giovedì 31 maggio 2007

l’Unità 31.5.07
Giordano: «Tutta colpa del Pd»
Il segretario di Rc: «Il loro fallimento ha alluvionato tutti. Sulle pensioni nessun cedimento»
di Wanda Marra


«IL NOSTRO, quello di Rifondazione, è un voto negativo. Anche se ci sono alcune situazioni in contro-tendenza come Taranto. Ma mi pare che il problema di fondo sia che non tiene il Pd. È come una breccia in una diga, in cui passa l’acqua e alluviona
tutti.
L’utile argine può essere l’unità delle forze a sinistra, in grado anche di determinare con maggior efficacia il cambio di marcia della politica del governo». È questa l’analisi complessiva del segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano.
Segretario, perché il voto ha punito il centrosinistra?
«Ci sono delle cose che sono persino un po’ clamorose. Non si può chiudere il contratto degli statali il giorno dopo le elezioni. Come non si può far passare in tutte le realtà di fabbrica l’idea che siamo noi a dover tagliare la previdenza, mentre è il centrodestra che ha proposto con lo scalone di Maroni l’aumento di 3 anni dell’età pensionabile. C’è stata una fortissima delusione, che ha prodotto disincanto e disaffezione, con un terremoto che ha il suo epicentro al Nord, in particolare nel Lombardo-Veneto, ma dispiega onde sismiche in tutta Italia. Quando il lavoro dipendente pubblico o privato perde fiducia, o si astiene, o è preda delle fobie ideologiche e delle angosce alimentate dalle destre».
Il vostro particolare risultato negativo da che dipende?
«Dal fatto che siamo coinvolti nella politica del governo».
Che cosa avreste dovuto voi fare di più (o di meno) dentro il governo?
«Le aree più sensibili alla disaffezione sono quelle che più di tutte credono nel cambiamento. Sono proprio i ceti popolari che cadono preda delle destre reazionarie o dell’astensionismo».
Insomma, Rifondazione ha puntato i piedi troppo poco?
«Dobbiamo uscire fuori dalla politica di Palazzo. C’è un evidente problema di efficacia del governo. Noi avremo maggiore determinazione, tenteremo di costruire l’unità a sinistra, con un nuovo soggetto, di intensificare il rapporto con movimenti e associazioni. Siamo coinvolti anche noi nella disillusione. Dico al governo e allo stesso Prodi: serve un bagno di umiltà, si deve ritrovare la sintonia col popolo. Bisogna essere intransigenti sulle questioni sociali, a cominciare dasalari, pensioni, lotta alla precarietà. E faremo valere queste cose con una maggiore determinazione sul terreno anche dei numeri».
Che significa?
«Le forze della sinistra se si mettono insieme devono poter pesare di più. Purtroppo, l’impianto della politica economica e sociale rischia di essere solo appannaggio del Pd, e alla prova dei fatti le cose sono andate male. Abbiamo visto che spesso e volentieri non ci troviamo di fronte alla costruzione delle decisioni. E lo dico chiaramente: il Dpef deve essere discusso prima. Ora non abbiamo più alibi: non ci si può più fare la solfa sul problema del risanamento. Noi abbiamo sempre detto che risanamento e redistribuzione devono andare insieme. Finora abbiamo visto solo il primo tempo del film».
State pensando di uscire dal governo?
«Il problema non è questo, ma che il governo esce dal paese. Il problema non è Rc, non siamo al ‘98, è il rapporto tra governo e popolo. Trovo assolutamente di sottovalutazione le riflessioni di Prodi. Una buona politica di fronte a un malessere così diffuso non può volgere lo sguardo dall’altra parte».
La domanda sorge spontanea: ma voi dov’eravate?
«Ma come? Forse vi siete distratti voi, quando abbiamo sollevato questo problema ripetutamente, e tutti avete seguito la vecchia logica di Rc che protesta».
Ma tutto considerato il resto della sinistra radicale va meglio...
«Mi pare che siamo penalizzati tutti. Ovvio che c’è proporzionalmente una difficoltà enorme nel Pd, e una anche nostra. Ma anche facendo le debite proporzioni è diverso perdere 15-20 punti al Nord, come fa il Pd, e 1 come noi. Ma all’operaio disilluso di Mirafiori devi portare un risultato concreto, non solo chiederlo al governo. Lo devi ottenere».
Come?
«Saremo determinati. Non voteremo nessun provvedimento sulle pensioni che non preveda l’abbattimento dello scalone. Ci vuole una marcia in più nella lotta alla precarietà, si deve investire di più in innovazione e ricerca e sostenere tutte le politiche degli aumenti retributivi».
Non crede che però serva una riflessione nel vostro partito?
«Certo, c’è una riflessione critica sulle modalità con cui questo governo ha prodotto le sue azioni. Serve una riflessione seria sulla critica della politica. Per questo dobbiamo mettere mano al soggetto unitario della sinistra subito. Siamo anche incentivati dalle esperienze dell’Aquila, Taranto, Gorizia. Quando ci sono esperienze fortemente alternative, la risposta c’è. E dunque, chiedo a tutti a sinistra di uscire fuori da dubbi e incertezze».

l’Unità 31.5.07
Ma è un brutto risveglio per la Sinistra radicale
Rifondazione perde ovunque. E non ridono nemmeno Verdi e Pdci


COLPA del governo. E in particolare: colpa del non ancora nato Pd. The Day after delle amministrative della sinistra radicale è caratterizzata dalla ricerca del colpevole. In assoluto, però, neanche la sinistra d’alternativa è andata esattamente bene. Rifondazione innanzitutto. Ieri Liberazione intitolava «Elezioni 2007, brutto ricordo per il Prc», un’analisi elettorale impietosa, dalla quale si evidenzia che il partito perde consensi soprattutto a Nord, e si consola («ma poco» per ammissione dello stesso quotidiano) con i dati della Puglia, dell’Abruzzo e dei comuni del napoletano. Nel dettaglio: Rc ha perso in totale l’1% alle amministrative dei comuni capoluogo (-19.178 voti) e il 2% nelle provinciali (-51.621 voti). Non è un risultato brillante neanche quello dei Verdi e del Pdci, che però insieme fanno registrare un seppur piccolo incremento. Alle provinciali guadagnano lo 0,4%, mentre perdono lo 0,2% alle comunali. Canta vittoria Sinistra democratica, con riferimento all’affermazione del suo esponente Cialente, all’Aquila, al successo di Gorizia, dove Andrea Bellavite, candidato dell’ex sinistra Ds, Rc e movimenti, è arrivato secondo, dopo quello del centrodestra, e Taranto, con il successo di Stéfano.
La più penalizzata dal voto è dunque senza dubbio Rc. Le analisi sono rimandate alla direzione e all’esecutivo di lunedì. Ma il partito si trova in una situazione scomoda: da una parte il richiamo di Prodi a una minor litigiosità, dall’altra il fatto che molti elettori del partito vedono non realizzati alcune promesse che si aspettavano. «Siamo noi che chiediamo maggiore collegialità, dobbiamo governare meglio e dare un segnale diverso agli elettori governando meglio e redistribuire le risorse», dichiara Migliore, capogruppo alla Camera. Il vicecapogruppo del partito in Senato, Tommaso Sodano, accennando anche a una certa «timidezza» di Rifondazione in qualche caso, dichiara che la mediazione possibile c’è già: basta tornare al programma dell’Unione. A tutti i partiti della sinistra d’alternativa, comunque, sembra chiaro che per pesare di più ed essere più determinati serve al più presto il nuovo soggetto della sinistra. «Dove avevamo una nostra lista siamo andati bene, abbiamo ottenuto tra il 4% e il 9%, ad eccezione di Matera dove siamo andati male e ci siamo fermati poco sopra il 2%. Ma non posso gioire per un nostro buon risultato quando c'è stato un naufragio...», dichiara Mussi. Oggi c’è il primo appuntamento ufficiale che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo i vertici di Rc, Pdci, Sd e Verdi. A dichiarare che bisogna accelerare verso il nuovo soggetto, oltre a c (che però subisce gli altolà delleb sue minoranze, con varia intensità, a seconda si tratti di Grassi o Cannavò) è Oliviero Diliberto, che si pone come obiettivo le amministrative del 2008. Mentre i Verdi con Pecoraro Scanio parlano di «un’alleanza arcobaleno», ma invitano a «non fossilizzarsi» sui contenitori.
Nel frattempo, restano sul tavolo i problemi “originari”. È Alberto Nigra (area Angius di Sd) a rispondere a Diliberto, che invitava «i compagni di Sd» a scegliere, reputando troppe le differenze con lo Sdi di Boselli: «Porre paletti verso lo Sdi come fa Diliberto è sbagliato: non si tratta di organizzare meglio la cosiddetta sinistra radicale ma di dare vita in Italia ad una forza della sinistra di governo».

l’Unità 31.5.07
Donne, quando l’inferno è in casa
Sempre più casi di soprusi in famiglia. Bindi: subito leggi più incisive


UN MORTO ogni due giorni, 1.200 vittime in cinque anni e in sette casi su 10 la vittima è una donna e in 8 su 10 l’autore è un uomo. È allarme per il moltiplicarsi
delle violenze in famiglia: su 10 omicidi avvenuti nella sfera familiare, 6 sono stati commessi tra le mura domestiche. Tanto che anche il ministro Bindi, dopo la tragedia di Compignano, avverte: «La violenza in famiglia è una realtà troppo a lungo rimossa, sulla quale è invece necessaria una seria presa di coscienza». «Per questo - spiega il ministro - non bastano le leggi, che pure vanno adeguate e rese più incisive, come abbiamo cominciato a fare con il disegno di legge sulla violenza in famiglia. Uno dei nostri obiettivi è quello di realizzare una rete diffusa di servizi sul territorio, innovando e allargando la funzione dei consultori familiari che vanno concepiti sempre più come Centri Famiglia, in cui siano integrate professionalità e competenze diverse. Luoghi vicini alle famiglie, capaci di cogliere fin dall’inizio i segnali di disagio e maltrattamento».
E proprio sui segnali si concentra la denuncia di Telefono Rosa, da anni al fianco delle donne che subiscono violenze: «L’omicidio di Marsciano è l’ennesimo episodio di una morte annunciata» accusa la presidente Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, che osserva come ancora una volta segni di tendenze violente da parte di familiari siano stati clamorosamente ignorati.
E i dati che emergono sui delitti in famiglia parlano chiaro. L’ultimo rapporto è dell’Eures-Ansa, del 2006: 174 omicidi in famiglia nel 2005, addirittura il 29,1% del totale. E la sfera familiare precede le vittime della mafia (146, il 24,4%) e della criminalità comune (91, il 15,2%). Quest’ultimo dato è in controtendenza rispetto al 2004, con un aumento del 28,2%, quando le vittime furono 71. Questo perchè «accanto alla diffusione dei delitti collegati ai 'reati comuni'», emerge «quella degli omicidi compiuti da individui 'qualunque', spesso giovani, estranei alla malavita, divenuti assassini per futili motivi o banali litigi». La maggior parte degli omicidi in famiglia avviene al Nord e ad armare la mano degli assassini è una volta su quattro il movente passionale e se su dieci donne uccise in Italia ben sette sono state ammazzate dal partner o da un familiare, cresce anche il numero di uomini vittime della famiglia: nel 2005 l’incremento è stato del 28,8%.
Il contesto nel quale si consumano la maggior parte degli omicidi è quello della coppia (100 delitti, pari al 53,5%). L’allarme riguarda soprattutto le donne: nel 68,4% dei casi le vittime di omicidio in famiglia sono donne, più numerose nelle regioni del Centro (75%), seguite da Sud (68,8%) e Nord (65,1%). L’indice di rischio (vittime per 100 mila abitanti) risulta significativamente più alto tra le donne e in particolare nella fascia 35-54 anni.

I NUMERI
1.200 LE VITTIME delle violenze dentro la sfera familiare negli ultimi 5 anni. In pratica, un morto ogni due giorni. In Francia questo rapporto, su dati del 2003, è di un morto ogni 4 giorni. Caso drammatico quello russo, dove fra le 10 mila e le 15 mila donne ogni anno sono uccise dal partner o dai parenti, senza che il Paese si sia ancora dotato di una legge particolarmente punitiva per questo reato.
70% DEI CASI la vittima della violenza familiare è una donna, otto volte su dieci uccisa da un uomo (non necessariamente il marito o il convivente)
174 GLI OMICIDI compiuti in famiglia nel 2005 (29% del totale dei morti per fatti violenti in Italia, dati Eures-Ansa). Nella sfera familiare avviene anche il 92% degli omicidi-suicidi (una persona che uccide un familiare e poi si toglie la vita).
146 I MORTI ammazzati per mano della criminalità organizzata nello stesso anno (24%), 91 i morti per criminalità comune.
5 GLI ASSASSINI fra fratelli e/o sorelle. La percentuale più bassa fra gli “incastri” familiari.

l’Unità 31.5.07
Figlio unico per legge, un boomerang per la Cina
di Lina Tamburrino


L’immagine più accattivante resta sempre Piazza Tien-An-Men: gruppi di scolaresche con i cappellucci rossi o gialli; bambine con vestiti trasparenti bianchi o rosa; ragazzini con i jeans; neonati con le brachette con lo spacco posteriore al posto dei pampers; ragazzi che si divertono inseguendo gli aquiloni.
L’immagine di una infanzia protetta, amata, irrinunciabile. Ma non è proprio così. La «questione demografica» è una ferita aperta, sempre sanguinante nel corpo immenso della Cina, che conta già un miliardo e 250 milioni di abitanti.

La popolazione cinese oggi è inferiore di almeno 500 milioni di persone rispetto ai ritmi di crescita naturali

Al censimento del 2000 il rapporto tra maschi e femmine era arrivato a 117 uomini per 100 donne

Uno degli effetti collaterali della limitazione del numero dei neonati è l’invecchiamento della popolazione

NELLA CINA delle cento proteste c’è anche quello contro la politica del figlio unico. Non ci stanno le aree rurali dove i figli, soprattutto maschi, significano forza lavoro. Non ci stanno le città dove si teme che il Paese diventi presto «un gigante vecchio». Non ci stanno le donne che pagano questa politica con aborti forzati
Politica che umilia i ceti urbani - i quali anche se malvolentieri la seguono - e alimenta ricorrenti proteste nelle immense aree povere del Paese e nelle zone abitate da minoranze etniche, per le quali comunque un secondo figlio è permesso. Anni fa una sanguinosa rivolta nel musulmano Xingjiang ebbe la sua origine proprio nel rifiuto della campagna abortista; la denuncia della politica abortista è uno dei punti forti della lotta contro Pechino dei tibetani in esilio; e le recenti proteste nel Guangxi sono state anche esse originate dallo stesso rifiuto. Non che le campagne cinesi siano tranquille, anzi. Il dato più recente ci informa di 87 mila proteste nel 2005, originate nella stragrande maggioranza dei casi da contrasti tra contadini e «quadri» locali sull’uso del suolo agricolo pubblico. Ultima, di qualche settimana fa, è stata la rivolta scoppiata in una vasta area del ricco Guangdong, dove le terre sono state acquistate da parenti e amici dei «quadri» del posto i quali ora le mettono in vendita a prezzi ben più alti.
Affidata alla responsabilità dei funzionari locali e modellata nel suo andamento dalle esigenze delle riforme in agricoltura, la politica del figlio unico è stata trattata alla stregua di un «obiettivo produttivo» quasi che gli aborti si potessero paragonare alla raccolta del grano. Essa ha generato incubi: aborti forzati, appunto; campagne di sterilizzazione di massa; abbandono di neonati non «autorizzati»; ecografie per scoprire il sesso del feto e quindi ricorrere all’aborto se femmina. La politica del figlio unico, è il giudizio unanime di quanti fuori Cina hanno studiato il fenomeno, è costato alla donne un inaudito tributo di sangue e di sofferenze. Ma anche la complicità nel perseguire quell’obiettivo: il figlio maschio, visto ancora oggi come indispensabile strumento di lavoro nei campi e unica protezione nella vecchiaia dei genitori. E in effetti la questione demografica è il punto di coagulo di tutte le contraddizioni che dilaniano il Paese: il rispetto dei diritti umani, la difficoltà estrema a delineare un sistema pensionistico, l’assenza di una estesa protezione sanitaria, la reticenza a diffondere le conoscenze sul sesso e la contraccezione, l’abisso che divide il mondo urbano da quello rurale. Per esorcizzare le paure derivanti da uno sviluppo dimezzato, ecco allora che alla famiglia cinese non restano che figli, più figli, figli maschi.
Con risultati inevitabili, agghiaccianti e pericolosi. Che- Fu Lee e Qiusheng Liang, coautori di un recente libro sulla politica demografica cinese, hanno calcolato che la popolazione di quel grande Paese oggi è inferiore di almeno 500 milioni di persone rispetto a quanto ci si poteva aspettare «naturalmente» e che la politica di controllo degli ultimi 30 anni ha contribuito per almeno il 50% al calo della crescita della popolazione. Ma gli effetti collaterali sono pesanti, appunto. Al censimento del 2000, il rapporto tra maschi e femmine era arrivato a 117 maschi per 100 donne, il più alto in assoluto nella storia cinese e il più alto tra i paesi asiatici. Con punte massime del 130 a 100 nel Jiangxi, nel Guangdong una delle zone più ricche del paese, nell’Henan. Proiettando questi dati, è stato già calcolato, con molta apprensione, che nel 2020, 24 milioni di giovani cinesi ( addirittura c’è chi parla di 50 milioni) non troveranno moglie. Una prospettiva insopportabile in un Paese e in una cultura nei quali il matrimonio -innanzitutto per ragioni sociali- è una istituzione irrinunciabile. Ecco la ragione- almeno una delle principali- del fenomeno che da qualche anno flagella la Cina più povera: il rapimento delle donne per rivenderle a scopo matrimoniale (ne ha anche parlato un film al recente festival di Cannes) e il concubinato, diffuso oramai anche nella ricca Hong Kong. E ci sono studiosi i quali temono che da queste frustrazioni possa derivare l’estendersi di altri fenomeni criminali, oltre a quelli già oggi patiti dalle donne.
L’altro «effetto collaterale» è l’invecchiamento della popolazione. James E. Howell della Stanford University ha calcolato che tra qualche decennio la Cina sarà un «gigante vecchio», con una popolazione declinante (superata dall’India che avrà raggiunto un miliardo e 300 milioni di persone) e anziana. E dunque con difficoltà per la sua economia: non potrà più contare sulla bruta forza lavoro, ma dovrà fare leva sulle competenze e sulla tecnologia; e con problemi con il suo sistema di protezione pensionistico e di beni per gli anziani. Nel 2000 l’età media della forza lavoro era di 37 anni, nel 2025 salirà a 46.
Il figlio unico è stato sempre oggetto di discussioni con pressioni perché ci fosse un allentamento, ufficiale, non tollerato nei fatti come adesso. Ma i dirigenti temono che un addolcimento possa aprire la strada a un nuovo picco nel tasso di fertilità, con conseguenze negative sulla crescita e sulla governabilità del Paese. Già adesso, gli squilibri tra zone ricche che sono state graziate dal «mercato socialista» e zone rimaste escluse, appaiono agli occhi dei cinesi più attenti un peso insostenibile. Allentare la politica demografica avrebbe come conseguenza quella di gonfiare ancora di più il serbatoio fatto da centinaia e centinaia di milioni di cinesi che nelle campagne non hanno assistenza, non possono mandare i figli a scuola perché non hanno soldi sufficienti per le tasse, non hanno pensione; e fatto dagli emigranti che si spostano dalle campagne nelle città dove, non potendo contare sul permesso stabile di soggiorno, non possono disporre di niente, non di case ( se non a mercato nero), non di assistenza, non di scuole.
Il controllo pubblico della sessualità e della riproduzione biologica prevale sempre sul diritto individuale alla sessualità e sulla protezione della donna e del bambino: è questa, sostiene Evelyne Micollier su «China Perspectives», una costante della politica e della cultura cinese, fin dai tempi della prima dinastia imperiale, quella degli Han. Nella Cina delle riforme, cambiamenti ci sono stati anche in questo campo, superando il moralismo dell’epoca maoista o meglio della rivoluzione culturale quando veniva presentato ed esaltato come un eroe da imitare colui-colei che si comportava ignorando la propria identità- e dunque i propri impulsi sessuali. Oggi le indagini sociologiche ci dicono che i giovani della Cina continentale sono più disinibiti di quelli di Hong Kong, dove pare facciano sentire il loro peso la Chiesa e la tradizione moralistica inglese. O di quelli di Taiwan, dove pare si faccia sentire il peso di una cultura confuciana ben solida. Nella Cina continentale le relazioni prematrimoniali non sono più un tabù. In Cina gli studi sociologici sulla sessualità hanno subìto un passo in avanti notevole a partire dal 1990, anche per effetto della diffusione della HIV e della necessità di fronteggiare il fenomeno. Recentemente il ministro della Sanità ha lanciato l’allarme: se non si interviene, entro il 2010 in Cina ci saranno 10 milioni di persone infette. Già adesso il 10% degli infetti è costituito da adolescenti i quali non hanno nozione alcuna del fenomeno e di come proteggersi.
Si presta più attenzione dunque, e si crea qualche organismo in più. Ma il moralismo cacciato dalla porta rientra in qualche modo dalla finestra. Nei libri di testo per l’educazione sessuale, la masturbazione e le relazioni prematrimoniali trovano poco attenzione, che invece è centrata innanzitutto sulla moralità sessuale. I corsi di educazione sessuale sono facoltativi, e in ogni caso fanno parte dei corsi di biologia; non molta attenzione viene dedicata alle informazioni sulla politica demografica. L’Associazione per la politica di pianificazione familiare, con il sostegno dell’Onu, ha preparato un testo da distribuire nelle scuole purché, ci si augura, l’iniziativa non venga ostacolata da insegnanti e genitori bacchettoni. Una larga parte della opinione pubblica più attenta ritiene che il progredire della modernizzazione possa dare un valido contributo alla definizione di una politica demografica non così invasiva, aggressiva, distruttiva. Ma fino a quando anche in Cina una donna non potrà tranquillamente dire: «il corpo è mio e lo gestisco io» non credo che si possa essere molto ottimisti.

Repubblica 31.5.07
Il presidente della Camera a Repubblica Tv: il governo deve dare risposte su pensioni e precariato
"All'Italia servono due sinistre se il Pd fallisce è un guaio per tutti"
Bertinotti: nel 2011 lascio. Darò la mano a Bush? Non rispondo


Passaggio storico. Per la prima volta la sinistra è stata sradicata dal nord. È un passaggio storico, esito di un processo europeo ventennale
Risposta a Prodi. Il Paese è malato? Mi sembra una autodifesa. I Paesi europei sono tutti malati. Il punto è che le ricette sono inadeguate

ROMA - "Se il paese è malato le ricette sono sbagliate". Fausto Bertinotti risponde a Romano Prodi durante un videoforum a Repubblica Tv, subissato da oltre 300 domande in un´ora di diretta. Il presidente della Camera sottolinea che – per il suo ruolo – dovrà essere reticente, ma poi non si nasconde dietro lo scranno di Montecitorio. Inforca gli occhialetti marroni e dà risposte chiare: la sinistra al nord è ridotta a fenomeno marginale. Se il partito democratico fallisse, sarebbe un disastro per tutti. Quanto a lui, a fine legislatura, è pronto a lasciare.
Prodi dice di essere deluso dal risultato elettorale, lo è anche lei?
«Non parlerei di delusione perché siamo davanti a un passaggio storico. Per la prima volta nella storia della Repubblica la sinistra, anzi le sinistre, sono state sradicate dal Nord. E devo dire per onestà che non penso che la cosa sia legata agli ultimi mesi: siamo davanti all´esito di una storia di vent´anni. Una storia che è europea, così come la crisi della sinistra è europea».
Il premier ha anche detto che questo paese è ancora malato.
«Mi sembra un´autodifesa. In realtà i paesi europei sono tutti malati, perché l´Europa non riesce a esprimere un´idea di futuro. Il punto è che le risposte sono inadeguate a questa malattia».
Il voto ha messo in crisi anche il processo di nascita del Partito Democratico
«Io sono lontanissimo culturalmente dal progetto. Mi sembra un´imitazione americana, non fa parte della sinistra europea, ma detto questo penso che un suo fallimento sarebbe un guaio per tutta la sinistra. Nell´Europa di oggi ci sono due sinistre: c´è un campo riformista che possiamo definire centrosinistra, e una sinistra di alternativa. Ecco io credo che queste due realtà devono poter convergere per governare, e contemporaneamente sfidarsi sulle alternative di società da costruire».
Ma in Italia c´è la sensazione che la politica non sappia più dare risposte ai cittadini. Non crede che si debba fare un passo in avanti, che si debba cercare di dare a chi governa e a chi decide strumenti più adeguati, come accade in Spagna, in Francia, in Inghilterra?
«E´ vero, la crisi italiana ha una sua densità particolare. C´è prima di tutto una crisi della politica, ridotta ad amministrazione. L´economia è diventata indiscutibile, e la politica è diventata minore. Molta della gente che conosco prova disaffezione nei confronti di una politica che ha messo fuori dall´agone la figura dell´operaio, del lavoratore che guadagna 1000-1100 euro al mese e non ha più nessun riconoscimento sociale o culturale. In più, c´è una crisi delle istituzioni: tutte le ricette adottate dalla Seconda Repubblica, a partire dalla scelta drastica del sistema maggioritario, hanno fallito. Abbiamo una governabilità apparente, i governi durano cinque anni ma coalizioni così fatte hanno una scarsa capacità di scelta. E la frantumazione dei partiti aumenta. Serve un sistema elettorale che torni a responsabilizzare i partiti. Come il sistema tedesco. E ancora: occorre superare un bicameralismo fragile che ha conseguenze drammatiche sulla credibilità delle istituzioni. Bisogna ridurre il numero dei parlamentari e rimettere mano ai regolamenti. Bisogna mandare subito un segnale sui costi della politica e legiferare su questo, almeno per la prossima legislatura»
Lei ha polemizzato con il presidente di Confindustria Montezemolo, ma crede ci fosse qualcosa di condivisibile nelle sue parole?
Prima di tutto voglio dire che il nostro è stato uno scontro aspro ma condotto con reciproca grande civiltà. Comunque, credo che il discorso di Montezemolo sia stato un discorso organico, un manifesto, che aveva poco a che fare col suo ruolo di presidente di Confindustria. Un ragionamento che va preso sul serio ma che io non condivido affatto. Perché vede destra e sinistra come categorie morte, e pretende di misurare tutto con il paradigma unico dell´impresa. Trascurando i danni che la pura misura del profitto e della concorrenza produce in termini di precarietà, di coesione sociale, di disuguaglianza, di povertà. Come ho già detto, la critica più efficace al discorso di Montezemolo è il rapporto dell´Istat».
Scrive Valentina: "Mia madre non vuole andare in pensione a 58 anni perché poi io alla pensione non ci arriverò mai". Mentre un altro ascoltatore si lamenta: "Ormai anche a sinistra prende piede l´idea che ci si debba adattare alla precarietà in favore della flessibilità".
«Se dovessi dare un consiglio al governo direi: dia una risposta a queste due domande. Quanto a me, credo che un ragionamento che dice: "aumenta l´attesa di vita quindi deve aumentare l´età in cui si va in pensione" sia una violenza sociale. Un lavoratore operaio ha un´attesa di vita diversa dalla media. C´è una parte della popolazione che va incentivata a lavorare di più, ma questa donna di 58 anni che magari è una lavoratrice tessile, sottoposta a turni massacranti, spesso di notte, lei no. Il precariato è invece la condizione generalizzata della generazione che entra nel mercato del lavoro in questo tempo. Ci sono giovani del Cnr che hanno contratti a 3 mesi. Ho conosciuto hostess dell´Alitalia che sono state precarie per 12 anni. Non è solo un danno sociale grandissimo ma impigrisce le imprese. Serve una legge per interrompere questo meccanismo infernale.
Romano Prodi ha detto che al termine della legislatura considererà esaurita la sua esperienza in politica. E´ lo stesso per lei?
«Direi proprio di sì, ho 67 anni, e penso che anche nella politica ci sia un limite di età. Se vale per i vescovi vale anche per chi esercita le funzioni di direzione politica».
A Roma sta per arrivare George Bush. E´ giusto manifestare nei confronti di un presidente americano che viene in Italia in visita ufficiale?
«Se è giusto lo stabilisce chi ci va. Certo è legittimo. L´importante è che i fenomeni di partecipazione si esercitino in un quadro di non violenza. Saprei bene cosa dire se non fossi in questo ruolo, ma visto che lo sono mi taccio».
Se dovesse incontrare Bush, la infastidirà stringergli la mano?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».

Corriere della Sera 31.5.07
Sì al video sui preti pedofili. Il Cda si spacca
di Paolo Conti


ROMA — Stasera Michele Santoro manderà in onda il video Sex crimes and the Vatican su Raidue durante Annozero.
Ma il prezzo pagato dai vertici è altissimo, una spaccatura senza precedenti. Ieri sera tra le 20.30 e le 21 è stato difficile capire dove fosse il cuore del potere alla Rai: cinque consiglieri di amministrazione dell'area di centrodestra riuniti senza il presidente Claudio Petruccioli, che aveva abbandonato i lavori, e senza il direttore generale Claudio Cappon.
Poi, regolamento alla mano, la presidenza è stata assunta pro-tempore dal consigliere anziano Giuliano Urbani. Una scelta clamorosa, senza precedenti nella storia di questo Consiglio: una votazione senza il presidente in carica.
I cinque hanno approvato un documento sulla trasmissione di Santoro (polemicamente chiamato «onorevole» nel testo) in cui si impegna il direttore generale «a vigilare affinché la trasmissione risponda alle esigenze del pubblico servizio, assicuri una corretta informazione, la tutela dei diritti dei minori, il più rigoroso rispetto delle leggi nonché delle diverse idee e sensibilità». Poi si sottolinea «l'esclusiva responsabilità del direttore generale in merito alla corretta gestione della trasmissione da lui autorizzata». La guerra tra Cappon e i consiglieri di centrodestra è insomma a un punto di non ritorno. Il documento di mediazione proposto da Petruccioli, identico nel resto, si limitava a «impegnare il direttore generale a riferire al Cda sull'andamento della trasmissione» L'atteggiamento del centrodestra ha scatenato il polemico abbandono di Sandro Curzi («non intendo partecipare nella maniera più assoluta a una riunione che si prefigura come un tentativo intollerabile di censura preventiva») e poi di Nino Rizzo Nervo, Carlo Rognoni e infine di Petruccioli. Marco Staderini (area Udc) aveva chiesto in un primo momento di votare per impedire l'uso del documentario. Nel pomeriggio la redazione di Annozero aveva già comunicato l'elenco degli ospiti in studio con Michele Santoro per commentare «al dovuto livello», secondo le indicazioni di Cappon, il filmato contestato: cioè monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia università lateranense (accompagnato da dieci studenti di teologia), Don Fortunato di Noto, da anni impegnato contro la pedofilia su internet, il professor Piergiorgio Odifreddi, autore di «Perché non possiamo essere cristiani», e il giornalista Colm O'Gorman, autore dell'inchiesta della Bbc. Proprio la presenza di Fisichella (col chiaro via libera da parte del Vaticano) avrebbe suggerito a Urbani maggiore cautela su una richiesta secca di sospensione del filmato.
In quanto al bilancio, il centrodestra fino all'ultimo ha lasciato immaginare una clamorosa bocciatura della proposta di Claudio Cappon. Invece il documento del direttore generale è stato approvato, con l'astensione di Marco Staderini. Le cifre definitive: un rosso di 78,6 milioni nel 2006 per Rai spa (contro un utile di 16,4 milioni nel 2005) e di 87,4 per l'intero gruppo Rai (contro un utile di 22,9 milioni nell'anno precedente). Almeno 10 milioni di euro in più, per Rai spa, rispetto alle anticipazioni dei giorni scorsi che parlavano di 69 milioni di euro. E lo stesso ministro del Tesoro, Tommaso Padoa- Schioppa, nella sua audizione del 16 maggio in commissione di Vigilanza aveva parlato di 63 milioni di euro. Il centrodestra fa sapere di aver approvato il bilancio «in quanto atto dovuto» e di ritenere ingiustificate le spiegazioni per il deficit. L'obiettivo del centrodestra è chiaro: il ruolo di Claudio Cappon.

Corriere della Sera 31.5.07
A centocinquant'anni dalla nascita poche celebrazioni ufficiali e una biografia che fa discutere
L'antifascismo di Pio XI nascosto dalla Curia
di Alberto Melloni


Era prevedibile che l'apertura degli archivi di Pio XI custoditi in Vaticano cambiasse la storia del rapporto fra Chiesa e fascismo. Ed Emma Fattorini, di cui esce ora per i tipi di Einaudi il saggio Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa (pagine 252, e 22), dimostra con una prima e rigorosa ricognizione della carte quant'è profondo questo cambiamento.
Cambiamento che — diciamolo subito — riguarda Pio XI e non Pio XII. L'opera, purtroppo, ha iniziato a far rumore non per la sua ipotesi centrale, ma per una subordinata pacelliana: essa conferma, quasi a margine del discorso, che il cardinal Pacelli cerca di smussare ogni volta che può, anche all'indomani della morte di papa Ratti, la crescente insofferenza del suo superiore verso i governi d'Italia e Germania. E com'era facile prevedere le «brigate Pacelli» sono prontamente intervenute a spiegarci che anche in questo caso il futuro Pio XII ha fatto l'unica cosa che poteva fare... Polemica stantia, legata forse alle tappe della beatificazione di Pacelli o al bisogno di accreditarsi per chissà quale ambizione: ma che trascura il cuore di questo volume.
Lavorando sui faldoni di alcuni organi curiali (gli affari ecclesiastici straordinari, la segreteria di Stato, il Sant'Uffizio) e inserendo gli inediti nella storiografia, Emma Fattorini disegna la parabola anomala di un papa che si pente: racconta la disillusione di Achille Ratti, segue il mutare delle sue posizioni, trova tracce del tormento che lo anima. Ché Achille Ratti, eletto papa nel 1922, coltiva per anni l'illusione che il fascismo possa essere un «bene minore», che difende i valori cristiani, rispetto al «male maggiore» costituito dal comunismo. Eppure, mentre ancora tenta delle aperture di credito verso i totalitarismi, Pio XI compie passi nuovi. L'autrice li segue sui vari quadranti della sua politica davvero globalizzata.
Il papa, che aveva fulminato l'utopia reazionaria dell'Action Française e condannato con l'enciclica Divini Redemptoris il comunismo ateo, si mostra possibilista davanti alla strategia della «mano tesa» del Fronte popolare in Francia. Nella Spagna della guerra civile le atrocità lo sgomentano al punto che nel luglio del 1936 Pio XI riconosce: «Non avevamo capito» — e si chiede scorato: «Indire preghiere? E rivolte a chi? Ma come, in quale senso?». Le voci più preoccupate dalla Germania di Hitler, soprattutto il vescovo von Galen, lo convincono a far leggere nelle chiese tedesche la lettera Mit brennender Sorge e lo spingono a tentare quella enciclica contro il razzismo impigliatasi nell'ostruzionismo del padre generale dei gesuiti, un polacco antisemita e anticomunista allo stesso titolo. In Italia lo sdegno contro Mussolini e le leggi razziali cresce ininterrotto: avrebbe dovuto sfociare in una denunzia pubblica, che non viene pronunciata l'11 febbraio 1939 perché Pio XI muore il giorno innanzi: le copie e i piombi di questo discorso vengono distrutti per ordine del suo camerlengo Eugenio Pacelli con uno zelo che è difficile chiamare prudenza, che il successore di Pacelli riparerà leggendone qualche brano nel 1959, e che Benedetto XVI aprendo gli archivi ha messo a disposizione degli storici.
Da queste carte dell'Archivio segreto Vaticano Emma Fattorini fa emergere due elementi: la tensione spirituale che porta Pio XI da una devozione crociata all'evocazione profetica alle ossa sante che dovrebbero ridare vita a un cattolicesimo inscheletritosi nel clericofascismo; e la asimmetria spirituale fra questo dinamismo del papa e l'immobilismo dei suoi collaboratori, ipnotizzati dall'esigenza di mantenere salda la sponda anticomunista, come poi faranno per la neutralità in guerra.
Questo libro, dunque, offre una suggestiva ricognizione. Dico ricognizione non in senso riduttivo: solo per sottolineare che per ripensare storicamente quella stagione — trascurata in un Paese e in una Chiesa che dopo Ratti non han sentito rimorsi, ma talora nostalgia del cattofascismo — richiede scavi, tempo, edizioni, giovani. Cose che l'Italia potrebbe fare, come già fanno governi e istituzioni di Germania o di Francia. Anche per evitare che queste carte diventino preda d'incursioni giornalistiche, iceberg nel mare di celebrazioni ideologiche o monadi nel nulla, com'è accaduto nel centocinquantesimo anniversario della nascita di Pio XI, che cade quest'oggi: a parte un vespro dell'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, qualche cosa attorno alla casa natale, papa Ratti si vede dedicare da un sito leghista il Palio degli Zoccoli di Desio, suo paese natale, domenica prossima. Si potrebbe far di meglio: ma se non si riuscirà, il libro della Fattorini dice che ne sarebbe valsa la pena.

il manifesto 31.5.07
Patto d'azione tra sinistre in cerca di unità. Oggi primo incontro, Sdi fuori dalla porta
Sinistra democratica soddisfatta dal risultato elettorale. Discussione su come presentarsi alle prossime amministrative. Si prepara un contro - Dpef
di A. Fab.


Roma. La formula che mette d'accordo tutti è questa: la riunione di oggi tra i rappresentanti di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica (gli ex diessini guidati da Fabio Mussi) «darà corso a un cammino comune». Un cammino che alcuni (soprattutto il Pdci) vorrebbe accelerare verso un'unità formale dei partiti da fare subito, altri (soprattutto Sd) vorrebbe percorrere passo dopo passo anche per mantenere l'interlocuzione con una quinta forza, i socialisti di Enrico Boselli - con loro hanno organizzato un incontro bilaterale. Il primo approdo del percorso è dunque già segnato: sarà un «patto di unità d'azione» tra le forze che sono a sinistra del Partito democratico. Con al centro da subito i temi economici. Quello a cui inizieranno a lavorare Giordano, Diliberto, Pecoraro e Mussi sarà così una sorta di contro Dpef, ovvero un documento di programmazione economica molto più virato sul sociale rispetto a quello che si sta preparando negli uffici di Tommaso Padoa Schioppa.
Delegazioni numerose per i quattro partiti: all'incontro di stamattina ci saranno anche i capigruppo di camera e senato, i ministri e i sottosegretari. L'invito per questa che è la prima riunione «ufficiale» dopo la scissione nei Ds e la nascita di Sinistra democratica - novità che ha portato a parlarsi anche Pdci e Prc che si sono ignorati per dieci anni - avviene su invito di Giordano. E Rifondazione ci tiene a precisare che si tratta di un appuntamento deciso prima delle amministrative, prima dunque del tracollo del Pd e delle rinate tentazioni «centriste» che rischiano di mettere la sinistra dell'Unione in condizione di doversi difendere. E certo i risultati elettorali avranno un peso sull'agenda delle sinistre.
Se Pdci e Verdi hanno tenuto e in qualche caso guadagnato, Rifondazione ha pagato qualcosa ma soprattutto c'è stato il debutto di Sinistra democratica. Non ovunque, visto che in molte città i candidati di Mussi erano ancora nelle liste dei Ds. Ma a Taranto proprio Ezio Stefano di Sinistra democratica ha superato lo sfidante del Pd e tutti gli altri e regalando alla lista degli ex diessini un risultato superiore al 9%. A questo punto sarà difficile per Mussi e Salvi decidere di rinunciare alle prossime prove elettorali, anche perché il partito - che ufficialmente è ancora un movimento, ma ha già tessere e sedi - vorrà pesarsi prima di andare all'incontro con gli altri. Invece Diliberto ancora ieri insisteva sulla necessità della sinistra di unirsi anche prima del Pd, in modo da andare sotto lo stesso simbolo alle prossime amministrative del 2008. In questo il segretario del Pdci si ritrova dopo molti anni in sintonia con Fausto Bertinotti: il presidente della camera ha ripetuto che la sinistra «alternativa» deve al più presto «aggregarsi» per «competere» ma anche per «convergere sui programmi» con il partito democratico. Della necessità di un percorso unitario è convinta anche Rifondazione, ma la formula prescelta è quella della confederazione che permette a tutti di mantenere le proprie identità di partito. Quella del Prc è in evoluzione: nascerà a metà giugno la sezione italiana di Sinistra europea. La confederazione è una vecchia proposta di Diliberto, tanto vecchia che era rivolta soprattutto ai Ds ai tempi in cui il partito democratico era solo nei pensieri di Prodi. I Verdi, infine, temono che la riaggregazione di tanti spezzoni finisca per assomigliare troppo a una riedizione in piccolo del Pci, ragione per cui si tengono cauti sulle formule e spingono per un'unità d'intenti progressista. Anche se nel partito di Pecoraro c'è chi come Paolo Cento ha minori preoccupazioni e più fretta. Ma l'incontro di oggi è solo il primo, altri seguiranno a cadenza regolare, mentre i gruppi parlamentari proveranno a darsi un coordinamento.

il manifesto 31.5.07
Violenze formato famiglia
Il caso di Perugia riapre le polemiche su quanto accade all'interno delle mura domestiche. Save the children: un milione di bambini in Italia assistono ad abusi di padri sulle madri
di Eleonora Martini


Potrebbero essere un milione i bambini in Italia che assistono impotenti alle violenze fisiche e sessuali commesse in famiglia dai propri padri sulle madri. Di sicuro sono almeno 385 mila perché la stima sulla violenza assistita dai minori, forma poco conosciuta e sottovalutata nelle conseguenze psichiche ed emotive che lascia sui piccoli, è stata fatta a partire dal numero di donne che si rivolge ai centri antiviolenza sparsi sul territorio nazionale. E' quanto si apprende scorrendo il 3° Rapporto sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia stilato dal Gruppo di lavoro per la Crc (Convenction on the rights of the child), composto da 62 associazioni no profit, con il coordinamento di Save the children. Ma c'è di più: il numero di minori esposti alla violenza domestica in Italia è il più alto d'Europa proporzionalmente alla popolazione, secondo i dati Onu del 2006. E nel mondo, in assoluto, pochi paesi ci superano in questa macabra classifica: il Messico, la Tailandia, le Filippine, il Sudafrica, l'Arabia Saudita, gli Usa e qualche altro.
Sfruttati economicamente e sessualmente, abusati, violentati nel corpo e nella psiche, imbottiti di farmaci e psicofarmaci, fotografati con videofonini per sfruttare poi il mercato pedopornografico, la condizione del bambino tra le mura domestiche o nei luoghi di cura (scuola, asili) italiani immortalata nel rapporto è impietosa. Nel capitolo dedicato agli abusi, redatto dal Cismi, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso all'infanzia, si parla anche di una vera e propria persecuzione subita all'interno e all'esterno della famiglia dai minori omosessuali. Il Gruppo di lavoro punta l'indice contro le politiche che hanno ridotto i fondi destinati ai servizi impegnati nel trattamento dei minori e delle donne vittime di violenza domestica. In particolare poi si sofferma sull'accanimento sulle donne durante la gravidanza e chiede di attivare i protocolli per la rilevazione di questi crimini previsti dall'Oms. E la denuncia arriva proprio mentre i teodem dell'Ulivo, con ben due ddl presentati ieri in Senato, insistono sulla centralità dell'aiuto alle coppie sposate under 35 per favorire «la crescita e il sostegno della natalità».
La famiglia patriarcale e maschilista, quella tipica italiana, si conferma quindi come uno dei luoghi più a rischio per i bimbi. Il Gruppo di lavoro infatti avverte di non forzare il principio di bigenitorialità al punto di anteporlo al superiore interesse del minore o farlo diventare strumento di «ulteriore persecuzione e stigmatizzazione nei confronti delle madri e dei bambini».
Ma ad ostacolare la lotta alla violenza sulle donne e sui bambini sono anche i processi mediatici come quello sul caso di Rignano Flaminio, denuncia la presidente del Cismai, Roberta Luberti. «Da Bruno Vespa a Liberazione, c'è stato un accanimento contro i genitori che hanno denunciato gli abusi e una difesa pregiudiziale degli imputati mentre le indagini sono ancora in corso. E questo danneggerà molto i processi di pedofilia e di violenze sui minori perché le madri hanno sempre più paura ad esporsi con una denuncia», accusa Luberti. E spiega: «I genitori sono stati fatti passare per matti spiegando che la paura dei pedofili è una delle fobie della nostra società. La realtà non è questa: purtroppo i casi di violenza fisica, psicologica e sessuale sui minori sono molti di più di quelli che vengono denunciati e che trovano giustizia nelle aule di tribunale. E le difese ci sguazzano in questo tipo di processi mediatici».

Liberazione 31.5.07
Il bimestrale diretto da Bertinotti da domani in edicola e in libreria
La sfida di una nuova rivista che rilancia l'idea del socialismo
di Domenico Jervolino


Il primo numero della rivista "Alternative per il socialismo" è pronto e si offre al giudizio dei lettori. Domani saràò in vendita nelle edicole e nelle librerie. E' una rivista nuova. Gli elementi forti di novità che essa presenta sono tutti legati alla fase politica inedita con la quale siamo chiamati a misurarci: una sinistra alternativa al neoliberismo che assume responsabilità di rilievo nella vita del nostro paese senza perdere di radicalità, senza rinunciare all'esercizio della riflessione critica sulle sfide del presente e su quelle del futuro. Anche il plurale del titolo ha un suo significato: non si tratta certo di un pluralismo eclettico, ma del senso della parzialità, del limite, della pazienza dell'agire politico e quindi della pluralità degli approcci teorici, delle piste di ricerca, delle pratiche politiche e sociali
L'aggiunta della prospettiva alla quale è finalizzata questa ricerca: "per il socialismo", oltre a far riferimento a un precedente storico illustre: la rivista di Lelio Basso "Problemi per il socialismo", dice già una presa di posizione impegnativa e tutt'altro che scontata nell'epoca della globalizzazione capitalistica.
La cosa più vana (nel senso di vuota, inutile, persino sciocca) che si potrebbe fare sarebbe quella di opporre questa finalizzazione per il socialismo a quella "per il comunismo". E' proprio Basso a notare che Marx parla indifferentemente di comunismo e di socialismo, per dire sempre la stessa cosa, senza distinguere - come si farà dopo di lui - il socialismo come prima fase e il comunismo come seconda. Marx adopera indifferentemente le due parole nei vari momenti della sua vita, qualche volta parla semplicemente di città futura. Quello che conta per Marx è l'aspirazione a questa nuova società, è in definitiva la liberazione dell'uomo. Quest'idea del socialismo/comunismo come liberazione mi pare ciò che oggi è veramente attuale, anche se più che mai controcorrente. Sul piano politico dovrebbe non solo spingerci verso un superamento della divaricazione fra le due principali tradizioni culturali del movimento operaio che si sono formate per ragioni storiche nel XX secolo, ma anche verso un'apertura e una contaminazione con altre culture, legate ai diversi movimenti che sono cresciuti negli ultimi decenni, dal femminismo ai new global. Contro la visione dogmatica che pretende di padroneggiare il corso del processo storico con la sicurezza di una vittoria finale, che spesso si accompagna poi a una diagnosi del presente che non lascia alcun spazio a una reale prassi trasformatrice, un rinnovato impegno nell'oggi della storia e della politica deve assumere il rischio dell'insuccesso del progetto socialista, nella consapevolezza dei prezzi che tale insuccesso comporterebbe per la grande maggioranza dell'umanità fino a giungere a un degrado senza precedenti della qualità della vita sul pianeta terra.
Il riferimento all'elemento "messianico" della storia (Benjamin) comporta una visione della memoria storica, della prassi e della comunità interumana in cui le sofferenze, le sconfitte, le lotte e le speranze di intere generazioni di oppressi e di ribelli non sono considerate vane, ed è anzi possibile e doveroso farsi carico delle promesse non mantenute del passato.
Questa concezione non comporta una enfatizzazione superumana del soggetto rivoluzionario (quasi fosse un salvatore che riscatta tutto il dolore della storia), ma una assunzione della finitezza come premessa per la condivisione di una comune condizione umana. E quindi un'assunzione di responsabilità da parte di soggetti - corporei, finiti, col senso del proprio limite e dalla propria fragilità, ma al contempo capaci di rispondere e di agire per un futuro comune dell'umanità. Significa saper trasformare il potere, piuttosto che prenderlo così come è, marcato dalla stratificazione sociale e dalle sue gerarchie, e perciò socializzarlo, diffonderlo, "tradurlo" in una pluralità di linguaggi e di capacità condivise. Occorre parlare, mi pare, di "rotture" al plurale, non di una rottura unica, definitiva, epocale, quindi di una catena di rotture, parziali ma effettive: il discorso ritorna qui al plurale di "alternative" e anche al plurale di "riforme" dentro una strategia che è politica e non meramente economicistica, proprio perché prevede una pluralità di riforme che comportano ciascuna una rottura nel potere esistente e l'apertura di nuovi spazi di democrazia

La ricerca intorno alla crisi (anche se parziale) del neoliberismo, alle difficoltà e contraddizioni dell'impero americano e alla insostenibilità politica di un governo unipolare del mondo sono essenziali per il nostro progetto di rivista. E' evidente che chi parte dall' idea di un impero mondiale onnipotente giunge ad altre conclusioni in merito a temi cruciali, come il ruolo della democrazia, lo stare e o no all'interno di una dialettica di tipo istituzionale, la partecipazione alla vita politica, antagonistica ma fondata su un agire politico realistico, il ruolo dell'Europa e di una possibile anche se difficile funzione di mediatore pacifico che essa potrebbe svolgere nel mondo d'oggi tristemente segnato dalla barbarie della guerra e della violenza.
Ripensare la democrazia è uno dei grandi compiti di una nuovo pensiero della liberazione.

Queste e altre ancora sono alcune delle piste di ricerca nelle quali si impegnerà la nuova rivista, interagendo coi suoi amici e lettori ai quali fin da ora si propone di partecipare a questo progetto formando un'associazione, di cui si è già costituito un nucleo promotore.

Liberazione 31.5.07
Nel nostro continente c'è un vuoto politico. Sta qui la crisi della democrazia. Occorre un soggetto politico nuovo per colmarlo. Ma non nasce un soggetto nuovo se non si costruisce una cultura nuova
Europa e sinistra: il paradosso del vuoto e della necessità
di Fausto Bertinotti


…la crisi della coesione sociale, determinata dall'attuale assetto capitalistico, pone alle sinistre problemi affatto inediti. Non si tratta più soltanto di recepire e rappresentare nella politica il conflitto sociale e di classe, non si tratta più neppure di tentare di ricomporre, in un predefinito blocco sociale, i diversi movimenti e le diverse soggettività che sono protagonisti dei conflitti. Si tratta di collocare la propria iniziativa in una società attraversata, oltre che da movimenti di cambiamento, da divisioni e frantumazioni di ogni sorta, da solitudini e scoppi di violenza, da individualismi e egoismi "tribali" per trovare il bandolo di un filo con il quale, in primo luogo, realizzare una tessitura unitaria sociale e culturale nel campo d'azione delle lotte per il cambiamento al fine di conseguire processi di unificazione, di socializzazione e di politicizzazione condivisa. Di più, assai di più però è la necessità di nuova coesione che viene proposta dalla crisi di civiltà che viviamo. E' l'intera società che vogliamo trasformare che deve essere investita da una grande opera culturale per ridefinire le ragioni del vivere insieme entro cui conquistare la compresenza dell'autonomia del conflitto e della convivenza umana.
E' un problema che già vide all'opera Gramsci, che lo considerava uno dei nodi della rivoluzione in Occidente, il problema del rapporto tra la cultura e le sorti dell'umanità associata. E' per noi il problema della critica all'idea di base dominante, al fondamento ideologico del sistema in atto e alle culture di massa che si generano nella combinazione tra la loro trasmissione nel sistema complesso delle comunicazioni di massa e l'erosione prodotta dalla crisi di civiltà dei costumi ereditati. Può aiutarci il concetto di causazione ideale come possibilità di identificare l'idea di base di un sistema e, contemporaneamente, di superarla, se non pienamente almeno quanto è possibile, cioè come rottura capace di accompagnare il processo di trasformazione reale e l'ascesa dei suoi protagonisti.
Il tema dell'egemonia, demolito sulla base di un travisamento volgare, il trasferimento del tema stesso dalla società al partito, torna a indicare una indispensabile linea di ricerca per la rivoluzione in Occidente, il tema appunto del rapporto tra cultura e le sorti dell'umanità, il tema oggi cruciale di una diversa antropologia rispetto a quella prevalente, di un passaggio necessario nel modo storico con cui l'uomo ha concepito se stesso. La necessità dell'operazione culturale mi sembra evidente.
A volte, sembra di trovarsi ormai pienamente immersi dentro le profezie socioculturali di Marshall MacLuhan, vecchie di quarant'anni. Che cosa è accaduto? Troppe, forse, sono state le rimozioni e le sottovalutazioni, anche a sinistra. Come l'incidenza della guerra (e delle guerre) nella determinazione del senso comune. Come il peso sulle coscienze della spirale violenza-guerra-terrorismo. Come la precarietà: che non è solo la condizione in cui versa il giovane nel mercato del lavoro, ma è anche la descrizione di una condizione sociale, civile e culturale. Non solo cioè questione economica, ma civile, che concerne cioè l'intera civiltà, e che coinvolge nella crisi il senso stesso dell'esistenza.
Come i problemi aperti che riguardano i rapporti tra sessi, generazioni e comunità, e tra l'individuo e la classe, il singolo e la comunità. Come la crisi di identità e di senso che queste "fratture multiple" mettono in moto. Una vera e propria crisi di civiltà lavora sul fondo. E la crescita abnorme della diseguaglianza ne diventa il paradigma più significativo.
In questi snodi si determina la crisi del modello sociale europeo, per come si è costruito nelle lotte dopo la vittoria sul nazi-fascismo. Il lavoro è il luogo di questa sfida di fondo, ma è occultato, reso invisibile, oscurato, rispetto alle scelte della politica: il prevalente è una sorta di lotta di classe al rovescio, del capitale contro il lavoratore che ha come suo teatro la riorganizzazione del lavoro e del mercato del lavoro su scala mondiale.
Di tutto questo, non c'è consapevolezza adeguata nella cultura della sinistra. Al di là dell'osservazione dell'impoverimento relativo delle masse popolari, non è chiara la vera "posta in gioco", e cioè che le nuove politiche neoliberiste tendono ad aggredire, e a cancellare, l'intero patrimonio storico del movimento operaio in Europa: la possibilità dei lavoratori di costituirsi in alleanze durevoli, in coalizioni; di esercitare un potere contrattuale effettivo, attraverso le organizzazioni sindacali (il contratto collettivo di lavoro); di fare delle lotte sul lavoro il centro delle relazioni sociali. Con il nuovo capitalismo riemerge tutta intera la vocazione totalizzante del capitalismo stesso, cioè la sua aspirazione a sussumere, dentro di sé, l'intera vita della specie e il suo rapporto con la natura. Il paradigma scientifico e tecnologico che in esso tende ad affermarsi, e la riduzione dell'uomo a consumatore dominato dalla fantasmagoria delle merci, ne sono i veicoli principali. Il fatto nuovo è che questo paradigma sposta la soglia dello sfruttamento fino ad inglobare tutto il vivente umano e, tendenzialmente, la mente stessa dell'uomo. L'allargamento del campo ne modifica la composizione e la fisionomia, ma ne estremizza la ragion d'essere, piuttosto che limitarla. Da qui la tentazione di includere tutti, tutte e tutto nel processo di accumulazione riducendo ogni linguaggio al proprio, quello delle merci.
Sul versante della tecnologia e della scienza, la specie umana ha completato, nel ventesimo secolo, il suo dominio sulla materia inerte. Un passaggio storico che esalta la differenza fondamentale tra i due cicli del capitalismo, cioè tra quello caratterizzato dai beni materiali e quello che Marcello Cini chiama "dei beni non tangibili": diversamente dalle merci tradizionali, i beni immateriali non si esauriscono con il loro consumo, mentre la produzione del profitto si sgancia dal rapporto diretto col tempo di lavoro strettamente necessario per produrre unità di merce. In realtà, il secondo ciclo, quello che si definisce come economia della conoscenza, non si separa dal primo, quello fordista, ma lo aggancia e lo riproduce su un'altra scala. La conferma inesorabile viene dal peso che continua ad essere attribuito, dalle classi dirigenti e dagli economisti, al tema della crescita, al valore del Pil come misuratore dello stato di salute di un'economia, alla costante ripresa dell'idea di sviluppo ininterrotto e, più duramente, alla sistematica compressione del livello dei salari. Sul versante culturale, dello Stato sociale e del lavoro, si fa strada la tendenza all'abrogazione del rapporto tra occupazione, lavoro e società e la sua sostituzione con il lavoro come puro fatto individuale. Ogni lavoratore avrebbe una quota minima di diritti e individualmente si dovrebbe arrangiare con l'impresa e il mercato per le sue prospettive professionali e di vita. E' la prospettiva allarmante che il libro verde europeo assume invece come realistica e proponibile. Come dicevamo, è la coalizione lavorativa in quanto tale che si vuole mettere in discussione. Del resto, dove resistono ancora in Europa veri Contratti collettivi nazionali di lavoro? Dove sono vissuti da grandi masse di lavoratori come fattori identitari?
La sfida, dunque, è radicale. Lavoro e diritti sociali riguardano direttamente la politica e non solo il sindacato: per entrambi è in causa la loro stessa esistenza.
In questo quadro, si sta profondamente modificando la geografia delle sinistre europee, in un processo che produce una serie di conseguenze paradossali.
Intanto, nelle forze politiche (anche nel Partito del socialismo europeo) l'esperienza nazionale torna ad essere decisiva, e il cammino di "europeizzazione" si fa assai più lento e contraddittorio del previsto. In secondo luogo, se c'è una linea di tendenza prevalente nelle socialdemocrazie, e più generalmente nel campo riformista, essa concerne assai più le culture politiche che non la conformazione dei soggetti organizzati. Le culture politiche dei partiti socialdemocratici e socialisti si vanno trasformando, pur con grandi differenze tra paese e paese, in culture "liberal-sociali", secondo la definizione di Riccardo Bellofiore: per un verso, esse rinunciano all'intervento pubblico e statale in economia, al welfare universalistico, alla costruzione del compromesso sociale attraverso il potere contrattuale del sindacato e dei lavoratori; per l'altro verso aderiscono all'ideologia "modernizzante" della globalizzazione e dell'autonomia del mercato. Così, l'equilibrio sociale viene collocato fuori dal meccanismo di accumulazione e di concorrenza, e la compensazione si fa tutta esterna, sul terreno sia dei diritti individuali che delle tutele sociali per singole e specifiche realtà. Il fatto che questa scelta, oltre che rinunciataria di ogni ipotesi di trasformazione, sia anche impraticabile, non ne riduce il peso nella "non politica" esistente.
In terzo luogo, nel clima generale (e generalizzato) di crisi del rapporto tra società e politica, prendono corpo negli stessi partiti di sinistra, negli stessi gruppi dirigenti, fenomeni "antipolitici". Si affacciano tentazioni neopopuliste, magari con connotati "dolci". Si affermano processi di spettacolarizzazione e di personalizzazione che marginalizzano i partiti o li riducono a mero ruolo di supporto…
E dunque, quali sono oggi i "nostri compiti"? Quali la prospettiva e la direzione di marcia da intraprendere? Quali i contenuti che identificano, in grande, l'idea di ricostruzione della sinistra e di rifondazione radicale della politica? A questi interrogativi classici, ma ineludibili, sarà dedicata la gran parte del lavoro di questa rivista. Intanto, certo, vi sono alcuni punti fermi da cui cominciare.
Se il problema principale in Europa è il vuoto della politica delle sinistre, per "colmare il vuoto" sono essenziali la proposta - e il lavoro - di un'alternativa di società.
Non solo un orizzonte, ma un obiettivo, per quanto improbo, di attualità storica, che non deriva né soltanto, né forse principalmente, dalla lezione della nostra storia, ma, da un lato, dalla considerazione che oggi "non è un capitalismo in crisi, ma la crisi del capitalismo che scuote profondamente la società" e, dall'altro, dall'analisi e dall'assunzione della critica portata dai movimenti alternativi che hanno caratterizzato l'alba di questo ventunesimo secolo. E' il tema del socialismo (non dei socialisti) del ventunesimo secolo; è il tema del socialismo oltre il Novecento che viene così all'ordine del giorno della politica…
Così, prende corpo il compito "nostro" nel nostro tempo: la costruzione di una sinistra alternativa europea, dotata della necessaria massa critica, capace di essere protagonista di un processo di unificazione europea, oggi in crisi, capace di cominciare a rispondere, per una parte, proprio a quelle domande.
Si tratta di sciogliere il paradosso europeo, il pendolo che oscilla tra il vuoto e la necessità. Per un verso, questa assenza pesante, che tiene lontana la politica da troppi territori della vita quotidiana, dai drammi umani e sociali come dalle frontiere più avanzate della scienza e della tecnica, dalle esperienze lavorative come dall'elaborazione dei sentimenti e delle emozioni, è proprio ciò che connota l'Europa, la non-Europa del presente. Di fronte ai grandi processi del nostro tempo, l'Europa appare lontana e impotente….
Eppure, per l'altro verso, da ognuno di questi terreni, dal loro insieme e persino dall'aut aut che in essi matura tra cambiamento e catastrofe, emerge l'urgenza della rinascita politica dell'Europa. E' sempre più evidente che ai grandi problemi sociali, economici ed ambientali non c'è più una soluzione realizzabile all'interno dei confini nazionali - se la si vuole cercare, come è necessario, fuori dal dominio del mercato e verso un diverso modello sociale. Del resto, questa costruzione di un'altra Europa è la sola possibilità di portare nella costruzione statuale, in un nuovo processo costituente, le istanze dei movimenti…

Liberazione 31.5.07
Benvenuta alla nuova rivista: riempie un vuoto di idee
Senza una teoria la sinistra non ha futuro
L'urgenza di una nuova cultura, i problemi irrisolti.
La nonviolenza, la critica al potere, il rapporto tra femminismo e operaismo...
di Piero Sansonetti


Abbiamo forzato un po' il titolo di questo articolo di Fausto Bertinotti, del quale pubblichiamo ampi stralci (la versione integrale la trovate sulla rivista "Alternative per il socialismo" che è in libreria e in edicola da domani). Il titolo originale, che Bertinotti stesso ha dato al suo articolo, è più complesso e meno rumoroso: "L'Europa e la sinistra. Il paradosso del vuoto e della necessità". Il titolo che pubblichiamo qui sopra è un po' una nostra interpretazione dell'articolo, ma anche - più in generale - una intepretazione del senso di questa nuova rivista, che sta per uscire con un programma culturale e politico, mi pare, piuttosto ambizioso.
L'idea di "rivoluzione", secondo me, è contenuta sia nell'articolo sia nel progetto editoriale della rivista. Rivoluzione nel significato pieno di questa parola, che è ormai una parola sperduta nel linguaggio e nel dibattito politico, eppure è ancora ricchissima, viva: rivoluzione, e cioè il rovesciamento dei principi della società attuale, la ricostruzione del suo sistema di idee, lo smantellamento dei meccanismi essenziali che la fanno vivere e ne regolano le relazioni, ne garantiscono la compattezza. Rivoluzione come progetto di società. Rivoluzione svuotata del suo contenuto - storicamente assai rilevante - di rivolta ramata e di presa del potere. In due parole, abbastanza semplici, rivoluzione contro il "capitalismo totalizzante", del quale parla a lungo Bertinotti in questo saggio, e contro la sua pretesa di ridurre a mercato l'intera complessità dei nostri corpi, del nostro spirito, delle nostre energie, della nostra abilità produttiva, delle nostre relazioni interpersonali, di tutta la nostra vita privata e pubblica. Bertinotti dice che il capitalismo moderno (che supera ma non abbandona, anzi ingloba, il vecchio capitalismo fordista) è basato sulla mercificazione completa del pianeta, e che l'unica risposta possibile è la costruzione di un modello demercificante. Penso che intenda dire che il cammino per sottrarre al mercato, via via, pezzi della società - diritti, relazioni, solidarietà, e naturalmente Stato - non può avvenire senza mettere in discussione il mercato stesso. Non cancellarlo, ma metterlo in discussione, levargli il ruolo centrale che ha assunto, ridurlo ad aspetto assolutamente secondario della civiltà. Proposito che è stato abbandonato da una parte consistente del movimento socialdemocratico europeo, il quale ha invece compiuto - dice Bertinotti - quella scelta che Riccardo Bellofiore definisce "liberal-sociale", e che lascia al mercato la sua centralità e il suo dominio.
Mi sembra inutile, però, continuare a riassumervi - e a interpretare - l'articolo di Bertinotti, che potere leggere e interpretare da soli. A me preme sottolineare una sola cosa, e poi proporre alcune osservazioni, spunti di discussione.
La sottolineatura è di quello che mi sembra il senso di questa nuova rivista, ben spiegato nell'articolo di Bertinotti: aprire non solo una discussione ma un vero e proprio lavoro di ricerca, di elaborazione, di definizione teorica, che permetta alla sinistra di affrontare le sfide che ha davanti - prima fra tutte, se non capisco male, quella di una sua nuova e solida riunificazione - uscendo dal politicismo degli ultimi 15 anni e ricostruendo un proprio bagaglio di idee, cioè definendo i confini della propria cultura e costruendo dentro questi confini nuovi strumenti che servano a interpretare la società e la storia, e a cambiarle, come diceva il vecchio Marx. Non so se è giusto usare questa parola, ma credo di sì: ideologia. Cioè un sistema, articolato su piani diversi, di strategie, progetti politici, chiavi di interpretazione della storia, collegamenti di idee, principi etici, ma anche senso comune diffuso e di massa, che servano a riconoscere se stessi, a stare insieme, a realizzare battaglie, sommovimenti, conquiste comuni. La destra ha una sua ideologia, anche se piuttosto rozza e oggi molto altalenate tra liberismo e fondamentalismo religioso. La sinistra, almeno da 15 anni, sembra terrorizzata persino dall'idea di avvicinarsi alla costruzione ideologica. Per questo perde, o viene fagocitata dal centro, o si mimetizza, o diventa elitaria e scollegata dalle grandi aggregazioni dell'opinione pubblica. Eppure una volta la sinistra era fortissima sul piano dell'ideologia. E trovava lì, nel suo sistema di pensiero, il più grande fattore di stabilità, di forza.
Allora c'era il marxismo e tutto il gigantesco castello di produzione teorica che intorno al marxismo si era sviluppato in 150 anni. Oggi può bastare un ritorno a Marx? Io credo di no, e mi sembra che nel progetto di Alternative, così come lo scorgo da questo primo numero, ci sia una risposta analoga. Quelle che Bertinotti definisce le nuove contraddizioni ("genere, generazione, culture, etnie") non trovano risposte nella consultazione di Marx e dei classici. O comunque trovano risposte insufficienti e forse sbagliate. E allora come si può pensare alla ricostruzione di una sinistra per questo secolo, se non ci si applica alla produzione di un sistema di idee?
Io, per esempio, vedo avanzare - dal dibattito e dalle lotte politiche di questi anni - due gigantesche questioni sulla cui soluzione so dire e ho sentito dire pochissimo. Le riassumo schematicamente. La prima è quella del rapporto tra femminismo e operaismo. Se volete posso dirlo anche in modo politicamente più corretto: tra lotta fra i sessi e lotta fra le classi. Sono due culture, due scuole politiche, che nel migliore dei casi riescono ad affiancarsi, a non entrare in collisione, a farsi spazio, a rispettarsi. Ma non c'è ancora neanche il barlume di una connessione tra di loro. Che vuol dire connessione? Non lo so con esattezza, credo però che in nessun caso possa avvenire se entrambe le scuole non accettano di rimettersi in discussione e di rinunciare a qualcosa di proprio. E so che se questa connessione non avviene, allora non nasce nessuna nuova teoria politica di sinistra, perché non esiste in natura la possibilità di una sinistra che non sia profondamente,convintamente femminista, e che non metta le domande del femminismo al centro della propria esistenza; né d'altra parte è immaginabile una sinistra che non conservi la questione del lavoro (e la questione operaia) come decisiva e centrale per il proprio pensiero e la propria azione.
La seconda questione è quella della nonviolenza e del potere. Rifondazione negli anni scorsi ha fatto uno sforzo eccezionale e importantissimo per ribaltare alcune sue caratteristiche strategiche e abbracciare la scelta della nonviolenza. Però io ho paura che si sia fermata troppo presto, in questo cammino. La scelta della non violenza è stata compiuta e motivata sulla base di una idea netta di critica del potere, che sostituiva l'ossessione novecentesca - che ha rovinato la sinistra - della presa del potere come imperativo categorico e palingenesi. Benissimo: proprio per questo l'idea della nonviolenza non può vivere, non può crescere, se non cresce - si articola, si consolida - una teoria di critica del potere. Come progettiamo un modello di società che non sia più gerarchica, che non sia più patriarcale, che non sia più padronale, che non sia più basata sulla sanzione, sul premio, sulla punizione, sul comando? In che modo - in quali forme concrete, comprensibili, efficienti - la solidarietà, il cordinamento, l'organizzazione, la relazione orizzontale, possono sostituire il comando economicista e maschile che ci ha guidato fino a qui? Quali possono essere le forme di governo non più gerarchiche e oppressive? Come cambia lo Stato, la rappresentanza, la decisione? Se non si risponde almeno ad alcune di queste domande, la teoria della nonviolenza o si dissolve o assume un significato moderato.
Io penso che Alternative possa darci un aiuto enorme, per avviare questo lavoro di ricerca (su questi e su moltissimi altri temi). E per quel che riguarda noi di Liberazione non ci limiteremo a fare il tifo, ma siamo a disposizione per accompagnare e sostenere questa impresa nelle forme e nei modi che troveremo insieme.

mercoledì 30 maggio 2007

l’Unità 30.5.07
Di Salvo: risultati migliori con candidati più di sinistra
La capogruppo di Sd alla Camera: voto preoccupante, sottovalutato il malessere sociale


«IL NOSTRO GIUDIZIO sull’esito del voto è molto serio e preoccupato. Ma non siamo sorpresi: se si analizzano i flussi elettorali del 2006 si vede che c’è un voto dei ceti popolari già molto orientato verso il centrodestra: c’è un malessere sociale che questo primo anno di governo non ha risolto». Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sinistra democratica, è molto netta: «L’azione del governo non ha ancora risposto ai bisogni materiali di giustizia sociale certificati dall’Istat. La discussione sul tesoretto e alcune esternazioni sull’età pensionabile appaiono come una sottovalutazione di quei problemi. Nella Finanziaria ci sono stati dei segnali e anche sulla lotta all’evasione fiscale e al lavoro nero, ma bisogna andare avanti. Sulle pensioni bisogna dare dei segnali chiari: eliminare lo scalone e rivedere i coefficienti».
C’è chi dice che il voto al Nord derivi soprattutto da una delusione dei ceti produttivi.
«C’è una somma di richieste di rappresentanza che non si ritengono accolte. Io credo che il governo di centrosinistra dovrebbe ascoltare le richieste di chi vive in condizioni difficili, a partire dai precari: sarebbe coerente col programma dell’Unione».
È stato un voto contro il governo?
«È sbagliato tradurre automaticamente il voto amministrativo in un giudizio sul governo. Ma sarebbe miope non vedere come le due cose si influenzano. C’è un astensionismo che ha penalizzato il centrosinistra e che nasce anche da una distanza tra la politica e le persone. Poi ha pesato la discussione sul contratto degli statali: abbiamo dato l’impressione di un governo in difficoltà nel fare un atto normale».
C’è un problema di leadership nella maggioranza?
«C’è un modo per uscire dalle difficoltà: stare al programma, che non è usurato e incrocia le esigenze reali di un Paese che non è ancora uscito da 5 anni di declino berlusconiano».
Sembra che voi siate soddisfatti delle difficoltà dell’Ulivo. Eppure in moltissime liste eravate insieme...
«A Taranto no e abbiamo avuto un risultato lusinghiero. Le prove migliori il centrosinistra le ha realizzate dove c’erano candidati sindaco con un profilo nettamente di sinistra».
Mussi parla di una debacle per il Pd. Ma alle elezioni non c’era ancora...
«Non in quanto tale, ma le liste dell’Ulivo preludono a questa scelta. Non si può non vedere che gli elettori non l’hanno premiata. Il dato è omogeneo: in tutta Italia l’Ulivo ha avuto una riduzione consistente».
Anche Rifondazione non è andata benissimo...
«Mi pare che i risultati migliori li abbia quando sostiene candidati unitari della sinistra. E poi il sostegno leale al governo può essere stato pagato in termini elettorali. a.c.

Repubblica 30.5.07
Il partito perde il 2 per cento e punta sul cantiere a sinistra. Ma Mussi prende tempo
Suona l'allarme per il Prc
Consensi in calo e la Cosa Rossa stenta a decollare

L´ex correntone cerca ancora di coinvolgere i socialisti dello Sdi, mentre i Verdi sono divisi


ROMA - Molto male, come punta il dito Rutelli? «Bene non siamo andati, ma che il capo della Margherita con 370 mila voti perduti dal Pd ci venga a fare la lezione, è davvero troppo». Rifondazione apre il dossier analisi del voto. E scopre, amaramente, di aver lasciato per strada il due per cento alle provinciali (dal 6 al 4 per cento), quaranta mila voti tondi che mancano all´appello. In gran parte - ragiona Franco Giordano nella riunione di segreteria - inghiottiti nel fiume dell´astensione. Non nascondono la delusione, ma ora il Prc ha fretta. Molta fretta. Per il rilancio, punta tutto sul cantiere della sinistra. Il segretario lo ha spiegato a Fabio Mussi, il leader dell´ex correntone ds: dalla prima riunione congiunta dei radical dell´Unione, in programma domani, dobbiamo uscire con un patto di consultazione, e cominciare a parlare con una voce sola nella "trattativa" con il governo che Rifondazione ha intenzione di aprire. Obiettivo: spostare a sinistra l´asse di Palazzo Chigi, e prepararsi allo scontro con il Pd che «prevedibilmente» vuol giocare la partita tutta al centro. Solo che l´accelerazione della Cosa rossa non pare così bruciante come Rifondazione vorrebbe. La Sinistra Democratica prende tempo, cerca ancora di coinvolgere nell´operazione i socialisti di Boselli. Cesare Salvi, il capogruppo al Senato di Sd, giusto alla vigilia del vertice della sinistra ha voluto incontrare Villetti, il numero due dello Sdi. Porta aperta alla collaborazione (si lavora ad iniziative comuni sul tema laicità) ma soprattutto confermato lo schema di gioco che l´ex correntone ha in mente: «In una sinistra unita puntiamo ad un rapporto anche con voi socialisti - ha spiegato Salvi - e del resto sulle formule devono far premio i contenuti». Come a dire: non è ancora il momento di sottoscrivere patti di consultazione, prima ragioniamo tutti insieme sulle cose da fare, «e di certo in antitesi al Partito democratico». Ma fra Giordano e Boselli, dalle pensioni al Dpef, distanze abissali.
C´è, comunque, la novità dei Verdi. Si presentano anche loro alla posa della prima pietra del cantiere, domani mattina alle nove a Palazzo Marini. Arrivano in due, il presidente Alfonso Pecoraro Scanio e Paolo Cento, perché nel partito convivono due linee. Il ministro che non esclude ancora la possibilità di aprire un canale di confronto con il Partito democratico, il sottosegretario "movimentista" che fa il tifo invece per l´avventura della Cosa rossa. Risultato: la strada da imboccare è ancora incerta, e per il momento il Sole che ride potrebbe limitarsi al ruolo di osservatore delle grandi manovre. Impaziente invece Oliviero Diliberto. Le urne per il Pdci si sono rivelate più generose rispetto agli (ex) fratelli coltelli del Prc. Il partito guadagna una manciata di voti (dal 2,3 al 2,4), pescando soprattutto fra i delusi del Pd. E il segretario, sponsor della prima ora della federazione di sinistra, è pronto a rilanciare domani il suo appello ai compagni di strada: «Ora o mai più».
(u.r.)

Corriere della Sera 30.5.07
Giordano: l'azione dell'esecutivo non va, è a rischio
Il segretario del Prc: quelli del Pd tendono a decidere troppo. Noi potremmo non votare
di Fabrizio Roncone


ROMA — Onorevole Franco Giordano, senta: lei, conversando in Transatlantico, ha detto che la sconfitta dell'Unione alle amministrative non è un campanello d'allarme...
«Ma un campana. Una campana che rischia di suonare a morte».
Sembra che davvero lei abbia una percezione molto grave di quanto è accaduto.
«Grave? Solo grave? Sa cos'è accaduto? Un terremoto».
Con quale epicentro?
«Il Lombardo-Veneto. Ma le onde del sisma si sono propagate in tutto il Paese. Poi, se posso continuare nella metafora...».
Prego.
«Poi è venuta giù, e questo sarebbe onesto che tutti lo ammettessero, la costruzione su cui stavano organizzando il Partito democratico».
Non è che voi di Rifondazione siate andati tanto meglio, anzi.
«Lo so, lo so... Sono il segretario del partito e non mi sottraggo ai numeri. Ma, appunto, io, almeno io, avverto l'urgenza di cominciare a riorganizzarci, esattamente come si fa dopo un forte sisma».
Ha già in mente un piano?
«Guardi, io dico che occorre accelerare il processo di unità di tutte le forze della sinistra».
È un progetto affascinante, ne parlate da settimane ma poi...
«Invece siamo, credo, già abbastanza operativi».
Può essere più preciso, segretario?
«Domani mattina ci riuniremo aRoma. Noi, i Verdi, e poi i Comunisti italiani e, naturalmente, quelli di Sinistra democratica. Una riunione per cominciare a mettere giù un po' di punti fermi sul terreno economico- sociale...».
Segretario, lei usa toni...
«Glielo dico io, che toni uso: da contrattacco. Io dico alle forze di sinistra: fuori dalla trincea!».
Verso quali fronti?
«Verso i fronti più urgenti: pensioni, salari, precarietà. La grande questione settentrionale, divenuta urgente in queste ore, è, in realtà, la questione degli operai. Che molte forze governative, però, ignorano. Per questo, a Palazzo Chigi occorre cambiare agenda, passo...».
Se no?
«Io non voglio usare toni minacciosi, ma è chiaro che, a questo punto, dobbiamo cominciare a far valere gli effettivi rapporti di forza che ci sono in Parlamento».
Lei vuol dire che, in alcuni passaggi parlamentari, la sinistra potrebbe non votare...
«Io dico che se noi non siamo buoni per decidere, forse potremmo non essere buoni per votare».
Messaggio chiaro. Ma perché, scusi: non vi coinvolgono nelle decisioni?
«Mah... quelli del Pd, ormai è il caso di dirlo chiaramente, tendono a decidere un po' troppo per conto loro».
Leggendo queste sue parole, segretario, molti elettori del centrosinistra potrebbero trovare conferma di una spiacevole sensazione...
«Quale?».
Quella che spesso la coalizione di governo ha linee molto, troppo divergenti. Per esempio: dopo la sconfitta patita in Sicilia due settimane fa, il vostro capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, disse che la colpa era del ministro Tommaso Padoa-Schioppa...
«Guardi, oggi, risultati alla mano, è evidente che il problema è complessivo e riguarda l'intera azione del governo».
Segretario, lei forse non era mai stato così critico con Romano Prodi.
«Non è questione di essere critici. Ma realisti. Perché il governo o non decide, o decide in luoghi troppo frequentati da rappresentanti del Pd, oppure, più semplicemente, sbaglia i tempi».
Per esempio?
«Ha chiuso la vertenza con gli statali, l'altra notte, mentre era in corso lo spoglio. Politicamente un errore più che stupido, imbarazzante. Non potevano chiudere un mese fa?».
Qualcuno, leggendo questa intervista, crederà di sentire i tamburi di guerra rifondaroli. Il governo, segretario, è a rischio?
«I rischi, il governo, li corre se non si sbriga a mantenere le promesse fatte agli elettori».

Corriere della Sera 30.5.07
Ds e Dl meglio da soli Arretra Rifondazione
di Roberto Zuccolini


L'Ulivo crolla a Genova: meno della Quercia nel 2002 Nel centrodestra sono in crescita Lega e Forza Italia

ROMA — Nella Cdl avanzano Forza Italia e Lega, nell'Unione arretra l'Ulivo e quindi il futuro Partito Democratico. A sinistra reggono o crescono i partiti più piccoli, come Verdi, Pdci, Udeur e, soprattutto, l'Italia dei Valori. Mentre Rifondazione comunista indietreggia. E a destra An e Udc nel complesso confermano il loro peso, registrando un progresso in alcune città e un calo in altre.
Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di circa un quarto dell'elettorato, ma i dati di queste amministrative influiranno non poco sulle future scelte dei singoli partiti e delle diverse alleanze. Stando ai numeri elaborati da Forza Italia, là dove si è votato (non sono quindi cifre nazionali), il centrodestra avanza in modo sostanzioso, incassando il 57,72% alle provinciali contro il 38,28 dell'Unione e il 50,59% alle comunali contro il 46,08.
Lo slancio della Cdl è avvenuto soprattutto al Nord, dove sia il partito di Silvio Berlusconi che quello di Umberto Bossi crescono un po' ovunque. Da segnalare, in particolare, la performance della Lega a Verona, dove tra la lista Tosi (il neoeletto sindaco leghista) e la lista vera e propria si arriva al 28,2%. Cinque anni fa aveva il 6,1%. Nelle province del Nord Forza Italia è il primo partito e la Lega il secondo, alleanza che si conferma vincente. An è davanti a tutti a Lecce e Reggio Calabria.
Ma per avere un quadro che renda con più obiettività il rapporto di forze esistente tra i partiti occorre guardare i dati delle provinciali, dove le liste civiche hanno un impatto minore. Dal confronto tra i numeri emerge subito un dato che riguarda il futuro Partito Democratico. In tutte le sette province dove si è votato la lista unitaria dell'Ulivo è andata peggio di quanto siano andati cinque anni fa i Ds e la Margherita messi insieme. E non di poco. In alcuni casi il solo voto diessino di allora era addirittura superiore all'attuale dell'Ulivo.
È il caso della provincia di Genova dove Ds e Margherita prendono insieme il 30,2% mentre nel 2002 la Quercia aveva il 30,8 e i dl il 9. Oppure di La Spezia, dove l'Ulivo ha il 32,7% mentre la Quercia aveva il 33,5 e i diellini il 9,1. Fenomeno confermato al Comune di Genova, con la lista ulivista che prende il 34,3% contro il 44,4% incassato nel 2002 (35,1 i Ds e 9,2 la Margherita). Persino nella rossa Ancona si passa dal 41,2% di cinque anni fa (26,6 ds più il 14,6 dl) contro l'attuale 30,1%. La stessa cosa accade, con percentuali diverse, a Varese, Vercelli, Vicenza e Como. Certo, si potrebbe fare anche un discorso su candidati più o meno azzeccati. Ma gli avversari del futuro Pd portano avanti la controprova dell'Aquila, dove i due partiti si sono presentati da soli: i Ds sono cresciuti dello 0,6% e la Margherita è calata solo dello 0,9%.
Un altro dato significativo è rappresentato dal calo di Rifondazione comunista. Nelle sette province interessate dal voto avanza dello 0,2% solo a Vercelli mentre indietreggia in tutte le altre. Solo per fare due esempi: a Genova passa dal 7,9 al 5,8% e a Varese dal 6 al 3,6.

Repubblica 30.5.07
Il criminologo De Pasquali analizza gli omicidi tra le mura domestiche
"In famiglia il raptus è difficile il delitto è un atto finale"


ROMA - Paolo De Pasquali, criminologo, nel suo ultimo libro analizza "l´orrore in casa": i delitti tra le mura domestiche sono in aumento?
«Il loro numero si mantiene costante, anzi, negli ultimi 4/5 anni c´è stata una leggera flessione, i delitti in famiglia costituiscono circa il 30 per cento di quelli volontari, di questo 30 per cento la metà sono uxoricidi. Un dato abbastanza stabile, infatti mentre i casi di genitori che uccidono i figli e viceversa subiscono molte oscillazioni di anno in anno, le dinamiche di coppia rimangono abbastanza invariate».
Chi è che uccide in famiglia?
«In genere chi ha il potere, il marito uccide la moglie, la madre i figli».
Ma è l´uxoricidio il tipo di delitto più frequente...
«Sì, quasi sempre sono i mariti che uccidono le mogli, raramente accade il contrario».
Si può tracciare un identikit dell´uxoricida?
«In genere è di due tipi: c´è l´uomo che ha sempre avuto un atteggiamento violento sulla donna, perlopiù si tratta di una persona aggressiva, con una ridotta autostima, scarsa capacità relazionale, senso di inferiorità, quando vede che il suo dominio sulla compagna o sui figli viene messo in discussione, uccide, come tentativo estremo di ristabilire le gerarchie. Ci sono poi gli omicidi dovuti al senso di possesso, in questi casi il partner diventa un completamento della propria persona, l´uomo uccide per impedire l´abbandono, a volte dopo si suicida, per senso di colpa o per desiderio di ricongiungersi alla persona amata».
I delitti in famiglia spesso vengono descritti come frutto di un raptus, è vero?
«No, è difficile che accada così, l´omicidio è solo l´ultimo atto, il gesto che chiude problematiche difficili. Bisognerebbe imparare a cogliere in tempo i segnali, non ci si sveglia una mattina e si uccide un familiare. Tanti dibattiti, tante trasmissioni che accendono i riflettori su questi casi non spiegano mai che bisognerebbe educare a capire i segnali».
(m.c.)

Corriere della Sera 30.5.07
Sofri e i Servizi: mi proposero di uccidere i Nap
di Federica Cavadini


MILANO — Non più un assassinio ma una mazzetta di omicidi. Non un anonimo alto esponente dello Stato ma un (ultranoto) nome e cognome del «titolare dei servizi italiani». E nome e indirizzo del bersaglio da colpire. Più un fiume di dettagli, virgolettati compresi, meglio di un romanzo. La seconda attesa puntata della rivelazione di Adriano Sofri è comparsa a grande richiesta ieri sulle pagine del Foglio, a tre giorni dal botto: sabato l'ex leader di Lotta Continua (condannato a 22 anni per l'omicidio Calabresi, pena differita per motivi di salute) aveva scritto in un'ideale «Lettera a un giovane apprendista assassino» tre righe che da quel lunghissimo articolo erano esplose. A proposito della «dizione d'ufficio» — Luigi Calabresi era un fedele servitore dello Stato — Sofri scrive: «Sì. Ma di quale stato? Quello stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi affari riservati». Di cosa parla Sofri? E perché lo fa solo oggi? Chi altro sapeva? Sofri non rilascia interviste ma il bis lo concede e con generosità. Il pezzo di ieri sembra una deposizione. Chi, quando, come, dove, perché. Titolo, «Sofri spiega quella mazzetta di omicidi che gli fu chiesta». Il nome dell'uomo che bussò alla sua porta è Federico Umberto D'Amato, responsabile dell'Ufficio affari riservati. L'incontro avvenne a Roma nell'appartamento di Sofri, a cinque anni di distanza dalla strage di piazza Fontana, quindi nel '74. Ecco l'inedita clamorosa proposta criminale. Il nemico da eliminare erano i Nap, i nuclei armati proletari, in cui erano confluiti ex di Lc. I Nap avrebbero nuociuto allo Stato ma anche a Lotta continua — avrebbe detto D'Amato a Sofri — Era «interesse comune toglierli fisicamente di mezzo» e ciò poteva avvenire con una «mutua collaborazione e la sicurezza dell'impunità». Ma Sofri rifiuta quel patto scellerato: «Prima che finisse gli avevo indicato la porta».
Questa la rivelazione, fino a ieri segreta.
Ma non per tutti, qualcuno sapeva: «Misi a parte dell'episodio poche persone», scrive Sofri. Non gli ex di Lc, pare. Compagni militanti da ragazzi, più di trent'anni fa, oggi molti di loro sono giornalisti, politici, scrittori. Non sapeva Marco Boato, non sapeva Paolo Liguori, non sapeva Carlo Panella, né Luigi Manconi o Erri De Luca. Enrico Deaglio sì, con lui Sofri si era confidato. Domenica al Corriere dopo il primo articolo il direttore del settimanale
Diario aveva detto «mai sentito parlare di quell'episodio» ma ieri la memoria sembrava tornata: «Ne ho riparlato poco fa con Adriano e credo di ricordare qualcosa, vagamente. Mi raccontò della visita di D'Amato e mi disse di averlo messo alla porta. Il resto l'ho letto sul Foglio».
Sono passati più di trent'anni, qualcuno non ricorda, qualcuno non aveva contatti così ravvicinati con Sofri, qualcuno era troppo giovane. Però gli ex compagni di militanza sono compatti: Sofri racconta la verità, nessun dubbio. «Il fatto che io non conoscessi la vicenda non significa nulla — dice Paolo Liguori, direttore di Tgcom —. Avevo 21 anni, ero un ragazzo, figuriamoci se si confrontava con me Adriano. Ma il punto è che la parola di Sofri vale». Marco Boato, deputato dei Verdi, fu tra i fondatori di Lc con Sofri: «Con Adriano ci siamo parlati in queste ore. Non sapevo nulla, in quegli anni stavo a Trento. Ma non mi ha stupito, è terribilmente plausibile. Molte cose ignobili sono accadute non da parte dello Stato ma da certi apparati dello Stato». Carlo Panella, giornalista e scrittore, in Lc con Sofri entrò nel '72. Anche lui non appartiene al piccolo gruppo informato da Sofri («Non ne avevo la più pallida idea») ma non ha battuto ciglio quando ha letto l'articolo: «Apparati dello stato in quegli anni facevano giochi sporchi» e rilancia: «Chi è a conoscenza del lato oscuro della forza che agiva in quegli anni si faccia avanti. Sull'Ufficio affari riservati va fatta chiarezza». Il «perché ora» è una domanda retorica che già contiene la risposta per molti degli ex compagni di Sofri. «Condivido la scelta di parlare ora. E' legata all'ultima fase di monumentalizzazione della figura di Calabresi, stiamo assistendo ad una riscrittura della storia così ufficiale, sigillata e ipocrita», sostiene Deaglio. Boato parla di «una tragica complessità di un passato che è stata rimossa» e per Luigi Manconi è un «dovere storico e morale» ricostruire quel contesto. Intanto fonti vicine al Copaco, il comitato parlamentare di controllo sui servizi, sarebbero in corso contatti per una possibile audizione di Sofri sulla vicenda.

l’Unità 30.5.07
La sfida religiosa? È solo un «bluff»
di Bruno Gravagnuolo


Il teorema di Boeckenfoerde. L’ultimo numero di Reset, mensile diretto da Giancarlo Bosetti, mette a tema il«famoso» teorema di Boeckenfoerde, teologo tedesco. Esposto nel 1966 e che suona così: «Lo stato liberale è incapace di autogiustificarsi sulla base dei suoi presupposti etici». E perciò ne consegue che avrebbe bisogno di un’altra fondazione, più forte e davvero cogente. E su questo Reset sviluppa il confronto a più voci. Bene, con tutto il rispetto, quel «teorema» è una banalità. Perché nessun sistema, logico, etico, scientifico può fondarsi sui suoi stessi presupposti. A meno che non si tratti dell’Assoluto metafisico autofondantesi. Dunque anche un’eventuale fondamento etico-religioso dello Stato - quello a cui alludono i credenti alla Boeckenfoerde - necessita di una fondazione esterna ed è incapace quindi di autofondarsi. Se non su base dogmatica. Suvvia, è necessario citare Goedel e i suoi paradossi logici, per ricordare che nulla si autofonda epistemologicamente e nemmeno la matematica? Non è necessario. Sicché ai laici non resta che un solo criterio di fondazione politica: empirico. Storico. E di valori democratici acquisiti e ragionati in libertà, tra individui di pari dignità. Senza tutele superiori, né «sfide cognitive» privilegiate della Chiesa. Il dialogo? Ben venga. Ma il dialogo ha regole precise: laiche. E incorpora procedure e princìpi laici. In altri termini, la democrazia si autofonda, basta a se stessa, anche quando trascina dentro di sé pregresse eredità religiose. «Sfida cognitiva»? Un bluff. Con buona pace dell’ultimo Habermas, è la ragione che sfida il dogma. E non il contrario!

Corriere della Sera 30.5.07
Indomite, crudeli, «snaturate» Amazzoni, terrore dell'uomo
Dagli scavi presso il Don la conferma delle parole di Erodoto
di Eva Cantarella


DONNE «CONTRO» Si tagliavano un seno per usare meglio l'arco, si accoppiavano con i prigionieri, rifiutavano matrimonio e maternità

«Un tempo esistevano le Amazzoni, figlie di Ares, e abitavano presso il fiume Termodonte» racconta Lisia, nella orazione funebre in onore dei caduti in guerra. «Sole fra i popoli vicini, esse indossavano armature di ferro. Furono le prime ad apprendere l'arte di cavalcare: sorprendevano a cavallo il nemico disorientato, raggiungendolo se fuggiva, sfuggendolo se le inseguiva. Donne quanto al sesso, erano considerate uomini per il coraggio. Padrone di molte genti, avevano asservito i popoli vicini, ma quando conobbero la fama di Atene, per desiderio di gloria avanzarono in armi contro di noi. Ma nonostante i loro costumi il loro animo era femminile, e furono sconfitte...».
Le Amazzoni: mitiche guerriere, che secondo Erodoto vivevano nelle steppe a nord-est del fiume Don. Nei racconti dei greci, si tagliavano un seno per maneggiare meglio l'arco (di qui il nome a-mazon, «senza un seno», appunto) e combattevano al comando di una regina. Della più celebre di queste, Pentesilea, si raccontava che, avendo condotto il suo esercito a Troia per soccorrere i Troiani, era stata trafitta da una lancia di Achille, che dopo averla uccisa ne aveva oltraggiato il cadavere; ma si raccontava anche che incrociando lo sguardo della regina morente Achille se ne era perdutamente innamorato.
Detestando gli uomini e rifiutando il matrimonio, le Amazzoni si riproducevano accoppiandosi con i loro prigionieri, che successivamente uccidevano, o, secondo un'altra versione del mito, li tenevano come schiavi, dopo averli mutilati perché non potessero usare le armi. Quanto ai figli, superfluo dire che se maschi venivano uccisi (o, in una versione più benevola del mito, solamente accecati).
Questo raccontavano i greci delle Amazzoni. Un mito al servizio dell'ideologia, dunque. L'iconografia è chiara: dopo le guerre persiane, vestite in abiti orientali e fornite ad arco e frecce, le Amazzoni simbolizzano l'effeminatezza e la mancanza di autocontrollo del barbaro sconfitto. Nelle metope del Partenone, la battaglia tra loro e i Greci è collegata alla guerra dei Lapiti contro i Centauri, e non a caso. In modo diverso, Centauri e Amazzoni sono sfide all'ordine civilizzato: i Centauri sono espressione della mascolinità selvaggia, violenta, fuori controllo; le Amazzoni, popolo di sole donne snaturate e crudeli, simbolizzano l'opposizione a matrimonio e maternità. Il rifiuto di quel ruolo — insegnava il mito — è possibile solo in un mondo incivile, per i greci addirittura impensabile.
Ma quello che era impensabile per i greci poteva essere una realtà in altre parti del mondo? Esistono tracce di un momento in cui le donne, prima di essere destinate allo spazio interno della casa, partecipavano ad attività esterne, come la caccia e forse anche la guerra?
Durante gli scavi condotti dagli archeologi russi nei pressi di Millerovo, sulle rive del Don, all'interno di uno dei grandi tumuli che sorgono nella zona, è stato trovato uno scheletro femminile accanto al quale erano stati deposti da un lato una spada e un giavellotto, dall'altro un arco e una faretra piena di frecce, nonché uno specchietto di bronzo, un anello e una collana.
Le Amazzoni esistevano, ha titolato la stampa di tutto il mondo. Qualche precisazione è indispensabile: una donna guerriera non è la prova dell'esistenza di un'organizzazione sociale composta di sole donne, o in cui le donne comandano. Il ritrovamento di Millerovo dimostra solo che nelle steppe in cui Erodoto collocava le Amazzoni è esistita una società in cui le donne potevano avere ruoli diversi da quello familiare. Nulla a che vedere, per intenderci, con un eventuale matriarcato, della cui storicità, nell'Ottocento, le Amazzoni sono state considerate una prova. Ma oggi sappiamo — questo sì — che Erodoto non raccontava solo leggende: durante i suoi viaggi, era venuto a contatto con società dai costumi molto diversi dai suoi, dove le donne che combattevano non erano solo un mito. I greci, cui simili donne facevano orrore, avevano costruito su questa realtà un mito a loro uso e consumo: che riflette, quasi a esorcizzarlo, alcuni aspetti di un mondo realmente esistito. In questo senso e con queste avvertenze, la storicità del mito delle Amazzoni va rivalutata.

il manifesto 30.5.07
Tutto in famiglia
di Alessandro Robecchi


Siccome il Family Day è venuto bene, già si pensa di farne un appuntamento fisso. Molte sono le amene località italiane che vorrebbero ospitare il prossimo Family Day. Forte - sull'onda dell'emozione - la candidatura del ridente borgo di Marsciano (Umbria): moglie incinta ammazzata di botte, fermato il marito. Anche Belluno ha le carte in regola per ospitare la sagra della famiglia tradizionale: moglie accoltellata dal marito. Anche Parma se lo meriterebbe: moglie strangolata dal marito. Un gemellaggio per ospitare il Family Day si potrebbe tentare tra L'Aquila e Rieti, dove lo stesso tizio ha ammazzato a fucilate la convivente e la figliastra. Roma si candida soltanto con il triste episodio della figlia malata di mente che accoltella la madre. Mentre Gorgonzola (Lombardia), presenta il caso più standard: uccisa dal fidanzato che la sorprende con l'amante (tutti stranieri, in questo caso: al Family Day si potrebbe unire la tradizionale fiaccolata della Lega). E queste sono solo le candidature degli ultimi cinque giorni: quelle quotidiane celebrazioni della famiglia italiana dove alla fine, invece dei cantanti, intervengono i Ris e la scientifica. Altro che i bambini fanno oh! Sto aspettando con ansia che qualche esponente della sinistra ci spieghi che «bisogna ascoltare quella piazza». Bravo, ma quale? Belluno o Parma? Marsciano o Gorgonzola? Essere più precisi, please!
Quanto all'emergenza criminalità e alla voglia di sicurezza, la destra che ha trionfato al Nord al grido di «tolleranza zero» dovrebbe valutare alcune opzioni operative, come ad esempio le telecamere nelle sale da pranzo e le ronde notturne nelle camere da letto. Vedremo. Certo non mancano le note positive: se sono scontente della loro presenza nella politica, nell'economia, nelle istituzioni, le donne italiane possono invece gioire per il loro ruolo preminente in famiglia. Come vittime, sono maggioranza assoluta.

il manifesto 30.5.07
Analisi del voto
Crollo Ulivo: perde due voti su tre La destra vince ma non incassa
Il Pd perde 326mila voti Sconfitta pesante a Genova e nelle regioni «rosse». Nella Cdl «l'effetto Silvio» porta solo 2mila voti in più a Fi. Il Prc si dimezza. Lega avanti piano
di Matteo Bartocci


Rifondazione perde 4 voti su 9 (passa da 110mila a circa 60mila), cioè quasi si dimezza. L'Ulivo però riesce a fare anche di peggio: a conti fatti rispetto alle provinciali del 2002 lo hanno abbandonato 2 elettori su 3.
Il terremoto delle amministrative si è appena consumato e le prime conclusioni che si possono trarre dai risultati elettorali sono allarmanti. L'Unione cede sia per numero di amministrazioni sia per numero di voti. Nel complesso la Cdl conquista 13 capoluoghi su 26 (ne aveva 14). Il centrosinistra invece guida 6 capoluoghi (ne aveva 12). Mentre in 8 città si va al ballottaggio: 3 governate dall'Unione (Pistoia, Matera, Piacenza) e 5 dalla Cdl (Lucca, Latina, Taranto, Parma e Oristano).
Più in dettaglio. Primo: la destra (a parte la Lega) non guadagna voti. Anche se cresce in percentuale (+4%), Forza Italia in termini assoluti perde consenso e passa dai 420mila voti del 2002 ai 393mila del 2007. Anche depurato del 7% di astensionismo, il «Cavaliere taumaturgo» ottiene solo 2mila voti in più ma in province del Nord, dove il suo elettorato era molto più motivato di quello dell'Unione. Nessuna «spallata» nemmeno per la Lega, che passa da 180mila voti a 195mila (+3%). Carroccio decisivo ma ormai definitivamente lontano dai trionfi degli anni '90. Da considerare infine che nel 2002, dopo un anno di governo Berlusconi, la Cdl perse in proporzione molto di più dell'Unione in questo round amministrativo perché comunque il centrosinistra conquista città «aliene» come l'Aquila, Taranto e Agrigento.
Secondo: l'astensionismo penalizza molto di più il centrosinistra. Lo prova la vera batosta che si consuma nelle regioni «rosse» e la sconfitta senza nemmeno arrivare al ballottaggio in tante città del Nord come Como, Monza, Alessandria e Asti, con distacchi anche superiori ai 20 punti rispetto alla Cdl.
Terzo: il «caso Genova». Marta Vincenzi vince ma perde molti voti. E la provincia al ballottaggio è un segnale più che allarmante. In Liguria la sinistra di governo crolla. Per il Prc è un salasso: in provincia passa dai 35.400 voti del 2002 ai circa 9mila del 2007, -2,5%. Il dato siciliano non era dunque un fenomeno locale ma nazionale e quasi omogeneo.
Quarto: la scomparsa dell'Ulivo. O non si presenta (come in quasi tutto il centrosud) o subisce un crollo in termini di voti semplicemente impressionante, sensibile soprattutto in regioni rosse come le Marche e il Piemonte. Alle stesse provinciali del 2002 i Ds hanno avuto in tutto 330.243 voti, la Margherita 174.778, più 51.292 insieme come Ulivo. Totale: 556.313 voti. Risultati del 2007? L'Ulivo prende in tutto 229.626 voti. Anche considerando l'astensionismo non si avvicina nemmeno al dato dei soli Ds. 326mila voti in meno è un risultato che parla da sé, soprattutto se si considera che un anno fa alla camera negli stessi territori l'Ulivo aveva raccolto 639.960 consensi (anche se con un più alto tasso di partecipazione al voto).
Quarto: la sinistra del Pd vince e spesso convince. A L'Aquila e Taranto la sinistra vince se è unita su candidati convincenti e programmi riconoscibili anche a prescindere dalle forme in cui si presenta: tra liste civiche e partiti Stefàno prende a sinistra del Pd il 22,4%, mentre Cialente (Ds ma sostenitore della mozione Mussi) racimola l'11% e Andrea Bellavite a Gorizia supera l'Ulivo con il 20,2%.
In conclusione, la «barriera bipolare» è più salda che mai. Non si registrano «travasi» clamorosi di consenso. Chi paga più di tutti sono i Ds, primo partito di governo e spina dorsale del centrosinistra in quasi tutte le città italiane. L'Ulivo forse dovrebbe considerare un paradosso illuminato (anche) da questo voto: la sinistra spesso fa da «pesce pilota» allo «squalo Pd». Cioè dove si mobilita l'elettorato di sinistra il Pd si rafforza e lo fa in maniera esponenziale per via delle sue dimensioni. Per ottenerlo però ha bisogno di un'identità reale che ancora non c'è. E' sul piano culturale (legge e ordine, rivolta fiscale, no all'immigrazione e alla droga) che la Lega ha vinto più che nei numeri. Tutta la destra ha sposato tesi reazionarie senza remore. Non è inseguendola su quel terreno (i Nas a scuola, il leaderismo) che si invoglierà un elettorato scontento a tornare alle urne. E' la costruzione faticosa di due poli alternativi, forse, il vero insegnamento del terremoto di maggio.

Liberazione 30.5.07
Intervista al segretario del Prc dopo i risultati elettorali. "E' caduta la diga del Pd, è stato un crollo devastante che ha investito anche noi"
La questione operaia al Nord. La delusione per un governo che non ha risarcito i deboli. Domani il vertice con Sd, Pdci e Verdi
Giordano: «Ora unità a sinistra
per far cambiare strada a Prodi»
di Romina Velchi


Prende di petto la questione e, senza girarci attorno, Franco Giordano la mette al primo punto della scaletta delle cosa da dire: il risultato elettorale di Rifondazione «non è positivo». Ci sono, sì, dei segnali di controtendenza, ma questi segnali «non possono coprire le difficoltà del nostro voto». E spiega, con una metafora: «E' come se si fosse aperta una falla in una diga - leggo così il risultato del Pd, che è un tracollo - e l'acqua allaga anche noi. Solo se riusciamo a costruire degli argini adeguati non saremo travolti del tutto».

E l'argine potrebbe essere una sinistra più unita?
L'argine è determinato dalla connessione tra il salto di qualità nell'azione politica, economica e sociale del governo e la densità sociale, a partire da rapporti di forza diversi. In questo senso decisiva diventa la soggettività unitaria a sinistra.

Cosa andrai a dire domani all'appuntamento che vede riuniti tutti i protagonisti della sinistra?
Questo vertice è molto importante. Ma andiamo con ordine. Innazitutto, c'è un terremoto, il cui epicentro è il Nord ed in particolare il lombardo-veneto e da cui si diffondono a raggiera i contraccolpi sismici. Nasce, secondo me, da una sofferenza sociale acutissima, sulla quale si è costruita un'aspettativa intensa, un legame forte con la vittoria dell'Unione. Quando questo legame si spezza - l'abbiamo verificato davanti ai cancelli della Fiat e di tante altre di fabbriche - sorge il disincanto; che a sua volta produce o l'astensione e una forma di distanza dalla politica o, peggio, un voto a destra, con una forte identità territoriale e, spesso, reazionaria. Penso alla xenofobia, alla sicurezza; insomma, ai temi alimentati dalla destra in questa campagna elettorale, anche in forme che non fanno che dilatare angoscie e paure. Ho la sensazione che alcune aree del Nord stiano come la Francia dopo lo choc della vittoria di Le Pen. E non è un caso che, prevalentemente, questo tipo di identificazione ideologica avvenga con la Lega, la quale, libera dalle pastoie del governo, attrae come la carta moschicida questi spiriti animali liberati nella società. E per questo, la comunità manifesta per intero la sua ambivalenza: può essere solidale se costruisce un legame sociale e può essere contrappositiva, persino aggressiva, xenofoba e razzista: la piccola patria.

E come se ne esce?
Secondo me, per noi sarà impossibile tornare a parlare in quei luoghi se non restituiamo a quei lavoratori e a quelle lavoratrici il credito che hanno accumulato. La questione del Nord è una questione operaia e del lavoro dipendente. Però, questa è condizione necessaria ma non sufficiente. Perché dobbiamo anche intervenire con un sovrappiù di cultura politica alternativa e anche con una capacità di attrazione determinata da una dimensione unitaria. Una cultura antiliberista, pacifista, laica, totalmente nuova; in altre parole dobbiamo ottenere dei risultati sociali e poi prospettare un'alternativa.

Hai detto che o il governo cambia rotta o è il fallimento. Ma come si fa a far cambiare rotta al governo?
Incominciamo dal vertice di domani. C'è un passaggio decisivo che riguarda in particolar modo la trattativa sulle pensioni (e cioè abbattimento dello scalone), la lotta alla precarietà e il grande tema dei rinnovi contrattuali. Apro una parentesi: ho trovato francamente imperdonabile e assolutamente inpolitico per il governo chiudere la partita del contratto degli impiegati pubblici - apripista rispetto anche al rinnovo del contratto dei privati - dopo le elezioni. Una roba da non credere. L'appuntamento di domani, quindi, serve a dire unitariamente: bisogna rispettare le volontà e le aspettative di questi lavoratori. Senza ambiguità. E su questo siamo determinati. Aggiungo che, poi, questa esperienza dell'unità a sinistra va proseguita su altri temi e deve essere spendibile socialmente e politicamente. E deve sfociare in un vero e proprio patto di unità nazionale, che, oltre che utile sul piano istituzionale e governativo, può essere attrattivo dal punto di vista della costruzione di relazioni nella società.

Prevedi ricadute sul governo? La leadership di Prodi esce indebolita dal voto?
Ti rispondo così. Il problema è drammaticamente questo: se tutti discutono della leadership invece di che cosa sta accadendo nella società italiana, allora... Naturalmente, ci sono anche dei processi in controtendenza. Quando riusciamo a costruire una soggettività forte e sfidiamo il Partito democratico, come a Taranto e a Gorizia, andiamo più avanti: a Taranto fino al ballottaggio, a Gorizia l'abbiamo sfiorato per poco. Questi sono processi segnati da fenomeni partecipativi, mai processi costruiti a tavolino. E allora qui si misura anche il fatto che quando metti in campo una dimensione alternativa credibile e spendibile, come è successo con la stessa vicenda Vendola, allora puoi avere una forza efficace.

Però, per restare al caso di Taranto, non è che il risultato di Rifondazione sia brillante.
E' che noi siamo protagonisti di queste operazioni, ma spesso non veniamo percepiti come forza innovativa. Eppure noi siamo quelli più impegnati a lavorare sul terreno dell'unità - io dico a tutti: fuori dalle trincee - e dell'innovazione sia della teoria sia dell'agire politico. E a costruire la relazione con i movimenti.

Puoi anche innovare, ma se poi il governo va in un'altra direzione...
Il punto è come trovare efficacia nell'azione politica del governo. In questo senso sì che dobbiamo fare valere anche diversi rapporti di forza. Sarebbe semplicistico quanto devastante, dal punto di vista del consenso, sottrarsi unilateralmente. Invece, si deve condividere un percorso radicale e determinato con uno schieramento di sinistra e costruire su questo una nuova soggettività politica. In questo senso, l'apputamento di domani diventa decisivo. A questo punto noi chiediamo con determinazione al governo una dimensione di colleggialità che valga oggi per la trattativa e domani alla vigilia del Dpef; una diversa impostazione di politica economica e sociale; e un coinvolgimento della sinistra, che sta al governo con le proprie idee e la propria determinazione. Sono un po' sconcertato dal fatto che il Pd affronta il calo del Nord senza vedere i soggetti reali e parlando solo di leadership. A questo punto si apre una sfida, che - se è fattibile, concreta, credibile - può essere anche vincente, come dimostra Taranto. Su di noi, quindi, ricade una grande responsabilità, proprio nel passaggio più difficile; bisogna alzare la posta.

E come la mettiamo con il referendum elettorale?
Ecco, visto che il referendum è un atto unilaterale che rompe l'unità della coalizione, anche noi risponderemo con atti unilaterali. I Ds come sempre, a fronte di una campagna di destra, si accodano, ospitandoli pure alle feste dell'Unità. Questo provoca grandi tensioni. E perciò, come già al Senato, abbiamo scelto di forzare i tempi e di andare ad una discussione in Aula sulla legge elettorale, costruendo il consenso con chiunque sia d'accordo.

Il Messaggero 30.5.07
«L’uomo uccide per lesa autorità, la gravidanza non tutela»
Il criminologo De Pasquali: l’attenzione rivolta dalla donna al nascituro può scatenare l’aggressività
di Francesca Nunberg


ROMA - Viene uccisa in casa perché passa più tempo dentro casa, viene uccisa incinta perché distoglie la sua attenzione dall’uomo per rivolgerla al nascituro, viene uccisa quando cerca di emanciparsi da chi esige di ristabilire “l’ordine naturale”. Anche se nel 90 per cento dei casi le vittime degli omicidi sono uomini, quel 10 per cento che resta racconta storie di prevaricazione quotidiana, di urla soffocate perché i bambini non sentano, di donne distrutte molto prima di essere colpite a morte. «Hanno arrestato il marito? Nessuna sorpresa. Cinicamente, se si rivelerà lui il colpevole, sarà uno dei soliti delitti maturati in famiglia, un “omicidio di prossimità”, come li definisce il mio amico sociologo Fabio Piacenti». Esce a giorni il libro di Paolo De Pasquali, psichiatra e criminologo: L’orrore in casa. Psico-criminologia del parenticidio, FrancoAngeli editore. Coincidenze, anche se raramente la cronaca ci concede una tregua.
Dunque è una questione di potere?
«L’uomo uccide per volontà di dominio, per paura di essere abbandonato, per lesa autorità - risponde De Pasquali - Quando l’autorevolezza del pater familias si scontra con le istanze di autonomia di moglie e figli, lui può sentirsi inadeguato: l’acting out serve a ristabilire con la forza una situazione che gli sfugge di mano. Si sente inferiore anche dialetticamente e reagisce perché si vede ributtare in faccia il proprio fallimento. In genere c’è un’escalation di violenze, non si impazzisce da un giorno all’altro».
Qui, in effetti, c’era un passato di maltrattamenti; ma l’omicidio sembra d’impeto.
«Questo parrebbe dimostrare la scena del delitto disorganizzata, il sangue nella macchina e sugli oggetti, il tentativo di modificare il teatro del crimine per simulare la rapina... E’ un caso tipico: fuori una situazione apparentemente normale, la campagna, l’Umbria, la bella casa con i due bambini e il terzo in arrivo; dentro una situazione esplosiva».
Ma come ci si può accanire contro una donna incinta?
«Studi e statistiche, soprattutto americane, dicono che al contrario di quello che si pensa, che cioè la gravidanza tuteli la donna, proprio il suo stato può diventare il fattore scatenante per un soggetto già aggressivo. All’ottavo mese in genere si interrompono i rapporti sessuali e, se l’uomo si rivolge altrove, la donna può reagire con rabbia, innescando un meccanismo di violenze. Poi il focus di lei si sposta sul bambino che sta per nascere e lui si sente decentrato, trascurato, può arrivare anche a soffrire di depressione».Impossibile individuare i segnali prima della tragedia?
«Smettiamola con questi atteggiamenti fatalistici, eventi del genere sono raramente imprevedibili. Sia in ambito familiare che a scuola o sul posto di lavoro è possibile captare se qualcosa non funziona. E quindi cercare di prevenire, chiedendo l’intervento di uno psicologo, delle forze dell’ordine, di altri membri della famiglia. Ho individuato almeno una quindicina di fattori di rischio...».
Qualche esempio?
«L’abuso di alcol o stupefacenti, sia da parte della vittima che dell’omicida; minacce verbali ripetute e precedenti aggressioni fisiche; presenza di malattie psichiatriche o organiche; sbalzi di umore apparentemente inspiegabili; presenza di armi in casa; fattori esistenziali come perdita del lavoro, difficoltà economiche, gravi lutti; forme di gelosia patologica...».
Insomma dovrebbe essere possibile vedere, eppure Barbara è morta perché come sempre nessuno ha visto.

Il Messaggero 30.5.07
Lo psichiatra Jervis: ma comunque le droghe pesanti sono altra cosa
«Sottovalutati gli effetti della cannabis»
di Anna Maria Sersale


ROMA - Professor Jervis, negli Anni Settanta lo spinello faceva parte di una certa cultura della sinistra. Lo spinello, da allora, è stato tollerato. Alla luce dei fatti odierni pensa che ci sia stata una sottovalutazione del problema?
«Sicuramente c’è una sottovalutazione. Negli Anni Settanta molti degli effetti negativi della cannabis non sono stati considerati, anche perché non si conoscevano. Poi si è visto che gli effetti negativi erano più importanti di quanto si pensasse. La cannabis fa male, però non è paragonabile nè alla cocaina, nè all’eroina. C’è una differenza tra droghe leggere e pesanti». Risponde Giovanni Jervis, psichiatra, ordinario di Psicologia dinamica e clinica alla Sapienza, autore di molti libri.
Ma il tetracannabinolo, il principio attivo contenuto nella cannabis, oggi è potenziato. E’ passato dal 2 al 20 per cento. Quali conseguenze produce?
«Ad alti dosaggi, e con uso continuativo, gli effetti sono più gravi. Sono state selezionate delle piante capaci di produrre una maggiore concentrazione di principio attivo, ma questo non è sufficiente per trasformare una droga leggera in droga pesante Quanto ai danni, essi possono riguardare la memoria e la volontà. Ma un uso improvviso e massiccio di cannabis può anche provocare disturbi di tipo psicotico, simili a quelli prodotti da lsd o ecstasy, fino a rendere necessario il ricovero».
Un ragazzo che usa cannabinoidi può essere spinto verso droghe più pesanti?
«Il passaggio non dipende dalle sostanze, ma dall’ambito criminale che c’è intorno. Per questo sarei favorevole a una legislazione più tollerante, per sottrarre i ragazzi da quel mondo, perché, il fatto di trattare con gli spacciatori che vendono stupefacenti pesanti, induce nel consumatore la consapevolezza di avere scavalcato un “confine” e questo è molto pericoloso».