lunedì 4 giugno 2007









Auditorium di Roma
1 giugno 2007, 12:45, Esterno

(fotografie di Giacomo Mutti; clicca sulle immagini per ingrandirle)
l'Unità 4.6.07
Gramsci: l’«Inferno» dantesco per parlare al Pci
La rottura netta con il Comintern e col Partito Comunista, e la rottura personale con Togliatti
di Adriano Guerra


Lo studio di Vacca e Rossi decodifica i saggi su Alighieri, Croce e Machiaveli scritti dal carcere come messaggi al partito

Un’esplicita condanna del marxismo sovietico e una diversa strategia per combattere il fascismo

Giustificati i sospetti del pensatore sardo
La gestione di Togliatti non fu esemplare ma alla fine chi decise furono Stalin e Mussolini

Gramsci in carcere a Turi, Togliatti a Mosca, dove c’è con la famiglia Schucht la moglie Julia coi figli. E dove c’è Stalin. In Italia c’è Mussolini, e c’è il «Tribunale speciale» al lavoro. Siamo nel pieno del secolo «grande e terribile», coi suoi momenti di gloria, di generosità e di solidarietà, ma anche di paure, di incomprensioni, di tradimenti, ed è questo il quadro entro cui va collocata la ricerca di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, appena pubblicata da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp.245, euro 19.00).
Negli anni della guerra fredda - come si sa - i tentativi di custodire ma anche di preservare dalla curiosità altrui piccoli e grandi segreti famigliari e di partito, hanno portato a stendere veli su verità dolorose. Così è nata la «questione Gramsci». Non pochi di questi veli sono stati rimossi grazie alle ricerche di numerosi studiosi. Altri lo sono con questo libro, che è un’opera «aperta» e dunque - come sempre accade quando un tema viene affrontato da più autori - con interpretazioni non sempre collimanti e in qualche caso anche contraddittorie. Ma, vivaddio, questa è la ricerca. E quel che di nuovo veniamo a sapere impone di modificare vecchie convinzioni. Ora sappiamo ad esempio, che Gramsci scrivendo in carcere centinaia di pagine su Benedetto Croce, sul fordismo, su Macchiavelli, non intendeva (soltanto) lavorare für ewig (per l’eterno), ma anche condurre una vigorosa e quotidiana lotta politica all’interno del partito e del movimento comunista.
Che sin dai giorni dell’arresto egli fosse in contrasto con Togliatti era noto. Quel che era meno noto, e per certi aspetti, del tutto ignoto, è rappresentato da una parte dall’ampiezza e dalle forme nelle quali il confronto fra i due dirigenti ha continuato a svolgersi e dall’altra, e soprattutto, dai contenuti reali del confronto stesso. Su questi punti il libro di Rossi e Vacca dice cose nuove che riguardano intanto il ruolo reale svolto da Piero Sraffa. A differenza di quel che si riteneva, il famoso economista non ha ricoperto nella vicenda il ruolo di semplice strumento di contatto, quasi anodino e neutrale, fra i due, soltanto perché amico di Gramsci e di Togliatti, e soprattutto del primo, ma ha agito per volontà e vocazione propria. Perché Sraffa era un intellettuale comunista, un uomo di partito, sia pure «senza tessera» (e «senza tessera» per potersi muovere liberamente, o quasi, fra Londra, Parigi e il carcere di Turi).
Nuovo è poi quel che Rossi ha scoperto sui «codici letterari» impiegati da Gramsci per riprendere nel 1931 la discussione iniziata con Togliatti nel 1926 sui pericoli che sarebbero nati qualora la maggioranza di Stalin non si fosse accontentata di vincere la sua battaglia contro la minoranza di Trotskij, ma avesse teso a «stravincere». Gramsci ha utilizzato a questo proposto vari testi: uno scritto su Benedetto Croce e il materialismo storico, il Canto X dell’Inferno, (quello di Farinata degli Uberti, ma Gramsci per far sapere al partito il suo pensiero sulle posizioni del Comintern ha posto al centro la figura di Cavalcanti), e, ancora, una finta recensione alla Storia d’Europa di Croce. Quel che viene fuori, attraverso il lavoro di decodificazione delle «lettere» e l’analisi di alcuni documenti sin qui inediti - prima di tutto il Rapporto steso da Gennaro Gramsci che era stato incaricato dal partito di informare il fratello sulle ultime scelte del partito - è il quadro complessivo delle divaricazioni che si erano progressivamente venute a creare fra il prigioniero e il Pci.
Queste divaricazioni riguardavano soprattutto il giudizio sul fascismo e sulla tattica per combatterlo: erano ancora valide le Tesi di Lione del gennaio 1926 nelle quali, seppure entro il quadro di una situazione italiana definita «prerivoluzionaria», si poneva al centro la questione dell’unità classe operaia- proletariato agricolo-contadini, con le scelte politiche conseguenti (dialogo e intesa con socialisti e socialdemocratici per dar vita al «fronte unico») oppure occorreva far propria la linea del Comintern (1928) e soprattutto del X Plenum (luglio 1929) sulla «Terza fase», con le parole d’ordine della «crisi generale del capitalismo», della «classe contro classe» e del «socialfascismo»?
Gramsci si pronunciò sempre per la validità delle tesi di Lione e dunque contro il Comintern e contro la «traduzione italiana» della «terza fase» avviata dal Pci nel 1929 con la «svolta», e alla fine parlò dell’Assemblea Costituente, e dunque di una battaglia da condurre per obiettivi democratico-borghesi nelle condizioni del pluralismo e del pluripartitismo politico, come di un obiettivo valido non già dopo la caduta del fascismo ma negli anni stessi del fascismo, utilizzando le occasioni fornite dal confronto che si era aperto sui temi del corporativismo.
A dare organicità alla lotta politica di Gramsci c’era - va ancora detto - una concezione dell’egemonia che si distaccava fortemente dai moduli, allora imperanti, della «dittatura del proletariato», e - ancora - c’era una esplicita dichiarazione di condanna del marxismo sovietico considerato alla stregua del «teologismo medievale».
Rottura netta, insomma, col Comintern e col Pci che è diventata anche grave e irreparabile rottura personale con Togliatti, ma che non ha però impedito a quest’ultimo - come i due autori riconoscono ampiamente - di guardare a quel che Gramsci produceva in carcere come ad un patrimonio prezioso da salvaguardare per il futuro, e non solo per il partito.
La svolta verso la rottura radicale ha preso avvio - come si sa - con la «famigerata» lettera di Grieco del 1928 interpretata da Gramsci, per il fatto che con essa il partito lo indicava come il capo del Pci, come il momento di avvio di una iniziativa diretta, consapevolmente o inconsapevolmente, a trattenerlo in carcere. Ed è continuata, sempre secondo Gramsci, col ritardato e in più di un caso il mancato sostegno da parte del partito alle diverse vie - ultimo il «tentativo grande» - studiate e tentate da Gramsci per ottenere la liberazione.
Per quel che riguarda l’impatto che le differenzazioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime fascista hanno avuto sulla questione della liberazione di Gramsci è presto detto: scartata sin dal primo momento la via della richiesta di grazia, l’unica possibilità per uscire dal carcere consisteva per Gramsci nel puntare sul riavvicinamento che si stava verificando fra l’Urss e l’Italia fascista, entrambe preoccupate per l’ascesa di Hitler. Trattativa diretta fra due Stati impegnati nella preparazione di un «Patto di non aggressione» dunque, tenendo all’oscuro il partito, tanto più che quest’ultimo stava in quella fase chiedendo la liberazione dei prigionieri politici dalle carceri fasciste attraverso manifestazioni e campagne di stampa. Con iniziative cioè che - pensava Gramsci - non avrebbero potuto che irrigidire le posizioni di Mussolini.
Se si prende in considerazione nel suo insieme l’atteggiamento tenuto dal Pci nei confronti del problema della liberazione di Gramsci si può ragionevolmente pervenire alla conclusione, come fanno i due autori, che le preoccupazioni e anche i sospetti di Gramsci, erano in parte giustificati. Se però si guarda a come si sono svolti i fatti non si può non rilevare il peso che hanno avuto, insieme alle divergenze, le incomprensioni dovute all’accumularsi senza tregua di equivoci, di informazioni parziali o del tutto errate che non hanno consentito alle parti di avere incontri chiarificatori. Basti dire, nell’ordine, che la «famigerata» lettera di Grieco che tanti sospetti ha generato in Gramsci, non ha avuto nessun peso nel determinare la condanna (non figura neppure negli atti processuali) e, per quel che riguarda il suo contenuto, non è certo attraverso di essa che gli inquisitori hanno appreso che gli imputati che avevano di fronte erano i dirigenti al massimo livello del partito. A spingere poi il Pci a far propria la campagna avviata a Parigi, sulla base di documenti che illustravano le condizioni di salute di Gramsci, per la liberazione dei prigionieri politici in Italia, non è stata una scelta di Togliatti, ma un complesso di circostanze che hanno preso il via da un’iniziativa della Concentrazione antifascista.
Va infine ricordato che anche Togliatti pensava che le Tesi di Lione (delle quali era stato coautore) non avessero perso di significato dopo il X Plenum del Comintern e, come Vacca ha ampiamente dimostrato già in un libro precedente, la sua analisi del fascismo presenta indubbie affinità con quella di Gramsci. Quel che soprattutto ha distinto i due dirigenti è stato l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Urss. Da una parte c’era il «realismo» di Togliatti che ha spinto quest’ultimo a schierarsi con l’Urss di Stalin anche quando diverse da quelle imposte da Mosca erano le sue convinzioni. E questo perché non vedeva altra scelta nel momento in cui in Europa si trattava di fronteggiare il fascismo. Dall’altra parte c’era il «non realismo» (ma forse, proprio perché fondato su una scelta non di «campo» ma di collocazione ideale eticamente oltreché politicamente fondata, è possibile parlare di «realismo» altro, superiore) di Gramsci.
Del tutto oziosa, almeno nel momento in cui siamo di fronte al problema di ricostruire una vicenda, è chiedersi adesso chi avesse ragione.
La gestione di Togliatti della «questione Gramsci» non è certo - come si è visto - esente da critiche. Non si può però dimenticare che - come è ricordato nelle ultime pagine del libro - a decidere sulla sorte di Gramsci sono stati Mussolini e Stalin. Poco prima che Litvinov giungesse a Roma per la firma del «Patto», Gramsci era stato portato - e forse perché Mussolini si proponeva di utilizzare la carta della liberazione dell’uomo che aveva fatto condannare a 20 anni di reclusione - da Turi al carcere presentabile di Civitavecchia. Ma per Stalin Gramsci era evidentemente ancora quello della lettera del 1926, un «trotskista». Meglio lasciarlo in carcere in Italia. Avvenne così che quando il ministro degli esteri sovietico incontrò Mussolini non fece cenno della questione. E quest’ultimo non aggiunse verbo.

l'Unità 4.6.07
Un reportage da Cuba critica il regime. Apriti cielo, valanga di lettere contro l’articolo. Il direttore lapidario: «Non esiste nessun buon giornalismo che non sia libero»
Tra Sansonetti e Castro i lettori di «Liberazione» scelgono Fidel


Se gli avessero messo in mano gli ultimi tre numeri di Liberazione, Jan Grzebsky non avrebbe avuto quei giramenti di testa: il mondo gira come girava quando si addormentò nel coma, 19 anni fa, il ferroviere polacco vittima di un incidente sul lavoro. Diviso in due e con le consuete accuse di falsa coscienza, il/la “giornalista” scritta fra virgolette che «non so se sia in buona fede o no».
La testa deve invece aver girato, come fosse entrato in un rotor, in una macchina del tempo, a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, mercoledì scorso, quando aprendo la posta elettronica è stato sommerso dalla valanga di proteste per il reportage firmato dall’inviata all’Avana Angela Nocioni.
Le colpe di Angela. Che aveva scritto di «indecente» l’inviata? Aveva scritto (bene) quello che tutti sanno, ovvero che da Cuba chi ha meno di quaranta anni cerca di partire ma che questo è difficile perché il passaporto non è un diritto ma un premio. Soprattutto, Angela aveva commesso l’imperdonabile leggerezza di raccontare come sono percepiti dalla gente comune i «testimonial» del regime. Giustino Di Celmo, italiano, padre di Fabio, rimasto ucciso in un attentato terroristico organizzato da Posada Carriles. «Di Celmo se lo portano dappertutto, in Tv, ai comizi, gli hanno dato una laurea honoris causa e lui, grato, parla di Cuba come del migliore dei mondi possibili». In un paese dove è vietato aprire ristoranti privati, Di Celmo ha la sua pizzeria dove si prepara la «pizza Fabio», 4 dollari e 75. E poi i Cinque eroi, detenuti negli Stati Uniti. «Di mestiere facevano le spie - scrive Nocioni - Da quando sono famosi, però, sono scrittori, poeti, caricaturisti. Li pubblicano come fosse Garcia Marquez». In un paese dove manca la carta e al massimo uno scrittore può aspirare a una tiratura di duemila copie. Apriti cielo. Nelle lettere di chi a Cuba è stato con il festival della Gioventù o con le brigate del lavoro volontario (e quindi l’isola l’ha vista senza i paraocchi) nelle testimonianze dei segretari dei circoli Italia-Cuba, questa è «superficialità», «mancanza di analisi storico-politica», «denigrazione». Il senatore Fosco Giannini e Alessandra Riccio, invece, ci spiegano che i Cinque non erano spie ma «infiltrati negli ambienti anticastristi della Florida» e nei loro confronti ci vuole «rispetto».
Le colpe di Piero. Il direttore difende la giornalista: «Non esiste nessun buon giornalismo che non sia libero». Macchè, per Mario Gabrielli Cossu (segretario del circolo Prc di Bruxelles) questa è subalternità al pensiero dominante. Per Pablo Genova questa è «una campagna diffamatoria contro Cuba». Ma Sansonetti non si limita alla difesa dell’inviata. «Io non mi sento di condannare in blocco - scrive - il castrismo, perché conosco bene il valore della rivolta di Castro e del Che contro la dittatura di Batista... Ma questo non mi impedisce di considerare l’odierno regime cubano un regime non solo lontanissimo, ma addirittura inconciliabile con le idee di una sinistra moderna». Scherziamo? Ci spiega Bruno Steri, direttore di Essere comunisti, che l’Oms definisce il sistema sanitario cubano uno dei migliori del mondo. «Cuba si erge a capofila dei diseredati del mondo e lancia una sfida globale per una nuova rivoluzione energetica». Mentre un altro lettore sente puzza di bruciato: Sansonetti non era all’Unità quando si iniziò a denigrare Togliatti?
Nessun modello politico accettabile - scrive il direttore - «può fare a meno dei presupposti fondamentali della democrazia (delle elezioni) e delle libertà individuali». È troppo. Scende in campo Fabio Amato, Responsabile nazionale esteri di Prc, che cita il teologo della liberazione Frei Betto: «Come faccio a parlare di diritti umani a Cuba, quando in America Latina milioni di persone non hanno conquistato ancora i diritti animali, quelli di avere un tetto, uno straccio per ripararsi dalla pioggia, il cibo di tutti i giorni da dare ai propri figli?» e poi descrive in perfetto stile zdanoviano i cubani «nelle loro umili case ma piene di dignità. La dignità di chi sapeva di vivere in un periodo difficile, duro ma consapevoli di difendere la loro indipendenza e le conquiste sociali della rivoluzione».
Questo sì che è un linguaggio che deve suonare musica alle orecchie dell’ambasciatore cubano. Che, infatti, ha invitato Sansonetti per un «franco colloquio».

Corriere della Sera 4.6.07
Il coraggio di criticare Cuba (da sinistra) e l'ira dei fedeli traditi
di Pierluigi Battista


Un diluvio di lettere ha sommerso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista colpevole di aver pubblicato un reportage da Cuba di Angela Nocioni in cui il regime castrista non era esattamente descritto come il paradiso in terra. I lettori si sono detti «indignati» per il proditorio attacco, «sconcertati» per la «campagna diffamatoria» cui il giornale si sarebbe prestato, facendosi megafono di «qualunquismo giornalistico», nonché vetrina di un «ignobile articolo» che suscita solo «amarezza». Un lettore si è detto addirittura «pietrificato» per via della dolorosa sorpresa. Un altro, furente, ha accusato il giornale di essersi docilmente sottomesso al «pensiero unico», prova definitiva del tradimento di Rifondazione comunista, oramai convertita (ma davvero?) all'egemonia culturale del «liberalismo». I lettori hanno reagito come fedeli sgomenti davanti al tempio profanato, come seguaci di una dottrina costretti a subire le parole blasfeme pronunciate dal pulpito. E tutto per un articolo non gradito.
Un articolo che il direttore del quotidiano, Piero Sansonetti, ha difeso anche a costo di inasprire le proteste dei lettori che ne chiedevano la scomunica. La sinistra, ha scritto Sansonetti, «non può che considerare il regime cubano il contrario di se stessa». Ragionamento coerente e lineare, in teoria: come potrebbe infatti una sinistra che si vuole libertaria, portabandiera dell'«esaltazione dei diritti», ostile alla censura, allo Stato onnipotente, alla polizia senza briglie, come può questa sinistra riconoscersi in uno Stato di polizia a partito unico, a giornale unico, a ortodossia unica, come può vedersi rappresentata da un regime le cui carceri sono stracolme di dissidenti, dove i poveri cristi fuggono per mare su zattere di fortuna e gli omosessuali sono indecentemente perseguitati? Difficilissimo, in pratica: perché la mitologia rivoluzionaria è infinitamente più forte (e seducente) della realtà, e perché il pregiudizio ideologico è capace di resistere a ogni confutazione fattuale. Per questo tra i seguaci delle religioni secolari appare così istintivo il ricorso all'anatema, l'ostilità nei confronti di chi si permette di dubitare di una fede incorruttibile e dunque difesa con la stessa veemente ultimatività con cui si difende qualcosa di sacro.
Per questo acquista un valore esemplare la scelta coraggiosa del direttore di Liberazione. Del quale si possono anche eventualmente non condividere alcuni residui «giustificazionisti» sulla dittatura cubana. Ma del quale non si può non apprezzare un atteggiamento ben poco frequentato: la sfida al senso comune della propria parte, la temerarietà di mettersi controvento, di affrontare l'esame, e persino le reazioni emotivamente infuocate della propria comunità di appartenenza. Virtù molto rara. Rara a sinistra, dove si allestiscono ecumenici Pantheon per non scontentare nessuno e ricercare il consenso di tutti. Rara a destra, dove il culto del Capo soffoca i dissensi e mortifica ogni voce critica. Ed è curioso constatare come proprio nella roccaforte ideologica che fa della fedeltà a un'ideologia la propria insegna omaggiandola persino nella denominazione, Rifondazione comunista, si stia mostrando una disponibilità autocritica (a cominciare dalla battaglia sulla non violenza di Bertinotti) sconosciuta nella politica italiana. Criticare il regime cubano quando è ancora in sella, e non decine d'anni dopo con il solito rosario del «sottovalutammo», «sbagliammo», «non capimmo», è un buon inizio. Anche a costo di urtare la sensibilità del mondo cui si appartiene: imparare da Rifondazione.
Anatemi dei lettori contro il reportage uscito sul giornale di Rifondazione e difeso dal direttore

Repubblica 4.6.07
Sinistra dell'Unione e "duri" d'accordo: non temiamo infiltrazioni dei Black bloc. Prodi: con il presidente Usa rapporti molto buoni
"Contesteremo Bush senza scontri"
Ma Casarini avverte: "Niente zone rosse o esploderà la rabbia"
di Umberto Rosso


A piazza del Popolo verrà organizzato un sit-in, a cui aderisco- no molti parlamentari della maggioranza, Sinistra Democratica, Pdci, Prc, Fiom-Cgil, Arci, Un ponte per e altre organizzazioni

La sinistra antagonista ha lanciato una mobilitazione da tutta Italia per il corteo del 9 giugno, con pullman e treni: questi sono stati ribattezzati "No Bush No War" o "Strike War Express"

Il presidente del Consiglio ricorda però la diversità di vedute su Iraq e ambiente
Il leader dei Disobbedienti: i nostri cortei vanno autorizzati senza limitazioni

ROMA - Le due piazze anti-Bush non temono alcun effetto Rostock. Tutto «filerà liscio» a piazza del Popolo, garantisce la sinistra dell´Unione che sabato si ritrova al sit-in contro il presidente americano. E «pacifica e popolare» giurano gli organizzatori sarà anche l´altra manifestazione, il corteo dei "duri" che sfila da piazza della Repubblica a piazza Navona, «non temiamo infiltrazioni, i black bloc se ne staranno in Germania». Nell´attesa, di sicuro cresce la tensione politica. Epicentro, il centrosinistra. Il presidente del Consiglio, da Parigi, fa sapere di avere sempre avuto con Bush «rapporti personali molto buoni», ma precisa subito che «se si hanno delle buone relazioni non è vietato avere interpretazioni o idee diverse». Prodi parla in una intervista alla radio francese Europe 1, e dice così: «Io ho sempre detto no alla guerra in Iraq perché ho sempre pensato che sarebbe stato un errore storico». E anche sul protocollo di Kyoto, ricorda, ci sono state opinioni diverse con Bush.
Amicizia ma in autonomia. Ed è la linea sulla quale il premier ha chiesto e ottenuto da ministri della sinistra di non scendere sabato prossimo in piazza contro il presidente americano. Invito accolto, per cui stavolta almeno l´esecutivo in quanto tale dovrebbe finire al riparo dalle polemiche. Paolo Ferrero ha annunciato che quel giorno sarà a Brescia. Bianchi è un tecnico. Pecoraro e Mussi si chiamano fuori. Ma i leader politici invece in piazza andranno, la sinistra di lotta e di governo dell´Unione conferma: in campo contro la visita di Bush. Il Professore ci aveva anche provato, a dissuaderli, senza stringere troppo per la verità di fronte alle immediate reazioni negative di Rifondazione e dei Comunisti italiani. «Presidente - ha obiettato nel vertice di maggioranza il segretario del Pdci - ma se andranno a protestare anche alcuni chierichetti della Margherita...».
Così al sit-in di piazza Navona, sabato pomeriggio, in prima fila Giordano e Diliberto, i verdi guidati dal capogruppo Bonelli, una ventina di parlamentari della Sinistra democratica, anche se a titolo individuale perché l´ex correntone ds alla fine ha deciso di non aderire ufficialmente alla manifestazione promossa da Rifondazione, Pdci, Fiom-Cgil, Arci. «Poco tempo per discutere la piattaforma - spiega Cesare Salvi, capogruppo di Sd al Senato - con il rischio di confondere obiettivi giusti, come il "no" allo scudo stellare di Bush, con un generico anti-americanismo». Ma l´arco della protesta si è allargato fino a toccare anche la Margherita ed esponenti del mondo cattolico delle Acli. Il tesoriere del partito, il rutelliano Luigi Lusi, ha firmato l´appello anche se ha deciso di non andare in piazza, mentre al sit-in ci sarà il collega deputato Francesco Ferrante, ex direttore di Legambiente. Così, mentre Prodi stringerà la mano a Bush a Palazzo Chigi, una fetta della maggioranza provvede a contestarlo. Riaprendo la vecchia polemica, ovvero il centrosinistra che va in piazza contro se stesso. La "trincea" della sinistra è pronta: nel mirino della manifestazione il guerrafondaio Bush e non Prodi, che dall´Iraq al Libano ha avviato un cambio di rotta nella politica estera. Ma, nel clima della nascente Cosa Rossa e di rapporti burrascosi con il Pd, si rischiano nuove tensioni nel centrosinistra.
Il premier sarà invece il bersaglio dichiarato dell´altro corteo, l´ala dura del movimento, che sabato sfila invece da piazza della Repubblica a piazza Navona. Partito comunista dei lavoratori (nato dalla scissione di Rifondazione), i Cobas guidati da Piero Bernocchi, i Disobbedienti di Luca Casarini, centri sociali. Via Bush e via Prodi. «Il sit-in di piazza del Popolo - accusa Marco Ferrando, segretario del Pcl - è pura ipocrisia: la sinistra al governo è subalterna alle scelte di Bush». Attesi al corteo anche i dissidenti del Prc Cannavò e Turigliatto, e Giorgio Cremaschi, segreteria Fiom. Previsione della vigilia: decine di migliaia di partecipanti, e pacifici. Anche se Casarini avverte «autorizzino il nostro corteo senza limitazioni e zone rosse, altrimenti ci sarà rabbia tra i manifestanti». Ma per la verità, come confermano gli stessi organizzatori romani, non è prevista alcuna zona rossa e il percorso è già stato concordato con il prefetto di Roma Serra: il corteo, così come quello del marzo scorso sull´Afghanistan, marcerà lontano dai palazzi del potere. Polemiche invece con i vertici delle ferrovie, che non avrebbero concesso tariffe speciali per i treni dei disobbedienti.

l'Unità 4.6.07
Un dna di troppo
di Silvia Ballestra


Avevamo letto quant’era stata brava Antonella Duchini, il pm di Perugia che si è occupata del caso di Marsciano, a presenziare giorno e notte ai sopralluoghi, impegnandosi in prima linea senza risparmio, esplorando ogni possibile pista, e avevamo pensato: per forza, è una donna, si sentirà più coinvolta da questa orribile tragedia. Una donna incinta di otto mesi picchiata a morte, ammazzata in casa sua, coi due bimbi piccoli che dormono nella stanza accanto, non può non toccare chiunque. Ma se sei donna, vorrei pensare, ancora di più. La componente umana di identificazione ed empatia, in certi casi, può non essere secondaria.
Ma ecco ora una mossa a sorpresa: la richiesta dell’esame del Dna del feto che la povera Barbara Cicioni portava in grembo. Si vuole capire se quello della gelosia è un movente possibile. Una mossa, verrebbe da dire, molto maschile, molto in linea con i tanti processi per stupro d’antan, quando, invece di indagare sugli stupratori, si metteva sotto esame la condotta di vita delle vittime, la loro presunta «immoralità»
L’ha provocato, girava da sola di notte, era vestita da zoccola, era piena di uomini: pare incredibile ma erano questi gli argomenti delle difese, solo trent’anni fa (pure meno!), nelle aule giudiziarie. Aule piene di avvocati e magistrati uomini che a volte, anche solo con un’occhiata eloquente, si intendevano al volo. Colpevolizzando la vittima, si sgravavano i colpevoli, come se davvero potessero mai esistere circostanze attenuanti a crimini così odiosi e orrendi. Poi i costumi per fortuna - e anche grazie al lavoro di tante donne e uomini - sono cambiati e certe enormità non si sono più sentite.
Ecco: perché pare di risentirle, oggi, davanti a quest’esame? Davanti a questa strabiliante richiesta? La magistratura faccia il suo mestiere, per carità, ma non è questo il segnale che vorremmo per affrontare l’emergenza delle violenze sulle donne. Emergenza prima di tutto culturale, bisognosa di segnali forti e non di scivolosi appigli.
Cambierebbe qualcosa, forse, se da quell’esame dovesse uscire una paternità della bimba diversa da quella dell’assassino? Il delitto sarebbe meno grave? Un uomo che ha ucciso di botte la madre dei suoi figli e poi manipolato la scena del crimine per accusare i soliti fantomatici stranieri ladri, ne uscirebbe un po’ meno peggio? Avrebbe uno sconto di pena? Questioni tecniche, certo. Ma la sola idea ci sembra agghiacciante.
Di sicuro, purtroppo, appare molto credibile il ritratto delle condizioni in cui è maturato questo delitto. Condizioni molto tipiche: le violenze che si ripetono da anni, fisiche e psicologiche, contro la moglie, ma anche contro i figli. La frustrazione dell’uomo che si sente spodestato nella gestione della casa e del lavoro dalla moglie che invece fatica duro dall’alba fino a tardi. Il contesto ambientale con il clan contadino fortemente patriarcale e incombente. Le scappatelle nei night della zona, le botte e le accuse assurde alla moglie (tipico del sesso forte che si ritrova debole, e quindi mena), la crisi per il terzo figlio in arrivo. L’inadeguatezza per una famiglia sacra (e perciò violenta) che, letteralmente, ti si stringe addosso fino a soffocarti.
Resta il problema, questo sì da discutere e indagare, del perché la violenza in famiglia sia così diffusa. Del perché queste coppie così serrate, ancora pensate e fondate sul possesso, accettino una routine fatta di botte e insulti che a volte sfociano in omicidio. L’esame non va fatto al feto, al suo dna, all’immaginario «altro padre». No. Facciamo l’esame a questi rapporti malati. Che non vanno bene per niente, che sono un pericolo sociale. Quella della gelosia è storia vecchia, inutile davanti ad amori che sono soltanto possesso e atti di proprietà.
La passione è un’altra cosa e i lucchetti dell’amore, tanto à la page, che prevedono una coppia chiusa in se stessa e perciò isolata e paranoica, non sono affatto un bel simbolo da vendere ai più giovani. Ma l’anticamera delle sberle. Facciamolo a tutto questo, l’esame del dna.

l'Unità 4.6.07
Quell’oscura violenza che nasce nelle famiglie
di Luigi Cancrini


Un uomo, dice l’accusa, ha ucciso la moglie incinta di 8 mesi. Tutti sapevano, pare, che maltrattava lei e i bambini. La gente che gli grida «bastardo!» in tutti i servizi televisivi di dopo non poteva davvero far niente prima?
Lettera firmata

La stragrande maggioranza degli omicidi si compie in famiglia. Da noi e in altri paesi. Con buona pace dei leghisti e di chi li sta a sentire, pronti sempre a gettare la colpa su quelli che vengono da altri paesi per cercare il lavoro e il benessere che non trovano altrove. Con buona pace di quelli che continuano a santificare la famiglia, scaricando sulle coppie di fatto e sui gay la loro inutile aggressività.
La maggior parte degli omicidi che si compiono in famiglia potrebbe essere evitata. Uccidere è un passaggio tardivo, in genere, all’interno di una escalation di violenze verbali e fisiche di cui nessuno parla, come in questo caso, se non quando l’irreparabile è gia accaduto. Picchiare la moglie è sport ancora abbastanza diffuso. Nel paese in cui la famiglia deve essere difesa ad ogni costo quella che non è difesa, purtroppo, è la donna che le botte le prende. Se si ribella e va dai carabinieri, quello che le viene consigliato è di pensarci bene: giustamente, del resto, perché se la denuncia va avanti, i tempi lunghi della giustizia la costringono a ritrattare o a subire ulteriori minacce ed altre botte. Nessuno le offre nulla, infatti, che possa aiutarla davvero a difendersi ed a riorganizzarsi dal punto di vista economico, abitativo o lavorativo. Nessuno, ovviamente, tranne i centri antiviolenza dei Comuni o delle Province che la accolgono, in casi estremi ma sempre per periodi brevi nelle scomodissime e povere comunità madre-bambino. Che le offrono un’assistenza legale ma che hanno risorse sempre troppo limitate per darle un aiuto reale e duraturo.
Ci vuole un coraggio molto grande, in realtà, per ribellarsi nel caso in cui si sia vittima di violenza nella propria casa. Quello che se ne è accorto, finora in splendida solitudine, è il legislatore spagnolo perché una delle leggi approvate dal governo di Zapatero è proprio quella che riguarda la violenza di genere: la violenza, cioè, dell’uomo sulla donna e sui bambini. Immaginando corsie preferenziali e tempi molto brevi per l’intervento del giudice e misure immediate per il sostegno economico, abitativo e lavorativo della donna che trova la forza per sporgere la sua denuncia. Avversata violentemente (non si sa bene perché) dalla destra e dalla Chiesa, questa legge prevede fra l’altro, accanto alla pena, l’ obbligo di terapia per i violenti, finanziamenti e progetti per i servizi chiamati a metterla in opera.
Con chiarezza proponendo l’idea per cui quella su cui si punta non è tanto la "punizione" dei colpevoli quanto la prevenzione di fatti più gravi: una prevenzione naturalmente basata sulla cura delle persone problematiche e dei legami in cui si soffre troppo.
Faccio il terapeuta della famiglia da troppi anni per non sapere quanto sia grave e difficile da districare il nodo di un legame patologico fra due esseri umani che si sono amati e che non riescono più, da un certo momento in poi, a capirsi e a raggiungersi. "Odio et amo" diceva Catullo, ed è sicuramente vero che l’odio può stravolgere la vita di una coppia rendendola insensibile ai guai che la lacerazione produce sui due partners e sui figli che hanno la sventura di vivere con loro. Quando un nodo di questo tipo si stringe intorno alla vita di due persone condannate a stare insieme dalla loro stessa patologia oltre che dalle costrizioni culturali o istituzionali, d’altra parte, sperare che loro ne escano da soli serve a poco.
Quello che è necessario fare con urgenza, invece, è aiutarli a portare fuori la propria sofferenza. Chiedendo aiuto per lei e per lui perché, riconosciuto colpevole di aver picchiato la moglie, l’uomo che in relazioni come queste perde la sua capacità di controllo e di critica, può essere aiutato seriamente a non diventare l’assassino di lei e dei propri figli. La cosa più importante da fare, dunque, è una legge che renda facile questa richiesta d’aiuto. Rompendo la convinzione diffusa, prima di tutto, del matrimonio e della famiglia intesi come "bene assoluto". Piaceva forse ai confessori di una volta ma è terribilmente controproducente e alla base oggi, purtroppo, di molti delitti evitabili lo sforzo delle donne che in casa ingoiano tutto, soprusi e violenze, nel nome di una rassegnazione sacrificale il cui esito inevitabile è un accumulo, nel tempo difficile da sostenere, d’odio e di sfiducia, di infelicità e di disprezzo. Quella di cui si diceva un tempo che "eroicamente" sopportava è sempre più oggi una donna che dà un contributo importante ad un aggravamento progressivo della sua situazione famigliare: incidendo pesantemente, che se ne renda conto o no, sulla vita sua e sullo sviluppo dei figli.
Dobbiamo riflettere seriamente a mio avviso, in Parlamento, sulla necessità di prendere iniziative di questo tipo sul piano legislativo se davvero vogliamo che vicende come quella ricostruita oggi dall’accusa a Perugia non si ripetano. Il mio lavoro mi mette di fronte ogni giorno alla constatazione per cui le percosse dell’uomo sulla donna e, spesso, sui figli sono frequenti: nelle famiglie italiane così come in quelle spagnole. L’idea da cui dobbiamo partire a questo punto non può essere che una: quella per cui fondamentale, in tutte queste situazioni, è un intervento precoce. Un intervento che renda difficili e del tutto improbabili, cioè, gli sviluppi più drammatici di cui, come lei giustamente nota, ci si accorge, altrimenti, dopo: quand’è troppo tardi.
Non è per niente una fantasia, cara L. quella di chi immagina che una cultura diversa e una legge più giusta avrebbero permesso ai vicini o ai parenti della donna che oggi non c’è più, una donna che, da quello che sappiamo, aveva scelto, come tante altre, la strada del silenzio, di intervenire più efficacemente prima che un omicidio così prevedibile venisse effettivamente commesso.

l'Unità 4.6.07
Da «Science». Un’ipotesi osservando gli orangutan
I nostri antenati bipedi quando erano sugli alberi


I nostri antenati potrebbero aver cominciato a camminare su due gambe quando ancora vivevano sugli alberi. Osservando alcuni Orangutan, un gruppo di ricercatori ha visto che essere bipedi può aver offerto molti vantaggi ai nostri antenati permettendo loro di bilanciarsi con le braccia mentre passavano da un ramo all’altro. Gli autori della ricerca suggeriscono che gli ominidi abbiano abbandonato la foresta a causa dei cambiamenti climatici quando già camminavano eretti.

l'Unità 4.6.07
In Basilicata. La seconda struttura pubblica italiana
Così si curano gratis anoressia e bulimia

di Cristiana Pulcinelli

Chiaromonte è un paesino arroccato su un cucuzzolo nell’entroterra della Basilicata. Anche arrivarci non è facile, visto che è fuori dalle traiettorie più battute della nostra penisola. Eppure, a Chiaromonte c’è un fiore all’occhiello della nostra sanità. Si tratta del Centro per i disturbi del comportamento alimentare e del peso «G.Gioia», il primo centro pubblico residenzale ad occuparsi delle persone affette da anoressia, bulimia e disturbo da abbuffate compulsive nel sud d’Italia. Il Centro nei giorni scorsi ha festeggiato il primo compleanno con un convegno a cui hanno partecipato esperti di queste patologie arrivati da tutta Italia. Un anno difficile, ma di grande soddisfazione, hanno raccontato i responsabili.
Tutto è nato da un incontro avvenuto quache anno fa tra il direttore della Asl 3 di Lagonegro, Mario Marra, e i genitori di una ragazza affetta da anoressia, i signori Gioia. La ragazza era stata ricoverata in una clinica svizzera per curare la sua malattia, ma il costo della retta era così alto che la famiglia si era ritrovata ben presto sul lastrico. Il padre della ragazza si era rivolto al direttore della Asl per chiedere aiuto. Pochi giorni dopo, però, il signor Gioia moriva. Si è fatta così strada l’idea di creare un centro pubblico che potesse ospitare le ragazze affette da distrurbi alimentari senza costringerle a rivolgersi alle cliniche private o a farsi ricoverare negli ospedali. Un esempio (l’unico, per la verità) a cui fare riferimento c’era: la residenza Palazzo Francisci di Todi aperta nel 2003. Il luogo anche: il vecchio ospedale in disuso di Chiaromonte. Il centro è nato e non poteva che essere dedicato a Giovanni Gioia.
La struttura ha 20 posti letto in regime residenziale e 10 in regime semiresidenziale. Un’équipe composta da figure professionali diverse (psicologo, psichiatra, nutrizionista, endocrinologo, pediatra, ginecologo...), sale comuni grandi e luminose dove si svolgono lezioni di teatro e danza, laboratori di arti applicate e di scrittura creativa. Fuori, vicino al lago, c’è il maneggio dove le ragazze possono andare a cavallo o sull’asino, attività che sembra abbiano un forte valore terapeutico.
I disturbi alimentari sono un fenomeno in crescita: oggi, secondo alcune stime, colpiscono il 4% degli adolescenti e la fascia d’età interessata si allarga sia alle preadolescenti sia alle donne sopra i 40 anni, mentre il numero dei maschi colpiti aumenta. Forse, l’esempio di Todi e Chiaromonte andrebbe seguito.

Repubblica 4.6.07
Sulla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica un tema spinoso dei rapporti con l'Islam
"Ecco perché Maometto non è profeta per i cristiani"
Le tesi passate al vaglio della Segreteria di Stato


CITTÀ DEL VATICANO - «Maometto, profeta anche per i cristiani?». È il titolo di un articolo sui difficili rapporti tra musulmani e cristianesimo che sarà pubblicato sul prossimo numero del quindicinale dei Gesuiti, Civiltà Cattolica. Articolo destinato a far discutere sia per il tema sollevato che per la risposta fornita dalla stessa Compagnia di Gesù, anche se in apertura del servizio sembra voler tendere una mano ai seguaci di Maometto. «L´islam ha condotto molti a credere in Dio, ma - puntualizza Civiltà Cattolica - non ha conosciuto l´amore di Dio e la grandezza della vocazione dell´essere umano che si sono rivelati in Gesù». Autore dell´articolo, il gesuita tedesco Christian W. Troll, professore di Islamologia e relazioni islamo-cristiane alla Facoltà di Teologia di Francoforte. Le tesi dell´articolo hanno, però, un peso specifico ancora maggiore rispetto a una normale lezione accademica, perché il servizio - come tutte le altre pubblicazioni di Civiltà Cattolica - prima della pubblicazione è stato sottoposto all´imprimatur ufficiale della Segreteria di Stato della Santa Sede.
«I musulmani riconoscono Gesù come profeta: perchè i cristiani non fanno altrettanto con Maometto?», si chiede, tra l´altro, padre Troll, che ricorda che per l´islam il messaggio di Maometto «è valido per tutti e per sempre, mentre quello di Gesù e degli altri profeti lo sarebbe soltanto per un popolo e per un tempo».
Maometto - avverte ancora il professore - ricorre alla forza per diffondere la fede e rifiuta i «servi sofferenti». E inoltre, «nel Corano la sofferenza - ragiona il gesuita - viene considerata come una realtà che sopravviene da fuori, limita Dio e lo umilia. Perciò bisogna pensare a un Dio libero dalla sofferenza e incapace di qualsiasi dolore». Al contrario, nel cristianesimo, «la misura di Cristo va oltre, fino alla grazia del dono di sè nell´incarnazione e nell´amore sofferente. Mentre il Corano rifiuta la redenzione perchè non è conciliabile con la sovranità di Dio, il Vangelo vive tutto del libero dono di Dio in Cristo».
Per i cristiani - scrive il teologo gesuita - ciò significa che a motivo della fede in un Dio sempre più grande questo dono non può essere escluso. Da qui l´impossibilità per gli stessi credenti in Gesù a considerare Maometto un profeta anche dal punto di vista cristiano.
(o. l. r.)

domenica 3 giugno 2007

Hans Christian Andersen
L'INTREPIDO SOLDATINO DI STAGNO


C'erano una volta venticinque soldatini tutti fratelli, perchè tutti fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di stagno. Avevano il fucile in ispalla, la divisa rossa e turchina, proprio bella, e tutti guardavano diritto dinanzi a sè. La prima cosa che udirono al mondo, quando fu tolto il coperchio della scatola, fu il grido: «Soldatini di stagno!» Chi aveva gridato così, battendo le mani, era un ragazzo, e i soldatini gli erano stati regalati per il suo natalizio. Egli li mise tutti sulla tavola: ogni soldato era identico agli altri; soltanto, per quello che era stato fuso l'ultimo, non era rimasto stagno abbastanza, e così gli era venuta una gamba sola; ma egli stava altrettanto saldo sull'unica gamba, quanto gli altri, che ne avevano due; e fu appunto questo soldatino che si distinse.
Sulla tavola, sulla quale si trovavano, c'erano molti altri balocchi; ma quello che più attirava lo sguardo era un grazioso castello di cartone. A traverso alle piccole finestre, si poteva vedere dentro, nella sala. Dinanzi al castello, certi alberelli erano piantati attorno ad un pezzettino di specchio, che doveva raffigurare un limpido lago; e sul lago nuotavano specchiandosi alcuni piccoli cigni di cera. Tutto questo era molto bellino; il più bello di tutto, però, era una piccola signora, ritta vicino al portone aperto del castello; anch'essa di cartone, ma con un vestito di velo leggerissimo, ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo' di sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina lucente, grande come tutto il suo viso. La signora arrotondava con grazia le braccia al di sopra del capo, perchè era una ballerina, e teneva un piede così alto, per aria, che il soldato, non vedendolo, credette che anche lei avesse una gamba sola.
«Quella mi andrebbe bene per moglie!» — pensò: «Ma è troppa aristocratica per me: abita un castello, ed io non ho che una scatola, che debbo dividere con altri ventiquattro compagni: non sarebbe casa per lei. Voglio vedere, però, se mi riesce di fare la sua conoscenza.» — E si distese quant'era lungo dietro ad una tabacchiera, che stava anch'essa sulla tavola. Di lì poteva osservare comodamente la bella donnina, che non si stancava mai di starsene ritta su una gamba sola, senza mai perdere l'equilibrio.
Venuta la sera, gli altri soldatini di stagno furono riposti nella loro scatola, e quelli di casa andarono a letto. Allora i balocchi incominciarono a giocare per conto loro: un po' facevano è arrivato l'ambasciatore, un po' il lupo e le pecore, o la festa da ballo. I soldati strepitavano dentro alla scatola, perchè avrebbero voluto unirsi anch'essi al gioco, ma non riuscivano a sollevare il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le tombole, e la pietra romana si sbizzarriva in mille ghirigori sulla lavagna. Fecero un chiasso tale, che il canarino si destò ed unì il suo canto all'allegria generale, ma sempre in versi però. I soli che non si mossero dal posto furono il soldatino e la ballerina. Essa rimase ritta come un cero sulla punta d'un piede, con le braccia levate al di sopra del capo; egli, altrettanto imperterrito sull'unica gamba, non le tolse un istante gli occhi di dosso.
Battè la mezzanotte, e tac!... saltò il coperchio della tabacchiera; ma non c'era tabacco dentro, c'era un diavolino nero, perchè era un balocco a sorpresa.
«Soldatino,» — disse il diavolo nero: «A forza di guardare, ti consumerai gli occhi!»
Ma il soldatino fece come se non avesse udito.
«Sì, aspetta domani, caro!» — ammonì il diavolino.
Quando venne il mattino e i fanciulli si alzarono, il soldatino di stagno fu posato sul davanzale della finestra, e, fosse il diavolo nero od un colpo di vento, la finestra si spalancò a un tratto, e il soldatino precipitò dal terzo piano a capofitto nel vuoto. Fu una tombola tremenda: tese l'unica gamba all'aria, e rimase a baionetta in giù, con l'elmo fitto tra le pietre del selciato.
La domestica ed il ragazzino corsero subito giù a cercarlo; gli andarono vicino che quasi lo pestavano, e pure non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: «Eccomi qui!» — l'avrebbero subito raccattato; ma, essendo in divisa, non gli parve decoroso mettersi a gridare.
Incominciò a piovere; i goccioloni, radi da prima, si fecero sempre più fitti, sin che venne un vero acquazzone. Quando spiovve, capitarono due monelli.
«Guarda, guarda!» — esclamò l'uno: «Un soldatino di stagno! Facciamolo andare a vela!»
Fecero una barchetta con un pezzo di giornale, ci misero il soldato e lo vararono nel rigagnolo della via. I due ragazzi gli correvano appresso battendo le mani. Cielo, aiutami! Che onde c'erano in quel rigagnolo e che corrente terribile! La pioggia doveva proprio esser caduta a torrenti! La barchetta di carta beccheggiava forte forte, e tal volta girava così rapidamente, che il soldato sussultava. Ma rimaneva intrepido, però, nè mutava colore; guardava sempre fisso davanti a sè e teneva il fucile in ispalla.
Improvvisamente, la barca scivolò in un tombino; e lì poi era buio pesto, come nella sua scatola.
«Dove sarò mai capitato?» — pensava: «Sì, sì, quest'è tutta opera del diavolo nero. Ah, se ci fosse qui, nella barchetta, la donnina del castello, mi sentirei tutto consolato, per buio che fosse!»
In quella, sbucò un vecchio ratto, che nel tombino aveva la sua casa.
«Hai il passaporto?» — domandò il ratto: «Fuori il passaporto!»
Ma il soldato rimase muto e si contentò di tener l'arma ancora più salda. La barchetta seguitava, e il ratto dietro. Uh! come digrignava i denti, e come gridava a tutti i fuscelli, a tutte le pagliuzze: «Fermatelo! fermatelo! Non ha pagato pedaggio, non ha presentato passaporto!»
La corrente divenne sempre più forte: il soldatino incominciava a veder chiaro già prima d'essere fuori del tombino; ma, proprio nel medesimo tempo, sentì uno scroscio tale, che avrebbe fatto tremare anche il cuore dell'uomo più valoroso. Figuratevi che il rigagnolo, appena fuori di quel passaggio, si buttava in un largo canale con un salto altrettanto pericoloso per la barchetta quanto sarebbe per noi la cascata del Niagara.
Oramai, il pericolo era così vicino, che egli non poteva più evitarlo. La barchetta precipitò; il povero soldatino si tenne ritto, alla meglio, perchè nessuno potesse dire d'averlo nemmeno veduto batter palpebra. La barca girò su se stessa tre o quattro volte, si riempì d'acqua sino all'orlo, sì ch'era sul punto di calare al fondo: il soldato era nell'acqua sino al collo, e la barca sprofondava sempre più giù, sempre più giù: la carta inzuppata era lì per isfasciarsi: già l'acqua si richiudeva sopra il capo del soldato... Egli pensò allora alla graziosa ballerina, che non avrebbe mai più riveduto, e un ritornello gli risonò agli orecchi:

Soldato, dove vai?
La morte incontrerai!

La carta si lacerò ed il soldato cadde di sotto; ma proprio in quel momento, un grosso pesce lo inghiottì.
Allora sì, che si trovò al buio davvero! Si stava ben peggio lì che nel tombino, e pigiati poi... Ma il soldato rimase imperterrito, e, anche così lungo disteso, mantenne pur sempre il fucile in ispalla.
Il pesce non si chetava un momento: correva qua e là con certi guizzi terribili; alla fine, si fermò e parve traversato come da un baleno: e allora qualcuno gridò forte: «Oh! il soldato di stagno!»
Il pesce era stato pescato, e poi portato al mercato e venduto, ed era capitato in cucina, dove la cuoca l'aveva aperto con un grande coltello.
Allora la cuoca prese il soldato con due dita a traverso il corpo e lo portò in salotto dove tutti vollero vedere quest'uomo meraviglioso, che aveva viaggiato nel ventre d'un pesce. Ma non per questo egli mise superbia: fu posto sulla tavola, e là... — Davvero che in questo mondo si dànno certi casi meravigliosi!... — Il soldatino di stagno si trovò per l'appunto nello stesso identico salotto di dov'era partito, si vide attorno gli stessi bambini, e vide sulla tavola, tra gli stessi balocchi, lo splendido castello con la bella ballerina, che se ne stava sempre ritta sulla punta di un piede ed alzava l'altro per aria, intrepida anche lei. Il nostro soldatino ne fu tanto commosso, che avrebbe pianto lacrime di stagno, se non gli fosse parso vergogna. Egli la guardò, ed essa guardò lui, ma non si dissero nulla.
A un tratto, uno dei bambini più piccini afferrò il soldato e lo gettò nella stufa, così, proprio senza un perchè al mondo. Anche di ciò doveva aver colpa il diavolo nero della scatola.
Il soldatino si trovò tutto illuminato e sentì un terribile calore: egli stesso non riusciva a distinguere se fosse il fuoco vero e proprio, o l'immenso, ardente suo amore. Non gli era rimasto più un briciolo di colore: fosse poi conseguenza del viaggio o delle emozioni nessuno avrebbe potuto dire. La ballerina lo guardava ed egli guardava lei; e si sentiva struggere, ma rimaneva imperterrito, col fucile in ispalla. In quella, una porta si spalancò; il vento investì la signorina, ed essa, volando come una silfide, andò proprio difilata nel caminetto presso il soldato: una vivida fiamma... e poi, più nulla. Il soldato si strusse sino a diventare un mucchietto informe, e il giorno dopo, quando la domestica venne a portar via la cenere, lo trovò ridotto come un cuoricino di stagno. Della bambolina non rimaneva altro che la piccola stella, ma tutta bruciata, nera come il carbone.
l'Unità 3.6.07
Psicopolitica per tutti
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Elezioni alle spalle, giorni di analisi e bilanci. Non vogliamo tentarne di nostri, non nel senso classico della cosa; piuttosto, vorremmo ragionare di questo tornata elettorale da una prospettiva in larga misura ignorata. Trarre valutazioni di carattere nazionale da un voto amministrativo è sempre problematico, talvolta inopportuno. Ci sono classi dirigenti locali alla prova, in una competizione del genere; e cittadini che scelgono, tra «questo e quello», la persona che sembra mostrare maggiori garanzie di buon governo, senza necessariamente fare ricorso a schemi politici mutuati dal quadro nazionale. Premesso questo (premesso, cioè, che quanto risultato dalle urne è soprattutto un indice della qualità della presenza di partiti e candidati sul territorio), negare che il clima che si respira nel paese - in tutte le sue varianti e con le sue mille eccezioni - non abbia inciso sui risultati, sarebbe sciocco. E qui valgono due considerazioni. La prima riguardo a come vivere in Italia sia divenuto, oramai da alcuni anni, più difficile, faticoso, pericoloso. Utilizziamo questo ultimo termine non in riferimento al tanto sbandierato «allarme criminalità» (se leggiamo numeri e statistiche, vediamo che i reati, negli ultimi 15 anni, non sono sostanzialmente aumentati), quanto, piuttosto, al rischio della marginalità, della povertà, della disoccupazione e della precarietà, cui larghe fasce della popolazione sono, sempre più esposte. La seconda considerazione riguarda quel rinfocolarsi delle pulsioni antipolitiche, da almeno un ventennio serpeggianti nell’elettorato, di cui ha detto D’Alema nelle scorse settimane: un’analisi, la sua, sulla quale si può convenire in larga parte. Il quadro, dunque, è quello di un paese inquieto per le difficoltà e ansioso per frustrazioni non più esperite da decenni - o in larga parte inedite - che non vede nella politica soluzione alcuna ai suoi mali; che non legge la politica come transito a un futuro migliore; che appare disilluso dinanzi alla crescente divaricazione tra programma politico condiviso (e per il quale si è votato) ed esercizio del potere. Questo paese ha mandato un segnale forte all’attuale maggioranza, da misurarsi tanto sui dati elettorali quanto su quelli relativi all’astensionismo.
È evidente: non è cosa facile gestire una siffatta situazione e affrontare una tornata elettorale senza andare incontro a un risultato negativo. E, tuttavia, non è neppure possibile ritenere che un esecutivo, in un paese democratico, sia semplicemente «vittima» dello stato delle cose. Meglio è continuare a credere che la situazione sociale ed economica sia funzione, almeno parziale, delle capacità di chi lo governa; meglio, se si vuole continuare a riporre speranza e intelligenza nel processo democratico. In questo senso, non si può considerare - non più di tanto - il governo Prodi responsabile dell’andamento della bilancia commerciale, delle dinamiche occupazionali, del debito pubblico, del costo della vita: è in carica da un solo anno, un periodo davvero troppo breve per incidere su elementi strutturali di questa portata.
Non altrettanto può dirsi rispetto al «clima psicologico» che contraddistingue il rapporto tra cittadinanza e istituzioni e classe politica. Vogliamo prendere tre questioni che ci stanno a cuore: indulto, unioni civili, testamento biologico. Perché sono questioni controverse, sulle quali il dibattito pubblico, si è acceso e intensificato, talvolta finendo in gazzarra. E perché sono temi «forti». Sull’indulto si è scritto e detto di tutto. Resta un dato: che il centrosinistra non ha saputo e - peggio - voluto difendere un provvedimento sacrosanto, approvato dalla stragrande maggioranza del parlamento: che ha risanato lo stato di illegalità cronica in cui si trovavano le nostre carceri, gettando basi indispensabili per una seria riforma della politica penale. E una qualsiasi parte politica che si voglia rispettosa dei diritti umani non avrebbe potuto agire diversamente. Stiamo parlando di un provvedimento che non estingue la pena, che non si applica alle pene accessorie e che non annulla gli altri effetti penali della condanna: è uno sconto di pena di 3 anni, non un’amnistia generalizzata. L’attuale maggioranza ha lasciato che divenisse uno psicodramma nazionale, l’ennesima «emergenza» e il nuovo «allarme sicurezza», buono per essere cavalcato dalla destra e dagli imprenditori politici della paura. I Dico: ben più moderata di quella inizialmente formulata, questa proposta vorrebbe introdurre un mero elemento di buon senso nel quadro normativo italiano: il principio in base al quale convivenze stabili, che si protraggono per anni, che spesso comprendono figli, possano trovare riconoscimento in una serie di diritti, doveri e garanzie, volti semplicemente a regolamentare una situazione che è già «di fatto» per milioni di cittadini. Nessun matrimonio di serie B, nessun «matrimonio gay», nessun attacco alla famiglia: solo una normativa assai più timida di quelle da tempo in vigore nella maggior parte degli altri stati europei. Anche qui, le retromarce, le smentite, le frenate e i ripensamenti sono sotto gli occhi di tutti.
Infine, il testamento biologico. Su questo fronte i giochi sono più aperti: ma le nubi si vanno addensando e non è da escludersi che l’opposizione di una parte del mondo cattolico e le parole e le gesta di chi «è solo un escamotage per introdurre l’eutanasia» (ma non scherziamo) non portino, anche in questo caso, a un annacquamento della proposta, oggi ragionevolissima: e non inducano a una prudenza sterile, consigliando di battere in ritirata invece di fare un investimento politico chiaro e coraggioso, che spieghi davvero al paese quali diritti si intende riconoscere al malato e a quali sofferenze gli si vuole consentire di di sottrarsi.
Sono, queste ed altre, materie complesse, sulle quali raccogliere una maggioranza in parlamento. Ma, crediamo, se c’è un segnale che viene da questo voto amministrativo, esso non spiega meramente una questione di deficit di consenso. Racconta, piuttosto, di un paese stanco di una politica che non affronta i problemi o li affronta con troppa timidezza; incapace di cambiare, modernizzare, tradurre in azione gli stimoli che le vengono dal corpo sociale, tenuta ostaggio da una «sondocrazia» impazzita. Una politica siffatta, giornalmente impaurita dal barometro di un’opinione pubblica che probabilmente «non esiste» (Pierre Bordieu), non manca del «coraggio dell’impopolarità»: manca della responsabilità e dell’audacia necessarie a governare. E dell’impegno, costante e faticoso, di parlare al paese e di spiegare le proprie buone ragioni.

Repubblica 3.6.07
Due reportage scatenano i lettori. Sansonetti sotto accusa, l'ambasciatore lo "convoca"
"Liberazione" critica Cuba Rifondazione in subbuglio
di Giovanna Casadio


ROMA - Oltrepassare Marx, e ora anche Fidel. Ma il "mito di Cuba" smontato da due reportage su Liberazione ha scatenato le ire dei rifondaroli. Mezzo partito in subbuglio, il quotidiano di Rifondazione invaso da centinaia di mail e lettere di protesta, il direttore Piero Sansonetti sotto accusa. Lo "strappo" sul castrismo era per la verità già nelle cose: basta scorrere le scelte più recenti, gli interventi dell´ex segretario Fausto Bertinotti, l´ultimo dei quali in Cile all´inizio dell´anno. Là, il presidente della Camera - che resta sempre nel cuore dei militanti il "lìder maximo" - aveva lodato la «rivoluzione mite di Allende oscurato dal mito del Che».
Ma una cosa è Bertinotti nella sua veste istituzionale a Palazzo della Moneda, altra che il quotidiano del partito racconti senza giri di parole nei servizi dell´inviata Angela Nocioni il «regime» cubano. Una sollevazione. Sansonetti risponde con un editoriale duro: «Non me la sento di condannare in blocco il castrismo perché conosco bene il valore che ha avuto... ma questo non mi impedisce di considerare l´odierno regime cubano, un regime non solo lontano ma inconciliabile con l´idea di una sinistra moderna: l´opposto». Parla della mancanza dei presupposti fondamentali della democrazia. Apriti cielo. Anche oggi una pagina intera del quotidiano sarà occupata dalle reazioni sdegnate, dal "processo" che i dirigenti trotzkisti e operaisti annunciano di volere fare in direzione, domani. Senza escludere la richiesta di dimissioni del direttore. Per Sansonetti si annuncia un lunedì di fuoco: l´ambasciatore di Cuba a Roma lo ha "convocato" per una franca discussione.
Ma anche per il segretario di Rifondazione, Franco Giordano domani non sarà una passeggiata. Se Giordano si aspettava in direzione un clima teso sulle pensioni e il "tesoretto", imprevisto è lo scontro su Fidel Castro, su Cuba all´epoca del fratello Raul e, in definitiva, sull´identità di Rifondazione. Bertinotti - dicono i bene informati - si sarebbe complimentato per il «coraggio» di Sansonetti. Una come Rina Gagliardi, comunista storica, senatrice del Prc, apprezza e rilancia: «Non è uno strappo. Stiamo da tempo discutendo di una cultura politica da cui venga eliminata ogni traccia di fondamentalismo. E questo vale anche per Cuba. Ci sono compagni che hanno la mitologia di Cuba, io non l´ho mai condivisa». Come critico è stato il «compagno Pietro Ingrao», ricorda Gagliardi, anche se è chiaro che in alcune fasi «bisognava difenderla Cuba».
Il malumore dei rifondaroli è tale che non riguarda solo le ali estreme del partito. Fabio Amato, responsabile esteri, ha preparato un intervento per Liberazione nel quale parte dalle questioni generali e conclude lapidario: «È stata una rappresentazione riduttiva quella del quotidiano. Cuba è accerchiata. Quando c´è da criticare, noi lo facciamo ma dipende dai temi». Gennaro Migliore, presidente dei deputati del Prc ed ex responsabile esteri, al congresso di Rifondazione del 2005 aveva criticato Cuba sulla pena di morte, tuttavia adesso anche lui è scettico soprattutto sui «cinque eroi» spacciati come semplici «spie». «Caro direttore non trovo parole per esprimere la mia indignazione...», esordisce il senatore Claudio Grassi, di "Essere comunisti". È la «dose settimanale di anticastrismo» secondo il senatore Fosco Giannini e Alessandra Riccio. La "storica" compagna Bianca Bracci Torsi chiede: «Quale organismo del mio partito ha consentito una campagna contro Cuba...». Sansonetti la definisce invece «un´operazione-verità». E ammette: «Non mi aspettavo reazioni così dure, non credo però che nella maggioranza del partito resista il mito di Cuba».

Liberazione 2.6.07
Intervista al filosofo e direttore della Fondazione Basso che punta l'indice contro la recente
esternazione del presidente di Confindustria e i rischi di nuove disuguaglianze
Marramao: «Montezemolo? Una retorica del merito grave e discriminatoria»
di Vittorio Bonanni


Docente di Filosofia politica all'Università "Roma tre" e direttore della Fondazione Basso, Giacomo Marramao è sicuramente uno degli intellettuali più prestigiosi della sinistra italiana. Un interlocutore autorevole dunque al quale chiedere un'opinione sugli sviluppi del quadro politico italiano e sulla recente esternazione di Luca Cordero di Montezemolo. Il presidente della Confindustria aveva denunciato la mancanza di una classe politica in grado di governare il Paese e riesumati termini come merito e meritocrazia, elementi cardine, secondo il suo parere, per rifondare l'Italia. Proprio su questo punto abbiamo invitato Marramao a riflettere. «Qui accorre intendersi su cosa significa la parola merito - dice il filosofo - Io mi sono formato in una università che era quella dei grandi maestri, dove il merito veniva assolutamente considerato. Certamente va precisato che a livello di società complessiva non si è valutato sempre il merito ma in realtà altre prerogative, come per esempio quella dell'appartenenza della persona ad un determinato orientamento. Hanno prevalso così logiche di fedeltà o di appartenenza politica appunto rispetto alla valutazione obiettiva».

Una caratteristica della Prima repubblica, non crede professore?
«Questa sottovalutazione del merito è stata una prerogativa non tanto della sinistra quanto della logica di potere democristiano che ha favorito una politica della protezione e dell'assistenza soprattutto delle componenti che erano legate alla grande area che la Democrazia cristiana in qualche modo rappresentava insieme ad i suoi alleati. Il posto di lavoro era diventato un elemento di scambio rispetto alla fedeltà politica ed elettorale. Questo è stato un dato che ha caratterizzato in qualche modo la vicenda dello stato assistenziale italiano che da questo punto di vista è stato molto diverso dal welfare state della grandi esperienze socialdemocratiche europee, dal Regno Unito alla Germania passando per i paesi scandinavi. Da questo punto di vista se noi poniamo il merito in contrasto con il posto di lavoro inteso come scambio in relazione ad una fedeltà politica o elettorale, è del tutto evidente che la cosa è giusta».

Anche se adesso si rischia di passare ad una sorta di esaltazione del merito, non crede?
«Certamente. Ho l'impressione che adesso stia prevalendo una sorta di retorica del merito che non tiene conto del fatto che in ogni ambito della società, soprattutto di una società come la nostra, globalizzata, si possano creare delle disuguaglianze molto dure che si verificano sulla base di determinati criteri di valutazione, ora connessi ad una malintesa idea di performatività e di efficienza del sapere legata, tanto per intenderci, alle famose tre "i" berlusconiane: informatica, inglese e impresa. Tre "i" che sono passate in larga parte nella concezione del merito della cultura di una parte della sinistra italiana. Questa retorica è pericolosissima perché determina una discriminazione non tra le persone veramente meritevoli e quelle che lo sono di meno, ma tra coloro che appunto rispondono di più a questi criteri e quelli che non rispondono».

Come si può contrastare questa tendenza?
«Bisognerebbe favorire una politica della formazione, della scuola e in prospettiva del lavoro, che sia in grado di promuovere le facoltà e i talenti di ciascuna persona e cominciare a dire con forza che il diritto al lavoro è uno dei diritti fondamentali della persona».

In questo senso appare paradossale l'affermazione di Montezemolo, che sembra non tenere conto che il lavoro, anche quello qualificato, è ormai estremamente precarizzato...
«E' assolutamente un paradosso, e rischia di essere una retorica del merito che in realtà ha come suo risvolto una pratica effettiva delle nuove disuguaglianze che si vengono a determinare. Il punto di partenza di una politica seria della sinistra dovrebbe essere basata sulla lotta contro il precariato e contro il lavoro e il merito usati come arma a questo punto non più di scambio, come avveniva nella politica assistenziale democristiana, ma di ricatto: o tu ti modelli sulla base degli standard delle tre "i" o altrimenti sei fuori dal mercato del lavoro. In Italia già si stanno costituendo delle ridicole università o scuole superiori che dovrebbero corrispondere a questi standard di formazione, dove gli allievi "bravi" e "meritevoli" sono quelli che più si conformano appunto a quegli standard. Una cosa di questo genere la trovo molto pericolosa e naturalmente contro il diritto allo studio e al lavoro».

Ua tendenza che potrebbe innescare un meccanismo competitivo deleterio...
«Il rischio è appunto un logica di tipo socialdarwinista che ci farebbe fare molti molti passi indietro e che per certi versi sta riportando, per esempio, i settori dell'economia americana a livelli di negazione dei diritti che non si vedevano dall'epoca della prima rivoluzione industriale».

Tornando a Montezemolo, come valuta uno scenario, come quello italiano, caratterizzato da una crisi profonda della classe politica e che potrebbe dare spunto ad avventure pericolose per la nostra democrazia?
«Montezemolo ha detto una cosa assolutamente ovvia, cioé che manca alla politica un progetto paese. Naturalmente si potrebbe anche fare una facile ritorsione: non si vede dove stia il progetto paese del ceto imprenditoriale italiano. Semmai di progetti ne ha tanti e sono tutti estremamente eccentrici. Insomma non mi sembra che la borghesia imprenditoriale italiana esprima un ceto dirigente degno di questo nome.
Comunque non c'è dubbio che la politica italiana non vola alto. A questo punto credo sia necessario un esame di coscienza serio di questo paese. La sinistra ha dimostrato in maniera caricaturale i propri limiti insiti nella difesa innanzitutto delle nomenclature e delle logiche di apparato. E non compie quella prima operazione che la politica deve compiere: quel rimescolamento delle carte rispetto al ceto politico che richiede naturalmente anche dei sacrifici. Alcuni che non sanno fare politica devono farsi da parte. E quelli che non sono stati capaci di capire i mutamenti che avvengono nella società devono appunto farsi da parte. E non è una questione banalmente generazionale. Ci sono dei trentacinque-quarantenni altrettanti sordi dei settantenni. Certo, è anche vero che a livello statistico c'è in Italia un problema generazionale. Ma bisogna affrontarlo partendo non dalla facciata o dall'immagine ma dai contenuti effettivi che ciascun leader o militante politico è in grado di esprimere. Esistono oggi nella societ� italiana straordinarie competenze, straordinarie esperienze sociali e di militanza politica che non sono state assolutamente valorizzate. Esistono dei punti alti del sapere che non vengono assolutamente ascoltati dai politici. Io penso che da lì si deve cominciare e credo che la sinistra debba elaborare un suo programma effettivo: per un verso aprire in futuro ad una società che sia più dinamica e in grado di avviare processi di trasformazione in qualche modo liberatori attraverso una nuova cultura da socialismo libertario. Dall'altro, ed è questa la quadratura del cerchio, deve impostare una politica di riaffermazione dei diritti fondamentali e fra questi, oltre a quello della libertà e dei diritti civili più in generale, c'è il diritto al lavoro. E dunque il diritto a veder riconosciute e promosse le proprie capacità e i propri talenti e costruire in qualche modo un sistema di formazione e di organizzazione del lavoro che sia funzionale a tutto questo.

sabato 2 giugno 2007



















le immagini qui pubblicate sono tratte, nell'ordine, da Repubblica la prima, dal Corsera le seconde due e sempre da Repubblica l'ultima


































Auditorium Parco della Musica - Roma
2 giugno 2007
clicca sulle immagini per ingrandirle
fotografie di Barbara De Luca
l’Unità 2.6.07
Il leader di Rc con gli allievi dello psichiatra. Si inchina a Marx e rivaluta Celine scrittore
Bertinotti si esalta con i «fagiolini»
di Giuseppe Vittori


La sinistra alternativa, in Italia e in Europa, ha il «grande compito storico» di riorganizzarsi con l’ambizione «di diventare protagonista del futuro della Ue». La «nuova politica» della sinistra deve raccogliere dei «lasciti importanti» dalla sua storia, uno su tutti il pensiero «imprescindibile» di Karl Marx, ma deve essere consapevole che «senza ripensamenti» non potrà riprendere il suo cammino. Il ragionamento, firmato Fausto Bertinotti, non è nuovo. La platea invece è quella molto «comunista», nelle modalità di incontro (sedute di analisi collettive, pubbliche e gratuite) più che nell’aspetto, dei «fagiolini», gli adepti dello psichiatra Massimo Fagioli, che dal 1975 porta avanti seminari di ricerca collettivi sulla psiche umana, con la convinzione, ribadita oggi, che tale ricerca sia un’esclusiva della sinistra. Davanti all’accoglienza attenta e calorosa di 1200 persone, riunite nella sala Sinopoli dell’Auditorium (altre 700 si sono dovute accontentare di seguire l’evento dal maxischermo nella più piccola sala Petrassi), Bertinotti, però, smentisce la convinzione del popolo di Fagioli: «La ricerca può avvalersi del contributo di pensieri reazionari; la sinistra per troppo tempo si è cullata nell’idea che la destra fosse ignorante e rozza». Un’idea che, confessa, ha accompagnato anche parte della sua storia personale: «Ho pensato per molti anni che bene e sinistra fossero equivalenti e cioè che la collocazione di sinistra fosse in grado di produrre il giusto e che le buone ricerche fossero tendenzialmente di sinistra». Ora però «credo che purtroppo non sempre si possa avere questo elemento rassicurante e che la destra non è sempre priva di una capacità di ricerca». Per dimostrarlo Bertinotti porta due esempi: «Una volta se mi si chiedeva di Sironi, preferivo parlare di Picasso. Ora nel mio studio ho un suo quadro ed è uno spettacolo commovente». E ancora, lo scrittore Celine: «È antisemita, ma la sua ricerca sulla scrittura è imprescindibile». Il popolo dei fagiolini non fa una piega, applaude ad ogni intervento di Bertinotti e, al termine del dibattito, durato 3 ore, gli regala una standing ovation che lo fa commuovere. Per loro nulla è cambiato dal 5 novembre del 2004 quando a Villa Piccolomini incontrarono l’allora segretario del Prc. «I termini socialismo e comunismo - spiega Bertinotti (da ieri in edicola la sua rivista - all’inizio del terzo millennio sono stati sconfitti ma occorre rimettersi in cammino», «appartengono ad un mondo che non c’è più ma l’anelito non è finito» anche perché «la società in cui stiamo non è accettabile». E allora, rileva l’ex segretario del Prc, «la sinistra italiana è ad un bivio: ha esaurito la sua funzione di pars destruens, che pure ha portato i suoi elementi di innovazione come la non-violenza, e occorre che entri nella pars costruens con l’ambizione più rilevante del semplice intervento nella sfera economico-sociale: la sinistra alternativa deve produrre una cultura che determini egemonia», nella nozione gramsciana. «Questo - rileva Bertinotti - è un grande compito storico». Per esempio ritrovarla al Nord, con un nuovo «Vento del nord».

Corriere della Sera 2.6.07
Il presidente della Camera a un incontro con i «seguaci» dello psicanalista Massimo Fagioli. «Bene e sinistra non sono equivalenti. Lo scrittore francese e il pittore lo dimostrano»
Bertinotti ritrova i «fagiolini». E cita Céline e Sironi
di Fabrizio Roncone


PSICHIATRA. Massimo Fagioli porta avanti seminari di ricerca collettivi sulla psiche umana REGISTA. C'era anche Marco Bellocchio tra gli ospiti "illustri" dell'incontro

ROMA — La scena finale spiega molto, quasi tutto. Sul palco della Sala Sinopoli, qui, all'Auditorium, c'è Fausto Bertinotti che — occhi liquidi, voce rauca, una commozione nient'affatto trattenuta — saluta la platea con la quale ha dibattuto per oltre tre ore e che, adesso, lo congeda con un applauso insistito, eloquente, vien da scrivere appassionato. Lo sguardo scorre sui ranghi di studenti, di psichiatri, di psicologi e docenti, sul piccolo formidabile esercito di «fagiolini» che l'ex guru degli anni Settanta, l'ex giovane e talentuosa promessa della psicanalisi freudiana, scossa fino a guadagnarsi l'esaltante e faticosa fama di eretico, che il professor Massimo Fagioli, appunto, ha guidato questa mattina innanzi al Presidente della Camera.
Esiste un solido legame tra la popolazione dei cosiddetti «fagiolini» — sono proprio loro, con sofisticata ironia, a definirsi così — e Fausto Bertinotti. Egli li incontrò l'ultima volta nella loro libreria di riferimento, «Amore e Psiche», e l'occasione era, politicamente, assai importante: l'allora gran capo di Rifondazione comunista presentava infatti la propria candidatura alle primarie dell'Unione (pomeriggio del 26 luglio 2006, centro storico di Roma, caldo torrido, bandiere rosse). Tuttavia, l'incontro al quale abbiamo appena assistito ha, se possibile, un peso maggiore. Bertinotti è venuto a dire cose non proprio scontate, a una una platea che adora definirsi comunista, che da anni si ritrova periodicamente in sedute di analisi collettive, pubbliche e gratuite, che sfrontatamente spiega come la ricerca sulla psiche umana sia un'esclusiva dell'essere umano di sinistra.
Ebbene, questa platea si è sentita spiegare da Bertinotti che «la sinistra, purtroppo, ha il torto di essersi per troppo tempo cullata nell'idea che la destra fosse rozza e ignorante». L'ex lider maximo del Prc ammette: «Io stesso, per anni, ho pensato che "bene e sinistra" fossero equivalenti e quindi che la collocazione di sinistra fosse in grado di produrre il giusto e che pure le buone ricerche fossero, tendenzialmente, di sinistra». Lo ascoltano in un silenzio profondo. «Vi faccio un paio di esempi». Così parla di pittura. «Una volta, se mi chiedevano un giudizio su Sironi... beh, rispondevo che preferivo ragionare su Picasso. E invece, ecco, adesso nel mio studio a Montecitorio ho proprio un Sironi e vi dico, credetemi, è uno spettacolo commovente...». Ha cambiato idea anche su uno scrittore emblematico come Louis-Ferdinand Celine: «Va bene, certo, è antisemita... ma non si può prescindere dalla sua ricerca sulla scrittura».
Non si può prescindere, naturalmente, «neppure da Carlo Marx». E tuttavia, partendo da questo, Bertinotti ammonisce: «Se però la sinistra alternativa, in Italia e in Europa, vuole assolvere al suo grande compito storico di riorganizzarsi, deve sapere che senza ripensamenti, senza indagare in nuovi territori, non potrà di certo riprendere alcun cammino».
A questo punto sono cominciati ad arrivare i primi applausi, i fotografi hanno cercato lo sguardo soddisfatto della moglie Lella e quello assorto del registra Marco Bellocchio. A turno, microfono in mano, si alzavano «fagiolini» pieni di interrogativi e, a volte, di provocazioni: e non sono stati pochi quelli che, con malcelata disinvoltura, hanno dato sfoggio di cultura. Per arrivare a fare una domanda su Fabio Mussi, «lo scissionista», c'è chi è partito da Platone, passando per Lenin e planando su Enrico Berlinguer.
Tre ore andate via così. Appena accennando al motivo ufficiale dell'incontro, che era l'uscita del primo numero di «Alternativa per il socialismo», la nuova rivista diretta dal Presidente della Camera. Il quale, ora, è addirittura atteso fuori, sul limitare della cavea. In una bolgia di evviva, di applausi, di ragazze che mandano baci.
Ecco, questa diventa l'ultima scena. Nella quale entra Mario D'Urso, ex senatore, avvocato, uomo di mondo. «Mio caro Fausto, ma è un autentico trionfo...».

Repubblica 2.6.07
L'Incontro
Tre ore di dialogo con i seguaci dello psicanalista: comunismo in macerie, ma l´oppressione c'è ancora
Bertinotti abbraccia il guru Fagioli "Niente socialismo senza felicità"
di Alessandra Longo


Sironi. Anche a destra c´è ricerca. Nel mio studio ho una tela di Sironi che è commovente
Celine. Fu antisemita, ma non si può negare che sia un´espressione importante della modernità

ROMA - Ecco «l´unico comunista che si interroga sulla realtà umana! Presidente Bertinotti, è colpa sua, del suo cammino, se noi pensiamo che sia assolutamente necessario avere un rapporto con lei». Auditorium di Roma, sala Sinopoli, 1200 posti tutti occupati, più una sala altrettanto affollata, da 700 poltrone, con maxi schermo. I seguaci dello psicanalista Massimo Fagioli sono venuti a sentire il lider maximo di Rifondazione. E´ standing ovation fin dall´inizio. Migliaia in piedi quando il presidente della Camera arriva e Fagioli, impermeabile Loro Piana, in tasca una copia di Liberazione, se lo prende sotto braccio. Bertinotti s´inchina, si mette la mano sul cuore. Li stregherà tutti quando dirà. «Il comunismo è stato sconfitto, ma non la necessità della liberazione dall´oppressione e dallo sfruttamento».
Non è la prima volta che si consuma l´incontro, quasi una saldatura, tra il presidente e il cosiddetto popolo dei «fagiolini», un popolo-comunità che è quasi una chiesa. Galeotta fu Giulia Ingrao, la sorella di Pietro, anche lei conquistata dall´autore di «Teoria della nascita e castrazione umana». Era il 4 novembre del 2004 quando Bertinotti partecipò alla prima Analisi Collettiva, nella cornice di Villa Piccolomini. Fascinazione immediata tra i due. Ma Fagioli, detto il guru, che ha sedotto Marco Bellocchio, e anche l´editore di «Left» Luca Bonaccorsi, respinge l´idea di poter essere l´ispiratore del nuovo corso bertinottiano: «So che cosa pensate di me da quarant´anni, sono il cattivo ragazzo, l´eretico che plagia, quello che considera Freud un imbecille. Con Fausto c´è convergenza praticamente su tutto, ma semmai sono io legato a lui e non il contrario».
Analisi collettiva, dunque, come usa Fagioli. L´occasione è l´uscita del primo numero di «Alternative per il socialismo», la rivista diretta da Bertinotti. Il tema è «La cultura socialista». Fagioli si mette seduto in prima fila. Ci sono Giulia Ingrao, Lella Bertinotti, accanto a Mario D´Urso (che segue ma è anche preso da un problema di frac per un ricevimento a venire), ecco Rina Gagliardi, Sandro Curzi, Gennaro Migliore, in verità un po´ spaesati. Il presidente della Camera è solo sul palco, con Luca Bonaccorsi. Ci starà per tre ore, sottoposto a 11 interventi dalla sala che toccano lo scibile: il rapporto tra psichiatria e politica, tra razionale e irrazionale, tra fede e ragione, i difetti dell´Illuminismo, la cultura greca, il logos occidentale, ma anche, qua e là, frasi di Marx e di Mussi. Bertinotti prende appunti e non lascia nulla di inevaso. La fine del comunismo, per esempio: «La storia non si riduce solo alle sue macerie. Il problema delle diseguaglianze, della mercificazione dell´uomo c´è ancora. Io penso che il punto più alto della politica sia stato la nozione di rivoluzione, che non è la presa del Palazzo d´inverno, ma un processo di liberazione. In questo senso la scelta della non violenza costituisce la rottura con il passato per la sinistra di alternativa». E allora ecco che cosa dovrebbe essere la sinistra di alternativa, quella che va cercando, interrogandosi contemporaneamente sull´uomo. «Una nuova sinistra - dice Bertinotti - deve camminare su due gambe: su ciò che non sappiamo dell´uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello sfruttamento e dell´oppressione della società». Fagioli applaude: «Ottima impostazione, è anche la mia ricerca».
Bertinotti confessa la sua ambizione: «In Italia ci vuole una sinistra capace di influenzare la storia della comunità europea, non di cercare qualche deputato in più». Una sinistra che non butti via Marx, ancora «imprescindibile», perché «politicamente parlante» ma oltrepassi la lezione marxiana esplorando «campi non indagati come quello della profondità umana». Troppo teorico? No, c´è anche un riferimento ai risultati elettorali al Nord: «Andrebbero studiati per mesi perché si è verificata una riorganizzazione complessa tra economia, lavoro e persone. Se vieni spiantato lì vuol dire che stai a zero con il processo egemonico e se stai così non c´è salvezza. O meglio c´è se riesci a produrre una cultura in grado di prevalere sulle paure e il sentimento di antipolitica. Se non fai questo nelle valli prealpine non ti schiodi». Lo ascoltano rapiti, soprattutto quando dice che «non si può contribuire alla causa del socialismo senza cercare anche la propria felicità individuale». Ma anche lui è rapito da loro, da quelle giovani psichiatre che recitano con voci profonde brani presi da «Left» o dal suo libro «La città degli uomini».
Solo un contrasto. I «fagiolini» pensano che la ricerca nel profondo sia esclusiva della sinistra. Lui no: «Per molti anni ho creduto che il bene e la sinistra fossero equivalenti, che ogni buona ricerca fosse una ricerca di sinistra». Adesso confessa di guardare con «commozione» la grande tela di Sironi che ha dietro le spalle nel suo ufficio alla Camera: «Un tempo se mi chiedevano di Sironi, rispondevo parlando di Picasso». Destra rozza e ignorante? «Prendete Celine - dice Bertinotti alla platea - è certamente uno scrittore antisemita, ma non si può negare che sia un´espressione importante della modernità». Spariglia, più eretico di Fagioli.

il manifesto 2.6.07
L'irrazionale Fausto conquista i «fagiolini»
di Andrea Fabozzi


Tra i molti amici di Fausto Bertinotti, non tutti approvano la sua simpatia per lo psichiatra Massimo Fagioli. Simpatia che è ormai una consuetudine. Prima dell'incontro di ieri con duemila pensosi ma entusiasti accoliti dell'analisi collettiva, altre due volte l'allora segretario di Rifondazione aveva incontrato in pubblico le folle fagioline. La prima nel 2004 e c'era anche Pietro Ingrao, la seconda per presentare in una libreria progettata dal genio architettonico di Fagioli la sua candidatura alle primarie dell'Unione. Era l'estate del 2005. Adesso Bertinotti è il presidente della camera è non è più la stessa cosa. Parla con la consueta scioltezza di cultura politica ma evita questioni politiche contingenti anche se poi vezzosamente spiega che «non è male non dover parlare del governo». Non tutti approvano la simpatia per Fagioli, tornato sulla breccia dopo i fasti degli anni Settanta e i rovesci degli Ottanta, ma tutti capiscono che il presidente non può rinunciare all'affetto dei fagiolini. Che sono tanti, quanti non si vedono più nelle occasioni di partito che peraltro Bertinotti ormai poco frequenta. E sono appassionati, lo applaudono per minuti, intervengono citando a dovere Liberazione e Left. Alla fine lo commuovono tanto da fargli rinunciare all'ultima parola.
Auditorium di Roma, nella sala Sinopoli sono tutti già in piedi quando Bertinotti entra scortato da Fagioli che, discreto, non lo accompagna sul palco ma si ferma in prima fila. Dove ci sono anche la moglie del presidente della camera signora Lella e l'amico della coppia Mario D'Urso, il capogruppo di Rifondazione alla camera Migliore, la senatrice Gagliardi e il consigliere della Rai Sandro Curzi. C'è un'altra sala altrettanto piena dove si segue l'evento sul grande schermo. Chi è abituato agli incontri politici resta spiazzato dalla liturgia dell'analisi collettiva. Ma Bertinotti non fa una piega davanti a interventi di trenta minuti, tutti meditati e poi dattiloscritti e lentamente pronunciati con lo stile di una confessione. Che girano intorno alle parole chiave del «metodo» Fagioli: «trasformazione», «irrazionale», «realtà umana». E poi si stringono in domande un po' così, tipo «la ricerca e la cultura sono solo di sinistra?», «il comunismo ha fallito perché ha ignorato l'irrazionale?», «il comunismo è ormai sedotto e avvolto dalla parola socialismo?». Bertinotti accoglie tutto. La questione del socialismo, poi, gli interessa specialmente. Del resto sta presentando la sua rivista Alternative per il socialismo e spiega che è un po' un ritorno alle origini «quando i termini comunismo e socialismo erano equivalenti e interscambiabili». Non cita Marx, Bertinotti, ma Walter Benjamin e la storia che «non si riduce mai alle sue macerie» e dunque la sconfitta del comunismo «non cancella la necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento».
Quanto all'irrazionale, poi, il marxista Bertinotti non ha problemi. Al punto da raccomandare alla «nuova sinistra» di «camminare su due gambe: quello che non sappiamo dell'uomo e quello che possiamo sapere delle forme di oppressione della società contemporanea». Il discorso si allarga davanti a un pubblico ovattato nell'ascolto e fragoroso nel consenso: «Non si può contribuire alla causa del socialismo senza cercare la propria felicità personale», teorizza il presidente. Stufo dell'«atteggiamento del sacrificio della militanza che aleggia a sinistra». E Bertinotti è certo felice dell'attenzione che riceve, dello «straordinario interesse alla cultura politica». Sarà dunque un contributo alla causa del socialismo persino spiegare che no, non tutta la cultura è di sinistra perché ci sono stati Sironi e Celine, per stare sul facile. Dalla reazione di fulminea ma entusiasta persuasione la platea - che pure è piena di psicanalisti laureati - sembra scoprirlo in quel preciso momento. Fagioli in prima fila e in bella compagnia tace.
Ma è come se parlasse, perché chiunque interviene, secondo un ordine prestabilito, legge al microfono interi passi della tempestosa rubrica settimanale che Fagioli parcheggia su Left, che - forse per non avercela sottocchio - arriva un po' contorta. Ma non a Bertinotti, che non sfugge ad alcuna sollecitazione. Nemmeno quando si tratta di «recuperare la profondità umana in quel terzo della nostra vita che è il sogno». L'ultimo applauso saluta insieme lo psichiatra eretico che finalmente si concede e il presidente della camera. Che promette un quarto appuntamento, magari nella sala più grande che stavolta era occupata da un altro evento sulla fortuna dei Beatles. Maledetti, irripetibili anni Settanta.

il Riformista 2.6.07
Izquierda 1. Grande folla ieri all'Auditorium di Roma
Bertinotti spiazza il popolo di Fagioli
«La buona cultura non è solo di sinistra»


Non sono stati sufficienti i 1.200 posti della sala Sinopoli dell’auditorium di Roma per accogliere «l’analisi collettiva» che lo psichiatra Massimo Fagioli organizza da molti anni per i suoi psicologi, psichiatri, pazienti e fan, e che ieri ha avuto come protagonista il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Dopo aver esaurito in poche ore i biglietti distribuiti gratuitamente nei giorni scorsi dalla libreria romana «Amore e Psiche», gli organizzatori sono ricorsi a un’ulteriore sala da 700 posti, dove l’incontro è stato ripreso sul maxischermo. Un feeling, quello tra il leader della sinistra alternativa e questo numeroso gruppo che si occupa di ricerca sull’irrazionale, iniziato con l’incontro sulla non violenza del 5 novembre 2004 a villa Piccolomini e proseguito con la scelta - già allora sorprendente, da parte di Bertinotti - di presentare la sua candidatura alle primarie dell’Unione, il 26 luglio del 2005, proprio alla libreria fagioliana «Amore e Psiche» al Pantheon.
Bertinotti ha toccato molti argomenti, affrontando il tema della sfida di un nuovo socialismo che, ha detto, deve mettere insieme «quello che ancora non si sa delle donne e degli uomini con quello che già sappiamo sulle lotte del proletariato». Fagioli - comparso solo all’inizio e alla fine, per accogliere e salutare l’ospite - gli ha fatto eco sull’ultimo numero della rubrica «Trasformazione» che tiene sul settimanale Left dove, mettendo in relazione socialismo e immagine femminile, ipotizzando che il comunismo abbia tradito le sue origini socialiste proprio perché «ha abbandonato l’immagine della donna». E, di conseguenza, la ricerca sulla dimensione irrazionale umana.
«La ricerca sul cosciente è solo di sinistra», è il concetto che Fagioli rilascia ai cronisti prima dell’incontro. Concetto su cui sembra sintonizzarsi la platea. Che però viene spiazzata dal presidente della Camera, secondo cui non si può più sostenere che la destra sia «rozza ed ignorante» e che non si può dire che se una ricerca è «buona non può che essere di sinistra, altrimenti è reazionaria per definizione». «Per molti anni - dice Bertinotti - ho pensato che il bene e la sinistra fossero equivalenti, che la cultura di sinistra potesse procedere senza errore, che ogni buona ricerca fosse una ricerca di sinistra. Credo purtroppo che questo elemento rassicurante non si può più sostenere, così come quello secondo cui la destra sia sempre priva di capacità di ricerca».
Parole quanto mai chiare e soprattutto inattese visto chi è a proferirle. Il presidente della Camera chiarisce poi ulteriormente la sua idea e cita lo scrittore “maledetto” Louis-Ferdinand Cèline, rivalutando il razionalismo in architettura e la pittura metafisica, ma anche la pittura di Mario Sironi, di cui tiene un quadro nel suo ufficio a Montecitorio. «Non si può ridurre - sostiene - tutta l’esperienza umana alle categorie di destra o di sinistra: la ricerca deve essere “aperta”. Per troppo tempo si è identificata la destra come priva di cultura, rozza e ignorante. Ma se prendete Cèline, che è certamente uno scrittore antisemita, non si può negare che sia un’espressione importante della modernità».
Poi Bertinotti parla di comunismo e socialismo, una volta considerati «termini intercambiabili». «La storia - dice - non si riduce mai soltanto alle sue macerie e una sconfitta non segna per forza in modo negativo il valore di una esperienza». La sconfitta della «storia grande e terribile del comunismo non cancella il problema della necessità della liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento. Tanto più nella fase attuale dominata dalla globalizzazione, dalla mercificazione totale delle cose, ma anche degli uomini. Questa società in cui siamo è accettabile oppure no? Io penso di no e, allora, per la politica non c’è concetto più alto che quello di rivoluzione, del trascendere l’ordine delle cose esistente. Non certo una rivoluzione che preveda l’assalto al Palazzo d’Inverno o metodi di tipo golpista, perché - aggiunge - quella che non regge più è l’idea che prima c’è la presa del potere e poi la sua trasformazione. La rivoluzione deve essere un processo di liberazione e in questo senso la non violenza costituisce la rottura con il passato per la sinistra di alternativa». L’incontro si chiude tra gli applausi. Con il presidente soddisfatta per tanto «interesse alla cultura politica». Nessuna domanda su Prodi e sugli affanni a Palazzo Chigi, il che fa concludere a Bertinotti che «non dover parlare del governo non è poi male».

Liberazione 2.6.07
Bertinotti sfida le certezzea sinistra. E rivaluta Sironi
Il presidente della Camera per tre ore in "analisi collettiva" con il popolo di Fagioli
di Angela Mauro


La prima volta, tre anni fa. Era il 5 novembre 2004. Pioveva, ma davanti a Villa Piccolomini un'interminabile fila di "fagiolini" attendeva, con la pazienza tipica di chi pratica l'Analisi collettiva di Massimo Fagioli, di entrare in una sala però già piena. Così come era piena la piccola libreria di "Amore e psiche", sempre "fagiolina", nel giorno del lancio delle primarie di Fausto Bertinotti, segretario del Prc, a luglio 2005. La terza volta si è consumata ieri all'Auditorium Parco della Musica: pienone anche qui, 1.200 persone nella "Sala Sinopoli", altre 700 nella più piccola "Petrassi" dove è stato allestito un maxischermo.
L'incontro tra l'uomo, che nel frattempo è diventato presidente della Camera e direttore della rivista Alternative per il socialismo (coincidenza: da ieri in edicola il primo numero), e i seguaci dello psichiatra Fagioli è sempre una certezza, in termini di partecipazione fisica e attrazione intellettuale. Quasi una forma di innamoramento nei confronti del traghettatore della non-violenza nel comunismo (impresa compiuta proprio nel 2004), al momento impegnato nella ricerca politica e culturale che torna alle origini pre-Urss (quando «socialismo e comunismo si equivalevano»), senza perdere Marx («imprescindibile»), ma ponendosi l'obiettivo di «oltrepassarlo verso campi da lui non indagati: la profondità umana».
Galeotta fu la non-violenza, ma adesso nel rapporto c'è molto di più. Nell'incontro di Analisi collettiva sulla "Cultura socialista", i "fagiolini", con fare riposato, non misurato e po' teatrale, vogliono sapere da Bertinotti se «la ricerca sulla realtà mentale umana è di sinistra», se «la scelta di rimettere in gioco la sua identità fondando una rivista sia razionale o irrazionale», se «c'è dell'irrazionalità nel comunismo e se abbia contribuito al suo fallimento». Domande elaborate, quasi bibliche, che si esercitano esse stesse in spunti di risposta cervellotici, almeno per chi "fagiolino" non è.
Più concreto il moderatore Luca Bonaccorsi, direttore editoriale di Left : «Nel tuo primo editoriale per Alternative non c'è la parola comunismo. Era impossibile rifondarlo? Ci stai indicando che invece è possibile rifondare il socialismo?».Attentissimo a lasciarsi andare solo nell'analisi culturale, evitando gli affari correnti per restare nei ranghi del suo ruolo istituzionale, Bertinotti parte dal movimento operaio e dalla sua «sconfitta che non cancella però le ragioni per cui è nato». Anzi. Quanto accaduto dopo, cioè «il primato del mercato sulla politica riconduce all'origine: non si può accettare una società basata su oppressione e svuotamento».
Dunque, la politica. Che, argomenta Bertinotti, «ha toccato il suo punto più alto nella rivoluzione, e cioè nell'idea di poter trascendere l'ordine delle cose esistenti». La politica che, «monda dall'idea che la realtà sia segnata dal peccato originale, ci prova. A cambiare». Nulla a che fare con «l'assalto al palazzo d'inverno o la conquista golpista», perchè «l'idea di prendere prima il potere, che è esso stesso impastato dai rapporti di oppressione, e poi fare la rivoluzione vuol dire non fare i conti con la storia».
Forte della «educazione sentimentale» ispirata dai "Problemi del socialismo" di Lelio Basso, il presidente della Camera preferisce pescare nei tempi in cui «socialismo e comunismo erano equivalenti e interscambiabili», cioè prima che il lessico fosse «piegato alla ragion politica» (nell'Urss). Va avanti con Frei Betto: «Cosa recuperare dal '900? Il termine socialismo è ammaccato dalla storia, ma meglio di altri». E dunque è pronto per continuare a sciogliere pregiudizi e tabù della sinistra e preparare il terreno all'alternativa: «necessaria».
«Vi deluderò», esordisce, arrivando al punto centrale del dibattito. «Per tanto tempo ho pensato che il bene e la sinistra fossero equivalenti e che una collocazione a sinistra fosse in grado di produrre il giusto senza possibilità di errore e che tutte le buone ricerche fossero di sinistra». Ma? «Non si può avere questa rassicurazione. La sinistra si è cullata per molto tempo nell'idea che la destra sia ignorante e rozza e...ha tanti esempi con cui consolarsi». Risate in sala. Lui non si scompone, cita l'amato Louis-Ferdinand Céline e si confessa: «Provavo repulsione per l'arte del primo '900, mi scattava il paragone con il fascismo, piuttosto che di Sironi (futurista e convinto sostenitore del partito fascista, ndr.) preferivo parlare di Picasso. Oggi, nel mio ufficio della Camera, ho una tela di Sironi: è uno spettacolo commovente». Si tratta di "Composizione", trovata lì e non rimossa.
Insomma, spiegherà dopo, «io penso che gli ideali di giustizia e di libertà siano il bene e che la sinistra sia impegnata a rappresentarli, ma va abbandonata la presunzione che tu sei il bene e lui è il male. Bisogna indagare dentro tutte e tutti». Perchè il rischio, avverte Bertinotti, è il «fondamentalismo: ogni idea forte ne contiene le tracce, è il rapporto tra gli esseri umani che deve emendarlo». C'è il fondamentalismo «trionfante del mercato, quello religioso e quello delle culture». E la questione può essere ancor più sottile: «Ho conosciuto tanti militanti convinti del detto "Adda venì baffone" - racconta il direttore di Alternative - Eppure, non erano stalinisti». La politica «con la "p" maiuscola deve avere una sua capacità di fondazione autonoma. Laicità è far vivere una fondazione autonoma del progetto politico, cosa che i fondamentalismi vogliono mettere in discussione».
La nuova sinistra deve partire da qui. Dalla contrarietà (certo) ad una Costituzione Europea basata sulle radici cristiane («C'è un carattere fondamentalista che non può essere accettato»), ma anche dal fatto che non può limitarsi a derivare da Marx, che pure è «imprescindibile per il futuro». Il problema è «oltrepassare Marx», dice Bertinotti, non vanno fatte «le pulci alla storia, ma bisogna indagarla per vedere cosa serve per la libertà dell'umanità». E torna alla non-violenza: «La formula di Marx, "l'uomo violento ha sempre dominato sul debole", va scalzata, sennò è la catastrofe. La non-violenza non è roba da poeti e navigatori, ma la levatrice della nuova storia: non parla solo di poteri economici, ma anche di cosa impedisce una relazione fraterna».
Il consiglio ai «segretari dei partiti e ai portavoce dei movimenti» che si occuperanno di costruire la sinistra di alternativa in Italia («Non tocca a me, ma è un grande compito storico») è di compiere un «avanzamento culturale e organizzativo, altrimenti non ce la fai - dice il presidente della Camera - e non riesci ad influenzare la storia europea futura». Nell'immediato, si parta dal risultato delle amministrative che sono un «termometro». «La politica di sinistra - è il suggerimento - dovrebbe per mesi studiare il voto del nord Italia perchè è lì che sta intervenendo una riorganizzazione complessa del rapporto tra economia e lavoro. Lì c'è un sradicamento della sinistra in corso da 25 anni, dalla fine delle lotte operaie e studentesche degli anni '60. E se sradicata in quella realtà, non c'è salvezza per una sinistra di alternativa che voglia avere egemonia».
Obiettivo: liberare l'umanità. Mezzo necessario: liberarsi dai tabù del comunismo, anche a livello individuale. E i "fagiolini" si scaldano. Bertinotti cassa l'idea che «il limite della politica sia quello di non portare alla felicità individuale». Di più. Dice a chiare lettere di «non condividere quell'atteggiamento, che spesso aleggia a sinistra, improntato su sacrificio e militanza, e cioè che lavorare per una causa voglia dire fare sacrifici nella vita personale. Non si può contribuire ad una causa sociale e della sinistra senza cercare la propria felicità individuale: tra la ricerca identitaria individuale e quella collettiva, la sinistra deve saper costruire un rapporto dialogico».
Al termine della "terapia collettiva" durata circa tre ore e terminata con una lunga standing ovation, il presidente della Camera è soddisfatto e sollevato: «Riscontro un elemento straordinario di partecipazione, di interesse alla cultura politica. Non c'è stato un solo intervento che parlasse di governo, di Prodi, di Berlusconi o dei ministri. Nulla. Anche se - osserva ironico - non dover parlare del governo non è poi male...». Meglio tornare sulla aggregazione delle sinistre: «Siamo ad un bivio - dice anche parlando con i cronisti - esaurita la 'pars destruens' e quella della resistenza, attraversata anche da molti elementi di innovazione come la nonviolenza, stiamo entrando in una fase 'construens'...». La folla di Fagioli intanto l'ha seguito e accompagnato fino all'uscita dall'Auditorium. Strette di mano e ancora scambi e confronti a tu per tu, per chi è riuscito a farsi largo. E applausi scroscianti: lui che entra nell'auto blu, i "fagiolini" ancora fermi sulle gradinate a salutare l'ospite.

Latina Oggi 2.6.07
Ieri mattina tutto esaurito nelle sale Sinopoli e Petrassi
Bertinotti all’Auditorium
L’incontro con l’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli


«Oggi più che mai c’è bisogno di una nuova politica di sinistra». Il presidente della Camera Fausto Bertinotti lo ha detto nel corso del dibattito «Incontri dell'analisi collettiva: la cultura socialista», organizzato all'Auditorium della Capitale, con la sala Sinopoli gremita di circa 1700 persone, più altre 700 riunite in video-conferenza nella vicina sala Petrassi, tutte accomunate da un esperienza di cui il professor Massimo Fagioli è il riconosciuto ispiratore. «Riscontro un elemento straordinario di partecipazione, di interesse alla cultura politica», ha detto Bertinotti al termine dell'incontro definito dai promotori dell' «Analisi Collettiva», dedicato alla «cultura socialista» dopo la fine del comunismo.
Li.p
Agi 2.6.07 18:42
SINISTRA: FOLENA, DA BERTINOTTI E FAGIOLI SPINTA IN AVANTI

(AGI) - Roma, 2 giu. - Steccati e tabu' crollano inesorabilmente e cosi' la Politica incontra per la terza volta la Psichiatria e viene fuori un dialogo, un confronto di alto profilo culturale: dobbiamo essere grati a entrambi i protagonisti di un evento che e' parte di una grande impresa, costruire il nuovo socialismo. A parlare e' Pietro Folena, leader di 'Uniti a Sinistra' una delle componenti di 'Sinistra Europea', il giorno dopo l'incontro dell'Auditorium tra il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti e l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, due personaggi cui non manca affatto il coraggio. "Fagioli e la sua ricerca sul profondo potevano restarsene tranquillamente fuori dalla politica ed invece con coraggio ed audacia si gettano nella mischia e cosi' - spiega Folena - i due piani finiscono per toccarsi, mescolarsi, contagiarsi reciprocamente". E, allo stesso modo, "Bertinotti e la sua ricerca politica e culturale di strade nuove iniziata con la 'non violenza', vanno a confrontarsi con coraggio ed audacia con una ricerca sull'interiorita', sulla possibilita' di rimettersi in gioco continuamente". Insomma, il nuovo socialismo oltre il '900 si arricchisce di altri contenuti che riguardano la persona umana. "Abbiamo vissuto la scissione tra idee e splendide utopie di cui c'e' sempre bisogno e le persone con i loro comportamenti, i loro affetti, le loro passioni e la loro interiorita' - precisa Folena - per cui la crisi di cui soffre la Politica sta proprio in questo: non basta quel che dici, conta invece come sei, il modo d'essere. Proporre allora, come sta facendo coraggiosamente Bertinotti, una riflessione su se stessi, sulla propria vita, risponde ad una esigenza delle persone". Il contatto tra i due pianeti, iniziato il 5 novembre 2004 a Villa Piccolomini sulla 'non violenza', proseguito a luglio 2005 alla Libreria 'Amore e Psiche' sul programma per le primarie, ha trattato, il Primo Giugno 2007, all'Auditorium, presenti duemila persone, il tema: la cultura socialista. "Questa e' la grande impresa e sfida: costruire insieme al Presidente della Camera il nuovo socialismo che si nutre di un nobile filone, il socialismo di sinistra che ebbe - continua Folena - in Riccardo Lombardi uno dei maggiori protagonisti". Per cui, "non hanno piu' senso oggi le divisioni tragiche di un tempo tra comunisti e socialisti ne' tanto meno ha senso dire il comunismo non ha ragione d'esistere", avverte poi Folena. Il nuovo socialismo oltre il '900 non chiede pertanto ne' abiure ne' rinnegamenti essendo esso, "una ricerca continua, un lavoro quotidiano, iniziato con la 'non-violenza' come prassi politica - sottolinea Folena - e che tenta e vuole coniugare liberta' ed uguaglianza: insomma, non servono piu' i vecchi, seppur gloriosi, simboli del '900". Viceversa, l'incontro dell'Auditorium e l'uscita alla luce della rivista, "ci aiutano e ci danno una grossa spinta ad andare avanti, a proseguire questa entusiasmante impresa", conclude Folena. (AGI) Pat

Rosso di Sera 2.6.07
L' analisi collettiva e la ricerca bertinottiana sul socialismo del 21° secolo
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LIVIA PROFETI, CARLO PATRIGNANI, –
Un feeling in crescendo tra l’analisi collettiva di Massimo Fagioli e Fausto Bertinotti, che si sono incontrati per la terza volta all’Auditorium di Roma.

Un evento per il quale non sono stati sufficienti i 1200 posti della sala Sinopoli, alla quale sono stati aggiunti i 700 della sala Patrassi oltre alla diretta Internet, che ha registrato più di 1000 collegamenti. Una storia che, come ha ricordato il Preside della facoltà di Studi Orientali della Sapienza di Roma Federico Masini che ha introdotto l’incontro, è iniziata con il dibattito sulla non violenza del 5 novembre 2004 a Villa Piccolomini ed è proseguita con la scelta di Bertinotti di presentare la sua candidatura alle primarie dell’Unione, il 26 luglio del 2005 alla libreria fagioliana Amore a Psiche. Bisogna riconoscere indubbiamente un grande coraggio umano a Fausto Bertinotti, che a 67 anni ed all’apice di una carriere politica che lo ha portato tra le massime cariche dello Stato, ha deciso di affrontare la sfida di un nuovo socialismo che nelle sue parole deve mettere insieme «quello che ancora non si sa delle donne e degli uomini con quello che già sappiamo sulle lotte del proletariato». Insomma, quel bertinottiano “Marx necessario ma non sufficiente” ricordato anche nell’incontro di ieri assume sempre più l’aspetto di una coniugazione tra la tradizionale difesa degli oppressi ed una ricerca sull’identità umana.
Fagioli accoglie e saluta l’ospite “un personaggio storico” che “con tanta energia al massimo possibile della carriera politica si rimette, umanamente, in gioco” ma poi si fa in disparte per lasciare il campo agli interventi delle tante persone presenti, tra le quali molte donne. Un dialogo che sembra giovare al “ragazzo con la maglietta a strisce”, che nel giorno della nascita della rivista Alternative per il socialismo di cui è direttore, appare più in forma che mai nonostante la tosse e il raffreddore. Risponde con rigore e passione alle domande che gli vengono poste, senza sconti, da una platea che lo incalza con questioni complesse sul tema inedito dell’incontro tra il pensiero politico di sinistra e la realtà umana irrazionale. Perché questa è la ricerca specifica dell’Analisi collettiva, questo fenomeno unico nato nel 1975 non per intenzione di Fagioli, bensì come sua risposta medica all'iniziativa spontanea di una serie di persone che cominciarono ad affollare i locali dell'università dove egli teneva delle supervisioni. Psichiatra di fama, con al suo attivo esperienze importanti come quella nella clinica svizzera di Binswanger, Fagioli non rifiutò l'accesso a quella massa variegata: studenti, operai, intellettuali, artisti, tutti provenienti dai vari ambienti di sinistra dell’epoca. E quando la prima di queste persone raccontò un sogno, egli lo interpretò per così dire "in pubblico", sulla base della teoria della nascita umana che aveva elaborato nei tre volumi pubblicati tra il 1971 ed il 1974, a partire da Istinto di morte e conoscenza. Da quel momento, che può considerarsi l'inizio, l'analisi collettiva si è sviluppata in modo da raggiungere in pochi anni la frequenza di 4 seminari settimanali ciascuno della durata di 4 ore, e che ha finito con il coinvolgere migliaia di persone. Un fenomeno collettivo assolutamente libero e gratuito che, come è stato ricordato nell’incontro, da 35 anni riesce a coniugare quello che da sempre viene considerato impossibile: la dimensione irrazionale ed il rigore assoluto. Un fenomeno che evidentemente interessa la ricerca sul «socialismo del 21° secolo», che non può fare a meno, rispetto all’esperienza del passato, e Bertinotti ne e’ consapevole dell’interesse “per l’identità umana”, come ha evidenziato Fagioli.

Liberazione prima pagina 2.6.07
A Roma una bella giornata discutendo di Politica con Bertinotti
Un aula stracolma di giovani per interrogare il presidente della Camera
La cultura non è solo di sinistra...»
di Rina Gagliardi


A volte, la politica, quella con la P maiuscola, riserva qualche sorpresa. Quel grande salone dell’Auditorium di Roma - lo stesso che una settimana fa rigurgitava di padroni e padroncini “orgogliosi” di esserlo e di avere un capo come lo scudisciatore Montez. – ieri mattina si è incredibilmente riempito di giovani, di studenti, di professionisti – e cittadini curiosi. Una folla tutt’affatto diversa da quella confindustriale, venuta per confrontarsi e discutere con un interlocutore speciale come il presidente della Camera – sì, proprio quel Fausto Bertinotti contro il quale proprio quella sala aveva scatenato il suo eccitato dissenso. Quasi una legge del contrappasso. O un risarcimento. O una “vendetta” della ragione critica che, almeno per qualche ora, si è ripresa il suo legittimo posto.
Giacchè quel che colpiva, di primo acchito, era la quantità di persone che avevano voglia di dedicare una mattinata intera a discutere di alcuni grandi temi del nostro tempo: il socialismo, la persistenza delle religioni, il rapporto tra politica e “genere umano”, la violenza e la nonviolenza, i fondamenti dell’idea stessa di trasformazione – della società, del capitalismo, ma anche della mente e del cuore di cui ogni “irriducibile” persona è fatta. Ma non era certo soltanto una questione numerica. C’era emozione, in quella sala, e un fervore dell’accoglienza, se così possiamo dire, del tutto sconosciuta alle ritualità della politica. C’era un’attenzione straordinaria – non volava una mosca, non c’erano il solito viavai per i corridoi o il consueto chiacchiericcio di fondo, ma, semplicemente, ascolto e concentrazione. I giovani si alzavano per porre i loro quesiti epocali, per dire sulla razionalità e l’irrazionalità della politica, ben preparati su fogli e quaderni, e parlavano con tono pacato, composto, garbato – emozionato. Bertinotti rispondeva, spaziando “in alto” e “in basso” (“c’è anche la pancia, oltre al cuore e alla mente”), sempre cercando di interloquire con un punto di vista certo originale e spesso diverso dal suo, e mai, quasi mai, eludendo le difficoltà. E poi? E poi, via via, la discussione andava in un crescendo comunicativo, in una liason al tempo stesso affettiva e curiosa, e costruiva pezzi di “ricerca umana”, anzi di “analisi collettiva”. Superando alcune tentazioni ricorrenti – come l’idea che la scienza o la tecnica sono, al fondo, un po’ neutrali. O come la radicata convinzione che la destra è sinonimo di irrazionalità, stupidità, non umanità. E rimanendo sempre “disinteressata”, nel senso nobile del termine. Se dio vuole, questo incontro non doveva decidere nulla, non doveva licenziare documenti o mozioni, non doveva neppure, e soprattutto, occuparsi del Piddì o della sorte prossima del governo Prodi. Infatti, i giornalisti presenti erano un po’ a disagio: dove stava la notizia? Poco dopo, a incontro concluso, il presidente della Camera non ha potuto non soddisfare quella fame insaziabile e divorante, che alla fine rischierà di divorare l’ultimo boccone di politica. Ma intanto, là dentro, si era vissuto un incontro vero, una bella mattinata di Politica.

Il Sole-24Ore 2.6.07
Bertinotti: la buona cultura non è soltanto di sinistra


«Per molti anni ho pensato che il bene e la sinistra fossero equivalenti, che la cultura di sinistra potesse procedere senza errore, che ogni buona ricerca fosse una ricerca di sinistra. Credo purtroppo che questo elemento rassicurante non si può più sostenere, così come quello secondo cui la destra sia sempre priva di capacità di ricerca»: il presidente della Camera ha "smontato" così la platea di circa 1900 psichiatri e psicologi (divisi tra due sale collegate via video tra loro dell'Auditorium di Roma) che hanno partecipato a uno degli «incontri dell'analisi collettiva» organizzato dallo psichiatra Massimo Fagioli. L'occasione dell'incontro è l'uscita del primo numero di «Alternative per il socialismo», rivista diretta dal presidente della Camera: Bertinotti viene accolto con applausi lunghi e urla da stadio ma spiazza la platea quando obietta che non è più possibile sostenere che la destra sia «rozza e ignorante» e che non si può dire che una ricerca «per essere buona non può che essere di sinistra», altrimenti è reazionaria per definizione». Cita lo scrittore "maledetto" Louis-Ferdinand Céline, rivaluta il razionalismo in architettura e la pittura metafisica ma pure Mario Sironi, di cui tiene un quadro nell'ufficio a Montecitorio.
Si parla anche di socialismo e comunismo: La sconfitta della «storia grande e terribile del comunismo», non cancella il problema della necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento, dice Bertinotti. Quindi il presidente della Camera invita la sinistra a «riflettere per mesi sulla sconfitta al Nord alle ultime amministrative, che conferma la «necessità di una sinistra alternativa».

Il Mattino 2.6.07
Bertinotti: la cultura non è solo a sinistra


Applausi e urla da stadio, ma anche un confronto sulla cultura socialista. Protagonista: il presidente della Camera Fausto Bertinotti. L’occasione dell’incontro: l’uscita del primo numero di «Alternativa per il socialismo», rivista diretta da Bertinotti. E il presidente della Camera spiazza la platea quando dice: «Non è più possibile sostenere che la destra sia «rozza ed ignorante» e che una ricerca «per essere buona non può che essere di sinistra, altrimenti è reazionaria per definizione». «A lungo ho pensato - afferma - che il bene e la sinistra fossero equivalenti, che la cultura di sinistra potesse procedere senza errore, che ogni buona ricerca fosse di sinistra. Purtroppo credo che non si può più sostenere, così come non è più possibile sostenere che la destra sia sempre priva di capacità di ricerca». E cita lo scrittore «maledetto» Louis-Ferdinad Celine, ma anche la pittura di Mario Sironi, di cui ha un quadro nel suo ufficio a Montecitorio. E per Bertinotti la sconfitta della «storia grande e terribile del comunismo non cancella il problema della necessità della liberazione da oppressione e sfruttamento. Tanto più nella fase attuale dominata da globalizzazione, mercificazione delle cose, ma anche degli uomini». Quindi, invita la sinistra a «riflettere per mesi» sulla sconfitta al Nord alle amministrative che conferma la «necessità di una sinistra alternativa».