lunedì 14 maggio 2007

l’Unità 14.7.07
Occhetto. «Il Pd lascia un grande spazio vuoto
La nuova sinistra lo deve occupare»


ROMA Passo dopo passo, assemblea dopo assemblea, il processo di riunificazione a sinistra prende corpo. Occhetto ha proposto sabato un patto d’unità d’azione a Fabio Mussi, fondatore con Gavino Angius di Sinistra democratica, e a Rc sulle questioni delle pensioni, dei contratti di lavoro, all'assemblea del «Cantiere per i beni comuni». La vecchia rappresentazione di una sinistra «radicale» contrapposta a quella riformista non consentirebbe di leggere le posizioni che si vanno delineando in questa composita area politica. Occhetto pensa a una sinistra «che deve reinventarsi» e può farlo muovendosi «nell'ambito del socialismo europeo ma con l'obiettivo di riavvicinarlo a tutte le sinistre». «Se il partito democratico fosse stato per davvero il partito di tutto l'Ulivo, in quel caso la sinistra avrebbe trovato il proprio posto al suo interno».

l’Unità 14.7.07
Io, Ds, vi spiego quei fischi
di Luigi Manconi


Strane storie sotto i cieli di Roma. Sotto il cielo di Piazza San Giovanni, un milione di persone - si dice - per il Family day. Sotto il cielo di Piazza Navona, alcune decine di migliaia di persone - si dice - per la giornata del Coraggio laico. Tra queste ultime, c’ero anch’io: e questo mi porta, su richiesta de l’Unità, a parlare in prima persona. Dunque, a metà pomeriggio sono salito sul palco, presentato da Alessandro Cecchi Paone come autore del primo disegno di legge sulle unioni civili, nel lontano 1995.
E anche come estensore del testo sulle coppie di fatto del programma dell'Unione (approvato e poi modificato), nel più vicino 2005 - sono stato accolto con calorosissimi applausi. Giunto a metà dell'intervento, amareggiato dall'ostilità precedentemente espressa nei confronti dei Ds (o forse per quel riflesso bolscevico che, talora, colpisce i libertari), ho deciso di non tacere sull'accaduto. E, come si legge nei romanzi d'appendice, «con sovrumano sprezzo del pericolo» ho detto, pressoché testualmente, quanto segue: «Penso che la politica non debba ignorare la verità: e quindi voglio essere leale con voi. Io non sono qui a titolo personale, ma rappresento centinaia di migliaia di iscritti, militanti, parlamentari e dirigenti dei Ds, che non sono qui presenti, ma hanno sostenuto, sostengono e sosterranno le unioni civili». Qui una gran parte della folla ha sonoramente fischiato; e io ho aggiunto: «Non dovete dimenticare il lungo impegno del mio partito a favore delle unioni civili e il fatto che la proposta di legge sui Dico porta la firma di un ministro diessino». I fischi non si sono acquietati e, allora, ho così replicato: «Porterò al mio partito e al suo gruppo dirigente i vostri molti applausi e i vostri molti fischi: sono convinto che, in politica, siano utili i primi come i secondi». Poi, per la verità, non è stato difficile concludere tra molti applauisi perché - siamo uomini di mondo - una chiusa rassicurante, non è difficile imbastirla. Ma ciò che è importante è che quei fischi ci sono stati, eccome, e avevano un significato preciso, che mi sembra utile trasmettere ai lettori dell'Unità per come io l'ho inteso.
In quella piazza, i diessini non erano pochi, come ho potuto verificare quando, successivamente, ho attraversato la folla con mia figlia e ho ricevuto molte manifestazioni di amicizia e condivisione. Ma quella presenza non si esprimeva in maniera visibile e dichiarata, attraverso bandiere, gruppi di parlamentari, dirigenti noti. Si è data, dunque, l'impressione - né più né meno - che «i Ds non sono qui». E tale sensazione, evidentemente, risultava ancora più amara perché era tangibile la percezione, anche fisica, della disparità numerica tra i partecipanti alle due diverse manifestazioni. E la consapevolezza che quella di San Giovanni fosse l'esito, anche, di un ingente investimento di risorse e, anche, di una colossale mobilitazione mediatica, e quella di piazza Navona, esclusivamente, dell'impegno autonomo di donne e uomini di buona volontà, non bastava a lenire l'amarezza. Non intendo qui sostenere che il mio partito (mio da così breve tempo e che, per giunta, sta per confluire in una nuova formazione) avrebbe dovuto partecipare in massa alla giornata del Coraggio laico; e capisco perfettamente e, in parte, condivido le molte buone ragioni che potevano e possono far temere l'approfondimento della distanza, se non dell'ostilità, tra le due piazze. Ma questo non doveva impedirci di esserci (nella forma più opportuna, ma esserci): e, soprattutto, di PARLARE. E di parlare non semplicemente a quelle decine di migliaia di persone presenti in piazza Navona (e che sono comunque preziose, e delle quali solo i radicale sembrano curarsi): ma parlare all'intera società. Cosa che nemmeno la sinistra presente in piazza Navona (appassionatamente impegnata a lucrare sull'assenza dei Ds) ha saputo fare. Nè sabato né nei giorni e nei mesi precedenti. Perchò questo è, a mio avviso, il punto cruciale: la manifestazione di piazza San Giovanni è stata così grande e la forza simbolico-mediatica così efficace perché il Family day sembrava avere davvero qualcosa di importante da dire. La sinistra, invece, non sembra disporre di un messaggio altrettanto significativo. Altrettanto ragionevole. Altrettanto urgente. Non è questa la sede per considerare le ragioni antiche e profonde di tale penuria (che rimandano all'incapacità/non volontà di elaborare, con tutta la pazienza e la fatica del caso, un sistema di valori e di categorie morali, non derivati da un'ispirazione religiosa).
Ma, riferendoci al qui e all'oggi (e limitandoci a risalire solo a ieri e a ieri l'altro), possiamo dire che la sinistra tutta - con l'eccezione dei radicali - sconta ancora, e dolorosamente, il proprio «economicismo». Ovvero: per quanti passi avanti siano stati fatti, per quanti mutamenti mentali si siano registrati, la cultura e il programma e l'agenda politica della sinistra resta saldamente agganciata a una gerarchia di priorità (che è anche una gerarchia di interessi e di passioni), dove la sfera economico-sociale risulta sempre prevalente. E fin dominante. Non si vuole qui, evidentemente, ribaltare quell'ordine per affermare il primato della sfera dei diritti civili e delle libertà individuali. Non siamo mica scemi: si vuol dire, più semplicemente, che - in tempi di vacche magre e di battaglie ideologiche - la gerarchia tradizionale di priorità (prima lo «strettamente necessario» dell'economia e, poi, il «superfluo» dei diritti civili) porta, fatalmente, a ignorare questi ultimi: i diritti, appunto.
È un gravissimo errore. Si pensi che la Costituzione francese del 1793 definiva le «garanzie sociali» di una comunità politica come risultato del dovere di tutti di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente diritti individuali e politica collettiva. Una lezione colpevolmente, e spesso tragicamente, dimenticata. Insomma, fino a quando la sinistra non saprà riconoscere che i Dico non sono «più importanti» delle pensioni (e riuscirà a «spiegarlo» alle persone omosessuali), ma che le pensioni non sono «più importanti» dei Dico (e riuscirà a «spiegarlo» agli operai), non si caverà un ragno dal buco.

il Riformista 14.5.07
De profundis per i Dico, su cui si è persa pure l’ultima speranza
di Tommaso Labate


Nel day after dello scontro tra la piazza laica e quella cattolica - al di là delle tante schermaglie trasversali che non accennano a diminuire - rimane una certezza. Per i Dico, almeno nella versione che abbiamo conosciuto attraverso il ddl dell’esecutivo a firma Bindi-Pollastrini, non c’è futuro. Le speranze di vederli approvati dal Senato, più che ridotte al lumicino, sembrano non esserci.
Per il de profundis non serve rivolgersi agli organizzatori di quel Family day che ha dimostrato la compattezza del fronte dei contrari, che va dalla Lega ai teodem della Margherita, passando per le truppe mastellate dell’Udeur. Basta bussare alla porta dell’ultra-laico Cesare Salvi, che presiede la commissione Giustizia del Senato. Quella in cui è ancora in corso la discussione preliminare sui Dico. Dice al Riformista il senatore (e futuro capogruppo) di Sinistra democratica che «per quel disegno di legge non ci sono né numeri né margini di manovra». Il ragionamento di Salvi è molto semplice. «Durante la crisi dell’esecutivo, il presidente del Consiglio ha escluso i Dico dalle priorità. E, soprattutto, ha più volte dichiarato che con la presentazione del ddl il governo considera esaurito il suo compito». Di conseguenza, aggiunge, «visto che il Parlamento è sovrano, continueremo a lavorare in commissione per trovare una proposta che abbia quei numeri che il testo Bindi-Pollastrini, di fatto, non ha».

Libertà 13.5.07
Il regista in piazza. Bellocchio: no alla violenza religiosa

Roma - «Sono qui per un minimo di decenza, questa non è una rivoluzione ma è la risposta pacata e civile ad una violenza intollerante, quella religiosa». Si è espresso così il regista Marco Bellocchio, intervenuto alla manifestazione in Piazza Navona. «Sono emozionato - ha esordito il regista piacentino - sono un convivente con una bambina di 12 anni, ho più di sessant'anni e non vorrei, anzi non voglio essere costretto a sposarmi per avere elementari diritti civili». Sono passati anni, decenni da quel film dell'esordio, "I pugni in tasca", con cui diventò celebre con il film anticipatore del '68. Poi una lunga, tormentata ricerca per approdare a ben altri film, a ben altre immagini, a ben altri contenuti. «Mi chiedo dove siano i Ds, perché non ci sono in questa piazza? Ho una sola risposta, non è che siano una minoranza?». E poi ribadisce «sono qui per qualcosa di ovvio, per dei diritti elementari per difendere le libertà personali da una violenza intollerante, quella religiosa». (...)

Repubblica 14.5.07
Se chiesa e destra vanno in piazza insieme
di Edmondo Berselli


MAI la Chiesa, negli ultimi vent´anni, era stata così vicina alla politica, così influente, così ingombrante. Affiancata dai partiti di destra, e con il centrosinistra scompaginato dal conflitto interno, non dichiarato e non elaborato, sulla laicità. Se le cose stanno così, se questa diagnosi è realistica, sabato scorso in Piazza San Giovanni è avvenuto un disastro politico e civile. E allora vale la pena di guardarlo in profondità, senza complessi. La prima e fondamentale conseguenza del Family Day è evidente: si è saldato un fronte tra ampi settori del mondo cattolico e la destra italiana.
E ciò è avvenuto in un modo e con un´intensità tali da sorprendere gli stessi vertici ecclesiastici, la segreteria di Stato vaticana, la Conferenza episcopale. Alla Chiesa post-wojtyliana era ovviamente utile una dimostrazione di forza, anche per esibire uno di quegli spettacoli di mobilitazione che senza il carisma di Giovanni Paolo II risultano difficili da riprodurre oggi sulla scena pubblica. Ma è tutto da provare che per la gerarchia cattolica fosse davvero conveniente quella spettacolare fusione di morale e politica, di alto magistero e di bassi interessi di bottega, che se da un lato ha esibito l´adesione popolare ai temi della famiglia, dall´altro ha permesso il sequestro politico di piazza San Giovanni da parte dei leader del centrodestra.
La presenza di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini rappresentava con chiarezza qual era una finalità possibile del Family Day, almeno nelle intenzioni dei suoi sponsor politici più spregiudicati: e cioè mettere in rilievo che l´appello per una «politica per la famiglia» rappresentava invece l´opportunità per una polemica caldissima contro il riconoscimento legale delle unioni civili. Ossia per dividere in due, con volontà esplicita, l´opinione pubblica: in modo da poter attestare che da una parte, a destra, ci sono i buoni cattolici, e dall´altra, a sinistra, c´è una consorteria di avversari, di «laicisti», di personalità insensibili alle grandi verità religiose.
In quella compagine ostile alla Chiesa e ai suoi fondamenti, guidata dal Prodi «rovinafamiglie» immortalato sulle magliette, i cattolici del centrosinistra si trovano in difficoltà. Secondo l´intonazione psicologica della piazza anti-Dico, il mondo cattolico non è rappresentato da Clemente Mastella o da Francesco Rutelli, e meno che mai da Rosy Bindi; costoro non rappresentano nessuno e non sono neppure la foglia di fico sulle vergogne laiciste del centrosinistra: ne è una riprova a contrario l´accoglienza entusiastica riservata a Silvio Berlusconi, a testimonianza che c´è stata una fusione politica, di popolo, fra le posizioni cattoliche più intransigenti e la scelta per il centrodestra.
Matrimonio d´interesse e d´amore. Sicché è superfluo sottolineare che il raid di Silvio Berlusconi durante il Family day è stato un gesto politicamente impegnativo, anche a prescindere dalla violenza delle sue parole, quelle frasi provocatorie secondo cui non è possibile essere contemporaneamente fedeli cattolici e di sinistra. Berlusconi ha realizzato uno dei suoi blitzkrieg, e ha tentato di mettersi in tasca in un colpo solo l´ideologia della famiglia, il movimento ecclesiale, i sostenitori del matrimonio, gli oppositori del divorzio e dell´aborto, i contestatori della procreazione assistita, dei Dico e delle unioni omosessuali.
Ebbene, sarebbe il caso di capire come la pensa la Chiesa, al suo vertice, dell´appropriazione indebita delle istanze cattoliche e delle masse dei fedeli convenute a Roma per sostenerle. Riesce incongruo infatti credere che la gerarchia giudichi utile, cioè politicamente conveniente, e spiritualmente convincente, il cinismo opportunista con cui Berlusconi e i suoi alleati hanno confiscato la comunità ecclesiale (almeno quella parte che interpreta l´appartenenza al cattolicesimo con uno spirito di rivalsa, di rivincita, di spagnolesca «reconquista»). Vale a dire sulla base di un´idea di divisione, senza nascondere una chiara inimicizia contro quella parte di società, di politica e di cattolicesimo che la pensa diversamente.
Va da sé che la Chiesa non possa accettare di essere sequestrata in vista dell´utilità politica di una parte. E quindi non è del tutto irrealistico attendersi qualche presa di distanza, fosse anche soltanto una sottigliezza per smarcarsi. Questo perché monsignor Angelo Bagnasco deve ancora guadagnarsi la titolarità della sua azione come presidente della Cei, uscendo dalla definizione ristretta di successore di Ruini. E il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, deve curare anche le diplomazie con il governo attuale e con i ministri cattolici che ne fanno parte. E va rilevato nel tfrattempo che Bagnasco ha taciuto sostanzialmente sul Family Day: ciò è un sintomo di quanto sia arduo rinnovare in modo originale la linea dell´episcopato, ma anche un indizio della sua prudenza.
Tuttavia il punto cruciale è evidente di per sé: comunque si sia verificata, non si è mai vista, in tempi di bipolarismo, una collocazione così netta ed esclusiva della Chiesa a fianco di una parte politica. Al di là dei riverberi più evidentemente confessionali, si prospetterebbe una conseguenza politica di estremo rilievo, cioè un attrito vistoso con l´intera evoluzione del sistema politico: la formula bipolare infatti doveva consentire la libera collocazione politica dell´elettorato cattolico.
Viceversa, una variante estremistica come quella prospettata sabato da Berlusconi, i cattolici di qua e i miscredenti di là, assomiglia più a un´eresia manichea che a un criterio di ragionevolezza politica. Altro che suggestioni neoguelfe: qui è potenzialmente in gioco la «cattura» della Chiesa da parte di uno dei giocatori politici. E dunque, se il mercante sequestra il tempio, sarebbe interesse della comunità ecclesiastica che emergessero voci e figure indisponibili a schiacciarsi su una soluzione politica confessionale, con le ripercussioni politiche che si possono immaginare. Di tutto infatti avrà bisogno la Chiesa, ma non di una guerra di religione. E neppure di diffidenze e ostilità speculari sul piano del governo e delle istituzioni.
Tanto più che sullo sfondo del Family day (e delle contrapposizioni tra Vaticano e sinistra, dal referendum sulla fecondazione assistita ai Dico), sono entrati in gioco principi basilari in materia di laicità dello Stato, suscettibili di favorire contrasti pesanti dentro il centrosinistra. Per ora nell´Unione il conflitto non è esploso, ma non c´è dubbio che sulla piazza del Family Day si sono compiuti sacrifici politici pesanti: si è sacrificata in primo luogo una parte della presenza e credibilità pubblica dei Ds.
Il silenzio dei Ds è una scelta obbligata, dettata dall´impossibilità di parlare, perché parlare equivarrebbe a innescare la contrapposizione con il proprio alleato, la Margherita, proprio mentre si sta avviando il processo che conduce alla nascita del Partito democratico. Ma la rinuncia effettiva a qualificare la propria presenza nel Pd, da parte diessina, è già di per sé un´abdicazione; e anzi l´effetto della distorsione prodotta dalla politicizzazione della religione, dall´abbandono di un criterio comune di laicità.
Il Family Day, insomma, ha avuto conseguenze sui due lati della struttura politica italiano: ha reso asimmetrici gli schieramenti, ha squilibrato il bipolarismo, dà un´inflessione clericale al giudizio sull´azione di governo.
Sarà il caso che tutto il centrosinistra, da Romano Prodi in giù, valuti con attenzione queste ripercussioni e le risposte possibili. Ma anche da parte ecclesiastica dovrebbe esserci la percezione che il nuovo integralismo, la comunanza indistricabile e «simoniaca» fra destra e Chiesa, è una distorsione del meccanismo democratico, e potenzialmente una perdita grave in termini di ricchezza e libertà della convivenza civile.

Redattore Sociale 11.5.07
Giustizia: Caruso (Rifondazione): chiudiamo subito gli Opg


In un’interrogazione urgente, il deputato ha denunciato una realtà allarmante nell’Opg napoletano dove, visionando il registro medico, ha appurato che in 2 mesi almeno una decina di internati sono finiti sul letto di contenzione.
La risposta del ministro Mastella al question time conferma la presenza della sala di coercizione nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) Sant’Eframo di Napoli. Lo sostiene Francesco Caruso, parlamentare indipendente del Prc, che ribadisce la necessità e l’urgenza di superare e di chiudere tali Opg, che "sono veramente un istituto del passato, considerato che la legge n. 180 del 1978 ha già chiuso tutti manicomi".
Caruso, in un’interrogazione urgente, aveva denunciato una realtà allarmante nell’Opg napoletano. Recatosi in visita presso la struttura in cui sono internate 104 persone, il deputato campano aveva potuto constatare le condizioni fatiscenti e disumane del centro. Ma la questione più inquietante riguardava la presenza di una "camera della coercizione" nella quale - in base alla ricostruzione di Caruso - i pazienti vengono legati alle estremità del letto, per i polsi, per le caviglie e per il torace.
Visionando il registro medico Caruso ha quindi appurato che negli ultimi due mesi almeno una decina di internati erano finiti sul letto di contenzione, cioè immobilizzati per diversi giorni con le braccia e le gambe legate ad un letto, con al centro un buco per permettergli di effettuare i bisogni fisiologici senza essere slegati.
Rispondendo all’interrogazione, il ministro Mastella ha spiegato che, per quanto riguarda il problema delle contenzioni fisiche, si tratta di atti di stretta competenza medica, disposti soltanto dopo un accurato esame psichiatrico e solo al fine di scongiurare che il paziente in stato di acuto scompenso psichico si renda pericoloso. Se le condizioni cliniche dell’internato non sono estremamente gravi si opta, invece, per il regime di isolamento idoneo ad impedire il contatto con altri soggetti.
Per quanto riguarda l’internato sottoposto a coercizione a seguito di un tentativo di evasione - fatto questo che Caruso denunciava nell’interrogazione - Mastella ha precisato che la contenzione è stata disposta previa visita del sanitario ed è durata soltanto un giorno, venendo subito sostituita con il regime di isolamento. Il Guardasigilli ha comunque assicurato che sarà impegno costante del ministero effettuare scrupolose verifiche ed adottare gli opportuni provvedimenti.
Tra le priorità indicate da Mastella nella risposta emerge quindi la necessità che sia data piena attuazione al decreto legislativo n. 230 del 1999, con il quale fu stabilito il trasferimento delle competenze sanitarie dall’amministrazione penitenziaria al servizio sanitario nazionale ed alle regioni. Il responsabile della giustizia ha inoltre ribadito l’impegno a verificare l’attualità dei criteri seguiti per registrare il tempo di permanenza degli internati in ospedale, ponendo in primo piano l’attenzione sulla questione della imputabilità degli autori di reati.

domenica 13 maggio 2007

l’Unità 12.5.07
Intolleranza. La società dell’odio
La psicoanalisi del perdono contro l’odio
di Julia Kristeva


Lectio magistralis alla Fiera del Libro

Oggi (ore 12, Sala rossa) alla Fiera del Libro di Torino, Julia Kristeva tiene la «lectio magistralis» Il bisogno di credere. Il punto di vista laico di una grande protagonista del nostro presente, di cui in questa pagina anticipiamo ampi stralci della prima parte. Kristeva, nata in Bulgaria nel 1941, ma di nazionalità francese, è studiosa di linguistica, semiologia, psicoanalisi, letteratura del XIX secolo. È una delle più note psicoanaliste a livello internazionale. I suoi ultimi libri, come la trilogia sul Genio femminile, sono stati pubblicati in Italia dall’editore Donzelli.

CONFLITTI Come gestire e superare violenza e contrapposizioni etniche in un mondo che le esalta? Essenziale è una nuova etica della compassione psicanalitica, da oppore alla «reattività» identitaria

Il rifugio nelle identità chiuse è un modo di contrastare la depressione

La politica non può che essere un impegno finalizzato a scopi singoli

L’incontro con l’altro somiglia all’elaborazione del lutto nel «transfert»

Noi diciamo «sono francese, italiano, cattolico, ebreo», «sono un artista, un operaio, un uomo, una donna, un bambino, un anziano...», ricorrendo in tal modo alla polifonia del verbo essere. Non preoccupatevi: non mi addentrerò né in un’analisi linguistica, né nel dibattito filosofico che dura dai presocratici passando per Platone fino a Heidegger e i suoi commentatori...
No, il mio personale nomadismo e la mia riflessione sull’esperienza degli stranieri, dell’estraneità, mi ha convinta che si possa «essere» senza «esserci». Vi propongo di riflettere su questo: essere non significa «esserci» è semmai e soprattutto una posizione filosofica che si rifà al pensiero di Hannah Arendt, una «donna che viene da lontano» (come si definiva citando una poesia di Schiller), che ha meditato, forse meglio di chiunque altro, sulle origini del totalitarismo.
Criticando l’assimilazione degli ebrei in Francia ma anche l’insieme del sistema clanico (del clan, ndr) della società francese, questa politologa che era anche una lettrice di Proust ricorda le ironiche affermazioni dello scrittore affermando in sostanza che i francesi hanno trasformato la massima dell’Amleto di William Shakespeare «essere o non essere, questo è il problema» in «essere o non esserci». Voi sapete che, in Le origini del totalitarismo, Arendt prende assai sul serio tale affermazione e analizza la rete di «ambienti» di influenza separati tra loro (famiglie, società più o meno segrete, clan religiosi, politici e sessuali, salotti, ecc.) che, in effetti, costituisce la società francese sotto le sue ambizioni di universalismo e uguaglianza. Affronta, strada facendo, gli effetti perversi dell’assimilazione denunciata da Bernard Lazare: liberando gli ebrei, la Repubblica li affranca dalla religione che conferisce loro il proprio essere, ma li riduce in definitiva a dei «paria» in una nazione suddivisa in compartimenti che, mentre pretende far condividere loro i suoi valori universali, di fatto li rinchiude in particolarismi etnici, psicologici, sociali - quelli in cui i nazisti vedranno dei «vizi» da sterminare...
Io cerco di portare avanti l’interrogativo sugli effetti della chiusura clanica e comunitaria che si riscontrano nel cuore dei conflitti moderni: le appartenenze, le identità comunitarie sono soltanto subite o, anche, compiacentemente assunte? Per quale vantaggio psichico e politico? Quali sono le molle incoscienti del comunitarismo e, in senso più ampio, dell’appartenenza?
Il nostro dibattito mi offre l’occasione di rendere omaggio a Hannah Arendt. Ho da poco ricevuto, per il centesimo anniversario della sua nascita, il Premio Hannah Arendt per il pensiero politico, istituito dalla Fondation Heinrich Böll e conferitomi in Germania dal Land di Brema. La recente consegna del premio (il 16 dicembre 2006) mi ha spinta ad approfondire la mia riflessione sul rapporto di appartenenza (...). All'orecchio della psicanalista quale io sono, l’appartenenza appare come un antidepressivo. Noi tutti abbiamo bisogno di crearci luoghi e legami: famiglie, meta-famiglie, trans-famiglie che ci sostengano lungo la nostra vita. Si comincia con i legami di parentela, poi viene la scuola, l’ambiente di lavoro, sportivo, una squadra, un circolo politico, ideologico, ecc. Legami indispensabili, che io considero luoghi di passaggio. Infatti, affinché l’appartenenza non degeneri in difesa maniacale contro la depressione - che assume allora l’aspetto ideologico di un dogmatismo -, dovrebbe poter essere pensata, vale a dire messa in discussione, e in questo senso essere soltanto provvisoria. (...)
Il 100° anniversario della nascita di Hannah Arendt coincide con il 150° anniversario della nascita di Freud. La giuria desiderava mostrare eventuali convergenze tra i due pensatori all’apparenza così diversi, se non incompatibili: Arendt diffidava della psicanalisi, direi persino che la detestava senza conoscerla realmente. Eppure! Per la sopravvissuta alla Shoah, il centro della politica non è nient’altro che la possibilità di mostrare la singolarità umana nella pluralità dei legami. Ebbene, è stato proprio Freud ad avviare una ricerca sulla singolarità irriducibile, propria della vita psichica di ogni individuo, oltre la psichiatria e le neuroscienze che generalizzano: l’esperienza psicanalitica del transfert e del contro-transfert altro non è che la ricostituzione all’infinito dei legami, in particolare amorosi, da fare e disfare con gli altri...
Mentre mi trovavo a New York per tenere i miei corsi al dipartimento di Filosofia della New School, durante le ore libere preparavo il testo del discorso per il Premio Arendt, guardando la televisione. Mi sono così imbattuta in un programma sulla tragedia delle donne afgane che, quando subiscono violenze coniugali, o ogni tipo di insopportabile pressione, non trovano altra via di uscita che immolarsi dandosi fuoco. Si tratta di un ritorno a una tradizione religiosa: in India, le vedove si immolano con il fuoco per raggiungere gli sposi defunti. Ma per le afgane murate dentro i loro burka e represse, quel rito è diventato il solo e unico mezzo di protesta, in una forma arcaica e barbara ma radicale, è il meno che si possa dire. Non soltanto si assiste a un moltiplicarsi di autodafé di donne perché, in società sempre più dominate dai talebani che si credeva aver sconfitto, non esistono risposte politiche per le libertà, ma, in mancanza di dottori, antibiotici e calmanti, non è nemmeno possibile curarle! Ho dunque deciso di devolvere l’ammontare del mio premio alle donne afgane. Ho cercato una Ong affidabile che facesse da tramite. Negli Stati Uniti ne esistono molte, in particolare femministe. Alla fine, ho scelto Humani-terra, con sede a Marsiglia, dunque un’associazione francese, che cura le grandi ustionate ma inizia anche un lavoro di inserimento psicologico e sociale con le handicappate che sopravvivono alle ustioni.
Ecco... tutto questo per dirvi che «l’azione politica» che Arendt collocava al di sopra del «lavoro» e dell’«opera», si esaurisce in se stessa e non ha altra giustificazione che quella ultima, ai miei occhi, di dar luogo a singole iniziative. Non ad «appartenenze» e militanze che ne rafforzano i confini. Ma a specifiche maniere di essere, a bio-grafie: vale a dire di vite che possono essere raccontate, condivise e che, per questo, debanalizzano il gruppo umano, curano il legame sociale, lo trasformano in spazio di creatività per ciascuno. È evidente che, se si è una donna che porta il velo, non si hanno molte chance di «apparire» alla «pluralità del mondo»: come si può allora avere qualsiasi libertà, e ancor meno la libertà di pensare?
L’orrore delle donne afgane è una situazione limite, lo ammetto. Tuttavia, anche le nostre democrazie cosiddette progredite sono esposte al rischio di portare all’estremo l’incontro del singolare con il singolare, la rivelazione che sta alla base della libertà: lo svelarsi dello specifico, dell’incommensurabile, che rappresenta la nobiltà della politica.(...)
Lo ripeto, la vulnerabilità mi sembra essere al centro dell’essere parlante come crocevia biologia/senso, e ne faccio pertanto una questione centrale e politica. Non rientra nell’ordine della carità. Ho avuto l’onore di essere invitata a parlare della sofferenza a Notre Dame de Paris, nella serie di conferenze della Quaresima aperte ai laici e ai non credenti. In quella sede ho presentato, tra le altre cose, la mia concezione dell’handicap, che non è basata sulla compassione. È vero che condividere la sofferenza di una persona handicappata richiede un’empatia che non esito a definire amore: nel senso del transfert e del contro-transfert che hanno luogo in una cura analitica. Se il rapporto di vicinanza con una persona handicappata non giunge fino a quel punto - ho potuto constatarlo nel mio lavoro sia con le persone handicappate che con i cosiddetti «aiutanti» -, ebbene l’accompagnamento si limita a una «medicazione», cosa certo importante, ma che non ottiene quegli effetti di mutamento e sopravvivenza che sono resi possibili da un’identificazione tra curante e curato: identificazione spesso infraverbale, sensoriale, condivisione di affetti e passioni, essa stessa analizzata e così orientata verso un’azione per i diritti e i doveri politici.
La compassione, precisata come transfert/contro-transfert, è orientata verso la riconoscenza politica. Si tratta, capite bene, di una visione radicalmente diversa da quella che ci è trasmessa dalla tradizione biblica ed evangelica, che pure ha aperto la strada a un’assunzione di carità senza precedenti in altre civiltà. Ma che considera la persona handicappata, allo stesso titolo che i «poveri», come qualcuno affetto da «mancanza» di qualcosa, benché, pur manchevole, quel «povero» meriti di vivere degnamente. Bisogna riconoscere che è già qualcosa di enorme... rispetto all’eugenetica ad esempio, che ancora oggi fa capolino dietro la maschera del progresso scientifico.
La visione che sostengo, che trae ispirazione da ciò e al tempo stesso se ne allontana, si riallaccia a Diderot, il quale, deista, è diventato laico dopo l’incontro con Saunderson: con lui il filosofo dei Lumi ha scoperto una disfunzione nell’ordine divino dell’armonia prestabilita e dell’eccellenza dell’uomo creato da Dio a suo modello. Oggi, ci battiamo da soggetti politici per dei diritti, e le persone handicappate nelle loro associazioni hanno ben capito tutto ciò. Talvolta in maniera persino eccessiva a mio avviso, poiché non tengono conto dello sguardo degli altri, le persone autosufficienti, che non sono pronte - dal punto di vista affettivo ed economico - a mettere in pratica questa filosofia umanista, pur aderendovi per la maggior parte... da lontano. Resta ancora da fare un lungo lavoro di informazione, di diffusione di conoscenza, ma anche di «lavoro su di sé»: da una parte e dall’altra, tra due universi impietosi quali sono i «validi» e gli «invalidi».
Sentendomi parlare in questi termini, di recente un giornalista mi ha posto la seguente domanda: «È forse diventata cristiana?». Non sono «diventata cristiana» accompagnando le persone portatrici di handicap, e neppure scrivendo un libro sull’odio e il perdono (La haine et le pardon, Fayard, 2005). In quest’ultimo libro, sostengo che il perdono è un atto simbolico e reale indispensabile per la costituzione di una vita psichica; è un privilegio della cultura europea averlo messo in evidenza facendone un fatto culturale. Sconosciuto ai greci, appena accennato tra i romani nel principio di risparmiare le vittime (parcere subjectis), elaborato attraverso il kippur ebraico nella Bibbia, in realtà è stato Gesù a imporlo, correggendo in maniera effettivamente molto politica la concezione degli scribi e dei farisei. Da allora in poi, non soltanto Dio non è l’unico a perdonare, ma è perché in primo luogo gli uomini sono capaci di perdonare che Dio, in definitiva, perdona.
Arendt s’impossessa di questo fatto religioso per decifrarvi la capacità degli esseri umani di cambiare il corso del tempo soggettivo: perdonando, attraverso il mio perdono, non cancello il male, dal momento che il perdono si rivolge alla persona che lo chiede, non ai fatti incriminati. E attraverso il mio perdono io consento a questa persona di rifarsi: non di fermarsi, ancor meno di finire e/o morire (fisicamente o psichicamente, per via della condanna), ma di ricominciare su nuove basi, su nuovi legami e valori.
Quale può essere la versione moderna del perdono, in un mondo senza Dio? Era questa la mia domanda, e la mia risposta è: l’interpretazione, e più nello specifico l’interpretazione psicanalitica. L’atto psicanalitico solleva una domanda a partire dal malessere e da ogni specie di male.
Cerca il significato - psichico, sessuale, intersoggettivo - dell’insensato. Parlando o tacendo, decifrando o attraverso il silenzio, e persino se conduce al nonsenso o al non-sapere, resta nell’apertura, nel chiarimento. È un prodigioso e imprescindibile contropotere con cui contrastare la pulsione di morte.
Lo scrivo, per rassicurarvi e distinguermi dall’uso religioso del termine di cui siamo tuttavia eredi e debitori: un per-dono. Un dono di senso che si riassorbe nel dono del transfert/contro-transfert, e abbozza la possibilità di ri-fare il proprio spazio psichico, i propri legami, la propria vita.

Traduzione di Alessia Piovanello

l’Unità 12.5.07
Bertinotti: «È la crisi sociale il nemico della famiglia»
Il presidente della Camera parla di contrapposizione artificiosa. Ed è allarmato per le pensioni
di Natalia Lombardo


IDEOLOGIA Una manifestazione in difesa della famiglia tutta ideologica, lo spettacolo dei ministri che si dividono in due piazze: tutto questo
è «fuorviante rispetto alla vera agenda politica», secondo Fausto Bertinotti. Perché non sono le «altre forme di convivenza» o i Dico a insidiare la famiglia, ma è la crisi sociale, sono i redditi bassi e il precariato, «quel dire faccio fatica ad arrivare a fine mese». Parlando da Cairo, ultima tappa del suo tour in Medio Oriente, il presidente della Camera misura la distanza dalle polemiche nella maggioranza che vede distolta dai problemi reali. E tra San Giovanni traboccante di gente e il drappello laico a Piazza Navona, l'unica piazza alla quale si deve guardare per l'ex segretario di Rifondazione «è quella del Primo Maggio a Torino: una piazza unitaria che chiedeva di soddisfare bisogni minimi». Bisogni che il governo rischia di non ascoltare, è la critica implicita che fa Bertinotti, anche alla maggioranza. Inutile perdere tempo in polemiche.
Lui fa notare che ha un record familiare, «sono sposato da quarant'anni, ho figli, nipoti… secondo la definizione della Costituzione»; ma ricorda il compromesso (faticoso) raggiunto per mettere nero su bianco sul Programma dell'Unione l'impegno sulle unioni di fatto, e che quindi va rispettato senza farsi condizionare dalla condanna di Benedetto XVI: non proprio un'invasione di campo, ma «una posizione non convincente» che la «politica, nella sua autonomia, dovrebbe considerare non incidente nel processo legislativo». Come dire: si vada avanti in Parlamento, speranzoso che prima o poi i Dico arriveranno anche alla Camera. Da presidente si compiace invece, della tabella di marcia (da lui calendarizzata) per la legge sul conflitto d'interessi da martedì in aula a Montecitorio: un tema cruciale su cui promette tempi ampi di discussione.
Sui fatti Bertinotti ha le idee chiare. L'allungamento dell'età pensionabile va differenziato per i lavoratori manuali: «Chi fa un lavoro creativo può anche voler continuare a lavorare. Ma per chi fa un lavoro logorante l'andare in pensione è una liberazione. E se dici di aspettare a chi ci andrà tra un mese… beh, ti mangia vivo». Ma le contrapposizioni tra governo e sindacato sono «pericolose: non si può dire che dobbiamo innalzare le pensioni minime e allo stesso tempo che con i coefficienti si deve ridurre il rendimento delle pensioni». Non dice nulla invece sulla bufera Rai dopo la sfiducia del ministro Padoa Schioppa al consigliere Petroni (ma sull'ipostesi che si rinnovi tutto il Cda, come vogliono i piccoli partiti nell'Unione, scuote la testa). Però denuncia ancora «la crisi profondissima della tv pubblica, per l'omologazione dei contenuti e dei linguaggi con la tv commerciale». E al di à dei problemi di gestione Bertinotti sulle nomine, dai consiglieri ai direttori di rete, propone un altro criterio: non quello spartitorio degli "organigrammi", né soltanto quello di merito: «non basta mettere uno bravo, deve avere un progetto sul servizio pubblico», la cui mancanza ha pesato sulla cultura del Paese.
Oggi il presidente della Camera incontra Mubarak, presidente egiziano: il tema è sempre l'impegno per risolvere il conflitto mediorientale. Piu' difficile parlare di diritti umani violati: «l'Europa dovrebbe essere più convincente», conclude.

Corriere della Sera 12.5.07
Liberazione: famiglia assassina Bertinotti irritato, il Prc diviso


ROMA — "Famiglia assassina": uno dei titoli in prima pagina su Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, diceva così ieri mattina. E poi: "Come è possibile festeggiarla? È lì che si afferma il potere maschile". Titolo forte, ma «in redazione non abbiamo avuto dubbi», testimonia il caporedattore Antonella Marrone. L'articolo è di Angela Azzaro, vi si afferma che "in famiglia che avvengono il 90 per cento delle violenze che mutilano, uccidono, umiliano le donne". «Queste provocazioni vengono spontanee — dice l'editorialista Rina Gagliardi — quando vedi celebrare la famiglia in termini così strumentali, ipocriti, poco limpidi. Nel giorno in cui vanno in piazza per la famiglia cattolici divorziati, politici dediti alla poligamia...». "Famiglia assassina", il titolo voleva provocare e fa discutere. «Non avrei fatto quel titolo — dice Sandro Curzi, consigliere di amministrazione Rai, già direttore di Liberazione —.
È un titolo violento. Se penso alla mia famiglia, mi sento offeso. La mia famiglia, come altre, è stato un nucleo importante di formazione. Io credo che con titoli di questo tipo si accentui il fondamentalismo». E Giuliano Pisapia, giurista, già deputato di Rifondazione: «I dati sulle violenze sono sostanzialmente veri, ma il titolo è inopportuno e sbagliato. Le responsabilità non appartengono all'istituto familiare o a una intera famiglia, bensì ai singoli componenti di una famiglia».
Dal Cairo, Fausto Bertinotti non vuole commentare «formule giornalistiche». Dice tuttavia che «la famiglia non va messa sugli altari né trascinata nella polvere, che la famiglia, come la società, è investita da un processo corrosivo, ma non per questo si può dire che sia una forma di organizzazione di segno negativo». Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, difende il titolo del suo giornale: «Ma sì, toglie il velo dell'ipocrisia. Nel nord un omicidio su due avviene in famiglia. Evitiamo di costruire una bolla ideologica, non immaginiamo una famiglia virtuale...». E Graziella Mascia, vicepresidente del gruppo di Rifondazione alla Camera: «Mia figlia oggi mi ha detto: mamma non credevo dovessimo ancora difendere divorzio e aborto...».

Liberazione 12.5.07
È lì che si afferma il potere maschile
Famiglia assassina, come è possibile festeggiarla?
di Angela Azzaro


La prima causa di morte per le donne sono i mariti, padri, fratelli, compagni, fidanzati. E' in famiglia che avvengono il 90% delle violenze che mutilano, uccidono, umiliano la metà del genere umano. Stando a questi dati forniti dalle istituzioni internazionali e nazionali come l'Istat, la manifestazione di oggi è perlomeno macabra, festeggia l'infesteggiabile: il luogo più pericoloso per le donne; il luogo dove storicamente si è consolidato e si consolida il potere di un sesso sull'altro, dove si definiscono i ruoli e si consacra, con la benedizione delle religioni monoteiste, la norma eterosessuale. E' l'apparato di potere più forte, perché si fonda sul'assenso delle vittime, le plagia, le convince che è tutto normale, naturale, le porta addirittura in piazza a rivendicarlo, a chiederlo, per negare ad altri la possibilità di avere relazioni libere e tutelate. Quante donne che oggi sono a Roma per partecipare al Family day hanno un marito violento, che le rende infelici? Quante? Eppure sono lì, circondate da politici che si riempiono la bocca della parola famiglia come bene dell'umanità. E' invece ora di dirlo: la famiglia uccide.
(...)

Corriere della Sera 12.5.07
«Apriremo cento Confucius Institutes, saremo l'America del nuovo secolo»
La sfida di Chen: la Cina sarà la nuova potenza culturale
di Danilo Taino


Mao ci aveva messo alla testa del Terzo Mondo.
Ora dobbiamo trovare un posto nuovo

MILANO — «Secondo il pensiero cinese, gli uomini non nascono uguali», dice Zhaohui (Harvey) Chen, presidente della First Light Academy, un centro di ricerca di Shanghai.
Ciò nonostante, l'Occidente sbaglierebbe a fermarsi a questa osservazione: certe volte, la Cina emergente può sembrare ostile a causa delle differenze culturali, «ma in realtà è una forza di stabilità». Bisogna capirla bene e Chen è convinto che Pechino sia sulla buona strada nello spiegarsi. Anzi, pensa che «tra vent'anni la Cina sarà una potenza culturale prima ancora che economica».
Frase forte. Ma diventare una superpotenza globale, obiettivo dei capi di Pechino, può avvenire solo se, vicino ai muscoli economici e militari, cresce un soft power, una forza «buona», un modello sociale e culturale esportabile. Quello che ha saputo fare l'America nel Ventesimo Secolo. Comprensibile, dunque, che i cinesi si pongano il problema: quale modello può esportare la Cina, estrema nel comunismo politico ed estrema nel capitalismo economico?
«Si tratta di capire — ha spiegato Chen a margine di uno degli incontri del Forum internazionale Economia e Società Aperta che si è concluso ieri mattina a Milano — che Confucio voleva restaurare l'ordine sociale della dinastia Zhou. E disse che gli uomini non nascono uguali: ognuno deve avere un suo posto affinché la società funzioni. Ciò sembra essere in conflitto con le idee di democrazia e di uguaglianza occidentali. Ma Confucio era meno restrittivo su quello che uno può poi diventare: tant'è vero che, nella cultura cinese ognuno pensa di potere crescere a imperatore. Ma è un processo: ognuno può diventare padre, capofamiglia; ma prima deve essere figlio e sapere obbedire. Se poi dimostrerà di essere un buon padre avrà dimostrato di poter guidare anche il Paese. Ognuno ha una
chance. E proprio attraverso la competizione, come in Occidente».
È sostenuta da uno schema come questo l'idea che la Cina di oggi possa avere qualcosa da dire: Chen (e come lui i capi di Pechino) ritiene che la sua cultura non sia divergente da quella dell'Ovest e che, soprattutto, sia una forza confuciana di ordine, il contrario del conflitto. In movimento, per ora. «Mao Zedong — sottolinea Chen — aveva diviso il mondo in tre e aveva messo la Cina alla testa del Terzo Mondo. Ora dobbiamo trovare un posto nuovo, e — aggiunge — la Cina lo troverà affermando la sua cultura. Più difficile da apprezzare di quella americana del fast-food, ma profonda: stiamo aprendo nel mondo cento Confucius Institutes per farla conoscere».
Come finirà? La Cina d'oggi — risponde Chen — è «ancora in fase sperimentale, non so se saprà trovare un nuovo modello tra economia di mercato e democrazia: siamo nel mezzo di un movimento fondamentale ma il processo non è finito». La sfida è questa: altro che contraffazione delle griffe.

Corriere della Sera 12.5.07
Adolescenti Negli Usa spesi miliardi per campagne «moralizzatrici», rivelatesi inutili
Il flop della «castità anti-aids»
di Cesare Capone


Sul sesso i giovani italiani sono più prudenti, ma ignoranti

Un miliardo di dollari per convincere gli adolescenti americani, maschi e femmine, a mantenersi vergini prima di sposarsi. Risultato: chi ha seguito le lezioni di continenza ha il suo primo rapporto alla stessa età degli altri, in media a 14 anni e nove mesi; il 56% degli aspiranti astinenti, nell'ultimo anno ha fatto sesso (anche con tre o quattro partner) usando il preservativo (definito, invece, inaffidabile dalla campagna).
Questi i deludenti esiti del quarto - e penultimo anno - della campagna statunitense «Pepfar», ovvero President's Emergency Plan for Aids Relief, finanziata con 15 miliardi di dollari, per un terzo da spendere per iniziative dedicate alla «valorizzazione» dell'astinenza come rimedio contro il diffondersi dell'Hiv. Campagna che ha alle spalle i fallimenti di analoghe iniziative - finanziariamente molto più modeste - iniziate già nel 2001, che avevano come punti fermi affermazioni del tipo: «l'astinenza porta a una vita più lunga e più sana», «la rinuncia a rapporti prematrimoniali aumenta le probabilità di un matrimonio felice» e «i preservativi funzionano bene solo in laboratorio e non proteggono dalle malattie sessualmente trasmesse».
«Il flop di queste campagne negli Usa è la riprova che il proibizionismo, sia pure condotto con metodi democratici, è destinato al fallimento — commenta Emmanuele Jannini, docente di sessuologia medica all'Università dell'Aquila —. Soprattutto in campo sessuale il proibito diventa stimolo alla trasgressione. L'Aids e le altre malattie a trasmissione sessuale, ma anche gravidanze indesiderate e aborti tra le giovanissime, sono problemi reali e serissimi; per combatterli gli americani meglio avrebbero fatto ad insistere su altri punti fondamentali, come il buon uso del preservativo».
E i nostri ragazzi cosa ne pensano della verginità? Secondo un sondaggio del 2005 (di SWG, per Oggi), il 68% delle ragazze e il 44% dei ragazzi pensa sia un «valore da preservare fino all'incontro con il grande amore», anche se solo il 6% dei maschi e il 5% delle femmine è disposto ad aspettare fino al matrimonio. Ma quando arriverebbe questo primo grande amore, o supposto tale? Secondo dati Censis, intorno ai 17 anni per i maschi e ai 18 per le femmine, data dei primi rapporti completi. Meno precoci dei giovani americani, dunque, i giovani italiani e anche molto meno propensi a rapidi cambi di partner: quasi la metà dei giovani (fascia di età oggi molto ampia: dai 18 ai 30 anni) dichiara di aver avuto dai 2 ai 5 partner dall'inizio della vita sessuale (dati Censis). Una cifra tutto sommato modesta, che riduce il rischio Aids.
«Oggi in Italia credo prevalga la considerazione che le esperienze sessuali prematrimoniali preparino a una vita intima di coppia più soddisfacente — osserva Jannini —. Ma l'età media dei rapporti è stabile da tempo e non è certo bassa come negli Usa». Gli italiani sembrano anche prudenti: il 70% degli studenti del Nord e Centro Italia, secondo un'indagine universitaria del 2005, al primo rapporto usa il preservativo, mentre la percentuale scende al Sud.
Ai giovani italiani «10 in sesso», allora? «L'informazione non basta mai. Anche per i nostri ragazzi. In contrasto con l'apologia della castità, — dice Jannini — intesa non solo come segno di purezza interiore, ma anche come sinonimo di salute, esiste l'opinione, maggioritaria almeno in Italia, che la repressione degli istinti sessuali sia dannosa, specie per i maschi. Si parla di intossicazione da sperma, infiammazione dei testicoli, ipertrofia della prostata, foruncolosi. E forse alcuni si ostinano a credere che la mancanza di rapporti sia la vera causa delle nevrosi, specialmente fra le donne. In realtà, non esiste alcuna prova scientifica che l'astinenza sessuale sia di danno alla salute maschile e femminile. Come non esiste alcuna prova del contrario».
«Assurdo anche pensare che una prolungata astinenza — prosegue Jannini — pregiudichi la vita sessuale successiva e altrettanto assurdo è pensare che molti rapporti in una certa età della vita compromettano il futuro, quasi si corresse il rischio di dar fondo alle munizioni. La sessualità, a meno che non si ricorra a sproposito a farmaci, si regola da sé. Ma anche sulla masturbazione forse alcuni non hanno le idee chiare: fino a non molto tempo fa era accusata di causare indebolimento visivo, muscolare, cerebrale. Oggi viene ritenuta utile per la conoscenza della propria sessualità in previsione del rapporto a due. L'autoerotismo non fa danni, purché non diventi ossessivo: il che rappresenta un sintomo, non la causa, di un problema personale».

Liberazione Lettere 13.5.07
Diritti civili per tutti, fondamentale necessità
12 maggio 2007. Chi si batte per la libertà

Caro Piero, leggo una nota di agenzia in cui il presidente Prodi chiede che venga superata la lotta tra Guelfi e Ghibellini. Vorrei, se mi è permesso, rassicurarlo: chi contesta l'ingerenza, anzi il monopolio del Vaticano e dei suoi accoliti nelle questioni e nei diritti che riguardano le persone, credenti e non credenti, non può essere assimilato a un Ghibellino. Perché non ha imperatori da sostenere, né re. Al contrario, egli lotta perché vengano riconosciuti diritti a tutti gli esseri umani, sin dalla loro nascita. Se dall'altra parte ci sono Guelfi, neoconservatori o fondamentalisti, la sostanza non cambia. Chi sostiene la fondamentale necessità di diritti civili per ogni singolo essere umano nato e vivente su questo pianeta, non si batte contro qualcuno. Si batte per la libertà.
Paolo Izzo


il manifesto 13.5.07
Lo stupido relativismo di Galileo
di Alessandro Robecchi


Ora che abbiamo messo ordine nella famiglia, non fermiamoci. Mi permetto di suggerire alla Chiesa Cattolica alcune battaglie culturali per il prossimo futuro.
Sistema solare. Come Santoro, come Luttazzi, come Sabina Guzzanti, ecco un altro furbetto che è diventato famoso facendo la vittima della censura: Galileo Galilei. Il suo stupido relativismo ha preso piede, ma si può passare al contrattacco. Prima si istilla il dubbio a livello puramente teorico. Paginone sul Foglio, titolo: Ma Galileo era infallibile? Segue dibattito sui maggiori quotidiani. Seguono trasmissioni in tivù. Segue manifestazione di massa. Seguono dirette televisive con interviste volanti ai manifestanti: «Noi giriamo intorno al sole? Ma chi si crede di essere il sole!». Tempo sei mesi e avremo il paese spaccato in due. Non ci credete? Vi sembra esagerato? Ricordatevi sempre che era lo stesso paese che comprava il sale da Wanna Marchi e le notizie da Emilio Fede.
L'anima della donna. È tempo di affrontare questo argomento spinoso, ma con grande cautela. Sarebbe bene che a sostenere che le donne non hanno l'anima siano delle donne. Ingaggiare dunque subito cinque o sei ex-femministe da portare in tivù (Otto e mezzo) a dire che forse sì, perché no, tutto sommato... dove sta scritto che le donne hanno l'anima? Alla prevedibile alzata si scudi dei laici rispondere: eh, ma come siete intolleranti! (Segnatevela questa, funziona sempre).
I partiti. Sappiamo che la politica vorrà dire la sua. Sempre se gli conviene. Un universo piatto che gira intorno ad Arcore, per esempio, chiuderebbe per sempre il discorso sul conflitto di interessi. E se dopo un sondaggio si scoprisse che in Veneto, o in Molise, il 42% della popolazione non crede che le donne abbiano un'anima, immaginate la ferma posizione di Rutelli? Forse sì, perché no, tutto sommato... se non fossi ministro... Coraggio, cattolici! Sono obiettivi ambiziosi, ma si può fare!

sabato 12 maggio 2007

l’Unità 12.5.07
Filosofia. Al Festival dell’Auditorium romano il dibattito su «Ragionare, delirare, sragionare» con Remo Bodei, Carlo Cellucci, Lucio Russo e Massimo De Carolis
L’elogio della follia nella ragione laica, per non diventare folli
di Bruno Gravagnuolo


Che tipo di barriere tra emozioni e logica? Ed è sano e creativo un intelletto scisso dalle passioni e dai desideri?

Un tema divenuto centrale nel mondo globale: lo svanire dei confini tra le parti dell’Io. Vissuto che crea sofferenza

Prosegue con afflusso di pubblico il Festival della Filosofia all’Auditorium romano della musica. Fino a domani, quando vi sarà il confronto fra Tariq Ramadan e Hanif Kureishi, di cui s’è scritto. Appuntamento sperimentato, promosso dal Comune di Roma, Multiversum Associazione culturale e la rivista Micromega. «Confini» è la parola guida di quest’anno, parente di quella dell’anno scorso, «Instabilità», a significare conflitti e sconfinamenti, dentro lo spazio globale. Che unifica e confonde. Ma anche segmenta e dirime spesso tragicamente culture e individui. Contrariamente alle attese edeniche e giocose, post-moderne o neoliberali, che salutarono il 1989 e la fine dell’ordine transanazionale del dopoguerra.
Ieri l’altro, e con tantissimi giovani ad un’ora impervia in Sala Sinopoli ( 21-23) c’è stato un dibattito chiave di questa edizione: «Ragionare, sragionare, delirare». Fluidamente coordinato da Massimo De Carolis e ben interpretato dai tre partecipanti. Un filosofo, un logico e uno psicanalista freudiano. Remo Bodei, Carlo Cellucci, e Lucio Russo, analista della Spi a vocazione filosofica (sue per Borla L’indifferenza dell’anima e Le Illusioni del pensiero). Scegliamo questo confronto e ve lo raccontiamo. Perché, tra il di tutto e di più, andava al cuore«speculativo» non solo del Festival, ma anche di un’antinomia capitale: ragione o «funzione verità» dell’intelletto, e suo contrario. Alias, interferenza, disturbo, follia. Tema classico, da Parmenide a Foucault. Ma che il presente interroga, visto l’intreccio di patologia e «normalità» nel quotidiano globale. La centralità di emozioni e immaginario nel mondo unificato, e quella del soggetto in espansione e frantumato. E vista anche la querelle sulla tecnica che invade l’umano-naturale, in assenza di limiti o certezze fondative.
E allora cominciamo da Bodei, che difende una «ragione ospitale», in grado di accogliere «l’inesprimibile», le scissure dell’Io a contatto con l’abisso della morte. «Vissuti» che radicalizzati possono essere una corazza difensiva contro gli scacchi da eccessi di singolartità emotiva: «il folle e la sua mistica». Oppure una risorsa creativa, come nel caso di Strindberg, Nietzsche, Hoelderlin. Salvo il fatto che sempre l’oscuro e il «regno delle madri» ci possono travolgere, se acuiti in chiave onnipotente. Poi è il turno del logico Cellucci, che in guisa preventiva va al punto epistemologico. Per lui «la logica occidentale è stata un fallimento, da Aristotetle a Frege. E in realtà esistono due tipi di logica, come diceva Ramo nel 1500: naturale e artificiale». Ebbene la logica «artificiale», retorica, barocca e formalistica non serve. Serve invece per Cellucci il logos «bio-logico», quello che da sempre la specie umana usa per risolvere «problemi di scopo», e che combacia con gli adattamenti per la selezione della specie. No dunque ai logici e ai mistici. E qui arriva una (discutibile) sorpresa. Per Cellucci tanto Heidegger quanto Popper «erano mistici». Poiché pensavano che la verità fosse un «additare» le cose, un intuirle magicamente, e non un manovrarle ragionevolmente per conoscerle. Non condividiamo. Giacché la logica, foss’anche la più astratta serve eccome, ed è sempre all’opera in ogni operazione ( questo non è quello). E inoltre Popper arrivava alla verità incrociando deduzione ed esperienza, costruendo appunto con ragione, verità sempre falsificabili. Insomma, Kant più Aristotele più evidenze sensibili rielaborate. Altro che mistica! Infine Lucio Russo. Che lega bene i meccanismi logici della mente all’«originario potere simbolizzante dell’inconscio nella sua genesi infantile». Freud, dice Russo, spiegò nel 1925, che la strutturazione dell’Io e quindi del «giudizio», avviene per «negazione», e «convocò idealmente Lacan e l’hegeliano Hyppolite a discuterne». Dunque, «identificazioni nello specchio materno, incorporamenti dell’altro, espulsioni e superamenti». Sino all’ingresso di un terzo, del Terzo: il Padre dell’ordine significante. Cioè il linguaggio interumano. Ma, e qui Russo è in bilico sui «confini», senza le tracce emotive di tale percorso, coi suoi «fantasmi» e illusioni, non vi sarebbe neanche logica. Né creatività al futuro. E perciò: c’è saggezza nella follia e nel delirio. A certe condizioni e «limiti». Già, ma quali? Anche Bodei e Cellucci convengono sul punto di Russo, più o meno. Ma resta la questione. La ragione è innato apparato cognitivo, «bio-logico». Sospinto da pulsioni. Ma l’autoriconoscimento di tutta la catena va oltre la pulsione. È appunto ragione laica, parola, ascolto. Senza cui c’è l’arbitrio. Religioso, ideologico e quant’altro.

l’Unità 12.5.07
Figli e moschetto, storia della famiglia reazionaria
di Michele Prospero


COSTUME E POLITICA Il fascismo è stato l’acme del tradizionalismo etico e confessionale in materia di relazioni familiari. Dall’Italia liberale alle politiche demografiche di Mussolini. Ma è stata la Costituzione a rompere questa cultura

Procreazione e ruolo sottomesso della donna come architravi della società fascista

Il punto di rottura col passato è stata l’idea che le relazioni familiari si basano sugli affetti e non sulla natura

La famiglia si trova al centro di accese dispute e in una piazza di Roma si invoca il ritorno del sacro per condizionare gli ordinamenti laici che cedono alle unioni di fatto. Nel rimpianto di un’Italia antica con un diritto più adagiato sulla fede, si ritrova un paese che si sente accerchiato, e guarda con timore ai tanti Stati europei dove ha fatto breccia la libertà nelle pratiche sessuali. Agitando la nostalgia di un mondo arcaico minacciato da nuovi modelli di famiglia, l’Italia di destra resiste a una ormai vecchia risoluzione del parlamento europeo (del 1994) che censura ogni discriminazione degli omosessuali e auspica il riconoscimento giuridico dell’unione gay.
L’Italia che si ritrova a San Giovanni in nome di tradizione e sacralità guarda con sospetto a un mondo civile che ha smesso da tempo di postulare una natura immutabile quale fonte perenne di verità per i legislatori e i giudici. Nella stessa America dei teocon e del mistico presidente guerriero, il cammino dei diritti non è stato affatto bloccato. La Corte suprema ragiona sui gay rights e nel 2004 la pronuncia della Supreme Judicial Court del Massachusetts ha esteso il matrimonio civile anche alle same-sex couples. Negli Stati americani cade ovunque il sodomy law statute che colpisce con la sanzione penale ogni rapporto sessuale (etero o omosessuale) non orientato alla procreazione.
L’Italia di destra, ossessionata dalla deriva relativista, rimpiange fasi della storia d’Italia nelle quali la famiglia trionfa come una struttura intrisa di autoritarismo. I codici liberali dell’800 modellano non a caso la famiglia attorno agli istituti della proprietà fondiaria ed esaltano il dominio paterno come esercizio di un comando pieno che si impone a scapito dei diritti individuali. Solo nel 1877 è consentito alla donna di testimoniare. Fino al 1919 vige una assoluta soggezione patrimoniale e per le donne è obbligatoria una esplicita autorizzazione maritale per compiere negozi giuridici (donazioni, alienazioni di beni immobili). La famiglia ha le sembianze di un micro sistema politico, e i poteri del padre sono l’incarnazione suprema dell’individualismo proprietario che non fa una piega dinanzi alle pretese della donna e alle istanze del minore.
Il diritto minorile compare solo come assurda devianza da colpire, come oscena rottura dell’equilibrio della sana dimensione domestica, come sfida aberrante all’ordine e alla disciplina. Soprattutto nel codice penale dell’età liberale emerge una ideologia repressiva che esalta la famiglia come ordine e tutela il buon costume contro le minacce dell’aborto, dell’adulterio femminile (offesa al marito e anche all’ordine costituito). Con il fascismo si prosegue su questo crinale e la famiglia conosce una ulteriore, devastante torsione autoritaria entrando a far parte di una ideologia statalista che l’assume di fatto come una istituzione pubblica al servizio dei superiori fini dello Stato. Per schivare una congiura planetaria il duce, accanto al «rombo potente dei motori», osanna «il primato della vita» ossia figli numerosi per impugnare i moschetti. Nel 1926 entra in vigore la tassa sul celibato e sono previsti premi per la nuzialità al fine di scagliare quella «frustata demografica» decisiva per l’orgoglio della nazione. In onore della patria occorre essere puri di sangue e di fede e per questo nel 1938 una legge impedisce il matrimonio con «altre razze non ariane».
Il fascismo amplia le implicazioni autoritarie della famiglia, presentata come istituzione di rilievo giuspubblicistico, e la connette saldamente alle esigenze dello Stato, della nazione, della stirpe. Il padre torna ad essere un decisore irresistibile con uno spietato jus corrigendi e le donne sono confinate in un ruolo subordinato. In questa cornice totalitaria e mistica, la famiglia svolge una funzione pubblica, la contraccezione e l’educazione sessuale sono bandite come offesa alla finalità della procreazione e l’aborto si presenta come un crimine contro la razza e contro lo Stato. Con il concordato del ’29 il matrimonio celebrato secondo il diritto canonico vede riconosciuti gli effetti civili e lo Stato recepisce i provvedimenti dei giudici ecclesiastici. Fede, famiglia e Stato etico si fondono in un caldo abbraccio mistico.
La cultura cattolica con Sturzo condivide la valorizzazione della famiglia e il suo inquadramento come base della convivenza ma respinge una concezione che nega la priorità del vincolo familiare rispetto all’ordinamento statale visto come eticità in sé completa. Nella carta costituzionale l’apporto cattolico fissa il principio della unità familiare come formazione sociale autonoma dove si sviluppa la personalità. Ma la costituzione aggredisce i tradizionalismi affermando valori superiori (come l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la maternità libera e consapevole) che scavalcano gli stessi richiami alla «essenziale funzione familiare» della donna che lavora.
Negando di fatto il malinteso carattere naturale della famiglia, visto come luogo intangibile della integrità etica, ed esaltandone invece il connotato storico-giuridico, il legislatore costruisce una visione della famiglia aperta ai diritti di libertà e pronta pertanto a reprimere le situazioni di violenza e sopraffazione coperte dall’omertà delle naturali pareti domestiche. Significativo a questo riguardo è l’attenzione al minore non più nei termini di allarme sociale, di ordine pubblico violato ma nelle vesti di una persona libera titolare di diritti alla formazione e non più in quelle di un mero oggetto di pretese altrui. Più che statica natura, la famiglia si è rivelata come una società mutevole nella quale convivono soggetti diversi che hanno bisogno della tutela offerta dal diritto.
Proprio nell’esperienza repubblicana la famiglia è stata sempre più plasmata dalla norma giuridica positiva ispirata al dettato egualitario della costituzione finendo per perdere ogni preteso jus naturale che funge da scudo a situazioni di discriminazione, sopruso, violenza. Nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, il principio costituzionale della eguaglianza fra i coniugi entra nell’istituto familiare archiviando sopravvivenze autoritarie ben visibili nel codice civile per il quale «il marito ha il dovere di proteggere la moglie», «di tenerla preso di sé». La costituzione prevale sul tradizionalismo. Decade così il sistema autoritario (viene abolita la sanzione penale per l’adulterio femminile) e maturano diritti inediti (eguaglianza, comunione dei beni, disciplina della filiazione naturale). Il principio dei limiti all’intervento del giuridico sulla autonomia delle forme «naturali» di vita non riesce più a garantire la giustificazione del fatto autoritario.
Nella storia repubblicana la famiglia come società naturale non significa affatto che sia prevista una copertura confessionale ad un istituto giuridico, ma che alla sua base dovrebbe esserci l’affetto.
L’affetto, non la procreazione, che non compare mai nella costituzione come finalità del matrimonio, ed è invece cruciale nel codice canonico. E se solo l’affetto è per la costituzione la base della famiglia, davvero tante possono essere le forme giuridiche che la possono coprire e tutelare. Dalla famiglia si passa alle famiglie.

Repubblica 12.5.07
I roghi di Calvino
Festival della filosofia/ Una lectio magistralis sulle perversioni dogmatiche
di Franco Cordero


Polizie segrete, spie, censure, patiboli non allevano cultura né industria né commerci e tanto meno libero pensiero
Miguel Serveto, aragonese errante, sfida le Chiese con un trattato sulla Trinità giudicata un'invenzione ecclesiastica
Menochio Scandella è un mugnaio friulano giudicato eretico e condannato
Il poveretto subisce il carcere poi esce ma è recidivo: morrà tra le fiamme

Pubblichiamo l´ultima parte della lezione che ha tenuto ieri all´Auditorium di Roma nell´ambito del Festival della Filosofia, sul tema "Teoria dei limiti: l´amorfo, le forme, stati perversi"
I dogmi impongono un pensiero storpio o lo spengono: «anathema sit» chiunque pensa; norme perverse comminano pene; fantocci giudiziari le applicano. Abbiamo tre casi sotto gli occhi.
Calvino ne impersona uno: testa forte, stile tagliente, tensione morale, agli antipodi delle fumisterie melodiose, ma fondata una chiesa, la governa con mano ferrea; e al servizio della gloria divina, compie atti disumani, classificabili nella perversione da rabbia dogmatica. Stavolta il paziente è Miguel Serveto, aragonese errante. Scrittore eclettico, corre troppi rischi: a vent´anni sfida le Chiese con i De Trinitatis erroribus libri septem, senza nome d´editore né luogo (Hagenau); en passant, quinto libro, descrive la circolazione del sangue un secolo prima d´Harvey; in sede teologale sostiene che la Trinità sia chimera d´invenzione ecclesiastica, nonché sgorbio logico; e con intuibile scandalo vi torna l´anno seguente, nei Dialogorum de Trinitate libri duo, regni Christi capitula quatuor. En route verso la Francia disputa col basilese Giovanni Ecolampadio. A Strasburgo raccoglie invettive da Martin Butzer. Sulla Senna coltiva la medicina in polemica con l´establishment accademico, confutando la farmacopea galenica nel libro riedito a Venezia e Lione, dove esce, 1535, un suo Tolomeo geografo corredato da glosse alla versione latina 1525. Cinque anni dopo lavora presso Jehan Frellon, stampatore-libraio, poi mette casa nei dintorni. Adesso firma Michele da Villanova, medico. Monsignor Pierre Palmier, protettore delle arti, gli offre comodo asilo nella sede arcivescovile, Vienne; fosse meno inquieto, avrebbe l´avvenire sicuro. S´è riacceso d´agonismo teologale. Conosce Calvino dagli anni parigini: stima poco l´ «Institution chrétienne»; attraverso Frellon intavola rapporti epistolari bellicosi; propone un torneo in casa nemica. Gioca col fuoco: se viene, non uscirà vivo, scrive «Iohannes tuus» a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546; idem a Pierre Viret o almeno Jérôme Bolsec afferma d´avere visto la lettera. Quattro anni dopo appare, anonima, la Christianismi restitutio, muta su editore e luogo: 734 pagine temerarie, vi figurano trenta lettere «ad Calvinum Gehennesium concionatorem»; se l´è fatta stampare da Balthasard Arnollet pagando le spese più cento scudi. Dai torchi escono ottocento esemplari in sei balle: cinque vanno al fonditore lionese Pierre Merrin, l´ultima a Francoforte; l´infìdo Frellon, che deve spedirla, l´apre, ne cava alcune, le manda a Calvino. Il quale non perde tempo: attraverso Nicolas Trie, emigrato da Lione, e suo cugino Antoine Arneys, cattolico devoto, presenta una denuncia, 26 febbraio 1553; l´inquisitore Mathieu Ory procede, investendo del caso Sua Eminenza de Tournon; e siccome l´inquisito nega la paternità del libro, l´antipapa ginevrino spedisce carte autografe che lo identificano. Affare da rogo ma Michael Villanovanus gode d´influenti simpatie locali. Venerdì mattina 7 aprile se ne va dalla prigione chiedendo la chiave al custode. Peccato non sapere cos´avvenga nei tre mesi seguenti. Passi errabondi lo conducono a Ginevra sabato 15 luglio, nell´Albergo della Rosa: cerca una barca che lo porti verso Zurigo; il maltempo lo impedisce. La meta pare Napoli. Dio sa perché stia lì quattro settimane.
Domenica 13 agosto l´arrestano, denunciante tal Nicolas de la Fontaine, ex cuoco in casa Falaise: «Nicolas meus», lo chiama Calvino, stratega dell´accusa, i cui 39 capi ha formulato; ed è anche signore del folto consesso giudicante, essendo impercettibili i dissensi dopo 12 anni d´una violenta cura d´anime. Il paziente gli tiene bravamente testa mercoledì 16.
Lunedì 21 difende l´opinione antitrinitaria. L´indomani manda una supplica ai «Magnifici Signori»: è antica prassi che nel caso peggiore l´errante sia espulso; sono questioni da discutere tra persone colte; non ha violato leggi né professa anabattismo sovversivo. Stavolta firma «Michel Servetus de Villeneufve, en sa propre cause». Argomenti molto seri, se non fosse una partita impossibile. Mercoledì 23 il luogotenente lo interroga sulla vita privata: perché non abbia moglie; «quia impotens erat». Domenica 27 invoca un difensore. No, l´eretico non ha diritti. Seguitano gl´interrogatori. L´ignorante consesso chiede un´expertise. Calvino, scrittore fulmineo, lascia passare le settimane. Cadono nel vuoto varie suppliche.
Dura tre giorni la deliberazione, da sabato 21 ottobre: quasi unanime il voto, morte; e tra le pene possibili, la maggioranza sceglie l´orribile, muoia nel fuoco. Michele Serveto va in fumo venerdì 27 sulla collina dello Champel.
L´anno dopo Calvino pubblica una Fidelis expositio errorum Michaelis Serveti et brevis eorumdem refutatio, ubi docetur iure gladii coercendos esse haereticos. Teste pensanti lo negano (ad esempio, gli emigrati italiani). Se ne parla ancora: che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è storicismo cortigiano, o chiamiamolo dialettica da Politburo; chierici stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l´Urss dalle peste hitleriana.
Polizie segrete, spie, dogmi, scuola bigotta, censure, anatemi, patiboli non allevano cultura né industria né commerci, tanto meno «libero pensiero» o «etica moderna»: né le logomachie trinitarie sviluppano l´intelletto filosofico; altrettanto male suona l´apologia dell´ Inquisizione, veramente santa, quale forma storica d´una salutare pressione sui «manipolatori d´errori» (lapsus crociani da dimenticare: Filosofia della pratica, 46s.; Vite d´avventure, fede e passione, ed. 1953, 217-22, 258s.; nel secondo titolo mi permetto tre elisioni eufoniche). Etica capitalista, Stati Uniti, libero pensiero, nascerebbero anche se Giovanni Calvino, Cartesio del cristianesimo agostiniano, fosse un ecclesiocrate meno efferato.
Ha gioco facile il biografo cattolico da cui vengono importanti notizie (J.-M.-V. Audin, Histoire de la vie, des ouvrages et des doctrines de Calvin:): fredda collera, furberie da politicante, dogmatismo egocratico e via seguitando; umano invece lo stile cattolico; finché l´eretico calca terre soggette a Mater Ecclesia, nessuno gli torce un capello, sebbene scriva cose enormi. Quanto poco materna sia verso i pensanti, lo dicono tanti casi. Vediamone due sincroni. Menochio Scandella è un mugnaio friulano, alfabeta, musico, onesto, benvoluto, con un difetto, anzi eccesso: ha letto qualcosa in fonti pulite; ignora le dispute cattolico - protestanti, né spaccia fantasie profetiche; rispetta le autorità; vive quieto, buon cristiano, ma avendo «cervelo sutil», pensa, abito pericoloso; l´Inquisitore del Friuli lo dichiara eretico, anzi eresiarca: i fabbricanti d´eresie vanno al rogo; ringrazi Iddio della prigione a vita. Due anni dopo esce, malamente segnato. Ne passano 14 e torna in prigione perché pensava ancora, parlandone a quattr´occhi. I recidivi non hanno scampo. L´inquisitore chiuderebbe gli occhi, visto che presto morrà da solo: non può, gli soffia sul collo l´Eminentissimo Giulio Antonio Santori, mancato papa nel conclave 1592; esegua «virilmente» la condanna; e sotto Natale 1598 anche Menochio rende l´anima nelle fiamme; «Dio è aere», era uno dei suoi delitti verbali.
Nel Sant´Ufficio romano pende dal febbraio 1593 la causa dell´ex domenicano Filippo, poi Giordano Bruno. Due consultori, Alberto Tragagliolo O. P. e Roberto Bellarmino S. J., estraggono dagli atti otto proposizioni: abiurandole schiverebbe il rogo; lunedì 18 gennaio 1599 le riceve; ha sei giorni, risponda. Lunedì 25 presenta una scrittura difensiva, «disposto a revocarle», qualora Sede Apostolica o «Nostro Signore» (nome idolatrico del papa) le definiscano eretiche: mossa tattica; presuppone una materia incerta, la cui definizione valga ex nunc. No, risponde l´Ufficio, 3 febbraio o forse l´indomani: erano opinioni condannate ab antiquo; abiuri o decorrono i 40 giorni concessi agl´impenitenti.
Lunedì 15 le riconosce eretiche, pronto all´abiura quando e dove vogliano. Nella visita periodica, 5 aprile, tira fuori una seconda memoria su cui Bellarmino riferisce martedì 24 agosto. «Die nona septembris» i sei consultori propongono l´interrogatorio in tormentis sui punti dubbi: Sua Santità soprassiede; riconsiderino le prove. L´indomani pare sottomesso. Il memoriale coevo, però, aperto sei giorni dopo, riapre la discussione. Non ha niente da abiurare, dichiara nel ventiduesimo colloquio, 21 dicembre, invano rivisitato dai due confratelli Ippolito Beccaria, generale dell´Ordine, e Paolo Isaresi. Ormai è impenitente: i 40 giorni scadevano martedì 16 novembre; aprono ma non leggono l´ultima carta. Nostro Signore Clemente VIII taglia corto, 20 gennaio 1600. L´8 febbraio ascolta condanna e motivi in casa del cardinale Cristoforo Madruzzi. Inter alia, che siano innumerevoli i mondi, eterni: le anime trasmigrino; lo Spirito santo sia anima mundi; le fonti bibliche meritino poco credito; esistesse una specie umana preadamita. Ascolta in ginocchio: forse hanno più paura loro, commenta guardando i giudici; e passa gli ultimi nove giorni a Tor di Nona, «obstinatissimo», dicono i confortatori.
Muore giovedì mattina 17 febbraio, arso vivo, col morso perché aveva in gola «bruttissime parole». Forse non riusciva simpatico ma qualcosa conta nella cultura cinquecentesca. Anno Domini 1942 monsignor Angelo Mercati pubblica un sommario del processo: in limine difende la condanna, legittima, nonché equa; l´Osservatore romano, 20 giugno, rincara le contumelie. Sono imprescrittibili i delitti del pensiero.

l’Unità Lettere 12.5.07
La famiglia ideale? È in provetta
di Maurizio Mori Università di Torino e consulta di Bioetica


Caro direttore
sbaglia chi dice che la Chiesa cattolica non cambia mai. Ad esempio, venerdì 30 marzo, il quotidiano dei vescovi italiani «Avvenire» ha pubblicato la nota della Cei contro i Dico (nell’inserto «È famiglia») sovrastata da una grossa e celebre fotografia a colori su due pagine rappresentante una grande festa di famiglie.
Il linguaggio delle immagini è talvolta più efficace di quello scritto, per cui è molto significativo che non si siano accorti che quella fotografia non è affatto generica, ma rappresenta la festa per i 25 anni della nascita di Louise Brown, la prima bambina nata in provetta.
Lei è lì, sulla destra assieme al marito e al suo bambino (è infatti oggi mamma felice anche lei), al professor Robert Edwards, il ginecologo e padre dei concepimenti in provetta (che ha attuato la fecondazione in vitro di Louise) e al dottor Peter Brinsden, attuale direttore del centro di Bourne Hall fondato proprio dal professor Edwards.
Che «Avvenire» proponga quella foto come simbolo delle famiglie ideali di oggi è una bella è interessante novità. Il giornale della Cei addita al pubblico la fecondazione assistita come fonte di gioia familiare: non più i tradizionali quadri della sacra famiglia con Gesù, Giuseppe e Maria in atteggiamento composto e compunto ma la gioiosa confusione dei Bourne Hall, simbolo dei nuovi ruoli e figure famigliari.
Non è questo un cambiamento importante?
Un primo passo c’è stato; altri ne verranno: anche sui Dico, vedrete. L’importante e che noi laici apriamo la strada, poi loro - silenziosamente ma sicuramente - ci seguiranno.

Corriere della Sera 12.5.07
Inchiesta adolescenti
Depressione e ansia Le nuove malattie dei ragazzi di Milano
di Giuseppe Remuzzi


LA RIVISTA AMERICANA E L'INDAGINE SUI RAGAZZI «The Lancet» ha dedicato un approfondimento alla salute degli adolescenti. Giuseppe Remuzzi, membro del comitato di redazione internazionale, commenta l'inchiesta per il Corriere

Quindicimila giovani sotto i vent'anni, solo nel 2005, si sono rivolti ai centri psichiatrici degli ospedali di Milano. Per problemi di ansia, depressione e disturbi dell'umore mille ragazzi tra i 14 e i 17 anni si sottopongono a una terapia con i farmaci. A soffrire di più sono le ragazze. È la fotografia del disagio tra gli adolescenti milanesi.
Coinvolgere genitori e prof per una diagnosi precoce

Di cosa muoiono di più i ragazzi? Incidenti stradali, e poi suicidio (negli ultimi 40 anni il numero dei suicidi nei ragazzi è aumentato, un po' perché l'influenza della famiglia tende a diminuire, perché c'è più libertà e perché i ragazzi hanno più accesso all'alcol e alle droghe). E si capisce, in quel periodo lì — tra i 12 e i 24 anni — succede di tutto. Maturità sessuale, vita sentimentale, la carriera scolastica sta per finire, qualcuno comincia a lavorare, si comincia a fumare e a bere alcol. È allora che possono insorgere le malattie mentali, anche se la diagnosi si fa quasi sempre molto dopo. E più del 70 per cento degli adulti che oggi hanno una malattia mentale si è ammalato da ragazzo. Ma quanti sono gli adolescenti con malattie mentali? Dipende.
Non è il male di una stagione, ma il sintomo di un malessere lungo una (giovane) vita. Perché il disturbo dell'umore — euforia e rabbia, sovreccitazione e apatia — colpisce sempre più gli adolescenti, insieme a depressione e ansia.
Li colpisce talmente tanto che, nel 2005, sono stati 15mila gli under 20 rivoltisi ai centri psichiatrici mentre, oggi, ce ne sono mille in terapia farmacologica. Numeri pesanti. Che fanno male. Che, però, non dicono chiaramente cosa succede in città: «C'è tutto un notevole disagio sommerso del quale tener conto» invita Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento materno- infantile del Mario Negri.
Un disagio sommerso. Molto sommerso: «Le famiglie stiano ben attente — mette in guardia Paola Sacchi, responsabile del Servizio di psichiatria dell'Asl —. Mamme e papà non sottovalutino i segnali, anche se piccoli e, magari, di primo acchito, di scarsa rilevanza. Dialoghino con i figli, li ascoltino. In casi come questi, è fondamentale muoversi in anticipo o, quantomeno, non in ritardo».
Gli adolescenti entrano in crisi in terza media così come ai primi anni del liceo. E, sovente, non per traumi devastanti: quanto per delusioni amorose, dissapori con i compagni di classe, incomprensioni in famiglia, problemi quotidiani — piccoli contrattempi — che, giorno dopo giorno, crescono fino a scoppiare. E possono portare a gesti estremi: sono circa 1.500 i giovani tra i 15 e i 24 anni d'età che hanno tentato il suicidio o hanno compiuto gesti autolesionisti. Ilaria Castellutti è psicoterapeuta per l'associazione Amico Charly: di autolesionisti, lei e i suoi ne seguono 250. Non 5: ma 250. «Vogliono farla finita perché non hanno speranza nel futuro. Perché hanno paura di crescere».
Ragazzini fragili. Fragilissimi. Già in precario equilibrio. E con una deriva a naufragare assai al femminile: il 70% degli adolescenti che finiscono in cura sono infatti ragazze. E, qui, sono i primi amori non decollati a incidere e lasciare il segno. Ancora Bonati: «Non dobbiamo lasciarle e lasciarli soli. Famiglie, insegnanti, educatori: ognuno deve fare il suo. Poi, è chiaro, in linea generale, la prevenzione non è mai abbastanza: e, allora, insistiamo con campagne di sensibilizzazione».
Una rete di assistenza, in ogni modo, c'è: a Milano sono presenti 6 ospedali con reparti per le malattie psichiatriche (Policlinico, Niguarda, Fatebenefratelli, Sacco, San Paolo e San Carlo) più 20 ambulatori. Anche se, alla fine, e Paola Sacchi non si stanca di ribadirlo, prima di lanciare l'ultimo salvagente — le cure e un ospedale, per l'appunto —, i genitori ascoltino gli appelli lanciati dai figli. Anche se sono sottovoce.

il manifesto 12.5.07
Un giorno di maggio a ponte Garibaldi
L'omicidio di una ragazza normale, venuta a manifestare per il terzo anniversario del referendum sul divorzio. In una città che il ministro Cossiga aveva messo sotto assedio. Giorgiana come Carlo Giuliani nella Genova del G8, tanti anni dopo
di Pierluigi Sullo


La giornata si concluse con una scena che, a saperla leggere, conteneva un pezzo di futuro che nemmeno potevamo immaginare. Quello dell'invasione televisiva, della mutazione di tutti noi in personaggi da talk show o da reality. Ma nel 1977 Silvio Berlusconi, credo, cominciava appena a muovere i primi passi da palazzinaro milanese, e la televisione era solo la Rai. Eppure, quando la troupe del tg chiese ai poliziotti di rimettere su un fianco l'automobile che era stata usata, sul Ponte Garibaldi, come una barricata, e che i celerini avevano appena rimesso sulle ruote, e insomma avevano preteso, i telegiornalisti, un replay della scena, e gli uomini in divisa e casco avevano eseguito, avremmo dovuto, noi che eravamo lì a guardare, coltivare un'inquietudine.
E' che eravamo stanchi, corri di qua e corri di là, e presi da quella spossatezza che ci aveva assaliti a ripetizione, negli ultimi sette o otto anni, quando un compagno, un ragazzo, una ragazza, restava sull'asfalto, sui sampietrini, il suo sangue sparso attorno e il corpo come un oggetto. Già, la memoria artificiale dei media è popolata dei fantasmi delle vittime, di quelle del «terrorismo rosso», e lo sono davvero, vittime, e quel clima che andava disfacendosi ha generato, sicuro, le brigate, le prime linee, i partiti combattenti e insomma tutti quelli che la storia volevano prenderla a pistolettate. Ma non si dice mai, non si dice più, che vittime sono stati anche Roberto, Walter, Giannino, Francesco e troppi altri. E Giorgiana.
Forse l'automobile che i celerini hanno usato come quinta del telegiornale era stata usata come riparo. Io non ero lì, quando qualcuno sparò. Qualcuno. Si potrebbe ipotizzare che a sparare alla schiena, alla testa, al petto di tutti quei ragazzi fosse stata una persona sola, sempre la stessa, in tutti gli anni Settanta, un uomo in divisa forse, ma più probabilmente con una maglietta a strisce e i capelli lunghetti come uno di noi. Non è una possibilità remota: a differenza di quelle altre vittime, e senza voler fare una competizione, mai nessuno, mai, è stato condannato per uno qualunque di quegli omicidi. Ecco un argomento che si potrebbe spendere in un talk show, non fosse che le Brigate rosse, dice Amato, ancora ci minacciano, e dunque bisogna andarci cauti.
Ma perché, allora, il 12 maggio del 1977 ci è rimasto inchiodato nella memoria? Perché una ragazza, Giorgiana Masi, del tutto inerme, è stata uccisa, mentre correva via, da un pallottola alla schiena? O perché la polizia di Francesco Cossiga aveva occupato Piazza Navona, per impedire una innocua manifestazione dei radicali a ricordo del voto sul divorzio (1974, tre anni prima), in un modo mai visto, così aggressivo, muscolare, strategico? Perché quando dalla parte di Campo de' Fiori gruppi di studenti avevano cominciato il gioco ti-vedo-non-ti-vedo agitando bandiere rosse un tipo con la maglietta a strisce si era inginocchiato di fianco a un'auto, aveva posato l'avambraccio sul cofano per mirare meglio e aveva aperto il fuoco, una due tre e non so quante volte? Perché Tano D'Amico aveva fotografato quel tipo e Stefano Bonilli e io, che eravamo lì in giro per il manifesto, abbiamo visto, e insieme abbiamo testimoniato, Tano con le immagini e noi scrivendo? Perché quel tipo era lo stesso che aveva sparato a Giorgiana, o magari era uno con la maglietta a strisce verticali invece che orizzontali, ma gli stessi capelli sessantottini e gli avambracci pelosi? Ce ne ricordiamo ancora perché quel giorno accaddero tutte queste cose, tutte nello stesso pomeriggio?
Eppure, in febbraio l'ondata di marea aveva buttato fuori Lama dall'università di Roma. In marzo, un altro tipo aveva ammazzato a Bologna Francesco Lorusso, con un altro colpo alla schiena, e Cossiga aveva mandato i blindati per occupare la città, e il giorno dopo, a Roma, centomila furibondi avevano condotto una battaglia mobile, chiamata corteo, per diverse ore. Ce n'è di cose da ricordare, anche solo di quell'anno. La mia idea - sbaglierò - è che era l'anno della fine di qualcosa, il periodo della penitenza, per la mia generazione, che, come ha scritto Marco Revelli a proposito di «Piove all'insù», il libro del settantasettino Luca Rastello, aveva lasciati soli quei ragazzi. Che peraltro non avevano bisogno di fratelli maggiori, anzi li rifiutavano, li detestavano.
Ma, a pensarci bene, come l'automobile rimessa sul fianco per la tv profetizzava il Grande Fratello, la polizia di Cossiga, coi suoi metodi sleali da pattuglia della Judicial di Città del Messico, ci stava annunciando le strade di Genova, la Diaz e Bolzaneto: la violenza legale che non conosce più mediazioni, trattative, che nutre la convinzione di potersi abbattere nuda su un movimento sociale che non gode di protezioni, perché è nuovo e solo, nel panorama consueto (quello della fine degli anni Settanta e quello all'indomani del ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi). E dunque Giorgiana Masi, ragazza, è come Carlo Giuliani, ragazzo: non erano militanti, e vivevano le rispettive epoche precarie, incerti tra un passato che non passa e un domani nebbioso.
Allora, come sei anni fa, i luoghi dove sono stati uccisi si sono riempiti di messaggi scritti a mano, sciarpe e fiori. E oggi che in Piazza Navona tornano i radicali, come quel 12 maggio di trent'anni fa, bisognerebbe evitare - se posso dirlo - di farne un braccio di ferro con un'altra piazza, più in là, che si riempirà di cattolici. Perché di prove di forza ne abbiamo abbastanza, e dovremmo provare rimorso, per la vita interrotta di Giorgiana Masi: noi, a quell'epoca, non le abbiamo sparato, e anzi avremmo potuto essere colpiti a nostra volta, come a Genova. Ma deporre un fiore sulla lapide che ancora la ricorda a Ponte Garibaldi significa riconoscere la nostra fragilità, ed è il solo modo di non essere «embedded» in una qualunque delle guerre che ci cadono addosso.

il manifesto 12.5.07
Giorgiana Masi. Quattro inchieste e nessun colpevole: un mistero italiano
«È tempo che Cossiga dica tutto quello che sa»
Intervista al segretario del Partito Radicale Rita Bernardini. «Chi è stato presidente della Repubblica e conosce la verità su uno dei fatti più oscuri di questo paese, non può rifiutarsi di parlare»
di Carlo Lania

Roma «A tanti anni di distanza da quei fatti, Francesco Cossiga ancora si rifiuta di raccontare quanto afferma di sapere sulla morte di Giorgiana Masi. A questo punto vorrei tanto sapere perché non parla, chi e cosa copre». A porsi la domanda è il segretario del partito radicale Rita Bernardini. Il 12 maggio del 1977, Giorgiana Masi venne assassinata proprio nel corso di una manifestazione indetta dai radicali per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e lanciare, con lo slogan «Fermali con una firma», la campagna per otto nuovi referendum.
Bernardini, sono passati trent'anni esatti da quel giorno, e l'unica cosa che possiamo dire con certezza sull'omicidio di Giorgiana Masi è che anche quella morte si è trasformata nell'ennesimo mistero italiano. Quattro inchieste non hanno trovato neanche un colpevole.
Come radicali all'epoca tentammo di fare luce su quanto accadde il 12 maggio e sulle responsabilità della polizia. Perché è chiaro e documentato che in quel giorno le forze dell'ordine, sia in divisa che in borghese, avevano sparato, e avevano sparato ad altezza d'uomo. Ricordo un episodio clamoroso, quando il sottosegretario Lettieri, rispondendo a un'interrogazione parlamentare di radicali e gruppi della sinistra, disse testualmente: 'La polizia il 12 maggio a piazza Navona non ha sparato'. Facemmo un filmato in cui questa frase veniva ripetuta più volte mentre si vedeva il fuoco che usciva dalle pistole dei poliziotti in divisa e poi gli agenti in borghese vestiti da autonomi e con la pistola in mano.
In quel periodo il Viminale aveva vietato ogni manifestazione, voi però decideste di andare comunque a Piazza Navona
Ricordiamoci cosa accadeva in quegli anni: c'era il fenomeno del terrorismo, è vero, ma c'era anche una violenta reazione del governo, che arrivò al punto di vietare le manifestazioni, cosa evidentemente gravissima in una democrazia. Quel giorno avevamo indetto un'iniziativa per ricordare il terzo anniversario del referendum sul divorzio e avevamo convocato una manifestazione a Piazza Navona. Ci venne confermato il divieto da parte del Viminale. Noi che siamo non violenti e crediamo nella libertà di manifestare abbiamo deciso di farla lo stesso. E devo dire una cosa: in piazza con noi vennero anche gli autonomi e i gruppi più estremisti della sinistra, ma ci fu da parte di tutti un comportamento non violento, proprio per sottolineare che usavamo gli strumenti della democrazia, i referendum contro il regime. La polizia fermò molte persone, ma non ne trovò neanche una armata.
Il presidente Francesco Cossiga da tempo afferma di conoscere la verità sulla morte di Giorgiana Masi, ma non volerla rivelare.
Questa è una cosa incredibile. Chi è stato presidente della Repubblica e conosce la verità su uno dei fatti più oscuri del paese non può rifiutarsi di parlare. Ricordo che non si è mai voluta costituire una commissione d'inchiesta parlamentare sulla morte di Giorgiana e se Cossiga davvero sa qualcosa ed è in grado di provarla non è possibile che non parli. Cosa c'è sotto? Mi chiedo cosa e chi deve coprire.
Si parlò anche di possibili responsabilità di gruppi eversivi, sia di destra che di sinistra.
Probabilmente legati al potere di allora. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni in cui Pannella diceva 'Pci, P2, P38...'. Tutto questo è sicuramente estraneo a quel movimento che aveva creduto di combattere il regime con le armi della democrazia e della nonviolenza. I referendum facevano molta paura, ricordiamoci che ce n'era uno contro il finanziamento pubblico dei partiti e un altro per l'abolizione del Concordato che tutti i sondaggi davano per vincente e che fu bocciato dalla Corte costituzionale.

venerdì 11 maggio 2007

l’Unità 11.5.07
Mussi e Giordano, vicini ma non troppo
Anche qui il nodo è l’adesione al Pse


La “cosa rossa” si ritrova sulla critica alla globalizzazione. Ma Franco Giordano gela Fabio Mussi sul socialismo europeo: «Noi mai», dice il segretario del Prc. E Mussi non lo segue subito sul terreno di un’azione comune a proposito delle pensioni. La figura e l’esperienza di Olof Palme, come trait d’union per le sinistre italiane che cercano un cammino comune. Alla presentazione del libro di Aldo Garzia sulla «vita e l'assassinio di un socialista europeo» i leader di Rifondazione e di Sinistra democratica fanno un altro passo nella stessa direzione. Il terreno è quello «delle cose utili» come dice Mussi, cioè dei provvedimenti di governo. E il banco di prova delle pensioni è un esempio citato da entrambi, anche se Mussi dice che non vuole discutere le esternazioni e aspetta di vedere quale sarà la proposta portata in Consiglio dei ministri. «C'è un grande lavoro da fare sui contenuti ed è urgente - dice il ministro dell’Università - apparecchiare subito il tavolo per costruire un programma politico comune». Giordano non è meno deciso: «Serve una soggettività unitaria dell'intera sinistra, soprattutto per dare al paese una forma di rappresentanza politica del lavoro». Fin qui i due procedono paralleli, nonostante le differenze non misconosciute tra le rispettive tradizioni, perché, come dice Giordano, «se la socialdemocrazia è quella del programma di Palme, io firmo subito».
Le cose si complicano quando si passa dalle dichiarazioni di principio («il socialismo è una critica della globalizzazione capitalistica», dice Mussi raccogliendo l'identica espressione usata da Giordano) alle questioni per così dire fattuali. Mussi chiede a Giordano la critica del «totalitarismo e del socialismo reale» e l'adesione «ad un socialismo rinnovato». Giordano sul primo punto è d'accordo: «La critica al socialismo reale la facevamo io e te Fabio all'interno del Pci, e venivamo rimbrottati da quelli che ora fanno il Partito democratico», dice con sarcasmo. Sul secondo, invece, è categorico: «Noi nel Pse? non esiste proprio».

l’Unità 11.5.07
Su «Micromega» un’intervista al figlio Hermann con nuovi particolari sulla scelta nazista del filosofo fin dal 1932
Heidegger, dongiovanni e reticente
di Bruno Gravagnuolo


Buon numero l’ultimo fascicolo di Micromega, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais (3/2007, Almanacco di Filosofia, pp. 239, Euro 12). Dentro ci sono molti materiali tratti dal Festival di Filosofia romana del 2006 («Instabilità»), che escono a ridosso di quello ora in corso all’Auditorium capitolino. Un dialogo del 2005 tra Alberto Melloni e Gilles Keipel su «Fondamentalismo e religioni». Un lungo saggio di Flores sulla cristologia di Ratzinger, e un’intervista inedita di Angel Xolocotzi a Hermann Heidegger, figlio non naturale del filosofo e divenuto per vie impreviste curatore dell’opera omnia del genitore legale. La vera novità del fascicolo è questa, perché aggiunge molti dettagli sul romanzo familiare del filosofo, nonché sul tema della sua adesione al nazismo. Oltre a rivelarci che egli non avrebbe voluto l’opera omnia, almeno per 100 anni, prima che Hermann lo persudasse, prefigurandogli la catastrofe di una guerra nucleare.
Intanto però, veniamo al saggio di Paolo Flores: «Gesù e Ratzinger tra storia e teologia». Ci sembra salutare. Poiché ribadisce alcune verità acclarate dalla moderna critica neotestamentaria. E cioè: l’inserzione dei Vangeli sinottici, nella dogmatica posteriore dei Concili di Nicea e Calcedonia, è arbitraria. Essa taglia fuori i cosiddetti vangeli «apocrifi»(per la Chiesa!), rimuovendo le radici ebraiche di Gesù. La sua terrenità, il modo in cui fu percepito e lui stesso si percepiva: un riformatore sociale ebraico che si aspettava un Avvento apocalittico nell’immediato. E non in una Chiesa-Istituzione. Ratzinger invece sequestra ancora, nel solco della tradizione romana quel lascito. E lo (re)impone come verità di fede che oltretutto ambisce a diventare verità politica e civile. In una parola: controriforma. Con echi inquietanti a destra, aggiungiamo noi. Nel cattolicesimo politico nostrano e non solo in quello integralista (dai neodem, ai teodem, ai teocon ovviamente).
E adesso veniamo ad Heidegger. Hermann, era figlio di Elfriede Heidegger e di un amico di famiglia di lei, non del filosofo. E presumibilmente lo apprese fin dal 1956. Ricevendone ulteriore conferma nella vicenda dell’epistololario segreto del padre legale. Una storia questa che Hermann ci narra, evocando la controversia con una cugina venuta in possesso dele lettere: alle tante amanti del filosofo e alla moglie. Già, Heidegger, padre affettuoso e paziente, non fu solo l’amante di Hannah Arendt. Ma di molte belle signore e allieve e la cosa suscitò tempeste con la moglie Elfriede, che fu anche quella che nel 1932 lo spinse a votare nazista e nel 1933 a iscriversi al partito nazista. Cosa che poi gli fruttò la nomina al Rettorato di Friburgo, dove tenne il famoso discorso di appoggio al «movimento». Tanto apprendiamo dall’intervista inedita. Che però è reticente, comprensibilmente, in Hermann. Infatti è vero che il filosofo nominò a «decani» due docenti invisi al regime e perciò l’anno appresso si dimise, senza rinnovare la tessera nazi. Nondimeno fino al 1936 Heidegger si illuse ancora di poter cavalcare la tigre. Scorgendo nel nazismo il modo giusto di arginare e governare la tecnica: una sorta di custode politico del senso greco dell’Essere. All’insegna dell’anticapitalismo romantico: «suolo», «comunità», «decisione», «servizio del lavoro e del sapere» Ben per questo, dopo il famoso discorso rettorale, parlò di «grandezza» e «intima verità del nazionalsocialismo», che presumeva di aver capito. Poi cambiò idea, e vide in esso la Volontà nichilistica di potenza (nietzscheana). Ma non fece mai ammenda. E su ciò Hermann Heidegger non si sofferma, e neanche l’intervistatore in verità.

Repubblica 11.5.07
I paladini di Faurisson
Un docente dell'Università di Teramo vuole invitare il negazionista. Ed è polemica
di Gad Lerner


Viviamo oggi la necessità di desacralizzare l'approccio a una tragedia storica
Già Primo Levi rimase sconcertato dal tentativo di negare l'Olocausto

Domande avvelenate che si rincorrono fra le due sponde del Mediterraneo, tra un Medio Oriente in fiamme e un´Europa che vorrebbe scrollarsi di dosso i sensi di colpa di cui l´ha sovraccaricata una storia tragica: non ci siamo forse già sdebitati abbastanza? Liberiamoci del fardello dell´Olocausto! E chi lo dice poi, vista la scorpacciata di privilegi lucrati atteggiandosi a vittime, chi lo dice che gli ebrei non si siano perfidamente inventati tutto?
La conferenza di Robert Faurisson - lo studioso che definisce «una menzogna storica» le «pretese camere a gas hitleriane» e il «preteso genocidio degli ebrei» - viene quindi presentata agli studenti italiani come un evento liberatorio: parliamo finalmente senza tabù, basta con le persecuzioni degli intellettuali scomodi!
Nell´enfasi liberale che avvolge la conferenza di Teramo, riecheggiano gli argomenti di un leader abilissimo nel padroneggiare i media come l´iraniano Mahmud Ahmadinejad: ma vi rendete conto che quei (presunti) sei milioni di ebrei vi vengono rinfacciati come se voi europei non aveste avuto decine di milioni di morti in quella stessa guerra? O come il presidente siriano Bashar al-Assad che maliziosamente chiede: come mai in Occidente è consentito mettere in discussione Gesù Cristo ma non l´Olocausto?
Eppure vi vantate tanto della vostra libertà d´espressione.
Il contagio è purtroppo in atto, e non sarà una conferenza in più o in meno del negazionista di turno a fermare l´epidemia del sospetto. Nutrita dal clima di guerra e dall´identificazione frettolosa, dentro la medesima entità ostile, di Stati Uniti e ebraismo internazionale.
A vent´anni dalle prime sortite dei negazionisti, la demolizione del culto della Shoah si riconferma nucleo cruciale di questa sfida culturale. In effetti vi è qualcosa di eccezionale nella proliferazione di ricerche, libri, film sullo sterminio degli ebrei. Un vero e proprio exploit, a partire dagli anni Settanta. E oggi che abbiamo più chiaro il quadro degli altri genocidi novecenteschi, risalta con evidenza una sorta di sproporzione della memoria. Sia ben chiaro, tale disparità d´attenzione può essere ben spiegata con le dimensioni numeriche e la centralità geografica della Shoah, con gli interrogativi sociologici, religiosi, psicologici che solleva, come esito imprevedibile di una persecuzione secolare.
Ma non tutti hanno voglia di cimentarsi con la complessità del tema. E allora può venir più facile spiegare il boom mediatico dell´Olocausto ebraico sotto forma di complotto: sono loro, bene integrati ai vertici della finanza e dell´editoria globale, gli inventori dell´industria dell´Olocausto, un business vantaggioso per continuare a presentarsi come vittime (ammesso e non concesso che gli ebrei siano mai stati davvero vittime)!
In tale contesto, i negazionisti processati o addirittura incarcerati per le loro idee, non vedono l´ora di annoverarsi fra le vittime contemporanee degli ebrei.
Ricordo bene il disagio provocato in Primo Levi dalla vicenda personale di Robert Faurisson. Dapprima il testimone di Auschwitz aveva reagito con durezza ai rilievi «tecnici» del negazionista.
Com´è possibile che venissero stipate 2.500 persone dentro a camere a gas così piccole?, chiedeva quello. E Levi replicava citando la selezione cui egli stesso fu sottoposto in locali atrocemente sovraffollati. Ma ricordo bene, dicevo, il commento successivo, detto sottovoce nel salotto di corso Re Umberto a Torino: «Non riesco a non pensare a quell´uomo che ha perso il lavoro all´università di Lione a causa delle sue idee, per quanto aberranti. Poveretto, provo compassione per lui».
Forse Primo Levi avvertiva già l´insidia del vittimismo negazionista che oggi si ripresenta come anticonformismo, ben valorizzato da un establishment islamico che ne ha fatto strumento di guerra ideologica. Un establishment islamico capace di messaggi globali, intenzionato a rivolgersi dritto all´anima sofferente dell´Europa. Scommettendo su nuove generazioni infastidite dal senso di colpa storico; sui nazionalismi frustrati che pretendono la riabilitazione delle proprie vittime e rimuovono le sofferenze altrui; riattualizzando l´identificazione novecentesca fra ebrei e potere, fra ebrei e guerra.
L´infamia di questa operazione è pari alla sua capacità di scuotere, seminare dubbi. Ma il dubbio e il senso critico sono i benvenuti quando non pretendano di disconoscere le sofferenze di un popolo sterminato. Certamente viviamo oggi la necessità di desacralizzare l´approccio a una tragedia storica di entità tale da averci indotti a assolutizzarla. Per reagire all´insidia negazionista vanno moltiplicati gli sforzi di contestualizzare: la teoria dell´unicità dell´Olocausto ebraico - in un secolo che ha conosciuto almeno altri quattro genocidi - non potrebbe reggere alla verifica di una storiografia globale. Bisogna sottrarsi alla classifica delle sofferenze. Mettere in relazione l´esperienza vissuta nel cuore dell´Europa con le altre macchine di sterminio dispiegate in altre regioni del pianeta. Perché resta insoluto il mistero di come l´uomo riesca a trascinare tanti suoi simili, persone semplici e gentili, a uccidere in massa i loro vicini di casa. Per poi dimenticarselo o negarlo.

Repubblica 11.5.07
Da Mussolini a Bush. La lezione di Emilio Gentile
Quando la politica diventa una religione
di Simonetta Fiori


Una forma di integralismo che non tollera dissenso
Una versione totalitaria e un'altra democratica

L´inquilino della Casa Bianca accostato al dittatore del fascismo? Il titolo Le religioni della politica da Mussolini a Bush potrebbe far sobbalzare qualcuno, ma l´urto polemico è destinato a stemperarsi nell´ascolto della lectio magistralis che Emilio Gentile terrà oggi alle 18 alla Fiera del Libro di Torino. Uno studioso come Gentile è ben lontano da proporre paragoni azzardati tra personaggi così diversi, tuttavia la sua analisi coglie rischi di contiguità tra fenomeni pur distanti. E questo rischio consiste principalmente nella possibilità che l´attuale presidenza statunitense trasformi la tradizionale "religione civile" americana - quella inaugurata da George Washington e sostenuta per due secoli dai suoi successori - in una nuova e inquietante esperienza di "religione politica" all´americana, una sacralizzazione della politica che non tollera pluralismo né dissenso. Una versione integralista, in sostanza, sintetizzabile nel seguente sillogismo: chi è con Bush, è con l´America; chi è con l´America, è con Dio, dunque chi non è con Bush è contro Dio e incarna il male assoluto. È la nuova Democrazia di Dio alla quale una Gentile dedica un saggio uscito lo scorso anno da Laterza.
Il ragionamento di Gentile si fonda su una categoria interpretativa - "religione della politica" - di cui lo studioso è uno dei più acuti interpreti. La sacralizzazione della politica si verifica ogni volta che un´entità secolare - la nazione, la democrazia, lo Stato, la razza, la classe, il partito, il movimento - è trasformata in un´entità sacra, in oggetto di devozione o culto. Essa può essere declinata sia nella sua versione totalitaria - è il caso del fascismo o del comunismo - sia nella sua versione democratica. Gentile è stato il primo sulla scena internazionale a proporne una sistematizzazione sul piano concettuale e storico, scrivendo libri come Le religioni della politica. Tra democrazie e totalitarismi, tradotti in diverse lingue (Laterza, pagg. 250, euro 9). «In realtà non ho inventato niente», dice Gentile. «Tra i primi a usare il termine di "religione secolare" o "laica" per definire le ideologie totalitarie del Novecento sono state personalità cattoliche come Luigi Sturzo, teologi protestanti come Adolf Keller o grandi intellettuali europei come Raymond Aron. E ancor prima Bertrand Russell negli anni Venti aveva parlato di "religione" a proposito del comunismo sovietico. È stato l´incontro con queste interpretazioni che mi ha indotto ad approfondire la questione, non soltanto in riferimento al fascismo».
Nel "culto del littorio" - dal titolo d´un suo celebre saggio laterziano - Gentile ha rintracciato i tratti tipici di quella religione della politica che trasforma l´ideologia in dogma, attivando un sistema di simbologie, rituali, miti che interpretano e definiscono il significato e il fine dell´esistenza. «Per capire se questo fenomeno sia tipico solo del fascismo o del bolscevismo, o si sia verificato anche nel passato, è stato necessario risalire nei secoli fino a incontrare le prime forme di religione laica nelle grandi rivoluzioni democratiche di fine Settecento in America e in Francia». La religione laica nella sua versione democratica si distingue dall´esito totalitario perché comporta una sacralizzazione della politica nel rispetto delle altre ideologie e del pluralismo. Nella versione illiberale essa definisce il primato assoluto d´un capo o d´un partito nella totale intolleranza verso il dissenso. Elemento comune tra le due versioni è che la sacralizzazione dell´entità secolare avviene in modo indipendente dalle religioni tradizionali o dalle chiese (da qui la differenza dai nuovi fenomeni di teopolitica, ispirati invece da religioni ben definite). « Il dato più rilevante è che l´esperienza della religione della politica negli Stati Uniti è stata la più duratura, dalla fondazione della Repubblica a Bush, pur con declinazioni differenti. Questo è evidente nella simbologia degli Stati Uniti e nei discorsi inaugurali dei presidenti, che sin da Washington hanno fatto riferimento a Dio. Un fenomeno che culmina nel 1954 con il celebre motto In God we trust, che trionfa anche nella moneta americana».
Qual è allora l´elemento di novità portato da Bush? «Prima dell´11 settembre del 2001, anche in America la religione civile appariva in riflusso. Con l´attacco alle Torri Gemelle la sacralizzazione della politica come un vulcano dormiente è tornata improvvisamente e violentemente attiva, dando origine a una stagione tra le più rigogliose con la santificazione dell´America quale nazione eletta. Ma fin qui siamo nel solco tracciato dai padri. L´elemento di novità consiste nel tentativo operato da Bush e dalla destra repubblicana di imprimere una direzione esclusiva e assoluta alle proprie scelte politiche di guerra al Male: chi non è con Bush è il nemico dell´America, dunque complice dei terroristi. È in questo snodo il rischio d´un passaggio dalla tradizionale religione civile americana nel segno del pluralismo a una religione assoluta, che s´identifica con una sola ideologia, un solo partito, un solo capo». Una deriva ineludibile? «No, è la natura stessa della religione civile americana che impedisce l´assolutizzazione della fede politica incarnata in un solo capo. In America molti teologi democratici sostengono che la religione americana si realizza più in Martin Luther King che in Bush. Jim Wallis, uno dei principali esponenti dell´evangelismo protestante liberale, ha scritto che la politica dell´attuale presidente non è certo quella di Dio e che Bush nega gli ideali fondamentali della nazione americana. Il suo libro God's politics è un bestseller, anche questo un segno della vitalità americana».

il manifesto 11.5.07
Giordano e Mussi ripartono da Palme
Le radici. Dibattito sul libro di Aldo Garzia. Spunta il «padre» Berlinguer
di Loris Campetti


Il capitalismo è come una pecora: ogni tanto va tosata ma senza ammazzarla. Al di là dell'ossimoro - o forse è una devianza comunista pensare al capitalismo come a un lupo? - questa frase di Olof Palme aiuta ad aprire un ragionamento sul fallimento del socialismo reale e sulla crisi della socialdemocrazia. E' una semplificazione pensare che il comunismo volesse uccidere la pecora, mentre una sana socialdemocrazia l'avrebbe tenuta sott'occhio, correggendone la rotta con la democrazia e governandone gli squilibri e le dieseguaglianze con il welfare. Ma la metafora aiuta a riflettere chi, nel 2007, non rinuncia a dirsi di sinistra e dopo un paio di decenni almeno di rotture tenta di ricostruire un percorso comune.
La presentazione nella sala della Provincia di Roma del bel libro di Aldo Garzia «Olof Palme/ Vita e assassinio di un socialista europeo» ha offerto a due leader della sinistra italiana «in movimento», Franco Giordano e Fabio Mussi, di cercare in una memoria comune (stessa origine, il Pci) una rotta per doppiare la crisi della sinistra. Mettendo in campo «basi solide e grandi passioni», come suggerisce lo stesso Aldo Garzia la cui formazione è targata manifesto. Negli interventi sono due i fari che illuminano il dibattito: Olof Palme e Enrico Berlinguer, due percosi diversi che spesso si sono incrociati fino ad avvicinarsi sensibilmente dopo la rottura del segretario del Pci con l'Urss («Si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre»). Non è la presentazione di un libro la sede più opportuna per riflettere sui ritardi di quella rottura, su cui Garzia ha forse delle idee non necessariamente convergenti con quelle di Giordano e Mussi. Ma una cosa vuole dirla Garzia: la svolta di Occhetto e la nascita del Pds non sono state segnate da una ricerca nella via socialdemocratica ma dal nuovismo.
Il segretario del Prc Giordano non ha eluso le domande evidenti nel volto dei partecipanti al dibattito: che fare qui e ora, con i Ds che gettano il velo e confluiscono in una «cosa» che con l'esperienza socialdemocratica europea nulla ha a che fare, mentre chi non sta al gioco dell'autoaffondamento è frantumato in orgogliose «identità»? Giordano suggerisce due assi di ricerca comune per avviare una ricostruzione della sinistra, quello pacifista e quello anticapitalistico, dentro un processo politico-culturale che innovi entrambe le tradizioni della sinistra, comunista e socialdemocratica. Da subito alcune battaglie comuni sono possibili e urgenti, a partire dalla tutela e valorizzazione del lavoro e delle pensioni e dalla lotta alla precarietà, per costruire una rappresentanza politica del lavoro, «un soggetto unitario spendibile politicamente, con una partecipazione di massa».
Per Mussi gli intrecci del Pci con la socialdemocrazia vengono da lontano, «l'omicidio di Palme lo vivemmo come un nostro lutto». Intanto, bisogna ricordare che il socialismo europeo «non è stato acqua fresca», è stato welfare innanzitutto. E l'incontro tra Berlinguer e Palme è avvenuto su un terreno forte: la lotta per il disarmo, per fermare la corsa terribile al riarmo. «Oggi quella corsa riprende pericolosamente, 1.100 miliardi di dollari in armamenti, oltre la metà negli Usa», e i pericoli connessi allo scudo spaziale nel cuore dell'Europa. «In questa situazione si rimpiangono leader come Palme e Berlinguer». Mussi rifiuta l'idea che il futuro sia solo al centro e rilancia l'urgenza di un'alleanza a sinistra: il lavoro e le politiche sociali, un tavolo subito per costruire un programma: «un movimento, non un altro partito, che ha già una certa forza che mettiamo a disposizione di un progetto più ampio. Se non ora, quando?».

il manifesto 11.5.07
La discesa dell'arte negli inferi delle pulsioni
di Stefano Chiodi


Alla critica il compito di respingere la lettura dell'opera come sintomo dell'inconscio dell'artista: questo l'assunto di Massimo Recalcati nel suo libro «Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica», uscito da Bruno Mondadori, che si presenterà sabato alle 18.30 alla libreria Bibli di Roma

Stretta fra le imperiose esigenze del mercato e la crisi del suo tradizionale armamentario umanistico, la critica d'arte si è trovata nell'ultimo trentennio a dover fare i conti con la realtà delle esperienze artistiche contemporanee da una posizione doppiamente svantaggiata: da un lato la sua capacità di individuare percorsi originali e letture non ortodosse è stata via via erosa a vantaggio di altre forme di mediazione, in primo luogo quella offerta dalle ubique figure dei curatori, dall'altro la generale perdita di peso dell'interpretazione nell'universo dei media ne ha favorito l'emarginazione culturale, un ritrarsi che soprattutto in Italia ha spesso assunto i tratti della chiusura preventiva. A complicare ulteriormente il quadro interviene poi la sanzione di quanti (come ad esempio Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel loro Mercanti d'aura, Il Mulino 2006) leggono la scena artistica contemporanea in chiave schiettamente convenzionalista, e cioè individuando nel campo sociologico dell'arte ciò che conferisce valore a prodotti di per sé privi di qualsiasi specifica qualità.
Quali alternative è dunque possibile immaginare per una disciplina che finisce non solo per registrare ma per condividere lo smottamento delle categorie estetiche e delle pratiche artistiche più attuali? Ad esempio insistendo sulla necessità di una rifondazione teorica, di un confronto senza remore con il radicale ripensamento dell'immagine offerto dalla cultura della tarda modernità. È quanto si è proposto, tra gli altri, il gruppo riunito intorno alla rivista «October» da un trentennio a questa parte, soprattutto attraverso una ridefinizione intransigente del proprio bagaglio metodologico e in genere delle prospettive filosofiche del discorso sull'arte; o, ancora Georges Didi-Huberman, con le sue ricerche archeologiche e iconologiche, e ora anche Massimo Recalcati, che con il suo recente Il miracolo della forma. Per un'estetica psicoanalitica (Bruno Mondadori 2007, pp. 222, euro 24,00) fornisce sull'argomento uno tra i contributi più interessanti apparsi negli ultimi anni in Italia. Basandosi su una attenta lettura dell'insegnamento di Jacques Lacan, Recalcati ne riprende la riformulazione matura riguardo al rapporto tra psicoanalisi e attività artistica: il problema non sarà più indagare l'opera d'arte assimilandola a un sintomo o a un sogno, ma coglierne invece il valore di pratica simbolica che punta a incontrare il reale, a ritrovarne la flagranza risvegliandoci «dal sonno dell'io». Occorre, insomma, superare una visione dell'opera come «patografia», pensarla non più come sintomo dell'inconscio dell'artista ma come qualcosa di dissimile, qualcosa che resiste a questa identificazione.
Si tratta quindi di interrogare «l'irriducibile presenza» dell'opera, secondo l'espressione di Alberto Burri, che mina alla radice l'idea dell'interpretazione come decodifica di un significato latente nell'immagine, riducibile alla dimensione semantica del linguaggio. Per Recalcati, in altre parole, la critica estetica deve oggi recuperare l'idea lacaniana di una psicoanalisi implicata all'arte, e cioè a una pratica che individui nell'eccedente, nel «miracolo» della forma, il suo terreno di indagine più autentico.
È proprio questa, del resto, una delle poste più rilevanti del libro: resistere, cioè, a quello che l'autore individua come il rischio maggiore per l'arte contemporanea, vale a dire precisamente la rinuncia alla forma a favore del culto dell'abiezione, della discesa agli inferi pulsionali. Il riferimento è tanto a quelle esperienze che fanno dello choc il loro elemento portante, alla poetica post human di Paul McCarthy, Robert Gober, Orlan o Cindy Sherman, quanto alla rilettura compiuta da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois della nozione, derivata da Bataille, di informe, trasformata in dispositivo antimetafisico attraverso cui rileggere la vicenda artistica del Novecento. L'apologia dell'informe tende tuttavia a svalutare, ad azzerare secondo Recalcati quei processi di sublimazione che restano invece per Freud e Lacan il modo essenziale per offrire alle pulsioni «un destino simbolicamente possibile»: l'irruzione del reale dissolve la struttura formale delle immagini, annulla la «velatura» che ne garantisce il potenziale di sublimazione.
Se questa lettura risulta assai stimolante nei confronti di artisti come Morandi, Burri, Tàpies, Kline o Pollock, nei quali resta essenziale la dialettica con la tradizione dell'immagine formata, con la materia pittorica, con la gestualità e lo strato simbolico dei linguaggi, meno incisiva appare nei confronti delle esperienze contemporanee, troppo schiacciate sull'opposizione tra anoressia e bulimia formale, tra riduzione a zero della visione e ostentazione dell'eccesso e dell'osceno. Non va dimenticato, infatti, che anche quando la pittura perde il suo primato e l'aspetto concettuale e speculativo diviene uno dei motori dell'immagine, anche quando sembra che l'opera lasci irrompere il reale senza valersi di mediazioni simboliche, gli artisti agiscono nella consapevolezza di iscriversi, comunque, in quella cornice simbolica per antonomasia che è lo spazio dell'arte. Come ha mostrato bene Hal Foster, un critico profondamente influenzato dalla lezione di Lacan, il «ritorno del reale» nell'arte contemporanea prende anche le forme di una esperienza traumatica, che segna il passaggio dalla contemplazione al contatto, che mette in gioco lo spettatore quanto l'artista e si presenta in modi formali ibridi, postumi, perversi. Warhol, dunque, con le sue icone moltiplicate che insieme schermano e indicano il trauma dell'incontro col reale; o Alighiero Boetti, il cui paradossale «niente da vedere, niente da nascondere» appare come il manifesto di una vertiginosa concentrazione dello sguardo sul punto di frattura del campo simbolico; o ancora Jeff Wall, con la sua capacità insieme di colmare e svuotare l'atto di vedere. C'è poi un altro piano, cui Recalcati accenna soltanto, ma che diventa inevitabilmente lo sfondo di ogni discorso sull'odierna condizione dell'arte nella società globalizzata, e cioè in un sistema che ha convertito ogni immagine, ogni tecnica, ogni forma alla misura sommamente alienante dell'immaginario mediatizzato.
Questo passaggio ha inevitabilmente eroso l'idea stessa di qualità estetica, le pietre di paragone dell'autonomia e del disinteresse; ciò che dava unità e sostanza alla missione cosmico-storica dell'artista moderno - la ricerca di una soggettività incondizionata, l'esigenza utopica ed etica, lo stato di veglia - è oggi esposto, banalizzato, consumato e rimpiazzato dal presente immemoriale delle icone pubblicitarie. È soprattutto su questo sfondo che va misurata oggi, con consapevolezza critica e politica, l'inammissibile pretesa dell'arte di misurarsi con il reale.

Avvenire, 10 Maggio 2007
Tragico e ridicolo condivisi: con coppia di tre!
di Rosso Malpelo (alias Gianni Gennari)

"Liberazione" e "Riformista" paiono lontani e forse lo sono, salvo una follia comune. La prima, l'altro ieri (p. 1) piange la sconfitta francese con titolone: "La destra moderna e populista vince. La sinistra ha perso la strada". Solo roba francese? Sì. Infatti loro vanno avanti. Strada sicura, con strillo lì sotto: "12 maggio del Coraggio laico. Rifondazione coi radicali". Lì accanto, per fare chiarezza, c'è anche una preghiera tra divino ed umano. A p. 3 poi, dalla Fiera del Libro di Torino, un reportage su 5 colonne informa sul programma, con "notizia bomba": "venerdì, a due giorni dal Family Day", ci sarà anche un libro del cardinale Ruini! Un sussulto: "coincidenza a dir poco preoccupante". Una tragedia. Comica però, perché da venerdì a sabato corre un solo giorno. Già! Anticlericali di oggi: al solo sentir parlare di Chiesa perdono il filo. E qui fanno coppia col "Riformista". Stesso giorno, in prima pagina, ancora sul deludente voto francese, e lì sotto il ricordo che "nel '48 il Papa non rispettò i comunisti", ma "li scomunicò"! Persa la memoria di ciò che successe in quei mesi ed anni in mezza Europa, con il plauso del Pci di allora? E infatti la scomunica è del '49. È il meno. Più in tema a p. 7 "Scomunicateci tutti": ben 5 lettere di sette lettori fuori dai gangheri per "le ingerenze della Chiesa". Comprensibile pur se opinabile, ma con una curiosità: la prima lettera, inviata da "una coppia di fatto", ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista", redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada".

il Riformista 11.5.07
Lupus in pagina
Gianni Gennari, autorevolissimo collaboratore dell' "Avvenire", si è occupato ieri delle richieste di scomunica che da giorni stanno intasando la nostra casella di posta. E di questo lo ringraziamo. A calamitare l'attenzione di Rosso Malpelo è stata soprattutto una lettera che abbiamo pubblicato martedì 9. Ci è stata inviata da Annio G. Stasi, Mary Tortolini e Viola Stasi. Gennari l'ha archiviata alla voce - parole sue - «curiosità». «Ha tre firme! Tre? Anche al "Riformista" - ha annotato - redazione e lettori, al solo parlare di Chiesa e cattolici, vanno fuori giri. Forse hanno anche loro "perso la strada"». Avremmo tanto voluto essere noi della redazione a soddisfare la curiosità di Rosso Malpelo. E lo avremmo fatto, se non ci avessero già pensato gli autori della lettera. «Siamo una coppia di fatto con bambina, siamo indignati dalle continue intromissioni della chiesa nella nostra vita privata», scrivevano martedì. Quanto fa una coppia di fatto (a rigor di logica, Annio G. Stasi e Mary Tortolini) più bambina (Viola Stasi)? Questo glielo diciamo noi, a Gennari: tre.

Liberazione 11.5.07
Quella certa "sinistra" che insegue la destra e il totem della sicurezza
La legalità invocata come una caccia allo straniero porta al razzismo
di Cesare Salvi*


La democrazia non garantisce uguaglianza di condizioni: garantisce solo uguaglianza di opportunità. Ma non per tutti, ovviamente. Perché quelle opportunità quasi sempre sono solo appannaggio di pochi. Spesso vengono considerate dei piccoli "tesoretti" da tenere ben stretti per evitare che vadano a finire - non sia mai - nelle mani di quanti vivono ai margini della società.
Credo sia utile, dunque, oltre che interessante, approfondire il dibattito sul tema della sicurezza nelle città intrapreso dopo che un elettore del centrosinistra, con una lettera inviata a Corrado Augias, dalle colonne di Repubblica lanciava il suo s.o.s perché rischiava (e credo che rischi tuttora) di trasformarsi, ahinoi, nel primo esempio di "razzista-progressista-democratico". L'uomo, il giorno dopo, è stato subito rassicurato dal sindaco di Roma Walter Veltroni, che pur tra mille rivoli sulla tolleranza e la solidarietà della città eterna, ha in definitiva ammesso quali rischi potremmo correre se, "noi compagni", non mettiamo subito mano a questo tema che, fino a ieri, sembrava essere di proprietà della destra e della sua propaganda. Che bisogno aveva Veltroni di citare "gli immigrati" che spacciano droga o il borseggio di una vecchietta ad opera di un rom? Perché se lo spaccio l'avesse compiuto un romano e il borseggio un milanese, sarebbe stato diverso? E la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono forse di origine cingalese o peruviana? E se fosse stato un polacco adulto ad ammazzare una bambina napoletana di cinque anni, quante aperture di telegiornali e quante paginate di quotidiani "politically correct" avremmo ascoltato e letto?
Bene ha fatto il direttore di Liberazione a richiamare l'attenzione sui rischi di una deriva sarkozyana. Perché è proprio quando una causa sembra impopolare che scopriamo come anche a una certa "sinistra" - non più solo la destra e la Lega, dunque - ama togliersi la maschera e mostrare i muscoli, sbandierando il totem della sicurezza, per poi scrivere ricette che risulterebbero ineccepibili persino per Le Pen. Come, ad esempio, trasferire fuori dal grande raccordo della capitale tutti i rom e gli zingari.
È una storia già vista. Così, nelle lontane periferie, magari vicino una discarica, in una "terra di mezzo", come tanti piccoli Hobbit (quei "mezzi uomini" di tolkieniana memoria) potremo finalmente parcheggiare gli esclusi, gli ultimi.
In fin dei conti la multiculturalità e le "politiche dell'inclusione", come ama dire qualcuno, sono solo un espediente per i buoni propositi elettorali e propagandistici. Abbiamo visto l'anno scorso in Francia, con la rivolta nelle banlieues, gli effetti della politica della "tolleranza zero" dell'ex ministro dell'Interno Sarkozy, che tra qualche giorno occuperà ufficialmente la poltrona dell'Eliseo. Credo che sia questa la lezione che deve essere raccolta da chi, anche qui in Italia, oggi ama lanciare proclami apparentemente banali ma in realtà pericolosi, all'insegna di altrettanto facili slogan come quello per il quale la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Mentre c'è una politica per la sicurezza che appartiene alla destra e un'altra che dovrebbe appartenere alla sinistra. E quest'ultima passa, inevitabilmente, dai diritti che riusciamo a riconoscere a tutti, indistintamente.
Non so se il termine "fascismo", usato dal direttore Sansonetti, sia quello giusto; dico però che la legalità non può essere sempre e solo invocata come una sorta di caccia allo straniero, perché è proprio quella l'anticamera che porta al razzismo. Magari a un razzismo più subdolo, culturalmente differenzialista, ma comunque al razzismo che matura nel terreno dell'intolleranza e si manifesta nella pianta dell'odio e della violenza urbana.
Certo che la legalità di sinistra non si esaurisce nella politica dell'inclusione. Legalità di sinistra vuol dire anche tolleranza zero nei cantieri edilizi, dove a Roma migliaia di rumeni fanno i muratori in nero per quattro soldi, rischiando la vita tutti i giorni. Legalità di sinistra vuol dire un indulto concepito diversamente da quello imposto da Forza Italia, che ha escluso gli infortuni sul lavoro e si è allargato fino a tre anni per comprendere i corrotti, con gli effetti negativi sull'opinione pubblica che ben conosciamo. Legalità di sinistra vuol dire certezza della pena: abolire l'ergastolo, evitare leggi-manifesto che prevedono pene elevatissime al minimo allarme dell'opinione pubblica, ma anche tempi e modalità di applicazione della pena certi e sicuri: sei mesi di carcere, se scontati davvero e poco tempo dopo il crimine, sono una pena molto più seria che una condanna a otto anni mai scontata.
Quello che è successo in Francia deve essere per noi, uomini e donne di sinistra, un allarme, un monito che dovrebbe farci guardare in faccia la vera realtà anziché inseguire un certo malsano realismo. Chi è sceso per le strade di Parigi, dando sfogo alla rabbia che gli covava dentro, erano prevalentemente giovani con un'età compresa tra i 16 e i 25 anni. Abitano quelle periferie non per scelta, ma perché costretti da uno status sociale, da una dissennata politica che ha abbandonato ogni logica di integrazione, e che li ha voluti ghettizzare magari per poterli controllare meglio, senza che mai nessuno ascoltasse le loro ragioni, le loro aspettative, le loro paure, il loro malessere, le loro difficoltà a costruirsi un destino né migliore né peggiore ma uguale a quello degli altri loro coetanei che hanno la fortuna di appartenere alla razza "eletta" francese, quelli che abitano in centro, lontano dalle banlieues, e che possono comprare una baguette tre volte al giorno. Come fanno tutti i "veri" francesi. Non so se il sonno della ragione genera il fascismo. Di sicuro genera mostri. E noi, per quanto ci riguarda, preferiamo coltivare l'insonnia.
*senatore Sinistra Democratica

Liberazione 11.5.07
Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?
di Guido Liguori


L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso

I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia ( www.gramscitalia.it ) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.

Liberazione 11.5.07
Il ruolo fondamentale dell'informazione nella lotta contro la segregazione
Dietro l'alibi della follia
Riannodare i fili a trent'anni dalla legge Basaglia
di Giada Valdannini


La sala era gremita fino all'inverosimile. Di gente ce n'era seduta persino sulle scale. A quasi trent'anni dalla legge Basaglia, torna - urgente - il bisogno di «riannodare i fili di quella straordinaria congiuntura che portò gli operatori dell'informazione a misurarsi con il problema della salute mentale, dei diritti dei malati e del corretto funzionamento dei servizi psichiatrici». Con questo approccio, martedì sera, Psichiatria Democratica ha promosso un incontro al Teatro romano dei Dioscuri per ragionare su quanto l'informazione abbia concorso alla formulazione della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi in tutta Italia. Per farlo si è avvalsa del prezioso contributo di un film-inchiesta della Rai dal titolo "Dietro l'alibi della follia". Un lavoro prodotto nel 1976 e firmato da Piero Dorfles, Raffaele Siniscalchi e Renato Parascandalo. Proprio lui - oggi assistente del direttore generale della Rai - incalza sul ruolo fondamentale dell'informazione democratica nella lotta contro la segregazione dei malati di mente. «Allora, giornalisti, registi cinematografici e autori radiotelevisivi documentarono la violenza delle "istituzioni totali" dando la parola ai degenti degli ospedali psichiatrici. Inchieste e documentari che appartengono alla storia del nostro cinema ma, ancor più, alla storia del nostro paese». Sono tipi di lavori che - secondo Parascandalo - «latitano da troppo tempo dalla nostra televisione, sempre pronta a dare spazio a programmi d'intrattenimento e tribune politiche che non restituiscono mai la parola ai protagonisti delle vicende narrate. Noi, per lavorare al film, abbiamo passato mesi nel manicomio di Arezzo pur di documentare nel modo più pertinenti possibile quello che era il grande processo di trasformazione in atto». Se lo ricorda bene anche Luigi Attenasio, presidente Lazio di Psichiatria Democratica, che racconta come lui stesso, una degente e un'infermiera fossero stati coinvolti nel montaggio di alcuni lavori sviluppati in quel periodo. Non erano, quindi, solo protagonisti dei filmati ma piuttosto coautori del messaggio e del taglio dati a questi lavori d'indagine. E non è tutto. Durante la preparazione di "Dietro l'alibi della follia", furono chiamati proprio i degenti a discutere la scaletta e le riprese del documentario. «Ecco perché - dice Attenasio - oggi è tanto più importante ripartire da quell'aproccio. Perché, pur avendo superato i manicomi, quel che resta è lo stigma verso il disagio mentale. Per i media fa più notizia un fatto di sangue in cui sia implicata una persona con disturbi psichici piuttosto che l'apertura di una casa famiglia. Dovrebbe essere il contrario. Ma l'unico modo per ribaltare questo paradigma è investire sull'informazione, come si faceva un tempo». Dello stesso avviso, Giusy Gabriele (direttore della Asl Roma D) che ci tiene a precisare quanto tutto passi attraverso la comunicazione: «Oggi tra censura e reality si tenta di ammansire le coscienza ma, fortunatamente, esiste ancora quel giornalismo che fa della denuncia e della partecipazione democratica i propri tratti salienti. E' su di esso che bisogna puntare anche per ciò che riguarda, oggi, il disagio psichico. In fondo la salute mentale non è nient'altro che lo specchio dei costumi della nostra società». Ma la follia, talvolta, è stata anche emblema di creatività. Come ha sottolineato Danielle Mazzonis (sottosegretaria Ministero Beni e Attività Culturali) che ci tiene a ribadire che i cosiddetti matti non sono matti. «Sono, molto spesso, persone con enormi problemi comunicativi col resto del mondo. Persone che, talvolta, con l'aiuto di psichiatri e operatori, sono riuscite a fare dell'arte uno strumento per raccontarsi al di fuori di sé. Per uscire dalla propria condizione di isolamento». Citati, tra le inchieste e i documentari dello stesso periodo, anche Fortezze vuote di Gianni Serra, I giardini di Abele di Sergio Zavoli e Matti da slegare di Silvano Agosti.

Il potere diverso delle donne - Abstract
Annelore Homberg


Il potere. La parola evoca l'immagine di una grossa montagna che le donne hanno cominciato a scalare faticosamente e le vette del potere economico e di quello politico sembrano le più difficili da raggiungere

Come psichiatra, tuttavia, incontro e studio un'altra forma di potere. Un potere "privato" sugli affetti che viene esercitato dal sesso femminile. Questo potere sull'identità profonda dell'altro si svolge nella dialettica tra uomo e donna, ma solo se l'uomo in questione non è completamente refrattario alla realtà femminile, quindi non è un potere certo. Nella stanza dei bambini, viceversa, questo tipo di potere regna pressoché incontrastato.

Durante i millenni del patriarcato occidentale che ha sempre denigrato, sfruttato e coartato le donne, questo potere femminile sugli affetti ha finito per svilupparsi in un modo violento. Nel senso che le donne che lo esercitavano, costrette ad una realtà interna di rancore, angoscia, vuoto e frammentazione, hanno realizzato una triste parità con gli uomini. Una parità nella distruttività anche se in questo caso venivano aggredite la fantasia e l'affettività dell'altro e non la sua realtà materiale.

Così, il contropotere del cosiddetto matriarcato in casa non è stato un rifiuto del patriarcato bensì, al contrario, funzionale al mantenimento dello status quo in quanto produttore di figli castrati nella loro umanità e di figlie identificate con la rassegnazione materna.

Tuttavia, pensiamo che l'attitudine millenaria delle donne a sopravvivere gestendo gli affetti degli altri, a muoversi in dimensioni irrazionali, implichi comunque un rapporto intuitivo con il reale "nucleo dell'essere", con un'identità umana che non coincide esattamente con la razionalità.

E' affascinante, in effetti, ricostruire quanto la ricerca sulla mente non cosciente in Europa sia una storie di donne. Donne che sfidavano il loro medico a seguirle sul terreno scivoloso delle dinamiche inconsce.

La sfida attuale potrebbe essere quella di verificare se il rapporto intuitivo delle donne con l'identità preverbale dell'essere umano possa liberarsi dall'intento di rivalsa, e distruzione.

Se ciò riuscisse potrebbero aprirsi nuovi scenari: di donne che esercitano il potere decisionale spostando la prospettiva. Dalla realizzazione di un'identità sociale che è basata su competitività ed esclusione ‑ "la poltrona è mia o è tua" ‑ alla realizzazione di un'identità interna che per essere tale, ha bisogno che si realizzi anche l'altro: vita mea vita tua.