativo sugli effetti della chiusura clanica e comunitaria che si riscontrano nel cuore dei conflitti moderni: le appartenenze, le identità comunitarie sono soltanto subite o, anche, compiacentemente assunte? Per quale vantaggio psichico e politico? Quali sono le molle incoscienti del comunitarismo e, in senso più ampio, dell’appartenenza?
Il nostro dibattito mi offre l’occasione di rendere omaggio a Hannah Arendt. Ho da poco ricevuto, per il centesimo anniversario della sua nascita, il Premio Hannah Arendt per il pensiero politico, istituito dalla Fondation Heinrich Böll e conferitomi in Germania dal Land di Brema. La recente consegna del premio (il 16 dicembre 2006) mi ha spinta ad approfondire la mia riflessione sul rapporto di appartenenza (...). All'orecchio della psicanalista quale io sono, l’appartenenza appare come un antidepressivo. Noi tutti abbiamo bisogno di crearci luoghi e legami: famiglie, meta-famiglie, trans-famiglie che ci sostengano lungo la nostra vita. Si comincia con i legami di parentela, poi viene la scuola, l’ambiente di lavoro, sportivo, una squadra, un circolo politico, ideologico, ecc. Legami indispensabili, che io considero luoghi di passaggio. Infatti, affinché l’appartenenza non degeneri in difesa maniacale contro la depressione - che assume allora l’aspetto ideologico di un dogmatismo -, dovrebbe poter essere pensata, vale a dire messa in discussione, e in questo senso essere soltanto provvisoria. (...)
Il 100° anniversario della nascita di Hannah Arendt coincide con il 150° anniversario della nascita di Freud. La giuria desiderava mostrare eventuali convergenze tra i due pensatori all’apparenza così diversi, se non incompatibili: Arendt diffidava della psicanalisi, direi persino che la detestava senza conoscerla realmente. Eppure! Per la sopravvissuta alla Shoah, il centro della politica non è nient’altro che la possibilità di mostrare la singolarità umana nella pluralità dei legami. Ebbene, è stato proprio Freud ad avviare una ricerca sulla singolarità irriducibile, propria della vita psichica di ogni individuo, oltre la psichiatria e le neuroscienze che generalizzano: l’esperienza psicanalitica del transfert e del contro-transfert altro non è che la ricostituzione all’infinito dei legami, in particolare amorosi, da fare e disfare con gli altri...
Mentre mi trovavo a New York per tenere i miei corsi al dipartimento di Filosofia della New School, durante le ore libere preparavo il testo del discorso per il Premio Arendt, guardando la televisione. Mi sono così imbattuta in un programma sulla tragedia delle donne afgane che, quando subiscono violenze coniugali, o ogni tipo di insopportabile pressione, non trovano altra via di uscita che immolarsi dandosi fuoco. Si tratta di un ritorno a una tradizione religiosa: in India, le vedove si immolano con il fuoco per raggiungere gli sposi defunti. Ma per le afgane murate dentro i loro burka e represse, quel rito è diventato il solo e unico mezzo di protesta, in una forma arcaica e barbara ma radicale, è il meno che si possa dire. Non soltanto si assiste a un moltiplicarsi di autodafé di donne perché, in società sempre più dominate dai talebani che si credeva aver sconfitto, non esistono risposte politiche per le libertà, ma, in mancanza di dottori, antibiotici e calmanti, non è nemmeno possibile curarle! Ho dunque deciso di devolvere l’ammontare del mio premio alle donne afgane. Ho cercato una Ong affidabile che facesse da tramite. Negli Stati Uniti ne esistono molte, in particolare femministe. Alla fine, ho scelto Humani-terra, con sede a Marsiglia, dunque un’associazione francese, che cura le grandi ustionate ma inizia anche un lavoro di inserimento psicologico e sociale con le handicappate che sopravvivono alle ustioni.
Ecco... tutto questo per dirvi che «l’azione politica» che Arendt collocava al di sopra del «lavoro» e dell’«opera», si esaurisce in se stessa e non ha altra giustificazione che quella ultima, ai miei occhi, di dar luogo a singole iniziative. Non ad «appartenenze» e militanze che ne rafforzano i confini. Ma a specifiche maniere di essere, a bio-grafie: vale a dire di vite che possono essere raccontate, condivise e che, per questo, debanalizzano il gruppo umano, curano il legame sociale, lo trasformano in spazio di creatività per ciascuno. È evidente che, se si è una donna che porta il velo, non si hanno molte chance di «apparire» alla «pluralità del mondo»: come si può allora avere qualsiasi libertà, e ancor meno la libertà di pensare?
L’orrore delle donne afgane è una situazione limite, lo ammetto. Tuttavia, anche le nostre democrazie cosiddette progredite sono esposte al rischio di portare all’estremo l’incontro del singolare con il singolare, la rivelazione che sta alla base della libertà: lo svelarsi dello specifico, dell’incommensurabile, che rappresenta la nobiltà della politica.(...)
Lo ripeto, la vulnerabilità mi sembra essere al centro dell’essere parlante come crocevia biologia/senso, e ne faccio pertanto una questione centrale e politica. Non rientra nell’ordine della carità. Ho avuto l’onore di essere invitata a parlare della sofferenza a Notre Dame de Paris, nella serie di conferenze della Quaresima aperte ai laici e ai non credenti. In quella sede ho presentato, tra le altre cose, la mia concezione dell’handicap, che non è basata sulla compassione. È vero che condividere la sofferenza di una persona handicappata richiede un’empatia che non esito a definire amore: nel senso del transfert e del contro-transfert che hanno luogo in una cura analitica. Se il rapporto di vicinanza con una persona handicappata non giunge fino a quel punto - ho potuto constatarlo nel mio lavoro sia con le persone handicappate che con i cosiddetti «aiutanti» -, ebbene l’accompagnamento si limita a una «medicazione», cosa certo importante, ma che non ottiene quegli effetti di mutamento e sopravvivenza che sono resi possibili da un’identificazione tra curante e curato: identificazione spesso infraverbale, sensoriale, condivisione di affetti e passioni, essa stessa analizzata e così orientata verso un’azione per i diritti e i doveri politici.
La compassione, precisata come transfert/contro-transfert, è orientata verso la riconoscenza politica. Si tratta, capite bene, di una visione radicalmente diversa da quella che ci è trasmessa dalla tradizione biblica ed evangelica, che pure ha aperto la strada a un’assunzione di carità senza precedenti in altre civiltà. Ma che considera la persona handicappata, allo stesso titolo che i «poveri», come qualcuno affetto da «mancanza» di qualcosa, benché, pur manchevole, quel «povero» meriti di vivere degnamente. Bisogna riconoscere che è già qualcosa di enorme... rispetto all’eugenetica ad esempio, che ancora oggi fa capolino dietro la maschera del progresso scientifico.
La visione che sostengo, che trae ispirazione da ciò e al tempo stesso se ne allontana, si riallaccia a Diderot, il quale, deista, è diventato laico dopo l’incontro con Saunderson: con lui il filosofo dei Lumi ha scoperto una disfunzione nell’ordine divino dell’armonia prestabilita e dell’eccellenza dell’uomo creato da Dio a suo modello. Oggi, ci battiamo da soggetti politici per dei diritti, e le persone handicappate nelle loro associazioni hanno ben capito tutto ciò. Talvolta in maniera persino eccessiva a mio avviso, poiché non tengono conto dello sguardo degli altri, le persone autosufficienti, che non sono pronte - dal punto di vista affettivo ed economico - a mettere in pratica questa filosofia umanista, pur aderendovi per la maggior parte... da lontano. Resta ancora da fare un lungo lavoro di informazione, di diffusione di conoscenza, ma anche di «lavoro su di sé»: da una parte e dall’altra, tra due universi impietosi quali sono i «validi» e gli «invalidi».
Sentendomi parlare in questi termini, di recente un giornalista mi ha posto la seguente domanda: «È forse diventata cristiana?». Non sono «diventata cristiana» accompagnando le persone portatrici di handicap, e neppure scrivendo un libro sull’odio e il perdono (La haine et le pardon, Fayard, 2005). In quest’ultimo libro, sostengo che il perdono è un atto simbolico e reale indispensabile per la costituzione di una vita psichica; è un privilegio della cultura europea averlo messo in evidenza facendone un fatto culturale. Sconosciuto ai greci, appena accennato tra i romani nel principio di risparmiare le vittime (parcere subjectis), elaborato attraverso il kippur ebraico nella Bibbia, in realtà è stato Gesù a imporlo, correggendo in maniera effettivamente molto politica la concezione degli scribi e dei farisei. Da allora in poi, non soltanto Dio non è l’unico a perdonare, ma è perché in primo luogo gli uomini sono capaci di perdonare che Dio, in definitiva, perdona.
Arendt s’impossessa di questo fatto religioso per decifrarvi la capacità degli esseri umani di cambiare il corso del tempo soggettivo: perdonando, attraverso il mio perdono, non cancello il male, dal momento che il perdono si rivolge alla persona che lo chiede, non ai fatti incriminati. E attraverso il mio perdono io consento a questa persona di rifarsi: non di fermarsi, ancor meno di finire e/o morire (fisicamente o psichicamente, per via della condanna), ma di ricominciare su nuove basi, su nuovi legami e valori.
Quale può essere la versione moderna del perdono, in un mondo senza Dio? Era questa la mia domanda, e la mia risposta è: l’interpretazione, e più nello specifico l’interpretazione psicanalitica. L’atto psicanalitico solleva una domanda a partire dal malessere e da ogni specie di male.
Cerca il significato - psichico, sessuale, intersoggettivo - dell’insensato. Parlando o tacendo, decifrando o attraverso il silenzio, e persino se conduce al nonsenso o al non-sapere, resta nell’apertura, nel chiarimento. È un prodigioso e imprescindibile contropotere con cui contrastare la pulsione di morte.
Lo scrivo, per rassicurarvi e distinguermi dall’uso religioso del termine di cui siamo tuttavia eredi e debitori: un per-dono. Un dono di senso che si riassorbe nel dono del transfert/contro-transfert, e abbozza la possibilità di ri-fare il proprio spazio psichico, i propri legami, la propria vita.
Traduzione di Alessia Piovanello
l’Unità 12.5.07
Bertinotti: «È la crisi sociale il nemico della famiglia»
Il presidente della Camera parla di contrapposizione artificiosa. Ed è allarmato per le pensioni
di Natalia Lombardo
IDEOLOGIA Una manifestazione in difesa della famiglia tutta ideologica, lo spettacolo dei ministri che si dividono in due piazze: tutto questo
è «fuorviante rispetto alla vera agenda politica», secondo Fausto Bertinotti. Perché non sono le «altre forme di convivenza» o i Dico a insidiare la famiglia, ma è la crisi sociale, sono i redditi bassi e il precariato, «quel dire faccio fatica ad arrivare a fine mese». Parlando da Cairo, ultima tappa del suo tour in Medio Oriente, il presidente della Camera misura la distanza dalle polemiche nella maggioranza che vede distolta dai problemi reali. E tra San Giovanni traboccante di gente e il drappello laico a Piazza Navona, l'unica piazza alla quale si deve guardare per l'ex segretario di Rifondazione «è quella del Primo Maggio a Torino: una piazza unitaria che chiedeva di soddisfare bisogni minimi». Bisogni che il governo rischia di non ascoltare, è la critica implicita che fa Bertinotti, anche alla maggioranza. Inutile perdere tempo in polemiche.
Lui fa notare che ha un record familiare, «sono sposato da quarant'anni, ho figli, nipoti… secondo la definizione della Costituzione»; ma ricorda il compromesso (faticoso) raggiunto per mettere nero su bianco sul Programma dell'Unione l'impegno sulle unioni di fatto, e che quindi va rispettato senza farsi condizionare dalla condanna di Benedetto XVI: non proprio un'invasione di campo, ma «una posizione non convincente» che la «politica, nella sua autonomia, dovrebbe considerare non incidente nel processo legislativo». Come dire: si vada avanti in Parlamento, speranzoso che prima o poi i Dico arriveranno anche alla Camera. Da presidente si compiace invece, della tabella di marcia (da lui calendarizzata) per la legge sul conflitto d'interessi da martedì in aula a Montecitorio: un tema cruciale su cui promette tempi ampi di discussione.
Sui fatti Bertinotti ha le idee chiare. L'allungamento dell'età pensionabile va differenziato per i lavoratori manuali: «Chi fa un lavoro creativo può anche voler continuare a lavorare. Ma per chi fa un lavoro logorante l'andare in pensione è una liberazione. E se dici di aspettare a chi ci andrà tra un mese… beh, ti mangia vivo». Ma le contrapposizioni tra governo e sindacato sono «pericolose: non si può dire che dobbiamo innalzare le pensioni minime e allo stesso tempo che con i coefficienti si deve ridurre il rendimento delle pensioni». Non dice nulla invece sulla bufera Rai dopo la sfiducia del ministro Padoa Schioppa al consigliere Petroni (ma sull'ipostesi che si rinnovi tutto il Cda, come vogliono i piccoli partiti nell'Unione, scuote la testa). Però denuncia ancora «la crisi profondissima della tv pubblica, per l'omologazione dei contenuti e dei linguaggi con la tv commerciale». E al di à dei problemi di gestione Bertinotti sulle nomine, dai consiglieri ai direttori di rete, propone un altro criterio: non quello spartitorio degli "organigrammi", né soltanto quello di merito: «non basta mettere uno bravo, deve avere un progetto sul servizio pubblico», la cui mancanza ha pesato sulla cultura del Paese.
Oggi il presidente della Camera incontra Mubarak, presidente egiziano: il tema è sempre l'impegno per risolvere il conflitto mediorientale. Piu' difficile parlare di diritti umani violati: «l'Europa dovrebbe essere più convincente», conclude.
Corriere della Sera 12.5.07
Liberazione: famiglia assassina Bertinotti irritato, il Prc diviso
ROMA — "Famiglia assassina": uno dei titoli in prima pagina su Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, diceva così ieri mattina. E poi: "Come è possibile festeggiarla? È lì che si afferma il potere maschile". Titolo forte, ma «in redazione non abbiamo avuto dubbi», testimonia il caporedattore Antonella Marrone. L'articolo è di Angela Azzaro, vi si afferma che "in famiglia che avvengono il 90 per cento delle violenze che mutilano, uccidono, umiliano le donne". «Queste provocazioni vengono spontanee — dice l'editorialista Rina Gagliardi — quando vedi celebrare la famiglia in termini così strumentali, ipocriti, poco limpidi. Nel giorno in cui vanno in piazza per la famiglia cattolici divorziati, politici dediti alla poligamia...». "Famiglia assassina", il titolo voleva provocare e fa discutere. «Non avrei fatto quel titolo — dice Sandro Curzi, consigliere di amministrazione Rai, già direttore di Liberazione —.
È un titolo violento. Se penso alla mia famiglia, mi sento offeso. La mia famiglia, come altre, è stato un nucleo importante di formazione. Io credo che con titoli di questo tipo si accentui il fondamentalismo». E Giuliano Pisapia, giurista, già deputato di Rifondazione: «I dati sulle violenze sono sostanzialmente veri, ma il titolo è inopportuno e sbagliato. Le responsabilità non appartengono all'istituto familiare o a una intera famiglia, bensì ai singoli componenti di una famiglia».
Dal Cairo, Fausto Bertinotti non vuole commentare «formule giornalistiche». Dice tuttavia che «la famiglia non va messa sugli altari né trascinata nella polvere, che la famiglia, come la società, è investita da un processo corrosivo, ma non per questo si può dire che sia una forma di organizzazione di segno negativo». Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, difende il titolo del suo giornale: «Ma sì, toglie il velo dell'ipocrisia. Nel nord un omicidio su due avviene in famiglia. Evitiamo di costruire una bolla ideologica, non immaginiamo una famiglia virtuale...». E Graziella Mascia, vicepresidente del gruppo di Rifondazione alla Camera: «Mia figlia oggi mi ha detto: mamma non credevo dovessimo ancora difendere divorzio e aborto...».
Liberazione 12.5.07
È lì che si afferma il potere maschile
Famiglia assassina, come è possibile festeggiarla?
di Angela Azzaro
La prima causa di morte per le donne sono i mariti, padri, fratelli, compagni, fidanzati. E' in famiglia che avvengono il 90% delle violenze che mutilano, uccidono, umiliano la metà del genere umano. Stando a questi dati forniti dalle istituzioni internazionali e nazionali come l'Istat, la manifestazione di oggi è perlomeno macabra, festeggia l'infesteggiabile: il luogo più pericoloso per le donne; il luogo dove storicamente si è consolidato e si consolida il potere di un sesso sull'altro, dove si definiscono i ruoli e si consacra, con la benedizione delle religioni monoteiste, la norma eterosessuale. E' l'apparato di potere più forte, perché si fonda sul'assenso delle vittime, le plagia, le convince che è tutto normale, naturale, le porta addirittura in piazza a rivendicarlo, a chiederlo, per negare ad altri la possibilità di avere relazioni libere e tutelate. Quante donne che oggi sono a Roma per partecipare al Family day hanno un marito violento, che le rende infelici? Quante? Eppure sono lì, circondate da politici che si riempiono la bocca della parola famiglia come bene dell'umanità. E' invece ora di dirlo: la famiglia uccide.
(...)
Corriere della Sera 12.5.07
«Apriremo cento Confucius Institutes, saremo l'America del nuovo secolo»
La sfida di Chen: la Cina sarà la nuova potenza culturale
di Danilo Taino
Mao ci aveva messo alla testa del Terzo Mondo.
Ora dobbiamo trovare un posto nuovo
MILANO — «Secondo il pensiero cinese, gli uomini non nascono uguali», dice Zhaohui (Harvey) Chen, presidente della First Light Academy, un centro di ricerca di Shanghai.
Ciò nonostante, l'Occidente sbaglierebbe a fermarsi a questa osservazione: certe volte, la Cina emergente può sembrare ostile a causa delle differenze culturali, «ma in realtà è una forza di stabilità». Bisogna capirla bene e Chen è convinto che Pechino sia sulla buona strada nello spiegarsi. Anzi, pensa che «tra vent'anni la Cina sarà una potenza culturale prima ancora che economica».
Frase forte. Ma diventare una superpotenza globale, obiettivo dei capi di Pechino, può avvenire solo se, vicino ai muscoli economici e militari, cresce un soft power, una forza «buona», un modello sociale e culturale esportabile. Quello che ha saputo fare l'America nel Ventesimo Secolo. Comprensibile, dunque, che i cinesi si pongano il problema: quale modello può esportare la Cina, estrema nel comunismo politico ed estrema nel capitalismo economico?
«Si tratta di capire — ha spiegato Chen a margine di uno degli incontri del Forum internazionale Economia e Società Aperta che si è concluso ieri mattina a Milano — che Confucio voleva restaurare l'ordine sociale della dinastia Zhou. E disse che gli uomini non nascono uguali: ognuno deve avere un suo posto affinché la società funzioni. Ciò sembra essere in conflitto con le idee di democrazia e di uguaglianza occidentali. Ma Confucio era meno restrittivo su quello che uno può poi diventare: tant'è vero che, nella cultura cinese ognuno pensa di potere crescere a imperatore. Ma è un processo: ognuno può diventare padre, capofamiglia; ma prima deve essere figlio e sapere obbedire. Se poi dimostrerà di essere un buon padre avrà dimostrato di poter guidare anche il Paese. Ognuno ha una
chance. E proprio attraverso la competizione, come in Occidente».
È sostenuta da uno schema come questo l'idea che la Cina di oggi possa avere qualcosa da dire: Chen (e come lui i capi di Pechino) ritiene che la sua cultura non sia divergente da quella dell'Ovest e che, soprattutto, sia una forza confuciana di ordine, il contrario del conflitto. In movimento, per ora. «Mao Zedong — sottolinea Chen — aveva diviso il mondo in tre e aveva messo la Cina alla testa del Terzo Mondo. Ora dobbiamo trovare un posto nuovo, e — aggiunge — la Cina lo troverà affermando la sua cultura. Più difficile da apprezzare di quella americana del fast-food, ma profonda: stiamo aprendo nel mondo cento Confucius Institutes per farla conoscere».
Come finirà? La Cina d'oggi — risponde Chen — è «ancora in fase sperimentale, non so se saprà trovare un nuovo modello tra economia di mercato e democrazia: siamo nel mezzo di un movimento fondamentale ma il processo non è finito». La sfida è questa: altro che contraffazione delle griffe.
Corriere della Sera 12.5.07
Adolescenti Negli Usa spesi miliardi per campagne «moralizzatrici», rivelatesi inutili
Il flop della «castità anti-aids»
di Cesare Capone
Sul sesso i giovani italiani sono più prudenti, ma ignoranti
Un miliardo di dollari per convincere gli adolescenti americani, maschi e femmine, a mantenersi vergini prima di sposarsi. Risultato: chi ha seguito le lezioni di continenza ha il suo primo rapporto alla stessa età degli altri, in media a 14 anni e nove mesi; il 56% degli aspiranti astinenti, nell'ultimo anno ha fatto sesso (anche con tre o quattro partner) usando il preservativo (definito, invece, inaffidabile dalla campagna).
Questi i deludenti esiti del quarto - e penultimo anno - della campagna statunitense «Pepfar», ovvero President's Emergency Plan for Aids Relief, finanziata con 15 miliardi di dollari, per un terzo da spendere per iniziative dedicate alla «valorizzazione» dell'astinenza come rimedio contro il diffondersi dell'Hiv. Campagna che ha alle spalle i fallimenti di analoghe iniziative - finanziariamente molto più modeste - iniziate già nel 2001, che avevano come punti fermi affermazioni del tipo: «l'astinenza porta a una vita più lunga e più sana», «la rinuncia a rapporti prematrimoniali aumenta le probabilità di un matrimonio felice» e «i preservativi funzionano bene solo in laboratorio e non proteggono dalle malattie sessualmente trasmesse».
«Il flop di queste campagne negli Usa è la riprova che il proibizionismo, sia pure condotto con metodi democratici, è destinato al fallimento — commenta Emmanuele Jannini, docente di sessuologia medica all'Università dell'Aquila —. Soprattutto in campo sessuale il proibito diventa stimolo alla trasgressione. L'Aids e le altre malattie a trasmissione sessuale, ma anche gravidanze indesiderate e aborti tra le giovanissime, sono problemi reali e serissimi; per combatterli gli americani meglio avrebbero fatto ad insistere su altri punti fondamentali, come il buon uso del preservativo».
E i nostri ragazzi cosa ne pensano della verginità? Secondo un sondaggio del 2005 (di SWG, per Oggi), il 68% delle ragazze e il 44% dei ragazzi pensa sia un «valore da preservare fino all'incontro con il grande amore», anche se solo il 6% dei maschi e il 5% delle femmine è disposto ad aspettare fino al matrimonio. Ma quando arriverebbe questo primo grande amore, o supposto tale? Secondo dati Censis, intorno ai 17 anni per i maschi e ai 18 per le femmine, data dei primi rapporti completi. Meno precoci dei giovani americani, dunque, i giovani italiani e anche molto meno propensi a rapidi cambi di partner: quasi la metà dei giovani (fascia di età oggi molto ampia: dai 18 ai 30 anni) dichiara di aver avuto dai 2 ai 5 partner dall'inizio della vita sessuale (dati Censis). Una cifra tutto sommato modesta, che riduce il rischio Aids.
«Oggi in Italia credo prevalga la considerazione che le esperienze sessuali prematrimoniali preparino a una vita intima di coppia più soddisfacente — osserva Jannini —. Ma l'età media dei rapporti è stabile da tempo e non è certo bassa come negli Usa». Gli italiani sembrano anche prudenti: il 70% degli studenti del Nord e Centro Italia, secondo un'indagine universitaria del 2005, al primo rapporto usa il preservativo, mentre la percentuale scende al Sud.
Ai giovani italiani «10 in sesso», allora? «L'informazione non basta mai. Anche per i nostri ragazzi. In contrasto con l'apologia della castità, — dice Jannini — intesa non solo come segno di purezza interiore, ma anche come sinonimo di salute, esiste l'opinione, maggioritaria almeno in Italia, che la repressione degli istinti sessuali sia dannosa, specie per i maschi. Si parla di intossicazione da sperma, infiammazione dei testicoli, ipertrofia della prostata, foruncolosi. E forse alcuni si ostinano a credere che la mancanza di rapporti sia la vera causa delle nevrosi, specialmente fra le donne. In realtà, non esiste alcuna prova scientifica che l'astinenza sessuale sia di danno alla salute maschile e femminile. Come non esiste alcuna prova del contrario».
«Assurdo anche pensare che una prolungata astinenza — prosegue Jannini — pregiudichi la vita sessuale successiva e altrettanto assurdo è pensare che molti rapporti in una certa età della vita compromettano il futuro, quasi si corresse il rischio di dar fondo alle munizioni. La sessualità, a meno che non si ricorra a sproposito a farmaci, si regola da sé. Ma anche sulla masturbazione forse alcuni non hanno le idee chiare: fino a non molto tempo fa era accusata di causare indebolimento visivo, muscolare, cerebrale. Oggi viene ritenuta utile per la conoscenza della propria sessualità in previsione del rapporto a due. L'autoerotismo non fa danni, purché non diventi ossessivo: il che rappresenta un sintomo, non la causa, di un problema personale».
Liberazione Lettere 13.5.07
Diritti civili per tutti, fondamentale necessità
12 maggio 2007. Chi si batte per la libertà
Caro Piero, leggo una nota di agenzia in cui il presidente Prodi chiede che venga superata la lotta tra Guelfi e Ghibellini. Vorrei, se mi è permesso, rassicurarlo: chi contesta l'ingerenza, anzi il monopolio del Vaticano e dei suoi accoliti nelle questioni e nei diritti che riguardano le persone, credenti e non credenti, non può essere assimilato a un Ghibellino. Perché non ha imperatori da sostenere, né re. Al contrario, egli lotta perché vengano riconosciuti diritti a tutti gli esseri umani, sin dalla loro nascita. Se dall'altra parte ci sono Guelfi, neoconservatori o fondamentalisti, la sostanza non cambia. Chi sostiene la fondamentale necessità di diritti civili per ogni singolo essere umano nato e vivente su questo pianeta, non si batte contro qualcuno. Si batte per la libertà.
Paolo Izzo
il manifesto 13.5.07
Lo stupido relativismo di Galileo
di Alessandro Robecchi
Ora che abbiamo messo ordine nella famiglia, non fermiamoci. Mi permetto di suggerire alla Chiesa Cattolica alcune battaglie culturali per il prossimo futuro.
Sistema solare. Come Santoro, come Luttazzi, come Sabina Guzzanti, ecco un altro furbetto che è diventato famoso facendo la vittima della censura: Galileo Galilei. Il suo stupido relativismo ha preso piede, ma si può passare al contrattacco. Prima si istilla il dubbio a livello puramente teorico. Paginone sul Foglio, titolo: Ma Galileo era infallibile? Segue dibattito sui maggiori quotidiani. Seguono trasmissioni in tivù. Segue manifestazione di massa. Seguono dirette televisive con interviste volanti ai manifestanti: «Noi giriamo intorno al sole? Ma chi si crede di essere il sole!». Tempo sei mesi e avremo il paese spaccato in due. Non ci credete? Vi sembra esagerato? Ricordatevi sempre che era lo stesso paese che comprava il sale da Wanna Marchi e le notizie da Emilio Fede.
L'anima della donna. È tempo di affrontare questo argomento spinoso, ma con grande cautela. Sarebbe bene che a sostenere che le donne non hanno l'anima siano delle donne. Ingaggiare dunque subito cinque o sei ex-femministe da portare in tivù (Otto e mezzo) a dire che forse sì, perché no, tutto sommato... dove sta scritto che le donne hanno l'anima? Alla prevedibile alzata si scudi dei laici rispondere: eh, ma come siete intolleranti! (Segnatevela questa, funziona sempre).
I partiti. Sappiamo che la politica vorrà dire la sua. Sempre se gli conviene. Un universo piatto che gira intorno ad Arcore, per esempio, chiuderebbe per sempre il discorso sul conflitto di interessi. E se dopo un sondaggio si scoprisse che in Veneto, o in Molise, il 42% della popolazione non crede che le donne abbiano un'anima, immaginate la ferma posizione di Rutelli? Forse sì, perché no, tutto sommato... se non fossi ministro... Coraggio, cattolici! Sono obiettivi ambiziosi, ma si può fare!