mercoledì 30 maggio 2007

l’Unità 30.5.07
Di Salvo: risultati migliori con candidati più di sinistra
La capogruppo di Sd alla Camera: voto preoccupante, sottovalutato il malessere sociale


«IL NOSTRO GIUDIZIO sull’esito del voto è molto serio e preoccupato. Ma non siamo sorpresi: se si analizzano i flussi elettorali del 2006 si vede che c’è un voto dei ceti popolari già molto orientato verso il centrodestra: c’è un malessere sociale che questo primo anno di governo non ha risolto». Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sinistra democratica, è molto netta: «L’azione del governo non ha ancora risposto ai bisogni materiali di giustizia sociale certificati dall’Istat. La discussione sul tesoretto e alcune esternazioni sull’età pensionabile appaiono come una sottovalutazione di quei problemi. Nella Finanziaria ci sono stati dei segnali e anche sulla lotta all’evasione fiscale e al lavoro nero, ma bisogna andare avanti. Sulle pensioni bisogna dare dei segnali chiari: eliminare lo scalone e rivedere i coefficienti».
C’è chi dice che il voto al Nord derivi soprattutto da una delusione dei ceti produttivi.
«C’è una somma di richieste di rappresentanza che non si ritengono accolte. Io credo che il governo di centrosinistra dovrebbe ascoltare le richieste di chi vive in condizioni difficili, a partire dai precari: sarebbe coerente col programma dell’Unione».
È stato un voto contro il governo?
«È sbagliato tradurre automaticamente il voto amministrativo in un giudizio sul governo. Ma sarebbe miope non vedere come le due cose si influenzano. C’è un astensionismo che ha penalizzato il centrosinistra e che nasce anche da una distanza tra la politica e le persone. Poi ha pesato la discussione sul contratto degli statali: abbiamo dato l’impressione di un governo in difficoltà nel fare un atto normale».
C’è un problema di leadership nella maggioranza?
«C’è un modo per uscire dalle difficoltà: stare al programma, che non è usurato e incrocia le esigenze reali di un Paese che non è ancora uscito da 5 anni di declino berlusconiano».
Sembra che voi siate soddisfatti delle difficoltà dell’Ulivo. Eppure in moltissime liste eravate insieme...
«A Taranto no e abbiamo avuto un risultato lusinghiero. Le prove migliori il centrosinistra le ha realizzate dove c’erano candidati sindaco con un profilo nettamente di sinistra».
Mussi parla di una debacle per il Pd. Ma alle elezioni non c’era ancora...
«Non in quanto tale, ma le liste dell’Ulivo preludono a questa scelta. Non si può non vedere che gli elettori non l’hanno premiata. Il dato è omogeneo: in tutta Italia l’Ulivo ha avuto una riduzione consistente».
Anche Rifondazione non è andata benissimo...
«Mi pare che i risultati migliori li abbia quando sostiene candidati unitari della sinistra. E poi il sostegno leale al governo può essere stato pagato in termini elettorali. a.c.

Repubblica 30.5.07
Il partito perde il 2 per cento e punta sul cantiere a sinistra. Ma Mussi prende tempo
Suona l'allarme per il Prc
Consensi in calo e la Cosa Rossa stenta a decollare

L´ex correntone cerca ancora di coinvolgere i socialisti dello Sdi, mentre i Verdi sono divisi


ROMA - Molto male, come punta il dito Rutelli? «Bene non siamo andati, ma che il capo della Margherita con 370 mila voti perduti dal Pd ci venga a fare la lezione, è davvero troppo». Rifondazione apre il dossier analisi del voto. E scopre, amaramente, di aver lasciato per strada il due per cento alle provinciali (dal 6 al 4 per cento), quaranta mila voti tondi che mancano all´appello. In gran parte - ragiona Franco Giordano nella riunione di segreteria - inghiottiti nel fiume dell´astensione. Non nascondono la delusione, ma ora il Prc ha fretta. Molta fretta. Per il rilancio, punta tutto sul cantiere della sinistra. Il segretario lo ha spiegato a Fabio Mussi, il leader dell´ex correntone ds: dalla prima riunione congiunta dei radical dell´Unione, in programma domani, dobbiamo uscire con un patto di consultazione, e cominciare a parlare con una voce sola nella "trattativa" con il governo che Rifondazione ha intenzione di aprire. Obiettivo: spostare a sinistra l´asse di Palazzo Chigi, e prepararsi allo scontro con il Pd che «prevedibilmente» vuol giocare la partita tutta al centro. Solo che l´accelerazione della Cosa rossa non pare così bruciante come Rifondazione vorrebbe. La Sinistra Democratica prende tempo, cerca ancora di coinvolgere nell´operazione i socialisti di Boselli. Cesare Salvi, il capogruppo al Senato di Sd, giusto alla vigilia del vertice della sinistra ha voluto incontrare Villetti, il numero due dello Sdi. Porta aperta alla collaborazione (si lavora ad iniziative comuni sul tema laicità) ma soprattutto confermato lo schema di gioco che l´ex correntone ha in mente: «In una sinistra unita puntiamo ad un rapporto anche con voi socialisti - ha spiegato Salvi - e del resto sulle formule devono far premio i contenuti». Come a dire: non è ancora il momento di sottoscrivere patti di consultazione, prima ragioniamo tutti insieme sulle cose da fare, «e di certo in antitesi al Partito democratico». Ma fra Giordano e Boselli, dalle pensioni al Dpef, distanze abissali.
C´è, comunque, la novità dei Verdi. Si presentano anche loro alla posa della prima pietra del cantiere, domani mattina alle nove a Palazzo Marini. Arrivano in due, il presidente Alfonso Pecoraro Scanio e Paolo Cento, perché nel partito convivono due linee. Il ministro che non esclude ancora la possibilità di aprire un canale di confronto con il Partito democratico, il sottosegretario "movimentista" che fa il tifo invece per l´avventura della Cosa rossa. Risultato: la strada da imboccare è ancora incerta, e per il momento il Sole che ride potrebbe limitarsi al ruolo di osservatore delle grandi manovre. Impaziente invece Oliviero Diliberto. Le urne per il Pdci si sono rivelate più generose rispetto agli (ex) fratelli coltelli del Prc. Il partito guadagna una manciata di voti (dal 2,3 al 2,4), pescando soprattutto fra i delusi del Pd. E il segretario, sponsor della prima ora della federazione di sinistra, è pronto a rilanciare domani il suo appello ai compagni di strada: «Ora o mai più».
(u.r.)

Corriere della Sera 30.5.07
Giordano: l'azione dell'esecutivo non va, è a rischio
Il segretario del Prc: quelli del Pd tendono a decidere troppo. Noi potremmo non votare
di Fabrizio Roncone


ROMA — Onorevole Franco Giordano, senta: lei, conversando in Transatlantico, ha detto che la sconfitta dell'Unione alle amministrative non è un campanello d'allarme...
«Ma un campana. Una campana che rischia di suonare a morte».
Sembra che davvero lei abbia una percezione molto grave di quanto è accaduto.
«Grave? Solo grave? Sa cos'è accaduto? Un terremoto».
Con quale epicentro?
«Il Lombardo-Veneto. Ma le onde del sisma si sono propagate in tutto il Paese. Poi, se posso continuare nella metafora...».
Prego.
«Poi è venuta giù, e questo sarebbe onesto che tutti lo ammettessero, la costruzione su cui stavano organizzando il Partito democratico».
Non è che voi di Rifondazione siate andati tanto meglio, anzi.
«Lo so, lo so... Sono il segretario del partito e non mi sottraggo ai numeri. Ma, appunto, io, almeno io, avverto l'urgenza di cominciare a riorganizzarci, esattamente come si fa dopo un forte sisma».
Ha già in mente un piano?
«Guardi, io dico che occorre accelerare il processo di unità di tutte le forze della sinistra».
È un progetto affascinante, ne parlate da settimane ma poi...
«Invece siamo, credo, già abbastanza operativi».
Può essere più preciso, segretario?
«Domani mattina ci riuniremo aRoma. Noi, i Verdi, e poi i Comunisti italiani e, naturalmente, quelli di Sinistra democratica. Una riunione per cominciare a mettere giù un po' di punti fermi sul terreno economico- sociale...».
Segretario, lei usa toni...
«Glielo dico io, che toni uso: da contrattacco. Io dico alle forze di sinistra: fuori dalla trincea!».
Verso quali fronti?
«Verso i fronti più urgenti: pensioni, salari, precarietà. La grande questione settentrionale, divenuta urgente in queste ore, è, in realtà, la questione degli operai. Che molte forze governative, però, ignorano. Per questo, a Palazzo Chigi occorre cambiare agenda, passo...».
Se no?
«Io non voglio usare toni minacciosi, ma è chiaro che, a questo punto, dobbiamo cominciare a far valere gli effettivi rapporti di forza che ci sono in Parlamento».
Lei vuol dire che, in alcuni passaggi parlamentari, la sinistra potrebbe non votare...
«Io dico che se noi non siamo buoni per decidere, forse potremmo non essere buoni per votare».
Messaggio chiaro. Ma perché, scusi: non vi coinvolgono nelle decisioni?
«Mah... quelli del Pd, ormai è il caso di dirlo chiaramente, tendono a decidere un po' troppo per conto loro».
Leggendo queste sue parole, segretario, molti elettori del centrosinistra potrebbero trovare conferma di una spiacevole sensazione...
«Quale?».
Quella che spesso la coalizione di governo ha linee molto, troppo divergenti. Per esempio: dopo la sconfitta patita in Sicilia due settimane fa, il vostro capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, disse che la colpa era del ministro Tommaso Padoa-Schioppa...
«Guardi, oggi, risultati alla mano, è evidente che il problema è complessivo e riguarda l'intera azione del governo».
Segretario, lei forse non era mai stato così critico con Romano Prodi.
«Non è questione di essere critici. Ma realisti. Perché il governo o non decide, o decide in luoghi troppo frequentati da rappresentanti del Pd, oppure, più semplicemente, sbaglia i tempi».
Per esempio?
«Ha chiuso la vertenza con gli statali, l'altra notte, mentre era in corso lo spoglio. Politicamente un errore più che stupido, imbarazzante. Non potevano chiudere un mese fa?».
Qualcuno, leggendo questa intervista, crederà di sentire i tamburi di guerra rifondaroli. Il governo, segretario, è a rischio?
«I rischi, il governo, li corre se non si sbriga a mantenere le promesse fatte agli elettori».

Corriere della Sera 30.5.07
Ds e Dl meglio da soli Arretra Rifondazione
di Roberto Zuccolini


L'Ulivo crolla a Genova: meno della Quercia nel 2002 Nel centrodestra sono in crescita Lega e Forza Italia

ROMA — Nella Cdl avanzano Forza Italia e Lega, nell'Unione arretra l'Ulivo e quindi il futuro Partito Democratico. A sinistra reggono o crescono i partiti più piccoli, come Verdi, Pdci, Udeur e, soprattutto, l'Italia dei Valori. Mentre Rifondazione comunista indietreggia. E a destra An e Udc nel complesso confermano il loro peso, registrando un progresso in alcune città e un calo in altre.
Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di circa un quarto dell'elettorato, ma i dati di queste amministrative influiranno non poco sulle future scelte dei singoli partiti e delle diverse alleanze. Stando ai numeri elaborati da Forza Italia, là dove si è votato (non sono quindi cifre nazionali), il centrodestra avanza in modo sostanzioso, incassando il 57,72% alle provinciali contro il 38,28 dell'Unione e il 50,59% alle comunali contro il 46,08.
Lo slancio della Cdl è avvenuto soprattutto al Nord, dove sia il partito di Silvio Berlusconi che quello di Umberto Bossi crescono un po' ovunque. Da segnalare, in particolare, la performance della Lega a Verona, dove tra la lista Tosi (il neoeletto sindaco leghista) e la lista vera e propria si arriva al 28,2%. Cinque anni fa aveva il 6,1%. Nelle province del Nord Forza Italia è il primo partito e la Lega il secondo, alleanza che si conferma vincente. An è davanti a tutti a Lecce e Reggio Calabria.
Ma per avere un quadro che renda con più obiettività il rapporto di forze esistente tra i partiti occorre guardare i dati delle provinciali, dove le liste civiche hanno un impatto minore. Dal confronto tra i numeri emerge subito un dato che riguarda il futuro Partito Democratico. In tutte le sette province dove si è votato la lista unitaria dell'Ulivo è andata peggio di quanto siano andati cinque anni fa i Ds e la Margherita messi insieme. E non di poco. In alcuni casi il solo voto diessino di allora era addirittura superiore all'attuale dell'Ulivo.
È il caso della provincia di Genova dove Ds e Margherita prendono insieme il 30,2% mentre nel 2002 la Quercia aveva il 30,8 e i dl il 9. Oppure di La Spezia, dove l'Ulivo ha il 32,7% mentre la Quercia aveva il 33,5 e i diellini il 9,1. Fenomeno confermato al Comune di Genova, con la lista ulivista che prende il 34,3% contro il 44,4% incassato nel 2002 (35,1 i Ds e 9,2 la Margherita). Persino nella rossa Ancona si passa dal 41,2% di cinque anni fa (26,6 ds più il 14,6 dl) contro l'attuale 30,1%. La stessa cosa accade, con percentuali diverse, a Varese, Vercelli, Vicenza e Como. Certo, si potrebbe fare anche un discorso su candidati più o meno azzeccati. Ma gli avversari del futuro Pd portano avanti la controprova dell'Aquila, dove i due partiti si sono presentati da soli: i Ds sono cresciuti dello 0,6% e la Margherita è calata solo dello 0,9%.
Un altro dato significativo è rappresentato dal calo di Rifondazione comunista. Nelle sette province interessate dal voto avanza dello 0,2% solo a Vercelli mentre indietreggia in tutte le altre. Solo per fare due esempi: a Genova passa dal 7,9 al 5,8% e a Varese dal 6 al 3,6.

Repubblica 30.5.07
Il criminologo De Pasquali analizza gli omicidi tra le mura domestiche
"In famiglia il raptus è difficile il delitto è un atto finale"


ROMA - Paolo De Pasquali, criminologo, nel suo ultimo libro analizza "l´orrore in casa": i delitti tra le mura domestiche sono in aumento?
«Il loro numero si mantiene costante, anzi, negli ultimi 4/5 anni c´è stata una leggera flessione, i delitti in famiglia costituiscono circa il 30 per cento di quelli volontari, di questo 30 per cento la metà sono uxoricidi. Un dato abbastanza stabile, infatti mentre i casi di genitori che uccidono i figli e viceversa subiscono molte oscillazioni di anno in anno, le dinamiche di coppia rimangono abbastanza invariate».
Chi è che uccide in famiglia?
«In genere chi ha il potere, il marito uccide la moglie, la madre i figli».
Ma è l´uxoricidio il tipo di delitto più frequente...
«Sì, quasi sempre sono i mariti che uccidono le mogli, raramente accade il contrario».
Si può tracciare un identikit dell´uxoricida?
«In genere è di due tipi: c´è l´uomo che ha sempre avuto un atteggiamento violento sulla donna, perlopiù si tratta di una persona aggressiva, con una ridotta autostima, scarsa capacità relazionale, senso di inferiorità, quando vede che il suo dominio sulla compagna o sui figli viene messo in discussione, uccide, come tentativo estremo di ristabilire le gerarchie. Ci sono poi gli omicidi dovuti al senso di possesso, in questi casi il partner diventa un completamento della propria persona, l´uomo uccide per impedire l´abbandono, a volte dopo si suicida, per senso di colpa o per desiderio di ricongiungersi alla persona amata».
I delitti in famiglia spesso vengono descritti come frutto di un raptus, è vero?
«No, è difficile che accada così, l´omicidio è solo l´ultimo atto, il gesto che chiude problematiche difficili. Bisognerebbe imparare a cogliere in tempo i segnali, non ci si sveglia una mattina e si uccide un familiare. Tanti dibattiti, tante trasmissioni che accendono i riflettori su questi casi non spiegano mai che bisognerebbe educare a capire i segnali».
(m.c.)

Corriere della Sera 30.5.07
Sofri e i Servizi: mi proposero di uccidere i Nap
di Federica Cavadini


MILANO — Non più un assassinio ma una mazzetta di omicidi. Non un anonimo alto esponente dello Stato ma un (ultranoto) nome e cognome del «titolare dei servizi italiani». E nome e indirizzo del bersaglio da colpire. Più un fiume di dettagli, virgolettati compresi, meglio di un romanzo. La seconda attesa puntata della rivelazione di Adriano Sofri è comparsa a grande richiesta ieri sulle pagine del Foglio, a tre giorni dal botto: sabato l'ex leader di Lotta Continua (condannato a 22 anni per l'omicidio Calabresi, pena differita per motivi di salute) aveva scritto in un'ideale «Lettera a un giovane apprendista assassino» tre righe che da quel lunghissimo articolo erano esplose. A proposito della «dizione d'ufficio» — Luigi Calabresi era un fedele servitore dello Stato — Sofri scrive: «Sì. Ma di quale stato? Quello stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi affari riservati». Di cosa parla Sofri? E perché lo fa solo oggi? Chi altro sapeva? Sofri non rilascia interviste ma il bis lo concede e con generosità. Il pezzo di ieri sembra una deposizione. Chi, quando, come, dove, perché. Titolo, «Sofri spiega quella mazzetta di omicidi che gli fu chiesta». Il nome dell'uomo che bussò alla sua porta è Federico Umberto D'Amato, responsabile dell'Ufficio affari riservati. L'incontro avvenne a Roma nell'appartamento di Sofri, a cinque anni di distanza dalla strage di piazza Fontana, quindi nel '74. Ecco l'inedita clamorosa proposta criminale. Il nemico da eliminare erano i Nap, i nuclei armati proletari, in cui erano confluiti ex di Lc. I Nap avrebbero nuociuto allo Stato ma anche a Lotta continua — avrebbe detto D'Amato a Sofri — Era «interesse comune toglierli fisicamente di mezzo» e ciò poteva avvenire con una «mutua collaborazione e la sicurezza dell'impunità». Ma Sofri rifiuta quel patto scellerato: «Prima che finisse gli avevo indicato la porta».
Questa la rivelazione, fino a ieri segreta.
Ma non per tutti, qualcuno sapeva: «Misi a parte dell'episodio poche persone», scrive Sofri. Non gli ex di Lc, pare. Compagni militanti da ragazzi, più di trent'anni fa, oggi molti di loro sono giornalisti, politici, scrittori. Non sapeva Marco Boato, non sapeva Paolo Liguori, non sapeva Carlo Panella, né Luigi Manconi o Erri De Luca. Enrico Deaglio sì, con lui Sofri si era confidato. Domenica al Corriere dopo il primo articolo il direttore del settimanale
Diario aveva detto «mai sentito parlare di quell'episodio» ma ieri la memoria sembrava tornata: «Ne ho riparlato poco fa con Adriano e credo di ricordare qualcosa, vagamente. Mi raccontò della visita di D'Amato e mi disse di averlo messo alla porta. Il resto l'ho letto sul Foglio».
Sono passati più di trent'anni, qualcuno non ricorda, qualcuno non aveva contatti così ravvicinati con Sofri, qualcuno era troppo giovane. Però gli ex compagni di militanza sono compatti: Sofri racconta la verità, nessun dubbio. «Il fatto che io non conoscessi la vicenda non significa nulla — dice Paolo Liguori, direttore di Tgcom —. Avevo 21 anni, ero un ragazzo, figuriamoci se si confrontava con me Adriano. Ma il punto è che la parola di Sofri vale». Marco Boato, deputato dei Verdi, fu tra i fondatori di Lc con Sofri: «Con Adriano ci siamo parlati in queste ore. Non sapevo nulla, in quegli anni stavo a Trento. Ma non mi ha stupito, è terribilmente plausibile. Molte cose ignobili sono accadute non da parte dello Stato ma da certi apparati dello Stato». Carlo Panella, giornalista e scrittore, in Lc con Sofri entrò nel '72. Anche lui non appartiene al piccolo gruppo informato da Sofri («Non ne avevo la più pallida idea») ma non ha battuto ciglio quando ha letto l'articolo: «Apparati dello stato in quegli anni facevano giochi sporchi» e rilancia: «Chi è a conoscenza del lato oscuro della forza che agiva in quegli anni si faccia avanti. Sull'Ufficio affari riservati va fatta chiarezza». Il «perché ora» è una domanda retorica che già contiene la risposta per molti degli ex compagni di Sofri. «Condivido la scelta di parlare ora. E' legata all'ultima fase di monumentalizzazione della figura di Calabresi, stiamo assistendo ad una riscrittura della storia così ufficiale, sigillata e ipocrita», sostiene Deaglio. Boato parla di «una tragica complessità di un passato che è stata rimossa» e per Luigi Manconi è un «dovere storico e morale» ricostruire quel contesto. Intanto fonti vicine al Copaco, il comitato parlamentare di controllo sui servizi, sarebbero in corso contatti per una possibile audizione di Sofri sulla vicenda.

l’Unità 30.5.07
La sfida religiosa? È solo un «bluff»
di Bruno Gravagnuolo


Il teorema di Boeckenfoerde. L’ultimo numero di Reset, mensile diretto da Giancarlo Bosetti, mette a tema il«famoso» teorema di Boeckenfoerde, teologo tedesco. Esposto nel 1966 e che suona così: «Lo stato liberale è incapace di autogiustificarsi sulla base dei suoi presupposti etici». E perciò ne consegue che avrebbe bisogno di un’altra fondazione, più forte e davvero cogente. E su questo Reset sviluppa il confronto a più voci. Bene, con tutto il rispetto, quel «teorema» è una banalità. Perché nessun sistema, logico, etico, scientifico può fondarsi sui suoi stessi presupposti. A meno che non si tratti dell’Assoluto metafisico autofondantesi. Dunque anche un’eventuale fondamento etico-religioso dello Stato - quello a cui alludono i credenti alla Boeckenfoerde - necessita di una fondazione esterna ed è incapace quindi di autofondarsi. Se non su base dogmatica. Suvvia, è necessario citare Goedel e i suoi paradossi logici, per ricordare che nulla si autofonda epistemologicamente e nemmeno la matematica? Non è necessario. Sicché ai laici non resta che un solo criterio di fondazione politica: empirico. Storico. E di valori democratici acquisiti e ragionati in libertà, tra individui di pari dignità. Senza tutele superiori, né «sfide cognitive» privilegiate della Chiesa. Il dialogo? Ben venga. Ma il dialogo ha regole precise: laiche. E incorpora procedure e princìpi laici. In altri termini, la democrazia si autofonda, basta a se stessa, anche quando trascina dentro di sé pregresse eredità religiose. «Sfida cognitiva»? Un bluff. Con buona pace dell’ultimo Habermas, è la ragione che sfida il dogma. E non il contrario!

Corriere della Sera 30.5.07
Indomite, crudeli, «snaturate» Amazzoni, terrore dell'uomo
Dagli scavi presso il Don la conferma delle parole di Erodoto
di Eva Cantarella


DONNE «CONTRO» Si tagliavano un seno per usare meglio l'arco, si accoppiavano con i prigionieri, rifiutavano matrimonio e maternità

«Un tempo esistevano le Amazzoni, figlie di Ares, e abitavano presso il fiume Termodonte» racconta Lisia, nella orazione funebre in onore dei caduti in guerra. «Sole fra i popoli vicini, esse indossavano armature di ferro. Furono le prime ad apprendere l'arte di cavalcare: sorprendevano a cavallo il nemico disorientato, raggiungendolo se fuggiva, sfuggendolo se le inseguiva. Donne quanto al sesso, erano considerate uomini per il coraggio. Padrone di molte genti, avevano asservito i popoli vicini, ma quando conobbero la fama di Atene, per desiderio di gloria avanzarono in armi contro di noi. Ma nonostante i loro costumi il loro animo era femminile, e furono sconfitte...».
Le Amazzoni: mitiche guerriere, che secondo Erodoto vivevano nelle steppe a nord-est del fiume Don. Nei racconti dei greci, si tagliavano un seno per maneggiare meglio l'arco (di qui il nome a-mazon, «senza un seno», appunto) e combattevano al comando di una regina. Della più celebre di queste, Pentesilea, si raccontava che, avendo condotto il suo esercito a Troia per soccorrere i Troiani, era stata trafitta da una lancia di Achille, che dopo averla uccisa ne aveva oltraggiato il cadavere; ma si raccontava anche che incrociando lo sguardo della regina morente Achille se ne era perdutamente innamorato.
Detestando gli uomini e rifiutando il matrimonio, le Amazzoni si riproducevano accoppiandosi con i loro prigionieri, che successivamente uccidevano, o, secondo un'altra versione del mito, li tenevano come schiavi, dopo averli mutilati perché non potessero usare le armi. Quanto ai figli, superfluo dire che se maschi venivano uccisi (o, in una versione più benevola del mito, solamente accecati).
Questo raccontavano i greci delle Amazzoni. Un mito al servizio dell'ideologia, dunque. L'iconografia è chiara: dopo le guerre persiane, vestite in abiti orientali e fornite ad arco e frecce, le Amazzoni simbolizzano l'effeminatezza e la mancanza di autocontrollo del barbaro sconfitto. Nelle metope del Partenone, la battaglia tra loro e i Greci è collegata alla guerra dei Lapiti contro i Centauri, e non a caso. In modo diverso, Centauri e Amazzoni sono sfide all'ordine civilizzato: i Centauri sono espressione della mascolinità selvaggia, violenta, fuori controllo; le Amazzoni, popolo di sole donne snaturate e crudeli, simbolizzano l'opposizione a matrimonio e maternità. Il rifiuto di quel ruolo — insegnava il mito — è possibile solo in un mondo incivile, per i greci addirittura impensabile.
Ma quello che era impensabile per i greci poteva essere una realtà in altre parti del mondo? Esistono tracce di un momento in cui le donne, prima di essere destinate allo spazio interno della casa, partecipavano ad attività esterne, come la caccia e forse anche la guerra?
Durante gli scavi condotti dagli archeologi russi nei pressi di Millerovo, sulle rive del Don, all'interno di uno dei grandi tumuli che sorgono nella zona, è stato trovato uno scheletro femminile accanto al quale erano stati deposti da un lato una spada e un giavellotto, dall'altro un arco e una faretra piena di frecce, nonché uno specchietto di bronzo, un anello e una collana.
Le Amazzoni esistevano, ha titolato la stampa di tutto il mondo. Qualche precisazione è indispensabile: una donna guerriera non è la prova dell'esistenza di un'organizzazione sociale composta di sole donne, o in cui le donne comandano. Il ritrovamento di Millerovo dimostra solo che nelle steppe in cui Erodoto collocava le Amazzoni è esistita una società in cui le donne potevano avere ruoli diversi da quello familiare. Nulla a che vedere, per intenderci, con un eventuale matriarcato, della cui storicità, nell'Ottocento, le Amazzoni sono state considerate una prova. Ma oggi sappiamo — questo sì — che Erodoto non raccontava solo leggende: durante i suoi viaggi, era venuto a contatto con società dai costumi molto diversi dai suoi, dove le donne che combattevano non erano solo un mito. I greci, cui simili donne facevano orrore, avevano costruito su questa realtà un mito a loro uso e consumo: che riflette, quasi a esorcizzarlo, alcuni aspetti di un mondo realmente esistito. In questo senso e con queste avvertenze, la storicità del mito delle Amazzoni va rivalutata.

il manifesto 30.5.07
Tutto in famiglia
di Alessandro Robecchi


Siccome il Family Day è venuto bene, già si pensa di farne un appuntamento fisso. Molte sono le amene località italiane che vorrebbero ospitare il prossimo Family Day. Forte - sull'onda dell'emozione - la candidatura del ridente borgo di Marsciano (Umbria): moglie incinta ammazzata di botte, fermato il marito. Anche Belluno ha le carte in regola per ospitare la sagra della famiglia tradizionale: moglie accoltellata dal marito. Anche Parma se lo meriterebbe: moglie strangolata dal marito. Un gemellaggio per ospitare il Family Day si potrebbe tentare tra L'Aquila e Rieti, dove lo stesso tizio ha ammazzato a fucilate la convivente e la figliastra. Roma si candida soltanto con il triste episodio della figlia malata di mente che accoltella la madre. Mentre Gorgonzola (Lombardia), presenta il caso più standard: uccisa dal fidanzato che la sorprende con l'amante (tutti stranieri, in questo caso: al Family Day si potrebbe unire la tradizionale fiaccolata della Lega). E queste sono solo le candidature degli ultimi cinque giorni: quelle quotidiane celebrazioni della famiglia italiana dove alla fine, invece dei cantanti, intervengono i Ris e la scientifica. Altro che i bambini fanno oh! Sto aspettando con ansia che qualche esponente della sinistra ci spieghi che «bisogna ascoltare quella piazza». Bravo, ma quale? Belluno o Parma? Marsciano o Gorgonzola? Essere più precisi, please!
Quanto all'emergenza criminalità e alla voglia di sicurezza, la destra che ha trionfato al Nord al grido di «tolleranza zero» dovrebbe valutare alcune opzioni operative, come ad esempio le telecamere nelle sale da pranzo e le ronde notturne nelle camere da letto. Vedremo. Certo non mancano le note positive: se sono scontente della loro presenza nella politica, nell'economia, nelle istituzioni, le donne italiane possono invece gioire per il loro ruolo preminente in famiglia. Come vittime, sono maggioranza assoluta.

il manifesto 30.5.07
Analisi del voto
Crollo Ulivo: perde due voti su tre La destra vince ma non incassa
Il Pd perde 326mila voti Sconfitta pesante a Genova e nelle regioni «rosse». Nella Cdl «l'effetto Silvio» porta solo 2mila voti in più a Fi. Il Prc si dimezza. Lega avanti piano
di Matteo Bartocci


Rifondazione perde 4 voti su 9 (passa da 110mila a circa 60mila), cioè quasi si dimezza. L'Ulivo però riesce a fare anche di peggio: a conti fatti rispetto alle provinciali del 2002 lo hanno abbandonato 2 elettori su 3.
Il terremoto delle amministrative si è appena consumato e le prime conclusioni che si possono trarre dai risultati elettorali sono allarmanti. L'Unione cede sia per numero di amministrazioni sia per numero di voti. Nel complesso la Cdl conquista 13 capoluoghi su 26 (ne aveva 14). Il centrosinistra invece guida 6 capoluoghi (ne aveva 12). Mentre in 8 città si va al ballottaggio: 3 governate dall'Unione (Pistoia, Matera, Piacenza) e 5 dalla Cdl (Lucca, Latina, Taranto, Parma e Oristano).
Più in dettaglio. Primo: la destra (a parte la Lega) non guadagna voti. Anche se cresce in percentuale (+4%), Forza Italia in termini assoluti perde consenso e passa dai 420mila voti del 2002 ai 393mila del 2007. Anche depurato del 7% di astensionismo, il «Cavaliere taumaturgo» ottiene solo 2mila voti in più ma in province del Nord, dove il suo elettorato era molto più motivato di quello dell'Unione. Nessuna «spallata» nemmeno per la Lega, che passa da 180mila voti a 195mila (+3%). Carroccio decisivo ma ormai definitivamente lontano dai trionfi degli anni '90. Da considerare infine che nel 2002, dopo un anno di governo Berlusconi, la Cdl perse in proporzione molto di più dell'Unione in questo round amministrativo perché comunque il centrosinistra conquista città «aliene» come l'Aquila, Taranto e Agrigento.
Secondo: l'astensionismo penalizza molto di più il centrosinistra. Lo prova la vera batosta che si consuma nelle regioni «rosse» e la sconfitta senza nemmeno arrivare al ballottaggio in tante città del Nord come Como, Monza, Alessandria e Asti, con distacchi anche superiori ai 20 punti rispetto alla Cdl.
Terzo: il «caso Genova». Marta Vincenzi vince ma perde molti voti. E la provincia al ballottaggio è un segnale più che allarmante. In Liguria la sinistra di governo crolla. Per il Prc è un salasso: in provincia passa dai 35.400 voti del 2002 ai circa 9mila del 2007, -2,5%. Il dato siciliano non era dunque un fenomeno locale ma nazionale e quasi omogeneo.
Quarto: la scomparsa dell'Ulivo. O non si presenta (come in quasi tutto il centrosud) o subisce un crollo in termini di voti semplicemente impressionante, sensibile soprattutto in regioni rosse come le Marche e il Piemonte. Alle stesse provinciali del 2002 i Ds hanno avuto in tutto 330.243 voti, la Margherita 174.778, più 51.292 insieme come Ulivo. Totale: 556.313 voti. Risultati del 2007? L'Ulivo prende in tutto 229.626 voti. Anche considerando l'astensionismo non si avvicina nemmeno al dato dei soli Ds. 326mila voti in meno è un risultato che parla da sé, soprattutto se si considera che un anno fa alla camera negli stessi territori l'Ulivo aveva raccolto 639.960 consensi (anche se con un più alto tasso di partecipazione al voto).
Quarto: la sinistra del Pd vince e spesso convince. A L'Aquila e Taranto la sinistra vince se è unita su candidati convincenti e programmi riconoscibili anche a prescindere dalle forme in cui si presenta: tra liste civiche e partiti Stefàno prende a sinistra del Pd il 22,4%, mentre Cialente (Ds ma sostenitore della mozione Mussi) racimola l'11% e Andrea Bellavite a Gorizia supera l'Ulivo con il 20,2%.
In conclusione, la «barriera bipolare» è più salda che mai. Non si registrano «travasi» clamorosi di consenso. Chi paga più di tutti sono i Ds, primo partito di governo e spina dorsale del centrosinistra in quasi tutte le città italiane. L'Ulivo forse dovrebbe considerare un paradosso illuminato (anche) da questo voto: la sinistra spesso fa da «pesce pilota» allo «squalo Pd». Cioè dove si mobilita l'elettorato di sinistra il Pd si rafforza e lo fa in maniera esponenziale per via delle sue dimensioni. Per ottenerlo però ha bisogno di un'identità reale che ancora non c'è. E' sul piano culturale (legge e ordine, rivolta fiscale, no all'immigrazione e alla droga) che la Lega ha vinto più che nei numeri. Tutta la destra ha sposato tesi reazionarie senza remore. Non è inseguendola su quel terreno (i Nas a scuola, il leaderismo) che si invoglierà un elettorato scontento a tornare alle urne. E' la costruzione faticosa di due poli alternativi, forse, il vero insegnamento del terremoto di maggio.

Liberazione 30.5.07
Intervista al segretario del Prc dopo i risultati elettorali. "E' caduta la diga del Pd, è stato un crollo devastante che ha investito anche noi"
La questione operaia al Nord. La delusione per un governo che non ha risarcito i deboli. Domani il vertice con Sd, Pdci e Verdi
Giordano: «Ora unità a sinistra
per far cambiare strada a Prodi»
di Romina Velchi


Prende di petto la questione e, senza girarci attorno, Franco Giordano la mette al primo punto della scaletta delle cosa da dire: il risultato elettorale di Rifondazione «non è positivo». Ci sono, sì, dei segnali di controtendenza, ma questi segnali «non possono coprire le difficoltà del nostro voto». E spiega, con una metafora: «E' come se si fosse aperta una falla in una diga - leggo così il risultato del Pd, che è un tracollo - e l'acqua allaga anche noi. Solo se riusciamo a costruire degli argini adeguati non saremo travolti del tutto».

E l'argine potrebbe essere una sinistra più unita?
L'argine è determinato dalla connessione tra il salto di qualità nell'azione politica, economica e sociale del governo e la densità sociale, a partire da rapporti di forza diversi. In questo senso decisiva diventa la soggettività unitaria a sinistra.

Cosa andrai a dire domani all'appuntamento che vede riuniti tutti i protagonisti della sinistra?
Questo vertice è molto importante. Ma andiamo con ordine. Innazitutto, c'è un terremoto, il cui epicentro è il Nord ed in particolare il lombardo-veneto e da cui si diffondono a raggiera i contraccolpi sismici. Nasce, secondo me, da una sofferenza sociale acutissima, sulla quale si è costruita un'aspettativa intensa, un legame forte con la vittoria dell'Unione. Quando questo legame si spezza - l'abbiamo verificato davanti ai cancelli della Fiat e di tante altre di fabbriche - sorge il disincanto; che a sua volta produce o l'astensione e una forma di distanza dalla politica o, peggio, un voto a destra, con una forte identità territoriale e, spesso, reazionaria. Penso alla xenofobia, alla sicurezza; insomma, ai temi alimentati dalla destra in questa campagna elettorale, anche in forme che non fanno che dilatare angoscie e paure. Ho la sensazione che alcune aree del Nord stiano come la Francia dopo lo choc della vittoria di Le Pen. E non è un caso che, prevalentemente, questo tipo di identificazione ideologica avvenga con la Lega, la quale, libera dalle pastoie del governo, attrae come la carta moschicida questi spiriti animali liberati nella società. E per questo, la comunità manifesta per intero la sua ambivalenza: può essere solidale se costruisce un legame sociale e può essere contrappositiva, persino aggressiva, xenofoba e razzista: la piccola patria.

E come se ne esce?
Secondo me, per noi sarà impossibile tornare a parlare in quei luoghi se non restituiamo a quei lavoratori e a quelle lavoratrici il credito che hanno accumulato. La questione del Nord è una questione operaia e del lavoro dipendente. Però, questa è condizione necessaria ma non sufficiente. Perché dobbiamo anche intervenire con un sovrappiù di cultura politica alternativa e anche con una capacità di attrazione determinata da una dimensione unitaria. Una cultura antiliberista, pacifista, laica, totalmente nuova; in altre parole dobbiamo ottenere dei risultati sociali e poi prospettare un'alternativa.

Hai detto che o il governo cambia rotta o è il fallimento. Ma come si fa a far cambiare rotta al governo?
Incominciamo dal vertice di domani. C'è un passaggio decisivo che riguarda in particolar modo la trattativa sulle pensioni (e cioè abbattimento dello scalone), la lotta alla precarietà e il grande tema dei rinnovi contrattuali. Apro una parentesi: ho trovato francamente imperdonabile e assolutamente inpolitico per il governo chiudere la partita del contratto degli impiegati pubblici - apripista rispetto anche al rinnovo del contratto dei privati - dopo le elezioni. Una roba da non credere. L'appuntamento di domani, quindi, serve a dire unitariamente: bisogna rispettare le volontà e le aspettative di questi lavoratori. Senza ambiguità. E su questo siamo determinati. Aggiungo che, poi, questa esperienza dell'unità a sinistra va proseguita su altri temi e deve essere spendibile socialmente e politicamente. E deve sfociare in un vero e proprio patto di unità nazionale, che, oltre che utile sul piano istituzionale e governativo, può essere attrattivo dal punto di vista della costruzione di relazioni nella società.

Prevedi ricadute sul governo? La leadership di Prodi esce indebolita dal voto?
Ti rispondo così. Il problema è drammaticamente questo: se tutti discutono della leadership invece di che cosa sta accadendo nella società italiana, allora... Naturalmente, ci sono anche dei processi in controtendenza. Quando riusciamo a costruire una soggettività forte e sfidiamo il Partito democratico, come a Taranto e a Gorizia, andiamo più avanti: a Taranto fino al ballottaggio, a Gorizia l'abbiamo sfiorato per poco. Questi sono processi segnati da fenomeni partecipativi, mai processi costruiti a tavolino. E allora qui si misura anche il fatto che quando metti in campo una dimensione alternativa credibile e spendibile, come è successo con la stessa vicenda Vendola, allora puoi avere una forza efficace.

Però, per restare al caso di Taranto, non è che il risultato di Rifondazione sia brillante.
E' che noi siamo protagonisti di queste operazioni, ma spesso non veniamo percepiti come forza innovativa. Eppure noi siamo quelli più impegnati a lavorare sul terreno dell'unità - io dico a tutti: fuori dalle trincee - e dell'innovazione sia della teoria sia dell'agire politico. E a costruire la relazione con i movimenti.

Puoi anche innovare, ma se poi il governo va in un'altra direzione...
Il punto è come trovare efficacia nell'azione politica del governo. In questo senso sì che dobbiamo fare valere anche diversi rapporti di forza. Sarebbe semplicistico quanto devastante, dal punto di vista del consenso, sottrarsi unilateralmente. Invece, si deve condividere un percorso radicale e determinato con uno schieramento di sinistra e costruire su questo una nuova soggettività politica. In questo senso, l'apputamento di domani diventa decisivo. A questo punto noi chiediamo con determinazione al governo una dimensione di colleggialità che valga oggi per la trattativa e domani alla vigilia del Dpef; una diversa impostazione di politica economica e sociale; e un coinvolgimento della sinistra, che sta al governo con le proprie idee e la propria determinazione. Sono un po' sconcertato dal fatto che il Pd affronta il calo del Nord senza vedere i soggetti reali e parlando solo di leadership. A questo punto si apre una sfida, che - se è fattibile, concreta, credibile - può essere anche vincente, come dimostra Taranto. Su di noi, quindi, ricade una grande responsabilità, proprio nel passaggio più difficile; bisogna alzare la posta.

E come la mettiamo con il referendum elettorale?
Ecco, visto che il referendum è un atto unilaterale che rompe l'unità della coalizione, anche noi risponderemo con atti unilaterali. I Ds come sempre, a fronte di una campagna di destra, si accodano, ospitandoli pure alle feste dell'Unità. Questo provoca grandi tensioni. E perciò, come già al Senato, abbiamo scelto di forzare i tempi e di andare ad una discussione in Aula sulla legge elettorale, costruendo il consenso con chiunque sia d'accordo.

Il Messaggero 30.5.07
«L’uomo uccide per lesa autorità, la gravidanza non tutela»
Il criminologo De Pasquali: l’attenzione rivolta dalla donna al nascituro può scatenare l’aggressività
di Francesca Nunberg


ROMA - Viene uccisa in casa perché passa più tempo dentro casa, viene uccisa incinta perché distoglie la sua attenzione dall’uomo per rivolgerla al nascituro, viene uccisa quando cerca di emanciparsi da chi esige di ristabilire “l’ordine naturale”. Anche se nel 90 per cento dei casi le vittime degli omicidi sono uomini, quel 10 per cento che resta racconta storie di prevaricazione quotidiana, di urla soffocate perché i bambini non sentano, di donne distrutte molto prima di essere colpite a morte. «Hanno arrestato il marito? Nessuna sorpresa. Cinicamente, se si rivelerà lui il colpevole, sarà uno dei soliti delitti maturati in famiglia, un “omicidio di prossimità”, come li definisce il mio amico sociologo Fabio Piacenti». Esce a giorni il libro di Paolo De Pasquali, psichiatra e criminologo: L’orrore in casa. Psico-criminologia del parenticidio, FrancoAngeli editore. Coincidenze, anche se raramente la cronaca ci concede una tregua.
Dunque è una questione di potere?
«L’uomo uccide per volontà di dominio, per paura di essere abbandonato, per lesa autorità - risponde De Pasquali - Quando l’autorevolezza del pater familias si scontra con le istanze di autonomia di moglie e figli, lui può sentirsi inadeguato: l’acting out serve a ristabilire con la forza una situazione che gli sfugge di mano. Si sente inferiore anche dialetticamente e reagisce perché si vede ributtare in faccia il proprio fallimento. In genere c’è un’escalation di violenze, non si impazzisce da un giorno all’altro».
Qui, in effetti, c’era un passato di maltrattamenti; ma l’omicidio sembra d’impeto.
«Questo parrebbe dimostrare la scena del delitto disorganizzata, il sangue nella macchina e sugli oggetti, il tentativo di modificare il teatro del crimine per simulare la rapina... E’ un caso tipico: fuori una situazione apparentemente normale, la campagna, l’Umbria, la bella casa con i due bambini e il terzo in arrivo; dentro una situazione esplosiva».
Ma come ci si può accanire contro una donna incinta?
«Studi e statistiche, soprattutto americane, dicono che al contrario di quello che si pensa, che cioè la gravidanza tuteli la donna, proprio il suo stato può diventare il fattore scatenante per un soggetto già aggressivo. All’ottavo mese in genere si interrompono i rapporti sessuali e, se l’uomo si rivolge altrove, la donna può reagire con rabbia, innescando un meccanismo di violenze. Poi il focus di lei si sposta sul bambino che sta per nascere e lui si sente decentrato, trascurato, può arrivare anche a soffrire di depressione».Impossibile individuare i segnali prima della tragedia?
«Smettiamola con questi atteggiamenti fatalistici, eventi del genere sono raramente imprevedibili. Sia in ambito familiare che a scuola o sul posto di lavoro è possibile captare se qualcosa non funziona. E quindi cercare di prevenire, chiedendo l’intervento di uno psicologo, delle forze dell’ordine, di altri membri della famiglia. Ho individuato almeno una quindicina di fattori di rischio...».
Qualche esempio?
«L’abuso di alcol o stupefacenti, sia da parte della vittima che dell’omicida; minacce verbali ripetute e precedenti aggressioni fisiche; presenza di malattie psichiatriche o organiche; sbalzi di umore apparentemente inspiegabili; presenza di armi in casa; fattori esistenziali come perdita del lavoro, difficoltà economiche, gravi lutti; forme di gelosia patologica...».
Insomma dovrebbe essere possibile vedere, eppure Barbara è morta perché come sempre nessuno ha visto.

Il Messaggero 30.5.07
Lo psichiatra Jervis: ma comunque le droghe pesanti sono altra cosa
«Sottovalutati gli effetti della cannabis»
di Anna Maria Sersale


ROMA - Professor Jervis, negli Anni Settanta lo spinello faceva parte di una certa cultura della sinistra. Lo spinello, da allora, è stato tollerato. Alla luce dei fatti odierni pensa che ci sia stata una sottovalutazione del problema?
«Sicuramente c’è una sottovalutazione. Negli Anni Settanta molti degli effetti negativi della cannabis non sono stati considerati, anche perché non si conoscevano. Poi si è visto che gli effetti negativi erano più importanti di quanto si pensasse. La cannabis fa male, però non è paragonabile nè alla cocaina, nè all’eroina. C’è una differenza tra droghe leggere e pesanti». Risponde Giovanni Jervis, psichiatra, ordinario di Psicologia dinamica e clinica alla Sapienza, autore di molti libri.
Ma il tetracannabinolo, il principio attivo contenuto nella cannabis, oggi è potenziato. E’ passato dal 2 al 20 per cento. Quali conseguenze produce?
«Ad alti dosaggi, e con uso continuativo, gli effetti sono più gravi. Sono state selezionate delle piante capaci di produrre una maggiore concentrazione di principio attivo, ma questo non è sufficiente per trasformare una droga leggera in droga pesante Quanto ai danni, essi possono riguardare la memoria e la volontà. Ma un uso improvviso e massiccio di cannabis può anche provocare disturbi di tipo psicotico, simili a quelli prodotti da lsd o ecstasy, fino a rendere necessario il ricovero».
Un ragazzo che usa cannabinoidi può essere spinto verso droghe più pesanti?
«Il passaggio non dipende dalle sostanze, ma dall’ambito criminale che c’è intorno. Per questo sarei favorevole a una legislazione più tollerante, per sottrarre i ragazzi da quel mondo, perché, il fatto di trattare con gli spacciatori che vendono stupefacenti pesanti, induce nel consumatore la consapevolezza di avere scavalcato un “confine” e questo è molto pericoloso».

martedì 29 maggio 2007

Repubblica 29.5.07
Il regista commenta gli attacchi dell'autore americano e dell'economista Renato Brunetta
"Non accetto lezioni da Tarantino"
Cannes, il giurato Marco Bellocchio difende il cinema italiano
di Maria Pia Fusco


CANNES - «Dopo aver visto tutti i film del concorso sono convinto che almeno un paio di titoli italiani ci sarebbero stati benissimo». È la considerazione di Marco Bellocchio a conclusione dell´esperienza di giurato al festival. Una risposta agli attacchi dei giorni scorsi al cinema italiano, ultimo quello di Quentin Tarantino, esuberante sostenitore dell´Italia dei film di generi, dagli horror agli spaghetti western, che in un´intervista a Tv Sorrisi e Canzoni definisce «deprimente» la produzione degli ultimi tre anni. «Non accetto lezioni da Tarantino, sarà anche un grande regista, capace di divertire il pubblico con tutti i suoi eccessi e le sue citazioni, ma non mi sembra un profondo conoscitore di cinema, nei suoi film si muove in un territorio culturale decisamente limitato», dice Bellocchio, e una volta tanto abbandona gli abituali toni di serena pacatezza.
I giudizi di Tarantino, aggiunge «sono stupidi, vengono da uno che il nostro cinema non lo conosce e soprattutto non lo capisce nella sua generalità. È un cafone, ma peggio di lui è Renato Brunetta che, con le sue affermazioni, dimostra l´insipienza tipica di certi politici che ogni tanto si sentono in dovere d´insultare i film italiani senza averli visti. Bisogna proprio non capire nulla se si arriva a definire "da schifo" il nostro cinema. Lo dico perché il cinema lo conosco certamente meglio di lui. Brunetta è un economista? Si limiti a fare i conti, ma li faccia con onestà, s´informi, dovrebbe sapere che gli incassi in sala oggi sono solo una parte degli introiti di un film, calcoli il resto, le vendite all´estero, i dvd, i diritti televisivi. E soprattutto non dica menzogne». Pur rifiutando i giudizi di Tarantino e di Brunetta, Marco Bellocchio riconosce i problemi del cinema italiano che «fa riferimento diretto a quello che noi siamo, allo stato generale del paese immerso nelle incertezze di uno stallo politico. Non è un caso che i maggiori successi siano di film d´evasione. In questo senso noi stessi, parlo di autori che cercano di fare altro, ci sentiamo contaminati dai ritmi esterni, influenzati dalla superficialità imperante».
L´esperienza di giurato è stata utile anche da questo punto di vista: «I premi sono andati verso l´est del mondo, a un cinema pieno di energia, vitalità, libertà. Mi ha fatto pensare alla nostra tradizione neorealista, non avevamo una lira e facevamo film di grande forza che conquistavano il mondo. Nel film romeno ho ritrovato quella semplicità di racconto che forse noi, autori occidentali, abbiamo perso. In giuria eravamo sei registi del cinema cosiddetto "occidentale", e tutti siamo rimasti colpiti da "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni". L´unica sequenza del film che mi sembra non opportuna è quella del feto: in un film così essenziale non era necessario mostrarlo».
Bellocchio conferma la difficoltà di raggiungere verdetti unanimi. «Il film di Sokurov ha creato un certo dissenso. Bello, ben recitato, ma con una visione parziale. Trovo che nel difficile equilibrio tra bellezza e politica ci sono stati film affini più corretti, come "No man´s land" e l´italiano "Private"».

Repubblica 29.5.07
Giordano, Mussi e Diliberto soddisfatti per i loro candidati. Giovedì il primo vertice
La "Cosa Rossa" attacca il Pd "Nelle sfide vinciamo noi"
di Umberto Rosso


ROMA - Il punto lo faranno giovedì mattina, nel primo vertice della Cosa rossa. Giordano, Diliberto, Mussi e forse anche una new entry: i verdi di Pecoraro Scanio. Ma già, ad urne appena chiuse, i tre leader del cantiere della sinistra hanno il piano in mente: sfida aperta al Pd e pressing sul governo. In base alla teoria messa in campo, dopo i risultati delle amministrative, dal segretario del Prc: «Dove c´è un candidato di sinistra in alternativa al Pd, vince la sinistra». E forniscono le "prove" dell´enunciato. A Taranto finisce al ballottaggio, strapazzando l´Ulivo, Ezio Stefàno, un medico assai vicino a Rifondazione, pure se non risulta iscritto direttamente al partito di Bertinotti ma alla Sinistra Europea, e con i Comunisti italiani e la Sd pronti a garantire che si tratta di un personaggio-cerniera di tutta la sinistra radicale. Mussiano doc invece è Massimo Cialente, eletto sindaco dell´Aquila al primo turno con l´apporto dell´intera coalizione. E a Gorizia in pista per il ballottaggio con il centrodestra c´è don Andrea Bellavite, candidato del cartello della sinistra, che ha lasciato al palo il competitor dell´Ulivo. Ma che siano solo successi circoscritti, frutto di singole e complicate realtà locali? Molto di più per i capi della Cosa rossa, che ne traggono appunto una lezione politica generale: sul ring del voto, messi a tu per tu, gli uomini della sinistra possono anche battere i canditati del Partito democratico. «Non è vero che si vince al centro». E se nelle dichiarazioni ufficiali i toni sono piuttosto controllati, nelle prime valutazioni interne circolano commenti impietosi. «Il Pd esce complessivamente molto male da questa tornata: sul terreno lascia sette-otto punti, con un picco che raggiunge anche i 15 punti al nord. Un crollo, una disfatta per Fassino e Rutelli».
Che però, alle provinciali e quindi soprattutto nella zona "alta" del paese, non pare trainare la volata alla sinistra dell´Unione. Rifondazione, come quota-partito, perde almeno l´uno per cento al nord. Va meglio al sud, dove il Prc regge anche per il radicamento dei suoi dirigenti e della sua organizzazione. Lettura dei dirigenti: «Finiamo penalizzati dall´astensionismo operaio». Pare tenere meglio il Pdci, soprattutto in Toscana ed Emilia, dove conferma qualche sindaco uscente, come il primo cittadino di San Secondo Parmense, Bernardini. Difficile pesare la Sinistra democratica, in lista ancora sotto la Quercia. Bisognerà spulciare le liste dei consiglieri eletti. Solo che Rifondazione, com´era già successo dopo il risultato negativo in Sicilia, la battuta d´arresto del partito la mette nel conto del governo. Il prezzo pagato per dare sostegno ad un esecutivo che tarda a virare sul sociale e resta impigliato nella linea di Padoa-Schioppa. Diliberto era stato durissimo con il ministro dell´Economia prima del voto, «ci fa perdere le elezioni». A risultato acquisito, il giudizio del segretario del Pdci ne esce rafforzato. E per Franco Giordano il messaggio del voto al governo è fin troppo chiaro: «Si è aperta una questione settentrionale. Il centrosinistra al nord perde gli operai, che si astengono o finiscono anche per votare a destra. Colpa dei traccheggi del governo sui contratti, le pensioni e la precarietà. Gli alibi a questo punto sono caduti per tutti». Un paradosso, per il partito di Bertinotti. La forza che ha scelto di fare asse con Prodi ma, adesso, la squadra politica che paga di più pegno. E di continuare a giocare nel ruolo di donatori di sangue, gli uomini del presidente della Camera non hanno più voglia. Giovedì, al primo vertice del cantiere della sinistra, lo spiegheranno apertamente. La formula resterà la stessa, chiedere il rispetto del programma dell´Unione. I mezzi potrebbero cambiare.

l’Unità Roma 29.5.07
Sinistra: sfidiamo il Pd e Veltroni
Il 13 giugno assemblea cittadina
di Mariagrazia Gerina


«Siamo la sinistra perché altra sinistra non c’è», dice apodittico il segretario del Prc, Massimiliano Smeriglio. Invoca «il popolo della sinistra che a Roma è spesso disperso e sommerso ma ha una potenzialità enorme» Massimo Cervellini, coordinatore romano di Sinistra democratica. Mentre Fabio Nobile dei Comunisti italiani auspica che Roma non sia solo il laboratorio del Pd. Atlantide Di Tommaso (Sdi) lancia l’allarme laicità e il Verde Riccardo Mastrorillo si augura che «venga da qui il futuro candidato sindaco».
La sinistra capitolina avvia il suo cantiere e, con un «appello alla città» e la convocazione di un’assemblea pubblica per il prossimo 13 giugno, da «dentro l’alleanza» lancia la «sfida al partito democratico» e al suo «leader in pectore». Così viene definito il sindaco Walter Veltroni nell’appello cittadino firmato da Sinistra democratica, Pdci, Prc-Sinistra europea, Sdi e Verdi.
E se «Veltroni rappresenta una delle versioni più accantivanti del Partito democratico che verrà», concedono i firmatari, «il cambiamento di ruolo di Veltroni da sindaco di tutta l’Unione a leader in pectore del Partito Democratico - si legge nel documento presentato ieri nella sala del Carroccio del Campidoglio - ci consegna una novità negli equilibri tra la parte più moderata dell’alleanza e il coordinamento delle forze della Sinistra». Forze che - spiega il segretario del Prc Massimiliano Smeriglio - si propongono di costruire insieme un «blocco capace di organizzare in modo efficace le scelte del Campidoglio».
Primo appuntamento cittadino, l’assemblea pubblica che si terrà il prossimo 13 giugno alla sala Umberto in via della Mercede. Temi da cui partire: laicità, precarietà, espansione edilizia, diritti civili, voto ai migranti, unioni civile, casa, democrazia partecipativa.

Repubblica 29.5.07
Un convegno sul marxismo visto da Croce, Kelsen e Popper
Il comunismo dei liberali
di Giancarlo Bosetti


Punto di partenza: l’eredità di Bobbio

Escono di scena gli ultimi segni della sua esistenza politica; anche Bertinotti si prepara a ritirare la parola dalla circolazione. Se dunque si parla di comunismo, è per via degli effetti speculari che esso continua a esercitare nella vita politica - l´anticomunismo è ancora un principio attivo nelle campagne elettorali - e nel circuito filosofico e storico. Un accurato convegno torinese ha raccolto una trentina di relatori (tra gli altri, Salvadori, Galeotti, Reale, Roncaglia, Bechelloni, Revelli, Bovero, Canfora, Petrucciani, Ferrajoli, Urbinati) sul tema del comunismo nel pensiero liberale del ´900. Come in un grande interrogatorio, si è chiesto ai pensatori del secolo scorso - da Kelsen a Weber, da Croce a Rosselli, da Schumpeter a Popper, e poi ancora Salvemini, Orwell, Dewey, Hayek, Russell, Hannah Arendt - di esibire la sua critica del comunismo con il risultato di illuminare il pensiero liberale da un punto di vista nuovo.
Le critiche liberali al comunismo non avevano molto da aggiungere a quel che sappiamo sul suo fallimento, ma hanno molto da dirci sulla natura del liberalismo. Il progetto realizzato da Franco Sbarberi è stato la messa in esecuzione del lascito dell´Utopia capovolta (era il titolo di un celebre articolo di Norberto Bobbio del 1989): con quali mezzi e con quali ideali affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?
E scavando nella storia delle idee si scopre che il giudizio sul comunismo ha avuto in molti liberali la medesima preoccupazione della questione sociale: lo ha avuto in Croce e in Kelsen, in Aron e in Popper. Anzi il risultato di questo incontro torinese è stato di far luce sull´aspetto sociale del pensiero liberale, un aspetto che nella logica della guerra fredda si nascondeva dietro un anticomunismo che del comunismo avversava non i fini di giustizia ma i mezzi antidemocratici.
Se questo è evidente in pensatori progressisti come Orwell, Dewey o Rosselli e in tutta la tradizione socialista e democratica, lo è stato a lungo molto meno in autori come Popper. L´autore della Società aperta e i suoi nemici era di una durezza senza pari, e anche moralmente indignato, nei confronti dei funambolismi idealistici di Platone e di Hegel, ma trattava Marx con grande rispetto per la sua sincerità e per il coraggio dei suoi obiettivi di emancipazione del lavoro.
Indulgenze da lasciare sconcertato chi si aspettasse la critica anticomunista standard. L´indignazione scattava in Popper solo di fronte alla cecità ideologica che impediva all´autore del Manifesto di vedere che con l´avvento della "dittatura del proletariato" non sarebbero per niente finiti i conflitti economici e sociali. Anche Marx era dunque un "falso profeta" ma usciva da quelle pagine condannato con molte "attenuanti" che venivano invece negate a Platone ed Hegel. La distinzione nella concezione politica di Popper, liberale riformista, si fa, col passare degli anni e con nuove pubblicazioni, sempre più netta nei confronti del liberalismo laissez faire di Friedrich von Hayek.
Erano gli anni della guerra fredda - lo scontro tra democrazia e comunismo - ad esasperare il conflitto delle idee e a distorcerne la percezione. Alla stessa celebre distinzione di Isaiah Berlin tra "libertà negativa" e "libertà positiva" bisogna riconoscere il carattere di strumento di battaglia ideologica (Urbinati) più che il rigore di una distinzione teorica. Oggi anche un liberale, immune da tentazioni socialiste, come Ralf Dahrendorf respinge quella distinzione come una idea sbagliata. La critica liberale ai regimi totalitari è stata spesso simmetrica, rivolta in pari misura alle due dittature, nazista e comunista. Un esempio fu quello di Walter Lippman, influentissimo autore americano, che combatteva nella stessa misura in entrambe le direzioni (Salvadori) in ragione del fatto che percepiva un pericolo per la società americana provenire sia dal comunismo che dal fascismo.
Non da un liberale è venuta la critica forse più severa di tutte, ma da uno che l´esperienza comunista l´aveva vissuta in profondità: Arthur Koestler. È lui a sviluppare una vera "etica anticomunista" (Revelli) attraverso una ricostruzione psicologica e letteraria dell´ingresso nel comunismo che mette a nudo il peccato originale, quasi una terapia analitica. È lui, lo scrittore ungherese del Buio a mezzogiorno, a raccontare l´incanto ideologico e le tragedie sanguinose di un mondo fatto di "bellissimi errori superiori a squallide verità", è lui a raccontare il corpo a corpo con la sfida comunista, fatta insieme della "impossibilità di essere comunista e della impossibilità di non esserlo stato", di "grandezza della menzogna e desiderio di credere alla menzogna".

Corriere della Sera 29.5.07
L'autore svela i retroscena sulla giuria. «E l'Italia meritava la gara»
Bellocchio: veti politici nel verdetto di Cannes
«Pregiudizi su Sokurov. Tarantino? Un cafone»
di Giuseppina Manin


CANNES — «Dopo aver visto tutti i film del concorso, posso dire con cognizione di causa che in quella selezione sarebbero potuti entrare tranquillamente anche i nostri due titoli italiani, Centochiodi di Olmi e Mio fratello è figlio unico di Luchetti, invece relegati in sezioni collaterali». Il giorno dopo il verdetto, Marco Bellocchio smette i panni del giurato e apre il sacco delle polemiche. Con garbo ma anche con la schiettezza che gli è propria, il nostro regista ripete che l'assenza del cinema italiano dalla gara del sessantesimo Festival non era affatto giustificata. Tanto più pensando ai film francesi visti... «Su cui è meglio tacere», commenta lapidario. Ma come la mettiamo con Tarantino che, proprio l'altro giorno, ha accusato il nostro cinema di essere «deprimente»? «Tarantino deve tacere — risponde secco — Non accetto lezioni da uno come lui. E ancor meno ne accetto da Renato Brunetta, che insulta pubblicamente il nostro cinema senza capire nulla di cinema. Faccia il suo mestiere di economista e non pontifichi su quello che non sa. A parte il fatto che non mi pare sappia neanche fare i conti: il bilancio di un film non valuta solo il budget iniziale e gli incassi al botteghino. Deve tener conto dello sfruttamento nei dvd, dei passaggi in tv...».
Torniamo al Festival, è vero che le discussioni in giuria sono state accese? «Eravamo nove persone molto diverse. Ciascuno con un suo punto di vista preciso sul cinema e sul mondo. Ogni giudizio quindi è stato frutto di una lunga mediazione. Ma alla fine direi che tra noi tutto è stato molto sincero, molto leale». Unanimità su nessun titolo? «L'unanimità non mi pare un criterio adatto per un Festival articolato come Cannes. Qui basta la semplice maggioranza, la democrazia da queste parti è ancora tollerata». Adesso che tutto si è concluso, ci può dire quali erano i suoi preferiti? «Il film di Kim Ki-Duk Soon e quello di Carlos Reygadas Stellet Licht. Sul primo però non sono riuscito a trovare consensi sufficienti per un premio, sul secondo ce l'ho fatta». E il rumeno? Anche per lei era la Palma d'oro? «Il film di Mungiu ha molti meriti, un racconto semplice, diretto, una discrezione narrativa propria dei paesi dell'Est. L'unico difetto sta proprio nella scena che più ha fatto scalpore: l'esibizione un feto in primo piano. Forse un segno di una presa di posizione antiabortista del regista. Ma alla fine una stonatura con il resto».
Come mai nel vostro Palmares non è rientrato un film molto lodato come Alexandra di Sokurov? «E' indubbiamente molto bello, ma alcuni giurati hanno avvertito nel suo modo di raccontare la guerra in Cecenia una partigianeria verso l'esercito russo che non è piaciuta. Un premio avrebbe significato avallare quella presa di posizione».
Stando al verdetto, emerge una supremazia di un cinema dell'Est del mondo, lontano mille miglia per temi e stilemi da quello dominante di Hollywood. «Nuove cinematografie stanno crescendo con vitalità straordinaria. Con pochi mezzi mostrano di saper raccontare in modo chiaro, anche sbrigativo, le cose. Mi ricordano il nostro neorealismo, film come Il posto di Olmi. Un'immediata fluidità di linguaggio che abbiamo perduto». E oggi invece? «Ogni film è figlio del momento storico in cui nasce. In Italia stiamo vivendo uno stallo politico e culturale. E allora i titoli di successo sono quelli di evasione, quelli che più somigliano allo stile della tv. Persino noi che per professione ci occupiamo di cinema, siamo contaminati da certi diktat estetici del piccolo schermo. Ma poi, appena riesci a entrare nei ritmi di questi nuovi film, e ti lasci andare alla loro bellezza così diversa, sei felice di aver ripreso contatto con immagini profonde, con un cinema che ti resta dentro».
Certo però che in quei film le tragedie non mancano. A tanta vitalità sembra corrispondere uno sguardo senza speranza. «A me pare ben più disperato un certo cinema commerciale americano. Così frenetico e così vuoto, senza niente in cui credere. Mentre film come il giapponese Mogari no mori pur parlando della vecchiaia e dei suoi malanni, ha una forma di catarsi molto liberatoria. E Reygadas addirittura crede nei miracoli. Non di Dio ma degli uomini. Anzi, di una donna. L'amante del marito che fa resuscitare la moglie di lui... Più ottimismo di così».

il manifesto 29.5.07
Allarme a sinistra
di Valentino Parlato


In Italia, ormai, le elezioni amministrative sono diventate lobbistiche e clientelari, come è confermato dal modo nel quale si arriva alle candi­dature. Tuttavia il voto di domenica e lunedì è stato fortemente politico, espressivo del male della politica e della democrazia.
Il dato più rilevante è la scarsa partecipazione al voto, soprattutto a sinistra, con un allontanamento dalla partecipazione di una consistente parte di citta­dini, normalmente partecipi e attivi che tendono sempre di più a «chiamarsi fuori», delusi dalle loro at­tuali rappresentanze istituzionali. Un disamore con­fermato dal brutto risultato del nascituro Partito De­mocratico, ma anche dai costi che la sinistra-sinistra sta pagando alla sua partecipazione al governo.
La morale è che il degrado della politica produce un degrado della democrazia e, quindi, anche della sinistra, tanto più che dirsi di sinistra è diventato un'audacia, perché invece bisogna dirsi moderati e comprensivi delle ragioni dei processi di produzione capitalistici, altrimenti ci si sente fuori dal gioco.
Certo, non c'è stata la spallata che Berlusconi si au­gurava. Nella distribuzione dei poteri locali non è cambiato molto, salvo un arretramento sensibile del centro sinistra al nord, che ha un segno più leghista che berlusconiano. Il punto, ritengo, è che anche Ber­lusconi ha perso fascino: è diventato uno come gli al­tri. Anche lui spinge all'astensionismo: ha perso cre­dibilità. E, poi, c'è un trasformismo diffuso, come di­mostra il caso di Agrigento dove un signore di destra diventa sindaco eletto dal centro sinistra.
Se queste considerazioni hanno un qualche valo­re, le ultime elezioni amministrative dovrebbero far ri­flettere soprattutto il centro sinistra, ma, un po', an­che il centro destra. Se tutto si riduce al dibattito sul­la spallata (che non c'è stata) e il centro sinistra si consola per il fatto di non essere stato travolto, allora c'è solo da aspettarsi il peggio. Queste elezioni sono la conferma forte di quella crisi della politica della quale sono piene le pagine dei giornali. Se la sinistra non se ne rende conto e non fa in fretta qualcosa che riattivi la sua credibilità, allora c'è da attendersi solo un ulteriore deterioramento della politica e della de­mocrazia. Chi oggi sta al governo eviti di consolarsi nella logica del male minore e si sforzi di capire.

Corriere della sera 29.5.07
Una profezia di Ernst Jünger
Pubblichiamo la sintesi di una conferenza sul bio-diritto tenuta da Natalino Irti all'Università di San Paolo del Brasile


Si accendono, intorno a queste domande, conflitti di fedi religiose, di ideologie, di visioni del mondo. Nessuno è in grado di scorgere il futuro.
Ora il corpo è diventato un'entità che è possibile produrre.

I l diritto non può starsene più entro gli antichi termini e accogliere dal di fuori il nascere e morire. La giuridificazione del bios è inevitabile. La vita, nella sua elementare fisicità e corporeità, esige regole, fa appello alla decisione politica, varca impetuosa i confini del diritto. Non un giurista (i giuristi vanno con passo grave e lento), ma un sensibilissimo sismografo dell'età nostra, Ernst Jünger, già nel 1981 vedeva nelle nuove forme di procreazione «sintomi di una svolta del mondo», e annotava: «Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua ombra?». «Agire da barriera» o «scavare un letto alla corrente»: l'alternativa di Jünger implica, nell'uno e nell'altro modo, che il diritto prenda posizione, e dunque che assuma la vita, il nascere e il morire, come cosa propria, come eventi non ricevuti dall'esterno, ma previsti e disciplinati da norme. Non più appartenenti all'ordine spontaneo della natura, ma all'ordine artificiale del diritto. I codici civili si restringevano ai «momenti» del nascere e del morire, del venir, la «persona», dal nulla e del tornare al nulla.
I problemi posti dalla bio-tecnica sospingono il diritto sui termini estremi, sui confini già tenuti per invalicabili. I modi del nascere e i modi del morire diventano materia di diritto, e acquistano la necessaria rigidità di forme giuridiche. Questo ha di proprio il diritto: che, nell'atto di toccare esperienze di studio o di vita, le converte in forme, in quei modelli astratti e generali, che solo permettono di dominare l'irripetibile varietà delle cose e di protendersi verso il futuro. Giuridificazione significa riduzione in forme.
Questo è il punto, in cui bio-tecnica e bio-diritto si ritrovano nello stesso e identico orizzonte. Se l'una assume il corpo in fisica oggettività, l'altro ne considera modi e forme, anch'essi oggettivi, distaccati dalle singole e irripetibili individualità. Il processo di oggettivazione è comune ad ambedue le potenze, alle immani energie che mirano a governare le cose e gli uomini. Il corpo, nel suo nascere e morire, nel suo durare in vita, non è questo o quel corpo, il mio o il tuo, ma il corpo in sé, nella sua calcolabile e manipolabile oggettività. Non più l'individuo intero, corpo e pensiero, fisicità e spiritualità, ma la res extensa, una materia sperimentabile e regolabile, su cui si esercita, in un modo o nell'altro, la volontà dell'uomo. Il nascere e il morire diventano così eventi calcolabili: dalla razionalità scientifica, che ne segue e determina lo sviluppo; dalla razionalità giuridica, che, superati gli antichi confini, li converte in forme astratte, in modelli di azioni e schemi generali, Il corpo non è più la dimora di qualcos'altro, abitata per breve ora e poi lasciata verso altri regni: è il tutto della scienza, ed è il tutto del diritto. La rottura con la tradizione, la discontinuità dei tempi, ha note di tragedia. Il nascere, che era un pro-venire, un giungere dal passato e affacciarsi, passando dall'oggi, verso il futuro, è ormai un evento tecnologico. Il mistero è risolto, si conosce tutto prima; e prima è tutto interrompibile, correggibile, manipolabile. La bio-tecnica priva di significato il padre e la madre, o, meglio, li riveste di un significato in-naturale, che nulla ha da vedere con l'antico rapporto di filiazione. Ciò che sembrava impensabile è accaduto: non c'è più un diritto di conoscere il proprio padre o la propria madre. Ambedue possono rimanere ignoti, eppure il nato avrà un padre e una madre, che non saranno più naturali, ma determinati dall'artificialità del diritto, da un diverso criterio d'imputazione del figlio ai genitori.
È che eventi soffusi di mistero — vita, corpo, nascere, morire — sono ormai dissacrati e ridotti a calcolata oggettività.
Essi non ci vengono più dati dal di fuori e dall'alto (da qualcosa che chiamavamo divinità o destino), ma sono da noi prodotti: non li troviamo, ma li facciamo. Questa insaziata volontà di produrre si è estesa dalle cose agli uomini, riconducendo il corpo tra le cose fattibili. Un piccolo classico della filosofia stoica, il Manuale di Epitteto, si apre con la distinzione fra «le cose che dipendono da noi e quelle che non ne dipendono». Il corpo è elencato in quelle cose, che — come volge, in elegantissimo latino, Angelo Poliziano — «nostra opera non sunt». Ma la tecnica ha rotto la rigidità di questa antitesi, e fatto del corpo un nostrum opus, una cosa producibile. Anch'esso dipende da noi. Il diritto non può starsene come un curioso spettatore, né delegare ad altre potenze la guida degli uomini. I tempi esigono una presa di posizione. La scelta fra «agire da barriera» o «scavare un letto alla corrente» è affidata alla responsabilità politico-giuridica: non c'è alcun criterio di ferma e immutabile verità.

lunedì 28 maggio 2007

Corriere della Sera 28.5.07
Mussi: «Calabrese ora la pensa come me»


MILANO — Lui lo aveva previsto e ci tiene a ricordarlo. Il dissidente Fabio Mussi, ministro per l'Università e la Ricerca, che al congresso di Firenze ha lasciato i Ds in contrasto con la decisione di sciogliere la Quercia nel Partito democratico, ora si sfrega le mani soddisfatto: «Avevo già detto a Calabrese che sarebbe finita così». È il commento alla lettera aperta di Omar Calabrese sul Corriere della Sera di ieri, in cui il semiologo fiorentino ha spiegato che non solo non si iscriverà al Partito democratico, ma «anzi abiuro e rinnego — ha scritto — tutte le "belle parole" spese finora» perché è come la Dc, anzi peggio: «non c'è laicità ma tanta nomenclatura».
Parole dure, che Fabio Mussi ha commentato ponendo a Calabrese anche degli interrogativi: «Lui era entusiasta dell'Ulivo — ha ricordato — e ha continuato ad esserlo quando l'Ulivo si andava impoverendo.
Adesso vedo che è arrivato alle mie stesse conclusioni, e me ne rallegro; ma il problema, la domanda che bisogna porsi è: che fare? Io mi sono posto questo problema».

l’Unità 28.5.07
G.Bruno, dinamite mentale
di Giuseppe Montesano


È davvero una grave scorrettezza storica quella che attribuisce alla Chiesa cattolica di Roma la persecuzione di Giordano Bruno: perché in realtà il grande Nolano, il genio che si definì «hacademico di nulla hacademia», fu perseguitato da tutti. Dai calvinisti a Ginevra, dai professori universitari a Oxford, dai luterani in Germania, e dai pedanti mediocri dovunque: la Chiesa cattolica italiana, si limitò solo ad accendere il rogo finale. Ma perché Bruno ebbe una vita così difficile? Per saperlo bisogna che il lettore si regali Giordano Bruno. Il teatro della vita, la fondamentale biografia che Michele Ciliberto, che dirige la pubblicazione per l’Adelphi delle opere latine di Bruno ed è il curatore dei Dialoghi filosofici italiani per i Meridiani, ha scritto sull’uomo che scelse come motto per la sua vita «In tristitia hilaris, in hilaritate tristis». E ci sarebbe già tutto Bruno, in quel motto: la filosofia che si tuffa nel centro di forza tra gli opposti, che non teme le contraddizioni ma ricava da esse il combustibile per far divampare il potere conoscitivo, la pratica di una sapienza dove la filosofia lasci l’astrazione e scenda nel corpo stesso, e la malinconia per come va storto il mondo inseparabile dall’heroico furore: quello che fa entrare chi ne è vigile invasato nel magma della vita. La biografia di Ciliberto, di fronte alla scarsità non risolvibile di documenti e testimonianze, sceglie la via sacrosanta della biografia intellettuale: nessun aneddotismo polentoso, nessun indugio retorico sui luoghi drammatici della vita di Bruno, ma invece una ricostruzione minuziosa e viva del Nolano a partire dal suo pensiero e dalle tracce autobiografiche sparse a piene mani nei suoi testi. E per contrasto, a premiare il rigore di questa scelta apparentemente cool che Ciliberto ha fatto, ci viene davanti, più straordinario che mai, più sorprendente che mai, il ritratto vivente di quest’uomo: dalla giovinezza di studio e fede a Napoli, attraverso l’intera Europa intellettuale e fino agli ultimi anni. E sembra di vederlo, il Bruno che in prigione si sveglia di notte per sostenere, davanti agli sconvolti compagni di cella, la sua tesi su Dio come traditore del mondo: perché lo ha fatto e poi lo ha abbandonato rifiutandosi di governarlo; o quando viene ostracizzato dai «pedanti» perché si rifiuta di sottostare alle loro meschine regolette; e quando, sull’orlo della morte, sale sul rogo con lo stesso atteggiamento di assoluto disprezzo di quel Jan Hus che davanti alla vecchia bigotta che trascinava a fatica un pezzo di legno al suo rogo disse: «O sancta simplicitas!». I servi sempre solidali ai loro padroni, gli esecutori di roghi piccoli burocrati con famiglia a carico grati per lo stipendio, i mediocri e falliti censori e moralisti dell’informazione coalizzati contro i diversi e gli eccellenti: tutto questo Bruno lo vide con la massima chiarezza, e lo pagò sulla sua pelle.
Ma è forse proprio questo, oltre al suo praticare l’ibridazione combinatoria perpetua fra le più contrastanti filosofie, l’elemento più moderno del suo voler vivere il pensiero, e non limitarsi a pensarlo: la condanna, in Bruno assoluta, per le forme di sapere che diventano solo cultura, per i libri che nutrono solo altri libri, per i pensieri che sono solo pensieri e che non mettono mai in gioco la realtà. Il mondo aperto che Bruno voleva, l’infinito proliferare delle possibilità vitali che irrompono nel rigido rigor mortis delle certezze, oggi si sta di nuovo richiudendo. Che fare? Niente lagni sul buon tempo passato che è esistito solo nella menzogna dell’illusione, niente vie secondarie, ma sempre la sola via che resta: pensare sul serio. Finché i libri contengono dinamite mentale, come ne contiene Giordano Bruno. Il teatro della vita, non tutto è travestito dalla falsificazione. Le fonti per capire e pensare sono ancora a disposizione, bisogna solo avere voglia di andarci a bere. Il tempo nella vita per leggere-vivere è poco? Può darsi: ma senza quel tempo, domineranno solo e sempre i simulacri, e la vita sarà perduta.
Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Mondadori, pp.554, euro 30

l’Unità Lettere 28.5.07
Gramsci-Togliatti. Non mi pento di aver avuto ragione...
di Giuseppe Tamburrano


Caro Direttore,
non ho ben capito la lettera del compagno Carlo Arthemalle. Nel mio articolo “Gramsci il riformista” ho discusso i temi trattati nel libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca “Gramsci tra Mussolini e Stalin”. Tra questi temi non vi sono - a proposito di Togliatti - «i fronti popolari, la svolta di Salerno, la creazione di un partito diverso da tutti i PC e... la diffusione dell’opera di Gramsci». E non me ne sono occupato. Nel libro invece si affronta ampiamente il rapporto tra Gramsci in carcere e Togliatti a Mosca. E di questo ho parlato: un grande tema fin ora rimosso o mistificato dagli storici comunisti e affrontato da altri in modo più aderente ai fatti e cioè alla ferma convinzione di Gramsci che Togliatti volesse tenerlo in carcere. Tra questi ci sono stato anche io. Scrive Carlo Arthemalle: «Le cose si sono evolute in modo tale da restituire a Tamburrano una vecchiaia libera dai fantasmi che lo hanno assillato per una vita». Che cosa vuol dire? Che finalmente si possono difendere le convinzioni di Gramsci sul giornale da lui fondato e diventato organo del PCI di Togliatti? Evviva Padellaro! E se la mia vecchiaia è libera dai fantasmi che secondo il lettore mi hanno assillato da una vita (in altre parole la ricerca della verità finalmente appagata) non intendo certo pentirmi di aver avuto ragione e non invidio coloro la cui vecchiaia è invece oppressa da pentimenti, autocritiche, richieste di scuse.
Giuseppe Tamburrano


Corriere della Sera 28.5.07

«Pacelli distrusse il discorso di Pio XI contro il fascismo»


MILANO — Alla vigilia della sua morte, Pio XI aveva preparato un discorso molto aspro verso il fascismo, da pronunciare per il decimo anniversario dei Patti lateranensi l'11 febbraio 1939. Ma il giorno prima il cuore di Papa Ratti cedette. E il segretario di Stato Eugenio Pacelli, che di lì a poco sarebbe stato eletto pontefice con il nome di Pio XII, diede ordine di archiviare tutto il materiale relativo a quel discorso, distruggendo le bozze e i piombi pronti per la stampa. La vicenda è ricostruita nel libro di Emma Fattorini Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa (Einaudi). Il Sole 24 Ore ne ha anticipato ieri un brano, accusando Pacelli di aver censurato le critiche al fascismo del suo predecessore. Fu davvero così? Andrea Tornielli, biografo di Pio XII, sostiene che la scelta di non pubblicare il discorso era un atto dovuto: «Come cardinale camerlengo, in una fase di sede vacante, Pacelli non poteva fare altro: anche molti discorsi di Giovanni Paolo II sono rimasti inediti». Ma Emma Fattorini sottolinea che una cosa è non pubblicare un discorso, un'altra premurarsi di farlo sparire dalla circolazione: «Pacelli temeva che, se il testo fosse trapelato, avrebbe provocato una rottura tra la Chiesa e il fascismo. Il fatto è che nell'ultima fase del suo pontificato Pio XI si trovò isolato nella sua dura condanna del regime»

l’Unità 28.5.07
ARCHIVI Pio XII cancellò le tracce dello j’accuse di Papa Ratti? Un saggio di Emma Fattorini e la replica del biografo Andrea Tornielli
Condanna del nazifascismo, Pacelli censurò Pio XI? Storici divisi
di Roberto Monteforte


Un Papa censurato dal suo successore. Il discorso che papa Pio XI avrebbe voluto tenere ai vescovi italiani convocati in Vaticano per il decimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1939, con i suoi giudizi durissimi verso il regime di Benito Mussolini, di ferma condanna del nazismo e dei totalitarismi, il suo testamento spirituale, non fu mai pronunciato. Pio XI morì nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. E il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato cardinale Eugenio Pacelli, praticamente lo fece sparire. Pacelli ordina di distruggere le bozze di stampa in tipografia, pronte per la pubblicazione perché quel discorso sarebbe dovuto arrivare a tutti i vescovi italiani. L’accusa la lancia la storica Emma Fattorini che, dopo aver lavorato alle carte conservate nell’Archivio segreto vaticano, ricostruisce quegli avvenimenti nel suo lavoro Pio XI,Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, in libreria domani per Einaudi. La studiosa raccoglie anche la versione integrale del discorso del pontefice. «Era scritto a matita, con pochissime correzioni, con una grafia un po’ tremula ma chiarissima, si potrebbe dire di getto» precisa. «Era un testo d’importanza straordinaria» è, da parte sua, il giudizio che ne dà monsignor Domenico Tardini, della segreteria di Stato, quando il 12 gennaio 1941 riordina i suoi appunti su quei giorni, giudizio che l’autrice riporta.
Nel 1939 erano tesissimi i rapporti della Chiesa con Mussolini, per il suo crescente avvicinarsi a Hitler e per la promulgazione da poco avvenuta delle leggi razziali. La Chiesa sotto attacco e minacciata: questa era quanto papa Ratti era pronto a denunciare, anche in solitudine, disposto a mettere in discussione lo stesso Concordato. Un discorso talmente significativo, il suo, che vent’anni dopo, il 6 febbraio del 1959, nel trentesimo della Conciliazione, papa Giovanni XXIII decide di farlo conoscere ai vescovi. Le parti ritenute più significative verranno pubblicate anche dall’Osservatore Romano. Ma, commenta la Fattorini, era «una versione frammentata, inframezzata da commenti che ne hanno un po’ indebolito la carica». E insiste: «È Pacelli a impedire che divenga noto l'ultimo discorso di Pio XI. Il cardinale non ne fa neanche “una sintesi” per i vescovi che già erano giunti a Roma». Un Papa, allora,censurato dal successore? Il messaggio di Pio XI, l’intransigente e battagliero uomo di Chiesa, sminuito dal suo più stretto collaboratore e poi successore, monsignor Eugenio Pacelli, l’uomo che preferiva la mediazione diplomatica, la prudenza e la ragione di Stato?
Una tesi che viene rigettata da Andrea Tornielli, vaticanista e autore di una documentatissima biografia di papa Pacelli, Pio XII. Eugenio Pacelli un uomo sul trono di Pietro appena uscita per Mondadori. «Il Papa - spiega - era appena morto. I vescovi avrebbero partecipato ai funerali, non alla commemorazione del Concordato. Morto il Papa, Eugenio Pacelli non è più segretario di Stato. È però camerlengo: che cosa doveva fare se non ordinare che s’interrompesse la stampa delle copie del discorso e si distruggessero i piombi in tipografia? Pio XI non c’era più, l'evento della commemorazione era stato cancellato, il testo non sarebbe stato pronunciato. Con quale autorità poteva lui pubblicarlo? Spiace - commenta polemico - che ancora una volta la realtà dei fatti sia presentata in modo tendenzioso, facendo apparire Pacelli come l’uomo della censura». «Il discorso non venne distrutto - puntualizza - vennero distrutte le bozze a stampa nel periodo della Sede Vacante. Una procedura che non dovrebbe sorprendere. Questo però non viene detto».
Con ciò Tornielli non vuole affermare che non esistano differenze tra Pio XI e Pio XII. Da biografo di papa Pacelli ricorda anche, però, come quest’ultimo, appena eletto, tentò il tutto per tutto per non far scoppiare la guerra e poi per indurre Mussolini a non partecipare al conflitto. Due letture a confronto.

Repubblica 28.5.07
Siena, riunita in mostra la collezione Bonci Casuccini
Scavi etruschi in famiglia


«Questa era la più grande raccolta privata di antichità etrusche in Italia, seconda per il numero e l´interesse delle urne solamente al museo di Volterra. Costituiva il ricavato di svariate stagioni di scavo, svolte dal signor Pietro Bonci Casuccini, il cui nipote l´ha venduta al comune di Palermo, dove ancora viene mostrata nel suo complesso». Così l´archeologo e scrittore di viaggi inglese George Dennis ricorda nel suo volume The Cities and Cemeteries of Etruria, un classico dell´etruscologia.
La storia di quella raccolta è al centro della mostra Etruschi. La collezione Bonci Casuccini allestita a Siena, nel Complesso del Santa Maria della Scala, e a Chiusi in un edificio accanto al Museo Archeologico Nazionale. L´iniziativa è stata resa possibile dalla collaborazione tra il Museo Archeologico «A. Salinas» di Palermo e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana con il sostegno della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
Le vicende della collezione sono state ricostruite inserendole negli sviluppi dell´archeologia italiana dell´Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Esse hanno per protagonisti due figure anch´esse esemplificative di un´epoca: Pietro Bonci Casuccini, il collezionista ricordato da Dennis, e il pronipote Emilio. Pietro era nato nel 1757 e fu un esponente di spicco di quegli ambienti borghesi che, ricollegandosi alla politica di riforme portata avanti dal Granduca Pietro Leopoldo, realizzò la bonifica della Val di Chiana risollevando le condizioni economiche della zona. Raggiunto un benessere notevole iniziò ad interessarsi, nella piena maturità, alla ricerca archeologica. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1826, conducendo di persona scavi nelle sue proprietà intorno a Chiusi, riuscì a collezionare un numero impressionante di reperti etruschi. Alle spalle di quella fortunata stagione di ricerche, che ebbe tra i suoi campioni anche Luciano Bonaparte indagatore delle necropoli di Vulci, stava una fase di studi - nota come etruscheria - che tendeva ad attribuire agli Etruschi il primato culturale nel Mediterraneo prima della romanizzazione.
Pietro risentì di quell´impostazione degli studi che, nel dibattito scientifico del suo tempo, era in via di superamento dopo la lezione di Luigi Lanzi considerato a ragione il padre dell´etruscologia scientifica. Ma appare un innovatore nella scelta di aprire la raccolta al pubblico, pur restando di sua proprietà, e in alcune soluzioni museografiche individuate.
Nel 1842 il collezionista chiusino morì e la raccolta passò al figlio Francesco, i cui interessi culturali erano rivolti prevalentemente alla musica, e quindi ai nipoti che decisero di venderla. Ne proposero l´acquisto prima al Granduca Pietro Leopoldo II e poi, dopo l´Unità d´Italia, al nuovo Regno. Alcune trattative vennero portate avanti con il Museo del Louvre e col British Museum. La collezione venne infine acquistata nel 1865 dal Museo di Palermo: si voleva unificare il Paese anche attraverso la conoscenza reciproca del passato delle diverse regioni d´Italia.
Negli anni immediatamente successivi la scelta venne criticata con durezza e, nel 1902, Luigi Adriano Milani propose senza successo di riportare la raccolta in Toscana e specificatamente a Firenze.
Il rammarico per la cessione deve essere stato presente pure all´interno della famiglia e, allora, proprio sul finire dell´Ottocento, un pronipote di Pietro iniziò a costituirne un´altra riprendendo gli scavi. Emilio Bonci Casuccini era un personaggio di grande spessore umano e culturale, che «appassionato agricoltore, cercava di impiantare vigne là dove sperava di incontrare tombe etrusche» come ricorda Ranuccio Bianchi Bandinelli, lo storico dell´arte antica che ebbe occasione d´incontrarlo e apprezzarlo. La raccolta di Emilio, incrementata sino al 1934, anno della sua morte, venne ceduta nel 1953 al Museo Archeologico di Siena dove è attualmente esposta. Alcuni reperti appartenuti alle due raccolte sono restati nella disponibilità degli eredi e costituiscono oggi un terzo nucleo collezionistico anch´esso presentato in mostra.
Il percorso espositivo senese è diviso in quattro sezioni che danno conto delle vicende riassunte e illustrano l´importanza delle due raccolte. La sezione di Chiusi è incentrata sulla scultura arcaica in pietra e accoglie pezzi di particolare interesse, come la statua-cineraria detta di «Plutone», ma è contenuta nelle dimensioni. Vale allora la pena visitare il vicino Museo Archeologico Nazionale riallestito di recente e in grado di dare conto a pieno dell´importanza della Chiusi etrusca, ovvero della città del re Porsenna. Nell´ambito della collaborazione instauratasi tra le Istituzioni culturali palermitane e senesi, è visitabile in contemporanea, sempre negli spazi del Santa Maria della Scala, la mostra Pulcherrima Res. Preziosi ornamenti dal passato che presenta una selezione dei gioielli antichi conservati nel Medagliere del Museo Archeologico di Palermo.

domenica 27 maggio 2007

Corriere della Sera 27.5.07
Non mi iscriverò al Partito democratico. Peggio della Dc, niente laicità e tanta nomenclatura
Nella Democrazia cristiana il pensiero teocratico era meno presente
di Omar Calabrese


Caro direttore, che paradosso! Ho sognato per anni la formazione di un Partito democratico, e giusto fino a ieri ho partecipato attivamente a convegni, pubblicazioni, proposte orientate a questa finalità. Invece adesso, quando il momento parrebbe finalmente giunto, ho deciso con enorme sofferenza che a questo partito io non mi iscriverò, e anzi abiuro e rinnego tutte le «belle parole» spese finora. Le ragioni sono molte, e tutte, mi auguro, seriamente motivate.
La prima è che il futuro partito si mostra come la somma di nomenclature già esistenti. Per carità, non ho mai immaginato né desiderato che chi fa politica attiva debba oggi essere licenziato. Ho sperato, tuttavia, che l'ingresso in un nuovo organismo — che dovrà pur fondarsi su idee anch'esse nuove, altrimenti perché lo si fa? — spingesse tutti a rimettersi in gioco, a farsi votare da assemblee costituenti locali, per poi salire su su fino ai massimi livelli nazionali. Qui no: tutto è «rappresentanza», «quota», «visibilità», cioè proprio quei caratteri che hanno reso la politica così antipatica alla stragrande maggioranza dei cittadini. Addirittura, questo partito nasce con le sue correnti già precostituite e dotate di percentuali. Fra l'altro, con la conseguenza che, per rispettarle, le sue strutture saranno per forza mastodontiche, e la politica costerà sempre di più. Altro che svolta verso nuove forme di partecipazione!
La seconda ragione è che il futuro partito — se nuovo — dovrebbe aver già esplicitato le sue scelte e disegnato le sue innovazioni. Quanto meno: qualcuno dovrebbe averne già elaborato un loro schema ideale, in modo da far capire con chiarezza la sua missione, spingere gli aderenti a crederci e magari persino a entusiasmarsi. Mi sarei atteso insomma che poche persone competenti e autorevoli redigessero un manifesto politico e una carta costituente, e la sottoponessero poi al giudizio delle segreterie dei partiti, dei movimenti, delle assemblee degli eletti fino a giungere a una piattaforma di contenuti condivisi. Non l'invocazione astratta contenuta nel Manifesto dei Dieci di qualche tempo fa, ma una vera proposta costituente. Qui no: il comitato dei 45 «fondatori» non contiene di sicuro (perché non ne ha lo scopo) molte persone in grado di leggere e scrivere un progetto di filosofia politica, né molte in grado di strutturare un sistema di regole di partecipazione. Essendo tutti «rappresentanti», potranno al massimo pilotare il traghettamento dagli organismi a cui appartenevano a quelli che li ingloberanno in futuro. Altro che apertura verso nuove maniere di conquistare il consenso della collettività!
Il terzo motivo è che manca la precondizione necessaria per la nascita di un partito democratico, e cioè una solenne dichiarazione di laicità. «Democrazia» e «laicità» sono infatti due sinonimi, persino nell'etimologia: vengono da due parole greche, dèmos e làos, che significano entrambe «popolo», e intendono che il potere di prendere decisioni che riguardano tutti spetti a coloro che vengono eletti da quei tutti, sulla base di valori di libertà universalmente accettati. Se invece alcuni principi derivano da credenze «esterne» — come nelle religioni, che impongono una morale derivante dal loro Dio o dalle loro chiese — ebbene la democrazia non c'è più, c'è una libertà condizionata. Così, mentre democrazia e laicità garantiscono la vita stessa di tutte le religioni, le religioni finiscono per fare esattamente l'opposto. Ebbene, il nuovo partito nasce privo di una chiara espressione di questo spirito. È per natura una Democrazia cristiana con altro nome, anzi con un pensiero teocratico nascosto che quel partito non possedeva in questa proporzione. Il che non fa presagire niente di buono per resistere all'offensiva ideologica di papa Ratzinger in questo momento in atto. Altro che partito kennediano, il cui presidente cattolico affermava che in politica obbediva per prima cosa alla Costituzione!
Resta davvero assai poco da fare, insomma, per chi creda nella cosiddetta «democrazia partecipata». Rimane soltanto il principio di stare rigorosamente fuori da qualunque organizzazione politica, ed esercitare le armi — ahimè un po' spuntate e talora assai altezzose — della critica più severa, soprattutto la critica a coloro che dovrebbero esprimere concetti e sentimenti nei quali in teoria mi identifico, e che invece ne producono l'amaro fallimento. Oppure, per non essere definiti «qualunquisti», applicare alla lettera l'antica osservazione di Carlo Marx: «La rivoluzione non c'è stata, bisogna ancora leggere molto». Ma, in questo Paese così televisivo, ci rimarrà almeno quest'ultima difesa?

Corriere della Sera 27.5.07
Negli ultimi saggi sulla psiche, la biologia del cervello incontra la psichiatria
La rivincita di Freud sulle neuroscienze
di Edoardo Boncinelli


«Si riscopre il ruolo della psicoanalisi nello studio della mente»

RADICI. Gli studiosi sono attenti all'analisi del profondo
ATTUALITÀ. Oggi il problema è la coscienza, non l'inconscio

«È impaziente e indugia, vorrebbe osare e trepida, è preoccupata e furente, perché nel medesimo corpo in fondo ella odia il mostro e ama lo sposo», il bellissimo giovane, «alla cui vista la stessa luce della lampada brillò più viva».
Così Ovidio descrive le oscillazioni di Psiche nell'imminenza dell'incontro decisivo con Amore, suo divino sposo. E attraverso mille tribolazioni Psiche, la fanciulla la cui fulgida bellezza «sfida ogni descrizione», diverrà immortale. Immortali e imperiture si presentano in ogni tempo le oscillazioni e le sospensioni dell'animo umano, oggetto da sempre di affascinanti descrizione e di acute analisi.
Sono stati però essenzialmente gli ultimi cento anni quelli che hanno collocato la psiche umana al centro dell'attenzione e che ne hanno fatto un oggetto di studio e di riflessione di primaria importanza.
Con il termine psiche si intende usualmente quell'insieme di processi interiori che conducono ad un comportamento, magari ripetuto, ad uno stato d'animo, a specifiche preferenze e talvolta a specifiche convinzioni. Dove ha sede la psiche? In tutto il sistema nervoso — centrale, periferico e autonomo — e in quello endocrino, ma un ruolo centrale ve lo gioca certamente il cervello. In che rapporto si trova allora con la mente la psiche? È tutta una questione di definizioni. Si potrebbe anche sostenere che i due termini sono sinonimi, ma in genere si fa una certa distinzione fra la capacità raziocinante, calcolatrice, rivolta alla soluzione razionale di problemi espliciti — chiamandola mente — e la sfera delle motivazioni, dell'emotività e del sentimento — che chiamiamo più specificamente psiche.
Se studiare la mente non è un problema da poco, studiare la psiche si presenta ancora più arduo, anche in ragione dell'enorme numero di pregiudizi e di resistenze psicologiche che circondano l'argomento. Se è vero infatti che noi teniamo molto al nostro corpo e alla sua salute, è ancora più vero che il nostro principale obbiettivo è il benessere complessivo, sintesi superiore di elementi somatici e psichici.
Che cosa vogliamo sapere in sostanza dallo studio della psiche? Vogliamo sapere perché in questa o quella circostanza qualcuno, incluso noi stessi, si è comportato in una certa maniera, perché «si sente» in un certo stato d'animo, perché si mette spesso in certe situazioni e perché preferisce una cosa ad un'altra. E vogliamo saperlo anche quando, se non soprattutto quando, il soggetto presenta un disagio o è giudicato sofferente da chi lo circonda.
Chi dovrebbe fare questo studio? La psicologia innanzitutto, che è nata come scienza autonoma alla fine dell'Ottocento. Poi la psichiatria, clinica e ricerca allo stesso tempo. Poi lo studio scientifico della biologia del cervello, riassunto oggi con il termine collettivo di neuroscienze. Ma non c'è dubbio che l'evento più clamoroso, quello che ha cambiato completamente il clima dello studio della psiche e che ha di fatto messo la psiche al centro della nostra vita, è stato la nascita della psicoanalisi. Il suo geniale inventore, Sigmund Freud, ha messo a disposizione di tutti una teoria pressoché onnicomprensiva della psiche, una teoria di grande potenza narrativa e di enorme suggestione. Egli ha avuto il pregio di proporre una teoria sistematica, quando tutti i «sistemi» stavano cadendo e di affidarsi ad una narrazione mitologica, quando le mitologie stavano tramontando una dopo l'altra.
Quale di queste diverse discipline può darci un contributo decisivo allo studio della psiche? Tutte probabilmente, e magari con l'aiuto di qualche altra. Questo è l'assunto, per me più che ragionevole, di due opere di un certo peso uscite quasi contemporaneamente. Sto parlando di Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca a cura di Ethel S.Person, Arnold, M. Cooper e Glen O.Gabbard (Raffaello Cortina) e dei due volumi di Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Einaudi).
Per vie diverse e con accenti diversi, le due opere cercano di offrire un quadro aggiornato dello stato delle nostre conoscenze e delle ricerche in corso nel campo della psiche, normale e patologica. Da entrambe emerge chiaramente un'idea. Se un tempo era l'inconscio a costituire un problema, dal momento che per secoli si era ritenuto che fosse la coscienza l'essenza della nostra psiche e che i suoi contenuti ci fossero chiari e evidenti, oggi è semmai la coscienza a costituire il problema principale. Quasi tutto quello che ci accade si sviluppa nelle regioni inconsce, tanto dal punto di vista cognitivo quanto da quello emotivo. Solo una minima parte di tutto questo si affaccia, temporaneamente e fugacemente, alla nostra coscienza.
L'opera edita da Raffaello Cortina, traduzione quasi in tempo reale di un testo uscito negli Stati Uniti sotto l'egida della American Psychiatric Publishing, è più centrata, come dice il titolo, sulla teoria psicoanalitica. Si tratta di un compendio di quello che si può intendere oggi per pensiero e prassi psicoanalitica, alla luce dei suoi incontri e scontri con altre scienze della psiche e in particolare con le neuroscienze, con le quali si è talvolta fusa per dar luogo alla cosiddetta neuropsicoanalisi, la versione più scientificamente aggiornata della psicoanalisi stessa alle soglie del terzo millennio.
Ancora più interdisciplinare l'approccio del Dizionario storico di Einaudi, contenente moltissime voci redatte da fior di scienziati attivi nel campo delle neuroscienze sperimentali. Il quadro che se ne ricava è molto ampio e equilibrato, anche se non può sfuggire il fatto che la tematica di fondo e l'ordito stesso della trattazione sono di matrice inconfondibilmente psicoanalitica e giganti della stazza di William James passano in secondo piano rispetto a Freud, il cui spirito aleggia in ogni frase.

il manifesto 27.5.07
Una sferzata salutare
di Alessando Robecchi


Confesso di subire il fascino dei pugili suonati. Quindi provo tenerezza per questa sinistra italiana che tutti prendono a schiaffoni, dai vescovi agli industriali. Lei reagisce dicendo: «è una sferzata salutare", affermazione che si può tradurre: oh, sì, dammene ancora!
Questo per dire che come laici, di sinistra (ecc. ecc.) ce ne sentiamo dire di tutti i colori e abbiamo imparato a perdonare la propaganda del nemico, che spesso è comica e paradossale, a la Silvio, per capirci.
Siamo vecchi, tristi, trogloditi, abbiamo rovinato l'Italia, siamo permissivi, laschi, molli, non vogliamo far la guerra e ci stanno sulle palle i ricconi. Che scoperta. Che ci diano pure dei pedofili, però, mi pare eccessivo.
Molto chiaro Francesco Alberoni, domenica scorsa, sulla prima pagina del Corriere della sera:
«... Coloro che appartengono alla tradizione illuminista e scientista, per cui l'uomo è libero di fare di sé ciò che vuole. Essi sono favorevoli a qualsiasi espressione della propria sessualità, al divorzio, a tutte le forme di convivenza e di matrimonio, all'eliminazione della designazione di padre e madre, all'aborto, a molte droghe, all'eutanasia e alla sperimentazione genetica. Alcuni anche all'incesto e alla pedofilia».
Ecco qua. Vi riconoscete in questo ritrattino? Il professor Francesco Agnoli rilancia sul Foglio (ieri):
«... I sostenitori dell'eugenetica, i fautori dell'aborto, i paladini delle mamme-nonne, degli ibridi e delle chimere, della poligamia come 'fatto biologico', si scandalizzano, sbuffano e si sbracciano contro i pedofili ecclesiastici...».
Bel colpo. Il titolo era: Cari progressisti e libertari, com'è che i pedofili vi fanno schifo?
Mi pare tutto chiarissimo. Sono aperto al dialogo. Una sferzata salutare. Ma se vengono a dirmelo qui, possiamo discuterne a testate.

il manifesto Lettere 27.5.07
Una legge che sa di dignità


Caro manifesto, mercoledì scorso è stata approvata dal consiglio regionale del Lazio la legge sugli interventi a favore della popolazione detenuta. Finalmente un'istituzione come la regione prende in considerazione la tutela della dignità dei detenuti durante l'esecuzione della pena e il percorso di reingresso in società. Assicurare la tutela della salute è interesse non solo dei detenuti ma dell'intera collettività. Oggi il diritto alla salute in carcere è allo sfascio: è l'unico settore gestito ancora dal Ministero della giustizia nonostante la riforma Bindi del 1999 sancisca il definitivo passaggio al Ssn e alle regioni. In molte carceri non è assicurata la presenza dei medici 24h, ci sono problemi per l'approvvigionamento dei farmaci e vi sono molti sprechi. Bisogna poi considerare che, seconda una nostra indagine sul campo, sul piano nazionale, si registra che oltre il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci e sono maggiori che nella società libera gli episodi di suicidio o di autolesionismo così come malattie quali le epatiti e della pelle. Per altro verso la legge interviene sull'avviamento al lavoro e alla formazione professionale di detenuti e ex detenuti, aumentando le possibilità che gli interessati, una volta fuori, non commettano più reati e si dedichino a attività lecite. Secondo le statistiche ufficiali, se le istituzioni e la società libera applicano misure alternative al carcere, il tasso di recidiva scende al 19%. Chi invece esce dal carcere cade in un nuovo reato e nella conseguente carcerazione nel 68% dei casi. La regione Lazio con questa legge, voluta dall'assessore al bilancio partecipato del Prc, Luigi Nieri, contribuisce quindi in maniera seria e rigorosa a implementare la sicurezza urbana e sociale, sottraendo manovalanza alla criminalità attraverso percorsi di reinserimento partecipato dalle istituzioni e dalla società civile i cui benefici non possono che giovare anche alla tanto declamata sicurezza urbana. Ci auguriamo che anche le altre regioni seguano l'esempio laziale. Il carcere è un luogo dove la garanzia dei diritti dei detenuti significa anche maggiore sicurezza urbana.
I. Barbarossa, segr. naz. Prc;
A. Salerni, resp. carceri Prc;
G. Santoro, Ass. Antigone