sabato 26 maggio 2007

Repubblica 26.5.07
Un Meridiano con l'opera del pensatore olandese
Spinoza, il pensiero perseguitato di Umberto Galimberti


Nonostante l'insegnamento di Papa Ratzinger, secondo il quale non c'è conflitto tra fede e ragione (lasciando sottinteso che, in caso di conflitto, ad aver torto non è la fede, ma la ragione, in base al principio tomista: philosophia ancilla teologiae), i filosofi non se la sono mai passata tanto bene nel confronto con le autorità religiose, di qualunque posizione di fede esse siano espressione.
Ne è un esempio Baruch Spinoza, di cui Mondadori ha pubblicato in questi giorni l'intera sua opera, ottimamente tradotta e curata da Filippo Mignini con la collaborazione di Omero Proietti. Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia ebrea che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l'intolleranza religiosa di quel paese. A 24 anni venne espulso dalla comunità ebraica, dove era stato educato, «per eresie praticate ed insegnate».
Nel 1670 comparve anonimo il suo Trattato teologico-politico, dove tra l'altro si legge che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quel che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato dalla chiesa protestante e da quella cattolica, e Spinoza dovette impedire la pubblicazione di una traduzione olandese per evitare che fosse proibito anche in Olanda.
Stessa sorte ebbe la sua opera maggiore: Ethica ordine geometrico demonstrata, di cui Spinoza rinviò la pubblicazione perché sarebbe stata immediatamente condannata, in quanto si sosteneva che Dio è la natura (Deus sive natura) e le cose di natura sue manifestazioni regolate da una ferrea necessità. Per cui Spinoza può dire: «gli uomini credono di essere liberi perché sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati». Quest'opera verrà pubblicata solo dopo la morte del filosofo, che avvenne a 44 anni per tubercolosi, dopo una vita trascorsa fabbricando e pulendo lenti per strumenti ottici, per guadagnarsi il pane.
L'edizione Mondadori include le opere di Spinoza non nella collana di letteratura e di filosofia, ma in quella dei "Classici dello spirito". Giustamente, perché Spinoza spezza quell'impropria alleanza tra pensiero greco e pensiero giudaico-cristiano, così cara a Ratzinger e a Giovanni Reale, perché abissale è la differenza tra la cultura giudaico cristiana che concepisce la natura come un prodotto della "volontà" di Dio, consegnata alla "volontà" dell'uomo per il suo dominio, e la cultura greca che concepisce la natura come quel cosmo che, al dire di Eraclito: «Nessun dio e nessun uomo fece, perché sempre fu, è, e sarà», regolata da quella necessità (anánke) a cui l'azione umana deve piegarsi come alla suprema legge. Dello stesso parere è Platone che nelle Leggi scrive: «Non per te, uomo meschino, questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica».
Spinoza riprende l'originario modello greco, tenendolo ben distinto (donde le scomuniche) da quello giudaico-cristiano, che pone l'uomo al centro dell'universo e la natura come ambito del suo dominio. In questo modo ribalta la metafisica occidentale e soprattutto la stretta alleanza tra filosofia e teologia che su quella metafisica si fondava. In questo senso Spinoza anticipa l'oltrepassamento della metafisica, che noi conosciamo a partire da Nietzsche e da Heidegger, e, nel suo trattato sulla politica, precorre di un secolo e mezzo l'illuminismo, rivendicando la libertà di pensiero e la tolleranza nell'ambito delle fedi. Oggi come allora, Spinoza sarebbe rubricato tra i panteisti, come Cusano e Giordano Bruno, di cui il filosofo olandese evitò un'analoga fine solo astenendosi dal pubblicare i propri libri. Questa è la sorte della libertà di pensiero, quando egemoni sono le fedi.

Repubblica 26.5.07
Esperimento dell'università di Vancouver: i neonati sono più "intelligenti" di quel che pensavamo
Lingue straniere e ritmi musicali "Scoperte dei primi mesi di vita" di Luigi Bignami


ROMA - Prima che inizino a parlare i neonati sono in grado di capire quando stiamo utilizzando un linguaggio diverso da quello che solitamente usiamo per parlare con loro. Lo capiscono semplicemente guardandoci in faccia. E´ una delle scoperte fatte nel corso di una ricerca dagli scienziati canadesi di Vancouver (i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science).
I ricercatori hanno mostrato a 36 bambini di 4 mesi, i cui genitori parlano la lingua madre inglese, alcuni video muti in cui gli stessi volti familiari pronunciavano frasi in due lingue diverse, inglese e francese. Come elemento di riferimento, agli stessi bimbi sono stati mostrati i volti delle mamme mentre pronunciavano frasi solo nella loro lingua madre. Ebbene, quando ai neonati veniva detta una certa frase nella lingua a loro straniera, rimanevano a guardare più a lungo i volti rispetto a quando la stessa frase veniva pronunciata nella lingua madre.
Spiega Whitney Weikum, della British Columbia di Vancouver: «Questo comportamento è la dimostrazione che i bimbi riescono a distinguere le due situazioni e ovviamente quando si trovano di fronte alla lingua per loro straniera fanno uno sforzo maggiore nel seguire chi sta parlando loro. Era già noto che i bambini di quell´età sono in grado di percepire due lingue diverse, ma è la prima volta che si dimostra che sono capaci di farlo anche solo attraverso stimoli visivi». Questa capacità, tuttavia, si perde attorno all´ottavo mese di vita, se non c´è uno stimolo continuo al bilinguismo. Le stesse prove, infatti, sono state eseguite a 6 e poi ad 8 mesi. E mentre a 6 i bambini mostravano le stesse capacità dei neonati, a 8 questa proprietà risultava assente.
Lo studio dimostra l´importanza delle informazioni visive su un bambino piccolo, quali possono essere le forme della bocca che servono per le fasi iniziali dell´apprendimento della lingua. Kim Plunkett, neuroscienziato all´Università di Oxford è rimasto sorpreso non tanto dalla scoperta che i bambini sappiano comprendere le parole seguendo la forma della bocca, ma dal fatto che dopo 8 mesi questa capacità si perde. «Mi meraviglia che se una bocca inizia a muoversi in modo strano davanti ad un bimbo di 8 mesi, ciò non attira il suo interesse. Ho sempre pensato il contrario». Secondo Weikum la perdita di tale abilità è spiegata dalla perdita di interesse nell´osservare le labbra se si parla loro sempre con lo stesso linguaggio.
Alla stessa età i bambini perdono anche altre capacità che possiedono nei primissimi mesi. A 6, ad esempio, sono in grado di distinguere due volti di scimmie che ad un adulto appaiono identiche, ma non sono più in grado di percepirne la differenza a 8 mesi. E sempre prima degli 8 mesi i neonati sono in grado anche di percepire i diversi ritmi musicali, caratteristica che si perde al superamento dell´ottavo mese.

Repubblica 26.5.07
La parola "in" oggi ha molti significati. Pochi sanno che nell'antichità era associabile alla dea Estia, cioè a colei che rende sacro il lavoro dell'analista. Ecco il racconto sul mistero dell´anima e sugli archetipi che la illuminano di James Hillman


Soltanto una cosa certa abbiamo imparato facendo analisi, l´importanza del piccolo e particolareggiato. Il mio viaggio junghiano - e uso non a caso la parola "viaggio" perché si trattò proprio di un viaggio, dall´India himalayana attraverso Israele e la Svezia fino a Zurigo - iniziò con passi da gigante. L´India, le Tipologie, l´Individuazione, i Grandi Sogni, i Simboli Universali (volli fare la mia prima tesi sull´idea di Spirito, e la seconda sul Tempo), insomma GRANDE! Adesso, invece, sembra che io faccia passi da formica, una minuscola attenzione alle più piccole cose.
Ecco il perché di questo minuscolo titolo, "In", anche se non so ancora se non finirà per diventare più piccolo o ancora più grande di grande. Questa è già una dimensione della domanda: l´"in" ha delle dimensioni, una misura, una forma, un luogo?
Prima di arrivare a questo, vorrei però richiamare qualcosa che noi tutti già sappiamo. "In" è senza dubbio la parola dell´anima. "In" è decisamente "in", nella psicologia del profondo: in analisi, in terapia, in transfert, in amore, in relazione, in lutto, ingravidato, nella tua testa non nel tuo corpo - adesso "in" si è approfondito, è andato oltre, diventando nella mia lingua anche "into", la parola chiave che indica l´essere completamente assorbiti in qualcosa: nel bird watching, nel rap, nella cucina messicana.
La storia del nostro campo conferma questi usi ordinari di "in" e di "into". Fin dall´inizio, locus delle preoccupazioni psicoanalitiche furono la topografia interiore e le dinamiche di regioni, figure e forze, ricordi e sentimenti, flussi e complessi, tutti immaginati come interni, interiori, dentro.
Soprattutto i sentimenti, che sono tenuti "dentro" e lasciati uscire "fuori". Sono profondi, giù dentro di noi, continuamente presenti come colore e ritmo, interiori e riflessivi, che accompagnano il comportamento esteriore. Un´importante obiezione nei confronti del behaviorismo e della terapia del comportamento da parte degli analisti del profondo è stata che il behaviorismo non ha un "dentro". Non c´è nessun "in".
In breve, l´attività principale dell´analisi ha luogo dentro. "In" è dove si svolge la sua azione. È lì che si nasconde la vera persona, quel "me" interiore, e occuparsi di questo mondo interiore - cosa è successo nel passato e cosa potrebbe succedere nel futuro, significa occuparsi attentamente delle intromissioni genitoriali, dei lamentosi residui del bambino interiore, che si accompagnano all´introversione della libido e alle riduttive investigazioni dell´Ombra - quell´agenbite-bite of inwit, come Joyce chiamava l´introspezione piena di rimorsi. "In" è la preposizione chiave in analisi, più importante, credo, di "con". "In" è la direzione chiave del movimento psicologico, l´ubicazione chiave delle psicodinamiche, e la posizione privilegiata dei valori dell´anima. (...)
Noi analisti, nonostante la nostra aumentata capacità di riflettere e di analizzare, non siamo immuni dalla mentalità istituzionalizzata. In realtà siamo più sfortunati rispetto alla maggior parte degli altri professionisti proprio riguardo alla collettività delle nostre riflessioni, perché gli strumenti dell´analisi e della riflessione utilizzati per riflettere sulla nostra professione sono proprio i concetti forniti dall´istituzione. Siamo testimoni ogni giorno della grande impasse di cui spesso scriveva Jung: la grande difficoltà che ha la psiche, se non l´impossibilità, di diventare cosciente di sé per mezzo della psicologia. Come il conoscitore conosce sé stesso? (...)
Riguardo al nostro tema specifico, "in", noi troviamo l´"in" letteralizzato come un posto definito nel quale andiamo - l´inconscio, il corpo, oppure un definito tempo nel passato. Questa letteralizzazione ci fa dimenticare quello che diceva il maestro: non è la psiche che è in me, sono io nella psiche. Noi dimentichiamo e letteralizziamo l´anima dentro la pelle, la mente dentro il cranio, il sogno, l´emozione, la memoria dentro il "me", trascurando la psiche collettiva, l´anima mundi nella quale viviamo tutto il giorno la nostra vita.
A questo punto vorrei differenziare fra i principali usi linguistici di "in". Faccio questo in parte per diventare più consapevoli del predicamento in cui "in" ci mette. E, come diceva Jung, per diventare consapevoli ci vuole differenziazione. Quindi diamo una rapida scorsa a questi usi: li potrete trovare nel vostro dizionario o nella grammatica, dove li ho trovati io.
La preposizione "in" significa dentro i limiti di spazio, tempo, condizione, situazione, circostanza. "In" come limitato, circoscritto, definito. Come ho già detto: in analisi, in amore, nei guai, in tribunale, in pericolo, in fretta, in tempo. "In" come un essere limitati - in un giardino, nei guai, in analisi. Confinamento. Potremmo dire "incorniciato", "circondato". Dunque, quando diciamo che l´anima è nel corpo, non ci limitiamo a intendere "in" letteralmente, come dentro il luogo del corpo, ma anche, più ampiamente, come limitata dal corpo, confinata nel corpo, nelle circostanze del corpo.
"In" è anche il prefisso che introduce diversi significati:
1. Un prefisso negativo, privativo: indecisione, indistinto, inammissibile, ingiustizia, insano, incesto (come "non casto"), incapace, inconscio.
2. Il prefisso "in" significa anche un movimento in avanti che continua. Entrare, introdursi in qualcosa, e poi essere in essa, dentro di essa.
3. Questo significato di movimento continuato in avanti si mescola con un terzo significato del prefisso, in parole come incluso, inviluppato, intrappolato, incantato, inveterato, ingerito, innato, iniziato - dove siamo al tempo stesso veramente, effettivamente "in", e continuiamo il movimento sempre più all´interno nello stato che viene descritto.
In breve, "in" è una parola che rinchiude, imprigiona, intrappola.
Sembrerebbe che la parola "in" agisca come una forza archetipica - entrare nell´inconscio ci porta veramente ed effettivamente nella nostra situazione, nei nostri sentimenti, nei nostri ricordi, e avvolti nel transfert.
Dalla preposizione e dal prefisso non c´è che un piccolo passo per arrivare al sostantivo "in": coloro che sono "in", che sono "dentro", nel senso di "affiliati". Una persona che è "in" è al corrente di ciò che succede all´interno della riserva privilegiata, entro i confini di un particolare stato o condizione, tempo o luogo. (...)
Ma allora qual è il potere, chi è il Dio o la Dea che ci attira dentro, che ci mantiene dentro? Cos´è questa archetipica insistenza sull´interiorizzazione e sulla salvaguardia della santità dell´"in"? Io credo che la risposta a quel "chi?" sia Estia.
Prenderò adesso in considerazione alcuni passi del materiale che ho raccolto, soprattutto tra quello di cinque autori che hanno scritto di Estia e hanno già selezionato le fonti classiche e si sono immersi nel materiale che riguarda questa dea. Così citerò, oltre all´Inno omerico a Estia, Cults of the Greek States di Farnell, il capitolo su Estia in La grazia pagana di Ginette Paris, il saggio su Estia di Barbara Kirsey tradotto in I fili dell´anima, quello di Stephanie Demetrakopulos in Spring 1979 e quello di Paola Coppola Pignatelli in Spring 1985. Per ragioni di brevità, mi limiterò a citare alcune frasi di questi autori facendo via via pochi sporadici commenti, chiedendovi di guardare questi brani in funzione del lavoro analitico.
Prima però due parole su Estia in generale. Fu lei la prima di tutti gli immortali a essere onorata con libagioni e processioni - prima di Zeus, prima di Era, di Demetra e di Gaia. Come noi diciamo "alla salute!", prosit, santé, salud, kampei, l´echaim, i Romani dicevano "Vesta!". Era il focolare acceso, il focolare che emana calore. Questa è la sua immagine, il suo locus, la sua incarnazione. La parola latina per focolare è focus, che può essere tradotta nel linguaggio psicologico come l´attenzione centrante che appassiona alla vita tutto ciò che entra nel suo raggio d´azione. Estia è questo. Ovidio parla di Estia come "nient´altro che una fiamma viva". Il suo nome deriva probabilmente dall´indoeuropeo vas, "abitare in". Un´altra derivazione è quella dalla radice di "essenza". In breve, Estia è soltanto "in" e, come la concisione stessa, non è un oggetto visto, ma un focus che ravviva, che illumina, l´essenza dell´anima che abita in qualunque cosa.
- E adesso i brani che riguardano il prestare attenzione, il tenere un diario, le annotazioni del diario, le registrazioni dei sogni che sono la materia del lavoro interiore. Dice Platone ne Le leggi: "I giudici di un accusato che ha peccato contro gli Dei, i genitori o lo stato, alla fine di ogni giorno mettano per scritto tutte le cose attinenti al caso e depositino i rotoli sull´altare di Estia" (856 a).
- L´analisi come sostegno, come nutrimento, come un alimentare l´anima, come supporto incondizionato, come madre positiva: "Il 15 aprile a Roma venivano sacrificate a Vesta delle mucche gravide per assicurare un´abbondante disponibilità di latte". Vesta si occupava anche delle provviste di sale e della farina sacra (mola).
- L´analisi: un giorno alla volta, una seduta alla volta. Mantenerla fresca: "Le vestali non potevano conservare l´acqua ma dovevano andarne a prendere ogni giorno soltanto quella necessaria, in uno strano recipiente fatto appositamente per quello scopo. Il vaso aveva una base così stretta che non poteva stare dritto [non era possibile l´immagazzinamento; non si poteva usare acqua vecchia; la strettezza della base = la stretta disciplina del contenitore] e [questo conteni-tore] era chiamato futile."
- Quando finisce l´analisi come servizio all´"in"? L´"Analisi terminabile e interminabile" [Unendlich] di Freud. "Il più comune aggettivo/attributo di Vesta era eterna."
- Sulla terapia delle coppie e la risoluzione del conflitto. L´analisi come rifugio, come luogo sicuro. "Le controversie erano appianate presso l´altare di Estia". "Il focolare era anche un luogo per fare pace e per accordare clemenza." "Non prende parte alle guerre, alle rimostranze o alle relazioni fra gli Dei e i mortali." "Estia è capace di custodire le immagini."
- Il prossimo gruppo di immagini attesta l´impersonalità del lavoro e la sua numinosità, la traslazione anziché la relazione umana. Anche qui, quelle che seguono sono citazioni dirette dei cinque autori già menzionati. "Un aspetto centrale della coscienza di Estia è la propensione per l´anonimato." "Quando gli uomini giuravano su Estia, giuravano sul focolare sacro, non necessariamente su una qualche personalità." "La meno antropomorfica di tutte le divinità elleniche." "Una presenza potente, non un individuo personale." "Un numen più che una divinità."
- Sulla privatezza e la sicurezza del temenos analitico. "La frase ‘sta sacrificando a Estia´ divenne proverbiale di una faccenda segreta." "Asilo sacro dove poter trovare rifugio." "L´offerta sacrificale a Estia non è mai un sacrificio violento, con spargimento di sangue."
- Sull´assenza di intervento personale, cioè il concetto freudiano che l´analisi proceda per "astensione." "Non esisteva quasi nessun racconto su di lei." "Non indica alcun movimento."
- Sulla natura del progresso analitico e le descrizioni del Sé: "È sempre seduta su elementi circolari, così come circolari sono i luoghi dove è venerata."
- Sul primato della famiglia nell´analisi dell´individuo: "Specialmente connessa con la vita e la legge della famiglia e del clan." "L´unica vera cerimonia celebrata in suo onore [...] sembra essere stata un pranzo familiare." "Senza di lei gli umani non avrebbero feste." "Presiede alla progressione ‘da crudo a cotto´ che trasforma la natura in cibo."
A questo punto vorrei soffermarmi a distinguere fra la famiglia letterale - nel senso di Era, o della famiglia come generazione di figli, o anche della casa in sé - e la struttura psichica interna - che adesso noi formuliamo come sistema famiglia, quello che i Romani chiamavano gens, quello spirito invisibile che vi regna, l´anima della famiglia condivisa durante un pasto in comune, l´atto primario di civilizzazione. Non la coltivazione del cibo o la preparazione del cibo - Demetra e Afrodite - ma il rituale del mangiare il cibo insieme. Il fast-food da McDonald e il "mangiar fuori di corsa" possono fare di più per profanare Estia e danneggiare l´anima della terra di quanto non facciano tutte le altre cose che sono state proposte come causa della disfunzione della famiglia: i padri assenti, la violenza in televisione, le droghe, gli abusi, ecc. Il pasto condiviso, ricordiamocelo, è centrale per la vita contadina greca, italiana, ebraica, orientale, afro-americana e medio-occidentale, tanto che il rituale mangiare insieme anziché il dormire insieme potrebbe essere qualcosa che gli analisti al servizio dell´"in" di Estia potrebbero prendere in considerazione.
Torniamo alle citazioni.
- "Non lascia il suo posto; dobbiamo andare noi da lei." Nel Fedro di Platone, quando gli undici Dei muovono in volo nel cielo, Estia, "sola, rimane in casa degli Dei." (247a) "A lei è attribuita l´invenzione dell´architettura domestica." "La sua immagine è architettonica." "La sua immagine e il suo luogo sono identici." Sono brani dai quali ho tratto la conclusione che l´analisi, come rituale estiano dell´interiore, deve svolgersi in una situazione chiusa. Soltanto lì può esserci focus. L´analista non prende appuntamenti fuori, non fa house calls, perché il rituale è un rituale di luogo. Fin dagli inizi, in Bergstrasse e Seestrasse, la coscienza analitica "ha luogo" in uno spazio sacro, che dà un focus ai contenuti psichici. L´interiore si rivela fra le pareti e può essere estratto dalla sua errata collocazione nella "mia" storia passata, nella "mia" vita personale e nel letteralismo delle "mie" relazioni. L´arrivare e l´entrare nel luogo del terapeuta e l´allontanarsene sulla porta riverbera con le tensioni del rituale dell´entrare e dell´uscire dai confini di Estia. Architettonicamente Estia era accoppiata a Ermes. Lui all´esterno, lei all´interno. Via via che ci spostiamo verso l´ipertrofia di Ermes - ciberspazio, CD-rom, telefoni cellulari, satelliti, call-waiting, realtà virtuali - possiamo essere connessi dovunque "fuori" e avremo sempre più un disperato bisogno della centrante forza circolare di Estia, che ci impedisca di dissolverci nello spazio. In altre parole, in questo tempo di eccessivo Ermes l´analisi junghiana classica, rivolta verso l´interno, in quanto rituale osservanza di Estia, può essere più necessaria di quanto non lo sia mai stata.
- Sulle infrazioni specificamente sessuali in terapia: "Estia è immune dal potere di Afrodite e dalle frecce di Eros." "La sessualità deve essere nascosta a Estia." "Il desiderio di Estia di non sposarsi mai." Sicuramente conoscete la storia di Estia che sonnecchiava presso il focolare quando Priapo attraversò la soglia del suo territorio per violentarla, ma lei, svegliata dal raglio di avvertimento di un asino, lo fece fuggire via. Il fuoco di Priapo non ha a che fare con la fiamma del focolare. La sessualità diretta, sfrenata, non vi ha posto. Questo spauracchio, che è saltato fuori in analisi fin dal suo primo caso con Josef Breuer, e il purismo etico con il quale gli si resiste, fa parte del mito e del rituale di Estia. A Roma, per esempio, le vestali addette al suo culto erano vergini. Se qualcuna si macchiava in qualunque modo
- per l´andatura seduttiva, i capelli portati lunghi, l´abito immodesto, o anche un atteggiamento troppo scherzoso e malizioso - poteva essere, e di fatto lo era, seppellita viva in una stanza sotto terra, isolata e "cancellata" (questa è la parola usata dal testo), così come la nostra professione cancella il nome dalla lista degli analisti, li scomunica dall´associazione. Il nostro quieto conformismo rappresenta i rituali di un antico culto, dichiarandoci così in quel culto. La nostra purezza sessuale riguardo all´analisi è qualcosa di più che una puritana correttezza morale : è richiesta dalla Dea dell´"interiore". (...)
Adesso, in conclusione, vorrei spiegare più chiaramente ciò che, a partire da questa accozzaglia di note, mezzi pensieri e citazioni, ho cercato di dimostrare. Come prima cosa ho voluto affermare la preminenza di questa piccola parola e prefisso, "in", come una dominante della nostra ontologia analitica. Per questo vi ho condotto attraverso un riesame della semantica dell´"in".
Poi ho voluto mostrare l´approccio proprio di una psicologia archetipale, il ricorso al suo metodo per salvare il fenomeno, essendo in questo caso il fenomeno i sentimenti e gli importanti valori che restano attaccati alla parola "in", anche dopo che abbiamo applicato intellettualmente l´acido della decostruzione. Anche dopo aver deletteralizzato l´"in" e riconosciuto che esso non è letteralmente in nessun luogo, il richiamo dell´interno, del più intimo, dell´interiore, dell´introvertito, del dentro, non se ne va.
Ho poi giustificato questo attaccamento all´"in" come valido dal punto di vista archetipale. Cioè, il nostro amore per il carattere interiore dell´analisi non deriva semplicemente dall´abitudine storica di localizzare l´anima dentro la pelle, o dall´eccesso di soggettivismo e di personalismo che abbiamo coltivato nella nostra cultura cristiana, convertita fin da Agostino e poi da Cartesio, e da pensatori estremamente political correct, compresi Freud e Jung. Invece ho sostenuto, nell´ultima parte di queste osservazioni, che questa profonda importanza è data da Estia, e che l´analisi, oltre a essere in molti casi una rappresentazione del mito di Amore e Psiche, di Demetra e Persefone, di Ade, di Ermes, di Ercole e soprattutto di Edipo, con le sue intuizioni autodistruttive, è un rituale di Estia, un´osservanza che si prende cura del suo focolare.
Per me, questa scoperta di Estia fra i cocci del mio decostruito tempio analitico è stata una rivelazione di un valore immenso, perché Estia non conosce le distinzioni fra pubblico e privato, fra interiore ed esteriore - nel senso di introspezione psichica e attività politica -, fra sé e comunità. Al servizio di Estia si potrebbe non essere o più segreti e silenziosi o più comunitari e sociali. La scoperta di Estia fra le mie rovine significa anche per gli analisti che se Estia è colei che rende sacro il nostro lavoro, allora quello che il paziente fa e che noi facciamo nel municipio per mantenere ardenti i suoi carboni è parte del fare anima, altrettanto di quanto lo è qualunque sogno, qualunque ricordo, emozione o intuizione.

Repubblica 26.5.07
E Schopenhauer incontrò Buddha Esce "Il mio Oriente", una raccolta di scritti dispersi del grande filosofo di Franco Marcoaldi


Heidegger negava l'esistenza di un pensiero fuori d'Occidente

All'apice della comunione spirituale si apre una crepa insanabile (Hegel)

Considerava la vita una strada sbagliata da cui si deve tornare
Era affascinato dal pensiero indiano che trovava congeniale Heidegger negava l´esistenza di un pensiero fuori d´Occidente All´apice della comunione spirituale si apre però una crepa insanabile

La tradizione vuole che il principe Siddhartha Gautama (poi Buddha: il risvegliato), dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d´ogni genere, ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un mendicante, un malato, un vecchio e un morto. Bastò questo perché il giovane Siddhartha abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di un unico, immenso problema: come sradicare il dolore, che, a suo dire, nasce dalla continua sete dell´Io, destinata inevitabilmente alla frustrazione.
Arthur Schopenhauer non era un principe ma un figlio della borghesia e non visse nel subcontinente indiano del VI secolo avanti Cristo ma nell´Europa dell´Ottocento, eppure, ad ascoltarne le parole, la sua illuminazione fu più o meno la medesima: «a diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l´opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti».
Così comincia Il mio Oriente, un intarsio di testi, «tratti dal mare magnum delle carte manoscritte» ed egregiamente curati da Giovanni Gurisatti per l´editore Adelphi (pagg. 225 , euro 11), che ci consentono di seguire passo passo il viaggio di avvicinamento a un mondo che sin lì la filosofia europea aveva poco o punto considerato. Del resto, il medesimo vizio di arroganza culturale ha finito per marcare una parte considerevole della stessa filosofia europea novecentesca, come di recente ha ricordato Giangiorgio Pasqualotto nella sua introduzione all´opera del filosofo giapponese Nishida Kitaro, Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri). Basti, per tutti, il nome di Heidegger, il quale, mentre propugnava «l´ascolto del Linguaggio», in un "eloquente inciso" negava l´esistenza di un vero pensiero filosofico extra-occidentale, tanto in Cina quanto in India.
Ma torniamo al nostro Schopenhauer, che, al contrario - proprio nel momento di massima fortuna di Hegel, altro campione dell´eurocentrismo filosofico - fece da battistrada a un atteggiamento opposto: sorpreso com´era dalla «prodigiosa corrispondenza» del proprio pensiero con quello indiano e perciò stesso convinto che l´Oriente disponesse di una marcia in più. Anche nei confronti dei maestri occidentali a lui più prossimi: «Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhart e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo».
Cos´è dunque che affascina così tanto Schopenhauer? Quali sono le sue convinzioni e i punti di contatto, le sorprendenti affinità che rintraccia nella tradizione indiana e nel buddhismo in particolare? L´autore de Il mondo come volontà e rappresentazione è convinto che l´individuo non si muova sorretto dall´intelletto e dalla conoscenza, ma irresistibilmente sospinto da una volontà cieca e smodata, dalla tirannia di un desiderio che non conosce fine e sbocco, procurando di conseguenza una sofferenza senza limiti.
E poiché il Nostro non è uomo di balletti intellettuali, ma ama andare direttamente al punto, sostiene senza mezzi termini che il vero cuore della "volontà di vita" è il rapporto sessuale. «Dietro una maschera di morigeratezza, esso diventa sempre il protagonista assoluto: è la causa della guerra e lo scopo della pace, il fondamento del contegno e il fine dello scherzo, la fonte inesauribile del motto di spirito, la chiave di tutte le allusioni e lo scopo di tutti i cenni misteriosi, di tutte le proposte non fatte e di tutti gli sguardi furtivi; è l´ossessione quotidiana di giovani e di anziani, l´idea fissa della lussuria e il sogno della castità, sempre ricorrente a dispetto della propria volontà. In forza del suo potere assoluto di legittimo e autentico padrone del mondo, lo si vede in ogni attimo piantarsi sul trono che gli spetta, e da lassù deridere con gesto beffardo le misure adottate per imprigionarlo, se possibile, e tenerlo completamente nascosto, o almeno imporgli dei limiti in modo che si manifesti esclusivamente come una faccenda della vita del tutto secondaria e subordinata».
Certo, se si pensa alle vicende biografiche del filosofo tedesco raccontate in Entretiens (Criterion), viene spontaneo rimandare questa ossessiva insistenza teoretica al senso di tortura patito da chi, a dispetto di una conclamata misoginia, si era sentito a lungo schiavo della «cagna della sessualità»; preso in trappola dall´eterno femminino che «come la seppia, fugge e uccide sparando il suo inchiostro, navigando poi a suo agio in quell´acqua melmosa».
D´altronde, il filosofo de Il mio Oriente avrebbe buon gioco a rispondere che il suo pensiero (a differenza dei mistici) non muove dall´«interiorità» ma dall´«esteriorità», e che comunque soltanto gli eunuchi o gli ipocriti possono considerare la centralità attribuita alla libido sessuale come un´esagerazione.
Altrimenti perché gli indiani avrebbero eletto il «linga» e la «yoni» a simboli religiosi della vita della natura? Non v´è dubbio, «la pulsione sessuale è di per se il nocciolo della volontà di vita». Di più: «è ciò che perpetua e tiene unito l´intero mondo delle apparenze».
Ed è proprio qui, sempre secondo Schopenhauer, che si apre la grande distinzione tra religioni dell´errore e della verità. Al primo ceppo apparterrebbero ebraismo e islam, che attribuiscono «la massima realtà all´apparenza», che «fanno dell´esistenza uno scopo in sé», che sono rigidamente monoteiste e aborriscono gli idoli, che prevedono un inizio e una fine del mondo.
La religione della verità invece, è quella dei Veda, da cui derivano il buddhismo e «il Cristianesimo del Nuovo Testamento nel senso più stretto». In questo caso il mondo è riconosciuto «come una mera apparenza, l´esistenza come un male, la redenzione da essa come la meta, la completa rassegnazione come via». Peccato che la «bitorzoluta mitologia del Cristianesimo» sia figlia «di due genitori assai eterogenei, nata com´è dal conflitto tra la verità sentita e il monoteismo giudaico esistente, che le si contrappone in modo essenziale. Ne deriva anche il contrasto tra i passi morali del Nuovo Testamento - che sono eccellenti, ma che occupano soltanto 10-15 pagine circa - e tutto il resto, che consiste, da un lato, di una metafisica incredibilmente barocca, forzata a dispetto di ogni umano buon senso, dall´altro di favolette fatte per destar meraviglia».
Il cristianesimo che affascina Schopenhauer, dunque, è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l´antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all´esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: la vita è «una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro».
Come però mette bene in luce Gurisatti nella sua postfazione, proprio qui, all´apice di questo tragitto di comunione sprituale, si apre una crepa insanabile tra Schopenhauer e l´India. Forzando oltremisura l´aspetto negativo del pensiero buddhista, egli ammanta la figura capitale del nirvana di un tratto nichilista che non gli è proprio. E al contempo sottovaluta l´autentica saggezza buddhista, che, «rifiutando ogni ontologizzazione del dolore, del sé e del carattere, prevede la possibilità per tutti della guarigione e della trasformazione di se stessi, dunque l´oltrepassamento della sofferenza tramite la cosiddetta "via di mezzo"».
Questo «anacoreta del pensiero puro», finisce così per dimenticare il tratto fortemente empirico del buddhismo. E´ il Buddha stesso a dire: «come si saggia l´oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell´inconsistenza e dell´impermanenza del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità.
Ma a chi, scrive ancora Gurisatti, pensava alla salvezza come a un radicale ripudio e annichilimento dell´esistenza, non si attagliavano parole come quiete, gioia, serenità. Tutt´altre furono le caratteristiche di «un uomo malinconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino sdegnosamente arroccato su se stesso», e soprattutto inestricabilmente legato a un «occidentalissimo senso tragico della vita». Ecco perché Schopenhauer «fu senz´altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo. Malgré lui».

Repubblica 26.5.07
Cheniér e i fantasmi del cuore
Un saggio di Lionello Sozzi
di Benedetta Craveri


"Il paese delle chimere" è una riflessione sul tema dei sogni e delle illusioni nella cultura occidentale
Salì sulla ghigliottina insieme ad un altro letterato, Roucher, il 25 luglio del 1794
Al centro la figura del poeta francese decapitato durante la Rivoluzione
Secondo Baudelaire le illusioni per quanto diaboliche restavano approdi sublimi
Se la condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi non sarebbero morti

A Parigi, nelle prime ore del pomeriggio del 25 luglio 1794, due poeti, Jean-Antoine Roucher e André Chénier, si ritrovarono insieme sulla carretta che doveva condurli fino ai piedi della ghigliottina eretta alla Barriera di Vincennes. Roucher, allora sulla soglia dei cinquant´anni, aveva conquistato la notorietà con un poema sui Mesi, mentre il trentaduenne Chénier non aveva dato alle stampe che pochi componimenti e lasciava dietro di sé una vasta opera incompiuta. Solo la pubblicazione postuma dei suoi versi, avvenuta venticinque anni dopo, avrebbe rivelato alla Francia che la Rivoluzione l´aveva privata di uno dei suoi massimi poeti. I due amici impiegarono il tempo del tragitto dal tribunale al patibolo recitando dei versi di Racine ed affrontarono poi impavidamente la ghigliottina, ma diverso era stato lo stato d´animo con cui l´uno e l´altro avevano atteso che si consumasse il loro destino. Nei mesi di prigionia, consapevole della sorte che lo attendeva, Roucher non aveva voluto indulgere ad alcuna illusione di salvezza, scrivendo alla moglie: «Non mi piacciono, amica mia, le speranze di libertà alle quali a volte ti lasci andare. Sono speranze menzognere, e niente è più triste di una speranza delusa. Per conto mio me ne difendo come un crimine».
Chénier, invece, in una delle straordinarie creazioni poetiche scritte in carcere - l´ode consacrata a una vicina di cella, la bellissima Aimé de Coigny -, metteva in bocca alla sua Giovane prigioniera i celebri versi: «L´illusione feconda abita il mio seno./ Su di me le mura di una prigione gravano inutilmente./ Io ho le ali della speranza». Più che in una improbabile salvezza, Chénier sperava presumibilmente che la sua morte potesse servire agli ideali di giustizia e di libertà per cui si era battuto, ma rimane il fatto che se la sua condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi, la morte di Robespierre e la fine del Terrore avrebbero aperto, a lui come a Roucher, le porte del carcere.
Il diverso atteggiamento dei due poeti davanti alla stessa drammatica prova, ci conduce al cuore de Il paese delle chimere. Aspetti e momenti dell´idea di illusione nella cultura occidentale (Sellerio, pagg. 415, euro 24) di Lionello Sozzi, libro di una vita, preziosa summa erudita con cui l´illustre studioso ha dato forma sistematica ai materiali e alle riflessioni raccolte nel corso di anni e anni di ricerche.
Quella di Sozzi è, infatti, una grande inchiesta sulle illusioni, le speranze, i sogni, gli inganni che hanno popolato l´immaginario occidentale e sulla varietà di significati di cui esse sono state investite nel corso dei secoli. Dopo una densa introduzione incentrata sulla "Semantica delle illusioni", in cui si ripercorrono i momenti più significativi della tradizione interpretativa ad esse consacrata, Sozzi illustra i risultati della sua perlustrazione in dieci capitoli dedicati ad altrettante accezioni storiche della tematica presa in esame. E basta passarne in rassegna i titoli - "L´illusione diabolica", "Illusioni, ragione, realtà", "Il paese delle chimere", "L´illusione analogica", "Chimere orrende", "Illusioni perdute", "Vanitas vanitatum", "Disperata speranza", "L´illusione feconda" - per rendersi conto del come, nella lunga durata, sia la messa in guardia dagli inganni dell´immaginazione a prevalere sulla fiducia nella forza vitale e nella capacità di trasfigurazione del reale che essa può portare con sé.
Non è qui possibile seguire, passo passo, il percorso storico e tematico tracciato da Sozzi, sulla scorta di una infinità di letture, attraverso il grande continente della letteratura europea; un percorso che va dall´antica condanna teologica dell´illusione come strumento di Satana fino al rovesciamento definitivo operato da Baudelaire. Nell´Inno alla Bellezza, infatti, il poeta dei Fiori del male affermava una volta per tutte che chimere ed illusioni potevano anche essere diaboliche ma conducevano ugualmente ad approdi sublimi. Mi limiterò perciò a ricordare, prendendo ad esempio Chénier e Roucher, i due modi diversi di intendere le illusioni che avevano caratterizzato il dibattito del Settecento, facendone un momento altamente ricco e significativo.
Fin dal secolo precedente, da Bacone a Descartes, da Spinoza a Bayle, la filosofia moderna aveva combattuto gli errori dell´immaginazione in nome della ragione e dell´esperienza empirica, preparando la strada al trionfo dei Lumi. Per i philosophes, scrive Sozzi, «le uniche certezze sono quelle cui approda l´ardimentosa ragione; le illusioni, i fantasmi del cuore, le labili chimere, quasi sempre nutrite di ansia religiosa e di istanze metafisiche, sono fonti di inganno, di ridicoli pregiudizi, di entusiasmo fanatico, si risolvono in un gioco derisorio, che dà parvenza di realtà ai fragili castelli della fantasia, espone al dileggio e all´amara delusione ogni dissennato vagheggiamento». Ed è a queste certezze che Roucher rimase stoicamente fedele, nonostante il sanguinoso voltafaccia della Dea Ragione negli anni atroci del Terrore.
Diametralmente opposto, come abbiamo visto, era stato, invece, l´atteggiamento di Chénier. Anche lui era figlio dei Lumi, anche lui credeva nel progresso, nella scienza, nella ragione, ma era troppo poeta per rinunciare ai diritti della fantasia e del sogno. Non a caso aveva celebrato i poteri dell´immaginazione in un bellissimo poemetto rimasto, purtroppo, allo stato frammentario, traendo dalla sua "fantasia infuocata" speranza ed energia per costruire un "mondo nuovo". Ma, in verità, già prima di lui, era stato Rousseau a rovesciare radicalmente i termini della riflessione settecentesca su verità e fantasia, su sogno e realtà, dichiarando che «il paese delle chimere è l´unico degno di essere abitato». Come mostra Sozzi, in pagine di estremo interesse, il grande scrittore ginevrino superava così l´antitesi tradizionale tra illusioni e presente, aprendo due prospettive: «L´illusione come attesa e speranza, come tensione verso impossibili possessi, come slancio verso i confini dell´assoluto, e l´illusione come fiction, come costruzione della mente, come favola consolante pur nella sua vanità». Perseguendo entrambe le strade, nei libri come nella vita, il Jean-Jacques indicava la strada agli scrittori a venire - fossero essi romantici o parnassiani, simbolisti o decadenti, illuminati o maledetti -, dando così alle chimere pieno diritto di cittadinanza nei cieli della letteratura.

venerdì 25 maggio 2007

Repubblica 25.5.07
Replica all’attacco di Montezemolo: ero ospite, no comment
Il gelo di Bertinotti "Ogni cosa a suo tempo"
La critica al capitalismo e gli elogi al discorso di Marchionne
di Alessandra Longo


ROMA - «Ero ospite, ho ascoltato e non commento, mi attengo alla consegna del silenzio». No, non è giorno di interviste e battute. Fausto Bertinotti lascia, scuro in volto e a passo rapido, l´assemblea di Confindustria evitando di aprire un nuovo fronte con Luca Cordero di Montezemolo che l´ha accusato di aver detto «un´autentica falsità» quando ha bollato il capitalismo italiano come «impresentabile». Per quella frase contro Bertinotti son partiti forti gli applausi della sala. Il presidente della Camera ha dovuto incassare, prendendo appunti, in prima fila, senza muovere muscolo. Replicare? Non se ne parla nemmeno, se non altro per dovere formale di cortesia: «Ogni cosa a suo tempo. Ci vorrebbe un discorso molto impegnativo che mi riservo di fare in futuro».
In fondo, un po´ se lo aspettava. Sapeva di aver irritato molti imprenditori con quella sua sortita, lo scorso aprile, sulla vicenda Telecom. Era un venerdì notte, su Raitre: «Il fatto che ci si chieda in queste ore se ci sia un imprenditore italiano con abbastanza soldi per intervenire su Telecom è sconcertante.... Il capitalismo è a un estremo di impresentabilità». Parole gravi, dice subito Confindustria che non ascolta nemmeno la stupita precisazione di Bertinotti: «State confondendo un mio giudizio sul sistema capitalistico italiano, la cui malattia mi sembra evidente, con la capacità imprenditoriale di singole aziende di ottenere delle performance di successo che sono altrettanto evidenti». Ormai è guerra dichiarata. Montezemolo aspetta solo l´occasione per pareggiare il conto. E l´occasione arriva ieri.
Bertinotti e il capitalismo. Non sempre polemiche, non sempre critiche tranchant. Non è un mistero che il presidente della Camera conservi nel suo studio di Montecitorio copia del discorso che Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat, fece nel luglio 2006 all´Unione Industriali di Torino. Un discorso in cui si boccia l´equazione tra risanamento dell´impresa e taglio del costo del lavoro. «Questo borghese mi interessa», fu il commento pronunciato da Bertinotti in una sede politicamente sensibile come la festa di Liberazione. Marchionne, consapevole di essere diventato suo malgrado "un´icona" tornò a parlare della sua filosofia in un´intervista a «Repubblica»: «E´ inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio, pensando così di risolvere i problemi».
Borghesia cosiddetta illuminata, capitalismo che sviluppa le aziende senza licenziare ma anche «capitalismo avanzato che produce precarietà, nuova schiavitù». I buoni e i cattivi. Marchionne sì, Montezemolo e la sua visione del mondo del lavoro no.
Il presidente di Confindustria attacca, Bertinotti annuncia che, a tempo debito, risponderà. Intanto, però, in qualche maniera gira per tutto il giorno intorno all´argomento, evoca «l´imbarbarimento dei rapporti, il primato del mercato, il lavoro nero, la mercificazione». Lo fa, dopo l´assemblea romana, in un contesto diverso, amico, a Firenze, per i 50 anni dell´Arci. Gli chiedono che cosa ne pensa del patto generazionale proposto da Giuliano Amato (e certo ben visto da Montezemolo) per l´innalzamento dell´età pensionabile. La reazione è secca, forse frutto dell´umore: «Propongo di andare di fronte ad una fabbrica tessile del Biellese, aspettare una lavoratrice sui 55 anni con 37 anni di lavoro alle spalle e chiederlo direttamente a lei».

Corriere della Sera 25.5.07
Accolta la richiesta della Cgil, non potranno influire sullo scrutinio finale
Il Tar: «Niente crediti dall'ora di religione»
Maturità, sospesa l'ordinanza del ministro
di Giulio Benedetti

Il sindacato: e chi non segue questo insegnamento?
Rischio di violare la Costituzione


ROMA — I prof di religione non potranno far pesare il loro giudizio nell'assegnazione del credito scolastico della maturità (oggi fino a 20 punti) ai ragazzi che si avvalgono dell'insegnamento.
Il Tar del Lazio ha sospeso in via cautelare l'ordinanza del ministero numero 26 del 15 marzo (che prefigura la riforma degli esami di Stato) nei paragrafi che riconoscono al docente di religione questa facoltà. La sospensiva arriva a pochi giorni dalle riunioni dei collegi dei docenti. Nessun commento, per ora, dal ministero dell'Istruzione.
Viale Trastevere impugnerà la decisione del Tar? Il tempo per prendere una qualunque iniziativa è molto limitato. È probabile che nella prossima tornata di esami i circa 20 mila docenti di religione non potranno dare il loro contributo, in alcuni casi significativo, per la valutazione della «carriera scolastica» dei ragazzi, come erano soliti fare dal '99 quando la maturità è stata riformata. La richiesta di sospensiva è stata inoltrata da sindacati, associazioni e da confessioni religiose diverse da quella cattolica. La contesa sulle prerogative dei prof di religione vede schierati da un parte il sindacato e le associazioni laiche, convinti dell'inammissibilità del loro giudizio ai fini della bocciatura, promozione o ammissione agli esami di Stato degli studenti che seguono l'insegnamento; dall'altra le associazioni cattoliche. L'ordinanza del 15 marzo, con la quale Fioroni ha ribadito che la frequenza dell'insegnamento della religione cattolica o dell'attività alternativa consente di attribuire il credito scolastico, ha riacceso lo scontro.
Il tribunale amministrativo, commenta con soddisfazione Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil, ha ravvisato in alcuni punti dell'ordinanza, «il rischio di violazione della Costituzione e di altre norme di legge». «Sul piano didattico - continua Panini - l'insegnamento della religione non può, a nessun titolo, concorrere alla formazione del credito scolastico per gli esami di maturità, perché ciò darebbe luogo a una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono nè l'insegnamento religioso nè usufruiscono di attività sostitutive». Secondo il sindacalista «sarà ora compito del ministero avvisare urgentemente del cambiamento di indicazione le scuole che tra pochi giorni saranno impegnate negli scrutini». «Questa decisione ci meraviglia molto — afferma Nicola Incampo, docente di religione e collaboratore del sito Cultura Cattolica — perché l'ordinanza del ministro Fioroni ha esteso il riconoscimento di un credito anche ai ragazzi che non seguono l'insegnamento della religione cattolica, che hanno seguito le attività alternative». «Fioroni - ha concluso Incampo - non ha fatto altro che confermare quanto il ministro Berlinguer, nel '99, aveva già predisposto quando aveva riformato l'esame di Stato».

il manifesto 25.5.07
Sinistra democratica La Roma che sta con Mussi cerca una Casa comune. Viaggio nelle sezioni
I post-comunisti della capitale
Testaccio, Garbatella, Tufello, la cintura popolare e anche quartieri centrali e socialmente misti non si sono fatti irretire dalle sirene veltroniane che cantano le lodi del Partito democratico. Non vogliono un altro partitino ma un processo unitario. Parlano di lavoro, pace, casa, salute. E partecipazione
di Loris Campetti


Roma Testaccio, Garbatella, Tufello. Sono quartieri popolari dove è storicamente è fortemente radicata la sinistra romana. Qui la mozione Mussi-Salvi ha vinto l'ultimo congresso dei Ds, in alcuni casi con percentuali che al tempo del Pci si sarebbero definite bulgare. Con la sinistra si è schierata gran parte della cintura popolare, da Prima Valle a Torre Angela. Ma anche in sezioni con una composizione sociale mista, come Alberone, Talenti, Esquilino, Trionfale, Fassino ha dovuto incassare una pesante sconfitta. Lo stesso è successo a Ostia e Ostia antica, o a Vitinia sulla via del mare. La mozione Mussi è andata bene anche in quartieri né popolari né di sinistra, come la Balduina. Il 23% dei voti a Roma, a cui si aggiunge il 13% della mozione Angius, la cui partecipazione numerica alla formazione della Sinistra democratica «stiamo valutando», ci dice il coordinatore di Sd nel Lazio, Angelo Fredda. Il coordinatore romano, Massimo Cervellini, insiste sulla natura prevalentemente popolare del nuovo movimento e ci suggerisce una riflessione: «In questa città così caratterizzata dal volto e dai modi accattivanti del sindaco Walter Veltroni, ci si sarebbe potuti aspettare un trionfo del metrò che porta al Partito democratico. Le cose non sono andate così, e questo aiuta a capire meglio Roma e le sue sfaccettature». Le scelte individuali sono segnate da tanti elementi. I nomi di spicco, i compagni con ruoli nelle assemblee elettive, dell'area Angius hanno deciso di correre verso il Pd, mentre in quartieri come il Tiburtino o Pietralata chi ha votato la terza mozione congressuale sta passando in massa in Sd. Persino tra i sostenitori di Fassino c'è chi ha già perso le speranze nel Pd, «colpa dell'accentramento burocratico e dei contenuti sempre più centristi. Sta avvenendo all'Esquilino, dove alcuni compagni vengono con noi», dice Cervellini.
Nelle piazze e nei mercati
La prima considerazione del cronista che ha visitato sezioni e incontrato molti compagni e compagne del movimento «Sinistra democratica per il socialismo europeo», è che a Roma esiste e resiste una sinistra forte. E' militante, appassionata, legata al territorio («i comunisti della capitale»); tiene aperte le sezioni tutti i giorni e al sabato garantisce una presenza al mercato di quartiere con i volantini e i questionari, come succede al Testaccio il cui segretario di sezione, Vincenzo Smaldore, ha appena 23 anni; le lotte per la casa e la sanità si alternano con gli attivi su «fase politica e nostri compiti». Gli anziani che abitano le case popolari senza ascensore costruite al Tufello per gli italiani in fuga dalla Libia «li portiamo in braccio al seggio a ogni elezione», racconta il giovane segretario della sezione Fabrizio Picchetti, un figlio d'arte. Le elette e gli eletti nelle circoscrizioni due volte a settimana vanno in sezione ad ascoltare problemi e richieste della «gente».
Sono in molti quelli che dopo aver condiviso o (mal)sopportato tutte le svolte e le trasformazioni del vecchio Pci non sono tornati a casa, né si sono adeguati al nuovo Pd che forse avanza e forse no, anzi ritrovano il gusto di fare politica in una forza che dice di non voler fare un partitino ma di contribuire a riunificare la sinistra. Di anime, però o per fortuna, ce ne sono molte in Sd. C'è chi, trentenne, non ha mai preso tessere e chi la tessera l'aveva stracciata in una delle tante giravolte del dopo muro di Berlino. C'è chi aveva tentato altre strade, in Rifondazione o nel Pdci, ma era rimasto con l'amaro in bocca. Ci sono movimentisti e partitisti. Ci sono tanti delegati, quadri e dirigenti sindacali. Nelle sezioni incontri militanti con un passato nel Manifesto, in Lotta continua, in gruppi cattolici. Ma a Roma incontri soprattutto una forte domanda di partecipazione politica di chi si aspetta un processo unitario nel territorio.
Una fucina del dissenso
La Villetta è la sede storica del Pci alla Garbatella, «presa nel '44, era la sede del Fascio», ricorda il segretario Natale Di Schiena, un ex manifestino «natoliano» che si batte come un leone perché la sezione venga assegnata a Sd: «Abbiamo vinto il congresso con il 61,9% dei voti, a cui se ne aggiungono alcuni della mozione Angius». E' stato eletto segretario dei Ds, e non smetterà di esercitare il mandato congressuale finché non sarà definito il destino della sezione. Qui a Garbatella la sinistra è da sempre egemone, e nel Pci-Pds-Ds è egemone la sinistra. Già nel '66 nei locali dedicati ai partigiani Francesco e Giuseppe Cinelli (uccisi dai nazisti alle Fosse ardeatine), si respirava aria ingraiana. Dopo la svolta di Occhetto fu molto forte la componente che scelse di fondare Rifondazione, conquistando un piano della Villetta. Quartiere popolare, struttura architettonica fascista di pregio nata per garantire al regime il controllo sociale e diventata una fucina del dissenso sociale e politico romano. La Villetta è un punto di riferimento per un quartiere vissuto da operai, impiegati, pensionati e giovani coppie, in cui sono attivi anche il Prc, il centro sociale La strada («con loro mai litigato né fatto iniziative insieme, salvo la dovuta solidarietà in caso di provocazioni fasciste»), una sede dello Sdi. Le iniziative non mancano, dal Festival jazz al Festival dei popoli, alle Feste dell'Unità a cui forse si affiancheranno le Feste di Aprile. Ora Sd sta tentando di costruire un coordinamento nel quartiere tra le forze di sinistra «su casa, salute, welfare», sapendo che «la spinta unitaria è più forte nella base che nei gruppi dirigenti».
«Non abbiamo vinto puntando sul ricordo del passato, una memoria che pure conta: il motore di Sd non è la nostalgia ma la politica, punti di vista precisi sulla questione sociale, la precarietà, il rifiuto della guerra, la laicità», dice Natale. Laicità? «Vai a spiegarlo ai compagni che non hanno mai visto di buon occhio il rapporto Dc-Pci che il futuro è nel Pd con i post-democristiani». Qui tutti pensano che alla prossima scadenza elettorale, le provinciali romane, «la sinistra dovrà presentarsi unita». Per sinistra si intende la sinistra, naturalmente non si parla del Partito democratico che «per una citazione di Togliatti ne fa cinque di De Gasperi«. Alla Garbatella, se sull'Afghanistan si facesse un referendum tra i 123 iscritti della Mussi («Fabio è iscritto da noi»), «si schierebbero tutti per il ritiro».
Anche a Testaccio sventola da sempre la bandiera rossa, affiancata da quella giallorossa della Roma. «Difficile dire chi vincerebbe il referendum sull'Afghanistan, forse finirebbe 50 a 50», dice il consigliere comunale Roberto Giulioli. Paolo «lo splendido sessantenne» sottolinea i rischi di una «fuga da Kabul», Vincenzo il giovane segretario teme «la vendetta dei talebani sulle donne», gli altri compagni e compagne che mi ricevono in sezione scuotono la testa, poco convinti di tutti quei se e quei ma. Più del 60% dei testaccini vota «ancora» a sinistra, il 40% sceglieva i Ds. In questa sezione che comprende anche Aventino e San Sabba, la Mussi ha raccolto il 59%, Angius il 6% e Fassino s'è fermato al 35%. Il quartiere ha subìto una trasformazione radicale, una sorta di rivoluzione che rischia di farne un'area snob della capitale: pub, ristoranti, soprattutto discoteche «che fanno casino fino alle 6 del mattino e la gente non ne può più, la notte non si dorme e non si circola, sembra di essere in via Condotti il sabato pomeriggio». Evi sta preparando un questionario per addentare questa contraddizione e rivendica l'autogoverno del territorio, contro l'accerchiamento del Monte dei cocci. Il 60% dei testaccini vive ancora nelle case ex Iacp, la popolazione sta invecchiando. I militanti di Sd vogliono mettere il becco su tutto e difendono la vivibilità e la composizione sociale del quartiere, in cui convivono tradizione e presunta modernità. I «cavallari» con le stalle e le carrozzelle che di giorno «spupazzano» i turisti tra i Fori e piazza del Popolo vivono accanto all'area in ristrutturazione del vecchio mattatoio dove finirà un pezzo di Università, le Belle arti e quant'altro, «altre 25 mila persone che pendoleranno sul Testaccio, un incubo».
Mentre discutiamo con i e le militanti di Sd nell'ala sinistra della sezione, un sottile muro ci divide dalla riunione dei Ds, anzi dei non più Ds e non ancora Pd. Qui, come al Trionfale, le sedi saranno divise in due («Potevamo forse buttar fuori quel 35% di compagni fassiniani?», si chiede Giulioli. Lunedì il movimento è stato presentato al quartiere in un'assemblea numerosa e partecipata. «C'è entusiasmo - assicura la consigliera municipale Gabriella Casalini - ci siamo liberati da un incubo. Io vengo dal Pdup, e mi devi credere se ti dico che al tempo dei girotondi eravamo accusati di lavorare contro il partito». «Liberazione, ma anche dispiacere per la rottura E un po' d'incertezza per il futuro», corregge un'altra militante. Stringere i rapporti con il resto della sinistra, «lavorare per presentarci unitariamente alle elezioni, ma sapendo che noi abbiamo una cultura di governo, gli altri meno», sostiene Paolo che non nasconde le sue origini «extraparlamentari» ma contesta l'idea che «noi saremmo la tradizione e i fassiniani la modernità». Tutti pensano che il patrimonio culturale cresciuto nel quartiere vada salvaguardato e valorizzato, fermando «i tentativi di trasformare il Testaccio in un parco divertimenti che mettono a rischio la convivenza civile». Qui c'è la prestigiosa Scuola popolare di musica di Giovanna Marini, ma c'è anche un tessuto artigiano «che è una risorsa, non un residuo». I rapporti con il governo? «Lealtà e senso di responsabilità, lo sfascio non serve ma ci sono dei limiti, oltre i quali è importante riconquistare un'autonomia politica», dice Gilioli. «Non si può andare avanti all'infinito agitando lo spauracchio Berlusconi». Il segretario rivendica una continuità con le lotte contro la guerra e le basi americane. Nel volantone colorato che tappezza il tavolo della sezione sono elencate le priorità di Sd: «Lotta alla precarietà; pari opportunità; difesa dell'ambiente; laicità dello stato; etica della politica; pace». «Ci sono gli apparati anche tra noi, ma è più forte la spinta unitaria. Chi aveva come priorità la difesa di un posto, di uno status, ha scelto di trasmigrare con Fassino nel Pd», dice Roberto. Ma è inutile negarlo, anche il Testaccio sta cambiando, nella composizione sociale e nella testa della gente. Mentre mi salutano, i testaccini di Sd, vogliono che appunti sul quaderno un ultimo pensiero collettivo: «Sarebbe bello trasformare questa nostra sede in una Casa comune della sinistra». Fuori, il sole è tramontato, il traffico aumenta e le discoteche si preparano ad accogliere il popolo della notte.
Percentuali bulgare per Mussi
Anche la sezione del Tufello ha una storia ingraiana, massicciamente schierata nel '90 contro la svolta di Occhetto. Le mozioni Mussi e Angius hanno raccolto addirittura l'81% e il 5%. Operai, qualche delegato sindacale, molti edili, pensionati, impiegati, insomma popolo: venerdì scorso hanno partecipato in tanti all'assemblea di presentazione di Sd nel territorio, «abbiamo dovuto mettere le trombe fuori perché la gente non entrava tutta in sala», dice con una punta d'orgoglio il segretario, Fabrizio. Nessuno mette in dubbio la destinazione futura della sede: «anche volendo, i fassiniani non potrebbero tenerla aperta». Nel quartiere operano anche il Prc, lo Sdi, il centro sociale Astra, la Sinistra rosso-verde nata da una fuoriuscita dal Pdci. «Stiamo creando le condizioni per aprire una Casa comune di tutta la sinistra». Il Tufello è accerchiato da speculazioni edilizie e ipermercati, anche qui il controllo del territorio è al vertice dell'iniziativa di Sd.
La Cgil romana non ha una particolare tradizione di sinistra. Eppure, molti quadri e dirigenti hanno sostenuto con convinzione le posizioni di Mussi. A partire dal segretario regionale del Lazio Walter Schiavella che insiste sul carattere personale delle scelte, perché «la Cgil deve restare autonoma». Perché Sd? «Perché non si sente l'esigenza di un altro partito più vicino all'impresa che ai lavoratori. Se è vero che viviamo in una società complessa, le ricette semplici hanno le gambe corte». Tiene a precisare: «Sto con Sd, ma a condizione che lavori a produrre unità e non nuova frammentazione a sinistra». Lavoro e precarietà, casa e servizi, «in una città dove con la modernità crescono aree di marginalità». Una ricetta per invertire la tendenza: «La partecipazione». (2-continua)

il manifesto 25.5.07
Per Giulia Rodano, assessore alla cultura del Lazio, i valori del «rodanismo» trovano spazio nella Sd
«Un movimento per unire la sinistra»
di Lo. C.


Giulia Rodano è assessore alla cultura della Regione Lazio. Le è toccato in sorte un cognome impegnativo: il padre Franco è nella storia dell'antifascismo romano, nel '43 fondò il movimento dei comunisti cattolici, mentre la moglie Maria Lisa Cinciari ne era responsabile del gruppo femminile. Con Ossicini e Tatò diede vita al Partito della sinistra cristiana guadagnandosi, nel '45, la scomunica ad personam di Pio XII. Poi il Pci, dove Franco svolse un ruolo importante di confronto e raccordo tra comunismo e cattolicesimo. Ha avuto un rapporto stretto con Togliatti, poi con Berlinguer come «architetto» del compromesso storico. Il rodanismo è stata una componente originale della sinistra romana.
Quanto pesa nel nuovo movimento l'anima partitista?
Sinistra democratica nasce programmaticamente non per fare l'ennesimo partitino ma per essere forza «coalizionale». L'obiettivo è la riunificazione della sinistra, restituendole dignità e diritto di parola. Per dire che il re è nudo, cosa che in epoca di pensiero unico non si dice più. Che sono sbagliate molte privatizzazioni e lo è il metodo adottato per realizzarle. Che serve un'autonomia della politica...
Dalla società è talmente autonoma da non vederla più.
Naturalmente intendo autonomia dall'economia. Io credo nell'intervento pubblico, perché serve un potere democratico che governi il mercato. Va cambiato il cammino imboccato dall'Unione europea che oggi è solo politica monetaria e Bolkestein, con un'iniezione di politica economica e di politica sociale. Per tornare in Italia, come Sd abbiamo a cuore lo scandalo dei costi della politica che hanno qualcosa a che fare con la caduta della partecipazione popolare e democratica: prima che una questione morale, come direbbe Berlinguer è una questione democratica.
Coalizionali, ma per non perdere tempo avete già le tessere.
Per svolgere una funzione politica dobbiamo costituire dei gruppi nelle istituzioni, anche per essere un punto di riferimento per chi vuol tornare a fare politica, e sono tanti. I rischi di apparato esistono, come forma di resistenza, ma possono essere sconfitti. A Roma il congresso è andato bene perché c'è un elettorato d'opinione di sinistra, non solo scontenti e apparato. Così come non credo in un nuovo partitino, non credo nelle fusioni fredde tra gruppi dirigenti delle forze esistenti. Credo invece che dovremo arrivare a una presentazione unitaria già alla prossima tornata elettorale. In Regione abbiamo costituito un coordinamento tra le forze di sinistra, ci vediamo settimanalmente per definire gli interventi comuni.
Esiste ancora il «rodanismo»?
E' una domanda difficile. Certo non esiste una corrente rodaniana in Sd, dove però vivono molte idee di mio padre, certamente più che nel Pd. L'eredità più importante è una concezione profondamente laica della politica.
La laicità dei catto-comunisti?
Certamente, a partire dalla consapevolezza che «il Regno non è di questo mondo». Un'altra eredità consiste nella convinzione che il mercato va governato, perciò serve un'autonomia della politica. Infine, se posso citare un libro di mio padre («Lezioni di storia possibile», ndr), pensiamo che è sempre possibile un'altra storia ed è nelle mani degli uomini e delle donne.

giovedì 24 maggio 2007

l’Unità 24.5.07
Da oggi a Firenze la conferenza sulla famiglia
Dopo il Family day parte l’attacco alla legge sull’aborto
di Maria Zegarelli


A Roma in Piazza San Giovanni la spallata ai Dico, a Firenze dove oggi si apre la Conferenza della Famiglia, l’attacco alla legge 194. D’altronde Savino Pezzotta lo aveva detto: «Il Forum delle Famiglie si farà sentire». Alla Conferenza della Famiglia che si concluderà sabato le famiglie cattoliche arrivano con una proposta di legge che sa di provocazione: 34 articoli per dare il via, di fatto, alla riforma della legge 194. Esclusione delle procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza dalle competenze dei consultori, aiuti economici (fino ai cinque anni di età del figlio) per le donne che rinunciano ad abortire e una lettera del medico di base inviata a casa in cui si ricorda alla donna «il dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’Ivg».
Savino Pezzotta aveva avvertito. Il Forum delle Famiglie si farà sentire. Promessa mantenuta. Alla Conferenza della Famiglia che parte oggi a Firenze e si concluderà sabato le famiglie cattoliche arrivano con una proposta di legge che sa di provocazione: 34 articoli per dare il via, di fatto, alla riforma della legge 194. Esclusione delle procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza dalle competenze dei consultori, aiuti economici (fino ai cinque anni di età del figlio) per le donne che rinunciano ad abortire e una lettera del medico di base inviata a casa in cui si ricorda alla donna «il dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’Ivg». E questa sarà la posizione ufficiale delle gerrachie alla Conferenza, visto che monsignor Betori ha indicato proprio nel Forum l’organismo «che esprime il sentire del mondo cattolico sulle problematiche della famiglia». E questo il primo risultato post-Family Day. Dopo i Dico, la legge 194. Secondo il Forum i consultori dovrebbero occuparsi di assistenza sociale e psicologica alle persone in difficoltà, con lo scopo ultimo di salvaguardare l’unico modello di famiglia che riconoscono. Avvalendosi anche degli oratori. Un’altra «grana» che scende sull’iniziativa voluta dal ministro Rosy Bindi e che ha già creato aspre polemiche e molte defezioni per la scelta del ministro di non invitare soltanto le associazioni di coppie di fatto etero e omosessuali ad una tre giorni intensa dove sono iscritte duemila persone. Da Firenze tutti - dalla politica alle associazioni - si aspettano un piano di politiche per le famiglie.
Oggi arriverà il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e sabato quello del Consiglio Romano Prodi. Grandi numeri, grandi obiettivi, molte assenze. A confronto nove ministri del governo, partiti, sindacati, associazioni e enti locali. Non ci saranno, Paolo Ferrero; la sinistra, «perché la decisione di non invitare le famiglie di fatto è, oltre che profondamente errata, una discriminazione che impedisce alla Conferenza di rappresentare davvero un luogo di confronto tra opinioni diverse», come scrivono in una nota i capigruppo del Senato di Sd, Prc, Verdi, Prc, Rnp e Pdci. «Mi dispiace che alla Conferenza sia stato escluso qualcuno - dice la ministra Barbara Pollastrini -. Rimango convinta che investire sulla famiglia significhi, innanzitutto, investire sui diritti di cittadinanza delle persone. Per questo non c’è contraddizione tra sostegno alle famiglie e allargamento di diritti e doveri di tutti i cittadini». Fiorenza Bassoli, responsabile welfare ds, dice che su quoziente familiare e interventi sull’Ici, la posizione del partito è quella di una «condivisione dello spirito del quoziente familiare, purché si lavori sul metodo da seguire nel proporlo».

Corriere della Sera 24.5.07
Da Fassino alla Sereni, nei Ds corsa al dialogo con la Chiesa
di Fabrizio Roncone


Le aperture del segretario sui Dico, la Turco che difende Bagnasco. Carra: leggendo certe parole non si crede a chi le ha dette

Di fronte agli attacchi della Cei, il leader del partito ha invitato Santoro alla prudenza sui preti pedofili

ROMA — C'è, sembra di capire, una specie di deriva verso il mondo cattolico. «C'è che alcuni titoli di giornale — dice Enzo Carra, ex democristiano di lungo corso, portavoce di Arnaldo Forlani e adesso teodem: uno che ammette di avere Francesco Rutelli come leader politico e papa Ratzinger come guida spirituale — ecco c'è che devi davvero leggerteli due volte prima di capire chi abbia fatto certe dichiarazioni». Perché, cos'è che non si capisce? «Chi è che parla». La deriva. «Diciamo una corsa a posizionarsi. Così magari ti ritrovi con una ex comunista molto complimentosa con un alto prelato...».
Fuori dalla metafora: l'altro giorno c'è stata la Livia Turco, ex comunista di stretta osservanza dalemiana e combattivo ministro della Sanità, che ha chiaramente espresso parole di elogio per l'arcivescovo Angelo Bagnasco. Il quale, appena lo scorso 26 marzo, disse: «I Dico? Sono inaccettabili. Anzi, sono pericolosi». Disse proprio così, il presidente della Cei, e però meno di quaranta giorni dopo ti ritrovi la Turco che addirittura rilancia: «Sono favorevole al dialogo con questa Chiesa. È vicina ai bisogni della società. E poi il presidente della Cei non è vero che alza steccati, non si schiera come in una lotta tra bene e male...».
Raccontano che qualcuno, nella Quercia che stanno cominciando a segare in vista del nuovo Partito democratico, abbia commentato: «Ma se arriviamo a dire certe cose, allora tanto valeva andare in piazza San Giovanni, al Family Day». Ecco, perché poi comincia ad esserci anche questo rimpianto. Perché la festa dei cattolici è stata grande e c'è chi aveva consigliato, diciamo così, di presentarsi. Come Anna Serafini, deputata e moglie di Piero Fassino. Lei l'aveva detto: «Se avessi il dono dell'ubiquità andrei sia dai cattolici a piazza San Giovanni, sia dai laici, a piazza Navona».
Esplicita. Non a caso, quelli che nel Pd non entreranno, scuotevano la testa. Franco Grillini: «È uno scherzo, vero?». E Gloria Buffo: «Adesso avrete capito, spero, che aria tira nella sinistra che va a fondare questo Pd...». Tira un'aria che scuote le tende di velluto rosso della Santa Sede. Sentite Piero Fassino: «Io direi che alla fine non è il caso di impiccarsi alla formula "o Dico o morte"». Insomma, dopo settimane di battaglie a Montecitorio, frenata secca e cambio di strategia: linea morbida. Con gran soddisfazione della Cei che così, giorno dopo giorno, vede lentamente finire il riconoscimento dei diritti per gli omosessuali sul più morto dei binari parlamentari.
Ma non basta. Perché sfogliando la raccolta dei giornali, ci si imbatte in un'altra uscita dello stesso Fassino. Ieri l'altro. Nel bel mezzo delle polemiche che infuriano su Michele Santoro e sui suoi piani, che prevedono la messa in onda, nel corso di Annozero, Raidue, di «Sex crimes and the Vatican», un duro filmato sui preti pedofili che sarebbero stati protetti dal Vaticano e da Joseph Ratzinger, nei mesi in cui era ancora solo un cardinale, ecco che il segretario dei Ds interviene con una sorta di monito: «L'argomento richiede equilibrio e prudenza».
Insomma, le parole sono queste. Magari pesa un sondaggio come quello commissionato dal Botteghino alla Swg, e pubblicato dal Messaggero, che produce un risultato sorprendente: nei Ds, il 70% dei militanti sarebbe cattolico. Ma poi dev'esserci proprio una strategia. Per dire: oggi, a Firenze, si apre la Conferenza nazionale della famiglia e, come si sa, il ministro Bindi non ha invitato le associazioni dei gay. Quando questa decisione divenne pubblica, era il 7 maggio scorso, scoppiò una baruffa polemica. Parlamentari di Rifondazione e del Pdci increduli. Il verde Paolo Cento che sudava nervoso. La Rosy Bindi che stava lì, nel suo ufficio, convinta di ritrovarsi in trincea da sola e invece, pian piano, eccole arrivare i primi attestati di solidarietà. Da dove? Ma da sinistra, naturalmente. Prima Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera dell'Ulivo: «È giusto che Rosy non abbia fatto certi inviti». E poi Maurizio Migliavacca, coordinatore Ds: «Il ragionamento di Rosy ha una sua logica...».
Strappi che diventano comprensibili, moderazione, con la Chiesa non si polemizza più. Con la Chiesa, una certa sinistra, dialoga. Ma in questo, non casualmente, c'è Walter Veltroni che sta qualche stagione avanti. Il 16 novembre del 1994, presentò personalmente a Giovanni Paolo II, in Vaticano, una copia dei sei volumi del Nuovo Testamento che il quotidiano l'Unità, di cui era direttore, avrebbe distribuito ai lettori. L'altro ieri, il sindaco di Roma era invece a Bergamo, con Savino Pezzotta, l'organizzatore del Family Day. Entrambi invitati a un convegno. Su don Primo Mazzolari.

Corriere della Sera 24.5.07
Religioni e pace
Le fedi e la lotta per il potere
di Emanuele Severino


Giganteschi i problemi da affrontare perché la pace regni nel mondo. Ben più complessi quelli per capire che cosa sia la pace. A questo punto l'uomo «pratico» smette di leggere: vuole proposte «concrete», qui, ora. Tuttavia il mondo se ne va per la sua strada: in nessun luogo il «concreto» può prescindere ormai da quanto accade sull'intero Pianeta e da quanto accadrà in un futuro anche non prossimo. Eventi come la globalizzazione economico-tecnologica, la disponibilità delle energie, lo «sviluppo sostenibile» sono irriducibili alla logica del qui, ora. Inoltre la pace è intesa in modi contrastanti. La pace della democrazia o del capitalismo non è quella del cristianesimo o dell'islam. Quale scegliere? E come scegliere se non si sa che cos'è la pace? D'altra parte, quale forma di sapere potrà dircelo? Nel convegno «Dialogo interculturale: una sfida per la pace», che si è tenuto presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma il 3 e 4 maggio scorsi, prendendo la parola dopo l'intervento di Seyyed Mohammad Khatami, ex presidente dell'Iran, ho rilevato che ormai sulla terra ogni sapere e ogni conoscenza sono divenuti una fede.
Mi soffermerò ora su questo tema, tralasciando gli altri della mia relazione; ma si può dire subito che, allora, ci troviamo nella condizione in cui soltanto una fede potrà dirci che cosa è la pace.
Ma, si dirà, e la scienza? La scienza è fede?! Sì. Per avere potenza sul mondo, la scienza ha rinunciato da tempo ad essere «verità», nel senso attribuito a questa parola dalla tradizione filosofica. La scienza è divenuta sapere ipotetico. Sa di non essere sapere assoluto («verità», appunto) - e in questo senso non è fede ma dubbio -; tuttavia per aver potenza sul mondo deve aver fede nella propria capacità di trasformarlo; ed è all'interno di questa fede che essa elabora, risolve o conferma i propri dubbi. La distinzione tra scienza e tecnica appartiene al passato, quando la scienza credeva di conoscere la «verità», e considerava la tecnica come «applicazione di essa».
Certo, la fede scientifica è diversa dalla fede religiosa, dalla fede in cui anche l'arte consiste, ed è diversa anche dalla fede nella quale in effetti consiste la «verità» a cui si rivolge la tradizione filosofica. Diversissime la complessità, coerenza, potenza, consapevolezza di sé delle varie fedi; ma ogni fede è la volontà che il mondo abbia un certo senso piuttosto che altri, o che gli si debba dare un certo ordinamento piuttosto che altri. Proprio perché ha questo carattere, ogni fede è irrimediabilmente in conflitto con ogni altra. Vuole imporsi su ogni altra, a costo di distruggerla. Afferma che il mondo è in un certo modo, non perché appaia l'impossibilità che esso sia altrimenti, ma perché, da ultimo vuole che esso sia in quel modo. Nell'apparire di quella impossibilità consiste invece la «verità» a cui si era rivolta la tradizione filosofica.
Ma se la fede è questa volontà (anzi, la fede è la volontà stessa) e se tale volontà è una molteplicità di volontà contrapposte, allora la radice di ogni conflitto è l'esistenza stessa della fede. Senza fede non si può vivere, si ripete. Sì, ma questo vuol dire che la vita è nelle mani del conflitto, della guerra, della violenza. La volontà è guidata dalla conoscenza, si ripete, anche la volontà di pace. Sì, ma se oggi ogni conoscenza mostra di essere una fede (e, certo, si deve capire perché questo evento decisivo si sia prodotto), allora volere la pace facendosi guidare dalla fede significa volere la pace collocandosi sin dal principio nella dimensione della guerra. E ottenere la pace sulla base dalla fede significa aver fede - soltanto fede - di averla ottenuta. Sarà il «dialogo» - si ripete - a risolvere il problema della pace. Ma il dialogo può solo condurre a scoprire una base comune a certe sedi. Ad esempio, cristianesimo e islam hanno in comune la Bibbia e la filosofia greca. Ma ciò che è specifico di una fede è anche ciò in cui essa più si riconosce ed è quindi per essa irrinunciabile. Dialogando tra loro, eppur scoprendo quanto hanno in comune, le fedi non possono rinunciare alla propria specificità. Rinuncerebbero a se stesse. Ma allora è inevitabile che alla fine, soprattutto quando vogliono che non una parte del mondo, ma il mondo intero abbia un certo senso piuttosto che un altro, esse si scontrino non solo sul piano del dialogo, ma anche su quello dell'agire effettivo dei popoli e che prevalga la fede più potente.
Ho più volte indicato i motivi per i quali la tecnica, adeguatamente intesa, è la fede più potente. Le fedi si combattono, ma per vincere debbono affidarsi alla potenza maggiore oggi esistente sulla Terra: la tecnica, appunto. E affidandosi alla tecnica ne riconoscono più o meno esplicitamente la primazia. In quanto voluta dalla fede più potente, la pax technica è la forma più potente della conflittualità.
Si sono mostrati alcuni degli ostacoli a cui va incontro ogni volontà di pace. Ma intanto, si dirà, qualcosa si deve pur fare per la pace! È, questo, il discorso che sempre è stato fatto. Non ha mai impedito i massacri e la violenza che accompagnano ogni momento della storia.

Corriere della Sera 24.5.07
La «cosa rossa»
La sinistra gioca d'anticipo e lancia le sue «primarie» sull'economia
di Maria Teresa Meli


ROMA — Rifondazione comunista sembra avere le idee ben chiare sul futuro della sinistra dopo la nascita del Partito democratico. Bertinotti lo ha scritto nell'editoriale della nuova rivista di cui è direttore: è necessario dare vita «in tempi relativamente brevi» a «un nuovo soggetto politico». Franco Giordano, che del Prc è il segretario, si sta ingegnando per costruire il percorso che dovrà condurre a questo obiettivo. Intanto, anche la sinistra avrà le sue primarie: una consultazione che si terrà dall'ultima domenica d'agosto sino alla fine di settembre nei gazebo, nelle feste di Rifondazione come in quelle del Pdci, dei Verdi e della Sinistra democratica.
Una consultazione non sui nomi e cognomi, come quella della Costituente del Pd. Ma sulle cose. Bisognerà rispondere a un questionario con dieci domande, quasi tutte incentrate sulle questioni economiche e sociali. In parole povere, il popolo della sinistra (anche in questo caso, come per le primarie del Partito democratico si prevede che si arriverà a un milione di votanti) dirà quale dovrà essere la Finanziaria che verrà. E con questi risultati in mano Giordano si presenterà da Romano Prodi. Una mossa che contrasta, mediaticamente, le primarie del Pd, e non solo. Perché di fronte al risultato delle consultazioni della sinistra sarà difficile per il Partito democratico emarginare la sinistra nelle scelte di politica economica.
Ovviamente, nel questionario sarà contenuta anche una domanda su come l'elettore della sinistra si immagina il futuro soggetto politico di cui parla Bertinotti. E questo è un modo per superare le difficoltà che attraversano l'arcipelago composto da Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Difficoltà che sono già emerse con la convocazione, da parte di Giordano, di un incontro dei dirigenti di questi partiti per «decidere un'agenda sociale» e sottoscrivere una sorta di patto «d'unità d'azione». La data proposta da Giordano era quella del 30 maggio, ma i transfughi dei Ds per quel giorno hanno promosso un'assemblea dei loro parlamentari. Perciò hanno proposto un rinvio. L'appuntamento, quindi, è per il 31. Ma non è solo una questione di date. La Sinistra democratica ha chiesto che all'incontro partecipi anche lo Sdi. Richiesta difficile da soddisfare visto che all'ordine del giorno dell'incontro ci sono le pensioni, il contratto del pubblico impiego e il Dpef. Temi, questi, su cui difficilmente Enrico Boselli può andare d'accordo con Giordano, Diliberto, o con lo stesso Mussi. Perché allora gli scissionisti della Quercia hanno avanzato questa proposta? Per non spaccarsi, visto che al loro interno sono divisi tra chi strizza l'occhio ai socialisti e chi immagina invece un futuro con Rifondazione e compagni.
Nelle trattative di questi giorni, il Prc ha spiegato che un allargamento del genere non si può fare.
Nonostante le ritrosie e i problemi, i transfughi della Quercia alla fine hanno accettato l'appuntamento del 31 anche perché la Cgil è favorevole a questa novità. «Almeno - è il ragionamento che viene fatto nel sindacato di Guglielmo Epifani - vi saranno delle forze che sostengono le nostre ragioni e le nostre proposte». Ma Giordano non intende fermarsi qui. Pensa a una nuova iniziativa, verso metà giugno, in cui i leader della sinistra tutti insieme firmeranno solennemente un patto d'unità d'azione. Certo, il cammino è lungo e l'obiettivo bertinottiano di archiviare il comunismo per il socialismo non è facile da raggiungere. Storicamente, per la sinistra è più facile dividersi che unirsi. Lo dimostra anche la decisione della Sinistra democratica di costruire (nonostante le smentite ufficiali) un partito in proprio, tant'è vero che sono già state stampate centocinquantamila tessere della Sd. Ma come ha spesso ripetuto in queste settimane il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena «o si arriva insieme alle europee oppure si resterà divisi per sempre». Dunque, è una prova difficile, quella che attende la sinistra. Agevolata, però, dal complicato e travagliato parto del Pd...

l’Unità 24.5.07
«Ecco il cervello del Ventunesimo secolo»
di Alessandro Delfanti


NEUROSCIENZE E SOCIETÀ Nuove tecniche diagnostiche, nuovi farmaci: è la rivoluzione in corso. Ma agire sulla mente quali vantaggi e quali rischi comporta? Parla lo studioso Steven Rose

Steven Rose, biologo, dirige il gruppo di ricerca sul cervello e il comportamento della Open University, in Inghilterra. Ma alla carriera di ricercatore ha da anni affiancato un lavoro culturale, ritagliandosi un ruolo di critico della visione strettamente deterministica della natura e del comportamento dell’essere umano. Quella, per intenderci, che fa sì che i giornali possano titolare «trovato il gene dell’omosessualità». Per Steven Rose, in particolare, il cervello (la struttura più complessa tra quelle prodotte dall’evoluzione) deve essere studiato usando strumenti più ampi di quelli che le moderne neuroscienze hanno a disposizione. Anche se la frontiera della conoscenza scientifica del cervello si sta rapidamente spostando verso risultati sbalorditivi: nel suo ultimo libro, Il cervello del ventunesimo secolo, Rose si è dedicato proprio alle conseguenze dello sviluppo delle neuroscienze e delle tecnologie di intervento sul cervello umano. Conquiste importanti ma delicate, nel momento in cui la possibilità di manipolare una mente umana si fa sempre più reale.
Professor Rose, scienza e tecnologia stanno esplorando sempre più a fondo il nostro cervello. La scienza svelerà i misteri della mente?
«Non credo che le neuroscienze, da sole, saranno sufficienti per comprendere la mente e interrogarsi sulla questione della coscienza. Ad esse dovranno affiancarsi altri modi di indagare questi problemi, come la filosofia, le scienze sociali o la letteratura. Quello che la scienza può spiegare sono i meccanismi di funzionamento del cervello. Ma la complessità della mente è troppo vasta per poter essere ridotta alle sue componenti di base, che non possono rendere conto degli esseri umani, della loro capacità di agire, della loro socialità e delle loro emozioni».
Ma oggi noi disponiamo di strumenti per cambiare il cervello e adattarlo alle nostre vite e al nostro ambiente: i farmaci, per esempio. Ciò influirà anche sul nostro sviluppo culturale?
«Certo, ci stiamo dirigendo verso una cultura nella quale potremo modificare in modo intenzionale la nostra mente, tramite farmaci o in altre forme. La farmacologia influirà sul nostro modo di pensare in modo sempre più complesso, con effetti nemmeno paragonabili a ciò che ha fatto, per esempio, l’alcool nella cultura occidentale. Per questo credo che la cosa più interessante sia indagare le possibili ripercussioni sociali. In particolare c’è un secondo problema, alla cui nascita stiamo già assistendo, che è quello del maggior controllo sociale. Alcune forme di comportamento stanno diventando problemi di tipo medico, basti pensare all’esempio dell’uso di psicofarmaci usati per controllare il comportamento dei bambini a scuola. Sto pensando anche al problema del Ritalin, usato per curare patologie di recente invenzione come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd)».
Quindi non è una questione soltanto medica?
«Questi cambiamenti stanno comprimendo le nostre possibilità di adottare certi comportamenti all’interno delle nostre società. Per questo io credo che ci stiamo avviando verso l’“era del controllo”, in particolare dopo l’11 settembre. Un esempio è l’uso del brain imaging, le tecniche di visualizzazione dell’attività elettrica del cervello, in campo giudiziario o per identificare potenziali terroristi, come è stato proposto recentemente negli Usa. Un buon esempio può essere quello di Darpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono, che ha diversi progetti diretti a scoprire se sia possibile modificare i comportamenti umani tramite tecniche di stimolazione cerebrale. Lo sviluppo delle neuroscienze solleva problemi complessi, che comprendono la sfida a comprendere cosa significhi essere umani, la possibilità di capire meglio il funzionamento del cervello e lo sviluppo di nuove cure per alcune patologie. Al contempo, però, c’è il grande problema di dare ai cittadini la possibilità di controllare e dirigere queste nuove tecnologie...».
Un problema di tipo etico?
«Certamente: la neurotica (la disciplina che studia le questioni etiche legate alla mente e alle neuroscienze), infatti, ha sollevato diverse preoccupazioni riguardo a questi temi. L’uso di farmaci per migliorare la nostra intelligenza e le nostre performance, ma anche il rischio del controllo sociale grazie a nuovi mezzi farmacologici e tecnologici sono questioni da indagare anche dal punto di vista etico. Credo, tuttavia, che il problema più urgente sia quello di mettere nelle mani cittadini il cammino della scienza e lo sviluppo delle nuove tecnologie: un percorso che comincia con il dialogo e l’informazione».

Corriere della Sera 24.5.07
A Genova vengono messe in discussione le tesi del teorico considerato il padre della moderna semantica
Davidson, ecco la ragione che regola le azioni
Il filosofo che ha scoperto il nesso tra lingua e comportamenti
di Massimo Piattelli Palmarini


Si ribellò a Willard Quine che bollava le idee come «creature delle tenebre» e alla scuola comportamentista

Nato il 6 Marzo 1917 a Springfield Massachusetts, laureatosi a Harvard nel 1939, professore a Stanford per quindici anni, poi a Princeton, a Chicago e infine a Berkeley (dal 1981 alla sua morte, il 30 Agosto 2003) Donald Davidson occupa un posto del tutto speciale nel firmamento delle star filosofiche anglosassoni del Novecento. Molti di coloro che oggi si occupano della sintassi e della semantica del linguaggio quotidiano si proclamano neo-davidsoniani. A differenza, infatti, dell'altro grande filosofo americano, il celeberrimo Willard V. Quine, che pure fu uno dei suoi principali ispiratori e mentori, Davidson presto voltò le spalle alle tesi dette comportamentiste, secondo le quali si può fare vera scienza solo studiando i comportamenti e le propensioni a comportarsi in un modo, piuttosto che in un altro, quando le circostanze esterne lo impongono.
Quine aveva bollato idee, pensieri, significati e rappresentazioni mentali come «creature delle tenebre», stabilendo una netta equivalenza tra ciò che è pubblico, manifesto, praticamente utile e ciò che è razionale. Per i moderni psicologi cognitivi e per gli studiosi delle strutture linguistiche profonde Quine è un rispettato avversario da confutare, mentre Davidson è un saggio zio da aggiornare. Andando contro la corrente allora dominante nella filosofia anglosassone, fino dai primi anni Sessanta, Davidson rivendicò il posto prominente delle ragioni come cause dei comportamenti.
Un suo motto famoso e allora dissacratore fu: «Una ragione fondamentale per un'azione è la causa di tale azione». Mi accorgo che sul mio conto in banca è stato erroneamente versato un milione di euro. Mi farebbe gran comodo, ma avverto subito la banca dell'errore. Perché? Forse perché temo le conseguenze legali di un mio silenzio, forse perché preferisco non fare una figuraccia stando zitto, o forse perché, molto semplicemente, giudico che sia la cosa giusta da fare. Il comportamentismo sarebbe andato a nozze con la prima spiegazione, avrebbe un po' titubato con la seconda, ma non avrebbe potuto dare cittadinanza scientifica alla terza. In uno dei suoi lavori più famosi, intitolato, non a caso, Azioni, ragioni e cause Davidson rivendica, appunto, la perfetta legittimità scientifica e filosofica di una spiegazione dei comportamenti basata sulle ragioni. Anzi, in una serratissima argomentazione, sostiene che, quando c'è una ragione ed essa è trasparente a chi agisce, è proprio lei la causa fondamentale che spiega l'azione.
Un'altra perla davidsoniana dimostra che non sono solo i matematici, i fisici, i chimici e i biologi a fare scoperte. Anche i filosofi possono, letteralmente, fare scoperte. Prendiamo in prestito dal neo-davidsoniano Barry Schein (MIT e poi Università della California del Sud, a Los Angeles) una semplice frase della lingua corrente, che tutti capiamo senza problema: «Gli alberi diventano più fitti, se ci si inoltra nella foresta». È chiaro che nessun singolo albero diventa «più fitto» ed è altrettanto chiaro che il nostro inoltrarsi non è la causa dell'infittirsi degli alberi. Parrebbe, però, che gli unici oggetti ai quali la frase fa riferimento siano gli alberi, la foresta e noi, che l'unica azione menzionata sia camminare verso il folto, che l'unica proprietà menzionata sia un cambiamento di folto, e poi, e poi, c'è quel maledetto «se». Ebbene, provate e riprovate a combinare secondo la logica pura questi ingredienti in mille modi, ma il significato di quella frase, pur a tutti noi perfettamente ovvio, non viene fuori. Un'altra frase alla Schein-Davidson è la seguente: «Cinque ragazzi hanno mangiato sei pizze». Anche qui, capiamo che la frase si applica a un'infinità di spartizioni delle sei pizze tra i cinque ragazzi. Forse uno ne ha mangiate due e gli altri una a testa, oppure ciascuno ha mangiato un pezzo di ciascuna pizza. Possiamo sbizzarrirci a immaginare altre situazioni consimili, quasi all'infinito. Il logico puro, qui, non sa bene cosa dire.
Materialissimi pezzi di pizza, i cinque materialissimi ragazzi e l'azione manducatoria, anch'essa quanto mai materiale, non bastano a farci cavare le gambe da frasi come queste. Nel 1967 Davidson ebbe un'idea geniale: va bene, anzi è indispensabile, avere come referenti per le espressioni del linguaggio comune pizze, alberi, foreste e ragazzi, va anche bene avere come referenti dei verbi camminate e manducazioni, ma non basta. Bisogna introdurre come componenti elementarissime, come oggetti astratti, ma onnipresenti, atomici, gli eventi. Non si pensi a manifestazioni annunciate da striscioni, in teatri, palasport, a regate o simili. Un evento alla Davidson è cosa molto, molto semplice. L'evento di inoltrarsi nella foresta, per esempio, o di mangiare sei pizze, o l'infittirsi di alberi.
Quando si introducono gli eventi e le relazioni tra eventi, tra eventi e oggetti e tra eventi e azioni, di colpo, spiegare il significato di frasi come quelle appena viste diventa semplicissimo. Molte parole delle lingue correnti, ai quattro angoli della terra, fanno esplicito riferimento a eventi. Avverbi come «frequentemente», «raramente», espressioni come «ogni anno», «alle calende greche» e così via. Ma anche spesso pronomi come «lo» (lo ripete ogni mattina, ho visto che lo faceva). E perfino, come Davidson ci ha mostrato, ogni verbo di azione, che racchiude un posticino al suo interno per uno o più eventi. Il filosofo e linguista James Higginbotham, nel 1985 (allora al MIT), ha infine messo il cacio sui maccheroni, identificando la flessione dei verbi (presente, passato, futuro) come l'operatore sintattico che lega (cioè lo spiedino che infila esattamente) gli eventi davidsoniani nelle frasi. «Ha traversato la Manica in otto ore, lentamente in assoluto, ma rapidissimamente, dato che lo ha fatto a nuoto». Nessuna contraddizione! Niente è sia lento che rapido. C'è un evento di attraversamento della Manica, un evento di nuotata attraverso la Manica, e un evento di otto ore.
Se due di questi eventi sono lo stesso evento (attraversamento e otto ore), allora si ha lentezza, per una traversata. Ma se altri due sono lo stesso evento (la nuotata e l'attraversamento), allora la lentezza non regge più. Se ora li mettiamo tutti insieme (quel rivelatore «lo» e il tempo del verbo, in «lo ha fatto a nuoto»), si ha la combinazione di lentezza e rapidità che la frase veicola, senza alcuna contraddizione. Togliete gli eventi, lasciate solo sponde di mare, bracciate e orologi e diventa impossibile al logico puro espungere una contraddizione inevitabile che è, invece, assente in questa frase. Molti sono i tesori logici e filosofici lasciatici in eredità da Davidson in sessant'anni di operoso e brillante lavoro, ma la scoperta delle ragioni come cause, e degli eventi come atomi elementarissimi del linguaggio, a mio avviso, restano ancora i due suoi più preziosi.

Corriere della Sera 24.5.07
Costato 27 milioni di dollari, sarà il più grande degli Usa. Tre candidati alla Casa Bianca credono a questa teoria
Un super museo anti-Darwin La rivincita del Creazionismo
di Massimo Gaggi


Aprirà sabato, dinosauri animati dal papà di King Kong

NEW YORK — Dinosauri animati dappertutto. Opera di Patrick Marsh, il mago degli effetti speciali degli Universal Studios: le ultime reincarnazioni di King Kong e dello Squalo cinematografico sono opera sua. Ken Ham, il fondatore del nuovo museo del creazionismo che verrà inaugurato alla fine di questa settimana a Petersburg, in Kentucky, osserva soddisfatto le sue creature. E, davanti alle telecamere, commenta: «Sono animali straordinari, che affascinano i bambini. Per anni i dinosauri sono stati usati dagli evoluzionisti per propagandare la loro causa. Ora tocca a noi».
Negli Stati Uniti patria della scienza, ma anche dell'integralismo cristiano che contesta Darwin, il creazionismo (l'ipotesi che attribuisce l'origine dell'umanità all'opera di Dio come è descritta nella Bibbia) ha sempre trovato un terreno fertile: ancora oggi oltre la metà degli americani non crede all'evoluzione, mentre un terzo considera la Genesi non una rappresentazione allegorica della realtà, ma una verità da interpretare alla lettera. Per anni i tentativi dei creazionisti di affiancare all'insegnamento di Darwin quello del cosiddetto «disegno intelligente» hanno portato lo scompiglio nei programmi scolastici di vari Stati conservatori. La controffensiva del mondo scientifico e l'intervento della magistratura in nome della separazione fra Stato e Chiesa, hanno poi, in genere, riportato l'insegnamento della biologia sui binari tradizionali. Ma i creazionisti hanno spesso reagito ritirando i loro figli dalle scuole e moltiplicando libri e luoghi — musei o parchi tematici — dedicati alla loro causa.
Dai grandi dinosauri d'acciaio di Palm Springs in California al Creation Studies Institute di Fort Lauderdale, in Florida, sono ormai una decina i centri dedicati a questa causa. Ma nessuno ha le dimensioni, la raffinatezza tecnologica e la suggestione del museo che verrà inaugurato sabato, nel weekend del «Memorial Day».
La struttura realizzata da Ham ci porta in un mondo che non è vecchio di milioni di anni, come sostiene qualunque scienziato, ma che è stato creato da Dio appena 6000 anni fa. Nei diorami i dinosauri convivono tranquillamente con l'uomo e vengono messi in salvo da Noè sulla sua arca, insieme a tutti gli altri animali. Con un sorriso mascherato a stento, i giornalisti chiedono a Ham come abbia fatto Noè ad evitare una strage di animali ad opera dei tirannosauri, ma il presidente del museo — un 55enne australiano con un filo di barba alla Abramo Lincoln — prende la domanda molto sul serio: «Quesito interessante: prima del peccato originale gli animali non erano feroci. Probabilmente anche dopo i dinosauri hanno continuato per un po' ad essere erbivori».
Mark Looy, il portavoce del museo e di «Answers in Genesis» (Risposte nella Genesi), l'organizzazione evangelica che lo ha realizzato, è un attivista che non vive certamente fuori dal mondo: si rende conto che alcuni aspetti della ricostruzione — come la convivenza di uomini e dinosauri — rischiano di essere controproducenti, visto che lasciano perplessi anche molti cristiani conservatori. «D'altra parte — avverte —, una lettura corretta della Bibbia, i sei giorni della Creazione, porta esattamente a questo. Se rinunciamo ad un'interpretazione ortodossa, tirando la Genesi di qua e di là a seconda delle convenienze, non ci sarà più limite alle forzature».
Un concetto che i creazionisti, furiosi con i cattolici per le loro aperture sul darwinismo, hanno tradotto in un «diorama» destinato a suscitare polemiche: Nel primo quadro due teenager parlano, in chiesa, con un sacerdote che accetta l'evoluzionismo. Nella seconda scena la ragazza, tornata a casa, si mette in contatto con un'organizzazione abortista, mentre il fratello guarda un video porno. Il messaggio degli integralisti è fin troppo chiaro: senza lo scudo di un'interpretazione rigorosa della Bibbia, non c'è modo di difendere i giovani dai mali della società.
«Questa roba è pericolosa per la società più di quanto lo sia il fumo per la salute» commenta Clark Stevens direttore della Campagna per la difesa della Costituzione, un'organizzazione che vuole tutelare il contenuto scientifico dell'istruzione scolastica. Molti gruppi che la pensano nello stesso modo si apprestano a manifestare contro l'apertura del museo, un'opera da 27 milioni di dollari totalmente finanziata da donazioni. Ma molti, anche nel fronte progressista, sono contrari a divieti e ostracismi. Del resto è difficile mettere al bando una visione che, benché respinta dalla scienza, è condivisa da Brownback, Huckabee e Tancredo, tre dei sette candidati repubblicani alla Casa Bianca.