sabato 19 maggio 2007

l’Unità 19.5.07
AnnoZero darà il video su preti pedofili?
Santoro vuole acquistare il film della Bbc
Ma trova ostacoli dentro la Rai


ANATEMI Chissà se potremo vedere ad «AnnoZero», la trasmissione di Michele Santoro, il video della Bbc dal titolo scottante: «Sex crimes and the Vatican»?
Un filmato che racconta i casi di pedofilia (accertati) fra gli ecclesiasti, e che attribuisce a Ratzinger, non ancora Papa, la responsabilità di aver coperto lo scandalo internazionale.
Una testimonianza che, a quanto sembra, potrebbe avere delle difficoltà a entrare a Viale Mazzini. Michele Santoro, intenzionato a dedicare presto una puntata a questo tipo di crimini, avrebbe chiesto alla Bbc di poter acquistare il filmato. Nulla da eccepire da parte della televisione pubblica britannica, disposta a vendere il suo prodotto che, del resto, ha già fatto il giro del mondo (ed è visibile sul portale Youtube).
Meno facile sembra che sia l’accesso nella Rai, e soprattutto il via libera perché il video sia mandato in onda. In realtà Santoro potrebbe procedere autonomamente, in quanto ha la qualifica di direttore (ad personam) ed è responsabile editoriale di AnnoZero, in onda il giovedì su RaiDue alle 21.
A poter bloccare l’operazione, semmai, potrebbe essere il direttore generale. Ma sotto di lui sembra che sia stata messa in atto una catena di impedimenti burocratici. Certo qualche imbarazzo potrebbe averlo il vicedirettore generale, Giancarlo Leone, in quanto membro del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali.
Nessun divieto diretto sarebbe arrivato a Santoro, piuttosto sembra si tratti di un rimpallo di competenze e responsabilità tra le varie strutture (dall’ufficio acquisti al direttore di RaiDue, Antonio Marano) per rendere difficile l’acquisto del video e la sua messa in onda su RaiDue. Ognuno sembra non voler avere a che fare con materiale così scottante, dicono, tantomeno il direttore del Tg2, Mauro Mazza, che non ha voluto accollarsi neppure la trasmissione. Un programma di informazione come AnnoZero, infatti, in periodo di par condicio deve sottostare a una testata giornalistica. Così la «palla» Santoro è rimbalzata al Tg3 di Antonio Di Bella, che ha accettato di farsi carico del talk show e, a quanto sembra, non avrebbe nulla in contrario a mandare in onda «Sex crimes and the Vatican». n. l.

l’Unità 19.5.07
Spinte e insulti: alla fine vietata la lezione revisionista
Tensione a Teramo per la conferenza di Faurisson
La comunità ebraica: evitato uno scempio
di Massimo Franchi

È FINITA tra schiaffi e strattoni, tra provocazioni e risposte. Il viaggio italiano del negazionista francese Robert Faurisson è durato poche ore. In una Teramo incredula e spaventata, il professor Claudio Moffa - «organizzatore» della lezione revisionista - è stato
duramente contestato e alla fine la Polizia gli ha proibito qualunque manifestazione pubblica, intimando a lui e Faurisson di andarsene alla svelta, scortandoli rispettivamente verso Roma e l’aeroporto di Falconara. «Ha tirato troppo la corda, siamo dovuti intervenire», fanno sapere dalla Questura della cittadina abruzzese. La cronaca di una giornata triste comincia con il solito colpo di scena del presidente del master «Enrico Mattei in medioriente». Organizza una conferenza stampa improvvisata nella centralissima piazza Martiri, dopo che l’università gli aveva letteralmete chiuso le porte in faccia. Davanti ai giornalisti accorsi, Faurisson ha la faccia rilassata e contenta. L’ottantenne ex professore di letteratura spiega subito perché: «Ciò che oggi succede qui sarebbe impossibile in Francia». Grazie a Moffa invece può snocciolare le sue teorie revisioniste sull’Olocausto. «Intanto i forni crematori. Se parlo di menzogna storica non intendo persone che mentono. Sono vittime esse stesse della menzogna storica che ha una lunga storia. Le pretese camere a gas di Hitler e il preteso genocidio degli ebrei, formano una sola ed unica menzogna storica che ha permesso una gigantesca truffa politica e finanziaria di cui il principale beneficiario è il sionismo internazionale e le principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, e il popolo palestinese tutto intero».
Parole che pesano come pietre. Specie per una cinquantina di esponenti della comunità ebraica arrivati da Roma con le loro auto. Gli animi si scaldano, la contestazione diventa parapiglia e uno schiaffo raggiunge Faurisson. Moffa si mette in mezzo e, le parole sono sue, è «strattonato perché mi sono interposto tra gli aggressori e Faurisson ma ho subito restituito lo strattone. Poi è intervenuta la polizia». Le forze dell’ordine fermano due cinquantenni e li portano in Questura.
Ma gli animi si riscaldano di nuovo da lì a poco. Arriva Agostino Rabbuffo, segretario cittadino di Forza Nuova e fratello del vice sindaco di Alleanza Nazionale. Inizia a provocare i parenti dei deportati, apostrofandoli pesantemente. «Ti sembra democrazia dare schiaffi?». E poi sbotta: «E se io ti spacco il c... ?». Altro parapiglia, altro intervento della Polizia. Questa volta ad avere la peggio è il vice questore di Teramo Gennaro Capasso che, spintonato, cade e si frattura una spalla. Stavolta i fermati sono tre e sono più giovani.
Intanto Moffa e Faurisson vengono prelevati dalla Digos e allontanati. A pochi chilometri di distanza, alla pizzeria «Acquamarina» di San Nicolò al Tordino (l’unico locale che aveva dato la disponibilità ad ospitare la conferenza dopo il «niet» di almeno una decina fra alberghi e librerie), una cinquantina di neofascisti provenienti da tutto l’Abruzzo aspetta l’arrivo del professor Faurisson. Nessuno avverte loro della cancellazione e la delusione è tanta. La maggior parte hanno il cranio rasato e tatuaggi inequivocabili sulle loro idee. «Le camere a gas sono un’invenzione, le hanno costruite i russi», è la vulgata che va per la maggiore. «A scuola ci insegnano quello che fa comodo agli ebrei».
Se vanno alla spicciolata. La «battaglia di Teramo» è finita. La comunità ebraica traccia un bilancio. «Grazie all’intervento di Mussi - dichiara Riccardo Pacifici, portavoce romano - nel paese c’è stata una reazione. Ma che uno come Moffa possa ancora insegnare è uno scandalo».

Repubblica Lettere 19.5.07
Su Televideo della Rai un'istituzione anomala
di Matteo Pais


Genova. Sarò breve, perché in fondo si tratta di segnalare un dettaglio, chiamiamolo così, che ritengo però molto eloquente. Alla pagina 400 del Televideo Rai troviamo una rubrica dedicata alle istituzioni, e troviamo, cito testualmente, pag. 401 Camera dei Deputati; 416 Ministero dell'Interno; 413 Monopoli di Stato; 418 Cei (Conferenza Episcopale Italiana); 419 Istat; 476 Inps, etc.
Quale tra queste istituzioni è anomala, ovvero non è appartenente allo Stato? Come dicevo un dettaglio, una anche un segno di una questione grande.

il Riformista 19.5.07
Caro Piero, queste sono braccia alzate
di Paolo Franchi


Caro Piero, te lo dico con affetto: fatico a capacitarmi. Lascerei da parte la «questione vaticana» di gramsciana memoria. Che pesi assai è un fatto, che chiunque governi la debba tenere in conto pure. Ma qui nessuno propone di ridurre il papa e la chiesa al silenzio o di impedire ai parroci di farsi sentire fuori dalle parrocchie. Qui si parla di laicità della politica e dello Stato, di valori cioè che dovrebbero accomunare credenti e non credenti; e di allargamento dei diritti di cittadinanza. E tu, di questo sono certo, ne sei convintissimo: basta pensare a come ti sei battuto per varare il ddl sui Dico, anche se ben prima della grande manifestazione di piazza San Giovanni sapevi, immagino, che non aveva (particolare non trascurabile) alcuna possibilità di passare in Senato. Hai aspettato però San Giovanni (e naturalmente anche piazza Navona, a tuo giudizio minoritaria, laicista, e convocata soprattutto per mettere i bastoni tra le ruote a te e al Pd) per farci sapere che, a impiccarsi alla formula “o Dico o morte”, si rischiava di diventare subalterni. Bene, mi sono detto, adesso Piero ci dirà come fare (ancora Antonio Gramsci) a diventare egemonici. Poche ore, e ci hai spiegato come: sedendoti a un tavolo con Savino Pezzotta, che si è dichiarato disponibile al riconoscimento dei diritti attraverso alcune modiche al Codice civile, per vedere insieme quali articoli si possano modificare. Lo avessi sostenuto qualche mese fa, prima di intraprendere la lunga marcia dei Dico, prendendo atto che, per quanto siano nel programma dell’Unione, non c’è la maggioranza per approvarli, applausi certo non ne avresti presi, ma un po’ di comprensione per il tuo realismo politico la avresti sicuramente avuta. A sentirtelo dire adesso, dopo San Giovanni, non siamo esterrefatti solo noi rompiscatole del Riformista ma, credo, tanti tuoi compagni e tanti tuoi elettori che della promessa del Partito democratico assai più di noi sono convinti. Una «mano tesa» al popolo di piazza San Giovanni, come dici tu? Caro Piero, perdona la franchezza, ma queste sembrano di più braccia alzate. In segno di resa.

Corriere della Sera 19.5.07
E Bertinotti cancella il comunismo dalla sua rivista
Secondo Fausto Bertinotti «bisogna avere il coraggio di rischiare».
E lui rischia, toglie dal proprio vocabolario il termine «comunismo», gli dice addio
di Francesco Verderami


La svolta nelle bozze della sua rivista, «Alternative per il socialismo»: Bertinotti abbandona la parola «comunismo» e la sostituisce con «socialismo», «il possibile approdo» della sinistra alternativa

Bertinotti si accomiata dalla parola «comunismo», l'abbandona, non la cita più, e la sostituisce con «socialismo», definito «il possibile approdo» della sinistra alternativa. Per ora la svolta sta nelle bozze della sua rivista,
Alternative per il socialismo, ma è chiaro che l'orizzonte è più ambizioso, che prima o poi a parlare non sarà più il «direttore» Bertinotti, ma il leader storico di Rifondazione. Solo che per arrivare al «possibile approdo» non vuole usare scorciatoie, «è necessaria un'operazione culturale che stia distante dalla quotidianità politica», ha spiegato il presidente della Camera alla sua redazione: «Altrimenti già lo vedo lo scontro tra apparati, la diatriba sugli organismi dirigenti... No, il progetto farebbe la fine del Partito democratico».
Se Bertinotti ha deciso di fare il primo «strappo» attraverso le pagine del suo bimestrale, è perché vuole preparare il gruppo dirigente al distacco da una simbologia che costringe l'area radicale in un recinto angusto.
Solo così potrà sfidare il futuro Pd, «ambire anche a superarlo nei consensi». Mentre progetta l'«Epinay» della sinistra alternativa, racconta di quando «poco più che ventenne fui chiamato a scrivere un pezzo sull'unità sindacale per la rivista di Lelio Basso, Problemi del socialismo». Non a caso il nome del nuovo periodico — che uscirà il primo giugno da Editori Riuniti — incrocia da una parte l'esperienza di Alternative,
foglio culturale del Prc, e dall'altra richiama lo storico giornale di uno dei fondatori del Psiup.
Parla del futuro usando insegnamenti del passato: «Noi siamo per il socialismo di sinistra, non saremo mai socialisti di sinistra». Ragiona sulla «crisi contemporanea della politica italiana» e la misura accostandola alla Francia, «perché la sera in cui ha vinto Nicolas Sarkozy, vedendo le immagini di place de la Concorde in tv, mi è venuta la pelle d'oca»: «Avete notato il suo gesto, la mano tesa a quella parte del Paese che non l'aveva votato e che era stata quindi sconfitta? Lì c'era il senso dello Stato». E certo nessuno a sinistra potrà dubitare di Bertinotti, «però ci sarà un motivo se Max Gallo è rimasto affascinato da Sarkozy».
Insomma, in Francia c'è stata una rivoluzione, a destra. Lui vorrebbe farne una in Italia, a sinistra. Comincia con carta e penna, scrive dell'Europa sfruttandola come metafora. È vero, il presidente della Camera si sofferma sul «vuoto politico» nel Vecchio Continente, ma la sovrapposizione con i problemi nazionali è evidente. Accenna ai «conflitti di sistema», e scorge i limiti della rivolta nel 2005 delle banlieues francesi, «perché questo genere di proteste blocca la capacità degli oppressi di organizzarsi». Poi però, quando nella critica al capitalismo attacca «le classi dirigenti e gli economisti» che «badano solo alla crescita del Pil», si scorge un riferimento alla polemica italiana sul tesoretto, che sta dilaniando il centrosinistra.
Come non bastasse, sostenendo che «la sfida radicale su lavoro e diritti sociali riguarda direttamente la politica e non solo il sindacato», Bertinotti avvisa che «per entrambi è in causa la loro stessa esistenza». Ed ecco che il caso italiano prende il sopravvento, sta nel passaggio in cui il «direttore» descrive l'avvento di «tentazioni neopopuliste», i processi di «spettacolarizzazione e personalizzazione» che «marginalizzano i partiti o li riducono a mero ruolo di supporto», mentre «avanza la centralità dei governi». Aveva promesso che sarebbe stato «per nulla ortodosso», e infatti non scarica solo sulla destra la responsabilità dell'antipolitica: «Anche a sinistra si manifesta una crescente propensione a mutarsi in antipolitica». Bertinotti non la demonizza però, dice che «vista la profondità della crisi, la rinascita della politica non potrà fare a meno di una certa dose di antipolitica».
Ma a fronte di una «mutazione» della sinistra socialdemocratica, l'unica risposta dell'area radicale «per colmare il vuoto» sarà dare «un'adeguata organizzazione ai movimenti»: «Come sinistra alternativa in questi anni abbiamo investito nel movimento. Un'opzione che per un po' ha consentito di ridurre il vuoto della politica e forse anche il gap tra la società e la politica. Ora però l'andamento si è fatto più carsico», anche se «i movimenti non si sono esauriti». Ma questo «magma non può costituirsi in alternativa se non incontra la politica e un'adeguata organizzazione». Serve pertanto «un punto di partenza», che Bertinotti vede nel richiamo alla «questione del socialismo».
Ecco lo «strappo». E sarà pure il «direttore» a scrivere, ma sembra già di sentire il discorso che verrà del leader storico del Prc. Bertinotti per ora si limita a fare i complimenti alla sua redazione: «Siamo riusciti a non citare mai Romano Prodi e Silvio Berlusconi». Se per questo, non è stato mai citato nemmeno il termine «comunismo». «Bene così, dobbiamo guardare avanti».

Corriere della Sera 19.5.07
Dietro il malessere del Prc la tensione nell'alleanza
di Massimo Franco


F orse è azzardato concludere che si sta incrinando l'asse fra Romano Prodi e Fausto Bertinotti; e che Rifondazione comunista è tentata di smarcarsi da Palazzo Chigi. La stessa polemica che ieri ha diviso il presidente del Consiglio e quello della Camera sulle lentezze del Parlamento può essere letta in un'ottica istituzionale, non politica. La cosa non sarebbe meno grave, anzi: lo conferma la nota con la quale il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, invita a intensificare il lavoro legislativo e a cambiare i regolamenti. Ma risulterebbe meno dirompente per l'Unione. D'altronde, quando nell'autunno del 1998 il Prc affondò il primo governo Prodi, si parlò di suicidio del centrosinistra.
Bertinotti ritiene impensabile una replica di quella rottura. Eppure si avverte una tensione crescente. La domanda è se gli alleati considerino il Professore l'àncora a cui aggrapparsi, o che può farli sprofondare. È un'incognita che non riguarda soltanto il Prc. Circola, sotto voce, anche in altri partiti dell'Unione. Le ha dato corpo il brutto risultato delle amministrative siciliane, seppure poco indicativo sul piano nazionale. Ma l'attrito con Rifondazione colpisce per il rapporto stretto, e spesso discusso, con Prodi. Agli attacchi contro il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, segue ora la replica dura di Bertinotti al premier.
Prodi aveva sostenuto che sono le Camere a bloccare il governo. «Forse il presidente del Consiglio è fuorviato dalla scarsa dimestichezza con le aule parlamentari», lo ha rintuzzato Bertinotti. Il premier allora gli ha telefonato, sostenendo che ce l'aveva col centrodestra. Insomma, avrebbero chiarito tutto: al punto che rimane l'eco di una crisi istituzionale evocata soltanto dall'opposizione. Ma è netta l'impressione di una marcia indietro di Palazzo Chigi, accortosi di avere toccato un tasto pericoloso. E i contrasti sono destinati a riesplodere, benché non trovino sbocco. «Marette», ammette Prodi, «ce ne sono e continueranno ad esserci».
Silvio Berlusconi fa notare che, con lui a Palazzo Chigi, uno scontro con il presidente della Camera avrebbe «provocato un cataclisma». L'atteggiamento del premier, invece, è di banalizzare e minimizzare le tempeste, liquidando come «manfrine» le polemiche di alcuni ministri come Mastella. All'origine ci sono la convinzione e il calcolo prodiani di un centrosinistra obbligato a seguirlo; e incapace di esprimere una maggioranza e un governo alternativi. Ma col risultato che il viceministro dell'Economia, Vincenzo Visco, diessino, arriva a parlare di «leadership del Paese allo sbando». E avverte di non illudersi di «prendere voti dando un po' di soldi».
Insomma, sta diventando vistosa la distanza fra la percezione delle cose che Palazzo Chigi accredita, e quella di ministri e partiti. Qualcuno parla di «governo amico», a conferma che l'identificazione con Prodi è altalenante. Il vicepremier Francesco Rutelli critica «i troppi provvedimenti». Protesta perfino il ministro della Difesa. Arturo Parisi non ha gradito il silenzio del Professore sulla fine della missione in Iraq. «Ho cercato inutilmente traccia di quella vicenda nel bilancio del primo anno, e non l'ho trovata». Sarebbe il segno di una «mancanza di cultura della difesa». Detto ad un premier che rivendica discontinuità in politica estera, suona come uno schiaffo: per quanto da amico.

Corriere della Sera 19.5.07
1914 - 1945
Il libro di Enzo Traverso discute le interpretazioni delle tragedie a catena che sconvolsero il Novecento
di Aurelio Lepre


la Lunga Guerra. Illuministi contro romantici: alle radici dell'interminabile conflitto fra gli europei

Sul piano storiografico il tema della «guerra civile europea» combattuta nel XX secolo è certamente affascinante; su quello politico potrebbe essere ancora inquietante.
La definizione nacque in uno dei momenti più drammatici della storia d'Europa, nella Grande guerra che devastò il continente dal 1914 al 1918: come ricorda Enzo Traverso nell'opera densa e complessa che ha dedicato all'argomento ( A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino), fu adoperata probabilmente per la prima volta dal pittore tedesco Franz Marc in una lettera scritta dal fronte. I grandi intellettuali di Francia, d'Inghilterra e di Germania, tranne, forse, Romain Rolland e pochi altri, in quegli anni non l'avrebbero accettata. Interpretavano il conflitto in corso come scontro tra civiltà e barbarie — e la civiltà era rappresentata dal proprio Paese e dai suoi alleati —, nel tentativo di dargli più nobili motivazioni. Thomas Mann, ricorda Traverso, lo considerò una lotta tra la Kultur,
intesa come civiltà, e la Zivilisation, civilizzazione (nel senso che le avevano attribuito gli illuministi), vista da lui come sviluppo di una modernità senza anima. Da buon patriota attribuì la Kultur alla Germania e la
Zivilisation alla Francia. Finita la guerra però, nel romanzo La montagna incantata, celebrò nel personaggio dell'illuminista Settembrini «l'intellettuale democratico, razionalista e progressivo», appartenente dunque più alla moderna Zivilisation che alla
Kultur.
Nel 1931 Ernst Jünger sostenne che quella guerra era stata un'Apocalisse in cui l'Europa aveva mosso guerra all'Europa: guerra civile, dunque, come conflitto interno a una stessa civiltà, tra due modi del tutto opposti d'intenderla. In questo senso, quella europea potrebbe essere paragonata anche alla guerra civile americana del 1861-65. Con l'enorme differenza che l'Europa sarebbe arrivata alla pace soltanto dopo una seconda guerra mondiale che, come rilevò ancora Jünger nel 1942, avrebbe superato, almeno sul fronte orientale, gli orrori di tutti i conflitti del passato e sarebbe stata, insieme, guerra di religione (nel senso di ideologia) e tra Stati e popoli. Jünger coglieva qui il carattere del tutto particolare della «guerra civile europea», paragonabile per questo aspetto a quella dei Trent'anni, che devastò l'Europa dal 1618 al 1648 e vide combattere i cattolici contro i protestanti, ma in una situazione resa estremamente complessa dall'esistenza anche di conflitti interstatali. Qualcosa di simile avvenne anche con la rivoluzione francese. I paragoni storici potrebbero continuare, senza peraltro rendere più chiara la definizione di «guerra civile europea», sintetica e suggestiva ma anche vaga e incerta, come nota Traverso.
Può essere intesa almeno in tre modi: lotta di classe tra borghesia e proletariato; scontro tra fascismo e antifascismo; contrapposizione, come scriveva Jünger, tra due modi opposti d'intendere la civiltà europea.
Questa si rifaceva a due differenti tradizioni sette-ottocentesche: l'illuministica e la romantico-nazionale. Traverso colloca l'antifascismo nella prima, ritornando più volte sui richiami degli antifascisti all'illuminismo; ricorda anche che l'intenzione di Goebbels di cancellare dall'Europa le conseguenze della Rivoluzione francese allargò e consolidò il fronte antifascista degli intellettuali. In questa prospettiva è possibile anche spiegare l'alleanza che, nel corso della guerra mondiale, si verificò tra il liberalismo e il comunismo. Erano tutti e due, rileva Traverso, figli dell'illuminismo.
È un'interpretazione fondata, ma bisogna evitare di collocarla all'interno di uno schema provvidenziale, proprio sia della storiografia liberale sia di quella comunista: Traverso evita questo rischio, per esempio quando nota che «la violenza nata dal regresso della civiltà si unisce, attraverso una singolare dialettica, con la violenza moderna e tecnologica della moderna società industriale». Si può anche osservare che non sappiamo se l'alleanza tra liberalismo e comunismo, decisiva per sconfiggere il nazionalsocialismo, si sarebbe ugualmente verificata se il dittatore tedesco non avesse rotto il patto di non aggressione con l'Unione Sovietica e non l'avesse invasa (e se gli Stati Uniti non fossero intervenuti, ma anch'essi dopo essere stati attaccati dal Giappone). È un dubbio angosciante, ma del tutto legittimo. La guerra civile spagnola che, in fatto di alleanze, prefigurò gli schieramenti del secondo conflitto mondiale, semplificando, rileva Traverso, il triangolo liberalismo-comunismo- fascismo nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo, terminò con la vittoria del primo.
Traverso dà ampio spazio alle posizioni degli intellettuali, in pagine che sono tra le più interessanti dell'opera. Se però teniamo conto dello svolgimento reale della «guerra civile europea», soprattutto nella sua fase conclusiva, dal 1939 al 1945, vediamo che a deciderla non fu la superiorità di una visione del mondo su un'altra, tanto più che, nonostante si fossero momentaneamente alleati, il liberalismo e il comunismo rimasero inconciliabili e l'antifascismo non riuscì a farne una sintesi. La «guerra civile europea», allargatasi a conflitto mondiale, fu decisa dalla potenza militare e industriale degli Stati, e in primo luogo degli Usa e dell'Urss.
Si può concordare con Traverso quando scrive che alcune guerre civili devono essere combattute. Credo però che la sua affermazione sia valida soprattutto per quelle combattute all'interno di una stessa civiltà, per risolvere le sue contraddizioni, e nemmeno per tutte: non per la Grande guerra (Niall Ferguson e John Keegan ci hanno spiegato che poteva essere evitata), ma soltanto per quella del 1939-45, quando l'Occidente, di cui anche il fascismo era figlio, compì scelte definitive. Che dovrebbero consentire di affidare ormai alla storia anche la «guerra civile europea», impedendo che la politica, come pure continua spesso ad avvenire, alimenti per i propri scopi pericolose memorie contrapposte.


Liberazione 19.5.07
Il Cantiere e i rischi del Partito democratico, l'unità tra le forze antagoniste
Intervista allo storico torinese sul terremoto che sta scuotendo i partiti di governo
De Luna: «Suggerimenti per una sinistra del XXI secolo»
di Vittorio Bonanni


Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all'Università di Torino, è uno degli osservatori più attenti della realtà politica italiana. La persona giusta insomma alla quale chiedere un parere autorevole sui cambiamenti in corso all'interno del centro-sinistra. Dalla prossima scomparsa dei Ds e della Margherita, con la conseguente nascita del Partito democratico, al tentativo di mettere assieme tutte quelle forze che non partecipano appunto all'iniziativa di Fassino e Rutelli, dalla sinistra Ds a Rifondazione.

Professor De Luna, mi viene in mente in questo momento un libro di Massimo D'Alema uscito dodici anni fa, Un paese normale , che auspicava appunto la trasformazione dell'anomalo sistema politico italiano in uno scenario più europeo, dove appunto da un lato poteva collocarsi la destra e dall'altro, evidentemente, un grande partito socialista o socialdemocratico. Non crede che proprio la nascita del Pd, del quale D'Alema è uno dei fautori, perpetua ad aeternum questa anomalia?
Le perplessità che io ho nei confronti del Partito democratico sono proprio rispetto ad una sorta di tara genetica che vedo nel suo processo d'impianto. Perché ho la sensazione che, orientandosi decisamente verso il centro, finisca obiettivamente per privilegiare chi al centro c'è già. La Margherita e gli altri soggetti dell'ex galassia democristiana, i quali naturalmente e senza nessuna forzatura occupano quella posizione, si trovano così oggettivamente ad essere privilegiati. Tanto da configuare, per gli ex Ds, il rischio di essere dei puri e semplici portatori di voti, rispetto a chi non ha sensi di colpa, a chi non ha un passato da rimproverarsi, a chi non deve prendere nessun tipo di distanza dalle proprie radici. C'è dunque tra i due partner che stanno contraendo questo matrimonio un'oggettiva differenza.

La ricerca dei padri di questa nascente formazione sembra rispecchiare lo scenario che ha appena descritto...
Per quanto mi riguarda, rispetto al mio osservatorio, la costruzione del pantheon va proprio in questa direzione: da un lato c'è chi, naturalmente, vede in De Gasperi il re di questo pantheon, e dall'altro chi si deve affannare a trovare appunto un pantheon all'interno del quale Craxi possa coesistere con Berlinguer.

Tutto questo lascia aperti degli spazi a sinistra. Che cosa pensa del tentativo di aggregazioni delle forze che non condividono l'operazione Pd?
Si configura per la prima volta nella storia d'Italia la possibilità di creare un partito esplicitamente di sinistra che copra un'area vasta di consensi elettorali, stimati intorno al 10-12%. Ma anche questo non è un passaggio né facile né indolore. Perché comunque i soggetti sociali e politici che coprono questa area devono in qualche modo anche loro imparare a far politica in senso diverso e ad intercettare consensi più ampi di quelli tradizionalmente legati alla propria base elettorale.

Tutto il centro-sinistra sta dunque attraversando un momento delicato e denso di incognite...
Il problema non si può configurare come una sorta di viabilità umana al traffico, di posizioni da occupare al centro, di divieto di svolta a sinistra, di sensi unici alternati. Qui c'è un problema di categorie. Io ho l'impressione che la dimensione post-novecentesca faccia molta fatica a filtrare nella realtà della sinistra italiana. Questi ondeggiamenti, queste spaccature, questi conflitti sono la spia di difficoltà che accomunano tutti, da D'Alema a Bertinotti, da Mussi a Diliberto. Va insomma riformulato un progetto che riveda le categorie del '900.

Per esempio?
Mi viene in mente la dimensione delle comunità locali, Serre, la Val di Susa, Vicenza. Queste realtà fanno i conti con una sinistra che ha alle spalle l'idea che la comunità locale appunto era da dissolvere perché ciò che contava era la grande dimensione di classe. Le comunità erano incrostazioni protonazionalistiche, segnate dall'egoismo particolaristico e dallo stretto riflettere i propri interessi specifici contro i grandi interessi collettivi della classe. Adesso passare ad accettare fino in fondo la logica di queste comunità è un salto pazzesco dal punto di vista concettuale e teorico perché nel dna della sinistra è assente il localismo, la comunità locale e ci sono invece i grandi aggregati, le grandi masse, le classi appunto. Da qui sorge la difficoltà di padroneggiare un registro unico di riferimento, oscillante tra l'esaltazione e l'esecrazione. Oppure penso all'emergenza criminalità e ordine pubblico. Anche in questo caso la sinistra non si è mai confrontata nei termini con cui si propone oggi in Italia il problema legato all'immigrazione e alla sicurezza. Sono tutti temi che appunto vanno affrontati marcando una forte discontinuità con le categorie ereditate dal '900. Però ho delle forti perplessità che si possa andare in questa direzione perché temo che tutto venga risolto sul piano delle formule politiche con poco spazio dedicato a questo tipo di rifondazione culturale. L'operazione del Partito democratico non è rassicurante da questo punto di vista proprio perché nasce più all'insegna di sigle politiche che si mettono insieme che sulla base di una progettualità evidente. E così anche la riaggregazione a sinistra è più un'ansia di occupare uno spazio lasciato libero che non una sorta di cambiamento concettuale.

Non crede però che le forze a sinistra del Pd abbiamo le carte più in regola per affrontare una situazione nuova?
Però il passaggio tra l'esecrazione e l'esaltazione è troppo brusco, troppo repentino. Nella tradizione comunista la comunità locale era qualcosa da combattere, rappresentava la resistenza all'industrializzazione. Adesso diventa di colpo qualcosa di positivo. Ma così non funziona, non ce la facciamo. C'è bisogno di qualcosa che in qualche modo recuperi anche la vecchia tradizione che guarda almeno con circospezione a questo tipo di fenomeni, perchè lì dentro precipita la resistenza alla globalizzazione ma anche il piccolo egoismo della comunità locale che comunque è un dato che il '900 ci ha lasciato. E ho l'impressione che in tutta la discussione che si è aperta queste ferite vengano poco tematizzate, privilegiando la realtà degli schieramenti e delle piccole rendite elettorali. Non si può, bisogna avere la forza di dissolvere queste rendite all'interno di un progetto più ampio.

La Stampa 19.5.07
Lettera a Don Milani
La sua utopia si è realizzata, purtroppo
Oggi nessuno sa più niente, né poveri né ricchi
di Paola Mastrocola


Caro don Milani, rileggere oggi il suo libro, mi creda, è illuminante e anche un tantino inquietante: ci aiuta a capire che la scuola di oggi è esattamente la scuola che voleva lei quarant'anni fa. Ma ci chiediamo se forse non sia per questo che non funziona più tanto: perché nel frattempo sono passati quarant'anni…

Dunque, nel suo libro Gianni era il figlio del contadino, Pierino il figlio del dottore. Gianni era definito un deliquente dai professori, perché «era svagato e non amava i libri». Pierino andava benissimo a scuola perché era uno dei «signorini esperti nel frigger aria». «Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere, ma del mondo dei grandi sapeva tante cose». Nella Costituzione sta scritto che tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, ma la scuola di allora «aveva più in onore la grammatica che la Costituzione». Gianni non sapeva esprimersi in una lingua corretta, perché «le lingue le creano i poveri ma i ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro, o per bocciarlo». Il ragazzino che scrive la lettera alla professoressa diceva che la scuola di allora era classista e razzista. La cultura, stessa cosa: era classista e razzista. Non c'era posto per i figli dei contadini. Perché non fossero sempre esclusi dall'istruzione, il ragazzino chiedeva di cambiare la scuola.

Chiedeva parecchie cose, tra cui: di non interrogare sulle poesie di Foscolo perché Foscolo scrive parole difficili, come inaugurare che vuole dire augurare male: «C'è scritto nella nota. Ma è una bugia. L'ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri»; di non mettere più in programma l'Eneide, perché è scritto in una «lingua nata morta»; di non fare l'Iliade nella traduzione del Monti, perché «il Monti chi è? uno che ha qualcosa da dirci? uno che parla la lingua che occorre a noi?». Gianni, il figlio del contadino, è andato via da scuola a 15 anni e lavora in officina, «non ha bisogno di sapere se è stato Giove a partorire Minerva o viceversa. Nel programma d'italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici». Era il 1967. Quarant'anni dopo possiamo dirle che abbiamo esaudito quasi completamente le richieste di quel suo ragazzino, e questa notizia di sicuro le farà piacere; a parte il contratto dei metalmeccanici che non so se abbiamo messo davvero nei programmi (personalmente spero di no), per il resto sono sicura: studiamo abbastanza la Costituzione e pochissimo la grammatica; siamo completamente indifferenti alle acca del verbo avere; non bocciamo quasi nessuno; il Foscolo lo facciamo poco, giusto al triennio dei licei; e il Monti nessuno più sa chi sia perché abbiamo approntato meravigliose versioni in prosa dell'Iliade, scritte in uno stupendo stile quotidiano corrente. Più o meno la lingua che usiamo per andare a comprare il pane. Il problema è che, così facendo, qui da noi nessuno sa più niente e nessuno ha più voglia di studiare. Nessuno, né i poveri né i ricchi. E questa seconda notizia non so se le farà piacere. Viste le condizioni in cui siamo, mi sono fatta l'idea che sarebbe il caso di ripristinare l'Iliade del Monti. E anche di studiare molto il latino proprio perché è una lingua morta, e fare molta grammatica, e leggere molto Foscolo con le note (come può dire che non amava i poveri, cosa significa?). Mi scusi se oso dirle queste cose, ma sa, l'Iliade del Monti è infinitamente più bella di tutte le versioni piatte e prosaiche che noi (demagoghi e vigliacchi!) ci siamo inventati per rendere Omero a portata di tutti; e i ragazzi lo sanno: tra un pezzo del Monti e un pezzo del traduttore postmoderno non hanno dubbi, scelgono il Monti.

Ma soprattutto sarebbe bene tornare alla sua Iliade proprio perché è difficile, e i nostri giovani hanno ora più che mai bisogno di incontrare la difficoltà, dal momento che vivono in un mondo dove tutto è diventato facile e dunque tremendamente insignificante e ben poco gratificante. Io non lo so perché la letteratura sia stata giudicata così elitaria e impopolare e poco democratica, ma non lo è, mi creda, e dovremmo una buona volta liberarci di questo sacro tabù mistificante. Non possiamo continuare a offrire ai giovani del cibo premasticato, con l'idea che così fanno meno fatica e ci arrivano tutti. Questa è finta democrazia. E soprattutto produce due cose: ignoranza e un'infinita tristezza (un panino al prosciutto sminuzzato e ridotto in pillole non sa più di niente, è vomitevolmente sciapo: lei lo mangerebbe mai?). Fatica, difficoltà e bellezza sono le cose che dobbiamo reintrodurre nella scuola. Solo la fatica di spaccarsi la testa su un libro difficile renderà i nostri giovani culturalmente forti, e quindi preparati ad affrontare la vita e il lavoro.

E solo la bellezza (delle parole del Monti, per esempio!) li convincerà che vale la pena di farla, quella fatica. Io lo so che lei è stato molto amato perché dava voce ai poveri contadini e ai loro figli, esclusi dalla cultura classista dei Pierini figli dei ricchi dottori e professori. E così era logico che fosse (anche se mi disturba un po' veder grondare a ogni riga del suo libro tanto odio di classe…). Allora, forse, era anche giusto. Ma credo che oggi lei scriverebbe un altro libro, molto diverso, perché vedrebbe con chiarezza che è proprio la finta democrazia del dumbing down (è una parola inglese che usiamo per dire la semplificazione eccessiva di tutto) a creare diseguaglianza sociale, privilegiando i ricchi ben forniti di denaro e relazioni utili, e togliendo ai poveri la loro unica arma possibile: un'istruzione alta; è proprio in questa scuola rasoterra che vincono i Pierini più e meglio di prima, stracciando i Gianni 10 a 0, e per di più senza fatica alcuna. E lei questo non l'avrebbe voluto. Sì, credo che oggi lei sarebbe il primo a invertire la rotta.

il manifesto 19.5.07
Sd. L'organizzazione
Sedi, risorse e mezzi di comunicazione
di Lo. C.


Mentre costruisce la sua agenda politica dando un ordine ai contenuti - lavoro, ambiente, politica internazionale e pace, welfare, riforma della politica (e "questione morale", avrebbe detto il nume tutelare Enrico Berlinguer) - la Sinistra democratica si struttura. Al Parlamento europeo, dove i Ds si sono ridotti a 6 a tutto vantaggio della Margherita, in seguito al meccanismo delle dimissioni, Sd ha 4 deputati, 5 se si aggiunge Occhetto. Lilly Gruber è indipendente e un'altra eurodeputata non ha ancora scelto. Al Senato, capogruppo Cesare Salvi, sono in 12 , due di area Angius e alla Camera 21 (o forse 22), capogruppo Titti Di Salvo. Da questa settimana sono disponibili 100 mila tessere della nuova formazione: «Non siamo insensibili alla domanda che ci arriva da tutt'Italia», mi dice con una battuta uno dei coordinatori. 6 mila iscrizioni sono già state raccolte all'assemblea del 5 maggio e un migliaio sono arrivate attraverso il sito. Perché le tessere on-line? Non sarà una forma dello svuotamento della politica? E' vero il contrario, rispondono, «non tutti sono interessati a un rapporto con la classica sezione di zona come al tempo del Pci. Molti, soprattutto giovani, chiedono di partecipare diversamente. Lavorando in gruppi tematici, scrivendo sul sito, proponendo temi di ricerca e lavoro politico. Per questo chiedono che la tessera sia spedita a casa. Abbiamo risposto ok, sei nella newsletter , a ci ha mandato nome e cognome». Una rottura è pur sempre una rottura. Anche se i promotori di Sd intendono ridurre al minimo i conflitti, facendo proprie le parole nobili con cui Fabio Mussi ha concluso il suo intervento al congresso: «Si aprono due fasi costituenti. Sarebbe bene un doppio successo. Buona fortuna, compagni». Con il dovuto fair play, ora bisognerà arrivare alla suddivisione del patrimonio. Le sedi, i n n a n z i t u t t o . Cosa riuscirà a portarsi a casa la nuova formazione, prima ancora che i Ds affrontino il nodo ancor più spinoso dell'unificazione con la Margherita? Se ne occuperà una commissione in una trattativa che sta partendo. Ci sono sezioni in cui Sd ha vinto il congresso, altre in cui le sedi sono ancora condivise (ai Parioli, a Roma, si alternano le riunioni dei Ds e di Sd). In molte sezioni, invece, prevale lo sconcerto, cioè la paralisi. La vicenda è resa più complessa dal fatto che molte sezioni (Pci, poi Pds e Ds, domani Pd) ospitano movimenti vari, e nelle regioni rosse le Case del popolo. Ad Arezzo, nella mitica Casa del popolo «Aurora» - uno dei pochi luoghi di aggregazione della città - ci si interroga sul futuro. Un altro titolo della trattativa riguarda le persone. I funzionari politici devono scegliere, di qua o di là. Si tratta di uomini e donne che hanno maturato il Tfr e, magari, le buonuscite. C'è un pressing diessino su molti quadri orientati verso il nuovo movimento a restare, naturalmente in cambio di un'abiura. Oggi lo strumento principe della comunicazione della Sd è il sito che si sta trasformando in portale ( www.sinistra-democratica.it ). «Circolarità e rete», tutto passa di qui: costruzione dell'agenda politica, comunicazione classica tra centro e periferie, servizi al territorio. Almeno per ora, le tentazioni di bruciare il patrimonio in un quotidiano cartaceo sono più che minoritarie, anche perché non si può negare che la situazione finanziaria attuale è legata a una forte rappresentanza parlamentare di Sd, tutta da riconquistare in futuro. «Dobbiamo mettere in rete gli strumenti esistenti, non abbiamo bisogno di bollettini di partito, funzione ampiamente assolta dal portale», dicono nella sede dei gruppi in via Uffici del Vicario. I primi strumenti esistenti sono il mensile cartaceo Aprile e Aprile on-line a cui viene chiesta una «maggiore contaminazione». « Aprile nasce nella stagione di Cofferati - dice il direttore Massimo Serafini con i circoli vicini al Correntone Ds». Dopo la migrazione bolognese dell'ex segretario Cgil, il giornale è rimasto in mano a Famiano Crucianelli e al gruppo politico arrivato nel partito dall'esperienza del Pdup. Nessuno chiede che si trasformi in «organo» di partito, tant'è che il suo direttore non ha la tessera, anzi sta con il gruppo di ambientalisti che lavora nella Sinistra europea. «Stiamo cercando di costruire sinergie e l'abbinamento tessera Sd-abbonamento». Quando si parla di sinergie si finisce per parlare anche di manifesto , a cui viene chiesta una maggiore contaminazione: «Dobbiamo tutti provare a sparigliare».

venerdì 18 maggio 2007

Repubblica 18.5.07
Nel film una carta di Ratzinger del '62 sulle istruzioni ai sacerdoti sotto accusa (...)
Preti pedofili, video Bbc in rete polemiche e record di contatti
Il reportage dell'ottobre 2006 già visto da 110 mila persone
di Alessandro Longo


ROMA - L´inchiesta sui preti pedofili, realizzata dalla Bbc a ottobre 2006, è finita su Internet diventando di colpo il filmato più visto su Google video Italia. Infuriano le polemiche, rinnovate dal tam tam della rete: il video dura 40 minuti ed è stato visto già da 110 mila persone, dal 5 maggio, giorno in cui è stato pubblicato da un utente. Il video è stato anche sottotitolato in italiano. Si parla di una vicenda che coinvolse decine di sacerdoti, accusati di pedofilia. Per esempio, nella diocesi di Ferns (Irlanda) o negli Usa (dove un rapporto denuncia 4.500 preti). Ma, soprattutto, la Bbc punta il dito contro la complicità delle autorità ecclesiastiche, a loro volta accusate di essersi sempre strette a difesa degli imputati. Al centro, l´attuale papa Benedetto XVI. «Quando si venne a sapere quello che succedeva a Ferns, le autorità ecclesiastiche locali, in ossequio alle direttive segrete della chiesa cattolica, misero tutto a tacere - racconta lo speaker della Bbc (nella traduzione italiana, a cura del sito Bispensiero. it) - responsabile di quella imposizione fu il cardinale Joseph Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI».
La Bbc parla infatti anche del Crimen Sollicitationis, un documento segreto emesso nel 1962 dal Santo ufficio del Vaticano (che oggi si chiama Congregazione per la dottrina della fede) e che aveva a garante l´allora cardinale Joseph Ratzinger. Il documento istruisce i vescovi su come comportarsi con i sacerdoti accusati di fare avance sessuali durante la confessione e di reati come la pedofilia. Ratzinger avrebbe imposto queste direttive per 20 anni e poi nel 2001 «emanò il seguito del Crimen Sollicitationis», dice lo speaker della Bbc. «Lo spirito era lo stesso - continua - ribadiva con enfasi la segretezza, pena la scomunica. Ne inviò una copia ad ogni vescovo del mondo. Recentemente ha aggiunto che tutte le accuse devono essere vagliate esclusivamente dal Vaticano. In altre parole solo Roma può pronunciarsi sugli abusi sessuali sui minori». La Bbc non risparmia niente allo spettatore cattolico e mostra testimonianze di chi da bambino fu vittima di abusi di preti. È un´inchiesta che fa scalpore a maggior ragione perché non è stata mai trasmessa dalla tv italiana. Di recente però un´azienda specializzata ha acquisito il video per proporlo a emittenti italiane (e si è premurata, tra l´altro, a diffidare Repubblica. it dal diffonderlo).
Già però la diffusione su Internet ha reso il video molto più noto al pubblico italiano. Ne è prova anche le migliaia di commenti sui forum della rete. Gli utenti cattolici dicono che sia un falso.

l’Unità 18.5.07
Preti pedofili. In vendita l’arcidiocesi di Los Angeles
Una mossa per fronteggiare i risarcimenti alle vittime. Ma c’è chi dice: solo propaganda
di Roberto Rezzo


New York. ARCIDIOCESI VENDESI, prezzo da trattare. Il cardinale Roger Mahony, arcivescovo di Los Angeles, ha dato incarico ad un'agenzia immobiliare di trovare al più presto un acquirente per il palazzo di 12 piani che ospita gli uffici amministrativi dell'arcidiocesi e
un'altra cinquantina di edifici di proprietà della Chiesa in California. Ha urgente bisogno di soldi per pagare i risarcimenti alle vittime dei preti pedofili. Si parla di una cifra attorno al miliardo di dollari. Nel dicembre dello scorso anno 46 casi di abuso sono stati chiusi con un accordo extragiudiziale valutato 60 milioni di dollari, rimangono aperte circa 500 cause che si strascinano da anni in tribunale. «In questi ultimi mesi avvocati, giudici e leader ecclesiastici hanno lavorato diligentemente per arrivare a un accordo giusto e imparziale. Prego ogni giorno perchè questo processo continui guadagnando forza e perchè in un prossimo futuro questi casi possano essere decisi secondo equità - ha fatto sapere l'alto prelato - La posizione dell'arcidiocesi resta quella che le compagnie di assicurazione devono onorare le proprie responsabilità coprendo la parte principale dei future risarcimenti, ma dobbiamo comunque essere preparati a fare la nostra parte».
È da notare che dal 1987, quando sono scoppiati i primi scandali, nessuna compagnia assicurativa negli Usa ha più sottoscritto polizze che coprano le responsabilità derivanti da atti di pedofilia da parte dei preti. I legali delle vittime - esasperati dalle pratiche dilatorie e dalle eccezioni procedurali della difesa che hanno consentito sinora di arrivare a giudizio - sono rimasti stupefatti. «Non ho nessuna indicazione di accordi imminenti. I primi casi sono attesi a dibattimento il mese prossimo - spiega John Manly, uno degli avvocati - Ho l'impressione che questa sia una spregevole operazione di pubbliche relazioni. Il cardinale sta cercando di conquistarsi la simpatia dell'opinione pubblica». Mary Grant, portavoce della Snap, la principale organizzazione delle vittime, è convinta che Mahony pubblicizzi in questo modo la vendita dei beni ecclesiastici per far apparire le sue vittime come gente senza scrupoli e assetata di soldi.
Gli esperti di diritto fanno notare che a Los Angeles, prima arcidiocesi Usa con circa 4,3 milioni di fedeli, il cardinale si sta comunque comportando relativamente bene. Almeno a confronto di quello che hanno fatto alcuni suoi colleghi. A Portland in Oregon, poche ore prima che iniziasse il processo per due casi di molestie sessuali su minori da parte dei sacerdoti, i legali dell'arcivescovo si sono presentati in un'altra aula di tribunale per chiedere l'applicazione del Chapter 11 della legge fallimentare Usa, lo statuto che garantisce protezione dai creditori alle aziende in difficoltà. Altrettanto hanno fatto il vescovo di Tucson in Arizona e quello di Spokane nello Stato di Washington. Altri hanno cercato di figurare come nullatenenti sostenendo che la diocesi non può disporre dei beni che i fedeli hanno donato alle parrocchie. Alcuni avvocati sono passati al contrattacco sostenendo che la Chiesa cattolica è un'entità unica ed quindi è tenuta a rispondere in solido, puntando direttamente alle casse del Vaticano. Una tesi sostenuta da molti illustri giuristi, ma che a dispetto dei codici ha portato in un vicolo cieco: le rogatorie internazionali presentate alla Santa Sede non hanno nemmeno ottenuto risposta.
Lo scorso anno la Bbc ha mandato in onda un documentario dal titolo «Sex Crimes and the Vatican», sulla reazione della S. Sede di fronte a migliaia di cause avviate negli Usa e in Irlanda contro la Chiesa da parte di chi da bimbo aveva subito le indesiderate attenzioni dei preti nelle parrocchie, negli oratori, nei collegi e negli orfanotrofi. L'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede avocò a Roma la responsabilità di tutte le indagini interne sui preti pedofili strappandola alle diocesi che avrebbero dovuto collaborare con l'autorità giudiziarie. «In 30 anni di carriera ho avuto a che fare con organizzazioni criminali di ogni genere - è il commento di Rick Romley, ex procuratore distrettuale di Phoenix in Arizona - Non ho mai trovato un muro di segretezza, ostruzionismo e omertà come quello di cui è stata capace la Chiesa cattolica nell'inchiesta sui preti pedofili». Il nome del Prefetto era Joseph Alois Ratzinger, salito al soglio di Pietro come Benedetto XVI.

l’Unità 18.5.07
Sd: «Noi, daremo rappresentanza politica al lavoro»
Il movimento di Mussi si presenta in Parlamento
Salvi: si possono tagliare 6 miliardi di costi della politica
di Giuseppe Vittori


UNA FORZA DELLA SINISTRA ispirata ai principi del socialismo, che vuole portare alla ribalta il tema del lavoro e delle questioni sociali, con un occhio di riguardo per le donne, assenti nella vita politica e tra i soggetti più penalizzati quando si parla di preca-
rietà e pensioni basse.
Titti Di Salvo e Cesare Salvi, da ieri presidenti dei gruppi di Sinistra Democratica di Camera e Senato, approfittano della presentazione ufficiale dei gruppi per metter in chiaro quali sono gli obiettivi a cui lavorà da oggi Sd.
Prima di parlare dell’agenda di lavoro dei nuovi gruppi parlamentari, Cesare Salvi non risparmia qualche frecciata agli ormai ex colleghi di partito: «Qualcuno ha parlato di preoccupazione per la nascita del nostro gruppo in quanto poteva destabilizzare il governo ma - dice Salvi mostrando il titolo dell’Unità e un editoriale di Europa - è il contrario. I rischi per il governo vengono dal centro dello schieramento e non solo da Mastella, la nascita del Partito Democratico contribuisce alla destabilizzazione».
Pd a parte, il capogruppo di Palazzo Madama si concentra sul lavoro che aspetta i gruppi di Sd. «Il primo obiettivo - spiega- è quello di costruire in Italia una forza di sinistra ispirata al socialismo. Il dialogo con le forze interessate è iniziato, e un coordinamento si è già costituito nel consiglio regionale del Lazio (dove Giulia Rodano ha lasciato i Ds, ndr)».
Importante poi è il recupero di un rapporto con i cittadini.
«C’è un problema di disagio sociale, i salari e le pensioni sono basse», osserva lo stesso Salvi che prova a indicare una soluzione per recuperare i fondi a favore di stipendi e pensioni: «Padoa-Schioppa doveva accorgersi che c’erano delle proposte di legge sul taglio dei costi nella politica, la mia e quella di Spini ad esempio, che in base a calcoli precisi indicavano la possibilità di un risparmio annuo pari a 6 miliardi. Se c’è una grande scontentezza popolare - osserva ancora - la politica faccia la sua parte».
D’accordo con Salvi è in primis Titti Di Salvo che ci tiene ad evidenziare come il punto di forza del gruppo debba essere «la coerenza» nei rapporti con le altre forze della maggioranza ma anche con gli obiettivi del movimento politico.
«Dobbiamo coprire un vuoto - dice - e cioè l’assenza della rappresentanza politica del lavoro». Sd non perde tempo ed infatti è la stessa capogruppo ad annunciare la costituzione di un forum contro la precarietà.

l’Unità Firenze 18.5.07
STASERA ALLE 21 AL TEATRO DI RIFREDI
La Sinistra democratica si presenta: «Unione subito in Regione»


Firenze. UNIONE SUBITO La Sinistra democratica, i cosiddetti mussiani che hanno deciso di non partecipare alla fondazione del Pd, ma di far nascere un movimento per unire tutto quello che sta alla sua sinistra, a Firenze non c’è ancora (il battesimo avverrà stasera al
Teatro di Rifredi a partire dalle 21), ma già pone richieste precise al centrosinistra che governa la Regione. «Ci sono le condizioni - spiega Alessia Petraglia consigliera regionale - perché entro e non oltre l’estate nasca l’Unione anche in Toscana. I segnali di avvicinamento in aula fra Toscana democratica e Rifondazione sono visibili a tutti. Un ulteriore rinvio (a cui sembra punti la Margherita ndr) non sarebbe giustificabile». «Il nostro obiettivo - sintetizza lo storico paolo bagnoli - è far sì che tutta la sinistra si ritrovi unita non solo nel governo nazionale guidato da Prodi, ma anche nei governi locali». Insomma la Sd come specifica il senatore Giovanni Bellini punta a «spostare a sinistra l’asse dei governi» locali toscani. E Bellini assieme a Valdo Spini, che è stato eletto vicepresidente del gruppo Sd alla Camera, al senatore Gavino Angius e a Olga D’Antona sarà uno dei protagonisti della assemblea pubblica di stasera dal titolo “cambiare l’Italia, unire la sinistra”. Un progetto ambizioso che però per il coordinatore fiorentino (e consigliere comunale) Daniele Baruzzi sta incontrando inaspettati sostegni anche al di fuori dei Ds. «Gente che non aveva rinnovato la tessera - spiega - o che era iscritta a altri partiti della sinistra». E dopo la serata fiorentina altre si ripeteranno in tutta la Toscana «a eccezioni delle città dove si vota - dice il coordinatore regionale Giuseppe Brogi - perché lì la nostra priorità e far vincere l’Unione». E comunque a metà giugno il nuovo movimento di Mussi e Angius avrà propri comitati in tutta la Toscana. E anche propri gruppi consiliari. A Livorno (comune e provincia) e Massa già sono nati. A Firenze accadrà «entro l’estate», calendarizza Baruzzi, che lega la nascita dei gruppi Sd a quelli dell’Ulivo. «Nel frattempo - aggiunge - a Firenze nascerà un coordinamento degli eletti». Quanto ai “posti” nelle giunte Baruzzi dice che «non abbiamo intenzione di porre la questione, come ha detto il sindaco Domenici all’Unità siamo intelligenti. Però tutti devono essere intelligenti e non mettere in discussione le figure che aderiscono a Sd». Il riferimento non è solo al presidente del consiglio comunale di Firenze Eros Cruccolini (verso il quale sono già cominciati gli assalti della Margherita), ma anche a Gregorio Malavolti che guida la commissione ambiente, al presidente del quartiere 4 Giuseppe D’Eugenio, all’assessore provinciale Alessia Ballini, a Loretta Lazzeri che guida le pari opportunità e alle altre figure della Sd che ricoprono incarichi istituzionali o di governo nei comuni della provincia di Firenze. Aprire contenziosi nei loro confronti cioè vorrebbe aprire contenziosi ovunque. v.fru.

Repubblica 18.5.07
Bologna: una rassegna di letture dedicata alle "Madri"
Il complesso di Amleto
I fantasmi parentali e le ragioni dei genitori
di Edoardo Sanguineti


Pubblichiamo parte dell´intervento dal titolo "Mater Domina" di , letto ieri sera a Bologna nell´ambito della rassegna dedicata ai classici sul tema delle "Madri".

Mi sono imbattuto nell´Edipo di Sofocle quand'ero un giovinetto e conducevo letture voraci e asistematiche; a farne per me un´opera importante furono due eventi: l´incontro con la psicoanalisi e la necessità di provvederne una traduzione per richiesta di Benno Besson. Da allora Edipo è divenuto un testo centrale della mia esperienza. Quando, recentemente, mi è stato chiesto di scegliere e di leggere il mio «classico per una vita», ho scelto l´Edipo tiranno.
Quella di Besson era una lettura a suo modo molto attenta alla storicizzazione della tragedia sofoclea, capace di evitarne una completa risoluzione psicoanalitica. Del resto, per quanto grande possa essere la mia ammirazione per la psicoanalisi, non mancano ragioni nelle critiche che oppongono a Freud una lettura più storicizzante. A guidare Freud era la famosa battuta di Giocasta: «molti, già, tra i mortali, nei sogni,/ ci sono andati a letto insieme, con la madre», e l´interpretazione di Sofocle conduce, nel 1899, alla prima enunciazione pubblica del «complesso di Edipo». Ma ciò che resta forse più importante, nell´Interpretazione dei sogni, sono le aggiunte alla prima edizione, nelle quali Edipo è riletto sempre più alla luce dell´Amleto, per il quale l´ipotesi freudiana funziona così bene che io parlerei di un «complesso di Amleto» più che di un «complesso di Edipo». Semmai, un appiglio per l´interpretazione psicoanalitica dell´Edipo è nell´uso del linguaggio che domina i personaggi. Quel che mi colpisce è che i messaggi offerti dalla tragedia siano sempre qualcosa di equivocabile dal punto di vista dei personaggi nel loro rapporto reciproco. Il linguaggio è senz´altro uno dei protagonisti della tragedia: e la cecità dei personaggi tragici è sempre un effetto del linguaggio.
Ovviamente, non posso negare che i miei rapporti con la mitologia edipica siano legati forse, soprattutto, a circostanze esistenziali; il «ritorno di Edipo» che io vivo ciclicamente è evidentemente connesso con eventi biografici che nulla hanno di culturale e molto di personale: io stesso, figlio unico di una madre che ho perduto in età relativamente precoce - avevo ventidue anni - in una lunga autoanalisi, o iperanalisi, ho cercato di capire le ragioni dei miei genitori; ed è questo il vero problema di fronte ai fantasmi parentali. Capire le ragioni dei genitori non significa condividerle, evidentemente; ma ogni figlio deve tentare di capire, a posteriori, le ragioni di un padre e la ragioni di una madre; se tali ragioni si capiscono, cessa ogni motivo di risentimento: ora so che mio padre e mia madre, per ciò che conosco di loro e della loro storia, non avrebbero potuto essere diversi.
Del resto, la via che conduce dal piano personale al piano storico, dalla psicoanalisi all´analisi sociologica, resta, credo, praticabile: nel corso degli anni io mi sono progressivamente convertito a Groddeck. L´ottica groddeckiana permette, meglio di altre prospettive analitiche, una congiunzione Marx-Freud; perché, in fin dei conti, ciò che è emblematico nel complesso edipico è il passaggio dalla natura alla cultura, e Groddeck più di altri sottolinea la radice, oserei dire, «darwiniana» della crisi che Freud interpreta a suo modo nel Disagio della civiltà e che ha che fare in sostanza con l´addomesticamento dell´uomo: si nasce «natura» e ci si accultura, faticosamente e malamente, attraverso una catena educativa che permette il passaggio, sempre imperfetto e malriuscito, a un ordine sociale e condiviso.
(...) Finché esiste un triangolo familiare, il modello della psicoanalisi può ancora funzionare. Oggi questo modello - un padre, una madre, un figlio - è evidentemente in crisi: e ciò comporta, in certo integralismo religioso, un rafforzarsi del modello familiare nella forma del triangolo canonico. (...) Nei testi classici del marxismo, di fronte all´accusa di promuovere la distruzione della famiglia borghese, la risposta è una sola: chi distruggerà la famiglia borghese sarà la borghesia. Questo è ciò che si è verificato: la crisi della famiglia tradizionale coincide con il dominio universale del capitale, cioè con quello che noi chiamiamo «globalizzazione».
Si dice spesso che un «artista» non dovrebbe esporsi all´analisi, perché se si lascia emergere ciò che è inconscio si rischia l´inaridimento: un´opinione comprensibile, ma non condivisibile. Io ho fatto e faccio uso della letteratura analitica. Oggi è per me difficile dire che cosa, nella mia scrittura, costituisca l´azione effettiva dell´inconscio: dirlo spetta ad altri, benché io creda di aver decifrato molto della mia storia e delle mie scelte. Ma penso che le analisi siano sempre, davvero, interminabili, perché a questo mondo non c´è che interpretazione: per dirla in altro modo, non c´è che ideologia.

Aprile on-line 16.5.07
Giustizia: "il carcere dopo l’indulto"
di Gennaro Santoro
(Dossier di Rifondazione Comunista e dell'Associazione Antigone)


Pubblichiamo il dossier della Campagna lanciata da Antigone e Prc. I dati riguardano i primi tre mesi di attività. Il dossier non tiene conto delle visite nei 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani effettuato nelle giornate del 4 e 5 maggio dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, di prossima pubblicazione.
La Campagna è iniziata il 15 febbraio e terminerà il 15 agosto. Le visite sono normalmente effettuate da deputati e consiglieri regionali del PRC-SE e da osservatori di Antigone. Lo scopo della campagna è di verificare le condizioni di detenzione post indulto, con particolare attenzione al funzionamento dell’assistenza sanitaria, oggi allo stremo, e alla mancata attuazione del regolamento penitenziario.
Delle 50 visite in carceri e ospedali psichiatrici giudiziari programmate, al 13 maggio sono state effettuate 24 visite in 23 istituti: Opg Sant’Eframo Napoli, Belluno, Regina Coeli, Vallette Torino, Saluzzo, Imperia, Sanremo, Viterbo, Avellino, Savona, Voghera, Cuneo, Parma, Castelfranco Emilia, Brescia, Palmi, La Spezia, Chiavari, Alessandria, San Vittore Milano, Como, Rebibbia Femminile (2 visite), Camerino.
Per ciò che attiene l’attuazione del regolamento penitenziario sui 23 istituti oggetto di osservazione si è rilevato che nessun istituto ha dato piena attuazione alle prescrizioni ivi previste.
Secondo i dati finora pervenuti, in 4 carceri su 5 non ci sono mediatori culturali e le docce non sono collocate all’interno della cella. In 3 carceri su 5 le finestre sono dotate di schermature. In circa il 40% dei casi i servizi igienici delle celle non sono dotati di acqua calda e non sono collocati in un vano separato rispetto a quello che ospita i letti; ancora nel 50% dei casi non sono consentiti colloqui in spazi all’aria aperta e nelle sezioni femminili i servizi igienici delle celle non sono dotati di bidet.
Per ciò che attiene l’assistenza sanitaria desta preoccupazione l’uso massiccio di psicofarmaci: oltre il 50% dei ristretti fa uso di psicofarmaci. Alto il numero di tossicodipendenti. Le malattie maggiormente diffuse sono le epatiti e le malattie della pelle. Si riscontrano problemi per l’approvvigionamento dei farmaci. In molti istituti non è garantita la presenza di personale medico h24. I farmaci maggiormente utilizzati sono: ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici, antinfiammatori, antidolorifici, farmaci per lo stomaco.

I dati post indulto
I detenuti prima dell’approvazione dell’indulto erano 61.246 per una capienza regolamentare di circa 43.000 unità. I ristretti nelle carceri italiane sono scesi a 38.847 a settembre 2006, sono risaliti oggi a 42.702 (il 35% è rappresentato da stranieri). Sono 26.201 (di cui 16.158 italiani e 10.043 stranieri) gli ex detenuti usciti dal carcere negli ultimi nove mesi grazie all’indulto. Dall’ultimo screening del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) emerge che 18.189 (pari al 69,4% del totale) sono gli ex detenuti condannati in via definitiva che hanno beneficiato dell’indulto, mentre 8.012 sono coloro che grazie al provvedimento di clemenza hanno avuto una revoca della misura cautelare su decisione del magistrato di sorveglianza. Ad oggi si sta registrando un preoccupante aumento della popolazione carceraria. Soltanto il 12% degli indultati ha commesso un nuovo reato, contro il 68% fisiologico del tasso di recidiva.

Carcere e pena dopo un anno di governo
Brevi considerazioni sull’operato del Parlamento, del Governo e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). L’approvazione del provvedimento di indulto, come ha ricordato Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della recente visita al carcere femminile di Rebibbia, ha rappresentato un "passo eccezionale ma necessario - viste anche le difficoltà del programma di edilizia penitenziaria - per decongestionare e rendere più vivibili, più umane, più degne le carceri italiane. E anche per alleviare le difficoltà di quanti operano in questi istituti al servizio dello Stato".
Dopo l’approvazione del provvedimento di indulto risulta però opinabile il fatto che, soprattutto nei piccoli istituti, le direzioni di diversi istituti di pena hanno chiuso molti reparti per risparmiare personale, ma non li si è ristrutturati per renderli più vivibili, così la popolazione detenuta in diversi istituti ha continuato a vivere disagiata.
Per altro verso, il primo anno della XV Legislatura si è caratterizzato positivamente per l’approvazione di due importanti disegni di legge alla Camera dei deputati relativi alla istituzione di una Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani e del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, e alla introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico.
Bisogna ricordare infatti che l’Italia è uno dei pochissimi paesi in Europa (e nel mondo) a non aver adottato tali provvedimenti nonostante l’esistenza di obblighi internazionali, vincolanti per l’Italia, che dispongano in tal senso. È stato inoltre licenziato dalla Commissione giustizia della Camera il disegno di legge relativo alla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori.
Per quanto concerne l’operato del Ministero della Giustizia risultano sicuramente condivisibili le prime misure adottate, dall’istituzione della Commissione di riforma del codice penale, presieduta dall’avv. Giuliano Pisapia, alla realizzazione e diffusione della indagine conoscitiva relativa al tasso di recidiva dei detenuti prima e dopo l’approvazione dell’indulto.
Se da un lato si plaude l’operato e le dichiarazioni programmatiche del Ministro della Giustizia Mastella, del Presidente della Commissione di riforma del codice penale Pisapia e del Sottosegretario Manconi (ad es., completamento del passaggio di competenze al Sistema sanitario nazionale dell’assistenza sanitaria penitenziaria, istituzione di un commissione di indagine sullo stato di attuazione del regolamento penitenziario), dall’altro risulta opinabile l’operato del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in particolar modo per la emanazione delle circolari relative ai circuiti di alta sicurezza e la richiesta, fatta propria dal Ministro Mastella, di inasprimento del 41 bis.

Le riforme da fare: il carcere come extrema ratio
In primo luogo deve indurre a riflettere il seguente dato. La percentuale di recidivi tra coloro che beneficiano delle misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a coloro che sono in carcere e vengono liberati alla scadenza della pena: ricade il 19% degli ammessi alle misure alternative, contro il 68% di chi è uscito dopo aver scontato la pena in stato di detenzione. Tale dato deve indurre il Legislatore italiano a riformare il sistema penale riducendo il ricorso al carcere a extrema ratio in linea con la filosofia di fondo che sta ispirando i lavori della commissione di riforma del codice penale.
Le altre riforme urgenti sono, in via di prima approssimazione: riduzione della fattispecie di reato, riduzione delle pene edittali, diversificazione delle sanzioni all’interno del nuovo codice penale; abrogazione della legge ex - Cirielli sulla recidiva; abrogazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e contestuale depenalizzazione di tutte le pratiche di consumo; abrogazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e depenalizzazione di tutto ciò che riguarda la condizione giuridica dello straniero; approvazione della legge istitutiva del garante delle persone private della libertà; introduzione del crimine di tortura nel codice penale; nuovo ordinamento penitenziario per i minori; esclusione dal circuito carcerario dei bambini figli di madri detenute; applicazione della legge Bindi sulla sanità del 1999 con passaggio della medicina penitenziaria alle Asl; applicazione piena e incondizionata del Regolamento di esecuzione entrato in vigore il 20 settembre del 2000; superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.

Schede visite in carcere
Milano: è da porre, anche per questa visita, la situazione di degrado che versa nel Conp, il reparto all’interno del presidio sanitario, riservato all’osservazione neuropsichiatria. Le celle e il reparto stesso sono ambienti degradati e degradanti, con i muri scrostati in stato di abbandono. Ciò che colpisce è l’odore di stantio e di sporco.
Brescia: nella sezione non ancora ristrutturata le celle sono fatiscenti, i muri scrostati, il lavandino pieno di ruggine e gocciolante, la turca (di cui non c’è più traccia del candido colore bianco che la contraddistingueva) è sporca e vicina al lavandino dove vengono lavate le stoviglie e dove si cucina. Effetti personali, cibo, biancheria, stracci e detersivi...convivono penosamente insieme in un unico armadietto o su un’unica mensola. C’è un solo educatore per 350 detenuti.
Imperia: mancano i fondi per convenzioni con specialisti; il servizio di guardia medica è stato ridotto da 18 a 10 ore; servizio psichiatrico Ser.T. attivo per 8 ore al mese con problemi di obbligo di 4 entrate mensili (4x2) e relativa impossibilità di monitorare i nuovi entrati, così come per il servizio della psicologa che ha 18 ore al mese. Assente servizio di Psichiatria (non Sert), pare per mancanza personale disponibile ASL (stesso problema di Sanremo: assoluta mancanza di interesse da parte del responsabile ASL).
Viterbo: dopo il provvedimento di indulto due sezioni a rotazione sono state chiuse per consentirne, ci viene detto, la manutenzione ordinaria. Ciò determina una situazione di sovraffollamento nelle restanti sezioni, tale per cui le celle singole sono occupate da due persone. Nella sezione precauzionale (circa 30 detenuti) non viene svolta alcuna attività. Ci sono vari progetti in corso, ma la direzione ci dice di non avere detenuti con un comportamento penitenziario tale da poter andare a lavorare all’esterno. Pochi gli articoli 21. Si intende creare una sezione EIV, alla quale la direzione sarebbe contraria.
Avellino: drammatici i dati sanitari: circa il 70% dei ristretti fa uso di psicofarmaci, il 60% è tossicodipendente, il 40% ha l’epatite; ancora, l’ASL di competenza non fornisce farmaci violando, di tal guisa, la normativa vigente.
Il magistrato di sorveglianza, organo essenziale per il rispetto dei diritti dei detenuti e per il loro graduale reinserimento sociale, entra in istituto una volta ogni sei mesi mentre la legge prescrive almeno una visita al mese. Anche per questa ragione non è positivo il giudizio sulle attività trattamentali: non ci sono detenuti semiliberi, soltanto 5 detenuti lavorano all’esterno dell’istituto; 95 i lavoranti, a turnazione e per sole 3 ore la giorno, all’interno della struttura; al momento non si svolgono corsi di formazione professionale.
Sono 2 i bambini presenti al momento della visita. Persiste il dramma della loro permanenza in istituto per l’intero arco della durata della pena della madre, al contrario di quanto avviene in altri istituti carcerari italiani.
Palmi: i colloqui con il Magistrato di Sorveglianza e le visite mediche alla presenza degli agenti di Polizia Penitenziaria. Alcuni detenuti lamentano di non riuscire ad ottenere permessi pur rientrando nei termini di legge inoltre, per alcuni, è difficile riuscire ad ottenere la declassificazione dall’Eiv anche se la sintesi non presenta elementi ostativi, in particolare un detenuto attende da 7 anni la declassificazione ed ha prodotto diverse istanze, l’ultima un anno e mezzo fa circa, rimaste senza risposta dal Dap.
Opg Sant’Eframo: nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli il tempo si è fermato. I detenuti vivono in condizioni igieniche inesistenti e spesso abbandonati a loro stessi.
Il vecchio monastero di Sant’Eframo, all’angolo della centrale e trafficata via Matteo Renato Imbriani, è un’isola nella quale non giungono i rumori della città. Ma non è un’isola felice. Perché qui, in quello che oggi è l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, non arriva nemmeno l’eco delle riforme penitenziarie e psichiatriche.
Con Sergio Piro, figura storica della psichiatria democratica e Francesco Caruso, deputato indipendente del Prc, varchiamo le porte di una struttura che ad oggi "ospita" circa 100 internati. L’odore di urina è forte e si avverte sin dalla prima rampa di scale che ci porta alla seconda sezione minorati. Un odore che si mischia alla scarsa igiene e alle cicche di sigarette sparse un po’ ovunque. Lungo il corridoio, da una cella, un internato molto giovane, Giovanni M. riconosce un profilo noto, "uà i no-global!" esclama e, euforico, ci invita ad entrare. La scena che ci si presenta è agghiacciante. La cella è in condizioni igieniche indescrivibili, avanzi di pasti, sigarette, bucce di arance, sporcizia. Allo sporco fa da contrappeso l’assenza di ogni tipo di suppellettili. Qui sono ammassate sei persone. I letti, l’uno all’altro adiacenti, sono coperti da lenzuola di un grigio imprecisato, che emanano un odore molto forte.
Un internato più anziano ci invita ad entrare in bagno, mentre Sergio Piro dialoga con alcuni ragazzi. I bagni sembrano uscire da un’altra epoca. Tre cessi, affiancati, divisi da una sorta di paratia di ferro, sono pieni di ruggine e liquami. Il lavabo, di quelli che si usa per lavare i panni, è pieno di acqua limacciosa, così come l’acqua copre completamente il pavimento perché il tubo perde. Non c’è acqua calda, non c’è una doccia.
Non mancano solo nella cella, mancano su tutto il piano, ci dicono. Incredibile ma è così. Non ci sono docce nelle celle né in tutto reparto. Giovanni M., che ha ventiquattro anni, è qui da un anno. Faceva uso di sostanze, è stato denunciato dalla famiglia. Estorsione, per una somma di 12 euro. Le storie si sovrappongono, tutti in attesa di un parere medico o di una perizia. Giovanni sveglia un compagno che, nonostante il nostro arrivo è rimasto immobile sul letto.
Quando Andrea D. si volta, mette in mostra i suoi avambracci, devastati da piaghe. All’altezza del polso due buchi, come quelli da piaghe da decubito con una lesione della pelle che sembra molto profonda sino a raggiungere l’osso. Andrea dice che è colpa della droga, che lui prima si drogava, ma ora non più, se solo tornasse a casa il padre saprebbe come curarlo. Tutti vestono panni vecchi, molto sporchi, l’aspetto è estremamente dimesso, ma riescono a raccontare, seppur confusamente, le loro storie.
Proseguiamo lungo i corridoi, dalle celle richieste di aiuto, di assistenza legale, di alloggio, spesso semplicemente anche di una sola sigaretta. Camillo De Lucia, psichiatra dell’istituto che ci accompagna, di fronte alle nostre perplessità ci dice che sbagliamo a confrontare le loro condizioni con quanto prevede l’ordinamento penitenziario, ma che come riferimento dobbiamo prendere le condizioni dei vecchi manicomi giudiziari. Confrontato con l’orribile del passato, l’indecenza del presente dovrebbe essere meglio tollerata.
In una cella, solitario, tremante, a piedi nudi, un uomo è inginocchiato appoggiato alle sbarre della porta. Gli passano tutti di fronte con estrema indifferenza. Sergio Piro si ferma, si inginocchia gli stringe la mano ("stringete le mani ci dice, è importante il contatto è importante", ripete). Gli domanda il nome. Lorenzo M. ha circa cinquanta anni, tremante biascica qualcosa e ci chiede una sigaretta. La sua cella come tutte quelle che incontriamo, salvo rare eccezioni, è desolatamente vuota e sporca. Nei corridoi l’odore di urina è spesso fortissimo, in diverse celle, piene di rifiuti, manca il televisore. Li rompono, ci dice Salvatore De Feo, il direttore, molti di quelli che ci sono li ha donati il Pio Monte della Misericordia.
Chiediamo di vedere la sala di contenzione, ma dopo un primo giro in un corridoio chiuso, ci viene detto che non c’è, qui non si usa. Ci basterebbe vedere anche quella in disuso, ma forse per difetto di comunicazione o forse perché siamo viandanti distratti non ci viene concesso questo onore. Così come, in quei corridoi, non abbiamo avuto il piacere di incrociare un medico o un infermiere.
In una cella incontriamo Fabio M., che avevamo incontrato durante la nostra visita all’Opg di Aversa. Detto "bambolella", perché gira sempre con una bambola di Barbie in mano. È felice di vederci. Ci aveva raccontato, nell’occasione precedente, di subire molestie. Ne avevamo parlato con il direttore. Il trasferimento l’ha rinfrancato, ci chiede di ringraziare "la dottoressa Roberta" (Roberta Moscatelli del Forum Salute Mentale, ndr) che l’ha fatto trasferire. Non è merito nostro, ma Fabio è convinto del contrario. Un agente che ci accompagna, con poetica chiosa, ci dice: "Non so se è omosessuale, ma di sicuro è ricchione". Parte della struttura è chiusa, una piccola ala, con circa venti internati è stata da poco rifatta ed almeno qui non si sente odore di urina.
Giungiamo all’aperto, al passeggio. Un cortile di cemento, di pochi metri quadri con una grata molto alta attorno. L’effetto di una gabbia, con dentro uomini poco più che animali. I visi e le storie si sovrappongono. Dai buchi delle grate passiamo le sigarette, una fila ordinata, ogni mano una sigaretta, i più pronti passano per un secondo giro. Un internato, che abbiamo incontrato nel giro, è felice, la stretta di mano di Piro l’ha illuminato: "Ciao grande Sergio", grida mentre ci allontaniamo.
C’è ancora tempo per un gesto. Mentre Francesco raccoglie le ultime storie e distribuiamo le ultime sigarette, Giovanni M. si avvicina, estrae dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e dice: "Facciamo uno scambio, tu mi dai una tua diana blu e io ti do una mia rossa". Sorride, il baratto, così lo chiama, lo rende felice, mentre pochi metri più in là un internato obeso è preso in giro dai suo compagni di pena. Ce ne andiamo così, con quella sofferenza che nessuno di noi sa spiegare e con quella sigaretta che ancora adesso aspettiamo a fumare.

Panorama 16.5.07
Pedofilia: la psicologa Marina Valcarenghi: i mostri non esistono


"I mostri non esistono. Un pedofilo non va identificato col suo reato. Per me è prima di tutto una persona. E un paziente con un disagio psichico che va curato e guarito. Anche con i miei pazienti pedofili instauro spesso un vero rapporto d’amore". Il rigore scientifico e la naturalezza con cui Marina Valcarenghi, psicoterapeuta milanese con trent’anni d’esperienza, pronuncia queste frasi fanno quasi dimenticare il loro contenuto di rottura. Nel 1994 il carcere di Opera le affidò un progetto pilota di psicoterapia sui detenuti.
Per nove anni Valcarenghi ha lavorato con un gruppo di sex offender (pedofili e stupratori) della sezione di isolamento maschile. Da allora molti uomini (e qualche donna) con comportamenti sessuali violenti si sono rivolti a lei per essere curati e continuano a farlo. La pedofilia infatti è uno dei reati a più alto tasso di recidiva e le misure preventive sono urgenti, sia per tutelare le piccole vittime di una violenza terribile, sia per mettere gli autori di questo crimine nella condizione di difendersi da un desiderio tanto riprovevole quanto irrefrenabile. Marina Valcarenghi indica la via in un libro dal titolo Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento, recentemente pubblicato da Bruno Mondadori.

Dottoressa Valcarenghi, partiamo dal titolo del libro.
"Ho paura di me" è una delle frasi che ho sentito più spesso ripetere dai miei pazienti. Molti di loro hanno paura della propria pulsione. Se si guardano allo specchio vedono un mostro, di cui hanno orrore.

Lei cerca di trovare le cause della pedofilia, ma spiega come non esista un’origine comune a questi comportamenti disturbati. A volte però i pedofili hanno subito a loro volta un abuso durante l’infanzia.
Capita in alcuni casi che chi abusa di bambini sia stato vittima di violenze, ma la cosiddetta "catena dell’abuso" è solo una delle possibili cause della pedofilia. Non esiste un legame necessario tra le due situazioni. Le persone reagiscono a un trauma subìto nei modi più diversi e non è detto che tutti diventino molestatori di minori.

Ha mai avuto paura davanti a uno dei suoi pazienti?
No. Cerco sempre di distinguere tra la persona e il reato che ha commesso. Verso quest’ultimo nutro ripugnanza. Ma un pedofilo non è mai solo l’azione violenta che ha compiuto: è anche un padre, un figlio, un marito, con una storia, dei rimorsi, dei disagi. Quello che è davvero barbaro è identificare un essere umano col suo reato.
All’inizio, lo ammetto, è stato molto difficile. Loro, uomini violenti, non si fidavano di una donna medico. Lentamente però è nata una relazione affettiva, la stessa che si crea nel migliore dei casi tra uno psicoanalista e il suo paziente, direi un vero rapporto d’amore. Questo non significa certo collusione o giustificazione per il reato di pedofilia. Sono rimasta in contatto con molti di loro: la maggior parte conduce una vita normale e ha una famiglia. Senza più pulsioni patologiche.

Qual è secondo lei l’approccio migliore in casi come questi?
Il reato deve essere assolutamente punito, ma il pedofilo è anche un deviante, un uomo che soffre e in quanto tale va aiutato. Il carcere non basta. Questo problema psichico va curato come tutti gli altri disturbi. Anche se tengo a precisare che la terapia è efficace solo nel caso in cui il paziente vi si sottopone in modo volontario. Ora sto per esempio seguendo un pedofilo esibizionista (cioè una persona che impone la visione del proprio corpo nudo a dei bambini, ndr), che è in attesa del giudizio definitivo. Lui sa che dovrà scontare almeno tre anni di carcere, ma nel frattempo si è fatto curare da me ed è clinicamente guarito. Non ha più quella pulsione. Ha voluto sottoporsi alla terapia finché era a piede libero, rendendosi conto che in prigione non è possibile.

La sua esperienza a Opera è rimasta senza seguito. Perché?
Perché non ci sono i fondi per questo tipo di attività. E perché non c’è la volontà politica di spenderli in questo modo. Molti considerano mal spesi i soldi impiegati per aiutare i cosiddetti "delinquenti". Invece la mia esperienza ha dimostrato che se si spezza l’isolamento in cui sono rinchiusi i detenuti, con la psicoterapia ma anche con iniziative che fanno entrare la società civile dentro al carcere come corsi di formazione, attività sportive e culturali, il loro livello di aggressività si attenua notevolmente.

Che cosa le ha insegnato Opera?
Ho capito che tutti hanno qualcosa da salvare, che non ci sono persone irrecuperabili per definizione. I mostri non esistono, chiunque ha un nucleo di umanità da difendere. Dopo Opera ho deciso di curare coloro che nessuno vuole curare.

Di pedofilia si può guarire quindi?
Certo. Qualunque disagio psichico può essere curato con buone possibilità di riuscita, compresa la pedofilia. Molti pazienti oggi vengono da me dopo aver scontato la pena o in attesa del giudizio. Alcuni si fanno curare senza essere mai stati denunciati né perseguiti. Il diritto alla cura, anche psicologica, è sancito dalla Costituzione e va affiancato all’eventuale condanna penale. Solo così si riabilita e si guarisce un detenuto con comportamenti sessuali violenti. Con evidente vantaggio per tutti.

giovedì 17 maggio 2007

DA PARIGI, LOUVRE

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fotografie di Alex Ugolini
Ricevute da Tonino Scrimenti
l’Unità 17.5.07
Gramsci il riformista
di Giuseppe Tamburrano


Ho letto il volume di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca Gramsci tra Mussolini e Stalin (Fazi Editore). E l’ho letto tutto: Gramsci è stato il mio primo amore, di quelli veri che «non si scordano mai». Il libro si legge a fatica perché spesso confuso, sovraccarico di riferimenti e citazioni (molte «autocitazioni»), di ripetizioni, ma è politicamente importante. Esso, sebbene non sempre in modo limpido e netto, giunge a conclusioni che fin ora non erano state accolte dal mondo culturale comunista e post:
1) Gramsci nel carcere elabora una teoria che supera radicalmente il leninismo e conseguentemente la sua stessa linea degli anni precedenti fondata sulla prospettiva attuale e matura della conquista del potere con la violenza («fare come in Russia») e lo ancòra ad una strategia di lungo periodo che possiamo definire della «rivoluzione» democratica - l’egemonia - attraverso la conquista del consenso. Le ragioni di tale evoluzione sono sostanzialmente due: a) il fallimento della rivoluzione di tipo leninista in Europa; b) la differenza sostanziale, strutturale tra l’Europa occidentale e la Russia zarista che imponeva una «ricognizione» specifica del terreno, ricognizione che Gramsci compie con uno studio straordinario quanto ai risultati e tenendo conto delle condizioni proibitive del carcere fascista e della sua salute.
Di ciò ho scritto su l’Unità del 15 aprile. Alle stesse conclusioni giungono Rossi e Vacca: «Ma, sia la teoria dell’egemonia sviluppata nei “Quaderni” sia la concezione della “democrazia di tipo nuovo” implicano il superamento della teoria della “rivoluzione proletaria” e della “dittatura del proletariato”» (p. 157).
Per chi dà importanza a queste cose - quanti siamo rimasti?! - questa è una bella soddisfazione. Anche perché si pone fine - senza dirlo ahimé! - alla mistificazione operata da Togliatti che ci ha proposto un Gramsci leninista «originale», «traduttore» di Lenin nelle condizioni dell’Occidente, una lettura di Gramsci che è stata la vulgata comunista ed ex (Vacca compreso!).
2) Gli autori non si limitano a «scoprire» la rottura tra le tesi di Gramsci e il leninismo-stalinismo, notano ed illustrano altresì le profonde differenze - che di quella rottura sono conseguenze logiche - tra la linea politica di Stalin e di Togliatti e quella proposta da Gramsci.
Il Pci applicando pedissequamente le direttive di Stalin sostenne che in Italia - siamo alla fine degli anni 20, inizi 30 - era matura la rivoluzione violenta e che bisognava attaccare i movimenti democratici borghesi, in primis i socialisti (i «socialfascisti») che erano un ostacolo, con le loro convinzioni democratico-borghesi, all’azione rivoluzionaria: il Pci inviò in Italia fior di militanti che invece di preparare la rivoluzione finirono nelle carceri fasciste. Gramsci lucidamente sostiene che il fascismo è forte e che è necessaria una larga alleanza proprio con i socialisti e gli altri movimenti democratici per preparare e realizzare una Costituente che avvii il passaggio ad una fase democratica. Per queste sue idee esposte al Collettivo del carcere - e note a Togliatti - Gramsci fu bollato come «socialdemocratico» ed espulso.
Questi riconoscimenti sono importanti anche se ancora in una certa misura reticenti, non per chi al vero Gramsci era già arrivato, ma per la tradizione politico e culturale del filone comunista e post nella quale il fondatore del Pci trova il suo vero posto, finalmente «demistificato» (questo fu il titolo che l’Avanti! mise alla recensione di Luciano Paolicchi del mio Antonio Gramsci, del lontanissimo 1963).
3) A tale «restauro» mancava un tassello molto importante, la rottura, non solo ideologica e politica con Togliatti, ma anche personale. Questa è l’ipotesi, ancora in qualche misura oscura, del tentativo di Togliatti di tenere Gramsci nel carcere. Un’ipotesi divenuta, col tempo, una certezza per Gramsci. I comunisti e tanti post hanno affrontato il problema schierandosi in vario modo dalla parte di Togliatti e della sua assoluta innocenza e facendo apparire Gramsci persona non lucida, soggetto alle penose condizioni carcerarie e al suo stato psichico, una persona malata che dava corpo alle ombre, soggetto a fissazioni.
Su questo punto gli autori del volume fanno un passo importante: affrontano a lungo la questione e non trattano le accuse di Gramsci al partito e a Togliatti come mere allucinazioni. È tanto, ma non è tutto. La verità su Gramsci a questo punto non si converte nella verità su Togliatti: aveva o no ragione Gramsci (e con lui tutti i suoi familiari, Tatiana, Giulia, Eugenia Schucht) ad accusare Togliatti di aver tramato contro di lui?
Riesaminiamo brevemente i fatti.
Nell’ottobre 1926 Gramsci, a nome dell’Ufficio politico del PCd’I invia una lettera a Togliatti, che rappresenta il partito a Mosca, perché la inoltri agli organi dirigenti. In tale lettera Gramsci accusa la direzione del Pcus, e in definitiva Stalin, di condurre in modo inaccettabile la lotta contro le opposizioni: «Voi state distruggendo l’opera vostra». Togliatti, che a Mosca ha capito perfettamente come si sono messe le cose, rifiuta l’inoltro della lettera. Egli cerca di legittimarsi di fronte a Stalin come il leader comunista «responsabile», cioè ossequiente e ligio, capace di riportare nei ranghi un partito riottoso come quello italiano. Togliatti scrive a Gramsci che occorre scegliere se è giusta la linea della maggioranza (Stalin) o della minoranza (Trotzky) e allinearsi. Durissima è la replica di Gramsci: «Tu non hai capito o non hai voluto capire la posizione del partito... Questo tuo modo di ragionare mi ha fatto una impressione penosissima».
Pochi giorni dopo (l’otto novembre 1926) Gramsci è arrestato dalla polizia fascista. La linea difensiva di Gramsci, anche in ottemperanza alle direttive del Partito che ordinava ai compagni arrestati di negare tutto, «anche l’evidenza», di fronte alla polizia e al giudice, fu di ammettere solo che egli era deputato comunista e giornalista de l’Unità. Sapeva che sarebbe stato condannato (lo scrisse alla madre), ma contava su una condanna non grave e soprattutto che non fosse condannato come il capo del partito, cioè come il principale responsabile (il partito, si noti, era nella clandestinità già da qualche tempo prima del suo arresto). Tale tattica difensiva mirava a rendere possibile la sua liberazione con uno scambio di detenuti in Russia che poteva interessare sia il regime che il Vaticano. Cito il primo di questi tentativi, dell’ottobre 1927. Don Viganò, cappellano del carcere di S. Vittore, si dà da fare per uno scambio con tre preti detenuti in Unione Sovietica. Il tentativo giunge ad alto livello tramite l’arcivescovo Pacelli, futuro papa Pio XII, che a Berlino incontra l’incaricato di affari sovietico e che scriverà immediatamente al segretario di Stato Gasparri il quale incarica della questione un gesuita introdotto negli ambienti fascisti, padre Tacchi Venturi. Mussolini incarica il sottosegretario Suardo, il quale annota che per arrivare ad un provvedimento di clemenza occorre che sia completato il giudizio e intervenuta una sentenza definitiva. Noto che Togliatti era perfettamente a conoscenza dell’iniziativa.
Il 10 febbraio Ruggero Grieco invia a Gramsci (e a Scoccimarro e a Terracini) una lettera che fu scritta a Basilea, spedita a Mosca per ottenere l’approvazione di Togliatti e dalla capitale russa inoltrata a Gramsci. Il giudice istruttore Macis la legge a Gramsci e commenta: «i suoi compagni vogliono tenerla in carcere per un pezzo». La lettera è apparentemente innocua. Solo apparentemente. È invece «strana» come apparve subito a Gramsci. È strana la procedura postale: Basilea Mosca - Mosca Milano. Nella lettera Gramsci è trattato come dirigente del PCd’I, mentre nel processo Gramsci ha cercato di apparire come un militante di secondo piano. Certo la polizia conosceva il ruolo coperto dall’imputato, ma il riconoscimento proveniente dal partito stesso aveva un grande peso. Si aggiunga che il Partito faceva una campagna contro il fascismo per chiedere la liberazione di un «capo della classe operaia». Gramsci ragiona su quella «strana» lettera e giunge alla conclusione che essa è stata ispirata da Togliatti e ha influito negativamente sui tentativi di liberarlo, con un atto di clemenza il quale supponeva - lo ripeto - che egli non apparisse il capo del PCd’I e che la sentenza di condanna fosse definitiva.
I sospetti di Gramsci sono alimentati anche dalla ricordata campagna per la sua liberazione ed anche probabilmente da altri elementi a noi ignoti. È evidente che Mussolini non intendesse liberare il «capo della classe operaia», mostrando di cedere alla pressione del PCd’I. Certo non è senza significato che Togliatti su «Stato Operaio» dell’ottobre del 1927, proprio mentre è in corso il tentativo di liberare Gramsci, esalti Gramsci come «capo della classe operaia» e sulla stessa rivista, nel gennaio del 1931, dedicata al decennale della nascita del partito, non menzioni Gramsci (nel frattempo espulso dal Partito dal collettivo di Turi).
Il sospetto di Gramsci su quella «strana» lettera di Greco si rafforzò e divenne certezza e la lettera definita nel tempo «sciagurata» fu considerata come la prova che Togliatti non lo voleva libero. Perciò quando si profilarono altre possibilità di pervenire alla sua liberazione aveva cura di raccomandare che gli «italiani» a Mosca fossero tenuti fuori.
È vero, anche Togliatti legò il suo nome a un tentativo di liberare Gramsci, ma fu un tentativo ridicolo, puramente propagandistico. Si colloca nel luglio del 1928, un mese e mezzo dopo la condanna di Gramsci a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere. Ecco di che cosa si trattò. Il dirigibile di Nobile «Italia» si trovava incagliato nei ghiacci artici e fu soccorso dalla nave russa Krassin. Togliatti in una lettera a Bukarin chiede che l’equipaggio russo prema su Nobile per ottenere la libertà per Gramsci. E come poteva Nobile? Doveva organizzare un sit-in con i membri dell’equipaggio del dirigibile sotto il balcone di Piazza Venezia?
Ma resta l’interrogativo. Ha qualche fondamento il sospetto, anzi la convinzione di Gramsci? Perché Togliatti lo voleva in prigione? La risposta ovvia è che nell’ipotesi - devastante dal punto di vista di Togliatti - che Gramsci libero avrebbe continuato la sua opposizione a Stalin: e che opposizione quella di un personaggio come Gramsci in un partito tutt’altro che allineato con Stalin (vedi le espulsioni a catena di Tasca, Leonetti, Ravera, Ravazzoli, Silone e il dissenso di Terracini). Le difficoltà di Togliatti di restare a galla nell’universo stalinista sono note. Diciamole con Terracini nell’intervista rilasciata a me per la ristampa del mio Antonio Gramsci: «...a Mosca dove è rimasto per lunghi anni, è ben possibile che lui stesso sia stato plagiato attraverso quelle spaventose esperienze».
Fin ora gli intellettuali comunisti sono stati tutti «rigorosamente» gramsciani a condizione che non si toccasse Togliatti. È buon segno che si rimanga gramsciani anche se si deve mettere in dubbio moralmente Togliatti. È il modo per restituire Gramsci e la storia del Partito comunista alla verità. Coraggio compagni Rossi e Vacca: andate avanti sulla strada appena iniziata.

l’Unità Bologna 17.5.07
La Cgil al Pd: «Siate laici e guardatevi dal centrismo»
Melloni avverte anche Sinistra democratica
«Non ripiegatevi a contemplare l’identità»
di Antonella Cardone


Bologna. NO A UNO STRAPPO NETTO con la sinistra radicale, no a ipotesi di grande coalizione, no a uno spostamento troppo al centro del programma dimenticando il valore fondamentale della laicità. Soprattutto, sul sociale il futuro Partito democratico non deve rischiare di far politiche troppo simili a quelle berlusconiane. La Cgil di Bologna lo dice a chiare lettere ai leader dell’Unione che ha chiamato ieri a dibattere al primo appuntamento di una serie di confronti tra sindacati e partiti. Cesare Melloni, segretario generale della Cgil, ha stigmatizzato le affermazioni di Michele Salvati, coautore del manifesto per il Pd che lo pone «al centro del sistema politico come forza di maggioranza relativa» e in grado di «decidere un’altra alleanza rompendo con la sinistra radicale e costruendo in Italia una coalizione simile a quella in corso in Germania».
Per Melloni sarebbe una prospettiva negativa «l’inevitabile spostamento centrista del programma, che sul piano sociale si misura nei fatti con una continuità, con una certa legislazione dell’era berlusconiana». Ma il sindacato ne ha anche per la futura Sinistra democratica e per la sua «tentazione di ripiegare nella contemplazione dell’identità, nel mettersi alla testa di tutte le proteste, nel rifugiarsi nella propaganda. Sarebbe una regressione minoritaria ed una illusione» avverte Melloni.
E, sulla laicità: «Oggi più che mai le diverse culture, scelte religiose, scelte sessuali, origini etniche possono convivere solo alla condizione che si affermi la piena laicità dell’ordinamento istituzionale e politico». Occorre trovare «una risposta forte ed articolata sul piano culturale, politico e sociale, che veda coinvolta la ricca rete della società civile, il ruolo dei partiti e le forze della cultura democratica». A riguardo, aggiunge Melloni, «abbiamo molto apprezzato la scelta della Cisl di non aderire al Family Day: conferma la scelta autonoma del sindacato della dimensione laica come campo del proprio agire sociale».
Infine, il tema del lavoro, per il quale, a detta della Cgil serve al più presto «una nuova legislazione di sostegno alla contrattazione per nuovi diritti individuali e collettivi». In proposito sia Rifondazione che Sinistra democratica si candidano come partiti del lavoro. Tiziano Loreti (Prc), spiega che «quando in un congresso si parla di cittadini e consumatori vuol dire che non c’è più l’operaio, il pensionato o lo studente». Quindi, «il Pd rompe con la tradizione della sinistra e anche con la socialdemocrazia». Mentre Gian Guido Naldi, che parteciperà al processo di nascita della Sinistra democratica, ricorda che «oggi non c’è più un partito che rappresenti davvero il mondo dl lavoro e la sfida sarà quella di dare un risposta, sapendo tutte le difficoltà, al problema del lavoro» anche se «non contro il Pd ma per rafforzare l’Unione». Andrea De Maria, segretario dei Ds replica che «il concetto di "partito di classe" è stato superato dalla sinistra italiana già trent’anni fa, è bene che un partito rappresenti soggetti sociali diversi. Ora si deve mettere al centro la rappresentanza del mondo del lavoro nelle sue nuove forme, rendendola ben evidente attraverso l’apertura della classe dirigente anche ai giovani precari. Solo così - chiude De Maria - si può portare un nuovo punto di vista nella classe dirigente».

Repubblica 17.5.07
"Eutanasia e aborto i nuovi nemici"
Attacco di Betori anche a chi nega la dualità sessuale. È polemica
Il segretario Cei a Gubbio evoca il Barbarossa. I Verdi: è come il mullah Omar
di Marco Polito


ROMA - La Cei va all´attacco, evocando nemici epocali da cui proteggere la società. Invitato a Gubbio per la festa di sant´Ubaldo, il segretario della Cei mons. Giuseppe Betori ha riattualizzato l´assedio del Barbarossa contro la città, agitando lo spettro di moderni aggressori. «Oggi - ha dichiarato il presule, solitamente assai pacato - nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento, di creare turbamento alla loro vita». I nuovi nemici si chiamano nichilismo e relativismo e più o meno esplicitamente vorrebbero - secondo Betori - egemonizzare la cultura italiana. Il segretario della Cei ha elencato le malefatte di queste tendenze: «Fanno dell´embrione un materiale disponibile per le sperimentazioni mediche, danno copertura legale al crimine dell´aborto, e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell´inizio e della fine della vita umana».
E´ evidente che dopo l´opposizione accanita ad ogni regolamentazione delle unioni civili, ora entra nel mirino delle gerarchie il testamento biologico. Ma colpisce il fatto che si sta diffondendo rapidamente nel linguaggio delle autorità ecclesiastiche quello stile fosco e apocalittico, di cui ha dato mostra papa Ratzinger nei suoi discorsi chiave in Brasile. In un attacco senza quartiere, che mescola questioni diversissime come rapporti matrimoniali, guerre, diseguaglianze sociali e terrorismo, il segretario della Cei ha messo sotto accusa coloro che diffondono il «concetto apparentemente innocuo di qualità della vita». Proprio da questo concetto si innescherebbero l´emarginazione dei più deboli, i sentimenti di violenza che «fomentano le guerre e il terrorismo», la negazione del riconoscimento dell´altro, il rifiuto del «diverso per etnia, cultura e religione» e persino il mantenimento delle strutture di ingiustizia sociale.
Sempre colpa dell´utilizzo perverso del concetto di qualità della vita sarebbe, infine, la cancellazione della «dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sè». Conseguenza finale: lo scardinamento della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. Il discorso di Betori, che non è mai un battitore libero, è sintomo di una strategia precisa: seppellire i Dico, togliere l´autodeterminazione al paziente nel caso di testamento biologico, combattere il pluralismo delle scelte legislative in nome della battaglia al cosiddetto nichilismo e relativismo. In effetti il segretario della Cei (che lunedì si riunisce in assemblea generale con una relazione di mons. Bagnasco) usa un inedito linguaggio militaresco. Parla di «battaglia decisiva» per la dignità della persona umana e di salvezza che la società può trovare soltanto nella «legge di Dio».
Immediate le reazioni nel mondo politico. L´ulivista Grillini parla di deriva neo-temporalista e di clericalismo arcaico, attaccando la pretesa della gerarchia ecclesiastica di imporre la propria visione come legge dello Stato. Silvestri (Verdi) paragona il segretario della Cei al mullah Omar. Il socialista Villetti ribadisce che la gerarchia ecclesiastica può dare qualsiasi indicazione, ma senza la pretesa di farla diventare legge civile; Betori «non ripercorra la storia del potere temporale dei papi». Schierati automaticamente con il segretario della Cei sono gli esponenti del Polo. Isabella Bertolini (Forza Italia) riassume l´omelia di Betori in quattro parole d´ordine: «Sì alla famiglia, no ai Dico, no all´eutanasia, no alla droga facile».

Repubblica 17.5.07
I limiti della Chiesa
di Alberto Asor Rosa


A un´istituzione millenaria come la Chiesa di Roma non si può pensare che manchi la saggezza. Questa saggezza, misurata con quel metro millenario, consiste (oltre in altre cose, come dire, più riservate ed interiori) nel praticare e predicare un formidabile senso del limite: «Pulvis es et pulvis rediebis». La vita terrena è una milizia, un transito: la vera vita, promossa e promessa dal Cristo, è l´Aldilà, dove sarà tutto compiuto e perfetto quel che qui è tutto incompiuto e imperfetto.
C´è qualcosa d´eroico in questa immane resistenza al senso del moderno, che invece è tutto mutamento, fungibilità e ricerca del nuovo. E nessuno potrà obiettare in linea di principio che la Chiesa svolga questa funzione, che è la sua: perché se non la svolgesse, non sarebbe più lei, e la modernità perderebbe il suo principio oppositivo, che è sempre bene che ci sia.
Tuttavia, la saggezza della Chiesa conosce anch´essa un limite: perché la Chiesa è ispirata da Dio, ma non è Dio, che è il solo infallibile (a dir la verità anche questo, come vedremo, è un punto di discussione). Mi permetto di osservare che la Chiesa entra qualche volta nell´errore (e qualche volta anche clamorosamente) quando pratica senza senso del limite il suo senso del limite. Ovvero quando contraddice manifestamente il nocciolo più profondo della sua saggezza, che consiste nel mantenere un certo (necessariamente instabile) equilibrio fra il terreno e il divino, fra il celestiale e l´umano.
In casi del genere, quanto più il caso è acuto, si può arrivare al delirio.
Farò due soli esempi sul piano storico.
Nel 1633, com´è noto, Galileo Galilei fu sottoposto a processo dal Sant´Uffizio (che operava in pieno accordo con il Pontefice Urbano VIII) a causa della tesi da lui sostenuta nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, secondo cui (molto sinteticamente) la terra girava intorno al sole e non viceversa. Il 22 giugno di quell´anno Galilei fu giudicato colpevole e condannato, per «aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch´il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo» (lo stesso Galilei, timoroso di fare la fine di Bruno o di affrontare di nuovo i rigori della tortura dichiarò nella sua abiura di essersi persuaso a «lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova», perché «detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura»).
In questo caso, di una certa innegabile rilevanza (mi pare), alla scoperta scientifica ci si limitava ad opporre puramente e semplicemente l´«autorità» dei Libri sacri (vecchia questione, su cui non posso soffermarmi, ma che meriterebbe di essere riesumata anche oggi).
Dunque: se la Chiesa di Roma l´avesse avuta vinta, e se la condanna di Galilei avesse conseguito i frutti sperati, noi saremmo qui tutti ancora a sostenere che «la terra sia il centro del mondo e che non si muova» (il Dialogo galileiano fu tolto dall´Indice solo due secoli più tardi quando ormai la battaglia per fermare il corso del sole appariva inequivocabilmente persa).
Nel 1870 lo Stato della Chiesa, dopo le precedenti vicende risorgimentali, era ridotto al solo Lazio. E´ noto che passi furono fatti, in particolare dall´entourage di Vittorio Emanuele II, per ottenere che Papa Pio IX accettasse pacificamente la riunificazione del Lazio e di Roma all´Italia.
Solo dopo il rifiuto netto del Pontefice, e approfittando dell´indignazione provocata dalla decapitazione in Roma di Monti e Tognetti (gli ultimi patrioti che abbiano perso la vita per la causa dell´Unità italiana), le truppe italiane entrarono nel Lazio e liberarono Roma, passando per la breccia di Porta Pia. In questo caso, le Sacre Scritture non dicevano nulla in merito del potere temporale dei Papi. Tuttavia la Chiesa di Roma fece della difesa dell´ultimo brandello di «teocrazia» un baluardo invalicabile della propria dottrina, ancorando i cattolici, per quasi mezzo secolo, alla «non collaborazione» con il neonato Stato liberale italiano (non sarà male ricordare che il cattolicesimo liberale nasce nel corso del Risorgimento proprio in opposizione all´intransigentismo papale).
Dunque: se il punto di vista della Chiesa di Roma avesse prevalso, non ci sarebbe l´Italia, e Roma non ne sarebbe la Capitale (so che qualcuno lo considererebbe positivo, ma io resto fedele alle scelte dei nostri padri).
La forma del mondo e il potere temporale: due forme concrete, l´una del sapere l´altra della politica, l´una della realtà fisica, l´altra di quella umana, su cui la Chiesa ha impegnato tutto il suo prestigio per mantenere lo status quo: perdendo, direi inevitabilmente, date le premesse.
Che accade oggi? Cos´è in gioco oggi? Qual è il sole che sta fermo, quale la terra che gira (o viceversa)? Alla frontiera fisica e a quella pratica, terrena, se ne aggiunge una, ancor più decisiva: quella della vita. Quel che è in gioco oggi è l´insieme delle questioni che riguardano più da vicino l´esistenza umana: la vita, appunto, e con la vita, necessariamente, la morte; le relazioni fra le persone, il sesso; la conoscenza dei misteri della sopravvivenza; la possibilità d´influenzare le nascite.
Insomma, ogni momento è scelta della vita umana, dalla prima comparsa sulla scena del mondo (il concepimento) fino alle modalità della definitiva scomparsa (ed è evidente, non si può far finta di non vedere, che ci sarà dentro prima o poi anche l´eutanasia).
Sullo sfondo il problema dei limiti (appunto) della conoscenza umana. Un complesso formidabile di fattori, da affrontare, sull´uno come sull´altro versante, con estrema prudenza. Ma intanto senza mai dimenticare che Galilei andò sotto processo esattamente per aver infranto i limiti della conoscenza e non essersi accontentato, come facevano quasi tutti al suo tempo, della «verità» delle Sacre Scritture (che in realtà sull´argomento da lui affrontato dicevano poche parole di sapore quasi infantile).
Ora, pare a me che la Chiesa di Roma reagisca oggi a questo complesso di fattori con la medesima assenza di senso del limite con cui reagì quando le furono strappati prima il dominio della conoscenza dell´Universo e poi il dominio (politico e territoriale) su di un pezzo della nostra terra (miserabile cosa, a pensarci bene, ma a fronteggiar la quale, solo pochi mesi prima che accadesse, fu elaborato niente di meno che il dogma dell´infallibilità papale ex cathedra, la cosa più incredibile che abbia mai partorito la teologia cattolica nel corso di tutta la sua storia). E´ la preoccupazione di perdere un altro pezzo del suo dominio sugli uomini che le fa perdere il senso del limite e, con il senso del limite, il senso della misura. I preti in piazza!
L´appello alla fedeltà di coscienza da parte dei politici cattolici! Sembra d´esser tornati a una situazione pre-risorgimentale, al Papa-Re, agli esorcismi contro quelli che s´azzardavano a scrutare la volta del cielo con due lenti infilate in un tubo di metallo (il cosiddetto cannocchiale).
Invece ci sarebbe molto bisogno di una posizione cattolica saggia.
Ce ne sarebbe bisogno, perché dall´altra parte il senso del limite e la prudenza si misurano con un eccesso travolgente di ottimismo progressista. Il relativismo – tanto per mettere i puntini sulle i – , non è l´assenza dei valori (che potrebbe esserne, e non sempre, una conseguenza). Il relativismo è il mutamento incessante delle conoscenze e delle tecnologie, che ad ogni istante ci mettono di fronte a passaggi per ognuno dei quali in passato ci sarebbero voluti secoli. Regole son da porre, non v´è dubbio. Ma non a partire dal rifiuto dei risultati della conoscenza, che va per suo conto, e opporsi alla quale significherebbe solo andare incontro ad un´altra cocente sconfitta (forse quella decisiva, perché non si vede cosa ci sia oltre la vita).
Il dibattito sulla vita (compreso quello sui sessi e sulla sessualità) come fenomeno caratterizzante i livelli attuali dell´esperienza umana non ha forse lo stesso valore scardinante che ebbe la scoperta di Galilei che la terra girava intorno al sole, ma è certamente della stessa natura, perché cambia nozione e pratica dell´umano – umano che, per definizione, è divino. Perché la Chiesa di Roma non ne prende atto?

Repubblica 17.5.07
Mio fratello comunista
Esce il libro postumo di Giovanni Ferrara
di Nello Ajello


La figura del padre Mario, avvocato e giornalista liberale, è vissuta dai due figli in modo opposto
Mezzo secolo e due vite raccontate in parallelo: quella dell'autore e quella di Maurizio, esponente del Pci
Quando il comunismo entra in crisi per Maurizio si apre una stagione dolente
Sarà Giovanni invece a rivendicare alla sinistra un ruolo importante nella storia italiana

S´intitola Il fratello comunista l´opera che Giovanni Ferrara, professore di storia antica nell´Università di Firenze, collaboratore a suo tempo del Mondo di Mario Pannunzio e poi della Repubblica, oltre che senatore in due legislature per il partito repubblicano, ha lasciato inedito, morendo nel febbraio scorso. Ora il volume, di cui sempre in febbraio questo giornale ha anticipato un capitolo, esce da Garzanti (pagg. 164, euro 16).
E´ un libro di memorie che offre una raffinata lettura «storica». I pensieri dell´autore s´inscrivono infatti in una vicenda ampia e significativa, radicata nella seconda metà del secolo scorso e assai intensamente vissuta da chi la rievoca.
Mezzo secolo, e due vite, raccontate in parallello: ne vien fuori un´autobiografia che subito si biforca, assumendo i connotati di un dramma domestico, tingendosi di una quieta, affettuosa mestizia. Il fratello, nel quale Giovanni si specchia lungo l´intero tessuto del libro, si chiamava Maurizio. Nato nel 1921 e morto nel 2000, aveva sette anni più dell´autore. A sua volta giornalista e parlamentare, era un esponente di rilievo del Pci togliattiano, con tutta l´ortodossia, la caparbietà, e l´assolutismo che il militare in quel partito, a quei tempi - dai tardi anni Quaranta fino alla caduta dei muri - implicava.
L´ambiente dei Ferrara era altoborghese e intellettuale. Il padre Mario, avvocato, giornalista, era un uomo colto e saggio. Politicamente vicino a Giovanni Amendola e crociano in filosofia, era legato a una nitida tradizione liberale. Il rifiuto di iscriversi al partito fascista gli costò moltissimo, sia in termini di carriera forense, sia nella collaborazione ai giornali, che, dopo un brillante esordio, gli fu vietata fino all´età di cinquant´anni, a regime caduto. Pur risparmiandosi carcere o confino, Mario non poté evitare sconvolgenti perquisizioni.
L´ostracismo gli causò anche ristrettezze economiche, a tratti assai accentuate, al punto da determinare il trasferimento della piccola tribù dei Ferrara - genitori e tre figli: i protagonisti del libro più una sorella, Luciana - da Roma a Montecompatri, un piccolo centro dove era possibile tirare avanti con minore spesa.
A chi lo incontrerà più avanti nel tempo, mai Ferrara padre farà presenti questi suoi precedenti biografici. Aveva un tratto arguto, ironico. Ho in proposito un piccolo ricordo: quando gli capitava di venire a Napoli a trovare Giovanni, borsista dell´Istituto Croce, egli per prima cosa, magari di mattina presto o appena dopo pranzo, telefonava a casa di Francesco Compagna, liberale, patrizio illuminato e direttore di Nord e Sud, rivista alla quale suo figlio ed io stesso collaboravamo. Così Mario si preannunziava all´apparecchio: «E´ dato parlare con il cittadino Compagna?». «No, ‘o barone sta dormendo», era la risposta di Carmine, cameriere-autista. L´aria da convenzione giacobina svaniva nell´ilarità. Dentro, faceva capire Giovanni, c´è tutto mio padre. La sua leggerezza cordiale, la sua eleganza.
In casa, la presenza di Mario si percepiva, autorevolezza a parte, patriarcale e benigna. Ma con una differenza netta tra un figlio e l´altro. «Alto, magistrale», così Maurizio definiva il suo papà. Verso il quale, al di là del «rispetto amoroso» che gli professava, sentiva crescere un senso di ribellione. L´antica testimonianza liberaldemocratica di Mario assumeva per lui il sapore storico del fallimento di un´intera classe dirigente, da ammirare unicamente «per la sua ormai vana nobiltà». In qualche misura, la scelta comunista del «compagno Maurizio» dipenderà da simili umori. Suonerà come una rivalsa generazionale.
Il contrasto tra i due fratelli trova origine, appunto, nell´opposto modo di guardare al loro padre. «Sono io», scrive l´autore del Fratello comunista, «quello che ha ereditato direttamente la cultura e la mentalità etico-politica paterna». E difatti il figlio minore, il «giovane umanista», riproduce in sé alla lettera l´impronta del genitore, ne esibisce la storia. Perfino in termini di anagrafe: al suo primo nome, Giovanni, scelto in ricordo di Amendola, fanno seguito Giacomo e Piero, con riferimento a Matteotti e Gobetti. Lui è «un dotto», conosce il greco, ha «letto Platone e Kant», è «liberale, democratico, anticomunista, filoamericano». Ha fatto in tempo a incontrare di persona i propri idoli: Croce nel suo studio di palazzo Filomarino a Napoli; Salvemini a Sorrento, dove lo storico pugliese trascorse gli ultimi anni. Tutti connotati e notizie che Maurizio, nel suo «imperterrito comunismo», stenta a capire.
Giovanni è convinto che suo fratello, il «compagno Ferrara», pur amando la libertà, non abbia mai scoperto in che cosa essa davvero consista. L´uno, il militante politico, considera d´avere in famiglia un cultore di idee ormai estinte; l´altro, il professore, giudica suo fratello complice d´un regime dispotico e sanguinario. Che cos´altro potrà significare il fatto che il Maurizio nutra in sé «il culto di Stalin, della guida dei popoli, del grande rivoluzionario, dell´immortale maestro»? Ne consegue che, «per una parte essenziale delle nostre vite, Maurizio e io siamo stati estranei, stranieri l´uno all´altro. O almeno un enigma: lui per me e io per lui». L´uno e l´altro sentono d´aver a che fare con un fratello «idealmente nemico».
E´ in queste ferite che i due Ferrara s´infliggono tra «sempiterne litigate - Maurizio dà a Giovanni «dello scemo», prendendosi, «in replica, del cretino» - l´anima del libro. Il quale risulta assai più coinvolgente di quanto possa far pensare una simile aneddotica. E scivola verso un finale prevedibile ma non per questo meno incisivo: quando il comunismo internazionale comincia a dissolversi, per Maurizio si apre una stagione dolente, patetica. La morte di suo padre, che segue di tre anni quella di Stalin, lo lascia orfano per la seconda volta (così postilla, amaro, Giovanni). Politicamente assai dure saranno, per lui, le rivelazioni del XX congresso. La denunzia del «dio che è fallito» - alla quale l´estrema sinistra aveva irriso allorché a formularla erano gli anticomunisti stile Ignazio Silone - viene proclamata adesso con il marchio del Pcus e la firma del suo nuovo segretario, Nikita Krusciov. «Termidoro!», proclama il fratello comunista, lasciando intendere che, in quel febbraio del ‘56, la rivoluzione è liquidata, ora che su Stalin s´è abbattuta una postuma ghigliottina.
Tra il Ferrara lamalfiano e il Ferrara togliattiano, man mano che evapora la materia del fraterno contendere, interviene una tregua intesa a preservare «la sostanza degli affetti». Si parlano poco, non litigano più. Maurizio è cambiato. Non ama Krusciov. Disprezza Gorbaciov. Diffida di Berlinguer. Critica il compromesso storico. Dal canto suo Giovanni inclina, nei riguardi dell´estrema sinistra, a distinguere «l´errore» dagli «erranti»: fra i suoi amici più d´uno è comunista, fermo restando il suo diniego a figurare fra iscritti e i «compagni di strada». Un legame speciale era stato stretto in altri tempi dai Ferrara dell´ala liberale (il capofamiglia, e assai più tardi lo stesso Giovanni) e i comunisti, da quando Mario aveva difeso davanti al Tribunale speciale un gruppo di attivi dirigenti del Pci. Era stato un gesto vano, ma ardito. Le alte sfere del Pci ne serbavano memoria, facevano di Mario un oggetto di culto antifascista, al di sopra di connotati di parte. E l´autore del Fratello comunista riferisce con commozione che, tra coloro che portarono a spalla la bara di suo padre, c´erano due persone fra loro del tutto diverse, il già citato Compagna e Amerigo Terenzi, amministratore dell´editoria che faceva capo al Pci.
La catastrofe del comunismo tardò alquanto. Allorché sopraggiunse, trovò i Ferrara in prima linea. Maurizio, certo, ma accanto a lui Giovanni. E´ la fine dello scorso millennio quando durante un imprecisato pomeriggio, d´estate a Porto Ercole, il minore dei fratelli viene invitato dalla cognata Marcella, la «compagna Marcella», a far visita a suo marito Maurizio, che vuole, deve parlargli. Giovanni lo trova «inerme, vecchio», «sperso», sprofondato nello sconforto. Crollando, i muri del «socialismo reale» l´hanno investito in pieno: «su di lui è passata, schiacciandolo, la storia». E´ finita, Maurizio mormora piangendo. Era tutto sbagliato. Io non ho mai capito nulla. I nostri nemici hanno vinto. Siamo liquidati, morti. Neppure per un istante, adesso, il fratello professore torna sulle antiche diatribe. «E´ come se quella conversazione», annota, «segni la fine non soltanto della sua storia, ma anche della mia».
Quasi per un mutato gioco delle parti, è lui a rivendicare al Pci una parte decisiva «nella storia italiana della nostra età». Sa di adoperare, parlando così a suo fratello, un «sofisma storicistico da dilettanti». Ma è giusto, a quel punto, che la pietà fraterna abbia la meglio. Una pietà vana. Maurizio non ha la forza di lasciarsi consolare.
I duellanti, «ambedue oltre i settant´anni, ormai coetanei», avrebbero ancora motivi di discordia, ma non li usano più. Maurizio inclina verso il «craxismo, come forza praticamente valida del socialismo». Giovanni, disapprova e tace.
Un´annotazione gli verrà sotto la penna rievocando l´amato fratello comunista. Al funerale di Maurizio, in quell´aprile del 2000, non c´era neppure una bandiera rossa.

La Stampa 17.5.07
Monsignore si dia una calmata
di Chiara Saraceno
qui

Corriere della Sera 17.5.07
Giordano: sprechi e privilegi serve una nuova lenzuolata
intervista di Maria Teresa Meli


ROMA — «Apprendo adesso che non si è ancora risolto il contratto dei lavoratori del pubblico impiego. Chiedono 101 euro — peraltro già promessi dal governo — ma l'esecutivo è fermo a 95»: al telefono la voce di Franco Giordano, leader di Rifondazione comunista, vibra.
Scusi onorevole, lei sarà anche irritato, fatto sta che Tommaso Padoa-Schioppa frena su questo punto.
«E infatti non si può continuare a fare i tirchi con la povera gente: è inaccettabile».
Lei sta facendo il demagogo?
«No io faccio un'altra parte: quella di chi vorrebbe, dopo la lenzuolata delle liberalizzazioni, fare la lenzuolata contro i privilegi. Insomma vorrei aggiungere qualche altro particolare al libro che hanno scritto i suoi colleghi Rizzo e Stella: La Casta».
Scusi, che c'entra?
«C'entra, eccome, non si vogliono dare sei euro in più ai lavoratori del pubblico impiego, a fronte di una vera e propria questione morale che riguarda la politica».
Ah, ecco l'accenno al libro di Rizzo e Stella.
«Io dico solo che il nostro governo non può continuare a essere equidistante dai lavoratori e dalle imprese e non può permettere a Montezemolo di dare lezioni di moralità o di chiedere sacrifici. A luglio le imprese avranno cinque miliardi di cuneo fiscale e dopo questo lauto contributo è meglio che stiano zitti».
Vabbè, lei fa la sua parte con Confindustria, dopodiché gli sprechi riguardano la politica e la pubblica amministrazione.
«E infatti noi politici per essere credibili dovremmo abbassarci gli stipendi».
Detta così suona meglio.
«Suona meglio ma non basta. Noi abbiamo 243 aziende partecipate, con 1.639 consiglieri d'amministrazione che hanno un tetto di stipendio annuale di 500 mila euro, rivalutabile, oltre al 50% in più di premio di produzione. E il governo dovrebbe negare sei euro in più al pubblico impiego?».
Ma l'Europa ha chiesto al governo di tagliare...
«Dove? Ci sono 450 manager di Stato a cui è stato fissato un tetto retributivo di 250 mila euro l'anno. Non solo: questi stessi dirigenti viaggiano tutti in business class in aereo per un totale di 65 milioni annui sborsati, ovviamente, dallo Stato, cioè dai cittadini».
Ma Padoa-Schioppa sta cercando di porre rimedio a questa situazione.
«Come? Con il conflitto d'interessi di chi lavora in quel ministero si fissa il tetto da solo? Oppure aumentando l'età pensionabile, quando i parlamentari possono avere in pochi anni di legislatura un vitalizio che è il quadruplo di coloro che hanno lavorato quarant'anni in fabbrica!?».
Questa è di nuovo demagogia, Giordano.
«Demagogia!? Ogni anno paghiamo 124 milioni di indennità per i deputati, la stessa cifra per i consiglieri regionali e 62 milioni per i senatori. Come si fa a reggere in questa situazione? E, soprattutto, come si fa a dire che le pensioni minime non debbono essere aumentate, che quelle basse non devono essere rivalutate e che ci vuole lo scalino al posto dello scalone?».
E intanto molti vivono di politica...
«Per l'esattezza ci sono 427.829 persone che traggono reddito dalla politica. Per le consulenze delle Regioni si spende un miliardo di euro l'anno».
Beh, questa è la norma, eppoi voi vi lamentate.
«Con me sfonda una porta aperta. Sono reduce da un comizio a Latina dove ho scoperto che un senatore di Forza Italia becca anche un compenso in quanto presidente del cda Acqua di Latina: 100-150 mila euro l'anno».
Faccia il nome.
«I nomi non li faccio, ma sempre a Latina è stato creato un Cda per le terme quando non hanno ancora scoperto l'acqua calda».
È una metafora?
«No, è la verità: non hanno ancora trovato le terme. Insomma, mi pare che a questo punto il governo debba voltare pagina. Non può più fare finta di niente di fronte a tutte queste ingiustizie sociali».

Corriere della Sera 17.5.07
In occasione della visita a Roma del presidente americano
«Presidio» anti Bush di Rifondazione e Pdci
In piazza ma non con i centri sociali
di Gianna Fregonara


ROMA — Costretti a scendere in piazza. Per limitare i danni alla propria sinistra. E perché l'antiamericanismo — anche nella versione anti bushismo — è per la sinistra radicale una bandiera troppo preziosa per lasciarla nelle mani dei «dissidenti» come Turigliatto e Ferrando, dell'ala dura del sindacato e dei Cobas.
Il 9 giugno, giorno dell'arrivo di George Bush in Italia per incontrare anche Romano Prodi, ci saranno non una bensì due manifestazioni. Un corteo, già indetto da Cobas, centri sociali, sinistra Cgil e un «presidio» organizzato da Rifondazione, Arci, Fiom, Pdci e Sinistra democratica, cioè dai partiti della maggioranza di governo. Una manifestazione agguerrita e una più «istituzionale». Alla quale parteciperanno il segretario del Prc Franco Giordano e probabilmente anche Oliviero Diliberto a nome dei comunisti italiani, se l'orario non coinciderà con il comitato centrale del partito. Per ora resta invece incerta la presenza dei ministri, in particolare di Paolo Ferrero e di Fabio Mussi.
La manifestazione dei partiti della maggioranza ha anche un secondo intento, oltre alla protesta contro Bush e la sua politica estera: è proprio quello di fare un'anti manifestazione, di distinguersi comunque dal corteo più estremista, di prendere le distanze, di evitare di essere coinvolti in cori imbarazzanti, in falò di bandiere, in slogan e cartelli che non permettano di risedersi al tavolo della maggioranza l'indomani. Per ora Rifondazione, Pdci e Sinistra democratica hanno deciso solo di esserci: dalle 15.30, in una piazza di Roma, ancora da individuare.
Quanto alle piattaforme delle due manifestazioni differiscono solo per l'intento ufficialmente «filo» e «antigovernativo». Nel senso che il corteo organizzato dai sindacati di base, centri sociali, dal leader della minoranza Fiom Giorgio Cremaschi e da parlamentari tra cui i senatori «dissidenti» Franco Turigliatto, Fernando Rossi e Mauro Bulgarelli e il deputato Salvatore Cannavò, leader di Sinistra critica, ha come slogan il no alla «guerra globale permanente di Bush» e il no all'«interventismo militare del governo Prodi». Mentre la manifestazione dei partiti ha come intento la «mobilitazione» e la critica delle «politiche dell'amministrazione americana». E Prodi, che nelle stesse ore farà gli onori di casa al presidente Usa? Gli toccherà l'ennesimo appello ai ministri a non manifestare, mentre l'opposizione andrà a nozze nel protestare per le contestazioni? La cosa non sfugge agli organizzatori. «Comunque non capisco perché dovrebbe imbarazzarsi — replica Michele De Palma, esponente della segreteria di Rifondazione —. Noi manifestiamo legittimamente le nostre posizioni. Non sarà un corteo contro Prodi, ma una protesta contro le politiche dell'amministrazione Usa. Se qualcuno vuole polemizzare perché Rifondazione sarà in piazza è liberissimo di farlo, come sono liberissimi Cremaschi e Bernocchi di fare un proprio appello». Al di là dell'imbarazzo o meno del governo con una parte della maggioranza in piazza, anche se «pacificamente» come fanno notare gli organizzatori, resta una frattura dentro la sinistra antagonista, per la prima volta divisa in piazza. La prima a farne le spese sembra la Fiom: la segreteria è tra gli organizzatori del presidio con Rifondazione, la minoranza interna guidata da Giorgio Cremaschi sarà al corteo antigoverno e anti Bush.

l’Unità Roma 17.5.07
Una Casa dall’estate jazz
Presentato il programma per giugno e luglio della struttura
di viale di Porta Ardeatina: tanta Italia sul palco, ma non solo
di Simone Conte


SI AVVICINA L’ESTATE e anche la Casa del Jazz rompe il silenzio su quella che sarà la sua proposta per i mesi di giugno e luglio. È stata presentata ieri da Luciano Linzi, dall’assessore alla cultura Di Francia e da Rossana Rummo, direttore di Palaexpo:
«Summertime - estate alla Casa del Jazz». Dopo aver tracciato un bilancio di questi due anni (150mila visitatori, 500 eventi proposti, 1000 musicisti ospitati) Linzi ha presentato il cartellone della stagione estiva, e i nomi sono molto interessanti. L’apertura toccherà a due artisti italiani: il 18 giugno saranno sul palco allestito nello splendido giardino Ivan Segreto e Paolo Fresu, un concerto che sarà anche l’occasione per presentare il nuovo disco frutto dell’incontro tra il cantautore siciliano e il trombettista sardo. A seguire, una tre giorni nelle mani di quello che è uno dei jazzisti italiani più famosi nel mondo: Enrico Rava, che si proporrà al pubblico romano con tre differenti formazioni. Un inizio tutto italiano che non è casuale data la dichiarata intenzione di privilegiare artisti del nostro paese rispetto a quelli stranieri, specialmente ai grandi nomi americani. Una scelta, ovviamente, non radicale, date le annunciate presenze di Roy Hargrove, Dave Liebman, Kurt Rosenwinkel, Kevin Hays o di Horacio "El negro" Hernandez con la PJMO, concerto organizzato in coproduzione con l’Auditorium Parco della Musica. «La casa del jazz non ha una vocazione museale, è un luogo fatto di scambi, ed ha sfatato il mito che ci fosse una torta da dividere tra gli operatori culturali romani» ha detto Di Francia.
Anche altri concerti in programma sono frutto di collaborazioni con Ambasciate europee, e porteranno a Roma giovani talenti svedesi, tedeschi e lituani. Ma la presenza più massiccia sarà quella italiana, con concerti di Doctor3, Roberto Gatto, Danilo Rea, Giovanni Tommaso, Maria Pia De Vito, Ada Montellanico, Maurizio Giammarco, Stefano di Battista, Paolo Damiani e molti altri, compresi i "Giovani Leoni" per una Casa che è di un jazz sempre più vario, e che sta trovando il giusto equilibrio tra la dimensione divulgativa e quella più attenta agli appassionati del genere.

il manifesto 17.5.07
Intervista con Giovanni Berlinguer: il partito da costruire dopo l'Assemblea dell'Eur
La politica dei beni comuni
di Valentino Parlato


«Oggi non dobbiamo partire dai sogni ma dagli incubi, per scacciarli via con le scelte giuste». Ambiente e disuguaglianze nel campo di battaglia della globalizzazione: le priorità di una nuova sinistra che sappia mettersi in ascolto della società per rivalutare la nobiltà della politica «Lo tsunami colpisce i deboli. La lotta per la vita e quella per l'equità coincidono»

I duplicanti è stato edito da Laterza nell'anno di grazia 1991. La diagnosi di Giovanni Berlinguer ha ben sedici anni di anticipo sul presente degrado della politica.

La bella assemblea dei «resistenti» alla deriva del cosiddetto «partito democratico», quella del 5 maggio al Palazzo dei Congressi dell'Eur., mi ha molto colpito e incoraggiato. Per questo cerco incontri per vedere che cosa si può fare insieme in questa difficile stagione della politica. Riesco ad afferrare Giovanni Berlinguer, che all'Eur ha fatto un bel discorso e che è un antico amico. Di una amicizia senza eccessi di confidenza: una amicizia tra comunisti, uno sardo e l'altro siciliano - due isole. Vado a incontrarlo a casa sua. Una casa austera: un po' di quadri neorealisti e tutte le pareti coperte di libri. Comincio io, un po' tumultuoso.
All'Eur hai parlato di «energia aggregante», ma se non aggrega presto l'energia si disperde, e poi che si fa? Non ti rendi conto che bisogna reagire in fretta? Che c'è una «privatizzazione» della politica che aiuta il populismo di destra? Che se volete dar forza alle speranze dell'Eur dovete indicare obiettivi caratterizzanti, forme di organizzazione, una rilettura di un nostro passato che è stato rimosso se non condannato. Insomma si può andare oltre l'assemblea del 5 maggio?
Si deve andare oltre. E' vitale, nel senso politico e anche biologico, rispondere alle sfide di oggi e, innanzitutto, rivalutare la nobiltà della politica. Quel che tu dici sulla privatizzazione della politica, personale o di gruppo, è il fenomeno più devastante di questo tempo, in Italia e altrove, ma in Italia molto più accentuato Non è un caso che in questi ultimi mesi siano apparsi ben quattro libri su questo tema: I costi della politica di Villone e Salvi, La casta di Rizzo e Stella, Élite e classi dirigenti di Carboni e poi La democrazia che non c'è di Ginzborg. Ho letto ieri su Le Monde un articolo di Henry Weber, uno dei segretari del partito socialista francese, che dice: «tutti i partiti sono costituiti da eletti circondati da aspiranti a essere eletti». In Italia c'è anche una corsa a posti di comando non elettivi, e quindi più sicuri. Il fenomeno è diffuso in tutte le democrazie e sconfina spesso verso l'illegalità e il codice penale. Non combattere seriamente questa deriva mette a rischio serio la democrazia.
Forse eccedo, ma in questa situazione vedo, non per domani ma tra un po', un serio pericolo di destra. Ci sono analogie tra il presente e il periodo successivo alla prima guerra mondiale. Non penso a Mussolini, ma a qualcosa di fortemente oppressivo.
Non mi convince il tuo paragone con i primi anni Venti, ma la regressione può essere più profonda. Introiettata, condivisa e perfino benedetta. Difficile da combattere.
Certo non vengono le camicie nere e neppure le camicie verdi, ma qualcosa di più moderno, più profondo e forse più duraturo.
Giustissimo. E tutto questo si collega molto strettamente al monopolio dell'informazione, alla selezione delle notizie nelle quali predominano i delitti e i fatti di cronaca nera.
Penso a Rignano.
E' un piccolo episodio che evidenzia la fragilità dell'informazione, i limiti della magistratura e anche della coesistenza tra cittadini.
C'è uno stravolgimento della gerarchia delle notizie: spesso le aperture dei quotidiani sono demenziali. Una privatizzazione dell'informazione, più profonda delle liti con Mediaset e Berlusconi.
D'accordo. C'è una selezione dell'informazione che genera paura col messaggio: «il nemico è tra noi». E la tv, con le solite facce dei dirigenti politici che dicono le solite cose, contribuisce al rigetto della politica.
Al Palazzo dei congressi c'è stato un appassionato no a questa deriva, ma se l'appassionato no non va oltre un generico «vogliamo il meglio» restiamo allo stesso punto. Ci vorrebbero proposte chiare e distinte, come dicono i francesi.
La premessa è che anche il nostro comportamento deve cambiare radicalmente. Se cadiamo nelle stesse logiche spartitorie degli altri, rischiamo di crollare nelle prime settimane. Il punto è che prima di «parlare alla gente» dobbiamo «ascoltare le persone». Si deve cominciare con una grande campagna di ascolto, dialogo e proposta.
Il vecchio Pci ascoltava la gente, con la sua organizzazione territoriale. Ma adesso chi ascolta? Come si ascolta, quando la stampa e la televisione sono come sono e i partiti non ci sono? E poi come la metti con la crisi delle ideologie, cioè delle grandi speranze, che investe anche il mondo cattolico?
Io penso che oggi il punto di partenza non siano i sogni, ma gli incubi, che dobbiamo allontanare con le nostre scelte fondamentali. Ci sono grandi tragedie che si stanno consumando. La prima è lo sconvolgimento della natura, che tende a deteriorare quelle condizioni originali e irripetibili che hanno consentito la crescita della nostra specie. Il capitalismo selvaggio degli ultimi decenni ha accelerato questo degrado degli spazi vitali soprattutto per chi non è ricco, non può comperarsi la casa al mare, avere i condizionatori d'aria e farsi un clima «ad personam». Questa crisi sta portando in primo piano la questione fondamentale dei «beni comuni»: l'aria, l'acqua, le foreste, il clima, il sapere, la salute. Su questa base sta nascendo un movimento importante e promettente, soprattutto di giovani, che va promosso e sostenuto da chi vuole rinnovare la politica. Questa lotta per la vita travalica le attuali distinzioni, anche fra destra e sinistra.
Ma il problema dei beni comuni può essere la base, come dire, di una rifondazione comunista?
Sicuramente.
Da giovani pensavamo alla socializzazione dei mezzi di produzione. Ora la crescita capitalistica mette in primo piano il carattere sociale dei beni fondamentali?
Queste idee erano presenti nelle antiche origini del comunismo. La politica dei beni comuni è una base straordinaria per la lotta per l'eguaglianza. A partire dalla fine dei '70 c'è stata una crescita esponenziale delle diseguaglianze in tutti i campi. Dal reddito alla libertà al sapere.
Dopo la seconda guerra mondiale c'era stata una crescita dell'eguaglianza nel sapere. Ora la diseguaglianza è drammatica, anche per lo sfascio della scuola di massa.
E' vero anche per altri campi. Nei decenni successivi alla seconda guerra c'è stata, per esempio, maggiore equità nel campo della salute. C'è stato un allungamento della vita media in tutto il mondo, ma negli ultimi trenta anni le differenze di qualità e durata della vita sono diventate sempre più accentuate, anche perchè si è fatto di tutto per demolire il criterio dell'universalità nell'accesso alle cure. Il problema delle diseguaglianze pone l'urgenza di una trasformazione di questa società, non certo della conquista di un'altra società, come qualcuno si ostina a dire.
Non capisco. Quando eravamo comunisti e parlavamo di un'altra società non pensavamo a una società calata dal cielo, ma a una profonda, rivoluzionaria, trasformazione della società capitalistica.
Ma la pensavamo anche in termini violenti, come conquista del Palazzo d'Inverno. Il cambiamento non è nominalistico. Oggi il rifiuto della violenza è un dato acquisito.
Ma nella società la violenza è ben presente.
Ma non è detto che a una violenza si debba rispondere con un'altra violenza, a un'oppressione con un'altra oppressione.
Ma anche nel vecchio Pci l'idea della conquista del Palazzo d'inverno era stata messa in cantina e c'era il rifiuto della violenza. Quando sento Bertinotti affermare come novità il rifiuto della violenza, mi sembra un passo indietro.
C'è ancora chi la violenza l'ammette e la pratica. Sia pure frange. I problemi centrali e attuali sono l'ambiente e la diseguaglianza; oggi la lotta per la vita e quella per l'equità coincidono. La natura ce lo ha insegnato: lo Tsunami colpisce i deboli.
Ma, torno all'Assemblea dell'Eur: tutto questo non dovrebbe portare alla definizione di un programma e alla costituzione di una forza politica, di un partito?
Certamente.
E in che cosa questo partito sarà diverso dagli altri? Certo sono evidenti, al primo posto, i problemi dell'ambiente e della diseguaglianza, ma come volete affrontarli nella lotta politica di questi tempi?
Per passi successivi, ma rapidi. Bisogna dar vita a un'aggregazione larga, laica, plurale, ecologica, che lotti per le idee della sinistra. E che abbia soprattutto una base diffusa di organizzazioni, associazioni, centri di iniziativa, e sappia utilizzare i mezzi di comunicazione. Penso, oltre ai giornali e alle riviste, all'informazione elettronica e ai siti on-line. C'è per esempio un mensile (Zai Net, «zainetto e network») di giovani che comunica con 30.000 scuole.
Insomma invece che una commissione di massa, come nel Pci, una commissione di ascolto?
Non una commissione, ma un habitus di tutti, dirigenti in testa. Ascolto e dialogo, confronto e proposta.
E i tempi di questo processo?
Ci stiamo già attrezzando per dare continuità alla «sinistra democratica per il socialismo europeo». Con la manifestazione del 5 si è trasmesso un notevole entusiasmo e i 4-5 mila che erano all'Eur sono già al lavoro.
«Il manifesto», per la sua storia, dovrebbe diventare quantomeno un luogo di questo dibattito e di questa costruzione.
Ne sarei più che lieto, perché l'esistenza di strumenti di informazione e di cultura politica è fondamentale.
Fate riferimento al socialismo europeo. Che però a sua volta non versa in ottime acque.
Infatti, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Il fatto è che 10-12 anni fa tredici paesi su quindici avevano governi socialisti o di centrosinistra; e adesso, sui 27 Commissari dell'Unione europea che rappresentano i vari governi, solo 7 sono socialisti. Inoltre due paesi modello, come la Svezia e la Finlandia, adesso hanno governi di centro-destra. Qualcosa non funziona e bisogna innovare profondamente, come hanno fatto sia Zapatero che Ségoléne Royal.
Sarkozi non è Chirac.
Certamente. E' più pericoloso.
E' un po' gollista e colbertiano. Molto statalista francese.
Ma è anche xenofobia, lotta alle banlieues, condanna della racaille. Comunque, la cosa più grave che ha detto Sarkozi è che la Francia deve difendersi dalla globalizzazione.
Ma la globalizzazione può diventare la colonizzazione dei deboli.
Bisogna evitarlo, ma non si può ignorare che la globalizzazione è il modo di vita del XXI secolo e - come avrebbe detto Togliatti - un terreno più avanzato di lotta. In tanti casi, ha creato condizioni migliori per diversi paesi: penso all'America latina, ma soprattutto alla Cina e all'India e anche ad alcuni paesi dell'Africa. E' stata l'apertura delle frontiere, e con tutti i suoi limiti il libero mercato. Molti squilibri, è vero, sono stati anche aggravati, e molte nazioni sono state spinte alla rovina; si deve sottolineare che il mercato e la scienza non creano naturalmente benessere. Ma la globalizzazione è il campo nel quale si deve combattere. E' terreno obbligato, e pertanto le idee politiche non possono più avere una dimensione solo nazionale.
La conversazione prosegue. Parliamo dell'internazionalizzazione comunista che, in qualche modo, anticipava la globalizzazione. Berlinguer è piuttosto critico, io di meno. Poi parliamo anche della radiazione del gruppo del «manifesto» e facciamo un ragionamento con il se: se il Pci, allora avesse accettato la posizione di quel gruppo, forse i danni del crollo del Muro sulla sinistra italiana sarebbero stati minori. Berlinguer consente. Poi quando ci salutiamo mi regala un suo libro, I duplicanti. Guardo l'introduzione e leggo le prime righe: «La politica è passione civile o male ereditario, nella mia famiglia, da tre generazioni, ed è stata sempre vissuta all'opposizione: nonno repubblicano, padre antifascista, figli comunisti. Anche chi fra di noi è divenuto totus politicus non ha mai pensato di entrare a far parte di un ceto particolare: altri erano gli scopi, diverse le situazioni. Da una decina d'anni, però, ho cominciato a sospettare e poi a constatare che questo ceto - stavo per dire casta - di cui avevo sempre contestato l'esistenza è una realtà; che esso ha una irrefrenabile tendenza moltiplicativa invasiva e pervasiva; e che io stesso, in qualche misura, vi appartengo».

il manifesto 17.5.07
La guerra del segretario Betori. I nemici: eutanasia, aborto, Dico e qualità della vita
La Cei: «Gay come barbari»
Il Vaticano passa all'uso di lessico e metafore belliche. Il numero due dei vescovi: la Chiesa è assediata. «Sono come Federico Barbarossa»
di Mimmo De Cillis


Truppe, avanti tutta per distruggere cristianità. Eutanasia, aborto, Dico, sarebbero come soldati armati di tutto punto che cercano di espugnare la chiesa cattolica. Sono sempre di più il lessico bellico e metafore di belligeranza a esprimere il rapporto fra la chiesa e il mondo contemporaneo: le parole pronunciate ieri dal numero due della Cei, il vescovo Giuseppe Betori, descrivono una chiesa che si sente assediata ed è pronta quindi a scendere sul piede di guerra. Imbarcata in una violenta crociata, con il sacro furore che pochi giorni fa la piazza del Family Day esprimeva in tutta la sua plastica visibilità. Si trovava a Gubbio, Betori, segretario della Conferenza episcopale italiana, per la celebrazione del patrono sant'Ubaldo, vescovo difensore del ruolo civile del cristianesimo, morto nel 1160. Ricordando l'esperienza del vescovo-condottiero, «premuroso nell'impedire la caduta del suo popolo», che «fortificò la città contro un assedio delle truppe di Federico Barbarossa», Betori ha additato senza titubanze i «nuovi nemici che tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento, di creare turbamento alla loro vita». I nemici sono «nichilismo e relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni della nostra cultura: fanno dell'embrione l'essere umano più indifeso, un materiale disponibile per le sperimentazioni mediche, danno copertura legale al crimine dell'aborto, e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell'inizio e della fine della vita umana». Ma non è tutto. Il pericolo, secondo Betori, si annida anche nel «concetto apparentemente innocuo di "qualità della vita" che innesca l'emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati coltivando sentimenti di arroganza e di violenza che fomentano le guerre e il terrorismo». Soprattutto «oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata su matrimonio di un uomo e di una donna».
La grande festa dei Ceri a Gubbio, una delle più antiche d'Italia, si tinge dunque di intolleranza per l'intervento del segretario della Cei, che prosegue deciso lungo la scia imboccata dalla chiesa italiana dopo la «Nota» indirizzata ai politici cattolici sui Dico e all'indomani del Family Day. L'omelia di Betori anticipa di qualche giorno i temi della prossima assemblea generale dei vescovi italiani, in programma in Vaticano a partire dal 21 maggio. In quell'occasione, per la prima volta a presiedere l'assemblea sarà il nuovo presidente della Cei, l'arcivescovo Angelo Bagnasco, e si attende anche un discorso di Benedetto XVI. Che, dalle prime indiscrezioni, sembra non mancherà di scagliare altri macigni.
Secondo uno schema ormai consolidato, anche la politica partecipa alla «guerra di religione»: Isabella Bertolini di Forza Italia non perde occasione per manifestare la sottomissione del centrodestra italiano alla Cei, affermando che «lottare contro l'eutanasia, i Dico e l'indifferenza sessuale è un imperativo categorico per le forze sane del paese». Franco Grillini dei Ds replica: «Gli omosessuali non sono il nemico alle porte della cristianità ma si limitano a controbattere al clericalismo arcaico che caratterizza l'attuale gerarchia vaticana di cui fai parte». E ricorda l'esistenza di una cristianità non integralista «come quella dei Valdesi e di molti gruppi di Protestanti, che accoglie a braccia aperte gli omosessuali, non li discrimina, non li insulta, non chiude loro le porte, non li considera nemici o scardinatori della famiglia tradizionale e li rispetta profondamente, ritenendoli una risorsa per la comunità». Rincara la dose Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay, definendo Betori «campione del ritorno al medioevo»: «La gerarchia cattolica, accecata dall'odio omofobico, si sta rendendo moralmente responsabile della violenta recrudescenza di atti contro le persone omosessuali e, viste le parole del prelato, non sembra in alcun modo voler abbassare i toni». «Noi non siamo nemici del cristianesimo - sottolinea - ma ci opponiamo a qualsiasi tentativo di clericalizzare lo stato italiano».
Alla guerra laici-cattolici innescata dalla Cei partecipa stizzito il senatore dei Verdi Gianpaolo Silvestri: «Il segretario generale della Cei, in pieno accordo con il Mullah Omar, non concepisce la democrazia ed è il giapponese che difende Porta Pia». Silvestri nota «l'incapacità della chiesa di dire parole d'amore», ma non dispera: «La chiesa ha già chiesto perdono per l'antisemitismo e lo schiavismo, non dubito che ben presto chiederà perdono per l'odio che oggi diffonde».
*Lettera22

il manifesto 17.5.07
Ma chi sono i veri terroristi?
di Gianni Rossi Barilli


Stando alla propaganda del Vaticano, è un terrorista chi scrive sui muri «Bagnasco vergogna» con riferimento alle note posizioni del presidente della Cei su Dico e omosessualità. Bisognerebbe perciò chiedersi come definire chi mette all'indice le unioni gay e lesbiche in quanto «nemiche della cristianità», come ha fatto proprio ieri il segretario della Cei Betori. O chi, come don Bagnasco, accosta l'approvazione dei Dico all'accettazione dell'incesto o della pedofilia. O chi, come papa Ratzinger, scaglia con ossessiva frequenza anatemi contro l'omosessualità sostenendo che si tratta di una condizione disordinata, innaturale e pericolosa per la società. O chi, come Savino Pezzotta, promuove una manifestazione oceanica per chiedere «più famiglia e meno gay» partendo dall'erroneo presupposto che i privilegi dell'una siano in contrasto con i diritti degli altri.
L'elenco potrebbe continuare più a lungo di qualsiasi rosario, sgranando le prose calderoliane contro i «culattoni», i deliri omofobici teo-dem e neo-dem, le maledizioni di rabbini e imam e via discorrendo. Ma ci fermiamo qui perché tanto le urla di guerra del post-illuminismo italiano riempiono già a sufficienza le cronache di stampa e tivù. Ciò che più interessa, in occasione della giornata mondiale di lotta all'omofobia, è valutare qualche dato di realtà.
Per esempio che la chiesa e il suo codazzo di oscurantisti per fede o per convenienza stanno al centro dell'attenzione nazionale da mesi nella loro incendiaria campagna contro gli omosessuali. E con tutto questo si protestano oppressi e imbavagliati di fronte a qualunque civile espressione di dissenso. Oppure il fatto che l'accusa di terrorismo pronunciata contro chi se la prende con i preti (anche in modo per niente civile) non ha grazie al cielo prodotto finora nessun ferito né tantomeno nessun morto nelle già esigue file del clero secolare.
La situazione è invece diametralmente opposta per quanto riguarda non solo i diritti familiari ma anche più banalmente umani delle persone gay, lesbiche e transessuali. Già l'idea che si consideri come un'opzione di «sinistra radicale» la loro possibilità di vivere tranquillamente senza doversi nascondere o dover essere puniti per ciò che sono, la dice lunga su come sta messa l'Italia. Ma questo in fondo è il meno, di fronte ai problemi molto più seri che la recrudescenza omofobica provoca nel nostro paese. L'accresciuta visibilità degli omosessuali e delle loro richieste di integrazione civile sta producendo infatti reazioni che vanno ben oltre un dibattito politico sgangherato in cui tengono banco argomenti dialettici del tutto privi di fondamento razionale. Le cronache degli ultimi tempi parlano a questo proposito molto chiaramente. E dicono di brutali aggressioni ai danni di rappresentanti di associazioni glbt, com'è accaduto a Udine, Viareggio e Milano, colpiti in quanto omosessuali visibili. E di atti vandalici e intimidatori a ripetizione contro sedi politiche glbt in diverse città. E di gesta di cruento bullismo nelle scuole contro ragazzi percepiti come gay e mandati per questo all'ospedale, quando non hanno deciso di togliersi di mezzo da soli suicidandosi come ha fatto Matteo, lo studente torinese sedicenne la cui morte ha per qualche giorno commosso l'Italia senza tuttavia produrre risultati che facciano sperare in futuro di poter prevenire episodi del genere. Senza contare poi l'ordinaria amministrazione, che in conto all'omofobia di marginali frange della popolazione mette alcune decine di omicidi all'anno, maturati come si diceva una volta (e in qualche caso ancora oggi) nello «squallido mondo degli omosessuali». Se non si trattasse «solo» di gay, lesbiche e trans un quadro simile avrebbe già fatto scattare l'emergenza nazionale. Ci si preoccupa invece ben di più di garantire il diritto degli omofobi a rimanere tali. Dove andremo a finire di questo passo?

il manifesto 17.5.07
C'era una volta la ricerca sociale. Operai e contadini diventano protagonisti
All'inizio era Panzieri
«La ricerca non accademica fornì contributi fondamentali alla conoscenza della metamorfosi della società italiana». I Quaderni rossi, la rivista Inchiesta, Danilo Dolci, Adriano Olivetti. La relazione e un intervento al convegno di domani a Roma
di Enrico Pugliese


Nel dopoguerra la ricerca sociale in Italia vede una ripresa significativa che porterà al consolidamento, anche in sede accademica, della sociologia come disciplina. Gli stimoli a questa ripresa sono moltissimi, così come diversi sono i filoni culturali che si oppongono all'affermazione della ricerca sociale e della sociologia. Questi provengono dalla tradizione idealistica - sia nella versione crociana che in quella gentiliana - ma anche dal filone marxista più ortodosso, incapace di assorbire le innovazioni gramsciane sul piano dell'analisi sociale e culturale. Gli stimoli alla ripresa, invece, arrivano dalla crescente influenza della cultura americana, che proprio in quegli anni vede un consolidamento delle scienze sociologiche, psicologiche e antropologiche. Ma accanto a questo filone più accademico si sviluppa in molti ambienti una più diffusa attività di ricerca legata al bisogno di comprendere la realtà sociale di quegli anni, in profondo movimento, e soprattutto la condizione delle classi subalterne.
Vi si impegnano studiosi di varie discipline e intellettuali legati al movimento operaio o alla tradizione meridionalista, che nel dopoguerra riprende con vigore e forte carica innovativa in ambiti politici molto diversi. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nuclei di studiosi legati a riviste, intellettuali legati ad Adriano Olivetti (come Ferrarotti e altri), docenti impegnati nella scuola di servizio sociale Cepas, gruppi locali impegnati nella ricerca e nella pratica sociale come l'Arn a Napoli, intellettuali interni al sindacato conducono e promuovono inchieste importanti e innovative. Ed è proprio la ricerca non accademica che dà contributi fondamentali alla conoscenza delle metamorfosi della società italiana. Basti ricordare i contributi di Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Danilo Montaldi, Danilo Dolci e tanti altri. Si studiano così i contadini, le comunità locali, gli emigranti meridionali e veneti, gli immigrati nelle grandi città industriali. La nuova classe operaia della grande fabbrica, a partire dalla fine degli anni Cinquanta diventa oggetto di interesse di una ricerca sociale fortemente impegnata. Un ruolo determinante è svolto dai Quaderni Rossi, fondati e diretti da Raniero Panzieri, che pongono al centro del lavoro politico e culturale la classe operaia, della quale si intende comprendere condizioni, orientamenti, cultura e aspettative.
Torino - sede della più importante concentrazione operaia italiana - diventa centro di aggregazione culturale. Raniero Panzieri e il gruppo di giovani raccolti intorno a lui rappresentano un nucleo di impegno politico e sindacale innovativo sul piano della ricerca per orientamento, metodo e contenuti. Alla scuola dei Quaderni Rossi si formano studiosi di scienze sociali e le tematiche sostantive e gli aspetti di metodo caratterizzanti il loro lavoro avranno un'influenza molto vasta per gli studi sulla classe operaia. Il metodo è quello dell'inchiesta, dove ricerca e pratica sociale, impegno scientifico e volontà di cambiamento si intrecciano.
Al contributo dato da questi filoni di ricerca è dedicato il convegno. I tre termini indicati - orientamenti, contenuti e metodi - si riferiscono agli aspetti caratterizzanti la ricerca. I contenuti sono innovativi e affrontano aree e problematiche sociali trascurate dai filoni di ricerca accademici. Volendo indicare gli ambiti più significativi, si può dire che, oltre alla condizione operaia e alle sue espressioni sociali, politiche e culturali, l'attenzione è stata rivolta agli strati marginali della società e alla realtà delle istituzioni totali. Proprio grazie al metodo dell'inchiesta, l'attenzione è stata rivolta alle realtà locali e alle specificità dei contesti rurali e urbani, dando così anche un rinnovato impulso alla ricerca meridionalista: non solo alle condizioni di braccianti e contadini, ma anche al proletariato precario nei quartieri popolari come a Napoli. Tutto questo, con un impegno per la trasformazione sociale a vantaggio delle classi subalterne e per un loro avanzamento nella società.
In questo clima culturale, agli inizi degli anni Settanta nasce la rivista Inchiesta, che affronta temi non toccati dalla tradizionale ricerca sociologica accademica, ma che si impone anche in ambito scientifico per l'originalità dei contributi dati dagli studiosi che vi scrivono: giovani ricercatori provenienti dall'ambito accademico ma anche da altri contesti, quale ad esempio quello sindacale. Si stabilisce così un nesso forte tra studiosi e sindacato in diversi ambienti, per cui il lavoro di inchiesta dà elementi di conoscenza e stimoli all'azione sindacale, mentre la comunità di intenti tra sindacato, operai e ricercatori allarga l'orizzonte conoscitivo della ricerca sociale in Italia.
Dei limiti della sociologia tradizionale e dell'esigenza di aggiornamento si prende atto anche in ambiente sociologico con il convegno su "La crisi del metodo", mentre si afferma con forza il metodo dell'inchiesta che supera l'alternativa schematica tra approccio quantitativo e approccio qualitativo e scava in terreni nuovi individuando rapporti di potere, ingiustizie sociali, forme di oppressione economica e culturale, discriminazioni, ma anche aspettative di cambiamento e trasformazioni sociali e culturali. Infine, più che teorizzare l'approccio interdisciplinare, la pratica dell'inchiesta pone fianco a fianco studiosi di diversa formazione che beneficiano del confronto reciproco e dell'arricchimento che viene dal rapporto con il contesto sociale e umano della ricerca. Si pone in primo piano la condizione umana, analizzata attraverso il rapporto diretto con le persone nella loro quotidianità, mettendo a confronto l'approccio dello studioso con il punto di vista direttamente espresso dai soggetti interessati.
Il dibattito sul mercato del lavoro, che trova nel centro di Portici (Università di Napoli) a metà degli anni Settanta uno dei momenti di più attivo confronto, è espressione di questo incontro di discipline e ruoli diversi, grazie alla partecipazione di sindacalisti e operatori sociali. Questo stesso approccio porterà ad analisi più ricche e articolate delle problematiche territoriali dello sviluppo che, partendo dall'analisi del lavoro a domicilio e del decentramento produttivo (che proprio nella rivista Inchiesta trovano la principale sede di confronto), affrontano il ruolo della piccola impresa e delle istituzioni locali per lo sviluppo economico. Il gruppo di giovani economisti che nel corso degli anni Settanta si forma a Modena, dà contributi innovativi in questo senso e il lavoro di Sebastiano Brusco diventa un punto di riferimento per l'analisi delle nuove forme di organizzazione produttiva nell'epoca della crisi della produzione di massa. La minuziosa indagine empirica e la continua attenzione alle caratteristiche socio-economiche del contesto e al ruolo delle istituzioni sono l'aspetto caratterizzante.
In questo lungo processo di sviluppo della ricerca sociale e di affermazione della pratica dell'inchiesta, Giovanni Mottura è stato uno dei protagonisti, a partire dagli anni Cinquanta con il suo impegno (e le inchieste) tra i contadini siciliani presso il centro di Danilo Dolci, il lavoro di ricerca e di impegno politico nei Quaderni Rossi con Raniero Panzieri, gli studi presso il Centro di Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno (Università di Napoli) e all'Università di Modena, a Bologna presso l'Archivio Storico della Camera del lavoro, nel sindacato con i lavori sugli immigrati per l'Ires-Cgil. Il convegno è in occasione del suo settantesimo compleanno.

Liberazione 17.5.07
Mons. Betori: aborto e gay nemici come "il Barbarossa"
La chiesa invoca il fronte guelfo contro la civiltà
di Rina Gagliardi


Monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, non ha goduto - finora - di particolare popolarità mediatica. Finora. Perché da ieri l'alto prelato umbro ha pronunciato un discorso che dovrebbe fargli guadagnare l'onere massimo delle cronache, oltre che della nostra attenzione: da Gubbio, dove si celebrava la festa dell'antico vescovo Sant'Ubaldo, patrono della città ha proclamato la guerra. La guerra santa, s'intende. La guerra ai "nemici" che oggi assediano la civiltà occidentale: aborto, eutanasia, omosessualità. La guerra totale, insomma, alla modernità e alla libertà che il moderno ha comunque portato con sé, tra mille limiti e irrisolte contraddizioni. Per dirla con una formula recentemente evocata da Romano Prodi: il Partito Guelfo, da oggi, è una corposa realtà politica. Ed è un partito "armato", nei suoi simboli, nel linguaggio, nell'ideologia, nei riferimenti storici.
Esageriamo? Macché, è lo stesso Monsignore a collocare il suo proclama - la sua jihad - nei suoi riferimenti storici più chiari. Così come nel 1160 il vescovo di Gubbio «fortificò la città contro l'assedio del Barbarossa», così come nel XII (e XIII) secolo i guelfi (i sostenitori del Papa alleati con i comuni) sconfissero i ghibellini (e il sogno di un impero "universale", mediterraneo e nordico, multireligioso e multietnico, nutrito di lettere e di scienze, perseguito da Federico II), oggi si tratta di sconfiggere i "nuovi nemici" che «tentano di espugnare le nostre città». «Il relativismo e il nichilismo».
Le parole, si sa, non sono mai né neutre né innocenti: e del resto il monsignore attinge a piene mani alle metafore militari. Parla di "assedi", di mura da "espugnare", di "missione" del cristianesimo. Sparge assoluti e assolutismi sulla sacralità della vita - pardon dell'embrione - in una esasperazione biologistico-naturalistica che, francamente, di religioso, nel senso spirituale del termine, non ha quasi nulla. E lancia non accuse, ma anatemi e condanne contro la «improponibile libertà di autodeterminazione di sé». Capite che cosa mette in causa, il dirigente della Cei? Nientemeno che la pretesa delle donne e degli uomini di superare lo stato di sudditanza. Nientemeno che tutto ciò che ha segnato la crescita della civiltà dal XVI secolo in poi.
Ora, se tutto questo fosse un caso isolato, frutto, magari, dell'esaltazione di una giornata cerimoniale, se Monsignor Betori fosse insomma o un po' estremista o non molto dotato di self control, sarebbe comunque un fatto molto serio. Ma circoscritto. Invece, sappiamo bene in quale sequenza temporale si colloca il "proclama neoguelfo di Gubbio": subito dopo il Family Day, e subito prima della assemblea generale dei vescovi italiani. Dunque, va preso sul serio - maledettamente sul serio. Perché ormai, per la Chiesa cattolica e le alte gerarchie ecclesiastiche "non è che l'inizio", non sembrano cioè esserci più limiti alla voglia neotemporalistica e alla crociata oscurantista.
In verità ci saremmo aspettati qualche commento in più sulle severe parole del monsignore. Invece i politici si sono risparmiati. Non tutti, intendiamoci. Il bardo Andrea Ronchi, portavoce di An, visto il vuoto di dichiarazioni, ne ha piazzata una, tutto contento: «Siamo con il monsignor Betori. Le sue parole non possono essere considerate ingerenza. Chi lo attacca lo fa in nome di un relativismo culturale che è il vero Dna delle forze che sostengono il governo di centrosinistra. Non avendo argomenti da contrapporre alle centinaia di migliaia di italiani che in nome dei valori sono andati a piazza San Giovanni e ai milioni di italiani che sono idealmente con il segretario della Cei, gli esponenti del centrosinistra attaccano e offendono per arrivare poi alle minacce e alle scritte inneggianti le Brigate rosse. Per noi laici il rispetto è essenziale, è una condizione di vita. Per noi la famiglia e la vita rappresentano il centro dell'azione politica ed è per questo siamo stati e saremo al fianco ieri di Bagnasco e oggi di Betori». Ma lasciando Ronchi e le sue simpatiche battute da parte, chi ha colto nel segno è stato il senatore dei Verdi, Giampaolo Silvestri: «Il segretario generale della Cei, in pieno accordo con il Mullah Omar, non concepisce la democrazia ed è il "giapponese" che difende Porta Pia. Dimentica tra i frutti del relativismo e del nichilismo: il sesso al di fuori del matrimonio, l'uso del profilattico, il non dare l'otto per mille alla Chiesa cattolica, il matrimonio civile, il divorzio, amicizie particolari, preti e pedofilia, l'eliminazione del limbo, l'equiparazione dei figli "illegittimi" con gli altri, il nudo in tv, le sfilate di moda ecclesiastiche, lo Stato teocratico oltre Tevere, la ricchezza della Chiesa, i mercanti nel tempio, l'autonomia delle donne, la liberta' di coscienza, la laicita' dello Stato, le madonne che piangono sangue, i papa boys e le papa girls, la morte del latino, i cappellani militari e,specialmente, l'incapacita' di dire parole d'amore. Comunque non dispero: la Chiesa ha già chiesto perdono per l'antisemitismo e lo schiavismo, non dubito che ben presto chiederà perdono per l'odio che oggi diffonde».
In attesa di questo perdono (chissà se noi ci saremo?!), Villetti (Sdi) risponde anche lui: «Vogliamo solo dargli un consiglio davvero amichevole. Per sostenere le sue convinzioni non ripercorra la storia nella quale il potere temporale dei papi ne ha fatte letteralmente di tutti i colori e non si è certo distinto nella battaglia a difesa della vita. Betori dovrebbe ricordarsi che il non avere più il compito di fare leggi ha giovato alla chiesa che ha ritrovato così il suo significato più profondo nel potere spirituale». E Franco Grillini, deputato Ds e presidente dell'Arcigay scrive: «Caro Betori andrei molto più cauto nel parlare a nome della cristianità, che è infinitamente più articolata di quanto tu e la Cei, ci vogliate far credere. Esiste una cristianità non integralista, come quella dei Valdesi e di molti gruppi di Protestanti, che accoglie a braccia aperte gli omosessuali, non le discrimina, non li insulta, non chiude loro le porte, non li considera nemici o scardinatori della famiglia tradizionale e li rispetta profondamente, e li ritiene una risorsa per la comunità cristiana». Con Betori restano comunque Luca Volontè e Isabella Bertolini, quella in auge prima di quella dei cani randagi in Sardegna, per intederci.

Liberazione 17.5.07
Parla Giovanni Leghissa docente di filosofia
«Il Barbarossa un precursore del moderno»
di Tonino Bucci


Stavolta i nemici non sono soltanto i laici del nostro tempo. E neppure l'Illuminismo è il solo imputato trascinato sul banco degli accusati. Siamo al di là degli strali contro atei e marxisti. La mira della Chiesa - alla quale non difetta la capacità di usare la storia - punta molto più lontano, a ritroso nel passato. Il segretario generale della Cei, monsignore Giuseppe Betori, se l'è presa nientemeno con Federico Barbarossa, il primo ad aver osato sfidare con le sue "orde barbariche" il primato del potere spirituale. «E' una crociata per la Chiesa, direi tutta italiana perché queste cose non succedono nel resto d'Europa», dice Giovanni Leghissa, docente di filosofia della scienza presso alla facoltà di scienze della formazione dell'università di Udine.
Perché proprio Barbarossa?
Lo conosciamo tutti, lo studiamo a scuola. Lo vediamo come il nostro nemico. Alberto da Giussano che combatte contro di lui frutta ancora oggi il cinque per cento alla Lega. E' un uso interessante della storia. Per la Chiesa è una battaglia epocale e qui possiamo smascherarla. Tirare in ballo il Barbarossa significa andare alle radici di quel pensiero moderno - anche se siamo ancora nel Medioevo - che pone l'autonomia del politico rispetto alla sovranità del teologico.
E' un attentato contro le radici dello Stato moderno?
Certo, questo è il punto. Qui la Chiesa smaschera le sue vere intenzioni. Non ne va solo della vita delle persone e della possibilità di imporre il proprio modello etico allo Stato. Qui si ritira fuori il vecchio progetto missionario di cristianizzare l'Europa.
Ma cosa c'entra Barbarossa con l'ossessione del relativismo?
Non è un caso che si mescoli la questione del relativismo. Siccome la modernità, dal punto di vista della Chiesa, ha mostrato il suo vero volto nichilista e relativista, allora arriva la religione a riempire quel vuoto di valori che la tradizione illuminista non è riuscita a colmare. Solo che il relativismo è un'invenzione. Nessuna posizione etica e morale è relativista. Se considero la ragione x quale motivazione della mia condotta morale presuppongo di poterla argomentare. E gli argomenti sono universalizzabili. Nessun filosofo o semplicememte nessuna persona ragionevole può essere mai relativista. Significherebbe dire che la mia idea è uguale alla tua. Nessuno dirà delle proprie motivazioni morali che sono equivalenti a tutte le altre.
E' falso che il pensiero razionale non abbia valori. La differenza dalla religione è che li fonda attraverso il ragionamento e non per ricorso a un'autorità. O no?
Nella prospettiva moderna ognuno di noi è portatore per principio di valori morali autonomi che devono essere confrontati con quelli degli altri. Poi vince la motivazione più ragionevole. Il filosofo Donald Davidson lo ha chiamato principio di carità. Significa che do comunque un credito al mio interlocutore, parto dal presupposto che possa avere anche lui delle buone ragioni. La Chiesa invece parte dal presupposto che gli altri - cioè noi laici - siano portatori per definizione di valori insufficienti in quanto infondati. Ma questo non è un male. E' costitutiva l'infondatezza dell'autonomia morale moderna. L'individuo è dotato di ragione finita e può aspirare a un certo grado di universalità nei suoi argomenti anche se non c'è fondazione. Noi scegliamo, ad esempio, un regime democratico invece di uno dittatoriale perché stiamo meglio,non perché ci sia una ragione ultima.
Ma questo non significa che tutte le scelte siano fra loro equivalenti...
Certo che no. Alcune possono essere irragionevoli. La Chiesa obietta alla ragione laica d'essere una ragione assolutista, onnipotente e totalitaria. Ma noi laici difendiamo non la ragione, bensì la ragionevolezza delle ragioni dei singoli.
Barbarossa è ricordato come il nemico della nazione. E se invece fosse il contrario? Lui e Federico II hanno rappresentato un'occasione mancata per l'Italia d'avere uno Stato e una cultura nazionali in senso moderno. Invece ha vinto la Chiesa e l'Italia ha dovuto aspettare secoli per diventare nazione. La convince?
Assolutamente. I Comuni ghibellini sono il focolaio dell'unità nazionale, in senso culturali. E' lì che nasce lo spirito italiano. Non è un caso che a scuola studiamo Dante. Lui, in fondo, stava dalla parte di Barbarossa. La teoria dei due Soli nel De Monarchia prende spunto da Federico II.
E nella "Divina Commedia" assolve anche l'intellettuale alla corte di Federico II, Pier delle Vigne...
Da lì nasce tutto il problema: che il sovrano sia altrettanto legittimo quanto il Papa quale fonte della giustizia. L'ortodossia cattolica ha sempre respinto questa tesi malgrado alcune eccezioni come Marsilio da Padova e Ockham

Liberazione 17.5.07
La Chiesa non fa politica?
L'ipercattolicesimo è crociata. Francesco si è fermato ad Assisi
di Lea Durante


Un giorno forse sorrideremo delle parabole da catechismo che ci ammanniscono i vescovi negli ultimi tempi, come adesso sorridiamo di certi anatemi lanciati dai parroci per la propaganda referendaria sul divorzio, delle loro minacce campagnole e perfino ingenue che non riuscirono, miracolosamente, a determinare l'esito di quella partita tra passato e futuro che si giocava in un presente incerto e stentato e per noi ora lontano. Fino ad allora, però, patiamo dolorosamente il bilico tra vecchio e nuovo, dolorosamente la confusione tra peccati e reati, tra religione e legge, tra chiesa e stato, perfino.
Non è inopportuno, allora, che monsignor Betori scelga lo scenario dell'alto medioevo per proporre un paragone tra i nemici della chiesa: quelli di allora, le truppe imperiali di Federico Barbarossa, e quelli di oggi, ovvero l'aborto, i Dico, l'eutanasia. Direi anzi che si tratta proprio del momento giusto della storia dell'Occidente per collocare il mito universalistico della Chiesa di Roma, conteso appunto all'Impero. Nemici, eserciti, eroi… sono parse queste le metafore più adatte per celebrare a Gubbio sant'Ubaldo: San Francesco si è fermato ad Assisi, si potrebbe dire parafrasando Carlo Levi, e d'altro canto, per quanto patrono d'Italia, il frate che parlava ai lupi, alla morte, all'acqua non è davvero il più adatto del calendario alle necessità di una controriforma.
Bella anche la concomitanza con la frase del Papa in Brasile «La Chiesa non fa politica». Dev'essere sulla parola politica che non ci intendiamo. Sarà perché sono fresca dell'incontro a Ghilarza con Giovanni Semeraro, ex-sacerdote e ora studioso di Gramsci in Sud America, ma non riesco a non mettere in relazione il viaggio del Papa con un solerte e fruttuoso decennio di ricomposizione dell'autorità vaticana sulla chiesa brasiliana che era stata a lungo e attivamente animata dall'energia della teologia della liberazione, una realtà che aveva dato vita a un tessuto di solidarietà e di socialità preziosissimo per i ceti popolari del Brasile e di cui ora restano solo poche tracce. La cancellazione di quella straordinaria esperienza, del resto, è ben poca cosa per un pontefice che afferma senza perplessità che «l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò in nessun momento l'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera». Al revisionismo in forma ecumenica praticato con abilità e cultura da Giovanni Paolo II si è recentemente sostituito un revisionismo più direttamente militante, guerriero, che non teme in alcun modo di richiamarsi - e qui torniamo al Medioevo di Betori - a quell'universalismo che per alcuni decenni era parso di poter almeno mettere in discussione e che, devoto di San Michele e di San Giorgio soldati della cristianità, non può certo lasciarsi fermare dalle culture, dalle leggi, dalle nazioni diverse. La Chiesa, insomma usa la storia, la sua stessa storia per corroborare le battaglie del presente, trascegliendo i fatti e i santi più adatti alla specifica circostanza. E la scelta è copiosa.
Non chiamiamola politica, se proprio Sua Santità non vuole, ma ora che l'orizzonte della geografia internazionale appare un terreno di più impervio intervento, soprattutto per un esercito come le Guardie Svizzere, è comprensibile che la chiamata alle armi riguardi tutti i cattolici, uno ad uno, come Militia Christi e che la battaglia non sia più per conquistare il Santo Sepolcro (il Palazzo d'Inverno, avrebbe detto Gramsci) ma per governare l'esistenza stessa delle singole persone: aborto, dico, eutanasia, cioè la nascita, la vita e la morte, da mettere sotto il dominio di una nuova e più capillare forma di universalismo, quella della regola morale. Biopolitica però sì, dobbiamo chiamarla per forza questa autodifesa aggressiva della Chiesa che ha inventato l'ipercattolicesimo, al quale prima che costringere i laici ha dovuto convertire gli stessi cattolici, che storicamente erano divenuti più possibilisti in materia di diritti civili, e non solo nel vasto Occidente. E' l'universalismo al tempo della globalizzazione quello che ci troviamo dinanzi, e per adesso c'è poco da sorridere, soprattutto perchè appare di lunga lena il lavoro che abbiamo da fare verso il superamento di quel patriarcato che nutre le più pericolose forme di ortodossia identitaria in giro per il mondo. La ricerca di un nuovo senso comune che ridefinisca tutte le relazioni tra i soggetti, individuali e collettivi, non può essere rinviata, e a questa ricerca, credo, ci farà piacere dare il nome di politica.

Liberazione 17.5.07
Anche Sarkozy lo cita, ma per noi Gramsci è il teorico della libertà
di Aldo Tortorella


Contrariamente alla opinione di molti, Gramsci è sopravvissuto al crollo del movimento comunista novecentesco, è entrato nel nuovo secolo come un pensatore vivente, ha conquistato la dimensione di un classico.
L'unico autore italiano che lo precede tra coloro che sono i più citati nel mondo è Dante Alighieri. Ma l'opera di Gramsci è saggistica e, in più, di ardua lettura perché frammentaria, lasciata allo stato degli appunti di un pensiero che si avverte compiuto ma continuamente sorgente.
Gramsci è diventato una tappa obbligata in molte discipline. Citarlo, in politica, a proposito e sproposito, è diventato un vezzo. L'ultimo è stato Sarkozy, che ha ridotto in pillole il pensiero sull'egemonia («mi ha insegnato che il potere si conquista con le idee»). Non mancarono e non mancano i tentativi di reinterpretarlo come proprio persino da parte degli eredi di coloro che lo condannarono alla lenta morte del carcere (ma a trasformarlo in un puro seguace di Gentile aveva provveduto un noto studioso cattolico conservatore).
Ma sarebbe assurdo lamentarsi. Un "classico" nasce proprio dalla sua capacità di stimolare una grande quantità di letture, comprese quelle strumentali e ipocrite. Anche queste sono comunque il riconoscimento di una autorevolezza cui si cerca in qualche modo di fare appello. E l'ipocrisia, come sapevano già i nostri nonni, è essa stessa un omaggio alla virtù.
La virtù di Gramsci, e cioè le ragioni di fondo del suo permanere oltre quel partito cui dette vita in Italia - e oltre quel movimento internazionale che contribuì a creare - non stanno nel fatto che, come taluno dice, egli quasi se ne separò, quasi ne divenne estraneo. In tal modo egli sarebbe diventato soltanto qualcuno dei molti che, ansiosi in giovinezza di cambiare il mondo, concludono nell'età matura negando il se stesso di ieri e dimostrando così di non aver avuto e di non avere niente da dire. Gramsci non ha da negare la sua personale e originale lettura di Marx e di Lenin, perché da essa generò e sviluppò un pensiero radicalmente antidogmatico. Ed egli non è un capo politico sconfitto che si trasforma in un pensatore puro della ragione e della storia. La sua forza straordinaria e il suo fascino, di capo politico e di pensatore, sta nel fatto che con tutto il suo ingegno egli cerca di reinterpretare e ricostruire le ragioni della propria parte e cioè della scelta morale che egli ha compiuto e a cui rimane criticamente fedele. Sino all'ultimo respiro egli è alla ricerca non solo dei possibili modi della trasformazione sociale e delle strade per perseguirla, ma del senso stesso ch'essa può essere chiamata ad assumere per la esistenza umana.
Non c'è, da questo punto di vista, contrapposizione tra il giovane Gramsci consiliare e quello maturo dei Quaderni poiché medesima è l'ispirazione ostile alla subalternità di classe, impegnata per la liberazione umana. Non c'è contrapposizione perché c'è svolgimento del pensiero, riflessione sulla sconfitta subita dinnanzi al fascismo, individuazione delle categorie attraverso cui reinterpretare la società, per poterla mutare. Entro questa riflessione si collocano la distinzione tra "guerra di movimento" e "guerra di posizione", e l'accento posto sulla antica nozione di società civile come luogo disgiunto e congiunto allo Stato, con le conseguenze grandissime che tutto ciò comporta per la "strategia" e la "tattica" - come ancora si dice, con termini militareschi - di una politica che si voglia trasformatrice.
Ma trasformatrice a quale fine, con quale senso? Gramsci non può essere ridotto, come si fece e si fa, entro i limiti di chi invoca la modernità contro l'arretratezza. Questo tema, ovviamente, esiste e non fu arbitrario evocarlo nella lotta politica italiana alla metà del secolo scorso. Ma la stessa riflessione gramsciana sul Mezzogiorno e sulle classi subalterne porta assai oltre il tema dell'arretratezza poiché essa coglieva nel modo di essere del modello capitalistico - e cioè nelle motivazioni e nelle modalità dello sviluppo - le origini dei mali del sud del mondo. E' per questo che le lotte democratiche di liberazione dell'America latina, il pensiero e il movimento antirazzistico degli afroamericani degli Stati Uniti, gli studi sulle classi subalterne in India e i moti da essi ispirati hanno trovato in Gramsci un punto di riferimento essenziale.
Egli è un teorico della liberazione perché a questa mira ognuna delle sue idee essenziali, come forse è necessario ribadire, anche se nella massa sterminata degli studi gramsciani questo tema non è certo assente. La idea della "rivoluzione intellettuale e morale"; il bisogno di costruire un pensiero egemonico, e cioè, capace di piena comprensione del reale e dunque di soluzioni all'altezza dei bisogni umani; la rivendicazione di autonomia della "filosofia della prassi", contro ogni sua riduzione a uno dei canoni d'interpretazione storica, sono tutte espressioni che tendono ad affermare la esigenza di costruire un altro incivilimento dinnanzi alle insanabili contraddizioni materiali che un pensiero critico ha il compito di portare continuamente alla luce. Per questo motivo Gramsci dura nel tempo della globalizzazione quando, dopo la piena vittoria del modello capitalistico, ci si deve interrogare sulle conseguenze di una crescita insostenibile per la natura e incapace di colmare il pauroso divario tra sconfinata ricchezza e povertà abissale; e quando si afferma non già l'egemonia dell'impero ma la pratica della guerra preventiva e della legge del più forte.
Ma si ha da tornare a Gramsci per il rifacimento di una cultura della sinistra europea perché egli non è solo un teorico della liberazione e degli strumenti per essa necessari, ma è il pensatore di una nuova libertà. A Benedetto Croce che ritiene di essere l'interprete unico di una filosofia della libertà, Gramsci obietta: «Eccettuati i cattolici, tutte le altre correnti filosofiche e pratiche si svolgono sul terreno della filosofia della libertà» (Q 10 § 9 pag. 1248). Il tema, cioè, è quello della libertà di ciascuno e di tutti, secondo la parola d'ordine del Manifesto , contro la libertà dei pochi. E se - argomenta Gramsci - la nozione della libertà come coscienza della necessità elaborata «dalla filosofia classica tedesca» conclude il cammino teorico iniziato, ancora sul terreno teologico, con le teorie sulla grazia e sulla predestinazione, essa è solo il primo passo verso la libertà come possibilità e consapevolezza (Q 10, §48, pag. 1338)
L'egemonia si contrappone al dominio poiché il dominio soffoca la libertà che è il fine di ogni liberazione. Contro Giovanni Gentile e contro Antonio Labriola che ritengono si possa pensare ad un uso "pedagogico" della negazione della libertà per i popoli "immaturi" Gramsci, d'accordo con Spaventa, afferma il contrario. (Q 11 §1, pag. 1368)
E' nella riappropriazione della idea di libertà, senza cui non ha senso la eguaglianza, che la sinistra nuova ha da trovare il suo fondamento. Non è libertà quella dove i pochi possono tutto e i più possono poco o nulla. Il tema di un partito della trasformazione sociale come "intellettuale collettivo" sorge a questo punto e a questo proposito. La costruzione stessa di individui liberi non passa e non può passare attraverso la negazione o la sopraffazione dell'altro, com'è secondo la logica della legge del più forte, ma attraverso il riconoscimento (se di "diritto naturale" si vuole parlare) che ognuna e ognuno è fin dalla nascita al centro di un sistema di relazioni e di solidarietà. La libertà solidale è altra e opposta cosa alla regola secondo cui ognuno sta per sé contro tutti gli altri.
E' a questo che ci spinge l'etica gramsciana, troppo poco studiata, e, anzi, spesso confusa con la pura e semplice affermazione della sua storicità. Come Gramsci si batteva contro coloro che, essendo Machiavelli il teorico dell'autonomia politica gli negavano ogni pensiero etico, così bisogna tornare a riflettere sull'etica gramsciana, quella che sta nei Quaderni, nelle Lettere e nella sua vita stessa. Poiché è su questo terreno che la sinistra ha conosciuto e conosce le sue più cocenti sconfitte. Ed è qui che Gramsci ci può aiutare più che mai.