Associazione Antigone - Area nuovi diritti e poteri istituzionali
LETTERA APERTA AL MONDO DELLA CULTURA E DELLO SPETTACOLO: ABOLIAMO L’ERGASTOLO“L’ergastolo è una pena che rende il nostro futuro uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e toglie speranza al futuro. È una morte bevuta a sorsi. È una vittoria sulla morte perché è più forte della morte”.
Scrivono così oltre trecento persone condannate all’ergastolo e detenute nelle carceri italiane e si rivolgono al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed alla senatrice del PRC-SE Maria Luisa Boccia, prima firmataria del disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo.
È un messaggio forte (“siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena sia tramutata in pena di morte”), un grido di fronte al quale non si può girare la testa e far finta di nonsentire.
La questione dell’abolizione dell’ergastolo, una pena che esclude per il condannato la prospettiva di una nuova vita, è questione da sempre al centro delle battaglie progressiste, è un obiettivo irrinunciabile di civiltà giuridica, è il cardine di quel “diritto penale minimo e mite” che solo può invertire la spirale perversa che continuamente si crea tra le urla scomposte del giustizialismo, l’emarginazione di intere fasce sociali, la negazione dei diritti e della speranza.
Per questa ragione l’Associazione Antigone, la Sinistra Europea e il Partito della Rifondazione Comunista hanno organizzato un pubblico convegno il 18 giugno sull’argomento (Roma, ex Hotel Bologna, ore 17) e lanciano un appello al mondo della cultura e dello spettacolo perché possa veicolare questo grido di dolore e di sollecitazione che viene dalle carceri e spingere le forze parlamentari ad una scelta coraggiosa, opportuna e civile. Per aderire: associazione.antigone@tin.it; gennaro.santoro@rifondazione.it
Prime adesioniGiorgio Arlorio, Ascanio Celestini, Simonetta Cossu, Sandro Curzi, Erri De Luca, Leo Gullotta, Wilma Labate, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, Piero Sansonetti, Pasquale Scimeca, Daniele Vicari.
il manifesto 5.6.07
Le due piazze di Rifondazione
Il 9 giugno «no Bush» a Roma mette in difficoltà il partito.
Che promuove ufficialmente il sit-in di piazza del Popolo. Ma molti «simpatizzanti», a partire da Action, saranno al corteo antagonista
di Alessandro BragaRoma. Rifondazione comunista starà con il piede in due scarpe. Ovvero, con i suoi militanti divisi in due piazze. Gestire politicamente la questione non sarà per niente facile.
Sabato a Roma arriverà George W. Bush e la piazza, come in qualunque luogo del mondo dove metta piede il presidente statunitense, si prepara ad accoglierlo con contestazioni. A Roma, le piazze saranno addirittura due: una stanziale, piazza del Popolo, dove la sinistra di governo assieme a Arci, Fiom e altre associazioni pacifiste ha organizzato una giornata di canti, balli e dibattiti per «suonarle e cantarle» a Bush; l'altra, in movimento, è quella della sinistra radicale non di governo, che attraverserà in corteo la città e, oltre a Bush, contesterà anche il governo italiano.
Non sarà una giornata di mobilitazione in cui ci saranno da una parte i «buoni» e dall'altra i «cattivi». Anche perché al corteo parteciperanno tante persone che sono elettori di quei partiti che se ne staranno a piazza del Popolo. Semplicemente, spiegano gli organizzatori del No Bush No War Day, quelli del corteo insomma, «ci saranno due manifestazioni perché agisce una contraddizione tra due piattaforme diverse tra loro rispetto alla visita di Bush, al ruolo degli Stati Uniti e alle responsabilità del governo italiano nella guerra permanente».
Fino alla fine, del resto, molti tra i partecipanti al corteo hanno cercato di dialogare con la piazza del Prc. Non certo i Cobas o il Partito comunista dei lavoratori, per cui la deriva governista di Rifondazione è inaccettabile da sempre ma, ad esempio, il Network delle comunità in movimento, che raggruppa tra gli altri Action, il centro sociale milanese Leoncavallo e addirittura i Giovani Comunisti, associazione giovanile dello stesso Prc.
Nunzio D'Erme ha dichiarato che «per il movimento è inaccettabile rinchiudersi in una piazza. Ma in quella piazza ci saranno tanti bravi compagni con cui vogliamo dialogare da subito». Resta il fatto, sottolineano però quelli del Network, «che di fronte alla venuta di un criminale di guerra rispondere con un concerto è inefficace. Come è improprio tacere le responsabilità del governo, soprattutto dopo che Prodi ha rivendicato la decisione di portare a termine il progetto Dal Molin».
Come per la manifestazione contro l'ampliamento della base americana di Vicenza, la patata bollente resta in mano a Rifondazione comunista. Allora, il problema era se «Vicenza valesse un governo». Ora, se è sufficiente un concerto, con contorno di dibattiti, per manifestare la propria contrarietà al presidente americano in visita in Italia.
Per il gruppo dirigente di Rifondazione pare proprio di sì. Michele De Palma, della segreteria nazionale, ha spiegato che «la manifestazione a cui aderirà il Prc sarà diversa da quella organizzata dai gruppi dell'estrema sinistra non di governo». Un piede qua e uno là insomma, un occhio alla piazza e uno agli alleati di governo. Che questo basti ai militanti della base non è così sicuro. Almeno a giudicare dalle adesioni al corteo di pezzi del Prc: da alcuni deputati a consiglieri comunali di tutta Italia, fino a semplici militanti, saranno molti i rifondaroli che marceranno contro Bush. Tutta l'area di Sinistra Critica sarà al corteo e non a piazza del Popolo. Di più, i Giovani comunisti fanno parte del Network delle comunità in movimento, tra i promotori del corteo. E il Network guarda alla Sinistra europea come cantiere praticabile per l'unità dei movimenti. Se ciò non avvenisse, dicono, «Sinistra europea rischierebbe di nascere già morta per via di un processo che coinvolge i partiti politici istituzionali, ma che bypassa il dibattito politico vero». Il rischio per Rifondazione non è solo quello di perdere contatti con il movimento, ma con i suoi stessi militanti e elettori.
Le ultime elezioni amministrative hanno già dato un segnale in questo senso: il Prc ha pagato con un sensibile calo di consensi il suo primo anno di governo. Un'ulteriore ambiguità potrebbe aumentare il numero di quegli elettori che si ritroverebbero costretti, non sentendosi più rappresentati, a scegliere alle prossime tornate elettorali la via dell'astensione.
il manifesto 5.6.07
Ora di religione. Appello al premier: sconfessi Fioroni
di Francesca LongoUn'ulteriore novità per i ragazzi che quest'anno affronteranno l'esame di maturità: se non sei stato esonerato dall'ora di religione cattolica ci sono crediti in più. L'iniziativa ha fatto mostra di sé mesi fa in una ordinanza ministeriale ed è finita sul tavolo del Tar del Lazio dietro segnalazione della Consulta romana per la laicità delle istituzioni (cui molte associazioni, chiese protestanti, unione delle comunità ebraiche ecc. hanno aderito). Al ministro Fioroni arriva la notizia che il Tar ha accolto l'istanza di sospensione dell'ordinanza ministeriale, sebbene solo con un provvedimento cautelare, e si rivolge al Consiglio di stato. E il Presidente della sesta sezione del Consiglio di stato annulla provvisoriamente (però sino al giorno successivo agli scrutini) l'ordinanza cautelare del Tar: pertanto, almeno per quest'anno, un buon voto in religione (cattolica) è d'aiuto per risollevare le medie. Grazia divina, evidentemente.
Scrive il Tar: «Sul piano didattico, l'insegnamento della religione non può a nessun titolo concorrere alla formazione del credito scolastico per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive». Scrive la Consulta per la laicità: «Nell'attuale situazione gli scrutini si svolgeranno secondo la volontà del ministro, ma il successivo pronunciamento nel merito del Tar Lazio, che deve ancora avvenire, con molta probabilità ne porrà in dubbio l'esito annullando la parte impugnata dell'ordinanza ministeriale. Si verificherebbe così una situazione di incertezza giuridica sul corso e sugli esiti degli esami di stato, la cui responsabilità non potrà che ricadere sul governo. Chiediamo a Romano Prodi di adoperarsi in tempi rapidissimi affinché impedisca questo grave scempio della laicità della scuola pubblica e vengano ristabiliti lo status quo ante, la legalità e la certezza del diritto, dal momento che il governo può annullare in sede di autotutela le contestate e discriminatorie innovazioni apportate dall' ordinanza ministeriale 26/2007». I tempi devono essere davvero rapidi: gli scrutini si terranno la prossima settimana. E al premier si rivolge anche la Rete degli studenti, che parla di «scandalose ambiguità createsi a ridosso degli impegni di fine anno che danneggiano solo e unicamente gli studenti nel proprio diritto di essere valutati indipendentemente dalla scelta o meno di una materia facoltativa». La Rete attiverà uno sportello on line «per reclami e ricorsi degli studenti che si trovino discriminati».
Repubblica 5.6.07
Cercasi guida disperatamente
Perché la sinistra ha smarrito il carisma
Un paese che appare senza un vero ricambio politico e generazionale
La crisi di identità è maturata dentro scelte politiche poco coraggiose
di Francesco MerloIn Italia abbiamo capi e padroni, abbiamo "imperium" ma non abbiamo leadership, abbiamo bulli e abbiamo comandanti, abbiamo "dux" ma non abbiamo leader. E infatti abbiamo avuto Mussolini ma non Churchill; non abbiamo avuto De Gaulle e Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro grande forza dalle potenze estere, erano gli autorevoli rappresentanti consolari delle due metà del mondo, erano insomma leader per conto d´altri, leader senza leadership. Alla fine, molto raramente abbiamo avuto un´autonoma leadership e dunque veri leader nazionali, che sono infatti significati non tradotti e non traducibili nella nostra pur bella e ricca lingua, benché siano essenziali alla democrazia prima ancora che al nascente Partito democratico.
Supremazia, egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento, autorevole e non autoritaria influenza politica, dirigenza e direzione: leadership è parola inglese che rimanda al mare perché viene da leader, da to lead, che vuol dire condurre, e da ship che è la nave, ma è anche è il suffisso che nella lingua inglese dà qualità all´astrazione, come in scholarship e in citizenship, e deriva dal germanico skop e quindi skip e appunto ship, nave, che in antico tedesco si dice schif, in greco skaphos e schyphos e in latino scapha ed è sempre lo stesso campo semantico, quello del bastimento e dell´imbarcarsi perché la leadership nella civiltà anglosassone viene battezzata sul mare, nel confronto con l´oceano, con quel "sea power" che è motore della storia.
Senza volere qui rifare la storia dell´influenza del "sea power" nell´evoluzione dell´umanità ci basta ricordare che la seconda guerra mondiale è stata vinta dai navalisti e persa dai continentalisti, e che l´Italia è lontana dall´etimo stesso della leadership, perché, pur essendo una penisola, una quasi isola, la sua non è storia di navi, di flotte, di controllo delle acque, di ufficiali di marina che avevano un´educazione da statisti, di marinai che diventavano leader perché si misuravano con la forza degli oceani, di portaerei che erano un modo di accorciare le distanze e controllare il mondo. E infatti ancora oggi la formazione della nostra classe dirigente è lontana dagli orizzonti internazionali, non c´è nessun leader italiano che si qualifichi attraverso strategie mondiali, dal nuovo ruolo della Cina e dell´India alla forza dell´Islam… Difficilmente la leadership italiana si affaccia al mondo. Campioni di fantasia e di inventiva abbiano avuto il ministro della Devoluzione e quello dei Rapporti con il Parlamento, quello per gli Italiani nel mondo e quello per gli Affari regionali, e abbiano persino il ministero per l´Attuazione del programma di governo che è una sorta di ministero della Supercazzola con scappellamento a destra o a sinistra, ma abbiamo, senza nulla togliere alle qualità di Massimo D´Alema, per tradizione, un politica estera approssimativa e abborracciata, con gli avanzi di cucina delle politica interna, idea arcitaliana appunto, radicatissima nella nostra storia, con alleanze mai sicure, trattati mai definitivi, con il nemico che è anche amico e viceversa.
Come si forma la leadership in Italia? Ebbene, non c´è nulla di più lontano dalla idea occidentale della leadership. Le ambizioni infatti si muovono nell´ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, non c´è nessuno che osi dire «io voglio fare il presidente del consiglio, o della repubblica o il segretario del partito democratico», come ha fatto per esempio per esempio Sarkozy che già tre anni fa conquistava l´Ump, il partito dell´ostile Chirac, e intanto confessava di pensare all´Eliseo «tutte le mattine mentre mi faccio la barba». In Italia invece tutti hanno paura di bruciarsi e di esporsi, Veltroni non osa sfidare D´Alema, la Finocchiaro si finge umile, Rutelli lavora nell´oscurità, nessuno si fida di nessuno, si inventano candidati civetta e finte primarie con il vincitore bloccato, si punta su qualcuno solo per farlo impallinare, non c´è nulla di pulito, di chiaro, di laico, e alla fine la scelta del leader, quale che sia la carica da ricoprire, sarà il frutto di negoziati estenuanti, di compromessi al ribasso e mai di una forte competizione a viso aperto. La scelta viene via via depotenziata politicamente e umanamente. Quasi sempre il prescelto è un politico di basso profilo, possibilmente già vecchio, meglio se un po´ acciaccato, si spera che sia un utile brav´uomo, il quale ovviamente alla prima prova difficile, alla prima sconfitta amministrativa per esempio, o si rifugia nella retorica o si esprime in una rabbia inconsulta minacciando di dimettersi. Ricordate come Tony Blair seppe prendere su di sé l´impopolarità della guerra in Iraq e riuscì a vincere per la terza volta le elezioni politiche?
Invece il leader italiano somiglia al titano Enceslao che scala l´Olimpo e crede di essere diventato un dio. Giove afferra quell´omuncolo e lo scaglia sulla terra mettendogli sullo stomaco un´immensa montagna, l´Etna. E il tapino sta lì, costretto a fare il morto, a trattenere il respiro... Solo quando non ne può più tossisce e si agita, si scuote, si gratta, starnutisce. E allora apriti cielo, la terra trema, le bocche del vulcano sputano fuoco e pietre, il cielo si oscura.
Né va meglio nella cosiddetta società civile, all´università per esempio, che, unico paese occidentale, l´Italia considera il serbatoio fintamente tecnico della politica. E´ tipico di un Paese arretrato trarre i suoi quadri dirigenti dall´università. La leadership nei paesi occidentali si forma nella scuole di alta amministrazione, oppure nell´alta politica o ancora nelle professioni. La classe dirigente italiana, invece, o viene dalla burocrazia dei partiti, o è una specie di università allargata con tutte le miserie della gestione del potere universitario spavaldamente praticate in nome della cultura. All´università il clientelismo si chiama cooptazione, la mafia si chiama scuola o baronia, la gerontocrazia si chiama scienza, il traffico delle cattedre si chiama concorso. Ma la sostanza è che la leadership universitaria è autoreferenziale, immutabile, cerimoniale, fondata sul culto del vecchio, sulla ossificazione delle idee, sulla mummificazione della cultura e dunque anche della politica.
E dovrebbe essere superfluo spiegare che il leader guida e il padrone comanda e che nella cultura della leadership, scriveva Comte, «ogni partecipazione al comando è degradante». Non ci sorprende dunque che i governi italiani, quelli di sinistra come quelli di destra, siano in perenne crisi di consenso, si dissipino in un gorgoglio di comandi, un flottare di ordini, perché appunto la mancanza di leadership ordina e riordina e preordina e postordina e sputacchia disordinatamente discorsi e sentenze, encicliche e omelie, ordini di servizio e servizi d´ordine, ma non governa, non guida, non dirige, non traccia la rotta di un Paese che rimane «nave senza nocchiero in gran tempesta». La leadership italiana sembra l´epifania postcoitale perché, come si sa, nel nostro Paese, «cumannari è megghiu di futtiri».
Repubblica 5.6.07
Quando erano i partiti che dettavano la linea
Fintantoché la sfera del confronto politico era saturata dall’opposizione fra Dc e Pci, non c’era spazio per decisioni personalistiche
di Edmondo BerselliNel clima del dopoguerra, dominato dalle grandi visioni ideologiche e dalle contrapposizioni "di civiltà", la leadership politica era una funzione sfuggente. Il 1945 aveva segnato il crollo dei totalitarismi nell´Europa occidentale, mentre l´Unione Sovietica centrata sulla dittatura di Stalin era circondata dall´alone della vittoria contro il nazismo. Così, le figure di spicco nei partiti che si riaffacciavano alla democrazia rappresentavano la sintesi di pensieri forti e anzi di storie che avevano percorso il Novecento.
Più che dalla figura del leader, la scena era occupata dal partito: il Pci doveva essere il moderno Principe, secondo la lezione di Gramsci, teso a conquistare un primato egemonico; mentre la Dc si riproponeva come partito-società, capace di aderire a tutte le pieghe della collettività. Fra i ritratti nelle Case del popolo o all´ombra dei campanili, il partito di massa, appariva in grado di esprimere, attraverso la sua organizzazione capillare, un´intelligenza collettiva.
Certo, la leadership esisteva: ma era una polarità individuale che si irradiava sulla struttura politica, che a sua volta la rafforzava. Alcide De Gasperi incarnava la dottrina sociale della chiesa, un cattolicesimo liberale che faceva i conti con il popolarismo delle origini, il viaggio dentro il fascismo e lo sforzo strenuo di rilanciare il paese dopo la tragedia della guerra.
A sua volta, Palmiro Togliatti, "il Migliore", riassumeva in se stesso un´avventura rivoluzionaria che recava dentro di sé una carriera come esponente dell´internazionalismo, la lotta antifascista che in cui si era distinto come "Ercoli", il capo comunista clandestino, l´uomo dell´Hotel Lux, l´ufficiale di campo del socialismo sovietico. In Italia, era il leader assoluto che tuttavia esplicava il suo ruolo all´interno della procedura del Pci, scritta sulle regole del centralismo democratico. Mentre De Gasperi appariva semmai come un "primus inter pares", soggetto ben presto alle manovre e ai veti dell´organizzazione dc, Togliatti era il capo indiscusso di un´istituzione perfetta.
L´organizzazione comunista era riuscita a intimorire e infine a subordinare il Partito socialista di Pietro Nenni, che soltanto con la transizione al centrosinistra e all´accordo con la Dc avrebbe ritrovato il sentiero dell´autonomia politica; ma soprattutto dava l´idea di una macchina autoriferita quanto infallibile, in grado di collocare al proprio interno ogni protagonismo e ogni personalità, dall´ortodossia pragmatica e riformista di Amendola al "lavoro di massa" in chiave prerivoluzionaria di Ingrao.
Non si usava nemmeno, la parola leader: nelle file dc si cominciò a parlare dei "cavalli di razza" quando apparvero protagonisti come Amintore Fanfani e Aldo Moro. Ma se Moro impersonava effettivamente una leadership culturale, per la sua capacità di pensare all´evoluzione integrale del sistema politico, con uno sguardo al possibile perfezionamento del "bipartitismo imperfetto", a Fanfani invece si imputava un piglio semi-gollista, una più visibile propensione al comando che si scontrava facilmente con l´inclinazione "dorotea" del corpo del partito e alla sua diffidenza per le concentrazioni di potere.
Lo spirito democristiano infatti si rivelava più compiutamente nelle personalità politicamente duttili di Mariano Rumor e di Flaminio Piccoli, e fuori dall´area del doroteismo nel pragmatismo assoluto di Giulio Andreotti, per il quale le categorie politiche sono sempre risultate astrazioni (non è un caso che proprio il pratico Andreotti fosse chiamato a gestire il governo di solidarietà nazionale con i comunisti). Per qualche aspetto invece il calore della leadership era più sentito a sinistra, proprio perché era l´integrale struttura del partito a convergere nella figura del segretario: processo simbolico e funzionale a cui va aggiunto il fascino popolare di un capo come Enrico Berlinguer, le cui caratteristiche personali eccedevano i confini politici del Pci, qualificandolo come un possibile simbolo nazionale.
Ma fintanto che la sfera del confronto politico era saturata dalla contrapposizione fra Dc e Pci, non c´era spazio per l´emergere di figure in grado di plasmare la politica su un profilo personale. Anzi, per diversi anni uno dei leader più visibili fu una personalità laterale alla politica, il capo della Cgil Luciano Lama. Perché il tema della leadership divenisse istanza politica rilevante, fu necessario l´emergere di una posizione eccentrica, rappresentata negli anni Ottanta da Bettino Craxi: «capo del governo e insieme dell´opposizione», come lo descrisse Adriano Sofri, portatore di un´ipotesi mitterrandiana di alternativa alla Dc che prevedeva la sostanziale subordinazione dei comunisti, intorno al quale nacquero le prime teorizzazioni sul capo carismatico e sul "decisionismo".
Dovevano cioè rompersi quegli equilibri, come scrisse su MicroMega uno dei primi ideologi dell´onda lunga socialista, Giuliano Ferrara, fondati su «un´egemonia democristiana da null´altro corretta se non da un potere di veto comunista». La crisi dei partiti storici invitava a recuperare le categorie schmittiane della decisione e la configurazione weberiana del leader. Intorno all´immagine di Craxi si sono giocate le prime sperimentazioni leaderistiche della politica italiana. Che naturalmente sarebbero diventate utili con il tracollo della "Repubblica dei partiti", allorché si affermò lo schema dell´alternanza.
Che cosa c´è infatti dopo i partiti, se non la concentrazione del potere nel leader, alimentata dalla vertigine massmediatica? Quando le forze politiche tradizionali si disintegrano come la Dc e il Psi dopo Tangentopoli, o affrontano metamorfosi infinite come il Pci a partire dal 1989, viene il momento della contrapposizione giocata tra immagini pubbliche, in cui la "personalizzazione" della politica tende a superare il vecchio elemento ideologico o il suo residuo.
Non c´è soltanto la "scesa in campo" di Silvio Berlusconi, il re televisivo: con le nuove regole elettorali anche nel territorio, ossia nei comuni e nelle altre unità amministrative, la personalizzazione e quindi il "fattore" della leadership si diffonde in tutto il sistema politico. Plasma l´azione pubblica, ma anche l´organizzazione degli staff e delle coalizioni; diventa un totem su cui si misurano carriere e scelte programmatiche, su cui si allestiscono strumenti di selezione come le primarie. E alla fine, scontata la maggiore facilità rispetto alla sinistra con cui la destra può affidarsi al leader, potrebbe anche lasciare il campo a una sindrome nuova, in cui il comando, il ruolo da conquistare, si infittisce di mediazioni e tatticismi, e alla fine potrebbe istituire l´ultima variante, segnata da un´assenza, da uno spazio vuoto: il fantasma della leadership senza leader.
Repubblica 5.6.07
Il modello populista e le democrazie europee
di Antonio Gnoli«In una democrazia di massa il concetto di "leadership" può variare di importanza a seconda del ruolo che vi svolgono i partiti», dice Yves Mény, politologo francese, Presidente dell´Istituto Universitario internazionale di Firenze, autore fra l´altro di un apprezzato saggio sui temi del populismo.
«Nell´Europa democratica del ventesimo secolo, per esempio, il leader non era scelto dall´elettorato, ma era l´espressione di un apparato. Per arrivare a ricoprire la posizione di vertice occorreva un cammino lungo e spesso lento, e soprattutto soggiacere alle regole del partito. Solo in rare occasioni il leader entrava in contatto con le masse. Le quali a loro volta si riconoscevano più nei simboli del partito che nei discorsi del capo. Negli Stati Uniti, dove i partiti sono soprattutto macchine elettorali, la leadership come riconoscimento popolare di una guida individuale si è affermata con più facilità. Nel modello americano, una campagna elettorale si fa più sul carattere della persona che sul programma.
La situazione di questi ultimi anni, segnata dall´indebolimento delle ideologie, ha spinto l´Europa verso un´americanizzazione della politica. I partiti – si pensi anche al caso italiano – non sono più concepiti principalmente come risorse simboliche e sempre meno mediano tra le istituzioni e il popolo. È in questo clima che può nascere o rafforzarsi la leadership individuale. Essa implica un insieme di qualità personali che dopo Max Weber si è presa l´abitudine di chiamare carismatiche.
Non è detto che il carisma corrisponda sempre a qualità reali di chi lo esercita. In una società mediatica, il politico che oggi vuole il consenso tenderà a non scontentare l´elettorato. Sempre più spesso il discorso del leader è gestito e calibrato quotidianamente sulla base delle reazioni ai sondaggi e delle analisi sull´opinione pubblica. Non è un caso che la recente campagna elettorale di Sarkozy sia stata caratterizzata dalle tematiche legate all´identità razziale e a una forte critica del Sessantotto, due motivi graditi alla maggioranza dei francesi. È chiaro dunque che la leadership oggi, più che in passato, si riconosce nei caratteri di una persona che riflette le aspettative dell´opinione pubblica. Essa ha più possibilità di imporsi, se nasce da una crisi della politica. Nei momenti di rottura – una guerra, una svolta radicale, il crollo di un sistema – il leader può emergere in tutta la sua forza. È a questa altezza che si colloca l´esperienza populista. La leadership populista si autoistituisce, piegando le regole e le strutture alle esigenze e ai bisogni del capo del movimento. Ma la sua durata è limitata nel tempo, ha vita breve a meno di non riuscire ad assestarsi istituzionalmente».
Repubblica 5.6.07
Fenomenologia del leader carismatico
L’occidente in crisi sedotto dal capo
di Carlo GalliDefinizione. Il leader non crea la storia ma sa leggere la crisi in atto e catalizza le energie sociali mettendole in moto verso una direzione possibileSe il mondo antico interpretava spesso la politica come l´azione di un nocchiero che guida la nave della città, l´età moderna ha privilegiato, da parte "borghese", la centralità dei cittadini e l´impersonalità universale del comando dello Stato; mentre a sinistra si è creduto che la storia si muova in virtù di grandi forze oggettive e necessarie, che l´agire politico abbia come soggetti le masse, e che la dirigenza politica debba solo interpretare correttamente i segni dei tempi. Queste convinzioni hanno fatto sì che rispetto ai democratici e ai socialisti la destra – col suo culto del capo come l´eroe che ci lascia solo il compito di credere, obbedire, combattere per un destino che egli ci addita – sia stata più propensa a porre la leadership al centro della riflessione politica.
Ma la scienza politica fra Otto e Novecento ha scoperto, con i teorici delle élites (Mosca, Pareto, Michels) e con Max Weber, la leadership, plurale e singolare. Agli individui e alle masse si sono così aggiunti, come protagonisti della politica, oligarchie e capi. In particolare, Weber ha individuato fra i tipi di potere legittimo, oltre a quello tradizionale e a quello legale, anche quello carismatico: il potere personale innovatore, rivoluzionario, che deriva a un capo dal possedere uno straordinario dono di grazia (il carisma), e dal venire obbedito per questo. E la storia del XX secolo ha conosciuto grandi figure di leader; nefasti, come Hitler, Stalin, Mussolini, ma anche capi democratici come Roosevelt, liberali come Churchill, nazionalisti come De Gaulle. E se non il carisma in senso rivoluzionario, una evidente credibilità personale - determinata dalla coerenza degli intenti e dalle sofferenze patite - ha contrassegnato anche la leadership di De Gasperi, Togliatti, Nenni e Saragat.
Da queste figure, pur così diverse tra loro, emerge che il leader è la personalità che, con un gesto innovatore, sa smarcarsi dalle élites, e che opera nella sua persona una sintesi politica concreta tra l´emergenza puntuale del momento storico e un più vasto orizzonte che egli scopre e addita - e così fornisce alla esperienza comune se non ‘il´senso, almeno uno dei sensi possibili - . Il leader insomma sa dire Io con tanta forza da provocare il formarsi non episodico di un Noi, e persegue la propria visione personale rendendola condivisibile da molti.
Ma il leader non crea la storia; piuttosto, egli sa leggere le crisi in atto e catalizza le energie sociali, mettendole in moto verso una direzione possibile. E´ un trascinatore egli stesso coinvolto nel processo a cui dà impulso. E´ tanto autore del proprio tempo quanto prodotto dal tempo. E´ un visionario pratico, che coniuga l´etica della convinzione con quella della responsabilità. Ha bisogno della collettività, come questa di lui. Questa miscela di interpretazione personale e di movimento collettivo si manifesta di solito nei momenti di emergenza, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nei processi di formazione di imperi e Stati; ma anche le ricostruzioni, le uscite dalle crisi, sono opera di grandi leader (Roosevelt e De Gasperi, tra gli altri).
Il rapporto del leader col proprio tempo non è però garantito: ci sono leader solo potenziali, fuori del proprio tempo, anacronicisti, e quindi senza efficacia; e tempi che conoscono crisi e difficoltà ma non hanno leader che indichino la via. Tempi cioè - e sono i nostri - in cui le forme della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate; mentre la sostanza della politica, il suo potere invasivo e persuasivo, passa altrove, e si abbatte direttamente sulla vita - sul corpo e sulle menti - delle persone. Tempi in cui le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e in cui le sfide, fattesi planetarie, sembrano fenomeni naturali, non politici; tempi in cui la contingenza non è più un´eccezione ma una quotidianità straripante e sfuggente, che non si sa come afferrare per darle una forma. Tempi in cui si reagisce alle sfide non con energia collettiva, ma con la ricerca di vie di fuga individuali o di gruppo; in cui la politica si è spezzettata in una miriade di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, che non richiedono o che sembrano non avere più una soluzione pubblica.
I leader - in Occidente - si fanno quindi più rari non tanto perché la pianta-uomo abbia cessato di dare frutti eccellenti quanto perché si è trasformata la politica, nelle sue categorie portanti e nella percezione diffusa che se ne ha. E´ sempre più raro che ci sia un Io perché più fievole si è fatta l´esigenza che la politica serva a creare un Noi, a indicare un orizzonte da raggiungere, una storia praticabile. In questi tempi la politica è una gestione del presente resa interessante da ‘personaggi´, da leaderini vanitosi e inconcludenti, da aspiranti pifferai magici; e la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza.
In questi tempi di disorientamento, quindi, prima di rispondere alla domanda sui leader - cioè su chi ci conduce, e verso dove - bisogna interrogarsi su dove va quella complessa e variabile combinazione di ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto, che chiamiamo politica; cioè porre la questione della sua trasformazione. Saranno leader coloro che, nel bene e nel male, sapranno dare risposte condivise - se sono ancora possibili - a questo interrogativo; che scommetteranno sulle nuove vie - se ci sono, e se mobilitano ancora i cittadini - grazie alle quali la politica possa ancora essere l´insieme dei processi e delle azioni con cui si costruisce un mondo comune.
Corriere della Sera 5.6.07
La sinistra radicale. Sottosegretari pronti a «tradire» il premier. Ma il Prc teme il flop della piazza buonista
di Monica GuerzoniROMA — Disobbedire. Scendere in piazza contro George W.Bush a dispetto delle preghiere di Romano Prodi. È la tentazione che serpeggia nel governo, dove l'appello a restare a casa, mormorato dal premier venerdì durante il vertice coi segretari, ha lasciato piuttosto freddi gli alleati dell'ala sinistra. I ministri, salvo sorprese dell'ultim'ora, non deluderanno il Professore, mentre tra i sottosegretari qualcuno è pronto a smarcarsi. A dispetto degli ultimi appelli, scanditi da chi teme ripercussioni su Palazzo Chigi.
«Mi aspetto manifestazioni civili e pacifiche», è il garbato monito del ministro prodiano Giulio Santagata. «Non possiamo accettare un tale spirito antiamericano» prende le distanze dagli alleati Mauro Fabris, braccio destro di Mastella. E pure Piero Fassino dev'esser preoccupato se dice di attendersi, dagli esponenti del governo, «una certa riservatezza».
Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, sbuffa infastidito. Arriva dal Giappone e nulla sapeva dell'editto prodiano. «Il richiamo del premier mi sembra estremamente negativo e fuori luogo». Dunque sottosegretario, lei sabato sarà in piazza del Popolo? «Non vedo perché non dovrei manifestare col mio partito. Ognuno è libero di protestare, ovviamente nei limiti di una manifestazione pacifica». La fitta delegazione di Rifondazione sarà guidata da Franco Giordano, il quale ieri, alla direzione del partito, ha lanciato un forte richiamo alla mobilitazione. Segno che ora il Prc teme il flop: un supercorteo gonfio di giovani, no global e pacifisti—estremisti (tra cui i rifondaroli indipendenti Francesco Caruso e Heidi Giuliani) e una gigantesca, semivuota piazza del Popolo buonista. Con la segreta speranza che il No Bush Day non passi alla storia della sinistra come la data del pubblico divorzio tra il Prc e i movimenti. Anche Oliviero Diliberto ha scelto la protesta soft. Per non disertare la piazza fermerà per un'ora il comitato centrale del Pdci e salirà sul palco assieme a Sgobio, Venier e alla presidente dei senatori comunisti, Manuela Palermi. Fabio Mussi invece non andrà. La sua Sinistra democratica ha scelto di non aderire, anche se qualche esponente di spicco come Carlo Leoni potrebbe affacciarsi al sit-in. E non ci sarà Alfonso Pecoraro Scanio, pure lui è ministro e a rappresentare i Verdi sarà il capogruppo Angelo Bonelli. Non da solo, forse... Gridare «guerrafondaio» al presidente degli Stati Uniti e rinfacciargli il rifiuto di ratificare gli accordi di Kyoto piacerebbe infatti anche a Paolo Cento, quasi pronto a sciogliere la riserva. «Se non avessi incarichi di governo la mia collocazione naturale sarebbe a manifestare — conferma il sottosegretario all'Economia — D'altronde Mastella ha manifestato contro i Dico e dunque la regola di Prodi non vale più». Esprimere il proprio sdegno contro l'illustre ospite è «del tutto legittimo» conclude Cento, il quale invita a spostare l'attenzione sull'altro corteo, quello antigovernativo dei Cobas e dei centri sociali: «Il vero nodo sarà quello che succede dall'altra parte...». Dall'altra parte, cioè al corteo No Bush No War (e anche No Prodi) che da piazza della Repubblica a piazza Navona vedrà sfilare Franco Turigliatto, Salvatore Cannavò, Fernando Rossi e il leader della Fiom, Giorgio Cremaschi, succede che in molti guardano agli scontri di Rostock e temono disordini. Il governo Prodi non si renda «complice del tremendo rischio che si ripeta la tragica repressione del 2001 a Genova» è l'appello del leader dei Cobas, Piero Bernocchi, mentre Marco Ferrando (Pcl) prevede che non ci saranno scontri ma una «grande, pacifica opposizione da sinistra al governo Prodi». E il Comitato 9 giugno, che raccoglie le adesioni al corteo di circa 200 sigle, prova a fermare gli allarmi strumentali: «È inquietante che si cerchi di schiacciare la mobilitazione nella logica della piazza dei buoni e del corteo dei cattivi...».
E così tra le due piazze, con una certa malizia, prova a infilarsi Marco Pannella. Il leader dei Radicali propone un'altra piazza del Popolo, una manifestazione che accolga Bush con cartelli «W gli Usa» e con slogan che inneggino alla democrazia a stelle e strisce: «Viva il popolo americano nostro fratello...».
Corriere della Sera 5.6.07
Saltammo giù dagli alberi rimanendo su due piedi
Nuova ipotesi: andatura bipede 15 milioni di anni fa
2,4 milioni di anni fa: compare il primo Homo
L'origine della teoria dallo studio degli oranghi
di Viviano DomeniciI nostri antenati impararono a camminare su due piedi quando ancora vivevano sugli alberi e non, come finora ritenuto, quando furono costretti ad abbandonare la vita arboricola e affrontare gli spazi aperti della savana.
Questa è l'ipotesi avanzata da tre zoologi britannici basata sull'osservazione del comportamento degli oranghi nelle foreste dell'isola indonesiana di Sumatra. Autori della ricerca, pubblicata sull'ultimo numero della rivista Science, sono Susannah Torpe e Roger Holder, dell'Università di Birmingham, e Robin Crompton, dell'Università di Liverpool, che hanno studiato gli orango nel loro ambiente naturale. Questi primati, che oggi vivono solo nelle foreste di Sumatra e del Borneo, conducono una vita prevalentemente arboricola, hanno un sistema di locomozione basato principalmente sull'uso degli arti anteriori per sospendersi e spostarsi tra i rami (brachiazione) e scendono sul terreno solo per attraversare brevi tratti privi di alberi, per bere o per raccogliere qualche frutto caduto; poi tornano sugli alberi evitando così possibili incontri coi predatori.
La loro struttura anatomica è quindi decisamente specializzata per vivere sugli alberi, ma i ricercatori si sono accorti che quando queste scimmie si spostano poggiandosi su rami robusti utilizzano tutte e quattro gli arti senza mai distendere completamente le articolazioni, come invece può fare chi — come l'uomo — ha un'andatura bipede.
Quando invece si spostano su rami più piccoli e flessibili, che rendono la situazione più precaria, gli orango si alzano sulle zampe posteriori e utilizzano le braccia, allargandole, per mantenere l'equilibrio. In questa particolare situazione gli orango si trovano molto spesso perché la frutta migliore è prevalentemente quella che cresce sui rami più alti, più soleggiati, ma più sottili e meno affidabili. Proprio in questi casi, hanno osservato i tre zoologi britannici, cioè quando devono arrivare a un frutto altrimenti irraggiungibile, gli orango distendono completamente le articolazioni delle anche e delle ginocchia, cosa che non fanno mai quando utilizzano tutti e quattro gli arti. Cioè assumono una posizione tipica solo di chi può camminare su due zampe, cioè noi e i nostri antenati australopiteci. Date queste osservazioni, i tre zoologi propongono l'ipotesi che l'andatura bipede sia apparsa quando il lontano progenitore di uomini e scimmie viveva ancora sugli alberi. Questo imporrebbe quindi di spostare la data della comparsa dell'andatura bipede almeno a 15 milioni di anni fa, momento in cui gli orango si separarono dal ramo evolutivo dal quale sarebbero successivamente emersi i gorilla (10 milioni di anni fa), gli scimpanzè (5-7 milioni di anni fa), gli australopiteci, la prima forma Homo (circa 2 milioni e 400 mila anni fa).
Uno spostamento all'indietro nel tempo che difficilmente sarà accettato senza discussioni dagli antropologi poiché l'ipotesi è basata non su studi sulla morfologia degli orango — di cui non è mai stata messa in luce alcuna tendenza allo sviluppo del bipedismo — ma solo sull'osservazione del comportamento di animali attualmente viventi. Proprio per questo, le prime critiche sono già emerse. Secondo l'antropologa Yvette Deloison, del Cnrs francese, «se l'antenato comune delle scimmie antropomorfe e degli ominidi avesse avuto un'anatomia che gli permetteva di fare tutto quello che fanno gli oranghi con mani e piedi, sarebbe stato già troppo specializzato per dar vita a quello che noi siamo oggi».
In attesa che l'ipotesi dei tre zoologi britannici passi il vaglio degli antropologi non rimane che tenerci ben saldi alla teoria che collega la comparsa dell'andatura bipede alla drastica riduzione delle foreste africane, che avvenne oltre cinque milioni di anni fa e che costrinse i nostro antenato ad affrontare, su due piedi, gli spazi aperti della savana. Il momento esatto in cui questo avvenne non lo sapremo mai, ma conosciamo con precisione la data della prima passeggiata su due piedi di cui abbiamo testimonianza concreta: 3 milioni e settecentocinquantamila anni. A tanto risalgono le impronte di due australopiteci che camminarono su un terreno fangoso a Laetoli, in Tanzania, mentre scappavano da un vulcano in eruzione.
Corriere della Sera 5.6.07
La Nobel iraniana, attivista per i diritti umani, critica duramente l'ex deputata di origine somala
Ebadi contro Hirsi Ali
«Attaccando in blocco l'Islam fa il gioco dei regimi teocratici»
Saranno le donne ad abbattere il potere dei mullah
di Alessandra FarkasNEW YORK — La signora dai capelli corti indossa una giacca grigia di taglio maschile, mentre passeggia con aria sbarazzina nella hall di uno degli alberghi più kitsch di Manhattan, masticando con gran gusto una chewing-gum. «In Occidente mi sento più libera perché non debbo portare il velo», spiega Shirin Ebadi attraverso un'interprete che traduce dal farsi. «Odio il copricapo che sono costretta ad indossare in Iran, per non essere frustata». Alla vigilia della sua imminente trasferta in Italia — dove il 7 giugno parteciperà alla Conferenza sulla pace, la solidarietà e l'integrazione razziale organizzata all'Hotel Royal di Sanremo dalla Provincia di Imperia — l'avvocatessa iraniana, attivista dei diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2003, si trova negli Stati Uniti per una serie di conferenze universitarie su temi quali «la relazione tra Islam e diritti civili» e «il ruolo delle donne nella democrazia».
«Anche nei campus americani molti ignorano che l'Iran ha dato il voto alle donne ben prima della Svizzera», spiega la Ebadi, ex presidente di una sezione del tribunale di Teheran, licenziata dopo la rivoluzione islamica nel 1979. «Duemila anni fa il mio Paese era governato da due regine: Boran e Azarmidokht. E anche in futuro saranno le donne a liberare l'Iran, guidandolo fuori dall'attuale medioevo, non i soldati americani. Quando iniziai ero sola; oggi il Paese è pieno di giovani donne più agguerrite e brave di me».
Ovunque vada, tutti le rivolgono la stessa domanda: potrà mai la religione islamica accettare l'eguaglianza tra i sessi? «La mia risposta è sì. L'Islam, come le altre religioni, si presta a interpretazioni diverse. Il concetto di eguaglianza — puntualizza — non è affatto negato dal Corano». Il che spiega come mai in Arabia Saudita le donne non possono neppure guidare l'auto, mentre in Paesi quali Bangladesh e Pakistan sono state presidenti e ministri. O perché la poligamia, praticata in Iran, sia bandita in Indonesia.
«Se una donna iraniana vuole viaggiare e lavorare, ha bisogno del permesso scritto del marito. Ironicamente ciò vale anche per Fatemeh Javadi, vice del presidente Mahmoud Ahmadinejad: una donna. Nei nostri tribunali la testimonianza di due donne corrisponde a quella di un solo uomo. Perché la nostra vita vale la metà rispetto alla loro». La Ebadi non si stanca di ripetere le «eresie» che — come testimonia nel libro Il mio Iran (Sperling & Kupfer, pp. 320, e
17) — nel 2000 la catapultarono sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran. Ma, al contrario di tanti intellettuali fuggiti in Europa e America, lei ha deciso di restare. «Il dissidente è come un pesce nell'oceano — teorizza —. Se lo butti in un acquario, smette di nuotare e di riprodursi». Eppure non se la sente di criticare gli esuli: «Quando sei certo di essere giustiziato, spesso non ti resta altro che scappare». E se a lei il premio Nobel ha conferito una certa immunità, la strada è ancora tutta in salita.
«Quando mi scelsero per il Nobel, il governo aspettò 24 ore prima di annunciarlo. E lo fece in piena notte, al termine di un notiziario che nessuno guarda». In Iran la Ebadi continua a sentirsi «censurata al 100 per cento». «Per questo viaggio tanto. Voglio che il mio messaggio esca e si diffonda». Ai tempi del Nobel, l'allora presidente Khatami sminuì il premio come «un atto politico, privo d'importanza». Qualcuno parlò di «gelosia», giacché nel 2001 lo stesso Khatami era stato, senza successo, candidato al Nobel. «È un vero peccato, perché non sono mai stata una sua rivale. Sono un avvocato dei diritti umani e mai e per nessun motivo entrerò in politica». Perché?
«Preferisco giudicare il governo dall'esterno. Perché anche la democrazia più avanzata rischia di trasformarsi in dittatura, se non la si critica».
Ma un conto è attaccare i poteri dispotici, un altro è prendersela con la religione, come fa la scrittrice d'origine somala Ayaan Hirsi Ali. «Le sue tesi — spiega la Ebadi — sono pericolose, reazionarie e identiche a quelle delle dittature islamiche che dice di aborrire. La signorina Ali sostiene che, per qualsiasi azione intrapresa da governi non democratici in Iran e Arabia Saudita, la colpa ricade sull'Islam.
È la stessa identica tesi di quei regimi. Che si difendono dalle accuse di tirannia affermando di "limitarsi a seguire regole e precetti dell'Islam"».
Il suo timore è che il messaggio di Hirsi Ali possa fomentare l'odio antislamico, già molto in voga in Europa. «Io preferisco enfatizzare i tanti punti in comune tra Islam, giudaismo e Cristianesimo. Dobbiamo invitare la gente alla riconciliazione e alla concordia, non incitarla al conflitto e alla violenza». Anche il contrasto Iran-ebrei, a suo dire, è fittizio: «Sin dai tempi dell'imperatore Ciro il Grande, gli ebrei erano amati e benvenuti in Persia. L'antisemitismo non è nel nostro Dna».
In Iran, oggi, continua ad avere molti amici ebrei: «Certo, la rivoluzione islamica ha introdotto regole discriminatorie nei loro confronti. Ma ciò è vero per qualsiasi gruppo religioso non sciita. I più perseguitati oggi sono i baha'i». Nella lista nera del regime ci sono anche centinaia di intellettuali, scrittori, femministe e dissidenti che la Ebadi rappresenta da anni, completamente gratis.
Lo scorso aprile la scrittrice ha lanciato una provocatoria proposta al governo di Teheran: indire un referendum, sotto l'egida dell'Onu, per far decidere al popolo iraniano se perseguire il programma nucleare. «Ahmadinejad continua a dire che è il popolo a chiedere il nucleare e che il suo programma è a scopi pacifici. Il mondo non gli crede; quindi non gli resta che democratizzare il sistema politico. Perché solo quando i cittadini potranno supervisionare le azioni dei loro leader, che oggi decidono tutto clandestinamente, nascondendosi dietro porte chiuse, potremo dormire sonni tranquilli». Tra una battaglia e l'altra riesce a trovare un po' di tempo per scrivere? «La scrittura è il ristoro che mi alleggerisce le spalle appesantite dal mio lavoro di avvocato. Magari non dormo, ma trovo sempre la maniera di scrivere. Lo faccio soprattutto negli aeroporti, tra un volo e l'altro».
Il suo nuovo libro, in uscita l'anno prossimo, è dedicato alla diaspora iraniana. «La rivoluzione islamica — racconta — ha disperso il mio popolo attraverso il mondo. Secondo l'Unesco, l'Iran ha il più elevato tasso di fuga di cervelli rispetto a qualsiasi altro Paese del pianeta. La mia nuova opera esplorerà questo doloroso e inarrestabile fenomeno». Rimpianti? «Mi dispiace di non essere riuscita ad incontrare papa Wojtyla, candidato con me al Nobel, il primo che mi telefonò per congratularsi. Era già molto vecchio e malato e purtroppo non ce l'abbiamo fatta a conoscerci di persona».
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 2 L'INCONTRO DI SABATO
Solo lui può ripensare la sinistra. E da Fagioli lo ha dimostrato
di Antonio GhirelliL'«analisi collettiva» che Fausto Bertinotti ha tenuto venerdì scorso con gli allievi di Massimo Fagioli all'Auditorium di Roma riscuotendo enorme successo, merita qualche riflessione per una serie di buone ragioni. La prima riguarda l'oratore: uno dei pochi dirigenti del movimento democratico che, al di là della sua collocazione nella "sinistra alternativa" e di un palese autocompiacimento, offre serie garanzie di cultura umanistica oltre che politica, di brillante intelligenza e di un'ansia di ricerca che è davvero poco diffusa nell'era del Partito democratico e di Forza Italia.
La seconda, e ancor più importante, ragione di interesse per ciò che dice e fa l'ex sindacalista lombardiano, chiama in causa il pauroso sbandamento di cui è preda non tanto il centrosinistra, che è una coalizione ancor più casuale e caotica della defunta Casa delle libertà, quanto la stessa costellazione della sinistra.
E accaduto, infatti, ciò che tanti di noi compreso il sottoscritto avevano previsto quando si è cominciato a concretare il progetto della trasformazione nel Pd dell'alleanza elettorale dell'Ulivo: l'ala più moderata degli ex popolari ha già cominciato nelle elezioni amministrative a trasferirsi all'ombra di Pezzotta, mentre quella più coerente dei Democratici di sinistra ha dato eloquenti segni di insoddisfazione, oscillando tra l'astensionismo e l'arruolamento nelle tre formazioni alternative: l'ex correntone, il Pdci e Rifondazione. Per giunta, la disfatta del nuovo partito nel Nord ha provocato la reazione allarmata di quei sindaci e governatori piantati in asso dall'elettorato, e quindi tentati di regionalizzare il Pd anche per reagire all'esclusione del comitato dei 45. Le liti e le gelosie tra i capi del Pd centrale, più la dispettosa rivolta di Bordon e pochi altri secessionisti, hanno completato un quadro che non è solo desolante ma anche allarmante perché rischia di moltiplicare, anziché ridurre, il numero dei partiti in concorso e quindi di accentuare la confusione e la inefficienza del governo.
In questo contesto è fin troppo facile pensare che soltanto Bertinotti potrebbe tentare l'unificazione o la federazione di partiti e di gruppi riluttanti all'assorbimento della sinistra in una formazione moderna, ma moderata e sostanzialmente di ispirazione cattolica, come il Pd che tra l'altro si trova a operare in una fase storica di strenua mobilitazione del Vaticano nel segno dell'ortodossia dottrinaria proprio (e quasi esclusivamente) nel nostro Paese. Ed è alla luce di questa situazione, mentre il mondo delle banche e delle imprese mostra modesti ma indiscutibili segni di ripresa, che la partecipazione del presidente della Camera alla "analisi politica" degli allievi di Fagioli e in particolare alcune sue esternazioni prendono risalto.
Lasciamo stare gli apprezzamenti autocritici su Sironi e su Céline che possono apparire anche un po' ingenui, ma già l'ammissione che la destra non è necessariamente «rozza e ignorante» e che una ricerca può essere «buona» indipendentemente da chi la conduce, è un passo avanti nel rifiuto del settarismo. Ancor più significativa è la condanna della violenza nonché dell'idea che «prima è la presa del potere e poi la sua trasformazione», talché la rivoluzione diventi per Bertinotti soprattutto «un processo di liberazione», in nome di una «rottura con il passato», ossia con il comunismo di obbedienza sovietica.
Ma nell'atto stesso in cui l'oratore dell'Auditorium prospetta queste sostanziali varianti al teorema della Terza Internazionale, egli tiene a sottolineare che «una sconfitta non segna per forza in modo negativo il valore di un'esperienza»: una proposizione discutibilissima dal momento che stiamo parlando di settant'anni di storia, di massacri e sofferenze inaudite per centinaia di milioni di esseri umani, una frase che ha in molti l'aria di rappresentare una concessione tattica a gran parte dei sostenitori della sinistra alternativa. Subito dopo, però, Beninotti ha parlato di «una sconfitta della storia grande e terribile del comunismo», sostenendo legittimamente che essa «non cancella il problema della necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento, tanto più nella fase attuale, dominata dalla globalizzazione, dalla mercificazione totale delle cose, ma anche degli uomini».
C'è dell'esagerazione in questa analisi, la quale esula la considerazione delle mirabili conquiste scientifiche, mediche e tecnologiche che la società postindustriale registra, delle memorabili riforme nel campo dei diritti individuali e sociali, della travolgente riscossa dei paesi già coloniali. Ma, nella sostanza, il problema delineato da Bertinotti trova tutti noi socialisti assolutamente concordi. Ciò che ci lascia perplessi, invece, è la contraddizione tra l'ammissione che bisogna prendere coscienza dell'impossibilità di vincere «senza ripensamenti e senza indagare in nuovi territori» (cioè senza una seria autocritica sul fallimento del comunismo) e la pretesa di imporre una sinistra "alternativa" alla socialdemocrazia, senza uno straccio di altrettanto seria strategia che non si riduca al movimentismo o alla difesa tetragona di un welfare ormai anacronistico (e, comunque, realizzato a suo tempo dai revisionisti e non dai bolscevichi). E allora? Dividerci in nome di un'alternativa immaginaria fa semplicemente il gioco delle multinazionali, delle grandi concentrazioni bancarie e della nostre ingorde corporazioni. È un suicidio.
il Riformista 5.6.07
FAUSTO 1. IL SUO SAGGIO SULL'EUROPA E LA SINISTRA
Chi sta al governo non può far opposizione L'ibrido di Bertinotti esclude il riformismo
di Rino FormicaDobbiamo esser grati al presidente Bertinotti per aver risollevato il dibattito teorico a sinistra con il saggio
L'Europa e la Sinistra. Il paradosso del vuoto e della necessità sulla nuova rivista da lui diretta. Rischiava, tutta la discussione, di annullarsi nel vuoto politico non dell'Europa (come afferma sin dal titolo il presidente della Camera forse dimentico che quel vuoto è stato recentemente occupato dalla destra sarkoziana) ma nel vuoto della discussione sul nuovo Partito democratico che si sta spegnendo nell'elaborazione dei regolamenti e procedure elettorali ai quali viene meccanicisticamente affidata la scelta del leader.
Tornando al contributo dell'onorevole Bertinotti, non può sfuggire la portata e l'ammirazione della fatica, vale a dire lo sforzo di definire i nuovi confini della sinistra (dopo la fusione ulivista), affermare le ragioni politiche e storiche dell'identità della sinistra, della maturità di un progetto unitario del complesso della sinistra, dove per "complesso" non si intende l'aggregazione quantitativa di forze, esperienze e soggetti che si muovono in questo campo, ma un'area che va politicamente organizzata e che comprende la sinistra operaia e sindacale (quella legata alla centralità della fabbrica e della figura del lavoratore, centralità negata dal nuovo capitalismo che invece vuole relegare il soggetto lavoratore nella frammentazione sociale e politica) e poi, i movimenti sociali, i movimenti delle vecchie e delle nuove radicalità, gli eretici di ogni stagione, e giù sino ai soggetti, alle nuove marginalità e alienazioni, alle nuove sofferenze sociali e individuali.
Vasto programma, unificare politicamente le forze già organizzate nelle forme politiche tradizionali con la sinistra eretica e movimentista, con il soggetto alienato. Da Gramsci a Marcuse, insomma. Il contesto in cui il progetto bertinottiano si muove è segnato dal trionfo e dal dilagare del nuovo capitalismo vorace come sempre di tempo di lavoro e di non lavoro, il cui paradigma scientifico e tecnologico «sposta la soglia dello sfruttamento alla mente stessa dell'uomo», per usare le parole di Bertinotti. Ma non l'avevamo anche capito dai
Gründrisse di Marx?
Cosa può opporre la sinistra a questo progetto totalizzante? Al dilagare del "vuoto politico" riempito soltanto dal neoegemonismo del capitale che sradica la classe operaia dal luogo storico della fabbrica per ricacciarla nella dimensione individuale, nel mondo alienato della società dei consumi?
La sinistra (ovvero l'ibrido bertinottiano di Partito-chiesa più movimenti ereticali) non può opporre certamente le esperienze delle socialdemocrazie, né dei socialismi italiano ed europeo degradati a «culture liberalsociali», cornpromesse con il neoliberismo responsabile di questo sconquasso politico e sociale. Non può riproporre il compromesso socialdemocratico che dal dopoguerra a oggi ha rappresentato (secondo il nostro modesto giudizio) una stagione di conquiste economiche e civili ma che, secondo il presidente della Camera, ha rappresentato la condizione dell'invadenza capitalistica. La massima concessione che Bertinotti può concedere all'attualità del socialismo è quella di separare il proprio corso dai socialisti.
Allora, se dobbiamo tralasciare socialismi e riformismi, socialdemocrazie e compromessi socialdemocratici, se dobbiamo lasciare nell'armadio quarant'anni di storia del movimento operaio italiano ed europeo, qual è lo strumento in grado di «collocare l'iniziativa in una società attraversata, oltre che da movimenti di cambiamento, da divisioni e frantumazioni di ogni sorta, da solitudini e scoppi di violenza, da individualismi e egoismi tribali»? Bertinotti ha la risposta: un nuovo soggetto della sinistra.
Chiediamo a Bertinotti una precisazione: sarebbe un nuovo soggetto iscritto nel solco del socialismo europeo, che si richiama a quella tradizione? No, ribadirebbe Bertinotti, è un nuovo soggetto della sinistra e basta. Ma alla nettezza della risposta non corrisponde altrettanta chiarezza di profilo per la sinistra immaginata e desiderata. E un composto formato da tanti pezzi non tutti componibili e compatibili. Troviamo la sinistra elitaria di provenienza azionista (quella che le masse un giorno capiranno), la sinistra operaista e sindacalista, la sinistra libertaria, i movimenti forgiati nelle lotte del Sessantotto nutriti dall'ideologia del comunismo rivoluzionario e i nuovi movimenti che a quell'esperienza si sono ispirati e che a quell'ideologia si sentono estranei.
È questo il nuovo soggetto della sinistra? La sinistra che deve opporsi alla destra larga di Sarkozy in Francia e dei Sarkozy sparsi in tutta Europa? E praticabile l'unificazione delle forme ereticali nate dalla crisi del comunismo e del massimalismo? E possibile riannodare tali forme attorno al Partito di classe, a quel che resta del partito togliattiano berlingueriano? Ne dubitiamo.
Piuttosto che la riunificazione del variegato mondo ereticale della sinistra attorno al suo nucleo di ortodossia (altro esperimento estremo del presidente Bertinotti!), a noi sembra più realistico pensare a un soggetto di sinistra che si riconosca nell'orizzonte e nella cultura dell'idealità di emancipazione e di progresso, che è propria del socialismo, e nello stesso tempo sappia rinnovarsi e proporsi si come forza di governo di alternativa democratica e riformista alla destra.
Questa sinistra l'abbiamo chiamata del socialismo largo, che attragga non il caleidoscopio delle radicalità. degli elitarismi e delle eresie del comunismo, ma costruisca un soggetto che includa forze organizzate in un progetto di avanzamento della condizione umana e civile e che incardini questo progetto nelle condizioni dell'oggi, un progetto che riconosca sì le contraddizioni della modernità ma che sappia indicare le strade per la loro risoluzione in un rapporto con le altre forze di sinistra e del centro democratico. Un progetto di governo per un paese moderno come il nostro, per oggi e non per un lontano futuro.
Quello che Bertinotti non spiega è il procedimento attraverso il quale il movimentismo che per sua natura e costituzione è a vocazione antigovernativa, strutturalmente all'opposizione, anticipatrice e valorizzatrice delle contraddizioni presenti e potenziali ma non attrezzato e interessato a ricercare le soluzioni pratiche, diventa compatibile con la cultura di governo. Non si chiede di trasformare le culture antagoniste in cultura di governo ma quanto meno di essere il pungolo di una cultura di governo.
Vorremmo dire al presidente Bertinotti che chi governa non può essere allo stesso tempo opposizione. Tra l'altro la cultura di "governo" che anima il partito di cui Bertinotti è insostituibile esponente non prevede la parlamentarizzazione delle radicalità diffuse e organizzate nella società (linea che fu ad esempio del vecchio Pci), ma intende coltivarle nella loro caratteristica "naturale" di opposizione permanente al sistema, nella loro vocazione radicale e rappresentarle nella loro contrapposizione sistemica. A meno che Bertinotti non dica che l'odierna collocazione governativa della sinistra antagonista è un incidente della storia, buono solo per dimostrare al contrario quanto sia dannoso per questa parte della sinistra intrattenere rapporti con le culture riformiste, dal momento che la condizione della governabilità di per sé mortifica e impoverisce la potenza liberatrice dei movimenti.
Senza dare lezioni ad alcuno, né tanto meno al presidente Bertinotti, ricordiamo che per chi voglia porsi sul terreno della sinistra del socialismo europeo, la democrazia dell'alternativa non può intendersi come incidente della storia, perché questa è precisamente la storia del socialismo europeo.