martedì 15 maggio 2007

il Riformista 15.5.07
Sd. Il Pse va bene ma non basta
Il grande vuoto lasciato dal Pd e le nostre idee per colmarlo
di Carlo Leoni


La nascita del movimento politico “Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo”, con la straordinaria manifestazione del 5 maggio, è stata còlta non solo dai numerosi partecipanti, ma da tutti gli osservatori e dai commentatori come una vera e consistente novità nel panorama politico italiano.
Tutti hanno capito che facciamo sul serio, che vogliamo portare a sinistra una forte spinta all'unità e al rinnovamento politico e culturale.Proprio per questo ci vengono subito poste tante domande e ci viene richiesto il massimo di chiarezza sul progetto politico che abbiamo in testa.
Ci si chiede, innanzitutto, se l'ancoraggio al Pse resta per noi un punto strategico o se è stata soltanto una bandiera strumentalmente agitata durante i congressi dei Ds. Ci si chiede, poi, se siamo più attratti dalla “costituente socialista” o dalla “Sinistra Europea”, dalla sinistra “riformista” o da quella “radicale”, e così via.
Provo a rispondere.
Vogliamo innanzi tutto rimanere coerenti con quanto affermato nel corso del congresso Ds a proposito della costruzione di una grande forza della sinistra italiana e della nostra appartenenza al Pse. Sono concetti che continuiamo ad affermare in questi giorni, in ogni iniziativa pubblica che organizziamo o a cui veniamo invitati.
Proverei a riassumerli così:
1) Ci chiamiamo “Sinistra Democratica per il socialismo europeo”, perché siamo una forza socialista che ha il suo punto di riferimento nel Pse: quel campo di forze che in Francia è tornato ad esprimere una vitalità ed un consenso che, qui in Italia, sono stati sottovalutati solo per valutazioni tattiche di corto respiro.
E' logico, dunque, che per noi sia molto importante il rapporto con il partito di Enrico Boselli, che del Pse e dell'Internazionale Socialista è membro effettivo ed autorevole.
Ma da socialisti europei non abbiamo mai mancato di dire che il Pse ha bisogno di un profondo rinnovamento e di più coraggiose aperture, in una direzione però opposta a quella desiderata dai promotori del Pd.
La globalizzazione neoliberista ha aggravato i problemi del pianeta: sperequazioni sociali tra i diversi paesi e al loro interno, l'allarme sul clima, l'aumento delle vittime (in particolare bambini) delle guerre, del terrorismo, della fame, dell'Aids, l'indebolimento delle istituzioni politiche sovranazionali, sono purtroppo dati della realtà.
Ma se è fallita questa globalizzazione -che ha aggravato e non risolto i problemi del mondo- lo stesso si può dire riguardo alla risposta prevalente che è venuta dalla sinistra europea: la “terza via” (in Gran Bretagna), la “neue Mitte” (in Germania), e la “rivoluzione liberale” (in Italia).
Il documento “Per una nuova Europa sociale” di Delors e Rasmussen, approvato al congresso del Pse di Porto, va chiaramente al di là delle suggestioni blairiane e si colloca più nettamente nell'ambito di un nuovo progetto socialista per l'Europa del futuro.
Ci consideriamo quindi politicamente parte del Pse, ritenendo indispensabile una sua più coraggiosa apertura alle culture critiche della globalizzazione, al pacifismo e all'ambientalismo, nella prospettiva di una nuova Europa sociale.
2) La costruzione del Partito democratico lascia un vuoto a sinistra. Lo spazio non più presidiato dai Ds, che stanno per sciogliersi, è quello della sinistra italiana, senza altri aggettivi. Uno spazio che non riusciranno a coprire, da sole, né la “costituente socialista”, né “Sinistra Europea”, né il “patto per il clima” proposto dai Verdi.
Intendiamoci: si tratta di cose serie, alle quali guardiamo con grande interesse, che dimostrano una disponibilità a mettersi in discussione e a produrre fatti nuovi. Ma la sfida che sta di fronte a tutti noi domanda risposte ancora più coraggiose e richiede, prima di ogni altra cosa, che ci si lasci alle spalle la distinzione - questa sì ideologica- tra riformisti e radicali. Una distinzione che non ha alcun riscontro nella realtà politica ora che, per la prima volta nella storia italiana, tutta la sinistra è impegnata nel governo del Paese.
Guardiamo a cosa è successo sabato. Davanti all'attacco senza precedenti alla laicità dello Stato, culminato col Family day, tutta la sinistra ha saputo spontaneamente ritrovarsi insieme e avverte, comunemente, l'esigenza di difendere un valore fondante della nostra Repubblica. Un valore fondante della nostra civiltà.
Non basta dunque allargare di più ciò che si è già oggi. E neanche “confederare” le attuali organizzazioni della sinistra. Bisogna lavorare per una nuova grande forza unitaria e plurale, di governo, che attualmente non so dire se sarà un partito (nel senso tradizionale del termine). Cominciamo però a considerare i modelli e le forme di cui già si parla in questi giorni. Ragioniamoci.
In ogni caso, oggi all'ordine del giorno non c'è la formazione di un partito, ma l'avvio di un processo di confronto e di convergenza programmatica che investa tutta la sinistra italiana: sui temi che ci stanno a cuore (pace, lavoro, ambiente, laicità e questione morale). Non vedo ostacoli pregiudiziali a lavorare tutti insieme.
Basta iniziare e, ovviamente, basta volerlo.
Sono tante e tanti quelli che non vogliono più giocare di rimessa, che non vogliono più continuare a votare solo “contro”: dobbiamo restituire nelle loro mani il futuro unitario della sinistra italiana.

il Riformista 15.5.07
Sinistra. Il Cantiere è in stallo
Rifondazione vuole dimissionare TPS
(e prova a incalzare da vicino Mussi)
di Ettore Colombo


La sinistra radicale si prepara a «chiedere il conto» al ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa. Ieri pomeriggio, appena letti sulle agenzie i risultati delle elezioni in Sicilia (quelle di Palermo in testa) le dichiarazioni dei capigruppo di Prc, Verdi e Pdci hanno cominciato a montare come un'onda. Le esternazioni del ministro su una riforma delle pensioni “punitiva” e la sua ostilità a chiudere i contratti di pubblico impiego e scuola, ancora in alto mare, sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, agli occhi della sinistra radicale, anche perché rese a ridosso del (disastroso) voto siciliano.
Ai piani alti di via del Policlinico - dove l'insofferenza verso Padoa-Schioppa è montata a tal punto che il segretario del Prc Franco Giordano ha detto di sentirsi, ormai, «leader di un partito di opposizione» - si ragiona anche, e apertamente, sulla possibilità di un «rimpasto», all'interno del governo, che, nel medio periodo, e cioè entro l'anno, dovrebbe vedere proprio il titolare dell'Economia tra le vittime illustri di un Prodi-ter. Ieri, tutto lo stato maggiore del Prc era impegnato a Torino, davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori, per una campagna - lanciata su diversi organi di stampa - chiamata «del risarcimento sociale». In base alle richieste di Rifondazione, infatti, non ci sono dubbi: le pensioni non si toccano e la destinazione del “tesoretto” va distribuita esattamente al rovescio da come immagina Padoa-Schioppa. Due terzi (7,5 miliardi) ai ceti meno abbienti (famiglie incluse) e un terzo (2,5 miliardi) a copertura del debito (il che, peraltro, vuol dire lo zero assoluto alle imprese), secondo lo schema formulato dal ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero, capodelegazione del Prc al governo e sempre meno “in feeling” con il titolare dell'Economia, a differenza di quando l'asse Prodi-Bertinotti era l'architrave dell'Unione.
Non che le cose, all'interno della sinistra a sinistra del Pd, procedano per il meglio. Nei corridoi di Montecitorio si racconta di un confronto molto aspro, se non peggio, tra Mussi e Diliberto dopo l'intervista in cui quest'ultimo gli chiedeva in modo perentorio «di scegliere» tra la sinistra e Boselli. Ma monta anche una discreta insofferenza, da parte di Rifondazione, per la scelta del leader di Sinistra democratica di voler «stare nel mezzo» tra il cantiere socialista e quello bertinottiano. Scelta che alcuni vedono confermata dalla indicazione del socialista Valdo Spini a capogruppo dei 24 deputati di Sd alla Camera, decisione sino ad ora rinviata per i malumori che ha creato nell'ala sinistra di Sd, che a Spini avrebbe preferito l'ambientalista Fulvia Bandoli. La scelta del capogruppo di Sd sarà formalizzata alla prima riunione ufficiale del gruppo, che si terrà stasera, alle 21, alla Camera. A far storcere il naso a molti, sia nella sinistra radicale che dentro Sd, non è solo il valore politico della scelta pro-Spini, ma persino un'intervista rilasciata dallo stesso Spini al quotidiano del Pri La voce repubblicana. Intervista in cui Spini difende l'operato di Tony Blair (intervento in Iraq escluso) e ne rilancia l'esempio per l'Italia. E così, se al Senato per il gruppo di Sd i giochi sono fatti (capogruppo sarà Cesare Salvi) alla Camera, fino a ieri, i giochi erano ancora aperti, anche se l'indicazione di Mussi per Spini è stata netta.
Per quanto riguarda il fronte della polemica economico-sociale, invece, sia Mussi che Gavino Angius hanno chiaramente espresso tutta la loro «insofferenza», per le posizioni del ministro, sia prima che dopo l'ultima riunione in ordine temporale che ha cercato di rimettere assieme e far dialogare i vari pezzi della sinistra a sinistra del Pd, quella organizzata dal «Cantiere» di Achille Occhetto sabato scorso a Roma, poche ore prima che si tenesse la manifestazione di piazza Navona, cui tutto lo stato maggiore della sinistra radicale ha poi partecipato. Anche sabato, però, tra Boselli che invitava Sd a prendere parte al cantiere socialista e Giordano che chiedeva di stilare subito «un patto d'unità d'azione», tra le forze a sinistra del Pd, Mussi ha preferito tenersi aperte entrambe le porte e insistere nel puntare a una riaggregazione «unitaria» di «tutta la sinistra». Anche per questo, e non solo a causa di Padoa-Schioppa, l'insofferenza di Rifondazione - che ha deciso di accelerare il processo di costituzione della sua «Sinistra europea», il cui battesimo avverrà a giugno - cresce.

il Riformista 15.5.07
San Giovanni. Il problema è che a sinistra e tra i laici manca una politica
La piazza dei cattolici ha messo in luce un vuoto
di Emanuele Macaluso


Lucia Annunziata, in un articolo apparso ieri sulla Stampa, sbeffeggia quella sinistra che ha guardato la grande piazza San Giovanni, riempita da persone che hanno risposto all'appello della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche, con altezzosità intellettuale: «Nulla è successo e tutto è come prima». Il problema, dice Lucia, è tutto politico e la risposta a piazza San Giovanni non può essere quella che si è vista a piazza Navona rievocando il referendum sul divorzio del 1974 mentre ce n'è stato un altro nel 2005 sulla procreazione assistita, perso dai laici. E non si è riflettuto abbastanza su ciò che matura nella società attorno ai temi dell'etica pubblica e privata.
A proposito del referendum del 1974, nell'articolo si osserva che fu vinto dai laici «nonostante la Chiesa fosse in quel periodo più forte e attiva di oggi». In verità, in quella fase, la politica era forte. Dopo il 1974, nelle elezioni regionali del 1975 e in quelle politiche del 1976 la sinistra storica Pci-Psi-Psdi rappresentava circa il 50% del Paese, e con i repubblicani e i laici del Pli (la legge sul divorzio era firmata dal liberale Baslini) si superava il 50%. Il Pci di Togliatti, oggi invocato come realista per avere votato l'articolo 7 della Costituzione, aveva lanciato la parola d'ordine: «Dove c'è un campanile ci sia una sezione del Pci». I campanili sono rimasti, le sezioni del Pci non ci sono più, e non c'è nient'altro: non solo sul piano organizzativo ma su quello politico-culturale. Berlinguer fu prudente sul referendum sul divorzio, ma quando fu il momento della battaglia non si risparmiò per vincerla. Non disse che stava tra le due piazze: fece una scelta netta e combatté.
Da allora il mondo e l'Italia sono molto cambiati, e la famiglia non è solo quella fondata sul matrimonio, come dice la Costituzione. La quale, per alcuni cialtroni della destra, sarebbe invecchiata in tutti i suoi articoli, specie in quelli sui diritti dei lavoratori, ma sarebbe freschissima solo nell'articolo 29. È esattamente il contrario. Non è un caso, cara Lucia, che dove in Europa si è rielaborata la politica sui temi che hai ricordato è stata aggiornata la legislazione sul welfare e sui diritti, quindi sulla famiglia. Hai ragione: in Italia la sinistra sul welfare, sui nuovi diritti, sulla sicurezza non ha una sua elaborazione e una sua linea politica.
L'unione pasticciata tra Ds e Margherita aggraverà questa carenza, perché non c'è una base politico-culturale su cui fondare il cosiddetto Partito democratico. I documenti prodotti scansano gli ostacoli, evitano gli scogli, non trattano i problemi irrisolti. Parlano di «transizione epocale» ma non ci dicono quali soluzioni dare ai problemi che quella “epocalità” ci pone. Non sono né stupito né indignato né contrariato dalla grande manifestazione di piazza San Giovanni (dove ridicolmente girovagavano i Berlusconi, i Fini e i Casini). Ho grande rispetto per Pezzotta e Bobba da te ricordati come persone certo non assimilabili e non vicini alla destra. Tuttavia un fatto è certo. La Chiesa ha voluto una grande manifestazione il cui tema non era solo la famiglia, ma l'impronta da dare alla società e allo Stato nel suo complesso. E ha messo in luce il vuoto di chi parla di laicità senza avere una politica e una forza organizzativa per farla prevalere, anche col consenso dei cattolici democratici. Occorre un punto di vista sulla società e sullo Stato dove la Chiesa è libera di fare la manifestazione che ha fatto, ma il Parlamento deve legiferare tenendo presenti i problemi e i diritti di tutti. Anche delle minoranze cattoliche o non cattoliche. Temo che il politicismo del Pd non favorirà questa riflessione.

l’Unità 15.5.07
Laicità: il governo dica
di Gianfranco Pasquino


La piazza è uno dei luoghi della democrazia. Sia quando governa il centrosinistra sia quando governava il centrodestra - i cui esponenti hanno regolarmente criticato le manifestazioni di piazza del centrosinistra - tutti i cittadini hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni anche scendendo in piazza. Naturalmente, vi sono molti altri luoghi dove la democrazia si esprime, con altre modalità, ad esempio, sopra tutti, la cabina elettorale.
Nella sua componente numerica, il voto si presta a facili interpretazioni. La quantità di cittadini che si esprimono nelle piazze risulta più facilmente interpretabile nella sua dose di protesta piuttosto che nel suo contenuto di proposta.
Non mi pare dubbio che, grazie agli slogan, agli striscioni, alle motivazioni, la piazza del Family Day fosse portatrice di una protesta chiara e forte contro il disegno di legge licenziato dal governo di centro-sinistra per la regolamentazione dei Dico. Qualche politico particolarmente avveduto e lungimirante ha colto nella protesta anche la proposta: sostegno di vario tipo, immagino in special modo monetario, alle famiglie tradizionali. Nonostante la oramai molto nota varietà delle tipologie familiari in Italia, i politici accorsi al Family Day rimangono ostinati nel difendere un solo tipo di famiglia, quella composta da un padre e da una madre, sposati, preferibilmente, credo, una sola volta, in Chiesa, con almeno una creatura procreata con mezzi naturali. Che questo tipo di famiglia sia oggi, in Italia, e quasi sicuramente in tutto l’Occidente, assolutamente minoritario, sembra poco importare ai politici del Family Day. Molti di loro, del centro-destra, intendevano, infatti, mandare un solo preciso messaggio al governo: stop ai Dico. Che questo messaggio, come, peraltro, è già avvenuto in occasione della “piazza” di Vicenza, sia stato mandato anche da parlamentari (e da ministri) del governo in carica, appare, però, alquanto bizzarro.
Infatti, in un regime democratico, i ministri che non condividono la politica del loro governo godono dello straordinario privilegio di rassegnare in maniera onorevole il loro mandato. Il messaggio che mandano, marciando e cantando insieme ai dimostranti in piazza, colpisce direttamente il governo e, non a caso, il centro-destra esulta e chiede l’abbandono immediato dei Dico. Non tanto incidentalmente, la protesta del Family Day riguarda anche, se ne faccia una ragione Dario Franceschini, il Partito Democratico. Se, come sostiene con molta buona volontà Piero Fassino, il compito del Partito Democratico consiste nel mettere insieme, non oserò dire “d’amore e d’accordo”, la piazza del Family Day e la piazza del Coraggio Laico, questo compito, ad un mese dai congressi che hanno decretato la nascita del Partito Democratico, non è neppure ancora cominciato. Magari, nonostante gli atteggiamenti ambivalenti e riduttivi, fino al suo totale rigetto, che molti dei «costituenti» del Partito Democratico hanno mostrato nei confronti del Manifesto dei Valori, qualcuno avrebbe potuto ricordarsene e chiamare al rispetto di quelle poche indicazioni, non del tutto prive di valore. Invece, sembra che stia avvenendo proprio quello che molti, in special modo, anzi, quasi esclusivamente nell’ambito dei Ds, poiché la Margherita ha messo la sordina all’argomento oppure si è addirittura pronunziata a favore del Family Day (più o meno opportunisticamente blandendo il proprio elettorato) avevano temuto ieri e temono, a ragion veduta, ancora di più oggi e per il domani: un cedimento non piccolo, non marginale, non ininfluente sulla laicità.
Al riguardo, non di soli atteggiamenti e sentimenti si tratta, ma di comportamenti e di una visione complessiva della politica: i laici dettano, quando hanno potere di governo, regole sulle quali hanno raggiunto un accordo il più ampio e condiviso possibile, basato sulla ragionevolezza e sull’apertura di spazi di libertà. I Dico sono, ovvero erano (?), uno di questi accordi. Non sorprendentemente, la piazza del Family Day non li condivide, ma i governanti del centro-sinistra e i dirigenti del Partito Democratico non possono pensare neppure per un momento che quella piazza rappresenti tutto il loro elettorato e ancora meno che rappresenti le opinioni e le preferenze dell’intero elettorato italiano. Ascoltare la piazza non vuole affatto dire dare ragione alla piazza. Vuole dire prendere atto che esistono posizioni e valutazioni diverse, ma un governo, anche quando gode di un consenso risicato, forse, soprattutto in questo caso, deve avere il coraggio delle proprie scelte e procedere fino a sottoporre, quando verrà il tempo, alla verifica elettorale l’esito delle sue scelte, delle sue leggi.
Tocca al Partito Democratico che, oggi più di ieri, è il perno del governo, tenere ferma la barra della laicità e non abbandonare in nessun modo i Dico, adesso, a maggior ragione, anche per il loro significato simbolico. Mi ripeto: la piazza è uno dei luoghi della democrazia. Nella democrazia parlamentare della Repubblica italiana gli altri luoghi sono, non Città del Vaticano, ma, quantomeno, Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi.

l’Unità 15.5.07
Quel vuoto che si apre a sinistra
di Achille Occhetto


Riportiamo stralci dell’intevento di Achille Occhetto all’incontro organizzato sabato dal Cantiere dal titolo: «Coprire un vuoto a sinistra»

Mi è capitato di dire, alla vigilia dei congressi che si sono proposti di dare vita al partito democratico, che gli uomini e le donne di sinistra stavano provando un profondo disagio prodotto dalla sensazione che la politica italiana sembrava precipitare in un buco nero. In sostanza abbiamo temuto che in quel buco nero potesse sparire la sinistra. Ma quella sensazione, se in me non è ancora del tutto scomparsa, si è notevolmente attenuata sabato scorso assieme a Mussi, ad Angius e a Giovanni Berlinguer al Palazzo dei congressi dove quel vuoto si è come d’incanto riempito della passione e della speranza di una nuova sinistra. (...)
Non c’era dubbio che occorresse riprendere, in qualche modo, la via della unificazione a sinistra e della contaminazione tra i diversi riformismi di cui abbiamo tante volte parlato. Ma come farlo? Certamente non nel modo con il quale si è proposta la formazione del Pd. (...)
Mi sembra di poter affermare che si sta lasciando nella politica italiana un enorme spazio vuoto: quello di una sinistra moderna, capace di reinventare il senso di una attuale ispirazione socialista e democratica. (...)
Alaine Touraine, in un suo recente scritto, afferma che è ancora sensato parlare contro il capitalismo e che l’opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all’onnipotenza dei mercati e delle imprese e chiede una "sterzata a sinistra". Mettendo, di nuovo, al centro il lavoro. (...)
Ma la sinistra del terzo millennio non può esimersi dal tentare l’impresa, sicuramente titanica, di definire le linee di un nuovo modello di sviluppo, di un modo diverso di produrre e di consumare, a partire dal problema energetico, e nel contesto di una democrazia planetaria che si proponga di affrontare in modo radicale le grandi sfide della lotta al sottosviluppo e della difesa del pianeta dalla catastrofe ecologica. Il movimento reale che si batte per tutto questo è il socialismo.
Occorre sicuramente una profonda rivoluzione culturale, ma che non sia un modo per rinviare: che al contrario deve incominciare subito e dal basso, coinvolgendo direttamente i cittadini, i movimenti le associazioni, le personalità della cultura.
Per questo abbiamo partecipato con commozione allo straordinario evento di sabato scorso con il quale si è dato vita al movimento della sinistra democratica, un movimento aperto che si pone l’obiettivo dell’unificazione della sinistra. E dico subito che noi del Cantiere intendiamo essere parte attiva di questo movimento. Con quale obiettivo? Quello di dar vita a qualcosa di nuovo, attraverso una effettiva ricerca aperta, scevra da vincoli e pregiudiziali rispetto alle appartenenze del passato.
Infatti mi sembra che oggi non sia molto utile scegliere tra una federazione di comunisti e una federazione di socialisti, se per davvero vogliamo muoverci nella direzione della costruzione di una inedita sinistra democratica. Per questo ritengo che tutti dovrebbero fare uno sforzo per uscire dal proprio guscio. Personalmente penso che la nuova sinistra debba muoversi nell’alveo storico del socialismo europeo, con l’obiettivo di un suo rinnovamento nella direzione di un avvicinamento tra tutte le sinistre europee. (...)
E arriviamo al come, a quel come che anche metodologicamente ci differenzia dal processo avviato nella formazione del Pd. Il come richiama l’esigenza - ecco la proposta - di una vera costituente delle idee, presieduta da un comitato di saggi che siano espressione dei grandi filoni riformatori, aperta alla società civile e ai movimenti e che trascenda - senza annullarli - gli attuali apparati partitici.
Questa costituente dovrebbe aprire in tutto il paese, attorno ad alcuni nuclei programmatici fondamentali, un confronto reale, un processo di avvicinamento e di reciproca comprensione, una effettiva unificazione delle idee capace anche di prevedere i fisiologici elementi di diversità, legati alle differenti radici politiche, culturali e religiose.
Solo così si può dar vita ad una sinistra plurale, moderna e democratica. Per questo vi invito a non chiudere nel passato il discorso che si deve ancora aprire.

Repubblica 15.5.07
Il ministro della Solidarietà con Giordano distribuisce volantini tra indifferenza e proteste
di Diego Longhin


Ferrero contestato a Mirafiori "Capisco la delusione sul governo"
Le accuse degli operai: da voi solo parole, ora dovete fare qualcosa di sinistra

TORINO - «Compagno, queste sono solo parole, noi vogliamo fatti. A parlare siamo tutti bravi». Daniele Tabbia, 44 anni, tuta blu di Mirafiori ha appena ricevuto dal segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, il volantino con le proposte del partito su casa, salario, pensioni e sanità. Lo slogan della campagna è invitante: «Facciamo il vostro gioco». Ma chi da 20 anni lavora alle Carrozzerie lo guarda appena. Non è per nulla convinto.
Il clima nella più grande fabbrica d´Italia, dopo le esternazioni del ministro dell´Economia Padoa Schioppa sulle pensioni, è rovente. «Noi qua dentro siamo trattati come bestie. Ci volete far stare in linea di montaggio fino alla morte?», urla l´operaio. Il leader del Prc, accompagnato dal ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero cerca di reagire: «Ma noi sullo scalone non cederemo, è una promessa». La risposta non tarda ad arrivare: «Voglio vedere se fra 18 anni potrò lasciare questo posto, ma ormai non ci credo più», ribatte Giuseppe Olivieri, 40 anni, anche lui operaio.
Sono le 13.30, dalla porta 2 di Mirafiori escono i primi gruppi di lavoratori per il cambio turno. Qualcuno urla: «Fate qualche cosa di sinistra». Giordano e Ferrero continuano ad intercettare le tute blu, anzi, ascoltano gli sfoghi. La più dura è una donna, 31 anni, da dieci in Fiat. Si chiama Diana Bellivino, guadagna mille euro al mese: «Ho votato Rifondazione, sono al governo, ma non è cambiato nulla. Me l´ha messa nel di dietro come gli altri. Sono tutti uguali, raccontano solo frottole». Anche i delegati della Fiom sono in difficoltà: «Non bastano le proposte - racconta Ugo Bolognesi - quando era in discussione la Finanziaria i colleghi ci hanno coperti d´insulti. Ora ci risiamo».
Ferrero, che fa un po´ fatica a farsi riconoscere, dà ragione agli operai. «I tempi del cambiamento sono troppo lunghi: dopo un anno di governo le buste paga sono sempre le stesse, chi era precario continua ad esserlo e sulle pensioni c´è indecisione». Ma aggiunge: «Noi non cederemo e questo bagno di realtà non può che rafforzarci».
La delusione, però, è tanta. «Anche Fausto ci ha abbandonato», urlano. Nei toni il popolo di Mirafiori, lo stesso che aveva fischiato i leader di Cgil, Cisl e Uil nelle assemblee di quattro mesi fa, è ancora pacato. Nessuna contestazione forte, tante critiche. «Ho un figlio di 28 anni, non ha ancora un anno di marchette. Devo pure dagli 50 euro alla settimana per i divertimenti. Ma ti sembra giusto?», chiede Franco Caldi a Giordano. Molti tirano dritto, dicono che sono tutte balle. Un´operaia si ferma: «Perché non fate venire Padoa Schioppa a lavorare un solo giorno qua dentro. Forse cambia idea». Prende e se ne va.
Piovono domande su tutto: «Cosa ne fate del tesoretto?», «Ci togliete l´Ici?», «Perché non ci ridate il Tfr, è nostro?». Nicola Angelo è perentorio, 46 anni, di cui 20 in Fiat: «Se alla fine saranno gli altri a vincere sulle pensioni dovete andarvene dal governo». Giordano gli dà ragione: «Noi non voteremo nulla che non corrisponda al programma di questo volantino». Ormai il cambio turno è finito: «Ero venuto per ascoltare i lavoratori e ho avuto la riprova di quanto sia diffuso il malessere. Ora sono ancora più determinato».

Repubblica 15.5.07
Se la fede nasce dal dolore
Intervista a Giovanni Jervis
di Luciana Sica

"Pensare dritto, pensare storto" è il nuovo pamphlet del celebre psicologo sul ruolo delle religioni nelle società di oggi
"Ma non è possibile sradicare il bisogno che tutti abbiamo di essere rassicurati"
"Ci rifugiamo in consolazioni che non stanno con i piedi per terra"
"La nostra mente funziona in modo molto meno logico di quanto pensiamo"

ROMA. «Il mio nuovo libro è un contributo al dibattito sul ruolo delle religioni nella società di oggi»: è così che ne parla - in questa intervista - Giovanni Jervis, psichiatra e psicoanalista, intellettuale laico da sempre appassionato cultore del dubbio e della ragione critica. Ha settantaquattro anni e da poco ha smesso d´insegnare Psicologia dinamica («mi mancano senz´altro le lezioni e gli studenti, certamente non l´ambiente accademico»).
Pensare dritto, pensare storto è il titolo brillante scelto dall´autore per questo suo pamphlet in uscita da Bollati Boringhieri (pagg. 206, euro 14): a colpire è innanzitutto il "tono" del volume, sembra più parlato che scritto, somiglia a un´affabulazione - a tratti un po´ labirintica - che ruota intorno a certi abili trucchi della mente inclini a fabbricare fantasie collettive. Molto discorsivo, colloquiale, mai erudito, per niente noioso, si presenta nel sottotitolo - con sobrietà quasi dimessa - come una Introduzione alle illusioni sociali, tenendo ovviamente conto della lezione freudiana sull´illusorietà della religione (è del 1927 L´avvenire di una illusione, testo più volte citato).
Jervis mena fendenti in diverse direzioni: ha insofferenza per il narcisismo delle Grandi Menti, è irritato dalla cultura media nelle sue forme più sciattamente divulgative, è puntiglioso sugli slittamenti semantici di alcune parole fin troppo abusate, odia la retorica: «quel modo di parlare che non dimostra ma convince, non dice come stanno le cose ma seduce».
Professor Jervis, perché l´essere umano approda a credenze del tutto campate per aria?
«Perché la nostra mente funziona in modo molto meno logico e razionale di quanto pensiamo, perché il nostro modo di ragionare segue canali che controlliamo molto meno di quanto immaginiamo. Gli studi attuali della psicologia scientifica tendono a mostrare che nella nostra mente c´è - come dire - molto più inconscio che coscienza: se cento anni fa si dubitava dell´esistenza dell´inconscio, oggi si mette in discussione che esista la coscienza, non più qualcosa che spiega ma qualcosa che va spiegato».
A distanza di un secolo, è la nozione di inconscio a reggere di più. Una rivincita di Freud, nonostante - è lei a scriverlo un po´ en passant - il fondatore della psicoanalisi non venga neppure citato nel Cambridge Dictionary of Scientists?
«Negli ultimi trent´anni il panorama delle nostre conoscenze psicologiche è profondamente cambiato e in futuro ne sapremo sempre di più su come siamo, su come funziona la nostra mente, sull´intelligenza e la stupidità, su come si fabbricano le convinzioni, su come nasce l´altruismo o l´egoismo, su come i bambini crescono, apprendono e diventano adulti: tutti temi sottoposti dalla psicologia scientifica a verifiche empiriche serie, a un tipo d´indagine che non si fida delle prime impressioni, con risultati spesso sorprendenti. Ma forse la tematica che regge un po´ tutto il mio libro è proprio quella degli autoinganni, cara a Freud: la nostra tendenza a sbagliarci su noi stessi perché ci fa comodo così, creandoci appunto delle illusioni, rifugiandoci in consolazioni che non stanno con i piedi per terra, essendo più sicuri di quello che dovremmo essere, diventando alla fine dogmatici».
Gli autoinganni che spingono alle certezze assolute, la critica al relativismo oltranzista che può sconfinare nell´intolleranza, un certo pessimismo sulla possibilità di conciliare il pensiero laico con quello religioso, sono tutte questioni centrali del suo libro. Del resto, le sue incursioni su territori forse più vicini alla politica che alla psicologia non sono di oggi. Perché ne è così affascinato?
«Perché sono convinto che oggi la psicologia scientifica possa fornire un contributo importante alle questioni complesse che riguardano la convivenza, come l´integrazione degli immigrati o le contese tra le classi sociali e tra i popoli. E´ vero: il mio è un libro scritto da uno psicologo che utilizza gli strumenti della psicologia moderna, ma come oggetto ha temi sociali e politici. Il punto è che la conoscenza attuale della natura umana è assai migliore di anni fa, anche per quanto riguarda i fattori che ci fanno mettere d´accordo o che invece creano conflitto, legati al nostro modo di pensare, spesso più contorto - crooked - che limpido. Possiamo chiarire alcuni di questi fattori, quelli che ci incoraggiano a cooperare e quelli che invece spingono a distruggerci a vicenda. In ogni caso gli sviluppi delle scienze moderne portano ad analizzare la realtà secondo criteri sempre più incompatibili con le tradizioni spiritualistiche e religiose. C´è un divario crescente tra il discorso scientifico che parte dal basso, dall´esame della realtà, dalla vita quotidiana e i concetti religiosi che calano dall´alto, da principi indiscutibili, dati una volta per tutte. Quando i cattolici parlano di "famiglia naturale" usano una terminologia che non ha nulla a che fare con le famiglie come esistono nella realtà».
Ma lei non ignora la difficoltà - se non l´impossibilità - di vivere senza certezze, i "difetti" della ragione rendono evanescente la nozione, cara agli illuministi, di libero arbitrio... Rompere l´incantesimo, il bestseller di Daniel Dennett appena uscito da Cortina, non l´ha convinta per niente, è così?
«L´ho trovato un libro molto noioso e anche ingenuo. Non basta dire: Dio non esiste, se invece tutti abbiamo bisogno di consolazioni, di speranze, di rassicurazioni. Il bisogno di religione è un bisogno psicologico che non si può affatto sottovalutare, negare, sradicare, perché nasce dal dolore, dai lutti, dalla paura della morte, dal desiderio di dare un senso all´esistenza. Altra cosa però sono le istituzioni religiose, le strutture di fede che chiedono obbedienza, rinunciando non solo allo spirito critico ma spesso anche al più elementare senso della realtà. L´incompatibilità tra pensiero laico e pensiero religioso è reale, sta esplodendo negli ultimi anni e non è destinata a ridursi».
Non c´è spazio per facili ottimismi...
«Per facili ottimismi, no di certo, ma neppure per il più cupo pessimismo».
Dove rintraccia uno spiraglio di speranza?
«Proprio in quella che è la natura umana. Io, come del resto altri, e con molte buone pezze di appoggio, credo che noi non siamo né anarchici né cattivi. Possiamo diventare terribilmente cattivi in determinati contesti, ma comunque non siamo animali informi guidati da istinti solo aggressivi e competitivi: al contrario, abbiamo tendenze socializzanti in positivo e anche una moralità di fondo nel nostro modo di comportarci. Siamo individui strutturati che appartengono a una specie sociale, ci piace stare insieme e fare cose insieme, abbiamo delle forti predisposizioni alla cooperazione e all´altruismo... Non mi sembra che emerga una visione così pessimistica».
Sì, ma lei esclude che le nostre azioni siano il frutto di una vera deliberazione progettuale. C´è allora qualcosa di sensato nella nostra vita?
«C´è molto di sensato. Perché le nostre azioni non sono comunque inutili o improvvisate. Perché c´è una socialità, ci sono equilibri interpersonali che in qualche modo indirizzano le nostre azioni. Noi in genere facciamo quello che si fa, che va fatto, seguendo dei copioni anche molto opportuni che ci impediscono di fare grosse scemenze o cattiverie».
Da tutto quello dice, e che ha scritto, s´intuisce che non crede affatto nella primarietà del Male, in quella pulsione di morte ancora difesa dalla psicoanalisi. Mi sbaglio?
«Alcuni concetti roboanti come il Male e il Bene sono del tutto privi di senso, astrazioni che pretendono di trasformarsi in entità metafisiche. La nozione di pulsione di morte è largamente superata, è un modo di spiegare le cose inesatto e fuorviante, e che alla fine non spiega nulla».
La considera una pura congettura?
«È un errore metodologico, perché non è possibile spiegare con una sorta d´istinto immaginario, con un principio del Male del tutto metafisico, delle vicende umane e sociali che sono nelle vite individuali e nella storia. Non è che ci sia qualcosa di mostruoso che sonnecchia ed è lì latente dentro di noi, non è che ci sia qualcosa che spunta come un fungo e che chiamiamo, anche impropriamente, cattiveria: non è così che è possibile attribuire un senso al dolore che s´infligge agli altri, agli stermini o alle pulizie etniche».
Ormai si sente molto più amico dei cognitivisti che degli psicoanalisti, non è vero?
«Sì, è vero, ma soprattutto sul piano appunto metodologico, perché invece dal punto di vista della pratica terapeutica gli analisti con un po´ di esperienza hanno ancora parecchio da insegnare».
Questa è un po´ una sorpresa. È da anni che lei ostenta tutta la sua diffidenza per la clinica analitica. Ha cambiato idea?
«Non credo, ma non si può neppure buttare nella spazzatura ogni trattamento su base analitica».
Anche perché lei fa questo mestiere. Le sue non sono comunque terapie a orientamento analitico?
«Non ho mai smesso di fare questo mestiere, lo faccio tuttora, e credo che alcuni orientamenti analitici siano tuttora validi e preziosi: per esempio, la cautela nel considerare il coinvolgimento all´interno del rapporto terapeutico, quello che si definisce tecnicamente il controtransfert. Da questo punto di vista, la psicoanalisi ci ha dato un patrimonio di avvertenze, di saggezze straordinarie».

Repubblica 15.5.07
Esperimento all'università di Parma: la risonanza magnetica svela i processi di immedesimazione
Tutte le emozioni in un quadro così reagisce il nostro cervello
di Elena Dusi


"Le aree motorie che corrispondono ai muscoli tesi dei Prigioni, si attivano mentre osserviamo i giganti che cercano di divincolarsi dalla pietra"
"Rievocare" le sensazioni di San Tommaso, "imitare" il gesto di Fontana. Fino alla più forte delle emozioni: la sindrome di Stendhal

ROMA - Emozione è guardare un´opera d´arte come se ci si trovasse al suo interno. Provare le stesse sensazioni dei suoi personaggi. Rievocare i movimenti compiuti dalle mani dell´artista. «L´abilità di un pittore coincide con la sua capacità, spesso inconscia, di rievocare un´emozione nel cervello dell´osservatore» spiega Vittorio Gallese, professore del dipartimento di neuroscienze dell´università di Parma ed esperto di neuroestetica, la scienza che cerca di spiegare il rapporto fra cervello e opere d´arte.
Forte della sua esperienza nella scoperta dei neuroni specchio, Gallese ipotizza che le emozioni trasmesse da un´opera d´arte attraverso la tensione muscolare e le espressioni facciali dei suoi protagonisti si riflettano nella corteccia cerebrale degli osservatori. Le aree motorie che corrispondono ai muscoli tesi dei Prigioni di Michelangelo si attivano guardando i giganti che cercano di divincolarsi dalla pietra. I circuiti del dolore si "accendono" (a volte anche con un brivido) guardando le vittime dei Disastri della guerra di Goya. I neuroni specchio costituiscono quei particolari circuiti cerebrali (scoperti proprio a Parma una quindicina di anni fa) che ci fanno intuire le intenzioni o le emozioni altrui dai gesti del loro corpo o dagli atteggiamenti del loro viso.
Lo stesso meccanismo di empatia che ci permette di vivere in sintonia con gli altri sta alla base del nostro emozionarci di fronte a un´opera d´arte, ipotizzano Vittorio Gallese e David Freedberg, direttore dell´Accademia italiana di studi avanzati della Columbia University. Il neuroscienziato e lo storico dell´arte hanno appena pubblicato insieme uno studio su "Movimento, emozione ed empatia nell´esperienza estetica" sulla rivista Trends in Cognitive Sciences. «Per verificare fino in fondo le nostre ipotesi, stiamo svolgendo i test su un gruppo di volontari, osservando le loro reazioni cerebrali con la risonanza magnetica transcranica» spiega Gallese.
La teoria dell´immedesimazione per spiegare l´emozione di fronte alle opere d´arte non è certo una novità, se già Platone usava il termine "mimesi" anche per riferirsi alla creazione artistica. «Ma l´osservazione di questo fenomeno alla luce delle conoscenze scientifiche moderne - spiega Gallese - rappresenta una novità».
"Rievocare" la sensazione di San Tommaso che infila il dito nel costato del Cristo, "simulare" lo sforzo dei Prigioni, "imitare" il gesto di Fontana che squarcia la tela non vuol dire compiere effettivamente gli stessi gesti. «I neuroni si attivano come se dovessero squarciare la tela - spiega Gallese - ma senza impartire l´ordine ai muscoli». Un´emozione di intensità eccezionale può forse spiegare la sindrome di Stendhal. «Forse - prova a ipotizzare Gallese - in questi casi i meccanismi che abbiamo descritto diventano ipereccitati, e l´attivazione del cervello raggiunge livelli ingestibili».

Repubblica 15.5.07
Quando la Chiesa mette al bando
Cosa c'è dietro il monito lanciato da Benedetto XVI
di Giovanni Filoramo


Storia di una interdizione nel mondo cattolico e nelle altre religioni
L'espulsione dalla comunità ecclesiale e l'impedimento ai sacramenti

In un sermone predicato il 16 maggio del 1519 in occasione della lettura domenicale del giorno, il testo di Giovanni 16, 2: «Vi espelleremo dalle sinagoghe», Lutero, non ancora scomunicato, affronta di petto il problema degli aspetti degenerativi che l´istituto della scomunica, al pari delle indulgenze, aveva all´epoca assunto. Mezzo di pressione, in questo caso fiscale – per imporre alle popolazioni renitenti il pagamento delle decime – , mentre manifestava il potere della Chiesa e del papato sul corpo esteriore dei fedeli, esso rivelava nel contempo la sua impotenza di autentico vincolo spirituale, capace di legare nel profondo la comunità dei fedeli. Soltanto Dio, infatti, poteva introdurre e, dunque, escludere dalla comunione dei veri credenti.
Nella radicalità della sua critica all´istituto giuridico della scomunica, così come si era venuto configurando nella Chiesa medievale, il sermone di Lutero racchiude non soltanto le ragioni profonde della rottura confessionale che si consumava in quegli anni cruciali, ma, più in generale, gli elementi caratterizzanti del fenomeno generico, il bando da una comunità religiosa, di cui la scomunica costituisce una specie, per quanto significativa. Sottolineando la dimensione essenzialmente religiosa ma, prima ancora, squisitamente individuale di un atto che si sarebbe dovuto consumare nel foro interiore del singolo, tra il peccatore e il suo Dio, Dio di grazia e di giustizia, l´agostiniano Lutero metteva a nudo, indirettamente, la caratteristica fondamentale del bando, che, con le variazioni del caso, si ritrova anche in altre tradizioni religiose: l´esclusione dello scomunicato dalla "comunione" religiosa di appartenenza.
La situazione di pluralismo religioso in cui viviamo ci mette oggi nuovamente di fronte a un problema che sembrava appartenere al passato e che le analisi antropologiche, appiattendo troppo spesso la religione sulla cultura, tendono a sottovalutare: la centralità della comunità religiosa e dei diritti sacri che la reggono, tra cui rientrano le modalità, sanzionate sacralmente, dell´ingresso e dell´esclusione, i due fenomeni che ne stanno alla base. I conflitti che periodicamente emergono, sia nel caso di comunità islamiche sia di altre comunità religiose ormai ampiamente presenti anche nelle nostre città, relativi alla difficoltà di mediare tra esigenze comunitarie e normative dello Stato su campi scottanti come l´istruzione scolastica, i tempi e gli spazi sacri, il rispetto delle regole alimentari religiose nelle mense degli ospedali, delle caserme, delle scuole, l´ammissibilità di un abbigliamento religiosamente qualificato nei luoghi pubblici, culminano nel problema del bando. A prescindere ora dalle forme che assume, esso non è negoziabile, non può cioè, per la centralità che riveste nella identità del gruppo, sottoporsi a quelle forme di mediazione con il quadro giuridico statuale che possono essere ricercate in altri casi.
Al pari dei riti di ingresso, infatti, anche se con caratteristiche e logiche diverse, i meccanismi di esclusione, che culminano nel bando come modalità di allontanamento senza ritorno dell´escluso, costituiscono forme vitali di sanzionamento e legittimazione dell´identità corporativa della comunità religiosa. In quanto tali, essi sono rintracciabili in numerose religioni, fondate e regolamentate da un diritto sacro o, in sua assenza, rette da regole non scritte di tipo sacrale. Questa distinzione rimanda a sua volta, dal punto di vista comparativo, a una distinzione più generale tra due tipi fondamentali: quelle in cui la religione coincide con la cultura e l´ethnos di appartenenza, e quelle in cui, come le religioni profetiche, monoteistiche e di salvezza, l´identità della comunità acquista una sua specificità religiosa, fondandosi ad esempio, come avviene nel cristianesimo e nell´islam, sull´annuncio profetico e sulla rivelazione della volontà salvifica di Dio, che si rivolge a tutti gli uomini, favorendo la creazione di un vincolo comunitario che trascende le appartenenze etnico-culturali.
Anche se i meccanismi di esclusione possono, in questi due tipi di religione, coincidere, con uno spettro che può andare dalla confisca dei beni alla confisca del bene più prezioso: la vita, la logica soggiacente è diversa. Nelle religioni antiche, che noi chiamiamo pagane e politeistiche, e nelle loro continuità moderne, come le religioni indigene e tradizionali che non hanno conosciuto le trasformazioni indotte dalle missioni cristiane ed islamiche, proprio per la coincidenza tra vita politica, dimensione culturale e dimensione religiosa, in genere i motivi di esclusione coincidono con crimini socialmente riprovevoli (che noi saremmo tentati di definire "profani" o "secolari"), come l´omicidio o l´adulterio. Le colpe "religiose" più frequenti, che facevano scattare da parte dello stato o della città il decreto di espulsione del colpevole, comprendevano in genere varie forme di sacrilegio e cioè di violazione delle regole di purità e sacrali che regolamentavano la vita politica, come la bestemmia, lo spergiuro, la mancanza di rispetto nei confronti delle figure sacrali del sacerdote o del sovrano, la violazione delle regole sacrali connesse alla celebrazione di particolari festività. Naturalmente, queste regole di fondo variavano a seconda dei contesti culturali e del soggetto coinvolto: se un singolo o un gruppo o addirittura un´intera comunità. Così come variavano il grado e l´intensità dell´esclusione dalla vita della comunità: dal bando temporaneo, all´esilio, all´esclusione perpetua che, in una società antica, in cui un individuo tendeva a essere identificato e a identificarsi con la comunità di appartenenza, coincideva con la sua messa a morte sociale.
Le forme di bando introdotte dalle religioni del secondo tipo, fondate su di un nuovo concetto di identità e di appartenenza specificamente religiose, conoscono l´emergere di un fenomeno nuovo. Ora che l´individuo, convertendosi alla nuova fede, può scegliere di abbandonare la società e, con ciò, la religione di origine, egli può anche scegliere di abbandonare a un certo punto la religione a cui si è convertito. Una esclusione volontaria, che queste comunità religiose non hanno mai visto di buon occhio, considerandola a vario titolo un tradimento dell´unica fede vera e introducendo, in questo modo, nuove cause di esclusione specificamente religiose, dall´eresia all´apostasia, termine, quest´ultimo, che è diventato l´oggetto di specifiche regolamentazioni giuridiche, con relative pene e condanne, che possono in determinati casi arrivare fino alla morte. Nel contempo, esse hanno ripreso e adattato alla nuova situazione le forme tradizionali di esclusione, inserendole nelle rispettive tradizioni di diritto sacro e, a seconda del modo di confrontarsi con le sfide della modernità (indotte, ad esempio, dal diffondersi dei diritti umani), mitigando e contemperando le proprie esigenze identitarie con le più generali esigenze del diritto laico e dei suoi presupposti etici. Così, per non portare che un esempio, una religione come l´induismo, per un verso potenzialmente inclusivista e dunque poco incline ad escludere, per un altro, caratterizzato da una forte organizzazione gerarchica che per secoli ha escluso dall´identità religiosa e dunque sociopolitica i fuori casta, a partire dalla formazione dell´India nel 1947, in seguito ai processi di secolarizzazione e laicizzazione promossi dalla sua dirigenza politica e iscritti nella sua costituzione, ha dovuto rimettere in discussione questo secolare meccanismo di esclusione, con le conseguenze talora drammatiche che ne hanno segnato la storia più recente.

Repubblica 15.5.07
Dalle scomuniche individuali a quelle collettive
Quel potere sovrano esercitato dai papi
di Augusto Paravicini Bagliani

Celebri sono le scomuniche inflitte da Papa Gregorio IX all´imperatore Federico II di Svevia e da Paolo III al re d´Inghilterra Enrico VIII

Qualche settimana fa, l´accenno del papa all´Inferno suscitò sorpresa e provocò un dibatto. In questi ultimi giorni, è la parola scomunica a porsi in modo analogo al centro dell´attenzione pubblica, in seguito alla dichiarazione di papa Benedetto XVI secondo cui «chi vota a favore di leggi pro-aborto si autoesclude dall´eucarestia» (secondo la dichiarazione di padre Lombardi, portavoce del Vaticano). L´esistenza stessa del dibatto è interessante, perché né per l´Inferno né per la scomunica gli accenni del papa contenevano novità. Essi corrispondono cioè a quanto affermano i più recenti documenti ufficiali, il Catechismo o il Diritto Canonico. Ma il fatto è che da decenni, la scomunica si era fatta in disparte nei rapporti tra la Chiesa e il mondo dei laici, non sembrava cioè costituire una seria minaccia agli occhi di tanta opinione pubblica, grazie al progressivo affermarsi di valori come il dialogo interreligioso, la tolleranza e il pluralismo. Ed è forse per queste ragioni che il ritorno alla ribalta dalla parola scomunica ha suscitato le reazioni che si sono lette sui giornali di tutto il mondo. Come fu per l´Inferno qualche settimana fa.
Il recente dibattito ha permesso di ricordarci che cosa significa la scomunica. La quale pone sostanzialmente un fedele nell´impossibilità di celebrare la comunione, ossia l´Eucarestia. Perché l´Eucarestia è il Corpo di Cristo, che rappresenta la Chiesa. E la scomunica comporta una separazione temporanea dalla comunità ecclesiale.
Questo nesso, fondamentale, tra scomunica e Eucarestia, ha radici storiche antiche. Nel 1215, il concilio Lateranense IV decretò che i fedeli avevano l´obbligo di fare la comunione una volta all´anno, il giorno di Pasqua; e chi non si fosse comunicato in quel giorno si sarebbe autoscomunicato ipso facto. Mai prima di allora la scomunica era stata prevista in termini così generali nei confronti dei fedeli. Il decreto del 1215 fu generalmente osservato. Innumerevoli sono le visite pastorali medievali e moderne che segnalano la presenza di scomunicati (per non aver adempito all´obbligo pasquale) nelle parrocchie di cui descrivono la vita spirituale e la situazione del clero. Il loro gran numero dimostra che anche nel Medio Evo la frequentazione alla messa fu lungi dall´essere generale.
Insomma, dal Duecento in poi e per molti secoli successivi, la scomunica era una minaccia che poteva verificarsi annualmente. Il che fece nascere il desiderio di possedere un certificato per l´avvenuta confessione e comunione. Si dice che l´imperatrice Maria Teresa fosse particolarmente puntigliosa in questo.
In quei secoli del Medio Evo e dell´età moderna, sui fedeli incombeva un´altra minaccia, quella della scomunica collettiva, ossia dell´"interdetto". Agli abitanti di una città o di una diocesi le autorità religiose – il papa o il vescovo – potevano vietare di accedere ai sacramenti per un periodo indeterminato. La promulgazione dell´ "interdetto" comportava il divieto assoluto di organizzare celebrazioni eucaristiche. Le ragioni che spinsero papi e vescovi a ricorrere a questo tipo di scomunica collettiva erano di natura religiosa ma anche politica. L´interdetto era una decisione estrema che tentava di risolvere conflitti che sembravano insanabili. Si impediva però così di vivere una vita sacramentale a intere popolazioni che di fatto non erano sempre responsabili di tali conflitti. Famiglie aristocratiche, monasteri ed altre istituzioni ecclesiastiche ottennero sovente il privilegio di poter continuare a celebrare offici divini in caso di interdetto imposto dalle autorità ecclesiastiche.
Per secoli dunque, scomuniche individuali e collettive hanno ritmato la vita religiosa dell´Europa cristiana. Ma lo strumento della scomunica fu anche un´arma di grande importanza nei conflitti tra papato e sovrani. Celebri sono, ad esempio, le scomuniche inflitte da papa Gregorio IX all´imperatore Federico II di Svevia (morto nel 1250) e da Paolo III al re d´Inghilterra Enrico VIII (morto nel 1547). Federico II fu scomunicato per molteplici ragioni, politiche e religiose, che vanno dalla mancata Crociata all´edificazione di una colonia di Saraceni a Lucera, e così via. Enrico VIII fu scomunicato per avere fatto annullare dalla Chiesa anglicana il matrimonio con Anna d´Aragona e riconoscere ufficialmente il matrimonio clandestino con Anna Bolena. Due grandi artisti del Cinquecento – Federico Zuccari e Giorgio Vasari – illustrarono queste scomuniche in due stupendi affreschi, conservati a Caprarola (Palazzo Farnese) e nelle Sala regia del Palazzo Vaticano. Ambedue i papi che stanno scomunicando Federico II e Enrico VIII tengono in mano una candela con l´intento di gettarla fra la folla riunita sotto la Loggia delle Benedizioni in Vaticano. I due artisti illustrano una cerimonia reale, nel corso della quale il papa, accompagnato dai cardinali e dai prelati di curia vestiti di bianco, procedevano alla scomunica dei "nemici" e dei "ribelli" della Chiesa, gettando appunto candele tra la folla, che simboleggiavano le fiamme dell´Inferno. Il rito fu celebrato ogni anno il Giovedì santo per più di cinque secoli, dall´inizio del Duecento (all´epoca di Federico II) fino al tardo Settecento. Il grande scrittore francese Montaigne assistette al rito nel 1580 e ne offrì una descrizione precisa. Egli osservò che sul balcone della Loggia della Basilica vaticana era stato disteso un panno di colore nero durante la cerimonia, simbolo dell´Inferno. Intorno al 1770 il rito fu ufficialmente abbandonato. E´ vero che da almeno un secolo (Thomas Hobbes) la legittimità della scomunica di natura politica era stata messa in discussione. Da allora, la Loggia delle Benedizioni sulla facciata della Basilica vaticana non servì più a celebrare il rito di scomunica in contumacia dei ribelli della Chiesa ma ad accogliere esclusivamente la benedizione papale urbi et orbi, che il papa celebra ancor oggi quando viene eletto, nel giorno di Pasqua ed in altre circostanze particolarmente solenni.

Repubblica 15.5.07
Quello che la Chiesa considera empio
Storie di anatemi e altre inquisizioni
di Franco Cordero

La scomunica richiede forme terrificanti. Il vescovo scandisce l´anatema avendo intorno dodici preti che tengono in mano la candela che poi calpesteranno

Anatema: il nome greco corrispondente, dal verbo "anatíthemi" (appendere), designa offerte votive, ad esempio le armi d´una battaglia vinta; variando una vocale i Settanta traducono così l´ebraico "hérem", parola sinistra. In Giosuè 6.17 e 21 indica la mattanza d´ogni anima viva a Gerico, uomini, donne, bambini, vecchi, buoi, pecore, asini (meno una prostituta, Rahab, che aveva ospitato spie ebree). I due significati coesistono nell´aggettivo latino "sacer": tale l´uomo consacrato agli dèi infernali; chiunque l´ammazzi rende ossequio al dio; finché resti vivo, nuoce alla comunità. Nel lessico cattolico "anathema sit" chi lancia, sostiene o condivide idee empie.
Vediamo due casi. Nella fosca dottrina agostiniana, imposta alla Chiesa romana da quella d´Africa, Dio tira i fili della vita psichica lasciando ai pazienti l´illusione d´essere padroni in casa loro: la storia cosmica (genesi, caduta, redenzione) è un colossale gioco autistico perché angeli e animali umani erano discriminati ab aeterno, alcuni salvi, in malora l´enorme resto; i piani includevano peccato d´Adamo e lue genetica. Corre l´anno 418, primavera, quando 214 vescovi del XVI concilio cartaginese scomunicano Pelagio, monaco britanno, fautore d´un cristianesimo d´alta tensione morale, e l´allievo Celestio. A proposito d´uno dei nove anatemi ivi formulati, sant´Agostino vitupera l´idea "folle" che i bambini morti senza battesimo sfuggano all´inferno: ma il guignol dei neonati in pasto al diavolo non entra nelle raccolte romane o ne esce presto; poi dottori meno efferati escogitano il limbo, luogo d´una malinconica felicità naturale; infine, anno Domini 2007, dettati conformi ai tempi lo svuotano traslocando gl´inquilini in paradiso. Gran testa quel retore fenicio ex manicheo, convertito a Milano, vescovo d´Ippona, autore d´una psicanalisi ante Freud: ha scoperto la causalità psichica, altissimo merito scientifico; senonché chiama "grazia" l´impulso irresistibile inoculato dallo Spirito santo e in tale fantasmagoria l´assunto deterministico sviluppa paradossi ripugnanti alla cultura romana; Dio diventa orco. Da notare come abbia fondo ateistico l´umanesimo pelagiano. La Chiesa naviga come può, tra Scilla e Cariddi: condanna Pelagio, santifica Agostino, codifica l´impulso divino determinante, lascia credere alle anime tenere d´essere attive nella partita; insomma, balla sul filo della contraddizione. Il bianco è anche nero, dicono i canoni tridentini "de iustificatione" (sesta sessione, 13 gennaio 1547): "anathema sit" chi afferma che l´uomo possa salvarsi con le sue forze; o abbassa la grazia a fattore coadiuvante; o postula un´incipiente buona volontà interamente umana. Puro agostinismo ma i tre seguenti riabilitano sotto banco il monaco britanno: maledetto chi nega l´apporto umano al processo salutare o considera irresistibile l´impulso pneumatico o vede nell´uomo un automa. L´ortodossia configura uno stato onirico, sublogico, dove p e non-p siano egualmente vere: fiorisce una retorica del pastiche; solo così l´alchimia ecclesiastica diluisce conflitti dirompenti.
In sede antropologica il costo è rovinoso. Sotto qualunque insegna militino, gli ecclesiocrati professano un culto ateo del potere: il loro dipende da premesse non verificabili (il pianeta terra epicentro d´un romanzo divino culminante nell´Ecclesia triumphans; o l´imminente collasso dell´economia capitalistica e avvento d´una società armoniosa dove nessuno soffra nel lavoro alienato), perciò negano i fatti che le smentiscono; passato e futuro fluttuano, né vigono regole sintattiche; 2+2=5 o qualunque altro numero, secondo i dettami d´un soi-disant infallibile intelletto collettivo. Verità fluide. Mater Ecclesia, Partito, setta le definiscono in mercuriali quotidiane. Ora, non esistendo ancora un controllo genetico rigoroso, è affare arduo governare i cervelli frenandoli affinché pensino poco e siano pensieri innocui: l´indottrinamento avviene in forma capillare, dagli asili alle accademie; poi bisogna sorvegliarli, cogliere i devianti, dispensare cure o pene, donde spie, investigatori, consulenti, terapeuti, oracoli, apparati coattivi. La funzione crea l´organo: Tomás de Torquemada prefigura Heinrich Himmler o Andrej Vyšinskij, diligenti energumeni d´un lavoro efferatamente stupido, astuto però e ricco d´abilità pratiche, la cui massima è «al diavolo l´intelligenza»; dal filtro esce un personale direttivo adeguato al modello.
La scomunica richiede forme terrificanti. Le descrive Enrico da Susa, cardinale Ostiense (Summa aurea, metà del XIII secolo): il vescovo scandisce l´anatema avendo intorno dodici preti; tengono in mano "lucernas ardentes"; al punto culminante le sbattono in terra e calpestano.. Lo scomunicato finisce «cum diabolo et angelis suis, maledetto dalla «planta pedis usque ad verticem capitis». Sono inferno Lager e gulag. Meno brutali gl´interdetti borghesi ma altrettanto inesorabili. Guidati dall´istinto, praticano scomuniche anche i branchi, escludendo l´animale inidoneo alla vita gregaria. Nel mondo umano l´ordigno selettivo è in mano a gente uscita da selezioni perverse: teste piccole, talvolta maligne; gl´inquisitori figurano male nei verbali; Stalin sopraffà Trotskij; Martin Bormann divora i concorrenti. Vari segni indicano un´età dogmatica allo stato rinascente. Se i germi attecchiscono, quod Deus avertat, quanto lavoro porteranno al patologo del pensiero: concessa l´ipotesi d´un Creatore (sui gusti del quale è caritatevole chiudere gli occhi), non storpiamo i suoi pochi doni; tolto l´intelletto, cosa resta agli adamiti? Povere scimmie nude.

Repubblica 15.5.07
Le parole di Benedetto XVI
Dove porta il castigo papale
di Marco Politi

Tornare alla scomunica di un parlamento nel XXI secolo è inquietante. E apre un interrogativo sul pontificato di Joseph Ratzinger. Quando il 25 aprile scorso i deputati del Distretto federale di Città del Messico si sono riuniti per votare una liberalizzazione dell´aborto, un comunicato dell´arcidiocesi della capitale li ha minacciati del «castigo della scomunica». Automatico. «Gli scomunicati non potranno partecipare alla Santa Messa, ricevere la comunione, confessarsi né accedere agli altri sacramenti, né essere padrini né partecipare attivamente alla vita della Chiesa».
Passata la legge, il portavoce dell´arcivescovo di Città del Messico, cardianale Rivera Carrera, ha intimato ai deputati pro-aborto: «Abbiano la decenza di non entrare in cattedrale e in nessun´altra chiesa cattolica del mondo finché non saranno stati perdonati». Un episodio locale? Benedetto XVI, volando in Brasile ha appoggiato i vescovi messicani: «Questa scomunica – ha scandito – non era una cosa arbitraria, ma è prevista dal Codice (di diritto canonico). Sta semplicemente nel diritto che l´uccisione di un innocente bambino è incompatibile con l´accostarsi in comunione con il Corpo di Cristo. Quindi (i vescovi) non hanno fatto qualcosa di nuovo, di sorprendente, di arbitrario».
Una dichiarazione pesante, gravida di conseguenze al di là del caso messicano. Il Vaticano se ne è reso subito conto sterilizzando nel bollettino ufficiale le parole papali, cercando di attutire il placet alle minacce dell´episcopato messicano. Ma papa Ratzinger non fa gaffe – non la fece nemmeno a Ratisbona evocando l´attacco a Maometto di un imperatore bizantino – parla e manda segnali precisi.
In due anni di pontificato è venuta emergendo una teoria dei Due Regni. C´è il regno delle scelte socio-economiche, in cui Benedetto XVI rispetta la laicità dello Stato, sottolineando che l´attività politica non è competenza della Chiesa e che essa «non deve trasformarsi in soggetto politico», perché snaturerebbe la sua missione. E poi c´è il regno dell´esistenza umana – la nascita, la sessualità, le relazioni di coppia, la paternità, la maternità, la genetica, la morte – su cui in nome della legge naturale e divina la Chiesa proclama il suo potere di intervento totale. Qui non vale la libertà di coscienza e di mediazione dei deputati cattolici. Qui il "diritto" della Chiesa esige sottomissione assoluta. Nasce da questa concezione il revival della scomunica sulla bocca del Papa. Il cattolico che non ubbidisce è "fuori". Mentre la Chiesa può usare tutte le armi: dalle sanzioni canoniche alle manovre politiche dirette come si vede in Italia. È un gioco pericoloso. Pretendere di porre la dottrina religiosa come criterio assoluto della legislazione significa entrare nella logica della sharia, che equipara la parola di Dio alla legge civile. Così è lo scontro tra tribù religiose.

Corriere della Sera 15.5.07
Il nuovo saggio dello studioso israeliano Zeev Sternhell sulle conseguenze storiche dell'antilluminismo
I nemici dei Lumi
Da Croce a Furet, da Berlin a Bauman gli avversari inattesi del razionalismo
di Dino Messina


È passato un quarto di secolo dalla prima edizione di Né destra né sinistra,
il libro rivoluzionario in cui Zeev Sternhell, uno dei maggiori storici israeliani, individuava le radici del fascismo non semplicemente nella crisi derivante dalla prima guerra mondiale, ma nel pensiero e nei movimenti irrazionalisti che si diffusero in Europa alla fine dell'Ottocento. Oggi questo studioso ci offre un'opera monumentale, Contro l'Illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda, edita in Italia come quasi tutti i suoi libri da Baldini Castoldi Dalai. Docente di Scienze politiche all'Università di Gerusalemme, in questi giorni a Parigi, Sternhell ci spiega che l'oggetto delle sue ricerche non è semplicemente cambiato, ma si è enormemente allargato, sino a comprendere quasi tre secoli. «Nei miei saggi come Né destra né sinistra o Nascita dell'ideologia fascista riflettevo sul fascismo, centro del lungo movimento antilluminista che nasce contestualmente alla filosofia dei Lumi e si estende attraverso varie tappe e forme sino ai nostri giorni».
La catastrofe europea del Novecento, è questo uno dei contributi originali del nuovo saggio di Sternhell, «non è solo il prodotto della Grande Guerra nè della crisi di fine secolo, ma è parte di un'onda lunga che da Giambattista Vico, Johann Gottfried Herder ed Edmund Burke arriva sino ai neoconservatori americani». Intendiamoci, Sternhell non criminalizza alcuna forma di pensiero, ma individua quelle correnti che contro i Lumi e la Rivoluzione francese predicano «l'antirazionalismo, l'antiuniversalismo, l'idea che la comunità sia più importante dell'individuo».
Nato come reazione al pensiero di Hume, Kant, Rousseau, Montesquieu, «l'antilluminismo — spiega Sternhell — diventa presto corrente autonoma. Per far capire di che cosa parliamo, consideriamo il concetto di nazione: ai due estremi abbiamo da un lato la definizione dell'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert secondo cui la nazione è una collezione di individui che vivono nello stesso territorio sotto lo stesso governo. Una definizione asettica, nessun accenno alla storia, alla cultura, al linguaggio, alla religione. All'estremo opposto abbiamo Herder, che definiva la nazione come un corpo vivente in cui gli arti sono gli individui».
Dal punto di vista politico, Sternhell non esita a individuare nel nazionalismo polacco il più estremo interprete europeo dell'antilluminismo. Mentre non ci sono dubbi che dal punto di vista intellettuale «il più caratteristico movimento antilluminista sia rappresentato dai neoconservatori americani». Lo storico israeliano dedica alcune pagine nella parte finale del suo saggio a Gertrude Himmelfarb, definita «gran badessa del neoconservatorismo americano» che prosegue una «linea di pensiero inaugurata da Burke», il quale dissocia la Gloriosa rivoluzione inglese del 1689 dalla Rivoluzione francese di un secolo dopo. I neoconservatori statunitensi si inscrivono dunque, secondo Sternhell, nella grande corrente di pensiero che tende a isolare «la diabolica specificità della Rivoluzione francese», negando quindi la portata dei valori universali a vantaggio della comunità e della tradizione. In oltre seicento pagine di un saggio dotto e appassionato incontriamo protagonisti del pensiero anche a noi vicini, ai quali Sternhell non risparmia critiche severe. È il caso di Benedetto Croce. «L'inizio di una storia — ci dice lo storico — è importante quanto la sua fine. Così il Croce che alla fine dell'Ottocento si scagliava contro Rousseau, i Lumi e la democrazia è importante quanto il Croce autore del manifesto antifascista. Il leader liberale del secondo dopoguerra non può cancellare il predicatore antilluminista che appoggiò il Mussolini degli inizi. La parabola di questo filosofo italiano ci dice quanto importanti siano le idee, destinante spesso a diventare realtà nel futuro».
Non v'è dubbio che Sternhell sia un convinto assertore della filosofia dei Lumi e dei principi universali affermati con la Rivoluzione francese. Una scelta di campo che non lo fa esitare nemmeno davanti a personaggi come Hannah Arendt, Isaiah Berlin, François Furet o Zygmunt Bauman. Alla Arendt Sternhell imputa «uno di quegli errori di prospettiva che contribuiscono ancora oggi a rendere oscuro l'orizzonte». Al centro della querelle lo sterminio degli ebrei. L'autrice di Le origini del totalitarismo mette in discussione «la stessa modernità, fino ad attaccare la Rivoluzione francese e i diritti dell'uomo». La Arendt scrive, ispirandosi a Burke, che «la perdita dei diritti nazionali ha portato con sè in tutti i casi la perdita dei diritti umani... Gli internati nei campi di concentramento hanno potuto rendersi conto... che l'astratta nudità dell'essere-nient'altro-che-uomo era il loro massimo pericolo». Per Sternhell invece «gli ebrei non furono sterminati perché, decaduti dalla cittadinanza, restava loro la sola qualità di essere umani, ma proprio perché questa qualità era loro negata, perché l'idea di una natura umana comune a tutti gli uomini, l'idea di un diritto naturale valido per tutti e per sempre era scomparsa nel corso della lunga lotta contro i Lumi». Si vede qui quanto vitali Sternhell consideri i principi illuministici. Da difendere sempre anche a costo di attaccare un pensatore liberale come Isaiah Berlin, il quale considerava, sulla scorta di Friedrich Meinecke, il razionalismo come «radice del male», perché «conduce all'utopia, all'idea, di tutte la più nefasta, secondo la quale l'uomo è in grado di cambiare il mondo; uccide gli istinti e le forze vitali; distrugge i legami quasi carnali che uniscono i membri di una comunità etnica; ci fa vivere in un mondo chimerico».
Convinto che l'utopia portasse al disastro un altro grande storico e amico di Sternhell, François Furet, lo studioso della Rivoluzione francese che negli ultimi anni di vita «si era avvicinato non solo al pensiero neoconservatore ma anche alle analisi di Ernst Nolte che considera il nazismo come una reazione naturale e legittima alla rivoluzione russa». Con Octavio Paz, ci dice Sternhell, «sono convinto che le utopie siano i sogni della ragione: possono avere effetti disastrosi ma nello stesso tempo ci aprono orizzonti per il futuro. Non per questo dobbiamo rassegnarci al fatto che il mondo non possa essere cambiato. La rivoluzione sovietica non è il solo modo di introdurre cambiamenti. Pensiamo alla democrazia che un secolo e mezzo fa nella maggior parte del mondo era considerata un'utopia, o al suffragio per le donne che cento anni fa in Europa era un sogno o ancora alla legislazione sociale, uno dei fattori che ha reso il vecchio continente il luogo dove si vive meglio nel mondo».
Sternhell considera Jürgen Habermas il maggiore rappresentante del pensiero illuminista oggi in Europa e Jacques Derrida, il filosofo francese morto nell'ottobre 2004, come il suo più valido antagonista, anche se arrivava a sostenere il paradosso che «ci sarebbe solo un passo tra l'umanesimo, quale che sia, e il razzismo, il colonialismo e l'eurocentrismo». Ancora più paradossale il sociologo britannico di origini ebraico-polacche Zygmunt Bauman: «Ma ho difficoltà a prenderlo sul serio. Non posso pensare che l'Olocausto, come sostiene Bauman, abbia radici nell'Illuminismo. L'Olocausto non può avere radici nei diritti umani, nel razionalismo. È un'aberrazione»

il manifesto 15.5.07
Il porta a porta di Rifondazione Con gli operai, davanti alle fabbriche
Partita ieri da Mirafiori la campagna del Prc «Facciamo il vostro gioco». Quello dei lavoratori
di Manuela Cartosio


Torino «Che ci state a fare in un governo che va bene per Montezemolo, non per noi lavoratori?». «Via Berlusconi, vi siete seduti sulle poltrone e avete arrotolato le bandiere». «Dove l'avete raccattato 'sto Padoa Scioppa che vuol farci venire a lavorare con le stampelle? Una settimana di cura qua dentro e sulle pensioni cambia idea». «Siete tutti uguali. Parole, parole, parole...». «Io so che siete diversi, ma cristo fatela vedere la differenza». «Non mi è piaciuto proprio il trattamento che avete riservato a Turigliatto». «Da quando la sinistra parla male della Juve, io con voi ho chiuso». Tutto abbastanza prevedibile: gli operai, e le operaie, di Mirafiori sono tipi spigolosi e bruschi di natura. Dopo un anno di governo Prodi, con le pensioni strette tra scalone e scalini, la delusione acquisce la loro scontrosità.
Dunque, sia lode a Rifondazione che ieri ha iniziato da Torino il suo scomodo porta a porta. Niente poltroncine bianche, maggiordomo e dling dlong, le porte essendo quelle di fabbriche e uffici. Una trentina di esponenti del Prc - dal segretario Franco Giordano ai capigruppo Migliore e Russo Spena, dal responsabile lavoro Maurizio Zipponi al ministro Paolo Ferrero - si sono presentati al cambio turno agli ingressi di una quindicina di fabbriche in città e nell'hinterland. Hanno distribuito il volantino che illustra la campagna «Facciamo il vostro gioco», scandita su quattro temi: salario, pensioni, sanità, casa. Sono i capitoli a cui destinare il grosso (7 miliardi e mezzo) del «tesoretto» perché - dice Rifondazione - «E' l'ora del risarcimento sociale».
Alla Porta 2 di Mirafiori, quella delle carrozzerie, c'erano Giordano e Ferrero. Il primo più attivo nel cercare d'agganciare i lavoratori, il secondo più schiscio, reduce da un'ora passata all'ufficio comunale di Pinerolo per rinnovare la carta d'identità. «Un'ora ben spesa perché in coda all'anagrafe si capiscono i problemi veri delle persone, il mondo non è quello degli editoriali dei giornali». Ben spesa anche l'ora di «ascolto» alla Porta 2: molti operai tirano dritto, ma anche i silenzi parlano. Parlano di una crescente «disaffezione» della classe operaia verso la politica. «Siamo al bordo», ammette Ferrero, recuperare i lavoratori alla politica e alla sinistra «dipende da quel che facciamo noi al governo».
Le pensioni fanno la parte del leone nei discorsi di chi si ferma. «Ho 37 anni di marchette», dice Vincenzo Gargano, 54 anni, «mio figlio non ne ha manco una, lavora due giorni e poi lo lasciano a casa, gli devo passare 50 euro la settimana. Un governo che fa star male tanto i padri che i figli non è di sinistra. Io continuo a credere in voi, però...». I «privilegi» dei politici, gli stipendi e le pensioni grasse dei parlamentari, tornano in tanti capannelli. Un pensionato, militante di Rifondazione, è venuto apposta da Bardonecchia per dire al suo segretario «Franco, su questo dovete dare un segnale e che sia forte». I delagati (della Fiom) raccontano che il malcontento dei lavoratori si scarica tutto sulle loro spalle, «quando avete votato la finanziaria, ne hanno dette di tutti i colori contro Bertinotti». Una brunetta di 31 anni, 10 in Fiat, divide equamente le sue rimostranze contro Rifondazione - «vi ho votato ma non mi beccate più» - e contro il sindacato: «Quando c'è il governo di sinistra, beve tutto». Allora, meglio che governi la destra? «No, per carità. Io Berlusconi non lo posso vedere», inteviene uno con la maglietta della Tnt, «però gli scioperi e le manifestazioni si devono fare anche contro il governo Prodi». Si fa avanti un fresco ex diessino. E' il più speranzoso: «Proviamoci ancora, adesso c'è questa occasione di una forza vera di sinistra...». Un assist per Giordano che ci salta dentro: «Per questo proponiamo un patto di azione a tutta la sinistra radicale che sia spendibile subito, per redistribuire a fini sociali il tesoretto. Se i soldi li vogliamo dare agli operai, la chiamano assistenza. Invece quelli che danno alle imprese sono sostegno alla produzione. Questo vocabolario è sbagliato, non è il nostro». Siamo stati gli unici a criticare la ripartizione del cuneo fiscale, ricorda Giordano. «Però poi il regalo l'hanno incassato solo i padroni. Io prendevo mille e cento euro un anno fa e altrettanto prendo adesso», obietta un operaio che prevede: «Finirà così anche con le pensioni. Rifondazione dirà che non è d'accordo, poi voterà gli scalini per non far cadere il governo». «Non voteremo niente che non sia nel programmo dell'Unione», replica Giordano.
Alla fine l'operaia Maria Antonietta offre qualche consolazione al segretario: «C'è delusione, ma io di Rifo continuo a fidarmi. Tenete duro, non lasciateci in mano a Fassino e a Rutelli».
Poi svelti a casa o «alla catena».

Liberazione 15.5.07
Fiat, al cambio turno: Rc e operai disillusi
Pensioni, precarietà: tira aria di sciopero. I lavoratori riconoscono l'impegno di Rifondazione
Ma, dicono, attenzione, il tempo sta per scadere e ancora non è successo niente
di Fabio Sebastiani


Torino. «Vi diamo il mandato a far cadere il governo se succede qualcosa di strano sulle pensioni». Angela ha alle spalle quasi trent'anni di Fiat. Esce dalla porta 2 con una busta di plastica in mano e i capelli ravviati come può. Sono da poco passate le tredici e trenta. Deve correre a casa. Ha da dare il cambio al marito e poi attaccarsi al telefono per prenotare un esame alla Asl, ma si ferma volentieri a scambiare quattro chiacchiere con il segretario del Prc Franco Giordano, prima, e poi con il ministro Paolo Ferrero. Di Fiat, e di "carrozzeria", non ne può davvero più. Prolungarle la permanenza anche solo un giorno sarebbe una crudeltà inenarrabile. «Se così fosse chiedo che stacchino la spina come a Welby», dice scherzando. «E' come l'accanimento terapeutico. E' una crudeltà aggiuntiva».
Il Partito della Rifondazione comunista ha deciso di aprire direttamente dai luoghi di lavoro la sua campagna sul "Risarcimento sociale", una sorta di "fase tre" del governo Prodi, dopo l'inizio entusiastico e pieno di speranze e il grigiore dei "dodici punti". Ora si tratta di ritornare alla sostanza del programma grazie al quale l'Unione ha vinto le elezioni. E per farlo occorre sottolineare di nuovo all'opinione pubblica le radici vere della coalizione.
A Torino, il Prc ieri si è mobilitato davanti a 25 siti produttivi. Venticinque cancelli dove ha distribuito volantini e incontrato i lavoratori. "Ascoltare, proporre, mobilitare", sono le tre parole chiave della giornata. «Perché è il nostro metodo di lavoro», chiarisce il segretario del Prc nel corso della conferenza stampa convocata nella sede della federazione torinese. Il bilancio della giornata tutto sommato sarà positivo. A Rifondazione comunista i lavoratori riconoscono la volontà e l'impegno. Ma, aggiungono, il tempo sta per scadere. I risultati concreti devono arrivare senza troppi indugi. Il clima generale del paese non può più essere quello della "perenne immodificabilità". Nessuno riconosce più al centrosinistra di nascondersi dietro il dito della lotta al governo Berlusconi.
Alla "Porta 2" di Mirafiori ad un certo punto minaccia di piovere. Al cambio turno delle 13.30 passano da qui circa mille lavoratori. Si affrettano ad entrare, ma i volantini vanno via ugualmente. A distribuirli ci sono, oltre ai militanti della federazione torinese, Giordano e Ferrero, entrambi circondati da un folto gruppo di giornalisti.
Anche per le "scontrose" e "distanti" tute blu della Fiat alla fine la politica conta ancora qualcosa. In quei fogli a colori e dalla grafica invitante ci sono scritte nero su bianco le proposte di Rifondazione comunista su pensioni, salari, precarietà, casa, sanità , tfr, fisco, Meridione. Lo "scalone", e gli "scalini", sono gli argomenti più gettonati. Nessuno è disposto a concedere anche solo un minuto di più. «Lo scalone va abolito e basta. E' per questo che vi abbiamo dato il voto», dice Luca. «E' questo che dovete fare», aggiunge. E per quanto riguarda il Tfr non è che per i fondi si prepari questa grande successo, anzi. Angela dice che i soldi è meglio tenerseli in tasca. Qualcun altro mugugna ad alta voce: «La politica fa schifo»; «Questa scena l'abbiamo già vista»; «Siete qui perché cercate un voto?». Altri sono ugualmente critici ma perlomeno si confrontano. «Ho votato l'Unione», dice Tommaso. «E ancora non è successo niente. Quanto dovrò ancora aspettare?».
Sulle pensioni qui alle carrozzerie tira aria di sciopero. Il ministro Ferrero con il suo bel pacco di volantini in mano non ha nessuna difficoltà ad ammettere che «fanno bene». «I lavoratori sono disillusi e il governo farebbe bene a tenerne conto», aggiunge davanti ai giornalisti.
Ma anche sul salario non è che la cosa vada molto meglio. I metalmeccanici sono impegnati in un rinnovo contrattuale in cui hanno chiesto appena 147 euro. Nella maggioranza dei casi la loro busta paga supera appena i mille euro. Dai cosiddetti sgravi fiscali sono stati molto delusi. Il primo confronto che fanno è con i "salari" dei deputati. «Basta con questa disparità. Fate qualcosa di eclatante per rimettere in equilibrio la situazione». Franco Giordano parla delle proposte del Prc. Su questo è pronto a prendersi i suoi impegni. E' anche su questi terreni che va misurata, aggiunge, «l'utilità sociale della sinistra». La discussione si fa più pacata, ma non per questo lontana da altri temi spinosi come i conflitti internazionali. La permanenza in Afghanistan non trova nessun entusiasmo. Qualcuno ricorda poi al segretario del Prc anche l'impegno preso sulla precarietà. Nei racconti viene fuori una "atipicità" che non finisce di sorprende e di interrogare. «Mio figlio, che lavora da precario da anni nella pubblica amministrazione, non ce la fa più con questo clima di attesa perenne - racconta Claudio, tuta blu della Fiat che ormai ha davanti a se pochi anni fino alla pensione -. Tanto valeva non promettere niente. Se ne sarebbe fatto una ragione». E' un po' lo stesso clima che si respira negli altri siti produttivi dove sono presenti quote consistenti di contratti a tempo determinato. Alla lontananza dalla politica dovuta al cambio generazionale si aggiunge anche la rabbia per una condizione di cui non si vede uno sbocco concreto. E' così alla Wind di Ivrea, ma anche alla Iveco, sempre a Torino. Alla "Porta 2", infine, non mancano le battute polemiche anche all'indirizzo degli altri ministri. «Mandateci Tommaso Padoa Schioppa a lavorare qui anche soltanto per una settimana», dice uno. «Meno molto meno. In un giorno avrebbe già capito tutto», gli fa eco un altro.

lunedì 14 maggio 2007

l’Unità 14.7.07
Occhetto. «Il Pd lascia un grande spazio vuoto
La nuova sinistra lo deve occupare»


ROMA Passo dopo passo, assemblea dopo assemblea, il processo di riunificazione a sinistra prende corpo. Occhetto ha proposto sabato un patto d’unità d’azione a Fabio Mussi, fondatore con Gavino Angius di Sinistra democratica, e a Rc sulle questioni delle pensioni, dei contratti di lavoro, all'assemblea del «Cantiere per i beni comuni». La vecchia rappresentazione di una sinistra «radicale» contrapposta a quella riformista non consentirebbe di leggere le posizioni che si vanno delineando in questa composita area politica. Occhetto pensa a una sinistra «che deve reinventarsi» e può farlo muovendosi «nell'ambito del socialismo europeo ma con l'obiettivo di riavvicinarlo a tutte le sinistre». «Se il partito democratico fosse stato per davvero il partito di tutto l'Ulivo, in quel caso la sinistra avrebbe trovato il proprio posto al suo interno».

l’Unità 14.7.07
Io, Ds, vi spiego quei fischi
di Luigi Manconi


Strane storie sotto i cieli di Roma. Sotto il cielo di Piazza San Giovanni, un milione di persone - si dice - per il Family day. Sotto il cielo di Piazza Navona, alcune decine di migliaia di persone - si dice - per la giornata del Coraggio laico. Tra queste ultime, c’ero anch’io: e questo mi porta, su richiesta de l’Unità, a parlare in prima persona. Dunque, a metà pomeriggio sono salito sul palco, presentato da Alessandro Cecchi Paone come autore del primo disegno di legge sulle unioni civili, nel lontano 1995.
E anche come estensore del testo sulle coppie di fatto del programma dell'Unione (approvato e poi modificato), nel più vicino 2005 - sono stato accolto con calorosissimi applausi. Giunto a metà dell'intervento, amareggiato dall'ostilità precedentemente espressa nei confronti dei Ds (o forse per quel riflesso bolscevico che, talora, colpisce i libertari), ho deciso di non tacere sull'accaduto. E, come si legge nei romanzi d'appendice, «con sovrumano sprezzo del pericolo» ho detto, pressoché testualmente, quanto segue: «Penso che la politica non debba ignorare la verità: e quindi voglio essere leale con voi. Io non sono qui a titolo personale, ma rappresento centinaia di migliaia di iscritti, militanti, parlamentari e dirigenti dei Ds, che non sono qui presenti, ma hanno sostenuto, sostengono e sosterranno le unioni civili». Qui una gran parte della folla ha sonoramente fischiato; e io ho aggiunto: «Non dovete dimenticare il lungo impegno del mio partito a favore delle unioni civili e il fatto che la proposta di legge sui Dico porta la firma di un ministro diessino». I fischi non si sono acquietati e, allora, ho così replicato: «Porterò al mio partito e al suo gruppo dirigente i vostri molti applausi e i vostri molti fischi: sono convinto che, in politica, siano utili i primi come i secondi». Poi, per la verità, non è stato difficile concludere tra molti applauisi perché - siamo uomini di mondo - una chiusa rassicurante, non è difficile imbastirla. Ma ciò che è importante è che quei fischi ci sono stati, eccome, e avevano un significato preciso, che mi sembra utile trasmettere ai lettori dell'Unità per come io l'ho inteso.
In quella piazza, i diessini non erano pochi, come ho potuto verificare quando, successivamente, ho attraversato la folla con mia figlia e ho ricevuto molte manifestazioni di amicizia e condivisione. Ma quella presenza non si esprimeva in maniera visibile e dichiarata, attraverso bandiere, gruppi di parlamentari, dirigenti noti. Si è data, dunque, l'impressione - né più né meno - che «i Ds non sono qui». E tale sensazione, evidentemente, risultava ancora più amara perché era tangibile la percezione, anche fisica, della disparità numerica tra i partecipanti alle due diverse manifestazioni. E la consapevolezza che quella di San Giovanni fosse l'esito, anche, di un ingente investimento di risorse e, anche, di una colossale mobilitazione mediatica, e quella di piazza Navona, esclusivamente, dell'impegno autonomo di donne e uomini di buona volontà, non bastava a lenire l'amarezza. Non intendo qui sostenere che il mio partito (mio da così breve tempo e che, per giunta, sta per confluire in una nuova formazione) avrebbe dovuto partecipare in massa alla giornata del Coraggio laico; e capisco perfettamente e, in parte, condivido le molte buone ragioni che potevano e possono far temere l'approfondimento della distanza, se non dell'ostilità, tra le due piazze. Ma questo non doveva impedirci di esserci (nella forma più opportuna, ma esserci): e, soprattutto, di PARLARE. E di parlare non semplicemente a quelle decine di migliaia di persone presenti in piazza Navona (e che sono comunque preziose, e delle quali solo i radicale sembrano curarsi): ma parlare all'intera società. Cosa che nemmeno la sinistra presente in piazza Navona (appassionatamente impegnata a lucrare sull'assenza dei Ds) ha saputo fare. Nè sabato né nei giorni e nei mesi precedenti. Perchò questo è, a mio avviso, il punto cruciale: la manifestazione di piazza San Giovanni è stata così grande e la forza simbolico-mediatica così efficace perché il Family day sembrava avere davvero qualcosa di importante da dire. La sinistra, invece, non sembra disporre di un messaggio altrettanto significativo. Altrettanto ragionevole. Altrettanto urgente. Non è questa la sede per considerare le ragioni antiche e profonde di tale penuria (che rimandano all'incapacità/non volontà di elaborare, con tutta la pazienza e la fatica del caso, un sistema di valori e di categorie morali, non derivati da un'ispirazione religiosa).
Ma, riferendoci al qui e all'oggi (e limitandoci a risalire solo a ieri e a ieri l'altro), possiamo dire che la sinistra tutta - con l'eccezione dei radicali - sconta ancora, e dolorosamente, il proprio «economicismo». Ovvero: per quanti passi avanti siano stati fatti, per quanti mutamenti mentali si siano registrati, la cultura e il programma e l'agenda politica della sinistra resta saldamente agganciata a una gerarchia di priorità (che è anche una gerarchia di interessi e di passioni), dove la sfera economico-sociale risulta sempre prevalente. E fin dominante. Non si vuole qui, evidentemente, ribaltare quell'ordine per affermare il primato della sfera dei diritti civili e delle libertà individuali. Non siamo mica scemi: si vuol dire, più semplicemente, che - in tempi di vacche magre e di battaglie ideologiche - la gerarchia tradizionale di priorità (prima lo «strettamente necessario» dell'economia e, poi, il «superfluo» dei diritti civili) porta, fatalmente, a ignorare questi ultimi: i diritti, appunto.
È un gravissimo errore. Si pensi che la Costituzione francese del 1793 definiva le «garanzie sociali» di una comunità politica come risultato del dovere di tutti di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente diritti individuali e politica collettiva. Una lezione colpevolmente, e spesso tragicamente, dimenticata. Insomma, fino a quando la sinistra non saprà riconoscere che i Dico non sono «più importanti» delle pensioni (e riuscirà a «spiegarlo» alle persone omosessuali), ma che le pensioni non sono «più importanti» dei Dico (e riuscirà a «spiegarlo» agli operai), non si caverà un ragno dal buco.

il Riformista 14.5.07
De profundis per i Dico, su cui si è persa pure l’ultima speranza
di Tommaso Labate


Nel day after dello scontro tra la piazza laica e quella cattolica - al di là delle tante schermaglie trasversali che non accennano a diminuire - rimane una certezza. Per i Dico, almeno nella versione che abbiamo conosciuto attraverso il ddl dell’esecutivo a firma Bindi-Pollastrini, non c’è futuro. Le speranze di vederli approvati dal Senato, più che ridotte al lumicino, sembrano non esserci.
Per il de profundis non serve rivolgersi agli organizzatori di quel Family day che ha dimostrato la compattezza del fronte dei contrari, che va dalla Lega ai teodem della Margherita, passando per le truppe mastellate dell’Udeur. Basta bussare alla porta dell’ultra-laico Cesare Salvi, che presiede la commissione Giustizia del Senato. Quella in cui è ancora in corso la discussione preliminare sui Dico. Dice al Riformista il senatore (e futuro capogruppo) di Sinistra democratica che «per quel disegno di legge non ci sono né numeri né margini di manovra». Il ragionamento di Salvi è molto semplice. «Durante la crisi dell’esecutivo, il presidente del Consiglio ha escluso i Dico dalle priorità. E, soprattutto, ha più volte dichiarato che con la presentazione del ddl il governo considera esaurito il suo compito». Di conseguenza, aggiunge, «visto che il Parlamento è sovrano, continueremo a lavorare in commissione per trovare una proposta che abbia quei numeri che il testo Bindi-Pollastrini, di fatto, non ha».

Libertà 13.5.07
Il regista in piazza. Bellocchio: no alla violenza religiosa

Roma - «Sono qui per un minimo di decenza, questa non è una rivoluzione ma è la risposta pacata e civile ad una violenza intollerante, quella religiosa». Si è espresso così il regista Marco Bellocchio, intervenuto alla manifestazione in Piazza Navona. «Sono emozionato - ha esordito il regista piacentino - sono un convivente con una bambina di 12 anni, ho più di sessant'anni e non vorrei, anzi non voglio essere costretto a sposarmi per avere elementari diritti civili». Sono passati anni, decenni da quel film dell'esordio, "I pugni in tasca", con cui diventò celebre con il film anticipatore del '68. Poi una lunga, tormentata ricerca per approdare a ben altri film, a ben altre immagini, a ben altri contenuti. «Mi chiedo dove siano i Ds, perché non ci sono in questa piazza? Ho una sola risposta, non è che siano una minoranza?». E poi ribadisce «sono qui per qualcosa di ovvio, per dei diritti elementari per difendere le libertà personali da una violenza intollerante, quella religiosa». (...)

Repubblica 14.5.07
Se chiesa e destra vanno in piazza insieme
di Edmondo Berselli


MAI la Chiesa, negli ultimi vent´anni, era stata così vicina alla politica, così influente, così ingombrante. Affiancata dai partiti di destra, e con il centrosinistra scompaginato dal conflitto interno, non dichiarato e non elaborato, sulla laicità. Se le cose stanno così, se questa diagnosi è realistica, sabato scorso in Piazza San Giovanni è avvenuto un disastro politico e civile. E allora vale la pena di guardarlo in profondità, senza complessi. La prima e fondamentale conseguenza del Family Day è evidente: si è saldato un fronte tra ampi settori del mondo cattolico e la destra italiana.
E ciò è avvenuto in un modo e con un´intensità tali da sorprendere gli stessi vertici ecclesiastici, la segreteria di Stato vaticana, la Conferenza episcopale. Alla Chiesa post-wojtyliana era ovviamente utile una dimostrazione di forza, anche per esibire uno di quegli spettacoli di mobilitazione che senza il carisma di Giovanni Paolo II risultano difficili da riprodurre oggi sulla scena pubblica. Ma è tutto da provare che per la gerarchia cattolica fosse davvero conveniente quella spettacolare fusione di morale e politica, di alto magistero e di bassi interessi di bottega, che se da un lato ha esibito l´adesione popolare ai temi della famiglia, dall´altro ha permesso il sequestro politico di piazza San Giovanni da parte dei leader del centrodestra.
La presenza di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini rappresentava con chiarezza qual era una finalità possibile del Family Day, almeno nelle intenzioni dei suoi sponsor politici più spregiudicati: e cioè mettere in rilievo che l´appello per una «politica per la famiglia» rappresentava invece l´opportunità per una polemica caldissima contro il riconoscimento legale delle unioni civili. Ossia per dividere in due, con volontà esplicita, l´opinione pubblica: in modo da poter attestare che da una parte, a destra, ci sono i buoni cattolici, e dall´altra, a sinistra, c´è una consorteria di avversari, di «laicisti», di personalità insensibili alle grandi verità religiose.
In quella compagine ostile alla Chiesa e ai suoi fondamenti, guidata dal Prodi «rovinafamiglie» immortalato sulle magliette, i cattolici del centrosinistra si trovano in difficoltà. Secondo l´intonazione psicologica della piazza anti-Dico, il mondo cattolico non è rappresentato da Clemente Mastella o da Francesco Rutelli, e meno che mai da Rosy Bindi; costoro non rappresentano nessuno e non sono neppure la foglia di fico sulle vergogne laiciste del centrosinistra: ne è una riprova a contrario l´accoglienza entusiastica riservata a Silvio Berlusconi, a testimonianza che c´è stata una fusione politica, di popolo, fra le posizioni cattoliche più intransigenti e la scelta per il centrodestra.
Matrimonio d´interesse e d´amore. Sicché è superfluo sottolineare che il raid di Silvio Berlusconi durante il Family day è stato un gesto politicamente impegnativo, anche a prescindere dalla violenza delle sue parole, quelle frasi provocatorie secondo cui non è possibile essere contemporaneamente fedeli cattolici e di sinistra. Berlusconi ha realizzato uno dei suoi blitzkrieg, e ha tentato di mettersi in tasca in un colpo solo l´ideologia della famiglia, il movimento ecclesiale, i sostenitori del matrimonio, gli oppositori del divorzio e dell´aborto, i contestatori della procreazione assistita, dei Dico e delle unioni omosessuali.
Ebbene, sarebbe il caso di capire come la pensa la Chiesa, al suo vertice, dell´appropriazione indebita delle istanze cattoliche e delle masse dei fedeli convenute a Roma per sostenerle. Riesce incongruo infatti credere che la gerarchia giudichi utile, cioè politicamente conveniente, e spiritualmente convincente, il cinismo opportunista con cui Berlusconi e i suoi alleati hanno confiscato la comunità ecclesiale (almeno quella parte che interpreta l´appartenenza al cattolicesimo con uno spirito di rivalsa, di rivincita, di spagnolesca «reconquista»). Vale a dire sulla base di un´idea di divisione, senza nascondere una chiara inimicizia contro quella parte di società, di politica e di cattolicesimo che la pensa diversamente.
Va da sé che la Chiesa non possa accettare di essere sequestrata in vista dell´utilità politica di una parte. E quindi non è del tutto irrealistico attendersi qualche presa di distanza, fosse anche soltanto una sottigliezza per smarcarsi. Questo perché monsignor Angelo Bagnasco deve ancora guadagnarsi la titolarità della sua azione come presidente della Cei, uscendo dalla definizione ristretta di successore di Ruini. E il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, deve curare anche le diplomazie con il governo attuale e con i ministri cattolici che ne fanno parte. E va rilevato nel tfrattempo che Bagnasco ha taciuto sostanzialmente sul Family Day: ciò è un sintomo di quanto sia arduo rinnovare in modo originale la linea dell´episcopato, ma anche un indizio della sua prudenza.
Tuttavia il punto cruciale è evidente di per sé: comunque si sia verificata, non si è mai vista, in tempi di bipolarismo, una collocazione così netta ed esclusiva della Chiesa a fianco di una parte politica. Al di là dei riverberi più evidentemente confessionali, si prospetterebbe una conseguenza politica di estremo rilievo, cioè un attrito vistoso con l´intera evoluzione del sistema politico: la formula bipolare infatti doveva consentire la libera collocazione politica dell´elettorato cattolico.
Viceversa, una variante estremistica come quella prospettata sabato da Berlusconi, i cattolici di qua e i miscredenti di là, assomiglia più a un´eresia manichea che a un criterio di ragionevolezza politica. Altro che suggestioni neoguelfe: qui è potenzialmente in gioco la «cattura» della Chiesa da parte di uno dei giocatori politici. E dunque, se il mercante sequestra il tempio, sarebbe interesse della comunità ecclesiastica che emergessero voci e figure indisponibili a schiacciarsi su una soluzione politica confessionale, con le ripercussioni politiche che si possono immaginare. Di tutto infatti avrà bisogno la Chiesa, ma non di una guerra di religione. E neppure di diffidenze e ostilità speculari sul piano del governo e delle istituzioni.
Tanto più che sullo sfondo del Family day (e delle contrapposizioni tra Vaticano e sinistra, dal referendum sulla fecondazione assistita ai Dico), sono entrati in gioco principi basilari in materia di laicità dello Stato, suscettibili di favorire contrasti pesanti dentro il centrosinistra. Per ora nell´Unione il conflitto non è esploso, ma non c´è dubbio che sulla piazza del Family Day si sono compiuti sacrifici politici pesanti: si è sacrificata in primo luogo una parte della presenza e credibilità pubblica dei Ds.
Il silenzio dei Ds è una scelta obbligata, dettata dall´impossibilità di parlare, perché parlare equivarrebbe a innescare la contrapposizione con il proprio alleato, la Margherita, proprio mentre si sta avviando il processo che conduce alla nascita del Partito democratico. Ma la rinuncia effettiva a qualificare la propria presenza nel Pd, da parte diessina, è già di per sé un´abdicazione; e anzi l´effetto della distorsione prodotta dalla politicizzazione della religione, dall´abbandono di un criterio comune di laicità.
Il Family Day, insomma, ha avuto conseguenze sui due lati della struttura politica italiano: ha reso asimmetrici gli schieramenti, ha squilibrato il bipolarismo, dà un´inflessione clericale al giudizio sull´azione di governo.
Sarà il caso che tutto il centrosinistra, da Romano Prodi in giù, valuti con attenzione queste ripercussioni e le risposte possibili. Ma anche da parte ecclesiastica dovrebbe esserci la percezione che il nuovo integralismo, la comunanza indistricabile e «simoniaca» fra destra e Chiesa, è una distorsione del meccanismo democratico, e potenzialmente una perdita grave in termini di ricchezza e libertà della convivenza civile.

Redattore Sociale 11.5.07
Giustizia: Caruso (Rifondazione): chiudiamo subito gli Opg


In un’interrogazione urgente, il deputato ha denunciato una realtà allarmante nell’Opg napoletano dove, visionando il registro medico, ha appurato che in 2 mesi almeno una decina di internati sono finiti sul letto di contenzione.
La risposta del ministro Mastella al question time conferma la presenza della sala di coercizione nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) Sant’Eframo di Napoli. Lo sostiene Francesco Caruso, parlamentare indipendente del Prc, che ribadisce la necessità e l’urgenza di superare e di chiudere tali Opg, che "sono veramente un istituto del passato, considerato che la legge n. 180 del 1978 ha già chiuso tutti manicomi".
Caruso, in un’interrogazione urgente, aveva denunciato una realtà allarmante nell’Opg napoletano. Recatosi in visita presso la struttura in cui sono internate 104 persone, il deputato campano aveva potuto constatare le condizioni fatiscenti e disumane del centro. Ma la questione più inquietante riguardava la presenza di una "camera della coercizione" nella quale - in base alla ricostruzione di Caruso - i pazienti vengono legati alle estremità del letto, per i polsi, per le caviglie e per il torace.
Visionando il registro medico Caruso ha quindi appurato che negli ultimi due mesi almeno una decina di internati erano finiti sul letto di contenzione, cioè immobilizzati per diversi giorni con le braccia e le gambe legate ad un letto, con al centro un buco per permettergli di effettuare i bisogni fisiologici senza essere slegati.
Rispondendo all’interrogazione, il ministro Mastella ha spiegato che, per quanto riguarda il problema delle contenzioni fisiche, si tratta di atti di stretta competenza medica, disposti soltanto dopo un accurato esame psichiatrico e solo al fine di scongiurare che il paziente in stato di acuto scompenso psichico si renda pericoloso. Se le condizioni cliniche dell’internato non sono estremamente gravi si opta, invece, per il regime di isolamento idoneo ad impedire il contatto con altri soggetti.
Per quanto riguarda l’internato sottoposto a coercizione a seguito di un tentativo di evasione - fatto questo che Caruso denunciava nell’interrogazione - Mastella ha precisato che la contenzione è stata disposta previa visita del sanitario ed è durata soltanto un giorno, venendo subito sostituita con il regime di isolamento. Il Guardasigilli ha comunque assicurato che sarà impegno costante del ministero effettuare scrupolose verifiche ed adottare gli opportuni provvedimenti.
Tra le priorità indicate da Mastella nella risposta emerge quindi la necessità che sia data piena attuazione al decreto legislativo n. 230 del 1999, con il quale fu stabilito il trasferimento delle competenze sanitarie dall’amministrazione penitenziaria al servizio sanitario nazionale ed alle regioni. Il responsabile della giustizia ha inoltre ribadito l’impegno a verificare l’attualità dei criteri seguiti per registrare il tempo di permanenza degli internati in ospedale, ponendo in primo piano l’attenzione sulla questione della imputabilità degli autori di reati.