Repubblica 26.5.07
Un Meridiano con l'opera del pensatore olandese Spinoza, il pensiero perseguitato di Umberto GalimbertiNonostante l'insegnamento di Papa Ratzinger, secondo il quale non c'è conflitto tra fede e ragione (lasciando sottinteso che, in caso di conflitto, ad aver torto non è la fede, ma la ragione, in base al principio tomista:
philosophia ancilla teologiae), i filosofi non se la sono mai passata tanto bene nel confronto con le autorità religiose, di qualunque posizione di fede esse siano espressione.
Ne è un esempio Baruch Spinoza, di cui Mondadori ha pubblicato in questi giorni l'intera sua opera, ottimamente tradotta e curata da Filippo Mignini con la collaborazione di Omero Proietti. Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia ebrea che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l'intolleranza religiosa di quel paese. A 24 anni venne espulso dalla comunità ebraica, dove era stato educato, «per eresie praticate ed insegnate».
Nel 1670 comparve anonimo il suo
Trattato teologico-politico, dove tra l'altro si legge che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quel che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato dalla chiesa protestante e da quella cattolica, e Spinoza dovette impedire la pubblicazione di una traduzione olandese per evitare che fosse proibito anche in Olanda.
Stessa sorte ebbe la sua opera maggiore:
Ethica ordine geometrico demonstrata, di cui Spinoza rinviò la pubblicazione perché sarebbe stata immediatamente condannata, in quanto si sosteneva che Dio è la natura (
Deus sive natura) e le cose di natura sue manifestazioni regolate da una ferrea necessità. Per cui Spinoza può dire: «gli uomini credono di essere liberi perché sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati». Quest'opera verrà pubblicata solo dopo la morte del filosofo, che avvenne a 44 anni per tubercolosi, dopo una vita trascorsa fabbricando e pulendo lenti per strumenti ottici, per guadagnarsi il pane.
L'edizione Mondadori include le opere di Spinoza non nella collana di letteratura e di filosofia, ma in quella dei "Classici dello spirito". Giustamente, perché Spinoza spezza quell'impropria alleanza tra pensiero greco e pensiero giudaico-cristiano, così cara a Ratzinger e a Giovanni Reale, perché abissale è la differenza tra la cultura giudaico cristiana che concepisce la natura come un prodotto della "volontà" di Dio, consegnata alla "volontà" dell'uomo per il suo dominio, e la cultura greca che concepisce la natura come quel cosmo che, al dire di Eraclito: «Nessun dio e nessun uomo fece, perché sempre fu, è, e sarà», regolata da quella necessità (
anánke) a cui l'azione umana deve piegarsi come alla suprema legge. Dello stesso parere è Platone che nelle Leggi scrive: «Non per te, uomo meschino, questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica».
Spinoza riprende l'originario modello greco, tenendolo ben distinto (donde le scomuniche) da quello giudaico-cristiano, che pone l'uomo al centro dell'universo e la natura come ambito del suo dominio. In questo modo ribalta la metafisica occidentale e soprattutto la stretta alleanza tra filosofia e teologia che su quella metafisica si fondava. In questo senso Spinoza anticipa l'oltrepassamento della metafisica, che noi conosciamo a partire da Nietzsche e da Heidegger, e, nel suo trattato sulla politica, precorre di un secolo e mezzo l'illuminismo, rivendicando la libertà di pensiero e la tolleranza nell'ambito delle fedi. Oggi come allora, Spinoza sarebbe rubricato tra i panteisti, come Cusano e Giordano Bruno, di cui il filosofo olandese evitò un'analoga fine solo astenendosi dal pubblicare i propri libri. Questa è la sorte della libertà di pensiero, quando egemoni sono le fedi.
Repubblica 26.5.07
Esperimento dell'università di Vancouver: i neonati sono più "intelligenti" di quel che pensavamo
Lingue straniere e ritmi musicali "Scoperte dei primi mesi di vita" di Luigi BignamiROMA - Prima che inizino a parlare i neonati sono in grado di capire quando stiamo utilizzando un linguaggio diverso da quello che solitamente usiamo per parlare con loro. Lo capiscono semplicemente guardandoci in faccia. E´ una delle scoperte fatte nel corso di una ricerca dagli scienziati canadesi di Vancouver (i risultati sono stati pubblicati sulla rivista
Science).
I ricercatori hanno mostrato a 36 bambini di 4 mesi, i cui genitori parlano la lingua madre inglese, alcuni video muti in cui gli stessi volti familiari pronunciavano frasi in due lingue diverse, inglese e francese. Come elemento di riferimento, agli stessi bimbi sono stati mostrati i volti delle mamme mentre pronunciavano frasi solo nella loro lingua madre. Ebbene, quando ai neonati veniva detta una certa frase nella lingua a loro straniera, rimanevano a guardare più a lungo i volti rispetto a quando la stessa frase veniva pronunciata nella lingua madre.
Spiega Whitney Weikum, della
British Columbia di Vancouver: «Questo comportamento è la dimostrazione che i bimbi riescono a distinguere le due situazioni e ovviamente quando si trovano di fronte alla lingua per loro straniera fanno uno sforzo maggiore nel seguire chi sta parlando loro. Era già noto che i bambini di quell´età sono in grado di percepire due lingue diverse, ma è la prima volta che si dimostra che sono capaci di farlo anche solo attraverso stimoli visivi». Questa capacità, tuttavia, si perde attorno all´ottavo mese di vita, se non c´è uno stimolo continuo al bilinguismo. Le stesse prove, infatti, sono state eseguite a 6 e poi ad 8 mesi. E mentre a 6 i bambini mostravano le stesse capacità dei neonati, a 8 questa proprietà risultava assente.
Lo studio dimostra l´importanza delle informazioni visive su un bambino piccolo, quali possono essere le forme della bocca che servono per le fasi iniziali dell´apprendimento della lingua. Kim Plunkett, neuroscienziato all´Università di Oxford è rimasto sorpreso non tanto dalla scoperta che i bambini sappiano comprendere le parole seguendo la forma della bocca, ma dal fatto che dopo 8 mesi questa capacità si perde. «Mi meraviglia che se una bocca inizia a muoversi in modo strano davanti ad un bimbo di 8 mesi, ciò non attira il suo interesse. Ho sempre pensato il contrario». Secondo Weikum la perdita di tale abilità è spiegata dalla perdita di interesse nell´osservare le labbra se si parla loro sempre con lo stesso linguaggio.
Alla stessa età i bambini perdono anche altre capacità che possiedono nei primissimi mesi. A 6, ad esempio, sono in grado di distinguere due volti di scimmie che ad un adulto appaiono identiche, ma non sono più in grado di percepirne la differenza a 8 mesi. E sempre prima degli 8 mesi i neonati sono in grado anche di percepire i diversi ritmi musicali, caratteristica che si perde al superamento dell´ottavo mese.
Repubblica 26.5.07
La parola "in" oggi ha molti significati. Pochi sanno che nell'antichità era associabile alla dea Estia, cioè a colei che rende sacro il lavoro dell'analista. Ecco il racconto sul mistero dell´anima e sugli archetipi che la illuminano di James HillmanSoltanto una cosa certa abbiamo imparato facendo analisi, l´importanza del piccolo e particolareggiato. Il mio viaggio junghiano - e uso non a caso la parola "viaggio" perché si trattò proprio di un viaggio, dall´India himalayana attraverso Israele e la Svezia fino a Zurigo - iniziò con passi da gigante. L´India, le Tipologie, l´Individuazione, i Grandi Sogni, i Simboli Universali (volli fare la mia prima tesi sull´idea di Spirito, e la seconda sul Tempo), insomma GRANDE! Adesso, invece, sembra che io faccia passi da formica, una minuscola attenzione alle più piccole cose.
Ecco il perché di questo minuscolo titolo, "In", anche se non so ancora se non finirà per diventare più piccolo o ancora più grande di grande. Questa è già una dimensione della domanda: l´"in" ha delle dimensioni, una misura, una forma, un luogo?
Prima di arrivare a questo, vorrei però richiamare qualcosa che noi tutti già sappiamo. "In" è senza dubbio la parola dell´anima. "In" è decisamente "in", nella psicologia del profondo: in analisi, in terapia, in transfert, in amore, in relazione, in lutto, ingravidato, nella tua testa non nel tuo corpo - adesso "in" si è approfondito, è andato oltre, diventando nella mia lingua anche "into", la parola chiave che indica l´essere completamente assorbiti in qualcosa: nel bird watching, nel rap, nella cucina messicana.
La storia del nostro campo conferma questi usi ordinari di "in" e di "into". Fin dall´inizio, locus delle preoccupazioni psicoanalitiche furono la topografia interiore e le dinamiche di regioni, figure e forze, ricordi e sentimenti, flussi e complessi, tutti immaginati come interni, interiori, dentro.
Soprattutto i sentimenti, che sono tenuti "dentro" e lasciati uscire "fuori". Sono profondi, giù dentro di noi, continuamente presenti come colore e ritmo, interiori e riflessivi, che accompagnano il comportamento esteriore. Un´importante obiezione nei confronti del behaviorismo e della terapia del comportamento da parte degli analisti del profondo è stata che il behaviorismo non ha un "dentro". Non c´è nessun "in".
In breve, l´attività principale dell´analisi ha luogo dentro. "In" è dove si svolge la sua azione. È lì che si nasconde la vera persona, quel "me" interiore, e occuparsi di questo mondo interiore - cosa è successo nel passato e cosa potrebbe succedere nel futuro, significa occuparsi attentamente delle intromissioni genitoriali, dei lamentosi residui del bambino interiore, che si accompagnano all´introversione della libido e alle riduttive investigazioni dell´Ombra - quell´agenbite-bite of inwit, come Joyce chiamava l´introspezione piena di rimorsi. "In" è la preposizione chiave in analisi, più importante, credo, di "con". "In" è la direzione chiave del movimento psicologico, l´ubicazione chiave delle psicodinamiche, e la posizione privilegiata dei valori dell´anima. (...)
Noi analisti, nonostante la nostra aumentata capacità di riflettere e di analizzare, non siamo immuni dalla mentalità istituzionalizzata. In realtà siamo più sfortunati rispetto alla maggior parte degli altri professionisti proprio riguardo alla collettività delle nostre riflessioni, perché gli strumenti dell´analisi e della riflessione utilizzati per riflettere sulla nostra professione sono proprio i concetti forniti dall´istituzione. Siamo testimoni ogni giorno della grande impasse di cui spesso scriveva Jung: la grande difficoltà che ha la psiche, se non l´impossibilità, di diventare cosciente di sé per mezzo della psicologia. Come il conoscitore conosce sé stesso? (...)
Riguardo al nostro tema specifico, "in", noi troviamo l´"in" letteralizzato come un posto definito nel quale andiamo - l´inconscio, il corpo, oppure un definito tempo nel passato. Questa letteralizzazione ci fa dimenticare quello che diceva il maestro: non è la psiche che è in me, sono io nella psiche. Noi dimentichiamo e letteralizziamo l´anima dentro la pelle, la mente dentro il cranio, il sogno, l´emozione, la memoria dentro il "me", trascurando la psiche collettiva, l´anima mundi nella quale viviamo tutto il giorno la nostra vita.
A questo punto vorrei differenziare fra i principali usi linguistici di "in". Faccio questo in parte per diventare più consapevoli del predicamento in cui "in" ci mette. E, come diceva Jung, per diventare consapevoli ci vuole differenziazione. Quindi diamo una rapida scorsa a questi usi: li potrete trovare nel vostro dizionario o nella grammatica, dove li ho trovati io.
La preposizione "in" significa dentro i limiti di spazio, tempo, condizione, situazione, circostanza. "In" come limitato, circoscritto, definito. Come ho già detto: in analisi, in amore, nei guai, in tribunale, in pericolo, in fretta, in tempo. "In" come un essere limitati - in un giardino, nei guai, in analisi. Confinamento. Potremmo dire "incorniciato", "circondato". Dunque, quando diciamo che l´anima è nel corpo, non ci limitiamo a intendere "in" letteralmente, come dentro il luogo del corpo, ma anche, più ampiamente, come limitata dal corpo, confinata nel corpo, nelle circostanze del corpo.
"In" è anche il prefisso che introduce diversi significati:
1. Un prefisso negativo, privativo: indecisione, indistinto, inammissibile, ingiustizia, insano, incesto (come "non casto"), incapace, inconscio.
2. Il prefisso "in" significa anche un movimento in avanti che continua. Entrare, introdursi in qualcosa, e poi essere in essa, dentro di essa.
3. Questo significato di movimento continuato in avanti si mescola con un terzo significato del prefisso, in parole come incluso, inviluppato, intrappolato, incantato, inveterato, ingerito, innato, iniziato - dove siamo al tempo stesso veramente, effettivamente "in", e continuiamo il movimento sempre più all´interno nello stato che viene descritto.
In breve, "in" è una parola che rinchiude, imprigiona, intrappola.
Sembrerebbe che la parola "in" agisca come una forza archetipica - entrare nell´inconscio ci porta veramente ed effettivamente nella nostra situazione, nei nostri sentimenti, nei nostri ricordi, e avvolti nel transfert.
Dalla preposizione e dal prefisso non c´è che un piccolo passo per arrivare al sostantivo "in": coloro che sono "in", che sono "dentro", nel senso di "affiliati". Una persona che è "in" è al corrente di ciò che succede all´interno della riserva privilegiata, entro i confini di un particolare stato o condizione, tempo o luogo. (...)
Ma allora qual è il potere, chi è il Dio o la Dea che ci attira dentro, che ci mantiene dentro? Cos´è questa archetipica insistenza sull´interiorizzazione e sulla salvaguardia della santità dell´"in"? Io credo che la risposta a quel "chi?" sia Estia.
Prenderò adesso in considerazione alcuni passi del materiale che ho raccolto, soprattutto tra quello di cinque autori che hanno scritto di Estia e hanno già selezionato le fonti classiche e si sono immersi nel materiale che riguarda questa dea. Così citerò, oltre all´Inno omerico a Estia, Cults of the Greek States di Farnell, il capitolo su Estia in La grazia pagana di Ginette Paris, il saggio su Estia di Barbara Kirsey tradotto in I fili dell´anima, quello di Stephanie Demetrakopulos in Spring 1979 e quello di Paola Coppola Pignatelli in Spring 1985. Per ragioni di brevità, mi limiterò a citare alcune frasi di questi autori facendo via via pochi sporadici commenti, chiedendovi di guardare questi brani in funzione del lavoro analitico.
Prima però due parole su Estia in generale. Fu lei la prima di tutti gli immortali a essere onorata con libagioni e processioni - prima di Zeus, prima di Era, di Demetra e di Gaia. Come noi diciamo "alla salute!", prosit, santé, salud, kampei, l´echaim, i Romani dicevano "Vesta!". Era il focolare acceso, il focolare che emana calore. Questa è la sua immagine, il suo locus, la sua incarnazione. La parola latina per focolare è focus, che può essere tradotta nel linguaggio psicologico come l´attenzione centrante che appassiona alla vita tutto ciò che entra nel suo raggio d´azione. Estia è questo. Ovidio parla di Estia come "nient´altro che una fiamma viva". Il suo nome deriva probabilmente dall´indoeuropeo vas, "abitare in". Un´altra derivazione è quella dalla radice di "essenza". In breve, Estia è soltanto "in" e, come la concisione stessa, non è un oggetto visto, ma un focus che ravviva, che illumina, l´essenza dell´anima che abita in qualunque cosa.
- E adesso i brani che riguardano il prestare attenzione, il tenere un diario, le annotazioni del diario, le registrazioni dei sogni che sono la materia del lavoro interiore. Dice Platone ne Le leggi: "I giudici di un accusato che ha peccato contro gli Dei, i genitori o lo stato, alla fine di ogni giorno mettano per scritto tutte le cose attinenti al caso e depositino i rotoli sull´altare di Estia" (856 a).
- L´analisi come sostegno, come nutrimento, come un alimentare l´anima, come supporto incondizionato, come madre positiva: "Il 15 aprile a Roma venivano sacrificate a Vesta delle mucche gravide per assicurare un´abbondante disponibilità di latte". Vesta si occupava anche delle provviste di sale e della farina sacra (mola).
- L´analisi: un giorno alla volta, una seduta alla volta. Mantenerla fresca: "Le vestali non potevano conservare l´acqua ma dovevano andarne a prendere ogni giorno soltanto quella necessaria, in uno strano recipiente fatto appositamente per quello scopo. Il vaso aveva una base così stretta che non poteva stare dritto [non era possibile l´immagazzinamento; non si poteva usare acqua vecchia; la strettezza della base = la stretta disciplina del contenitore] e [questo conteni-tore] era chiamato futile."
- Quando finisce l´analisi come servizio all´"in"? L´"Analisi terminabile e interminabile" [Unendlich] di Freud. "Il più comune aggettivo/attributo di Vesta era eterna."
- Sulla terapia delle coppie e la risoluzione del conflitto. L´analisi come rifugio, come luogo sicuro. "Le controversie erano appianate presso l´altare di Estia". "Il focolare era anche un luogo per fare pace e per accordare clemenza." "Non prende parte alle guerre, alle rimostranze o alle relazioni fra gli Dei e i mortali." "Estia è capace di custodire le immagini."
- Il prossimo gruppo di immagini attesta l´impersonalità del lavoro e la sua numinosità, la traslazione anziché la relazione umana. Anche qui, quelle che seguono sono citazioni dirette dei cinque autori già menzionati. "Un aspetto centrale della coscienza di Estia è la propensione per l´anonimato." "Quando gli uomini giuravano su Estia, giuravano sul focolare sacro, non necessariamente su una qualche personalità." "La meno antropomorfica di tutte le divinità elleniche." "Una presenza potente, non un individuo personale." "Un numen più che una divinità."
- Sulla privatezza e la sicurezza del temenos analitico. "La frase ‘sta sacrificando a Estia´ divenne proverbiale di una faccenda segreta." "Asilo sacro dove poter trovare rifugio." "L´offerta sacrificale a Estia non è mai un sacrificio violento, con spargimento di sangue."
- Sull´assenza di intervento personale, cioè il concetto freudiano che l´analisi proceda per "astensione." "Non esisteva quasi nessun racconto su di lei." "Non indica alcun movimento."
- Sulla natura del progresso analitico e le descrizioni del Sé: "È sempre seduta su elementi circolari, così come circolari sono i luoghi dove è venerata."
- Sul primato della famiglia nell´analisi dell´individuo: "Specialmente connessa con la vita e la legge della famiglia e del clan." "L´unica vera cerimonia celebrata in suo onore [...] sembra essere stata un pranzo familiare." "Senza di lei gli umani non avrebbero feste." "Presiede alla progressione ‘da crudo a cotto´ che trasforma la natura in cibo."
A questo punto vorrei soffermarmi a distinguere fra la famiglia letterale - nel senso di Era, o della famiglia come generazione di figli, o anche della casa in sé - e la struttura psichica interna - che adesso noi formuliamo come sistema famiglia, quello che i Romani chiamavano gens, quello spirito invisibile che vi regna, l´anima della famiglia condivisa durante un pasto in comune, l´atto primario di civilizzazione. Non la coltivazione del cibo o la preparazione del cibo - Demetra e Afrodite - ma il rituale del mangiare il cibo insieme. Il fast-food da McDonald e il "mangiar fuori di corsa" possono fare di più per profanare Estia e danneggiare l´anima della terra di quanto non facciano tutte le altre cose che sono state proposte come causa della disfunzione della famiglia: i padri assenti, la violenza in televisione, le droghe, gli abusi, ecc. Il pasto condiviso, ricordiamocelo, è centrale per la vita contadina greca, italiana, ebraica, orientale, afro-americana e medio-occidentale, tanto che il rituale mangiare insieme anziché il dormire insieme potrebbe essere qualcosa che gli analisti al servizio dell´"in" di Estia potrebbero prendere in considerazione.
Torniamo alle citazioni.
- "Non lascia il suo posto; dobbiamo andare noi da lei." Nel Fedro di Platone, quando gli undici Dei muovono in volo nel cielo, Estia, "sola, rimane in casa degli Dei." (247a) "A lei è attribuita l´invenzione dell´architettura domestica." "La sua immagine è architettonica." "La sua immagine e il suo luogo sono identici." Sono brani dai quali ho tratto la conclusione che l´analisi, come rituale estiano dell´interiore, deve svolgersi in una situazione chiusa. Soltanto lì può esserci focus. L´analista non prende appuntamenti fuori, non fa house calls, perché il rituale è un rituale di luogo. Fin dagli inizi, in Bergstrasse e Seestrasse, la coscienza analitica "ha luogo" in uno spazio sacro, che dà un focus ai contenuti psichici. L´interiore si rivela fra le pareti e può essere estratto dalla sua errata collocazione nella "mia" storia passata, nella "mia" vita personale e nel letteralismo delle "mie" relazioni. L´arrivare e l´entrare nel luogo del terapeuta e l´allontanarsene sulla porta riverbera con le tensioni del rituale dell´entrare e dell´uscire dai confini di Estia. Architettonicamente Estia era accoppiata a Ermes. Lui all´esterno, lei all´interno. Via via che ci spostiamo verso l´ipertrofia di Ermes - ciberspazio, CD-rom, telefoni cellulari, satelliti, call-waiting, realtà virtuali - possiamo essere connessi dovunque "fuori" e avremo sempre più un disperato bisogno della centrante forza circolare di Estia, che ci impedisca di dissolverci nello spazio. In altre parole, in questo tempo di eccessivo Ermes l´analisi junghiana classica, rivolta verso l´interno, in quanto rituale osservanza di Estia, può essere più necessaria di quanto non lo sia mai stata.
- Sulle infrazioni specificamente sessuali in terapia: "Estia è immune dal potere di Afrodite e dalle frecce di Eros." "La sessualità deve essere nascosta a Estia." "Il desiderio di Estia di non sposarsi mai." Sicuramente conoscete la storia di Estia che sonnecchiava presso il focolare quando Priapo attraversò la soglia del suo territorio per violentarla, ma lei, svegliata dal raglio di avvertimento di un asino, lo fece fuggire via. Il fuoco di Priapo non ha a che fare con la fiamma del focolare. La sessualità diretta, sfrenata, non vi ha posto. Questo spauracchio, che è saltato fuori in analisi fin dal suo primo caso con Josef Breuer, e il purismo etico con il quale gli si resiste, fa parte del mito e del rituale di Estia. A Roma, per esempio, le vestali addette al suo culto erano vergini. Se qualcuna si macchiava in qualunque modo
- per l´andatura seduttiva, i capelli portati lunghi, l´abito immodesto, o anche un atteggiamento troppo scherzoso e malizioso - poteva essere, e di fatto lo era, seppellita viva in una stanza sotto terra, isolata e "cancellata" (questa è la parola usata dal testo), così come la nostra professione cancella il nome dalla lista degli analisti, li scomunica dall´associazione. Il nostro quieto conformismo rappresenta i rituali di un antico culto, dichiarandoci così in quel culto. La nostra purezza sessuale riguardo all´analisi è qualcosa di più che una puritana correttezza morale : è richiesta dalla Dea dell´"interiore". (...)
Adesso, in conclusione, vorrei spiegare più chiaramente ciò che, a partire da questa accozzaglia di note, mezzi pensieri e citazioni, ho cercato di dimostrare. Come prima cosa ho voluto affermare la preminenza di questa piccola parola e prefisso, "in", come una dominante della nostra ontologia analitica. Per questo vi ho condotto attraverso un riesame della semantica dell´"in".
Poi ho voluto mostrare l´approccio proprio di una psicologia archetipale, il ricorso al suo metodo per salvare il fenomeno, essendo in questo caso il fenomeno i sentimenti e gli importanti valori che restano attaccati alla parola "in", anche dopo che abbiamo applicato intellettualmente l´acido della decostruzione. Anche dopo aver deletteralizzato l´"in" e riconosciuto che esso non è letteralmente in nessun luogo, il richiamo dell´interno, del più intimo, dell´interiore, dell´introvertito, del dentro, non se ne va.
Ho poi giustificato questo attaccamento all´"in" come valido dal punto di vista archetipale. Cioè, il nostro amore per il carattere interiore dell´analisi non deriva semplicemente dall´abitudine storica di localizzare l´anima dentro la pelle, o dall´eccesso di soggettivismo e di personalismo che abbiamo coltivato nella nostra cultura cristiana, convertita fin da Agostino e poi da Cartesio, e da pensatori estremamente political correct, compresi Freud e Jung. Invece ho sostenuto, nell´ultima parte di queste osservazioni, che questa profonda importanza è data da Estia, e che l´analisi, oltre a essere in molti casi una rappresentazione del mito di Amore e Psiche, di Demetra e Persefone, di Ade, di Ermes, di Ercole e soprattutto di Edipo, con le sue intuizioni autodistruttive, è un rituale di Estia, un´osservanza che si prende cura del suo focolare.
Per me, questa scoperta di Estia fra i cocci del mio decostruito tempio analitico è stata una rivelazione di un valore immenso, perché Estia non conosce le distinzioni fra pubblico e privato, fra interiore ed esteriore - nel senso di introspezione psichica e attività politica -, fra sé e comunità. Al servizio di Estia si potrebbe non essere o più segreti e silenziosi o più comunitari e sociali. La scoperta di Estia fra le mie rovine significa anche per gli analisti che se Estia è colei che rende sacro il nostro lavoro, allora quello che il paziente fa e che noi facciamo nel municipio per mantenere ardenti i suoi carboni è parte del fare anima, altrettanto di quanto lo è qualunque sogno, qualunque ricordo, emozione o intuizione.
Repubblica 26.5.07
E Schopenhauer incontrò Buddha Esce "Il mio Oriente", una raccolta di scritti dispersi del grande filosofo di Franco MarcoaldiHeidegger negava l'esistenza di un pensiero fuori d'Occidente
All'apice della comunione spirituale si apre una crepa insanabile (Hegel)
Considerava la vita una strada sbagliata da cui si deve tornare Era affascinato dal pensiero indiano che trovava congeniale Heidegger negava l´esistenza di un pensiero fuori d´Occidente All´apice della comunione spirituale si apre però una crepa insanabileLa tradizione vuole che il principe Siddhartha Gautama (poi Buddha: il risvegliato), dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d´ogni genere, ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un mendicante, un malato, un vecchio e un morto. Bastò questo perché il giovane Siddhartha abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di un unico, immenso problema: come sradicare il dolore, che, a suo dire, nasce dalla continua sete dell´Io, destinata inevitabilmente alla frustrazione.
Arthur Schopenhauer non era un principe ma un figlio della borghesia e non visse nel subcontinente indiano del VI secolo avanti Cristo ma nell´Europa dell´Ottocento, eppure, ad ascoltarne le parole, la sua illuminazione fu più o meno la medesima: «a diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l´opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti».
Così comincia
Il mio Oriente, un intarsio di testi, «tratti dal mare magnum delle carte manoscritte» ed egregiamente curati da Giovanni Gurisatti per l´editore Adelphi (pagg. 225 , euro 11), che ci consentono di seguire passo passo il viaggio di avvicinamento a un mondo che sin lì la filosofia europea aveva poco o punto considerato. Del resto, il medesimo vizio di arroganza culturale ha finito per marcare una parte considerevole della stessa filosofia europea novecentesca, come di recente ha ricordato Giangiorgio Pasqualotto nella sua introduzione all´opera del filosofo giapponese Nishida Kitaro,
Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri). Basti, per tutti, il nome di Heidegger, il quale, mentre propugnava «l´ascolto del Linguaggio», in un "eloquente inciso" negava l´esistenza di un vero pensiero filosofico extra-occidentale, tanto in Cina quanto in India.
Ma torniamo al nostro Schopenhauer, che, al contrario - proprio nel momento di massima fortuna di Hegel, altro campione dell´eurocentrismo filosofico - fece da battistrada a un atteggiamento opposto: sorpreso com´era dalla «prodigiosa corrispondenza» del proprio pensiero con quello indiano e perciò stesso convinto che l´Oriente disponesse di una marcia in più. Anche nei confronti dei maestri occidentali a lui più prossimi: «Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhart e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo».
Cos´è dunque che affascina così tanto Schopenhauer? Quali sono le sue convinzioni e i punti di contatto, le sorprendenti affinità che rintraccia nella tradizione indiana e nel buddhismo in particolare? L´autore de
Il mondo come volontà e rappresentazione è convinto che l´individuo non si muova sorretto dall´intelletto e dalla conoscenza, ma irresistibilmente sospinto da una volontà cieca e smodata, dalla tirannia di un desiderio che non conosce fine e sbocco, procurando di conseguenza una sofferenza senza limiti.
E poiché il Nostro non è uomo di balletti intellettuali, ma ama andare direttamente al punto, sostiene senza mezzi termini che il vero cuore della "volontà di vita" è il rapporto sessuale. «Dietro una maschera di morigeratezza, esso diventa sempre il protagonista assoluto: è la causa della guerra e lo scopo della pace, il fondamento del contegno e il fine dello scherzo, la fonte inesauribile del motto di spirito, la chiave di tutte le allusioni e lo scopo di tutti i cenni misteriosi, di tutte le proposte non fatte e di tutti gli sguardi furtivi; è l´ossessione quotidiana di giovani e di anziani, l´idea fissa della lussuria e il sogno della castità, sempre ricorrente a dispetto della propria volontà. In forza del suo potere assoluto di legittimo e autentico padrone del mondo, lo si vede in ogni attimo piantarsi sul trono che gli spetta, e da lassù deridere con gesto beffardo le misure adottate per imprigionarlo, se possibile, e tenerlo completamente nascosto, o almeno imporgli dei limiti in modo che si manifesti esclusivamente come una faccenda della vita del tutto secondaria e subordinata».
Certo, se si pensa alle vicende biografiche del filosofo tedesco raccontate in
Entretiens (Criterion), viene spontaneo rimandare questa ossessiva insistenza teoretica al senso di tortura patito da chi, a dispetto di una conclamata misoginia, si era sentito a lungo schiavo della «cagna della sessualità»; preso in trappola dall´eterno femminino che «come la seppia, fugge e uccide sparando il suo inchiostro, navigando poi a suo agio in quell´acqua melmosa».
D´altronde, il filosofo de
Il mio Oriente avrebbe buon gioco a rispondere che il suo pensiero (a differenza dei mistici) non muove dall´«interiorità» ma dall´«esteriorità», e che comunque soltanto gli eunuchi o gli ipocriti possono considerare la centralità attribuita alla libido sessuale come un´esagerazione.
Altrimenti perché gli indiani avrebbero eletto il «linga» e la «yoni» a simboli religiosi della vita della natura? Non v´è dubbio, «la pulsione sessuale è di per se il nocciolo della volontà di vita». Di più: «è ciò che perpetua e tiene unito l´intero mondo delle apparenze».
Ed è proprio qui, sempre secondo Schopenhauer, che si apre la grande distinzione tra religioni dell´errore e della verità. Al primo ceppo apparterrebbero ebraismo e islam, che attribuiscono «la massima realtà all´apparenza», che «fanno dell´esistenza uno scopo in sé», che sono rigidamente monoteiste e aborriscono gli idoli, che prevedono un inizio e una fine del mondo.
La religione della verità invece, è quella dei Veda, da cui derivano il buddhismo e «il Cristianesimo del Nuovo Testamento nel senso più stretto». In questo caso il mondo è riconosciuto «come una mera apparenza, l´esistenza come un male, la redenzione da essa come la meta, la completa rassegnazione come via». Peccato che la «bitorzoluta mitologia del Cristianesimo» sia figlia «di due genitori assai eterogenei, nata com´è dal conflitto tra la verità sentita e il monoteismo giudaico esistente, che le si contrappone in modo essenziale. Ne deriva anche il contrasto tra i passi morali del Nuovo Testamento - che sono eccellenti, ma che occupano soltanto 10-15 pagine circa - e tutto il resto, che consiste, da un lato, di una metafisica incredibilmente barocca, forzata a dispetto di ogni umano buon senso, dall´altro di favolette fatte per destar meraviglia».
Il cristianesimo che affascina Schopenhauer, dunque, è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l´antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all´esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: la vita è «una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro».
Come però mette bene in luce Gurisatti nella sua postfazione, proprio qui, all´apice di questo tragitto di comunione sprituale, si apre una crepa insanabile tra Schopenhauer e l´India. Forzando oltremisura l´aspetto negativo del pensiero buddhista, egli ammanta la figura capitale del nirvana di un tratto nichilista che non gli è proprio. E al contempo sottovaluta l´autentica saggezza buddhista, che, «rifiutando ogni ontologizzazione del dolore, del sé e del carattere, prevede la possibilità per tutti della guarigione e della trasformazione di se stessi, dunque l´oltrepassamento della sofferenza tramite la cosiddetta "via di mezzo"».
Questo «anacoreta del pensiero puro», finisce così per dimenticare il tratto fortemente empirico del buddhismo. E´ il Buddha stesso a dire: «come si saggia l´oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell´inconsistenza e dell´impermanenza del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità.
Ma a chi, scrive ancora Gurisatti, pensava alla salvezza come a un radicale ripudio e annichilimento dell´esistenza, non si attagliavano parole come quiete, gioia, serenità. Tutt´altre furono le caratteristiche di «un uomo malinconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino sdegnosamente arroccato su se stesso», e soprattutto inestricabilmente legato a un «occidentalissimo senso tragico della vita». Ecco perché Schopenhauer «fu senz´altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo.
Malgré lui».
Repubblica 26.5.07
Cheniér e i fantasmi del cuore
Un saggio di Lionello Sozzi
di Benedetta Craveri"Il paese delle chimere" è una riflessione sul tema dei sogni e delle illusioni nella cultura occidentaleSalì sulla ghigliottina insieme ad un altro letterato, Roucher, il 25 luglio del 1794Al centro la figura del poeta francese decapitato durante la RivoluzioneSecondo Baudelaire le illusioni per quanto diaboliche restavano approdi sublimiSe la condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi non sarebbero mortiA Parigi, nelle prime ore del pomeriggio del 25 luglio 1794, due poeti, Jean-Antoine Roucher e André Chénier, si ritrovarono insieme sulla carretta che doveva condurli fino ai piedi della ghigliottina eretta alla Barriera di Vincennes. Roucher, allora sulla soglia dei cinquant´anni, aveva conquistato la notorietà con un poema sui
Mesi, mentre il trentaduenne Chénier non aveva dato alle stampe che pochi componimenti e lasciava dietro di sé una vasta opera incompiuta. Solo la pubblicazione postuma dei suoi versi, avvenuta venticinque anni dopo, avrebbe rivelato alla Francia che la Rivoluzione l´aveva privata di uno dei suoi massimi poeti. I due amici impiegarono il tempo del tragitto dal tribunale al patibolo recitando dei versi di Racine ed affrontarono poi impavidamente la ghigliottina, ma diverso era stato lo stato d´animo con cui l´uno e l´altro avevano atteso che si consumasse il loro destino. Nei mesi di prigionia, consapevole della sorte che lo attendeva, Roucher non aveva voluto indulgere ad alcuna illusione di salvezza, scrivendo alla moglie: «Non mi piacciono, amica mia, le speranze di libertà alle quali a volte ti lasci andare. Sono speranze menzognere, e niente è più triste di una speranza delusa. Per conto mio me ne difendo come un crimine».
Chénier, invece, in una delle straordinarie creazioni poetiche scritte in carcere - l´ode consacrata a una vicina di cella, la bellissima Aimé de Coigny -, metteva in bocca alla sua Giovane prigioniera i celebri versi: «L´illusione feconda abita il mio seno./ Su di me le mura di una prigione gravano inutilmente./ Io ho le ali della speranza». Più che in una improbabile salvezza, Chénier sperava presumibilmente che la sua morte potesse servire agli ideali di giustizia e di libertà per cui si era battuto, ma rimane il fatto che se la sua condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi, la morte di Robespierre e la fine del Terrore avrebbero aperto, a lui come a Roucher, le porte del carcere.
Il diverso atteggiamento dei due poeti davanti alla stessa drammatica prova, ci conduce al cuore de Il paese delle chimere.
Aspetti e momenti dell´idea di illusione nella cultura occidentale (Sellerio, pagg. 415, euro 24) di Lionello Sozzi, libro di una vita, preziosa summa erudita con cui l´illustre studioso ha dato forma sistematica ai materiali e alle riflessioni raccolte nel corso di anni e anni di ricerche.
Quella di Sozzi è, infatti, una grande inchiesta sulle illusioni, le speranze, i sogni, gli inganni che hanno popolato l´immaginario occidentale e sulla varietà di significati di cui esse sono state investite nel corso dei secoli. Dopo una densa introduzione incentrata sulla "Semantica delle illusioni", in cui si ripercorrono i momenti più significativi della tradizione interpretativa ad esse consacrata, Sozzi illustra i risultati della sua perlustrazione in dieci capitoli dedicati ad altrettante accezioni storiche della tematica presa in esame. E basta passarne in rassegna i titoli - "L´illusione diabolica", "Illusioni, ragione, realtà", "Il paese delle chimere", "L´illusione analogica", "Chimere orrende", "Illusioni perdute", "Vanitas vanitatum", "Disperata speranza", "L´illusione feconda" - per rendersi conto del come, nella lunga durata, sia la messa in guardia dagli inganni dell´immaginazione a prevalere sulla fiducia nella forza vitale e nella capacità di trasfigurazione del reale che essa può portare con sé.
Non è qui possibile seguire, passo passo, il percorso storico e tematico tracciato da Sozzi, sulla scorta di una infinità di letture, attraverso il grande continente della letteratura europea; un percorso che va dall´antica condanna teologica dell´illusione come strumento di Satana fino al rovesciamento definitivo operato da Baudelaire. Nell´
Inno alla Bellezza, infatti, il poeta dei
Fiori del male affermava una volta per tutte che chimere ed illusioni potevano anche essere diaboliche ma conducevano ugualmente ad approdi sublimi. Mi limiterò perciò a ricordare, prendendo ad esempio Chénier e Roucher, i due modi diversi di intendere le illusioni che avevano caratterizzato il dibattito del Settecento, facendone un momento altamente ricco e significativo.
Fin dal secolo precedente, da Bacone a Descartes, da Spinoza a Bayle, la filosofia moderna aveva combattuto gli errori dell´immaginazione in nome della ragione e dell´esperienza empirica, preparando la strada al trionfo dei Lumi. Per i
philosophes, scrive Sozzi, «le uniche certezze sono quelle cui approda l´ardimentosa ragione; le illusioni, i fantasmi del cuore, le labili chimere, quasi sempre nutrite di ansia religiosa e di istanze metafisiche, sono fonti di inganno, di ridicoli pregiudizi, di entusiasmo fanatico, si risolvono in un gioco derisorio, che dà parvenza di realtà ai fragili castelli della fantasia, espone al dileggio e all´amara delusione ogni dissennato vagheggiamento». Ed è a queste certezze che Roucher rimase stoicamente fedele, nonostante il sanguinoso voltafaccia della Dea Ragione negli anni atroci del Terrore.
Diametralmente opposto, come abbiamo visto, era stato, invece, l´atteggiamento di Chénier. Anche lui era figlio dei Lumi, anche lui credeva nel progresso, nella scienza, nella ragione, ma era troppo poeta per rinunciare ai diritti della fantasia e del sogno. Non a caso aveva celebrato i poteri dell´immaginazione in un bellissimo poemetto rimasto, purtroppo, allo stato frammentario, traendo dalla sua "fantasia infuocata" speranza ed energia per costruire un "mondo nuovo". Ma, in verità, già prima di lui, era stato Rousseau a rovesciare radicalmente i termini della riflessione settecentesca su verità e fantasia, su sogno e realtà, dichiarando che «il paese delle chimere è l´unico degno di essere abitato». Come mostra Sozzi, in pagine di estremo interesse, il grande scrittore ginevrino superava così l´antitesi tradizionale tra illusioni e presente, aprendo due prospettive: «L´illusione come attesa e speranza, come tensione verso impossibili possessi, come slancio verso i confini dell´assoluto, e l´illusione come fiction, come costruzione della mente, come favola consolante pur nella sua vanità». Perseguendo entrambe le strade, nei libri come nella vita, il Jean-Jacques indicava la strada agli scrittori a venire - fossero essi romantici o parnassiani, simbolisti o decadenti, illuminati o maledetti -, dando così alle chimere pieno diritto di cittadinanza nei cieli della letteratura.