martedì 29 maggio 2007

Repubblica 29.5.07
Il regista commenta gli attacchi dell'autore americano e dell'economista Renato Brunetta
"Non accetto lezioni da Tarantino"
Cannes, il giurato Marco Bellocchio difende il cinema italiano
di Maria Pia Fusco


CANNES - «Dopo aver visto tutti i film del concorso sono convinto che almeno un paio di titoli italiani ci sarebbero stati benissimo». È la considerazione di Marco Bellocchio a conclusione dell´esperienza di giurato al festival. Una risposta agli attacchi dei giorni scorsi al cinema italiano, ultimo quello di Quentin Tarantino, esuberante sostenitore dell´Italia dei film di generi, dagli horror agli spaghetti western, che in un´intervista a Tv Sorrisi e Canzoni definisce «deprimente» la produzione degli ultimi tre anni. «Non accetto lezioni da Tarantino, sarà anche un grande regista, capace di divertire il pubblico con tutti i suoi eccessi e le sue citazioni, ma non mi sembra un profondo conoscitore di cinema, nei suoi film si muove in un territorio culturale decisamente limitato», dice Bellocchio, e una volta tanto abbandona gli abituali toni di serena pacatezza.
I giudizi di Tarantino, aggiunge «sono stupidi, vengono da uno che il nostro cinema non lo conosce e soprattutto non lo capisce nella sua generalità. È un cafone, ma peggio di lui è Renato Brunetta che, con le sue affermazioni, dimostra l´insipienza tipica di certi politici che ogni tanto si sentono in dovere d´insultare i film italiani senza averli visti. Bisogna proprio non capire nulla se si arriva a definire "da schifo" il nostro cinema. Lo dico perché il cinema lo conosco certamente meglio di lui. Brunetta è un economista? Si limiti a fare i conti, ma li faccia con onestà, s´informi, dovrebbe sapere che gli incassi in sala oggi sono solo una parte degli introiti di un film, calcoli il resto, le vendite all´estero, i dvd, i diritti televisivi. E soprattutto non dica menzogne». Pur rifiutando i giudizi di Tarantino e di Brunetta, Marco Bellocchio riconosce i problemi del cinema italiano che «fa riferimento diretto a quello che noi siamo, allo stato generale del paese immerso nelle incertezze di uno stallo politico. Non è un caso che i maggiori successi siano di film d´evasione. In questo senso noi stessi, parlo di autori che cercano di fare altro, ci sentiamo contaminati dai ritmi esterni, influenzati dalla superficialità imperante».
L´esperienza di giurato è stata utile anche da questo punto di vista: «I premi sono andati verso l´est del mondo, a un cinema pieno di energia, vitalità, libertà. Mi ha fatto pensare alla nostra tradizione neorealista, non avevamo una lira e facevamo film di grande forza che conquistavano il mondo. Nel film romeno ho ritrovato quella semplicità di racconto che forse noi, autori occidentali, abbiamo perso. In giuria eravamo sei registi del cinema cosiddetto "occidentale", e tutti siamo rimasti colpiti da "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni". L´unica sequenza del film che mi sembra non opportuna è quella del feto: in un film così essenziale non era necessario mostrarlo».
Bellocchio conferma la difficoltà di raggiungere verdetti unanimi. «Il film di Sokurov ha creato un certo dissenso. Bello, ben recitato, ma con una visione parziale. Trovo che nel difficile equilibrio tra bellezza e politica ci sono stati film affini più corretti, come "No man´s land" e l´italiano "Private"».

Repubblica 29.5.07
Giordano, Mussi e Diliberto soddisfatti per i loro candidati. Giovedì il primo vertice
La "Cosa Rossa" attacca il Pd "Nelle sfide vinciamo noi"
di Umberto Rosso


ROMA - Il punto lo faranno giovedì mattina, nel primo vertice della Cosa rossa. Giordano, Diliberto, Mussi e forse anche una new entry: i verdi di Pecoraro Scanio. Ma già, ad urne appena chiuse, i tre leader del cantiere della sinistra hanno il piano in mente: sfida aperta al Pd e pressing sul governo. In base alla teoria messa in campo, dopo i risultati delle amministrative, dal segretario del Prc: «Dove c´è un candidato di sinistra in alternativa al Pd, vince la sinistra». E forniscono le "prove" dell´enunciato. A Taranto finisce al ballottaggio, strapazzando l´Ulivo, Ezio Stefàno, un medico assai vicino a Rifondazione, pure se non risulta iscritto direttamente al partito di Bertinotti ma alla Sinistra Europea, e con i Comunisti italiani e la Sd pronti a garantire che si tratta di un personaggio-cerniera di tutta la sinistra radicale. Mussiano doc invece è Massimo Cialente, eletto sindaco dell´Aquila al primo turno con l´apporto dell´intera coalizione. E a Gorizia in pista per il ballottaggio con il centrodestra c´è don Andrea Bellavite, candidato del cartello della sinistra, che ha lasciato al palo il competitor dell´Ulivo. Ma che siano solo successi circoscritti, frutto di singole e complicate realtà locali? Molto di più per i capi della Cosa rossa, che ne traggono appunto una lezione politica generale: sul ring del voto, messi a tu per tu, gli uomini della sinistra possono anche battere i canditati del Partito democratico. «Non è vero che si vince al centro». E se nelle dichiarazioni ufficiali i toni sono piuttosto controllati, nelle prime valutazioni interne circolano commenti impietosi. «Il Pd esce complessivamente molto male da questa tornata: sul terreno lascia sette-otto punti, con un picco che raggiunge anche i 15 punti al nord. Un crollo, una disfatta per Fassino e Rutelli».
Che però, alle provinciali e quindi soprattutto nella zona "alta" del paese, non pare trainare la volata alla sinistra dell´Unione. Rifondazione, come quota-partito, perde almeno l´uno per cento al nord. Va meglio al sud, dove il Prc regge anche per il radicamento dei suoi dirigenti e della sua organizzazione. Lettura dei dirigenti: «Finiamo penalizzati dall´astensionismo operaio». Pare tenere meglio il Pdci, soprattutto in Toscana ed Emilia, dove conferma qualche sindaco uscente, come il primo cittadino di San Secondo Parmense, Bernardini. Difficile pesare la Sinistra democratica, in lista ancora sotto la Quercia. Bisognerà spulciare le liste dei consiglieri eletti. Solo che Rifondazione, com´era già successo dopo il risultato negativo in Sicilia, la battuta d´arresto del partito la mette nel conto del governo. Il prezzo pagato per dare sostegno ad un esecutivo che tarda a virare sul sociale e resta impigliato nella linea di Padoa-Schioppa. Diliberto era stato durissimo con il ministro dell´Economia prima del voto, «ci fa perdere le elezioni». A risultato acquisito, il giudizio del segretario del Pdci ne esce rafforzato. E per Franco Giordano il messaggio del voto al governo è fin troppo chiaro: «Si è aperta una questione settentrionale. Il centrosinistra al nord perde gli operai, che si astengono o finiscono anche per votare a destra. Colpa dei traccheggi del governo sui contratti, le pensioni e la precarietà. Gli alibi a questo punto sono caduti per tutti». Un paradosso, per il partito di Bertinotti. La forza che ha scelto di fare asse con Prodi ma, adesso, la squadra politica che paga di più pegno. E di continuare a giocare nel ruolo di donatori di sangue, gli uomini del presidente della Camera non hanno più voglia. Giovedì, al primo vertice del cantiere della sinistra, lo spiegheranno apertamente. La formula resterà la stessa, chiedere il rispetto del programma dell´Unione. I mezzi potrebbero cambiare.

l’Unità Roma 29.5.07
Sinistra: sfidiamo il Pd e Veltroni
Il 13 giugno assemblea cittadina
di Mariagrazia Gerina


«Siamo la sinistra perché altra sinistra non c’è», dice apodittico il segretario del Prc, Massimiliano Smeriglio. Invoca «il popolo della sinistra che a Roma è spesso disperso e sommerso ma ha una potenzialità enorme» Massimo Cervellini, coordinatore romano di Sinistra democratica. Mentre Fabio Nobile dei Comunisti italiani auspica che Roma non sia solo il laboratorio del Pd. Atlantide Di Tommaso (Sdi) lancia l’allarme laicità e il Verde Riccardo Mastrorillo si augura che «venga da qui il futuro candidato sindaco».
La sinistra capitolina avvia il suo cantiere e, con un «appello alla città» e la convocazione di un’assemblea pubblica per il prossimo 13 giugno, da «dentro l’alleanza» lancia la «sfida al partito democratico» e al suo «leader in pectore». Così viene definito il sindaco Walter Veltroni nell’appello cittadino firmato da Sinistra democratica, Pdci, Prc-Sinistra europea, Sdi e Verdi.
E se «Veltroni rappresenta una delle versioni più accantivanti del Partito democratico che verrà», concedono i firmatari, «il cambiamento di ruolo di Veltroni da sindaco di tutta l’Unione a leader in pectore del Partito Democratico - si legge nel documento presentato ieri nella sala del Carroccio del Campidoglio - ci consegna una novità negli equilibri tra la parte più moderata dell’alleanza e il coordinamento delle forze della Sinistra». Forze che - spiega il segretario del Prc Massimiliano Smeriglio - si propongono di costruire insieme un «blocco capace di organizzare in modo efficace le scelte del Campidoglio».
Primo appuntamento cittadino, l’assemblea pubblica che si terrà il prossimo 13 giugno alla sala Umberto in via della Mercede. Temi da cui partire: laicità, precarietà, espansione edilizia, diritti civili, voto ai migranti, unioni civile, casa, democrazia partecipativa.

Repubblica 29.5.07
Un convegno sul marxismo visto da Croce, Kelsen e Popper
Il comunismo dei liberali
di Giancarlo Bosetti


Punto di partenza: l’eredità di Bobbio

Escono di scena gli ultimi segni della sua esistenza politica; anche Bertinotti si prepara a ritirare la parola dalla circolazione. Se dunque si parla di comunismo, è per via degli effetti speculari che esso continua a esercitare nella vita politica - l´anticomunismo è ancora un principio attivo nelle campagne elettorali - e nel circuito filosofico e storico. Un accurato convegno torinese ha raccolto una trentina di relatori (tra gli altri, Salvadori, Galeotti, Reale, Roncaglia, Bechelloni, Revelli, Bovero, Canfora, Petrucciani, Ferrajoli, Urbinati) sul tema del comunismo nel pensiero liberale del ´900. Come in un grande interrogatorio, si è chiesto ai pensatori del secolo scorso - da Kelsen a Weber, da Croce a Rosselli, da Schumpeter a Popper, e poi ancora Salvemini, Orwell, Dewey, Hayek, Russell, Hannah Arendt - di esibire la sua critica del comunismo con il risultato di illuminare il pensiero liberale da un punto di vista nuovo.
Le critiche liberali al comunismo non avevano molto da aggiungere a quel che sappiamo sul suo fallimento, ma hanno molto da dirci sulla natura del liberalismo. Il progetto realizzato da Franco Sbarberi è stato la messa in esecuzione del lascito dell´Utopia capovolta (era il titolo di un celebre articolo di Norberto Bobbio del 1989): con quali mezzi e con quali ideali affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?
E scavando nella storia delle idee si scopre che il giudizio sul comunismo ha avuto in molti liberali la medesima preoccupazione della questione sociale: lo ha avuto in Croce e in Kelsen, in Aron e in Popper. Anzi il risultato di questo incontro torinese è stato di far luce sull´aspetto sociale del pensiero liberale, un aspetto che nella logica della guerra fredda si nascondeva dietro un anticomunismo che del comunismo avversava non i fini di giustizia ma i mezzi antidemocratici.
Se questo è evidente in pensatori progressisti come Orwell, Dewey o Rosselli e in tutta la tradizione socialista e democratica, lo è stato a lungo molto meno in autori come Popper. L´autore della Società aperta e i suoi nemici era di una durezza senza pari, e anche moralmente indignato, nei confronti dei funambolismi idealistici di Platone e di Hegel, ma trattava Marx con grande rispetto per la sua sincerità e per il coraggio dei suoi obiettivi di emancipazione del lavoro.
Indulgenze da lasciare sconcertato chi si aspettasse la critica anticomunista standard. L´indignazione scattava in Popper solo di fronte alla cecità ideologica che impediva all´autore del Manifesto di vedere che con l´avvento della "dittatura del proletariato" non sarebbero per niente finiti i conflitti economici e sociali. Anche Marx era dunque un "falso profeta" ma usciva da quelle pagine condannato con molte "attenuanti" che venivano invece negate a Platone ed Hegel. La distinzione nella concezione politica di Popper, liberale riformista, si fa, col passare degli anni e con nuove pubblicazioni, sempre più netta nei confronti del liberalismo laissez faire di Friedrich von Hayek.
Erano gli anni della guerra fredda - lo scontro tra democrazia e comunismo - ad esasperare il conflitto delle idee e a distorcerne la percezione. Alla stessa celebre distinzione di Isaiah Berlin tra "libertà negativa" e "libertà positiva" bisogna riconoscere il carattere di strumento di battaglia ideologica (Urbinati) più che il rigore di una distinzione teorica. Oggi anche un liberale, immune da tentazioni socialiste, come Ralf Dahrendorf respinge quella distinzione come una idea sbagliata. La critica liberale ai regimi totalitari è stata spesso simmetrica, rivolta in pari misura alle due dittature, nazista e comunista. Un esempio fu quello di Walter Lippman, influentissimo autore americano, che combatteva nella stessa misura in entrambe le direzioni (Salvadori) in ragione del fatto che percepiva un pericolo per la società americana provenire sia dal comunismo che dal fascismo.
Non da un liberale è venuta la critica forse più severa di tutte, ma da uno che l´esperienza comunista l´aveva vissuta in profondità: Arthur Koestler. È lui a sviluppare una vera "etica anticomunista" (Revelli) attraverso una ricostruzione psicologica e letteraria dell´ingresso nel comunismo che mette a nudo il peccato originale, quasi una terapia analitica. È lui, lo scrittore ungherese del Buio a mezzogiorno, a raccontare l´incanto ideologico e le tragedie sanguinose di un mondo fatto di "bellissimi errori superiori a squallide verità", è lui a raccontare il corpo a corpo con la sfida comunista, fatta insieme della "impossibilità di essere comunista e della impossibilità di non esserlo stato", di "grandezza della menzogna e desiderio di credere alla menzogna".

Corriere della Sera 29.5.07
L'autore svela i retroscena sulla giuria. «E l'Italia meritava la gara»
Bellocchio: veti politici nel verdetto di Cannes
«Pregiudizi su Sokurov. Tarantino? Un cafone»
di Giuseppina Manin


CANNES — «Dopo aver visto tutti i film del concorso, posso dire con cognizione di causa che in quella selezione sarebbero potuti entrare tranquillamente anche i nostri due titoli italiani, Centochiodi di Olmi e Mio fratello è figlio unico di Luchetti, invece relegati in sezioni collaterali». Il giorno dopo il verdetto, Marco Bellocchio smette i panni del giurato e apre il sacco delle polemiche. Con garbo ma anche con la schiettezza che gli è propria, il nostro regista ripete che l'assenza del cinema italiano dalla gara del sessantesimo Festival non era affatto giustificata. Tanto più pensando ai film francesi visti... «Su cui è meglio tacere», commenta lapidario. Ma come la mettiamo con Tarantino che, proprio l'altro giorno, ha accusato il nostro cinema di essere «deprimente»? «Tarantino deve tacere — risponde secco — Non accetto lezioni da uno come lui. E ancor meno ne accetto da Renato Brunetta, che insulta pubblicamente il nostro cinema senza capire nulla di cinema. Faccia il suo mestiere di economista e non pontifichi su quello che non sa. A parte il fatto che non mi pare sappia neanche fare i conti: il bilancio di un film non valuta solo il budget iniziale e gli incassi al botteghino. Deve tener conto dello sfruttamento nei dvd, dei passaggi in tv...».
Torniamo al Festival, è vero che le discussioni in giuria sono state accese? «Eravamo nove persone molto diverse. Ciascuno con un suo punto di vista preciso sul cinema e sul mondo. Ogni giudizio quindi è stato frutto di una lunga mediazione. Ma alla fine direi che tra noi tutto è stato molto sincero, molto leale». Unanimità su nessun titolo? «L'unanimità non mi pare un criterio adatto per un Festival articolato come Cannes. Qui basta la semplice maggioranza, la democrazia da queste parti è ancora tollerata». Adesso che tutto si è concluso, ci può dire quali erano i suoi preferiti? «Il film di Kim Ki-Duk Soon e quello di Carlos Reygadas Stellet Licht. Sul primo però non sono riuscito a trovare consensi sufficienti per un premio, sul secondo ce l'ho fatta». E il rumeno? Anche per lei era la Palma d'oro? «Il film di Mungiu ha molti meriti, un racconto semplice, diretto, una discrezione narrativa propria dei paesi dell'Est. L'unico difetto sta proprio nella scena che più ha fatto scalpore: l'esibizione un feto in primo piano. Forse un segno di una presa di posizione antiabortista del regista. Ma alla fine una stonatura con il resto».
Come mai nel vostro Palmares non è rientrato un film molto lodato come Alexandra di Sokurov? «E' indubbiamente molto bello, ma alcuni giurati hanno avvertito nel suo modo di raccontare la guerra in Cecenia una partigianeria verso l'esercito russo che non è piaciuta. Un premio avrebbe significato avallare quella presa di posizione».
Stando al verdetto, emerge una supremazia di un cinema dell'Est del mondo, lontano mille miglia per temi e stilemi da quello dominante di Hollywood. «Nuove cinematografie stanno crescendo con vitalità straordinaria. Con pochi mezzi mostrano di saper raccontare in modo chiaro, anche sbrigativo, le cose. Mi ricordano il nostro neorealismo, film come Il posto di Olmi. Un'immediata fluidità di linguaggio che abbiamo perduto». E oggi invece? «Ogni film è figlio del momento storico in cui nasce. In Italia stiamo vivendo uno stallo politico e culturale. E allora i titoli di successo sono quelli di evasione, quelli che più somigliano allo stile della tv. Persino noi che per professione ci occupiamo di cinema, siamo contaminati da certi diktat estetici del piccolo schermo. Ma poi, appena riesci a entrare nei ritmi di questi nuovi film, e ti lasci andare alla loro bellezza così diversa, sei felice di aver ripreso contatto con immagini profonde, con un cinema che ti resta dentro».
Certo però che in quei film le tragedie non mancano. A tanta vitalità sembra corrispondere uno sguardo senza speranza. «A me pare ben più disperato un certo cinema commerciale americano. Così frenetico e così vuoto, senza niente in cui credere. Mentre film come il giapponese Mogari no mori pur parlando della vecchiaia e dei suoi malanni, ha una forma di catarsi molto liberatoria. E Reygadas addirittura crede nei miracoli. Non di Dio ma degli uomini. Anzi, di una donna. L'amante del marito che fa resuscitare la moglie di lui... Più ottimismo di così».

il manifesto 29.5.07
Allarme a sinistra
di Valentino Parlato


In Italia, ormai, le elezioni amministrative sono diventate lobbistiche e clientelari, come è confermato dal modo nel quale si arriva alle candi­dature. Tuttavia il voto di domenica e lunedì è stato fortemente politico, espressivo del male della politica e della democrazia.
Il dato più rilevante è la scarsa partecipazione al voto, soprattutto a sinistra, con un allontanamento dalla partecipazione di una consistente parte di citta­dini, normalmente partecipi e attivi che tendono sempre di più a «chiamarsi fuori», delusi dalle loro at­tuali rappresentanze istituzionali. Un disamore con­fermato dal brutto risultato del nascituro Partito De­mocratico, ma anche dai costi che la sinistra-sinistra sta pagando alla sua partecipazione al governo.
La morale è che il degrado della politica produce un degrado della democrazia e, quindi, anche della sinistra, tanto più che dirsi di sinistra è diventato un'audacia, perché invece bisogna dirsi moderati e comprensivi delle ragioni dei processi di produzione capitalistici, altrimenti ci si sente fuori dal gioco.
Certo, non c'è stata la spallata che Berlusconi si au­gurava. Nella distribuzione dei poteri locali non è cambiato molto, salvo un arretramento sensibile del centro sinistra al nord, che ha un segno più leghista che berlusconiano. Il punto, ritengo, è che anche Ber­lusconi ha perso fascino: è diventato uno come gli al­tri. Anche lui spinge all'astensionismo: ha perso cre­dibilità. E, poi, c'è un trasformismo diffuso, come di­mostra il caso di Agrigento dove un signore di destra diventa sindaco eletto dal centro sinistra.
Se queste considerazioni hanno un qualche valo­re, le ultime elezioni amministrative dovrebbero far ri­flettere soprattutto il centro sinistra, ma, un po', an­che il centro destra. Se tutto si riduce al dibattito sul­la spallata (che non c'è stata) e il centro sinistra si consola per il fatto di non essere stato travolto, allora c'è solo da aspettarsi il peggio. Queste elezioni sono la conferma forte di quella crisi della politica della quale sono piene le pagine dei giornali. Se la sinistra non se ne rende conto e non fa in fretta qualcosa che riattivi la sua credibilità, allora c'è da attendersi solo un ulteriore deterioramento della politica e della de­mocrazia. Chi oggi sta al governo eviti di consolarsi nella logica del male minore e si sforzi di capire.

Corriere della sera 29.5.07
Una profezia di Ernst Jünger
Pubblichiamo la sintesi di una conferenza sul bio-diritto tenuta da Natalino Irti all'Università di San Paolo del Brasile


Si accendono, intorno a queste domande, conflitti di fedi religiose, di ideologie, di visioni del mondo. Nessuno è in grado di scorgere il futuro.
Ora il corpo è diventato un'entità che è possibile produrre.

I l diritto non può starsene più entro gli antichi termini e accogliere dal di fuori il nascere e morire. La giuridificazione del bios è inevitabile. La vita, nella sua elementare fisicità e corporeità, esige regole, fa appello alla decisione politica, varca impetuosa i confini del diritto. Non un giurista (i giuristi vanno con passo grave e lento), ma un sensibilissimo sismografo dell'età nostra, Ernst Jünger, già nel 1981 vedeva nelle nuove forme di procreazione «sintomi di una svolta del mondo», e annotava: «Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua ombra?». «Agire da barriera» o «scavare un letto alla corrente»: l'alternativa di Jünger implica, nell'uno e nell'altro modo, che il diritto prenda posizione, e dunque che assuma la vita, il nascere e il morire, come cosa propria, come eventi non ricevuti dall'esterno, ma previsti e disciplinati da norme. Non più appartenenti all'ordine spontaneo della natura, ma all'ordine artificiale del diritto. I codici civili si restringevano ai «momenti» del nascere e del morire, del venir, la «persona», dal nulla e del tornare al nulla.
I problemi posti dalla bio-tecnica sospingono il diritto sui termini estremi, sui confini già tenuti per invalicabili. I modi del nascere e i modi del morire diventano materia di diritto, e acquistano la necessaria rigidità di forme giuridiche. Questo ha di proprio il diritto: che, nell'atto di toccare esperienze di studio o di vita, le converte in forme, in quei modelli astratti e generali, che solo permettono di dominare l'irripetibile varietà delle cose e di protendersi verso il futuro. Giuridificazione significa riduzione in forme.
Questo è il punto, in cui bio-tecnica e bio-diritto si ritrovano nello stesso e identico orizzonte. Se l'una assume il corpo in fisica oggettività, l'altro ne considera modi e forme, anch'essi oggettivi, distaccati dalle singole e irripetibili individualità. Il processo di oggettivazione è comune ad ambedue le potenze, alle immani energie che mirano a governare le cose e gli uomini. Il corpo, nel suo nascere e morire, nel suo durare in vita, non è questo o quel corpo, il mio o il tuo, ma il corpo in sé, nella sua calcolabile e manipolabile oggettività. Non più l'individuo intero, corpo e pensiero, fisicità e spiritualità, ma la res extensa, una materia sperimentabile e regolabile, su cui si esercita, in un modo o nell'altro, la volontà dell'uomo. Il nascere e il morire diventano così eventi calcolabili: dalla razionalità scientifica, che ne segue e determina lo sviluppo; dalla razionalità giuridica, che, superati gli antichi confini, li converte in forme astratte, in modelli di azioni e schemi generali, Il corpo non è più la dimora di qualcos'altro, abitata per breve ora e poi lasciata verso altri regni: è il tutto della scienza, ed è il tutto del diritto. La rottura con la tradizione, la discontinuità dei tempi, ha note di tragedia. Il nascere, che era un pro-venire, un giungere dal passato e affacciarsi, passando dall'oggi, verso il futuro, è ormai un evento tecnologico. Il mistero è risolto, si conosce tutto prima; e prima è tutto interrompibile, correggibile, manipolabile. La bio-tecnica priva di significato il padre e la madre, o, meglio, li riveste di un significato in-naturale, che nulla ha da vedere con l'antico rapporto di filiazione. Ciò che sembrava impensabile è accaduto: non c'è più un diritto di conoscere il proprio padre o la propria madre. Ambedue possono rimanere ignoti, eppure il nato avrà un padre e una madre, che non saranno più naturali, ma determinati dall'artificialità del diritto, da un diverso criterio d'imputazione del figlio ai genitori.
È che eventi soffusi di mistero — vita, corpo, nascere, morire — sono ormai dissacrati e ridotti a calcolata oggettività.
Essi non ci vengono più dati dal di fuori e dall'alto (da qualcosa che chiamavamo divinità o destino), ma sono da noi prodotti: non li troviamo, ma li facciamo. Questa insaziata volontà di produrre si è estesa dalle cose agli uomini, riconducendo il corpo tra le cose fattibili. Un piccolo classico della filosofia stoica, il Manuale di Epitteto, si apre con la distinzione fra «le cose che dipendono da noi e quelle che non ne dipendono». Il corpo è elencato in quelle cose, che — come volge, in elegantissimo latino, Angelo Poliziano — «nostra opera non sunt». Ma la tecnica ha rotto la rigidità di questa antitesi, e fatto del corpo un nostrum opus, una cosa producibile. Anch'esso dipende da noi. Il diritto non può starsene come un curioso spettatore, né delegare ad altre potenze la guida degli uomini. I tempi esigono una presa di posizione. La scelta fra «agire da barriera» o «scavare un letto alla corrente» è affidata alla responsabilità politico-giuridica: non c'è alcun criterio di ferma e immutabile verità.

lunedì 28 maggio 2007

Corriere della Sera 28.5.07
Mussi: «Calabrese ora la pensa come me»


MILANO — Lui lo aveva previsto e ci tiene a ricordarlo. Il dissidente Fabio Mussi, ministro per l'Università e la Ricerca, che al congresso di Firenze ha lasciato i Ds in contrasto con la decisione di sciogliere la Quercia nel Partito democratico, ora si sfrega le mani soddisfatto: «Avevo già detto a Calabrese che sarebbe finita così». È il commento alla lettera aperta di Omar Calabrese sul Corriere della Sera di ieri, in cui il semiologo fiorentino ha spiegato che non solo non si iscriverà al Partito democratico, ma «anzi abiuro e rinnego — ha scritto — tutte le "belle parole" spese finora» perché è come la Dc, anzi peggio: «non c'è laicità ma tanta nomenclatura».
Parole dure, che Fabio Mussi ha commentato ponendo a Calabrese anche degli interrogativi: «Lui era entusiasta dell'Ulivo — ha ricordato — e ha continuato ad esserlo quando l'Ulivo si andava impoverendo.
Adesso vedo che è arrivato alle mie stesse conclusioni, e me ne rallegro; ma il problema, la domanda che bisogna porsi è: che fare? Io mi sono posto questo problema».

l’Unità 28.5.07
G.Bruno, dinamite mentale
di Giuseppe Montesano


È davvero una grave scorrettezza storica quella che attribuisce alla Chiesa cattolica di Roma la persecuzione di Giordano Bruno: perché in realtà il grande Nolano, il genio che si definì «hacademico di nulla hacademia», fu perseguitato da tutti. Dai calvinisti a Ginevra, dai professori universitari a Oxford, dai luterani in Germania, e dai pedanti mediocri dovunque: la Chiesa cattolica italiana, si limitò solo ad accendere il rogo finale. Ma perché Bruno ebbe una vita così difficile? Per saperlo bisogna che il lettore si regali Giordano Bruno. Il teatro della vita, la fondamentale biografia che Michele Ciliberto, che dirige la pubblicazione per l’Adelphi delle opere latine di Bruno ed è il curatore dei Dialoghi filosofici italiani per i Meridiani, ha scritto sull’uomo che scelse come motto per la sua vita «In tristitia hilaris, in hilaritate tristis». E ci sarebbe già tutto Bruno, in quel motto: la filosofia che si tuffa nel centro di forza tra gli opposti, che non teme le contraddizioni ma ricava da esse il combustibile per far divampare il potere conoscitivo, la pratica di una sapienza dove la filosofia lasci l’astrazione e scenda nel corpo stesso, e la malinconia per come va storto il mondo inseparabile dall’heroico furore: quello che fa entrare chi ne è vigile invasato nel magma della vita. La biografia di Ciliberto, di fronte alla scarsità non risolvibile di documenti e testimonianze, sceglie la via sacrosanta della biografia intellettuale: nessun aneddotismo polentoso, nessun indugio retorico sui luoghi drammatici della vita di Bruno, ma invece una ricostruzione minuziosa e viva del Nolano a partire dal suo pensiero e dalle tracce autobiografiche sparse a piene mani nei suoi testi. E per contrasto, a premiare il rigore di questa scelta apparentemente cool che Ciliberto ha fatto, ci viene davanti, più straordinario che mai, più sorprendente che mai, il ritratto vivente di quest’uomo: dalla giovinezza di studio e fede a Napoli, attraverso l’intera Europa intellettuale e fino agli ultimi anni. E sembra di vederlo, il Bruno che in prigione si sveglia di notte per sostenere, davanti agli sconvolti compagni di cella, la sua tesi su Dio come traditore del mondo: perché lo ha fatto e poi lo ha abbandonato rifiutandosi di governarlo; o quando viene ostracizzato dai «pedanti» perché si rifiuta di sottostare alle loro meschine regolette; e quando, sull’orlo della morte, sale sul rogo con lo stesso atteggiamento di assoluto disprezzo di quel Jan Hus che davanti alla vecchia bigotta che trascinava a fatica un pezzo di legno al suo rogo disse: «O sancta simplicitas!». I servi sempre solidali ai loro padroni, gli esecutori di roghi piccoli burocrati con famiglia a carico grati per lo stipendio, i mediocri e falliti censori e moralisti dell’informazione coalizzati contro i diversi e gli eccellenti: tutto questo Bruno lo vide con la massima chiarezza, e lo pagò sulla sua pelle.
Ma è forse proprio questo, oltre al suo praticare l’ibridazione combinatoria perpetua fra le più contrastanti filosofie, l’elemento più moderno del suo voler vivere il pensiero, e non limitarsi a pensarlo: la condanna, in Bruno assoluta, per le forme di sapere che diventano solo cultura, per i libri che nutrono solo altri libri, per i pensieri che sono solo pensieri e che non mettono mai in gioco la realtà. Il mondo aperto che Bruno voleva, l’infinito proliferare delle possibilità vitali che irrompono nel rigido rigor mortis delle certezze, oggi si sta di nuovo richiudendo. Che fare? Niente lagni sul buon tempo passato che è esistito solo nella menzogna dell’illusione, niente vie secondarie, ma sempre la sola via che resta: pensare sul serio. Finché i libri contengono dinamite mentale, come ne contiene Giordano Bruno. Il teatro della vita, non tutto è travestito dalla falsificazione. Le fonti per capire e pensare sono ancora a disposizione, bisogna solo avere voglia di andarci a bere. Il tempo nella vita per leggere-vivere è poco? Può darsi: ma senza quel tempo, domineranno solo e sempre i simulacri, e la vita sarà perduta.
Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Mondadori, pp.554, euro 30

l’Unità Lettere 28.5.07
Gramsci-Togliatti. Non mi pento di aver avuto ragione...
di Giuseppe Tamburrano


Caro Direttore,
non ho ben capito la lettera del compagno Carlo Arthemalle. Nel mio articolo “Gramsci il riformista” ho discusso i temi trattati nel libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca “Gramsci tra Mussolini e Stalin”. Tra questi temi non vi sono - a proposito di Togliatti - «i fronti popolari, la svolta di Salerno, la creazione di un partito diverso da tutti i PC e... la diffusione dell’opera di Gramsci». E non me ne sono occupato. Nel libro invece si affronta ampiamente il rapporto tra Gramsci in carcere e Togliatti a Mosca. E di questo ho parlato: un grande tema fin ora rimosso o mistificato dagli storici comunisti e affrontato da altri in modo più aderente ai fatti e cioè alla ferma convinzione di Gramsci che Togliatti volesse tenerlo in carcere. Tra questi ci sono stato anche io. Scrive Carlo Arthemalle: «Le cose si sono evolute in modo tale da restituire a Tamburrano una vecchiaia libera dai fantasmi che lo hanno assillato per una vita». Che cosa vuol dire? Che finalmente si possono difendere le convinzioni di Gramsci sul giornale da lui fondato e diventato organo del PCI di Togliatti? Evviva Padellaro! E se la mia vecchiaia è libera dai fantasmi che secondo il lettore mi hanno assillato da una vita (in altre parole la ricerca della verità finalmente appagata) non intendo certo pentirmi di aver avuto ragione e non invidio coloro la cui vecchiaia è invece oppressa da pentimenti, autocritiche, richieste di scuse.
Giuseppe Tamburrano


Corriere della Sera 28.5.07

«Pacelli distrusse il discorso di Pio XI contro il fascismo»


MILANO — Alla vigilia della sua morte, Pio XI aveva preparato un discorso molto aspro verso il fascismo, da pronunciare per il decimo anniversario dei Patti lateranensi l'11 febbraio 1939. Ma il giorno prima il cuore di Papa Ratti cedette. E il segretario di Stato Eugenio Pacelli, che di lì a poco sarebbe stato eletto pontefice con il nome di Pio XII, diede ordine di archiviare tutto il materiale relativo a quel discorso, distruggendo le bozze e i piombi pronti per la stampa. La vicenda è ricostruita nel libro di Emma Fattorini Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa (Einaudi). Il Sole 24 Ore ne ha anticipato ieri un brano, accusando Pacelli di aver censurato le critiche al fascismo del suo predecessore. Fu davvero così? Andrea Tornielli, biografo di Pio XII, sostiene che la scelta di non pubblicare il discorso era un atto dovuto: «Come cardinale camerlengo, in una fase di sede vacante, Pacelli non poteva fare altro: anche molti discorsi di Giovanni Paolo II sono rimasti inediti». Ma Emma Fattorini sottolinea che una cosa è non pubblicare un discorso, un'altra premurarsi di farlo sparire dalla circolazione: «Pacelli temeva che, se il testo fosse trapelato, avrebbe provocato una rottura tra la Chiesa e il fascismo. Il fatto è che nell'ultima fase del suo pontificato Pio XI si trovò isolato nella sua dura condanna del regime»

l’Unità 28.5.07
ARCHIVI Pio XII cancellò le tracce dello j’accuse di Papa Ratti? Un saggio di Emma Fattorini e la replica del biografo Andrea Tornielli
Condanna del nazifascismo, Pacelli censurò Pio XI? Storici divisi
di Roberto Monteforte


Un Papa censurato dal suo successore. Il discorso che papa Pio XI avrebbe voluto tenere ai vescovi italiani convocati in Vaticano per il decimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1939, con i suoi giudizi durissimi verso il regime di Benito Mussolini, di ferma condanna del nazismo e dei totalitarismi, il suo testamento spirituale, non fu mai pronunciato. Pio XI morì nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. E il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato cardinale Eugenio Pacelli, praticamente lo fece sparire. Pacelli ordina di distruggere le bozze di stampa in tipografia, pronte per la pubblicazione perché quel discorso sarebbe dovuto arrivare a tutti i vescovi italiani. L’accusa la lancia la storica Emma Fattorini che, dopo aver lavorato alle carte conservate nell’Archivio segreto vaticano, ricostruisce quegli avvenimenti nel suo lavoro Pio XI,Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, in libreria domani per Einaudi. La studiosa raccoglie anche la versione integrale del discorso del pontefice. «Era scritto a matita, con pochissime correzioni, con una grafia un po’ tremula ma chiarissima, si potrebbe dire di getto» precisa. «Era un testo d’importanza straordinaria» è, da parte sua, il giudizio che ne dà monsignor Domenico Tardini, della segreteria di Stato, quando il 12 gennaio 1941 riordina i suoi appunti su quei giorni, giudizio che l’autrice riporta.
Nel 1939 erano tesissimi i rapporti della Chiesa con Mussolini, per il suo crescente avvicinarsi a Hitler e per la promulgazione da poco avvenuta delle leggi razziali. La Chiesa sotto attacco e minacciata: questa era quanto papa Ratti era pronto a denunciare, anche in solitudine, disposto a mettere in discussione lo stesso Concordato. Un discorso talmente significativo, il suo, che vent’anni dopo, il 6 febbraio del 1959, nel trentesimo della Conciliazione, papa Giovanni XXIII decide di farlo conoscere ai vescovi. Le parti ritenute più significative verranno pubblicate anche dall’Osservatore Romano. Ma, commenta la Fattorini, era «una versione frammentata, inframezzata da commenti che ne hanno un po’ indebolito la carica». E insiste: «È Pacelli a impedire che divenga noto l'ultimo discorso di Pio XI. Il cardinale non ne fa neanche “una sintesi” per i vescovi che già erano giunti a Roma». Un Papa, allora,censurato dal successore? Il messaggio di Pio XI, l’intransigente e battagliero uomo di Chiesa, sminuito dal suo più stretto collaboratore e poi successore, monsignor Eugenio Pacelli, l’uomo che preferiva la mediazione diplomatica, la prudenza e la ragione di Stato?
Una tesi che viene rigettata da Andrea Tornielli, vaticanista e autore di una documentatissima biografia di papa Pacelli, Pio XII. Eugenio Pacelli un uomo sul trono di Pietro appena uscita per Mondadori. «Il Papa - spiega - era appena morto. I vescovi avrebbero partecipato ai funerali, non alla commemorazione del Concordato. Morto il Papa, Eugenio Pacelli non è più segretario di Stato. È però camerlengo: che cosa doveva fare se non ordinare che s’interrompesse la stampa delle copie del discorso e si distruggessero i piombi in tipografia? Pio XI non c’era più, l'evento della commemorazione era stato cancellato, il testo non sarebbe stato pronunciato. Con quale autorità poteva lui pubblicarlo? Spiace - commenta polemico - che ancora una volta la realtà dei fatti sia presentata in modo tendenzioso, facendo apparire Pacelli come l’uomo della censura». «Il discorso non venne distrutto - puntualizza - vennero distrutte le bozze a stampa nel periodo della Sede Vacante. Una procedura che non dovrebbe sorprendere. Questo però non viene detto».
Con ciò Tornielli non vuole affermare che non esistano differenze tra Pio XI e Pio XII. Da biografo di papa Pacelli ricorda anche, però, come quest’ultimo, appena eletto, tentò il tutto per tutto per non far scoppiare la guerra e poi per indurre Mussolini a non partecipare al conflitto. Due letture a confronto.

Repubblica 28.5.07
Siena, riunita in mostra la collezione Bonci Casuccini
Scavi etruschi in famiglia


«Questa era la più grande raccolta privata di antichità etrusche in Italia, seconda per il numero e l´interesse delle urne solamente al museo di Volterra. Costituiva il ricavato di svariate stagioni di scavo, svolte dal signor Pietro Bonci Casuccini, il cui nipote l´ha venduta al comune di Palermo, dove ancora viene mostrata nel suo complesso». Così l´archeologo e scrittore di viaggi inglese George Dennis ricorda nel suo volume The Cities and Cemeteries of Etruria, un classico dell´etruscologia.
La storia di quella raccolta è al centro della mostra Etruschi. La collezione Bonci Casuccini allestita a Siena, nel Complesso del Santa Maria della Scala, e a Chiusi in un edificio accanto al Museo Archeologico Nazionale. L´iniziativa è stata resa possibile dalla collaborazione tra il Museo Archeologico «A. Salinas» di Palermo e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana con il sostegno della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
Le vicende della collezione sono state ricostruite inserendole negli sviluppi dell´archeologia italiana dell´Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Esse hanno per protagonisti due figure anch´esse esemplificative di un´epoca: Pietro Bonci Casuccini, il collezionista ricordato da Dennis, e il pronipote Emilio. Pietro era nato nel 1757 e fu un esponente di spicco di quegli ambienti borghesi che, ricollegandosi alla politica di riforme portata avanti dal Granduca Pietro Leopoldo, realizzò la bonifica della Val di Chiana risollevando le condizioni economiche della zona. Raggiunto un benessere notevole iniziò ad interessarsi, nella piena maturità, alla ricerca archeologica. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1826, conducendo di persona scavi nelle sue proprietà intorno a Chiusi, riuscì a collezionare un numero impressionante di reperti etruschi. Alle spalle di quella fortunata stagione di ricerche, che ebbe tra i suoi campioni anche Luciano Bonaparte indagatore delle necropoli di Vulci, stava una fase di studi - nota come etruscheria - che tendeva ad attribuire agli Etruschi il primato culturale nel Mediterraneo prima della romanizzazione.
Pietro risentì di quell´impostazione degli studi che, nel dibattito scientifico del suo tempo, era in via di superamento dopo la lezione di Luigi Lanzi considerato a ragione il padre dell´etruscologia scientifica. Ma appare un innovatore nella scelta di aprire la raccolta al pubblico, pur restando di sua proprietà, e in alcune soluzioni museografiche individuate.
Nel 1842 il collezionista chiusino morì e la raccolta passò al figlio Francesco, i cui interessi culturali erano rivolti prevalentemente alla musica, e quindi ai nipoti che decisero di venderla. Ne proposero l´acquisto prima al Granduca Pietro Leopoldo II e poi, dopo l´Unità d´Italia, al nuovo Regno. Alcune trattative vennero portate avanti con il Museo del Louvre e col British Museum. La collezione venne infine acquistata nel 1865 dal Museo di Palermo: si voleva unificare il Paese anche attraverso la conoscenza reciproca del passato delle diverse regioni d´Italia.
Negli anni immediatamente successivi la scelta venne criticata con durezza e, nel 1902, Luigi Adriano Milani propose senza successo di riportare la raccolta in Toscana e specificatamente a Firenze.
Il rammarico per la cessione deve essere stato presente pure all´interno della famiglia e, allora, proprio sul finire dell´Ottocento, un pronipote di Pietro iniziò a costituirne un´altra riprendendo gli scavi. Emilio Bonci Casuccini era un personaggio di grande spessore umano e culturale, che «appassionato agricoltore, cercava di impiantare vigne là dove sperava di incontrare tombe etrusche» come ricorda Ranuccio Bianchi Bandinelli, lo storico dell´arte antica che ebbe occasione d´incontrarlo e apprezzarlo. La raccolta di Emilio, incrementata sino al 1934, anno della sua morte, venne ceduta nel 1953 al Museo Archeologico di Siena dove è attualmente esposta. Alcuni reperti appartenuti alle due raccolte sono restati nella disponibilità degli eredi e costituiscono oggi un terzo nucleo collezionistico anch´esso presentato in mostra.
Il percorso espositivo senese è diviso in quattro sezioni che danno conto delle vicende riassunte e illustrano l´importanza delle due raccolte. La sezione di Chiusi è incentrata sulla scultura arcaica in pietra e accoglie pezzi di particolare interesse, come la statua-cineraria detta di «Plutone», ma è contenuta nelle dimensioni. Vale allora la pena visitare il vicino Museo Archeologico Nazionale riallestito di recente e in grado di dare conto a pieno dell´importanza della Chiusi etrusca, ovvero della città del re Porsenna. Nell´ambito della collaborazione instauratasi tra le Istituzioni culturali palermitane e senesi, è visitabile in contemporanea, sempre negli spazi del Santa Maria della Scala, la mostra Pulcherrima Res. Preziosi ornamenti dal passato che presenta una selezione dei gioielli antichi conservati nel Medagliere del Museo Archeologico di Palermo.

domenica 27 maggio 2007

Corriere della Sera 27.5.07
Non mi iscriverò al Partito democratico. Peggio della Dc, niente laicità e tanta nomenclatura
Nella Democrazia cristiana il pensiero teocratico era meno presente
di Omar Calabrese


Caro direttore, che paradosso! Ho sognato per anni la formazione di un Partito democratico, e giusto fino a ieri ho partecipato attivamente a convegni, pubblicazioni, proposte orientate a questa finalità. Invece adesso, quando il momento parrebbe finalmente giunto, ho deciso con enorme sofferenza che a questo partito io non mi iscriverò, e anzi abiuro e rinnego tutte le «belle parole» spese finora. Le ragioni sono molte, e tutte, mi auguro, seriamente motivate.
La prima è che il futuro partito si mostra come la somma di nomenclature già esistenti. Per carità, non ho mai immaginato né desiderato che chi fa politica attiva debba oggi essere licenziato. Ho sperato, tuttavia, che l'ingresso in un nuovo organismo — che dovrà pur fondarsi su idee anch'esse nuove, altrimenti perché lo si fa? — spingesse tutti a rimettersi in gioco, a farsi votare da assemblee costituenti locali, per poi salire su su fino ai massimi livelli nazionali. Qui no: tutto è «rappresentanza», «quota», «visibilità», cioè proprio quei caratteri che hanno reso la politica così antipatica alla stragrande maggioranza dei cittadini. Addirittura, questo partito nasce con le sue correnti già precostituite e dotate di percentuali. Fra l'altro, con la conseguenza che, per rispettarle, le sue strutture saranno per forza mastodontiche, e la politica costerà sempre di più. Altro che svolta verso nuove forme di partecipazione!
La seconda ragione è che il futuro partito — se nuovo — dovrebbe aver già esplicitato le sue scelte e disegnato le sue innovazioni. Quanto meno: qualcuno dovrebbe averne già elaborato un loro schema ideale, in modo da far capire con chiarezza la sua missione, spingere gli aderenti a crederci e magari persino a entusiasmarsi. Mi sarei atteso insomma che poche persone competenti e autorevoli redigessero un manifesto politico e una carta costituente, e la sottoponessero poi al giudizio delle segreterie dei partiti, dei movimenti, delle assemblee degli eletti fino a giungere a una piattaforma di contenuti condivisi. Non l'invocazione astratta contenuta nel Manifesto dei Dieci di qualche tempo fa, ma una vera proposta costituente. Qui no: il comitato dei 45 «fondatori» non contiene di sicuro (perché non ne ha lo scopo) molte persone in grado di leggere e scrivere un progetto di filosofia politica, né molte in grado di strutturare un sistema di regole di partecipazione. Essendo tutti «rappresentanti», potranno al massimo pilotare il traghettamento dagli organismi a cui appartenevano a quelli che li ingloberanno in futuro. Altro che apertura verso nuove maniere di conquistare il consenso della collettività!
Il terzo motivo è che manca la precondizione necessaria per la nascita di un partito democratico, e cioè una solenne dichiarazione di laicità. «Democrazia» e «laicità» sono infatti due sinonimi, persino nell'etimologia: vengono da due parole greche, dèmos e làos, che significano entrambe «popolo», e intendono che il potere di prendere decisioni che riguardano tutti spetti a coloro che vengono eletti da quei tutti, sulla base di valori di libertà universalmente accettati. Se invece alcuni principi derivano da credenze «esterne» — come nelle religioni, che impongono una morale derivante dal loro Dio o dalle loro chiese — ebbene la democrazia non c'è più, c'è una libertà condizionata. Così, mentre democrazia e laicità garantiscono la vita stessa di tutte le religioni, le religioni finiscono per fare esattamente l'opposto. Ebbene, il nuovo partito nasce privo di una chiara espressione di questo spirito. È per natura una Democrazia cristiana con altro nome, anzi con un pensiero teocratico nascosto che quel partito non possedeva in questa proporzione. Il che non fa presagire niente di buono per resistere all'offensiva ideologica di papa Ratzinger in questo momento in atto. Altro che partito kennediano, il cui presidente cattolico affermava che in politica obbediva per prima cosa alla Costituzione!
Resta davvero assai poco da fare, insomma, per chi creda nella cosiddetta «democrazia partecipata». Rimane soltanto il principio di stare rigorosamente fuori da qualunque organizzazione politica, ed esercitare le armi — ahimè un po' spuntate e talora assai altezzose — della critica più severa, soprattutto la critica a coloro che dovrebbero esprimere concetti e sentimenti nei quali in teoria mi identifico, e che invece ne producono l'amaro fallimento. Oppure, per non essere definiti «qualunquisti», applicare alla lettera l'antica osservazione di Carlo Marx: «La rivoluzione non c'è stata, bisogna ancora leggere molto». Ma, in questo Paese così televisivo, ci rimarrà almeno quest'ultima difesa?

Corriere della Sera 27.5.07
Negli ultimi saggi sulla psiche, la biologia del cervello incontra la psichiatria
La rivincita di Freud sulle neuroscienze
di Edoardo Boncinelli


«Si riscopre il ruolo della psicoanalisi nello studio della mente»

RADICI. Gli studiosi sono attenti all'analisi del profondo
ATTUALITÀ. Oggi il problema è la coscienza, non l'inconscio

«È impaziente e indugia, vorrebbe osare e trepida, è preoccupata e furente, perché nel medesimo corpo in fondo ella odia il mostro e ama lo sposo», il bellissimo giovane, «alla cui vista la stessa luce della lampada brillò più viva».
Così Ovidio descrive le oscillazioni di Psiche nell'imminenza dell'incontro decisivo con Amore, suo divino sposo. E attraverso mille tribolazioni Psiche, la fanciulla la cui fulgida bellezza «sfida ogni descrizione», diverrà immortale. Immortali e imperiture si presentano in ogni tempo le oscillazioni e le sospensioni dell'animo umano, oggetto da sempre di affascinanti descrizione e di acute analisi.
Sono stati però essenzialmente gli ultimi cento anni quelli che hanno collocato la psiche umana al centro dell'attenzione e che ne hanno fatto un oggetto di studio e di riflessione di primaria importanza.
Con il termine psiche si intende usualmente quell'insieme di processi interiori che conducono ad un comportamento, magari ripetuto, ad uno stato d'animo, a specifiche preferenze e talvolta a specifiche convinzioni. Dove ha sede la psiche? In tutto il sistema nervoso — centrale, periferico e autonomo — e in quello endocrino, ma un ruolo centrale ve lo gioca certamente il cervello. In che rapporto si trova allora con la mente la psiche? È tutta una questione di definizioni. Si potrebbe anche sostenere che i due termini sono sinonimi, ma in genere si fa una certa distinzione fra la capacità raziocinante, calcolatrice, rivolta alla soluzione razionale di problemi espliciti — chiamandola mente — e la sfera delle motivazioni, dell'emotività e del sentimento — che chiamiamo più specificamente psiche.
Se studiare la mente non è un problema da poco, studiare la psiche si presenta ancora più arduo, anche in ragione dell'enorme numero di pregiudizi e di resistenze psicologiche che circondano l'argomento. Se è vero infatti che noi teniamo molto al nostro corpo e alla sua salute, è ancora più vero che il nostro principale obbiettivo è il benessere complessivo, sintesi superiore di elementi somatici e psichici.
Che cosa vogliamo sapere in sostanza dallo studio della psiche? Vogliamo sapere perché in questa o quella circostanza qualcuno, incluso noi stessi, si è comportato in una certa maniera, perché «si sente» in un certo stato d'animo, perché si mette spesso in certe situazioni e perché preferisce una cosa ad un'altra. E vogliamo saperlo anche quando, se non soprattutto quando, il soggetto presenta un disagio o è giudicato sofferente da chi lo circonda.
Chi dovrebbe fare questo studio? La psicologia innanzitutto, che è nata come scienza autonoma alla fine dell'Ottocento. Poi la psichiatria, clinica e ricerca allo stesso tempo. Poi lo studio scientifico della biologia del cervello, riassunto oggi con il termine collettivo di neuroscienze. Ma non c'è dubbio che l'evento più clamoroso, quello che ha cambiato completamente il clima dello studio della psiche e che ha di fatto messo la psiche al centro della nostra vita, è stato la nascita della psicoanalisi. Il suo geniale inventore, Sigmund Freud, ha messo a disposizione di tutti una teoria pressoché onnicomprensiva della psiche, una teoria di grande potenza narrativa e di enorme suggestione. Egli ha avuto il pregio di proporre una teoria sistematica, quando tutti i «sistemi» stavano cadendo e di affidarsi ad una narrazione mitologica, quando le mitologie stavano tramontando una dopo l'altra.
Quale di queste diverse discipline può darci un contributo decisivo allo studio della psiche? Tutte probabilmente, e magari con l'aiuto di qualche altra. Questo è l'assunto, per me più che ragionevole, di due opere di un certo peso uscite quasi contemporaneamente. Sto parlando di Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca a cura di Ethel S.Person, Arnold, M. Cooper e Glen O.Gabbard (Raffaello Cortina) e dei due volumi di Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Einaudi).
Per vie diverse e con accenti diversi, le due opere cercano di offrire un quadro aggiornato dello stato delle nostre conoscenze e delle ricerche in corso nel campo della psiche, normale e patologica. Da entrambe emerge chiaramente un'idea. Se un tempo era l'inconscio a costituire un problema, dal momento che per secoli si era ritenuto che fosse la coscienza l'essenza della nostra psiche e che i suoi contenuti ci fossero chiari e evidenti, oggi è semmai la coscienza a costituire il problema principale. Quasi tutto quello che ci accade si sviluppa nelle regioni inconsce, tanto dal punto di vista cognitivo quanto da quello emotivo. Solo una minima parte di tutto questo si affaccia, temporaneamente e fugacemente, alla nostra coscienza.
L'opera edita da Raffaello Cortina, traduzione quasi in tempo reale di un testo uscito negli Stati Uniti sotto l'egida della American Psychiatric Publishing, è più centrata, come dice il titolo, sulla teoria psicoanalitica. Si tratta di un compendio di quello che si può intendere oggi per pensiero e prassi psicoanalitica, alla luce dei suoi incontri e scontri con altre scienze della psiche e in particolare con le neuroscienze, con le quali si è talvolta fusa per dar luogo alla cosiddetta neuropsicoanalisi, la versione più scientificamente aggiornata della psicoanalisi stessa alle soglie del terzo millennio.
Ancora più interdisciplinare l'approccio del Dizionario storico di Einaudi, contenente moltissime voci redatte da fior di scienziati attivi nel campo delle neuroscienze sperimentali. Il quadro che se ne ricava è molto ampio e equilibrato, anche se non può sfuggire il fatto che la tematica di fondo e l'ordito stesso della trattazione sono di matrice inconfondibilmente psicoanalitica e giganti della stazza di William James passano in secondo piano rispetto a Freud, il cui spirito aleggia in ogni frase.

il manifesto 27.5.07
Una sferzata salutare
di Alessando Robecchi


Confesso di subire il fascino dei pugili suonati. Quindi provo tenerezza per questa sinistra italiana che tutti prendono a schiaffoni, dai vescovi agli industriali. Lei reagisce dicendo: «è una sferzata salutare", affermazione che si può tradurre: oh, sì, dammene ancora!
Questo per dire che come laici, di sinistra (ecc. ecc.) ce ne sentiamo dire di tutti i colori e abbiamo imparato a perdonare la propaganda del nemico, che spesso è comica e paradossale, a la Silvio, per capirci.
Siamo vecchi, tristi, trogloditi, abbiamo rovinato l'Italia, siamo permissivi, laschi, molli, non vogliamo far la guerra e ci stanno sulle palle i ricconi. Che scoperta. Che ci diano pure dei pedofili, però, mi pare eccessivo.
Molto chiaro Francesco Alberoni, domenica scorsa, sulla prima pagina del Corriere della sera:
«... Coloro che appartengono alla tradizione illuminista e scientista, per cui l'uomo è libero di fare di sé ciò che vuole. Essi sono favorevoli a qualsiasi espressione della propria sessualità, al divorzio, a tutte le forme di convivenza e di matrimonio, all'eliminazione della designazione di padre e madre, all'aborto, a molte droghe, all'eutanasia e alla sperimentazione genetica. Alcuni anche all'incesto e alla pedofilia».
Ecco qua. Vi riconoscete in questo ritrattino? Il professor Francesco Agnoli rilancia sul Foglio (ieri):
«... I sostenitori dell'eugenetica, i fautori dell'aborto, i paladini delle mamme-nonne, degli ibridi e delle chimere, della poligamia come 'fatto biologico', si scandalizzano, sbuffano e si sbracciano contro i pedofili ecclesiastici...».
Bel colpo. Il titolo era: Cari progressisti e libertari, com'è che i pedofili vi fanno schifo?
Mi pare tutto chiarissimo. Sono aperto al dialogo. Una sferzata salutare. Ma se vengono a dirmelo qui, possiamo discuterne a testate.

il manifesto Lettere 27.5.07
Una legge che sa di dignità


Caro manifesto, mercoledì scorso è stata approvata dal consiglio regionale del Lazio la legge sugli interventi a favore della popolazione detenuta. Finalmente un'istituzione come la regione prende in considerazione la tutela della dignità dei detenuti durante l'esecuzione della pena e il percorso di reingresso in società. Assicurare la tutela della salute è interesse non solo dei detenuti ma dell'intera collettività. Oggi il diritto alla salute in carcere è allo sfascio: è l'unico settore gestito ancora dal Ministero della giustizia nonostante la riforma Bindi del 1999 sancisca il definitivo passaggio al Ssn e alle regioni. In molte carceri non è assicurata la presenza dei medici 24h, ci sono problemi per l'approvvigionamento dei farmaci e vi sono molti sprechi. Bisogna poi considerare che, seconda una nostra indagine sul campo, sul piano nazionale, si registra che oltre il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci e sono maggiori che nella società libera gli episodi di suicidio o di autolesionismo così come malattie quali le epatiti e della pelle. Per altro verso la legge interviene sull'avviamento al lavoro e alla formazione professionale di detenuti e ex detenuti, aumentando le possibilità che gli interessati, una volta fuori, non commettano più reati e si dedichino a attività lecite. Secondo le statistiche ufficiali, se le istituzioni e la società libera applicano misure alternative al carcere, il tasso di recidiva scende al 19%. Chi invece esce dal carcere cade in un nuovo reato e nella conseguente carcerazione nel 68% dei casi. La regione Lazio con questa legge, voluta dall'assessore al bilancio partecipato del Prc, Luigi Nieri, contribuisce quindi in maniera seria e rigorosa a implementare la sicurezza urbana e sociale, sottraendo manovalanza alla criminalità attraverso percorsi di reinserimento partecipato dalle istituzioni e dalla società civile i cui benefici non possono che giovare anche alla tanto declamata sicurezza urbana. Ci auguriamo che anche le altre regioni seguano l'esempio laziale. Il carcere è un luogo dove la garanzia dei diritti dei detenuti significa anche maggiore sicurezza urbana.
I. Barbarossa, segr. naz. Prc;
A. Salerni, resp. carceri Prc;
G. Santoro, Ass. Antigone

sabato 26 maggio 2007

Repubblica 26.5.07
Un Meridiano con l'opera del pensatore olandese
Spinoza, il pensiero perseguitato di Umberto Galimberti


Nonostante l'insegnamento di Papa Ratzinger, secondo il quale non c'è conflitto tra fede e ragione (lasciando sottinteso che, in caso di conflitto, ad aver torto non è la fede, ma la ragione, in base al principio tomista: philosophia ancilla teologiae), i filosofi non se la sono mai passata tanto bene nel confronto con le autorità religiose, di qualunque posizione di fede esse siano espressione.
Ne è un esempio Baruch Spinoza, di cui Mondadori ha pubblicato in questi giorni l'intera sua opera, ottimamente tradotta e curata da Filippo Mignini con la collaborazione di Omero Proietti. Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia ebrea che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l'intolleranza religiosa di quel paese. A 24 anni venne espulso dalla comunità ebraica, dove era stato educato, «per eresie praticate ed insegnate».
Nel 1670 comparve anonimo il suo Trattato teologico-politico, dove tra l'altro si legge che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quel che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato dalla chiesa protestante e da quella cattolica, e Spinoza dovette impedire la pubblicazione di una traduzione olandese per evitare che fosse proibito anche in Olanda.
Stessa sorte ebbe la sua opera maggiore: Ethica ordine geometrico demonstrata, di cui Spinoza rinviò la pubblicazione perché sarebbe stata immediatamente condannata, in quanto si sosteneva che Dio è la natura (Deus sive natura) e le cose di natura sue manifestazioni regolate da una ferrea necessità. Per cui Spinoza può dire: «gli uomini credono di essere liberi perché sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati». Quest'opera verrà pubblicata solo dopo la morte del filosofo, che avvenne a 44 anni per tubercolosi, dopo una vita trascorsa fabbricando e pulendo lenti per strumenti ottici, per guadagnarsi il pane.
L'edizione Mondadori include le opere di Spinoza non nella collana di letteratura e di filosofia, ma in quella dei "Classici dello spirito". Giustamente, perché Spinoza spezza quell'impropria alleanza tra pensiero greco e pensiero giudaico-cristiano, così cara a Ratzinger e a Giovanni Reale, perché abissale è la differenza tra la cultura giudaico cristiana che concepisce la natura come un prodotto della "volontà" di Dio, consegnata alla "volontà" dell'uomo per il suo dominio, e la cultura greca che concepisce la natura come quel cosmo che, al dire di Eraclito: «Nessun dio e nessun uomo fece, perché sempre fu, è, e sarà», regolata da quella necessità (anánke) a cui l'azione umana deve piegarsi come alla suprema legge. Dello stesso parere è Platone che nelle Leggi scrive: «Non per te, uomo meschino, questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica».
Spinoza riprende l'originario modello greco, tenendolo ben distinto (donde le scomuniche) da quello giudaico-cristiano, che pone l'uomo al centro dell'universo e la natura come ambito del suo dominio. In questo modo ribalta la metafisica occidentale e soprattutto la stretta alleanza tra filosofia e teologia che su quella metafisica si fondava. In questo senso Spinoza anticipa l'oltrepassamento della metafisica, che noi conosciamo a partire da Nietzsche e da Heidegger, e, nel suo trattato sulla politica, precorre di un secolo e mezzo l'illuminismo, rivendicando la libertà di pensiero e la tolleranza nell'ambito delle fedi. Oggi come allora, Spinoza sarebbe rubricato tra i panteisti, come Cusano e Giordano Bruno, di cui il filosofo olandese evitò un'analoga fine solo astenendosi dal pubblicare i propri libri. Questa è la sorte della libertà di pensiero, quando egemoni sono le fedi.

Repubblica 26.5.07
Esperimento dell'università di Vancouver: i neonati sono più "intelligenti" di quel che pensavamo
Lingue straniere e ritmi musicali "Scoperte dei primi mesi di vita" di Luigi Bignami


ROMA - Prima che inizino a parlare i neonati sono in grado di capire quando stiamo utilizzando un linguaggio diverso da quello che solitamente usiamo per parlare con loro. Lo capiscono semplicemente guardandoci in faccia. E´ una delle scoperte fatte nel corso di una ricerca dagli scienziati canadesi di Vancouver (i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science).
I ricercatori hanno mostrato a 36 bambini di 4 mesi, i cui genitori parlano la lingua madre inglese, alcuni video muti in cui gli stessi volti familiari pronunciavano frasi in due lingue diverse, inglese e francese. Come elemento di riferimento, agli stessi bimbi sono stati mostrati i volti delle mamme mentre pronunciavano frasi solo nella loro lingua madre. Ebbene, quando ai neonati veniva detta una certa frase nella lingua a loro straniera, rimanevano a guardare più a lungo i volti rispetto a quando la stessa frase veniva pronunciata nella lingua madre.
Spiega Whitney Weikum, della British Columbia di Vancouver: «Questo comportamento è la dimostrazione che i bimbi riescono a distinguere le due situazioni e ovviamente quando si trovano di fronte alla lingua per loro straniera fanno uno sforzo maggiore nel seguire chi sta parlando loro. Era già noto che i bambini di quell´età sono in grado di percepire due lingue diverse, ma è la prima volta che si dimostra che sono capaci di farlo anche solo attraverso stimoli visivi». Questa capacità, tuttavia, si perde attorno all´ottavo mese di vita, se non c´è uno stimolo continuo al bilinguismo. Le stesse prove, infatti, sono state eseguite a 6 e poi ad 8 mesi. E mentre a 6 i bambini mostravano le stesse capacità dei neonati, a 8 questa proprietà risultava assente.
Lo studio dimostra l´importanza delle informazioni visive su un bambino piccolo, quali possono essere le forme della bocca che servono per le fasi iniziali dell´apprendimento della lingua. Kim Plunkett, neuroscienziato all´Università di Oxford è rimasto sorpreso non tanto dalla scoperta che i bambini sappiano comprendere le parole seguendo la forma della bocca, ma dal fatto che dopo 8 mesi questa capacità si perde. «Mi meraviglia che se una bocca inizia a muoversi in modo strano davanti ad un bimbo di 8 mesi, ciò non attira il suo interesse. Ho sempre pensato il contrario». Secondo Weikum la perdita di tale abilità è spiegata dalla perdita di interesse nell´osservare le labbra se si parla loro sempre con lo stesso linguaggio.
Alla stessa età i bambini perdono anche altre capacità che possiedono nei primissimi mesi. A 6, ad esempio, sono in grado di distinguere due volti di scimmie che ad un adulto appaiono identiche, ma non sono più in grado di percepirne la differenza a 8 mesi. E sempre prima degli 8 mesi i neonati sono in grado anche di percepire i diversi ritmi musicali, caratteristica che si perde al superamento dell´ottavo mese.

Repubblica 26.5.07
La parola "in" oggi ha molti significati. Pochi sanno che nell'antichità era associabile alla dea Estia, cioè a colei che rende sacro il lavoro dell'analista. Ecco il racconto sul mistero dell´anima e sugli archetipi che la illuminano di James Hillman


Soltanto una cosa certa abbiamo imparato facendo analisi, l´importanza del piccolo e particolareggiato. Il mio viaggio junghiano - e uso non a caso la parola "viaggio" perché si trattò proprio di un viaggio, dall´India himalayana attraverso Israele e la Svezia fino a Zurigo - iniziò con passi da gigante. L´India, le Tipologie, l´Individuazione, i Grandi Sogni, i Simboli Universali (volli fare la mia prima tesi sull´idea di Spirito, e la seconda sul Tempo), insomma GRANDE! Adesso, invece, sembra che io faccia passi da formica, una minuscola attenzione alle più piccole cose.
Ecco il perché di questo minuscolo titolo, "In", anche se non so ancora se non finirà per diventare più piccolo o ancora più grande di grande. Questa è già una dimensione della domanda: l´"in" ha delle dimensioni, una misura, una forma, un luogo?
Prima di arrivare a questo, vorrei però richiamare qualcosa che noi tutti già sappiamo. "In" è senza dubbio la parola dell´anima. "In" è decisamente "in", nella psicologia del profondo: in analisi, in terapia, in transfert, in amore, in relazione, in lutto, ingravidato, nella tua testa non nel tuo corpo - adesso "in" si è approfondito, è andato oltre, diventando nella mia lingua anche "into", la parola chiave che indica l´essere completamente assorbiti in qualcosa: nel bird watching, nel rap, nella cucina messicana.
La storia del nostro campo conferma questi usi ordinari di "in" e di "into". Fin dall´inizio, locus delle preoccupazioni psicoanalitiche furono la topografia interiore e le dinamiche di regioni, figure e forze, ricordi e sentimenti, flussi e complessi, tutti immaginati come interni, interiori, dentro.
Soprattutto i sentimenti, che sono tenuti "dentro" e lasciati uscire "fuori". Sono profondi, giù dentro di noi, continuamente presenti come colore e ritmo, interiori e riflessivi, che accompagnano il comportamento esteriore. Un´importante obiezione nei confronti del behaviorismo e della terapia del comportamento da parte degli analisti del profondo è stata che il behaviorismo non ha un "dentro". Non c´è nessun "in".
In breve, l´attività principale dell´analisi ha luogo dentro. "In" è dove si svolge la sua azione. È lì che si nasconde la vera persona, quel "me" interiore, e occuparsi di questo mondo interiore - cosa è successo nel passato e cosa potrebbe succedere nel futuro, significa occuparsi attentamente delle intromissioni genitoriali, dei lamentosi residui del bambino interiore, che si accompagnano all´introversione della libido e alle riduttive investigazioni dell´Ombra - quell´agenbite-bite of inwit, come Joyce chiamava l´introspezione piena di rimorsi. "In" è la preposizione chiave in analisi, più importante, credo, di "con". "In" è la direzione chiave del movimento psicologico, l´ubicazione chiave delle psicodinamiche, e la posizione privilegiata dei valori dell´anima. (...)
Noi analisti, nonostante la nostra aumentata capacità di riflettere e di analizzare, non siamo immuni dalla mentalità istituzionalizzata. In realtà siamo più sfortunati rispetto alla maggior parte degli altri professionisti proprio riguardo alla collettività delle nostre riflessioni, perché gli strumenti dell´analisi e della riflessione utilizzati per riflettere sulla nostra professione sono proprio i concetti forniti dall´istituzione. Siamo testimoni ogni giorno della grande impasse di cui spesso scriveva Jung: la grande difficoltà che ha la psiche, se non l´impossibilità, di diventare cosciente di sé per mezzo della psicologia. Come il conoscitore conosce sé stesso? (...)
Riguardo al nostro tema specifico, "in", noi troviamo l´"in" letteralizzato come un posto definito nel quale andiamo - l´inconscio, il corpo, oppure un definito tempo nel passato. Questa letteralizzazione ci fa dimenticare quello che diceva il maestro: non è la psiche che è in me, sono io nella psiche. Noi dimentichiamo e letteralizziamo l´anima dentro la pelle, la mente dentro il cranio, il sogno, l´emozione, la memoria dentro il "me", trascurando la psiche collettiva, l´anima mundi nella quale viviamo tutto il giorno la nostra vita.
A questo punto vorrei differenziare fra i principali usi linguistici di "in". Faccio questo in parte per diventare più consapevoli del predicamento in cui "in" ci mette. E, come diceva Jung, per diventare consapevoli ci vuole differenziazione. Quindi diamo una rapida scorsa a questi usi: li potrete trovare nel vostro dizionario o nella grammatica, dove li ho trovati io.
La preposizione "in" significa dentro i limiti di spazio, tempo, condizione, situazione, circostanza. "In" come limitato, circoscritto, definito. Come ho già detto: in analisi, in amore, nei guai, in tribunale, in pericolo, in fretta, in tempo. "In" come un essere limitati - in un giardino, nei guai, in analisi. Confinamento. Potremmo dire "incorniciato", "circondato". Dunque, quando diciamo che l´anima è nel corpo, non ci limitiamo a intendere "in" letteralmente, come dentro il luogo del corpo, ma anche, più ampiamente, come limitata dal corpo, confinata nel corpo, nelle circostanze del corpo.
"In" è anche il prefisso che introduce diversi significati:
1. Un prefisso negativo, privativo: indecisione, indistinto, inammissibile, ingiustizia, insano, incesto (come "non casto"), incapace, inconscio.
2. Il prefisso "in" significa anche un movimento in avanti che continua. Entrare, introdursi in qualcosa, e poi essere in essa, dentro di essa.
3. Questo significato di movimento continuato in avanti si mescola con un terzo significato del prefisso, in parole come incluso, inviluppato, intrappolato, incantato, inveterato, ingerito, innato, iniziato - dove siamo al tempo stesso veramente, effettivamente "in", e continuiamo il movimento sempre più all´interno nello stato che viene descritto.
In breve, "in" è una parola che rinchiude, imprigiona, intrappola.
Sembrerebbe che la parola "in" agisca come una forza archetipica - entrare nell´inconscio ci porta veramente ed effettivamente nella nostra situazione, nei nostri sentimenti, nei nostri ricordi, e avvolti nel transfert.
Dalla preposizione e dal prefisso non c´è che un piccolo passo per arrivare al sostantivo "in": coloro che sono "in", che sono "dentro", nel senso di "affiliati". Una persona che è "in" è al corrente di ciò che succede all´interno della riserva privilegiata, entro i confini di un particolare stato o condizione, tempo o luogo. (...)
Ma allora qual è il potere, chi è il Dio o la Dea che ci attira dentro, che ci mantiene dentro? Cos´è questa archetipica insistenza sull´interiorizzazione e sulla salvaguardia della santità dell´"in"? Io credo che la risposta a quel "chi?" sia Estia.
Prenderò adesso in considerazione alcuni passi del materiale che ho raccolto, soprattutto tra quello di cinque autori che hanno scritto di Estia e hanno già selezionato le fonti classiche e si sono immersi nel materiale che riguarda questa dea. Così citerò, oltre all´Inno omerico a Estia, Cults of the Greek States di Farnell, il capitolo su Estia in La grazia pagana di Ginette Paris, il saggio su Estia di Barbara Kirsey tradotto in I fili dell´anima, quello di Stephanie Demetrakopulos in Spring 1979 e quello di Paola Coppola Pignatelli in Spring 1985. Per ragioni di brevità, mi limiterò a citare alcune frasi di questi autori facendo via via pochi sporadici commenti, chiedendovi di guardare questi brani in funzione del lavoro analitico.
Prima però due parole su Estia in generale. Fu lei la prima di tutti gli immortali a essere onorata con libagioni e processioni - prima di Zeus, prima di Era, di Demetra e di Gaia. Come noi diciamo "alla salute!", prosit, santé, salud, kampei, l´echaim, i Romani dicevano "Vesta!". Era il focolare acceso, il focolare che emana calore. Questa è la sua immagine, il suo locus, la sua incarnazione. La parola latina per focolare è focus, che può essere tradotta nel linguaggio psicologico come l´attenzione centrante che appassiona alla vita tutto ciò che entra nel suo raggio d´azione. Estia è questo. Ovidio parla di Estia come "nient´altro che una fiamma viva". Il suo nome deriva probabilmente dall´indoeuropeo vas, "abitare in". Un´altra derivazione è quella dalla radice di "essenza". In breve, Estia è soltanto "in" e, come la concisione stessa, non è un oggetto visto, ma un focus che ravviva, che illumina, l´essenza dell´anima che abita in qualunque cosa.
- E adesso i brani che riguardano il prestare attenzione, il tenere un diario, le annotazioni del diario, le registrazioni dei sogni che sono la materia del lavoro interiore. Dice Platone ne Le leggi: "I giudici di un accusato che ha peccato contro gli Dei, i genitori o lo stato, alla fine di ogni giorno mettano per scritto tutte le cose attinenti al caso e depositino i rotoli sull´altare di Estia" (856 a).
- L´analisi come sostegno, come nutrimento, come un alimentare l´anima, come supporto incondizionato, come madre positiva: "Il 15 aprile a Roma venivano sacrificate a Vesta delle mucche gravide per assicurare un´abbondante disponibilità di latte". Vesta si occupava anche delle provviste di sale e della farina sacra (mola).
- L´analisi: un giorno alla volta, una seduta alla volta. Mantenerla fresca: "Le vestali non potevano conservare l´acqua ma dovevano andarne a prendere ogni giorno soltanto quella necessaria, in uno strano recipiente fatto appositamente per quello scopo. Il vaso aveva una base così stretta che non poteva stare dritto [non era possibile l´immagazzinamento; non si poteva usare acqua vecchia; la strettezza della base = la stretta disciplina del contenitore] e [questo conteni-tore] era chiamato futile."
- Quando finisce l´analisi come servizio all´"in"? L´"Analisi terminabile e interminabile" [Unendlich] di Freud. "Il più comune aggettivo/attributo di Vesta era eterna."
- Sulla terapia delle coppie e la risoluzione del conflitto. L´analisi come rifugio, come luogo sicuro. "Le controversie erano appianate presso l´altare di Estia". "Il focolare era anche un luogo per fare pace e per accordare clemenza." "Non prende parte alle guerre, alle rimostranze o alle relazioni fra gli Dei e i mortali." "Estia è capace di custodire le immagini."
- Il prossimo gruppo di immagini attesta l´impersonalità del lavoro e la sua numinosità, la traslazione anziché la relazione umana. Anche qui, quelle che seguono sono citazioni dirette dei cinque autori già menzionati. "Un aspetto centrale della coscienza di Estia è la propensione per l´anonimato." "Quando gli uomini giuravano su Estia, giuravano sul focolare sacro, non necessariamente su una qualche personalità." "La meno antropomorfica di tutte le divinità elleniche." "Una presenza potente, non un individuo personale." "Un numen più che una divinità."
- Sulla privatezza e la sicurezza del temenos analitico. "La frase ‘sta sacrificando a Estia´ divenne proverbiale di una faccenda segreta." "Asilo sacro dove poter trovare rifugio." "L´offerta sacrificale a Estia non è mai un sacrificio violento, con spargimento di sangue."
- Sull´assenza di intervento personale, cioè il concetto freudiano che l´analisi proceda per "astensione." "Non esisteva quasi nessun racconto su di lei." "Non indica alcun movimento."
- Sulla natura del progresso analitico e le descrizioni del Sé: "È sempre seduta su elementi circolari, così come circolari sono i luoghi dove è venerata."
- Sul primato della famiglia nell´analisi dell´individuo: "Specialmente connessa con la vita e la legge della famiglia e del clan." "L´unica vera cerimonia celebrata in suo onore [...] sembra essere stata un pranzo familiare." "Senza di lei gli umani non avrebbero feste." "Presiede alla progressione ‘da crudo a cotto´ che trasforma la natura in cibo."
A questo punto vorrei soffermarmi a distinguere fra la famiglia letterale - nel senso di Era, o della famiglia come generazione di figli, o anche della casa in sé - e la struttura psichica interna - che adesso noi formuliamo come sistema famiglia, quello che i Romani chiamavano gens, quello spirito invisibile che vi regna, l´anima della famiglia condivisa durante un pasto in comune, l´atto primario di civilizzazione. Non la coltivazione del cibo o la preparazione del cibo - Demetra e Afrodite - ma il rituale del mangiare il cibo insieme. Il fast-food da McDonald e il "mangiar fuori di corsa" possono fare di più per profanare Estia e danneggiare l´anima della terra di quanto non facciano tutte le altre cose che sono state proposte come causa della disfunzione della famiglia: i padri assenti, la violenza in televisione, le droghe, gli abusi, ecc. Il pasto condiviso, ricordiamocelo, è centrale per la vita contadina greca, italiana, ebraica, orientale, afro-americana e medio-occidentale, tanto che il rituale mangiare insieme anziché il dormire insieme potrebbe essere qualcosa che gli analisti al servizio dell´"in" di Estia potrebbero prendere in considerazione.
Torniamo alle citazioni.
- "Non lascia il suo posto; dobbiamo andare noi da lei." Nel Fedro di Platone, quando gli undici Dei muovono in volo nel cielo, Estia, "sola, rimane in casa degli Dei." (247a) "A lei è attribuita l´invenzione dell´architettura domestica." "La sua immagine è architettonica." "La sua immagine e il suo luogo sono identici." Sono brani dai quali ho tratto la conclusione che l´analisi, come rituale estiano dell´interiore, deve svolgersi in una situazione chiusa. Soltanto lì può esserci focus. L´analista non prende appuntamenti fuori, non fa house calls, perché il rituale è un rituale di luogo. Fin dagli inizi, in Bergstrasse e Seestrasse, la coscienza analitica "ha luogo" in uno spazio sacro, che dà un focus ai contenuti psichici. L´interiore si rivela fra le pareti e può essere estratto dalla sua errata collocazione nella "mia" storia passata, nella "mia" vita personale e nel letteralismo delle "mie" relazioni. L´arrivare e l´entrare nel luogo del terapeuta e l´allontanarsene sulla porta riverbera con le tensioni del rituale dell´entrare e dell´uscire dai confini di Estia. Architettonicamente Estia era accoppiata a Ermes. Lui all´esterno, lei all´interno. Via via che ci spostiamo verso l´ipertrofia di Ermes - ciberspazio, CD-rom, telefoni cellulari, satelliti, call-waiting, realtà virtuali - possiamo essere connessi dovunque "fuori" e avremo sempre più un disperato bisogno della centrante forza circolare di Estia, che ci impedisca di dissolverci nello spazio. In altre parole, in questo tempo di eccessivo Ermes l´analisi junghiana classica, rivolta verso l´interno, in quanto rituale osservanza di Estia, può essere più necessaria di quanto non lo sia mai stata.
- Sulle infrazioni specificamente sessuali in terapia: "Estia è immune dal potere di Afrodite e dalle frecce di Eros." "La sessualità deve essere nascosta a Estia." "Il desiderio di Estia di non sposarsi mai." Sicuramente conoscete la storia di Estia che sonnecchiava presso il focolare quando Priapo attraversò la soglia del suo territorio per violentarla, ma lei, svegliata dal raglio di avvertimento di un asino, lo fece fuggire via. Il fuoco di Priapo non ha a che fare con la fiamma del focolare. La sessualità diretta, sfrenata, non vi ha posto. Questo spauracchio, che è saltato fuori in analisi fin dal suo primo caso con Josef Breuer, e il purismo etico con il quale gli si resiste, fa parte del mito e del rituale di Estia. A Roma, per esempio, le vestali addette al suo culto erano vergini. Se qualcuna si macchiava in qualunque modo
- per l´andatura seduttiva, i capelli portati lunghi, l´abito immodesto, o anche un atteggiamento troppo scherzoso e malizioso - poteva essere, e di fatto lo era, seppellita viva in una stanza sotto terra, isolata e "cancellata" (questa è la parola usata dal testo), così come la nostra professione cancella il nome dalla lista degli analisti, li scomunica dall´associazione. Il nostro quieto conformismo rappresenta i rituali di un antico culto, dichiarandoci così in quel culto. La nostra purezza sessuale riguardo all´analisi è qualcosa di più che una puritana correttezza morale : è richiesta dalla Dea dell´"interiore". (...)
Adesso, in conclusione, vorrei spiegare più chiaramente ciò che, a partire da questa accozzaglia di note, mezzi pensieri e citazioni, ho cercato di dimostrare. Come prima cosa ho voluto affermare la preminenza di questa piccola parola e prefisso, "in", come una dominante della nostra ontologia analitica. Per questo vi ho condotto attraverso un riesame della semantica dell´"in".
Poi ho voluto mostrare l´approccio proprio di una psicologia archetipale, il ricorso al suo metodo per salvare il fenomeno, essendo in questo caso il fenomeno i sentimenti e gli importanti valori che restano attaccati alla parola "in", anche dopo che abbiamo applicato intellettualmente l´acido della decostruzione. Anche dopo aver deletteralizzato l´"in" e riconosciuto che esso non è letteralmente in nessun luogo, il richiamo dell´interno, del più intimo, dell´interiore, dell´introvertito, del dentro, non se ne va.
Ho poi giustificato questo attaccamento all´"in" come valido dal punto di vista archetipale. Cioè, il nostro amore per il carattere interiore dell´analisi non deriva semplicemente dall´abitudine storica di localizzare l´anima dentro la pelle, o dall´eccesso di soggettivismo e di personalismo che abbiamo coltivato nella nostra cultura cristiana, convertita fin da Agostino e poi da Cartesio, e da pensatori estremamente political correct, compresi Freud e Jung. Invece ho sostenuto, nell´ultima parte di queste osservazioni, che questa profonda importanza è data da Estia, e che l´analisi, oltre a essere in molti casi una rappresentazione del mito di Amore e Psiche, di Demetra e Persefone, di Ade, di Ermes, di Ercole e soprattutto di Edipo, con le sue intuizioni autodistruttive, è un rituale di Estia, un´osservanza che si prende cura del suo focolare.
Per me, questa scoperta di Estia fra i cocci del mio decostruito tempio analitico è stata una rivelazione di un valore immenso, perché Estia non conosce le distinzioni fra pubblico e privato, fra interiore ed esteriore - nel senso di introspezione psichica e attività politica -, fra sé e comunità. Al servizio di Estia si potrebbe non essere o più segreti e silenziosi o più comunitari e sociali. La scoperta di Estia fra le mie rovine significa anche per gli analisti che se Estia è colei che rende sacro il nostro lavoro, allora quello che il paziente fa e che noi facciamo nel municipio per mantenere ardenti i suoi carboni è parte del fare anima, altrettanto di quanto lo è qualunque sogno, qualunque ricordo, emozione o intuizione.

Repubblica 26.5.07
E Schopenhauer incontrò Buddha Esce "Il mio Oriente", una raccolta di scritti dispersi del grande filosofo di Franco Marcoaldi


Heidegger negava l'esistenza di un pensiero fuori d'Occidente

All'apice della comunione spirituale si apre una crepa insanabile (Hegel)

Considerava la vita una strada sbagliata da cui si deve tornare
Era affascinato dal pensiero indiano che trovava congeniale Heidegger negava l´esistenza di un pensiero fuori d´Occidente All´apice della comunione spirituale si apre però una crepa insanabile

La tradizione vuole che il principe Siddhartha Gautama (poi Buddha: il risvegliato), dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d´ogni genere, ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un mendicante, un malato, un vecchio e un morto. Bastò questo perché il giovane Siddhartha abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di un unico, immenso problema: come sradicare il dolore, che, a suo dire, nasce dalla continua sete dell´Io, destinata inevitabilmente alla frustrazione.
Arthur Schopenhauer non era un principe ma un figlio della borghesia e non visse nel subcontinente indiano del VI secolo avanti Cristo ma nell´Europa dell´Ottocento, eppure, ad ascoltarne le parole, la sua illuminazione fu più o meno la medesima: «a diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l´opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti».
Così comincia Il mio Oriente, un intarsio di testi, «tratti dal mare magnum delle carte manoscritte» ed egregiamente curati da Giovanni Gurisatti per l´editore Adelphi (pagg. 225 , euro 11), che ci consentono di seguire passo passo il viaggio di avvicinamento a un mondo che sin lì la filosofia europea aveva poco o punto considerato. Del resto, il medesimo vizio di arroganza culturale ha finito per marcare una parte considerevole della stessa filosofia europea novecentesca, come di recente ha ricordato Giangiorgio Pasqualotto nella sua introduzione all´opera del filosofo giapponese Nishida Kitaro, Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri). Basti, per tutti, il nome di Heidegger, il quale, mentre propugnava «l´ascolto del Linguaggio», in un "eloquente inciso" negava l´esistenza di un vero pensiero filosofico extra-occidentale, tanto in Cina quanto in India.
Ma torniamo al nostro Schopenhauer, che, al contrario - proprio nel momento di massima fortuna di Hegel, altro campione dell´eurocentrismo filosofico - fece da battistrada a un atteggiamento opposto: sorpreso com´era dalla «prodigiosa corrispondenza» del proprio pensiero con quello indiano e perciò stesso convinto che l´Oriente disponesse di una marcia in più. Anche nei confronti dei maestri occidentali a lui più prossimi: «Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhart e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo».
Cos´è dunque che affascina così tanto Schopenhauer? Quali sono le sue convinzioni e i punti di contatto, le sorprendenti affinità che rintraccia nella tradizione indiana e nel buddhismo in particolare? L´autore de Il mondo come volontà e rappresentazione è convinto che l´individuo non si muova sorretto dall´intelletto e dalla conoscenza, ma irresistibilmente sospinto da una volontà cieca e smodata, dalla tirannia di un desiderio che non conosce fine e sbocco, procurando di conseguenza una sofferenza senza limiti.
E poiché il Nostro non è uomo di balletti intellettuali, ma ama andare direttamente al punto, sostiene senza mezzi termini che il vero cuore della "volontà di vita" è il rapporto sessuale. «Dietro una maschera di morigeratezza, esso diventa sempre il protagonista assoluto: è la causa della guerra e lo scopo della pace, il fondamento del contegno e il fine dello scherzo, la fonte inesauribile del motto di spirito, la chiave di tutte le allusioni e lo scopo di tutti i cenni misteriosi, di tutte le proposte non fatte e di tutti gli sguardi furtivi; è l´ossessione quotidiana di giovani e di anziani, l´idea fissa della lussuria e il sogno della castità, sempre ricorrente a dispetto della propria volontà. In forza del suo potere assoluto di legittimo e autentico padrone del mondo, lo si vede in ogni attimo piantarsi sul trono che gli spetta, e da lassù deridere con gesto beffardo le misure adottate per imprigionarlo, se possibile, e tenerlo completamente nascosto, o almeno imporgli dei limiti in modo che si manifesti esclusivamente come una faccenda della vita del tutto secondaria e subordinata».
Certo, se si pensa alle vicende biografiche del filosofo tedesco raccontate in Entretiens (Criterion), viene spontaneo rimandare questa ossessiva insistenza teoretica al senso di tortura patito da chi, a dispetto di una conclamata misoginia, si era sentito a lungo schiavo della «cagna della sessualità»; preso in trappola dall´eterno femminino che «come la seppia, fugge e uccide sparando il suo inchiostro, navigando poi a suo agio in quell´acqua melmosa».
D´altronde, il filosofo de Il mio Oriente avrebbe buon gioco a rispondere che il suo pensiero (a differenza dei mistici) non muove dall´«interiorità» ma dall´«esteriorità», e che comunque soltanto gli eunuchi o gli ipocriti possono considerare la centralità attribuita alla libido sessuale come un´esagerazione.
Altrimenti perché gli indiani avrebbero eletto il «linga» e la «yoni» a simboli religiosi della vita della natura? Non v´è dubbio, «la pulsione sessuale è di per se il nocciolo della volontà di vita». Di più: «è ciò che perpetua e tiene unito l´intero mondo delle apparenze».
Ed è proprio qui, sempre secondo Schopenhauer, che si apre la grande distinzione tra religioni dell´errore e della verità. Al primo ceppo apparterrebbero ebraismo e islam, che attribuiscono «la massima realtà all´apparenza», che «fanno dell´esistenza uno scopo in sé», che sono rigidamente monoteiste e aborriscono gli idoli, che prevedono un inizio e una fine del mondo.
La religione della verità invece, è quella dei Veda, da cui derivano il buddhismo e «il Cristianesimo del Nuovo Testamento nel senso più stretto». In questo caso il mondo è riconosciuto «come una mera apparenza, l´esistenza come un male, la redenzione da essa come la meta, la completa rassegnazione come via». Peccato che la «bitorzoluta mitologia del Cristianesimo» sia figlia «di due genitori assai eterogenei, nata com´è dal conflitto tra la verità sentita e il monoteismo giudaico esistente, che le si contrappone in modo essenziale. Ne deriva anche il contrasto tra i passi morali del Nuovo Testamento - che sono eccellenti, ma che occupano soltanto 10-15 pagine circa - e tutto il resto, che consiste, da un lato, di una metafisica incredibilmente barocca, forzata a dispetto di ogni umano buon senso, dall´altro di favolette fatte per destar meraviglia».
Il cristianesimo che affascina Schopenhauer, dunque, è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l´antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all´esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: la vita è «una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro».
Come però mette bene in luce Gurisatti nella sua postfazione, proprio qui, all´apice di questo tragitto di comunione sprituale, si apre una crepa insanabile tra Schopenhauer e l´India. Forzando oltremisura l´aspetto negativo del pensiero buddhista, egli ammanta la figura capitale del nirvana di un tratto nichilista che non gli è proprio. E al contempo sottovaluta l´autentica saggezza buddhista, che, «rifiutando ogni ontologizzazione del dolore, del sé e del carattere, prevede la possibilità per tutti della guarigione e della trasformazione di se stessi, dunque l´oltrepassamento della sofferenza tramite la cosiddetta "via di mezzo"».
Questo «anacoreta del pensiero puro», finisce così per dimenticare il tratto fortemente empirico del buddhismo. E´ il Buddha stesso a dire: «come si saggia l´oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell´inconsistenza e dell´impermanenza del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità.
Ma a chi, scrive ancora Gurisatti, pensava alla salvezza come a un radicale ripudio e annichilimento dell´esistenza, non si attagliavano parole come quiete, gioia, serenità. Tutt´altre furono le caratteristiche di «un uomo malinconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino sdegnosamente arroccato su se stesso», e soprattutto inestricabilmente legato a un «occidentalissimo senso tragico della vita». Ecco perché Schopenhauer «fu senz´altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo. Malgré lui».

Repubblica 26.5.07
Cheniér e i fantasmi del cuore
Un saggio di Lionello Sozzi
di Benedetta Craveri


"Il paese delle chimere" è una riflessione sul tema dei sogni e delle illusioni nella cultura occidentale
Salì sulla ghigliottina insieme ad un altro letterato, Roucher, il 25 luglio del 1794
Al centro la figura del poeta francese decapitato durante la Rivoluzione
Secondo Baudelaire le illusioni per quanto diaboliche restavano approdi sublimi
Se la condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi non sarebbero morti

A Parigi, nelle prime ore del pomeriggio del 25 luglio 1794, due poeti, Jean-Antoine Roucher e André Chénier, si ritrovarono insieme sulla carretta che doveva condurli fino ai piedi della ghigliottina eretta alla Barriera di Vincennes. Roucher, allora sulla soglia dei cinquant´anni, aveva conquistato la notorietà con un poema sui Mesi, mentre il trentaduenne Chénier non aveva dato alle stampe che pochi componimenti e lasciava dietro di sé una vasta opera incompiuta. Solo la pubblicazione postuma dei suoi versi, avvenuta venticinque anni dopo, avrebbe rivelato alla Francia che la Rivoluzione l´aveva privata di uno dei suoi massimi poeti. I due amici impiegarono il tempo del tragitto dal tribunale al patibolo recitando dei versi di Racine ed affrontarono poi impavidamente la ghigliottina, ma diverso era stato lo stato d´animo con cui l´uno e l´altro avevano atteso che si consumasse il loro destino. Nei mesi di prigionia, consapevole della sorte che lo attendeva, Roucher non aveva voluto indulgere ad alcuna illusione di salvezza, scrivendo alla moglie: «Non mi piacciono, amica mia, le speranze di libertà alle quali a volte ti lasci andare. Sono speranze menzognere, e niente è più triste di una speranza delusa. Per conto mio me ne difendo come un crimine».
Chénier, invece, in una delle straordinarie creazioni poetiche scritte in carcere - l´ode consacrata a una vicina di cella, la bellissima Aimé de Coigny -, metteva in bocca alla sua Giovane prigioniera i celebri versi: «L´illusione feconda abita il mio seno./ Su di me le mura di una prigione gravano inutilmente./ Io ho le ali della speranza». Più che in una improbabile salvezza, Chénier sperava presumibilmente che la sua morte potesse servire agli ideali di giustizia e di libertà per cui si era battuto, ma rimane il fatto che se la sua condanna fosse stata pronunciata solo tre giorni più tardi, la morte di Robespierre e la fine del Terrore avrebbero aperto, a lui come a Roucher, le porte del carcere.
Il diverso atteggiamento dei due poeti davanti alla stessa drammatica prova, ci conduce al cuore de Il paese delle chimere. Aspetti e momenti dell´idea di illusione nella cultura occidentale (Sellerio, pagg. 415, euro 24) di Lionello Sozzi, libro di una vita, preziosa summa erudita con cui l´illustre studioso ha dato forma sistematica ai materiali e alle riflessioni raccolte nel corso di anni e anni di ricerche.
Quella di Sozzi è, infatti, una grande inchiesta sulle illusioni, le speranze, i sogni, gli inganni che hanno popolato l´immaginario occidentale e sulla varietà di significati di cui esse sono state investite nel corso dei secoli. Dopo una densa introduzione incentrata sulla "Semantica delle illusioni", in cui si ripercorrono i momenti più significativi della tradizione interpretativa ad esse consacrata, Sozzi illustra i risultati della sua perlustrazione in dieci capitoli dedicati ad altrettante accezioni storiche della tematica presa in esame. E basta passarne in rassegna i titoli - "L´illusione diabolica", "Illusioni, ragione, realtà", "Il paese delle chimere", "L´illusione analogica", "Chimere orrende", "Illusioni perdute", "Vanitas vanitatum", "Disperata speranza", "L´illusione feconda" - per rendersi conto del come, nella lunga durata, sia la messa in guardia dagli inganni dell´immaginazione a prevalere sulla fiducia nella forza vitale e nella capacità di trasfigurazione del reale che essa può portare con sé.
Non è qui possibile seguire, passo passo, il percorso storico e tematico tracciato da Sozzi, sulla scorta di una infinità di letture, attraverso il grande continente della letteratura europea; un percorso che va dall´antica condanna teologica dell´illusione come strumento di Satana fino al rovesciamento definitivo operato da Baudelaire. Nell´Inno alla Bellezza, infatti, il poeta dei Fiori del male affermava una volta per tutte che chimere ed illusioni potevano anche essere diaboliche ma conducevano ugualmente ad approdi sublimi. Mi limiterò perciò a ricordare, prendendo ad esempio Chénier e Roucher, i due modi diversi di intendere le illusioni che avevano caratterizzato il dibattito del Settecento, facendone un momento altamente ricco e significativo.
Fin dal secolo precedente, da Bacone a Descartes, da Spinoza a Bayle, la filosofia moderna aveva combattuto gli errori dell´immaginazione in nome della ragione e dell´esperienza empirica, preparando la strada al trionfo dei Lumi. Per i philosophes, scrive Sozzi, «le uniche certezze sono quelle cui approda l´ardimentosa ragione; le illusioni, i fantasmi del cuore, le labili chimere, quasi sempre nutrite di ansia religiosa e di istanze metafisiche, sono fonti di inganno, di ridicoli pregiudizi, di entusiasmo fanatico, si risolvono in un gioco derisorio, che dà parvenza di realtà ai fragili castelli della fantasia, espone al dileggio e all´amara delusione ogni dissennato vagheggiamento». Ed è a queste certezze che Roucher rimase stoicamente fedele, nonostante il sanguinoso voltafaccia della Dea Ragione negli anni atroci del Terrore.
Diametralmente opposto, come abbiamo visto, era stato, invece, l´atteggiamento di Chénier. Anche lui era figlio dei Lumi, anche lui credeva nel progresso, nella scienza, nella ragione, ma era troppo poeta per rinunciare ai diritti della fantasia e del sogno. Non a caso aveva celebrato i poteri dell´immaginazione in un bellissimo poemetto rimasto, purtroppo, allo stato frammentario, traendo dalla sua "fantasia infuocata" speranza ed energia per costruire un "mondo nuovo". Ma, in verità, già prima di lui, era stato Rousseau a rovesciare radicalmente i termini della riflessione settecentesca su verità e fantasia, su sogno e realtà, dichiarando che «il paese delle chimere è l´unico degno di essere abitato». Come mostra Sozzi, in pagine di estremo interesse, il grande scrittore ginevrino superava così l´antitesi tradizionale tra illusioni e presente, aprendo due prospettive: «L´illusione come attesa e speranza, come tensione verso impossibili possessi, come slancio verso i confini dell´assoluto, e l´illusione come fiction, come costruzione della mente, come favola consolante pur nella sua vanità». Perseguendo entrambe le strade, nei libri come nella vita, il Jean-Jacques indicava la strada agli scrittori a venire - fossero essi romantici o parnassiani, simbolisti o decadenti, illuminati o maledetti -, dando così alle chimere pieno diritto di cittadinanza nei cieli della letteratura.