mercoledì 6 giugno 2007

l'Unità 6.6.07
L’accusa: servizi troppo disincantati. Il direttore Sansonetti: ma se aveva dubbi anche il Che...
Per amore di Cuba si contesta Liberazione
di
Paolo Molinari

Giù le mani da Cuba. Alcune decine di appassioanti dell’isola caraibica hanno manifestato ieri sotto le finestre di Liberazione, infuriati per il racconto del tramonto castrista fatto da Angela Nocioni. Una Cuba lontana dallo stereotipo dell’isola della felicità, un regime che nasconde l’assenza dei diritti più elementari (libere elezioni e libera informazione) sotto la propaganda. Non che Angela Nocioni abbia scritto delle falsità, spiegano i manifestanti, «ma ha omesso di specificare che Cuba vive da 40anni l’embargo Usa». C’è poi il fatto, più grave, che Liberazione è andata al di là della linea del partito, come spiega Silvia, membro della direzione del Prc, «e questo non è accettabile. Se si vuol fare un giornale politico che non sia organo di partito va bene. Ma se si vive con i soldi del partito bisogna attenersi alle sue posizioni».
Questa la versione dei lettori che poi, da una settimana, imperversa sulla rubrica delle lettere del quotidiano.
Per il direttore Piero Sansonetti, la sua giornalista Angela Necioni è «Coraggiosa, brava e deontologicamente impeccabile». Ai manifestanti risponde ricordando il dovere di ogni giornale di essere «autonomo rispetto ad ogni condizionamento» e aggiungendo che «Liberazione fortunatamente è un organo di partito che, proprio per questo non ha la dipendenza dai poteri economici di cui soffrono altri quotidiani e che consente di poter scrivere quello che si vuole purché sia la verità». Angela, «ha utilizzato due storie, il dramma di Giustino De Celmo e delle mogli dei 5 eroi, per raccontare la decadenza della propaganda castrista». Una propaganda, conclude Sansonetti, tanto più grottesca quando l’America Latina «vive una primavera politica, tra Lula e Chavez, molto diversi dal castrismo. E poi c’è da dire una cosa: se 45 anni fa anche il Che aveva le sue remore sul Leader Maximo, figuriamoci se non le possiamo avere noi».

l'Unità 6.6.07
Sinistra democratica-Sdi non scocca la scintilla


ROMA Restano divise le strade di Sdi e Sinistra democratica. Sì, qualche punto di convergenza c’è, su laicità, innovazione e ricerca, Resta la strategia dell’attenzione reciproca. Ma Mussi e Boselli, dopo due ore di faccia a faccia, non riescono ad appianare le diversità di vedute. Proseguiremo il confronto, ci rivedremo, dice il ministro Fabio Mussi. Ma, sostiene il segretario dello Sdi, Enrico Boselli, «un conto è la socialdemocrazia, ben altro conto è la sinistra antagonista». Lo Sdi ha in mente un percorso chiaro, la Costituente socialista: «Sono sempre stato convinto che per far nascere in Italia una forza che fa parte del socialismo europeo non lo si può fare accordandosi con il Prc, che sta da un'altra parte» dice Boselli. Intanto il 7 giugno si riuniranno tutti i parlamentari della sinistra-sinistra. «Vedremo da lì cosa uscirà - dice il segretario dello Sdi - ma siccome il cuore dell'incontro è la politica sociale ed economica, su Dpef e extragettito, se prevale la piattaforma del Prc, cioè della sinistra alternativa, sarà difficile trovare convergenze».
Più ottimista il ministro Mussi. Perché non pensare a un’alleanza con Prc e Pdci sulle politiche economiche e sociali, e con i socialisti sul terreno della laicità e dei diritti civili? Un accordo a geometria variabile: «In fondo tutti devono sentirsi messi in discussione dall’avvento del Pd». Anche le vecchie classificazioni tra «riformisti, radicali, antagonisti possono mutare. Vogliamo costruire convergenze programmatiche con tutti. Se sono rose fioriranno».
Molto deluso invece Gavino Angius, leader dell’ex terza mozione: impensabile ricostruire una larga sinistra italiana sotto l’egida di Rifondazione, e magari confluire in una piattaforma comune. Anche perché - ragiona il senatore - non possiamo dimenticarci che siamo parte del socialismo europeo.
Morbidissimi i toni del Prc. «Non abbiamo mai posto un problema di guida - dice il segretario Franco Giordano - ma una questione di urgenza, che mi sembra condivisa soprattutto da Mussi, di accelerare il processo di unità a sinistra, e decisiva è la condivisione del piano economico e sociale. Bisogna costruire un soggetto politico nuovo in chiave pacifista, antiliberale, ambientalista. Con lo Sdi è necessario un confronto e un'azione comune su temi come la laicità: immagino un soggetto federativo».

Repubblica 6.6.07
Caruso: rischio scontri nelle stazioni


ROMA - «Non avremo un servizio d´ordine ma non ce ne sarà bisogno. La nostra sarà una manifestazione pacifica e partecipata contro tutte le guerre. Chi prospetta disordini e tafferugli vuole solo creare allarmismi». Parole rassicuranti quelle di Nella Ginatempo, uno dei portavoce del "Comitato 9 giugno" che ha organizzato il corteo "No war" nel pomeriggio di sabato 9 giugno. Parole alle quali fanno eco quelle del prefetto Serra, che con gli organizzatori ha intrattenuto serrate trattative: «E´ il dialogo che deve prevalere. Mi auguro così che se ci dovesse essere qualche malintenzionato all´interno del corteo verrà isolato».
Un centinaio le sigle presenti, da Action ai Centri sociali passando per i Cobas, i movimenti contro la base di Vicenza, i Disobbedienti. Nessuna paura dei black bloc, come ipotizzato in molte informative dei servizi: «Noi non abbiamo alcuna informazione allarmante su eventuali provocazioni, se voi ne avete fatecele sapere». Guerra aperta, invece, con Trenitalia, accusata di non aver accettato lo sconto al 50% nei convogli che porteranno i dimostranti nella capitale. «Col governo Berlusconi abbiamo sempre ottenuto la riduzione della metà del biglietto, col governo Prodi ci hanno proposto un taglio del 20% - accusa il leader dei Cobas Piero Bernocchi - lo stesso che si offre a qualunque gruppo di dieci persone. Prodi sta facendo cose inaudite nel tentativo di bloccare il nostro corteo. Francesco Caruso, eletto nelle liste di Rifondazione, va oltre e accusa l´azienda ferroviaria di «voler trasformare Roma in una grande zona rossa. Non si comprende per quale motivo Trenitalia assicura agevolazioni per l´allestimento di treni speciali in occasione del Family day, mentre cerca in tutti i modi di mettere il bastone tra le ruote a chi organizza un corteo contro la guerra, rischiando di far degenerare la giornata del 9 giugno fin dalle prime ore del mattino, creando scontri e tensioni in varie stazioni del Sud e del Nord Italia». L´avvertimento è lanciato e i movimenti napoletani hanno già annunciato l´intenzione di occupare i convogli. La replica dell´azienda ferroviaria è un asciutto comunicato in cui si precisa che «in concomitanza con manifestazioni sportive, politiche o di opinione, quali il Family day citato dall´onorevole Caruso, sono previsti i prezzi normalmente applicati nel quadro delle offerte commerciali di Trenitalia».
Altro motivo di malumore è il fatto che il percorso del corteo (da piazza Esedra a piazza Navona passando per via Cavour, piazza Venezia, piazza San Marco e corso Vittorio) non è stato ancora approvato ufficialmente dalla questura. Se ci saranno "zone rosse" in sostanza, verranno violate: «Il corteo deve essere garantito - chiarisce Francesco Raparelli del Comitato - se ci saranno zone rosse lungo il percorso, saranno violate, se tenteranno di impedire il corteo, si farà lo stesso».
(m. l.)

Repubblica 6.6.07
Lo studio dell'università di Stanford pubblicato sulla rivista "Nature Neuroscience"
"Dimenticare aiuta a ricordare" così si seleziona la memoria
di Benedict Carey


"Sapevamo che esiste una ragione se inibiamo alcuni ricordi, ora abbiamo capito dove e come ciò avviene"
"Se scordate un numero non vuol dire che state perdendo colpi, ma che la testa funziona a dovere"

CIASCUNO DI NOI, ogni giorno, ha molteplici occasioni per maledire la propria mancanza di memoria. Per esempio quando si cerca di ricordare una nuova password, o la propria ricetta preferita o il nome di un vecchio boyfriend. E si va incontro al buio totale. Ma dimenticare può anche essere una vera e propria benedizione: nei giorni scorsi alcuni ricercatori hanno riferito che la capacità di escludere alcuni ricordi riduce le pressioni sul cervello nel momento in cui si cerca di richiamare alla memoria qualcosa di importante.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, è il primo a riportare le immagini di un cervello intento a sopprimere alcuni ricordi che potrebbero distrarlo. Quanto più efficacemente i partecipanti all´esperimento riuscivano a escludere alcune parole irrilevanti durante un test di memorizzazione di parole, tanto più rilevante era la diminuzione di attività nelle aree cerebrali coinvolte nel ricordo. In termini di energia richiesta, insomma, ricordare in maniera accurata potrebbe diventare più facile dimenticando.
Il processo col quale si esclude un ricordo che potrebbe distogliere la nostra attenzione, secondo gli esperti è simile a quello con cui ignoriamo una vecchia conoscenza (che forse ci distrae), e la volta successiva che la incontriamo ci riesce molto più difficile riprendere i contatti con lei. Da alcuni studi condotti di recente emerge che il cervello si comporta con i ricordi nello stesso modo: in un certo senso ne snobba alcuni per trattenerne meglio altri. Avere una memoria fulminea, quindi, non dipende tanto dall´avere una particolare attitudine, bensì dal saper sfrondare i ricordi in modo spietato. Lo studio ha catturato le tracce di questo processo mentre è in corso.
«Da tempo sostenevamo che dimenticare ha una sua ragione d´essere, che si cancellano alcuni ricordi per agevolare la concentrazione mentale», dice Michael Anderson, docente di neuroscienze cognitive all´università dell´Oregon. Anderson, che non ha preso parte alla nuova ricerca, ha detto che si tratta di uno «studio molto importante, che ci aiuta a individuare con precisione in che modo tale processo ha luogo da un punto di vista neurobiologico». I ricercatori autori dello studio, neuroscienziati dell´università di Stanford, hanno utilizzato un test di memoria concepito per misurare quanto bene alcuni soggetti riuscivano a ricordare alcune parole apprese, che erano state inserite in mezzo a molte altre parole simili. Per l´esperimento hanno scelto venti giovani uomini e donne, quasi tutti studenti di Stanford, e hanno mostrato loro in rapida successione un elenco di 240 abbinamenti di parole. Hanno poi misurato quanto bene ciascun soggetto fosse riuscito a dimenticare gli abbinamenti di parole che potevano distrarlo. E tutto ciò è stato effettuato mentre i partecipanti si sottoponevano a risonanza magnetica al cervello.
«Dalla risonanza magnetica abbiamo riscontrato che la portata della diminuzione dell´attività cerebrale era correlata alla quantità di ricordi in concorrenza tra loro che venivano messi in disparte» ha detto Brice Khul, studente di psicologia a Stanford e autore dello studio insieme a Anthony Wagner, Nicole Dudukovic e Itamar Kahn. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che quanto più un partecipante allo studio aveva cancellato dalla memoria gli abbinamenti di parole concepiti per distrarre, tanto più rilevante era il calo di attività in una regione cerebrale denominata corteccia cingolata anteriore. Insomma, la gente dimentica così spesso le nuove password per la presenza tra i ricordi personali delle vecchie password o di quelle ancora in uso. Quanto più il cervello riesce a dimenticare i dati che distraggono, tanto più potrà memorizzare quelle nuove.
Concludendo, la ricerca suggerisce che i ricordi sono più spesso lasciati fuori più che persi per sempre. La scoperta dovrebbe altresì ridurre parte dell´ansia che si prova allorché si va incontro a un «black-out da terza età»: alcuni nomi, numeri e dettagli sono difficili da ricordare non perché la memoria sta perdendo colpi, ma perché funziona a dovere.
© 2007 The New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)


L'INTERVISTA
Stefano Cappa, preside della facoltà di piscologia al San Raffaele di Milano
"Se trattenessimo tutte le informazioni non ci sarebbe abbastanza spazio"
di Luigi Bignami

ROMA - Stefano Cappa è preside alla facoltà di psicologia dell´università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
Perché è importante aver capito che dimenticare aiuta a ricordare?
«Perché si sono date le basi biologiche ad un fenomeno che era noto solo a livello psicologico. Si sapeva che era necessario dimenticare qualcosa per ricordare altro, ma non era noto cosa succede praticamente nel nostro cervello. Ora lo si è scoperto. Lo studio dell´università di Stanford, inoltre, è un´ulteriore dimostrazione che la memoria non è un serbatoio che riceve passivamente le informazioni, una specie di scatola chiusa da riempire a volontà. In realtà la memoria è un processo molto più dinamico e complesso, dove le "memorie" competono tra di loro per far emergere quella più importante in quel momento. E così il dimenticare assume un ruolo fondamentale per ciò che si vuole ricordare. Si dimostra cioè che certe aree del cervello diminuiscono la loro attività a favore di quelle che devono far emergere il ricordo che si vuole portare in superficie».
Ma questo avviene perché la memoria ha un limite?
«No, la memoria non ha un limite definibile, ma è un processo dinamico dove esiste una specie di selezione di ciò che è meglio ricordare in un determinato momento. Se ricordassimo tutte le informazioni che ci bombardano, il "ricordare" sarebbe un processo inefficiente».
Quando mi devo preoccupare di ciò che mi dimentico?
«Non c´è da preoccuparsi se si dimenticano le informazioni nuove che entrano nel cervello, perché può essere vantaggioso. C´è da preoccuparsi invece, quanto sono le informazioni importanti a non essere più disponibili. Il dimenticare diventa preoccupante quando interferisce in modo continuo con quello che dobbiamo fare».
Quali conseguenze può avere questa scoperta?
«Potrà avere ripercussioni sulla possibilità di agire sulla formazione o sulla cancellazione delle tracce della memoria. In altre parole è un nuovo piccolo passo verso la possibilità di manipolare la memoria».

Repubblica 6.6.07
Un saggio sui rapporti fra i tre personaggi
Silvio, Benito, Napoleone
di Filippo Ceccarelli


Affinità emulazioni e gioco di specchi
L'autore è uno storico vicino a fini

Mesi orsono, scherzosamente serio o seriamente scherzoso, comunque al suo solito Silvio Berlusconi andava ripetendo: «C´è un clima da "aridatece er puzzone"». Era un´auto-identificazione piuttosto impegnativa perché il «puzzone», come si sa, è Benito Mussolini. Ma la storia è piena di puzzoni, anche per questo forse debitamente rimpianti.
Uno, il più grande, era Napoleone Bonaparte. E giusto ieri, su Libero, è comparso un vistoso fotomontaggio in cui la faccia di Berlusconi era sovrapposta a quella del condottiero francese ritratto a cavallo nel famoso dipinto di Jacques Louis David.
Ora, si può sempre girare pagina, si possono ignorare le vignette o liquidare le facezie che fanno titolo sui giornali. Ma poi: in quale oscura zona dell´immaginario gorgogliano queste evocazioni? E che cortocircuito le fa prorompere nell´attualità politica con la potenza straniante di un sogno che condiziona la realtà?
Ecco, c´è uno studio che ricostruisce la corrispondenza, l´affinità, l´ammirazione, l´emulazione, il gioco di specchi, il filo rosso che collega da una parte Napoleone e Mussolini; e dall´altra annoda e stringe entrambi i personaggi a Berlusconi.
Un testo serio e per molti versi allarmante: L´ombra lunga di Napoleone. Da Mussolini a Berlusconi (Marsilio, pagg. 163, euro 11). Anche perché chi l´ha scritto, Alessandro Campi, storico dell´università di Perugia e già autore del Mussolini uscito nella collana «L´identità italiana» del Mulino nel 2001, non è certo sospettabile di anti-berlusconismo, né viscerale, ne pregiudiziale. E´ anzi, Campi, uno studioso che la stretta gabbia del bipolarismo culturale colloca a destra, per l´esattezza tra i nuovi consiglieri di Gianfranco Fini. Ma proprio per questo suona tanto più puntuale e preziosa la sua analisi: una «messa in guardia sulla patologia del potere - come scrive lui stesso - nell´epoca della politica di massa». C´è da chiedersi come la prenderà il Cavaliere, ammesso che sia disposto a leggersi questo genere di studi. Ma non è questo il punto.
Impressiona piuttosto, al di là delle classiche barzellette sui matti, ma anche sorvolando su curiose coincidenze di ordine biografico-logistico (Arcole-Arcore, Villa San Martino, lo stesso nome della dimora di Bonaparte all´Elba, la vicinanza tra Palazzo Grazioli e Palazzo Bonaparte a Roma, l´"altarino" di statuette dell´imperatore di Francia conservate a Villa La Certosa), ecco, davvero colpisce la sovrabbondanza di elementi napoleonici, o per meglio dire «napoleonistici», che si ritrovano a occhio nudo nella figura di Berlusconi.
La forza visionaria, il modo di intendere e utilizzare il potere, il desiderio di auto-affermazione, la capacità organizzativa e gestionale, il talento comunicativo. Questo sul piano oggettivo. Mentre è su quello individuale e caratteriale, di solito trascurati dal discorso pubblico e dalla ricerca storica, che emerge l´antropologia e la psicologia di un potere che non sa darsi alcun limite, «autentico demone che consuma l´anima». Febbre interiore, dunque, megalomania, riduzione a sé della sfera pubblica, tentazioni dinastiche familiari, mancanza di pudore, sfrontatezza; senza contare «il ricorso sistematico, scontato, alla menzogna», la verità costruita ad arte e imposta «a sigillo del comando».
Alessandro Campi dimostra con dovizia di fonti come N. (Napoleone) fu il consapevole modello di M. (Mussolini). Ma tra quest´ultimo e B. (Berlusconi) la «filiazione» o addirittura la «reincarnazione» in chiave democratica appaiono, con gli occhi di oggi, ancora più lampanti. Stessa gioventù scapestrata (e stessa mamma di nome Rosa), stessa mancanza di Maestri, stesso egocentrismo, stessa incontinenza verbale, stessa mostruosa mole di lavoro, stessa insicurezza che si traduce in smanie complottistiche e persecutorie, stesso camaleontismo, stessa attitudine al stesso senso dello spettacolo. Tribunizio Mussolini, televisivo Berlusconi. Il cipiglio militaresco in un caso, il sorriso del venditore nell´altro.
Come se la storia d´Italia, avanzando, adeguasse le proprie forme espressive per meglio conservare gli archetipi del potere. Fino al compimento di un ciclo, al raggiungimento di quella perfetta simmetria che consente a Campi di insistere sul significato delle grandi personalità nella vicenda pubblica storia.
Di qui l´inesorabile reductio di Silvio ad Benitum. Tutti e due autodidatti, quindi outsider di una politica che non nasconde il medesimo fondo demagogico e si fa forte di una comune ispirazione dichiaratamente eversiva. Tutti e due convinti di essere degli artisti, dei musicisti. Istrioni consapevoli. Seduttori instancabili e celebratissimi, veri e propri leader capaci di intrattenere un rapporto erotico con la folla - con tutti i rischi del caso.
Un´ombra lunga, doppia e rinforzatissima. Occhio alle vignette, perciò, alle battute e ai fotomontaggi.

Liberazione 6.6.07
Nei "Quaderni" c'è la chiave per leggere la crisi della politica
di Pasquale Voza


Continua il dibattito su Gramsci e la sua attualità. Gli scritti del carcere contengono spunti preziosi per capire la formazione
"molecolare" del soggetto che non è mai qualcosa di dato a priori ma si costruisce nella pratica e nella lotta culturale

Qualche tempo fa, negli anni Novanta del secolo scorso, lo storico inglese Hobsbawm osservava che l'opera di Gramsci, in quanto "classico" del Novecento, aveva ormai varcato i confini della sinistra. Ciò non escludeva, tuttavia, come fu sottolineato da Guido Liguori in un passaggio finale del suo volume ( Gramsci conteso ), che quell'opera potesse costituire ancora un punto di riferimento essenziale e ineludibile per tutte le forze di sinistra impegnate ad elaborare forme, molteplici e varie, di antagonismo critico e di conflitto politico e sociale con lo stato di cose presenti, con la realtà della globalizzazione capitalistica.
Su un altro piano di considerazioni, l'enorme fortuna e presenza oggi dell'opera gramsciana nel mondo non dovrebbe - credo - sollecitarci ad uno sforzo sfibrante e in sé rigoristico di continua distinzione e selezione tra gli usi e gli abusi di Gramsci, bensì stimolarci, secondo la stessa prospettiva gramsciana di una «filologia vivente», ad una continua interrogazione critica della integrale storicità di tutte le letture, le interpretazioni, le riduzioni, le semplificazioni: dalla grande presenza nell'opera di Said di Gramsci come commutatore teorico-ideologico di una peculiare visione del rapporto potere-intellettuali, e della missione di quest'ultimi di «dire la verità», alla ricchissima fioritura culturale di categorie e di spunti gramsciani nell'ambito vastissimo dei cultural studies e degli studi post-coloniali (Guha, West, Ryner, lo stesso Stuart Hall, per fare solo qualche nome), sino addirittura al "lorianismo" (si potrebbe dire con Gramsci) delle attualizzazioni politiche più indebite e strumentali, particolarmente ricorrenti da qualche decennio in Italia.
Ed è in connessione con ciò che rileggere criticamente alcune tra le principali categorie gramsciane quali egemonia, rivoluzione passiva, ideologia, intellettuali, blocco storico, può contribuire senza dubbio a farci interrogare e analizzare in profondità (s'intende anche per differentiam ) alcuni nodi fondamentali del nostro presente. Si pensi alla nozione di rivoluzione passiva: ad essa Gramsci applicava il «criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni», e in questo modo intendeva farne un possibile «principio generale di scienza e di arte politica». Nell'era post-liberale, nel tempo del fascismo e dell'americanismo, la rivoluzione passiva alludeva ad un potere moderno della politica, alla sua capacità di produrre e insieme governare processi di passivizzazione, standardizzazione e frantumazione (in assenza di «un'antitesi vigorosa», precisava con forza Gramsci, in chiave antideterministica): costituendosi, in qualche modo (come ha osservato Alberto Burgio su queste colonne), come un «idealtipo cruciale nello studio delle dinamiche di governance proprie delle democrazie oligarchiche», e non identificandosi rigidamente nelle forme in sé dei vari dirigismi più o meno "riformisti" degli anni Trenta.
Una spinta fondativa di tutta la riflessione gramsciana è costituita dalla crucialità dell'interrogativo su «come nasce il movimento storico sulla base della struttura». Tale interrogativo chiama in causa l'esigenza di elaborare una teoria della soggettività politica, che nell'autore dei Quaderni non è mai riconducibile o riducibile ad una qualche filosofia della storia: giacché per lui - come è stato osservato (Finelli) - il soggetto capace di dar vita all'iniziativa storica non è mai già dato, ma si costituisce processualmente attraverso la lotta e la prassi politica.
Ciò comporta in Gramsci, attraverso una serie di mediazioni, anche una critica serrata del concetto di «uomo in generale» e di «natura umana». Egli afferma che nel marxismo (in quel marxismo che andava ridefinendo e sviluppando creativamente) i concetti di uomo in generale e di natura umana (intesa, quest'ultima, come immanente in ogni uomo) sono rifiutati alla radice in quanto intimamente dogmatici. Il suo «umanesimo assoluto» ( absolutus , sciolto, cioè, da ogni vincolo o legame metafisico e/o idealistico) è un umanesimo integralmente laico e materialistico: esso potrebbe costituire un riferimento essenziale oggi, in tempi contrassegnati da forme nuove e spesso devastanti di rapporto tra sacro e potere, e da una diffusa virulenza fondamentalista e neo-patriarcale.
Vorrei richiamare l'attenzione su un altro punto: Gramsci parla dell'«uomo attivo di massa» del suo presente, di quei tempi che egli chiama «tempi di socializzazioni», e ne parla - si potrebbe dire - come di un soggetto sociale e politico in formazione. Ebbene, «la comprensione critica di sé stessi» e la successiva elaborazione superiore di una propria concezione del reale possono avvenire - dice Gramsci - solo attraverso una lotta "interiore" di «egemonie politiche», di direzioni e di spinte che si contrastano tra loro prima sul piano dell'etica e poi su quello della politica. La stessa coscienza politica, in cui per Gramsci si risolve la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica, rappresenta solo la prima fase di una ulteriore e progressiva «autocoscienza», in cui teoria e pratica «finalmente si unificano». Da tutto ciò si comprende come proprio l'unità di teoria e pratica per l'autore dei Quaderni non sia un «dato di fatto meccanico, ma un divenire storico»: un divenire storico, nel quale la nozione gramsciana di molecolare ha una centralità gnoseologica e politica notevolissima, che chiama in causa lo stesso nesso spontaneità-direzione consapevole (lucidissime le considerazioni di Eleonora Forenza a tal riguardo, apparse di recente su questo giornale).
Da tutto ciò si ricava anche - credo - la radicale distanza di Gramsci, nell'elaborazione della teoria del moderno Principe, del partito moderno, da ogni concezione di autonomia del politico, comunque declinata.
Così pure la peculiarità dell'accento gramsciano sulla «comprensione critica di sé stessi» e sulla costitutiva inerenza di tale comprensione ai processi di soggettivazione politica, allontana decisamente il pensatore sardo dai rischi di un «antropocentrismo pratico e fabbrile» (Finelli), di una ideologia "produttivistica", che, dalla stagione ordinovista alle pagine di Americanismo e fordismo , costituirebbe una sottile e resistente linea di tendenza della riflessione gramsciana (secondo taluni, variamente ricorrenti, filoni interpretativi).
Infine: c'è una nota del Quaderno 9, che ci parla con parole molto vive, dinanzi agli odierni processi di riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato e di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale (ma pur sempre ricca di contraddizioni) dilatazione "totalitaria" del capitalismo post-fordista.
E' una nota che contiene un messaggio forte, concretamente "utopico", vale a dire la necessità per l'intellettuale collettivo di una critica pratica di ciò che è «oggettivo», cioè di quello che Marx aveva individuato come il potere di astrazione reale del capitale: «Per il lavoratore singolo "oggettivo" è l'incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio».

antiproibizionisti.it 5.6.07
Fonte: Agi
CANNABIS. RIGGIO: «USO NON CAUSA MA SLATENTIZZAZIONE MALATTIA»

Roma, 5 giugno 2007 - L'uso e abuso di sostanze stupefacenti ma anche il primo rapporto sessuale o la partenza per il servizio militare, possono slatentizzare una psicosi che pero' c'e' gia' prima: l'uso o abuso di cannabis non causa la malattia mentale. E' il parere dello psichiatra Francesco Riggio che opera a Roma in un 'centro esordi psicotici' per adolescenti.
Quindi lei non si ritrova nella correlazione tra uso e abuso di cannabis e l'insorgenza della psicosi?
"Solo per una piccola percentuale in cui e' gia' presente una psicosi latente - spiega Riggio - Quel che non condivido e' pensare alla malattia mentale come malattia organica, del cervello. Posso esser d'accordo sul fatto che l'uso e abuso di cannabis come pure il primo rapporto sessuale o la partenza per il militare, possono slatentizzare una psicosi latente, che c'e' gia' e che si e' strutturata nel primo anno di vita in e per rapporti interumani deludenti".
Lo psichiatra romano chiarisce "nella mia esperienza con gli esordi psicotici ho potuto constatare come l'esordio sia sempre legato ad una situazione assolutamente nuova che mette in crisi l'adolescente che non si ritrova la sua immagine interna e qui viene fuori quel primo anno di vita deludente che aveva nascosto sotto la corazza di indifferenza-anaffettivita'".
Dunque, sono i vissuti, le esperienze affettive che si vivono nei primi mesi anni di vita che decidono della sanita' e malattia di una persona?
"Esattamente - e' la risposta di Riggio - per cui se ci si ammala in/per rapporti interumani deludenti ci si puo' non solo curare ma guarire in/per rapporti interumani validi come e' un rapporto di psicoterapia basato sull'interpretazione dei sogni e il superamento dell'anaffettivita'-
indifferenza".
Si tratta, in altre parole, di ritrovare qualcosa che si e' perduto?
"Si tratta di ritrovare in un rapporto di psicoterapia la propria immagine interna - conclude lo psichiatra - ricreando nel e per il rapporto psicoterapico il primo anno di vita, cioe' quella identita' inconscia perduta".

martedì 5 giugno 2007

Associazione Antigone - Area nuovi diritti e poteri istituzionali
LETTERA APERTA AL MONDO DELLA CULTURA E DELLO SPETTACOLO: ABOLIAMO L’ERGASTOLO

“L’ergastolo è una pena che rende il nostro futuro uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e toglie speranza al futuro. È una morte bevuta a sorsi. È una vittoria sulla morte perché è più forte della morte”.
Scrivono così oltre trecento persone condannate all’ergastolo e detenute nelle carceri italiane e si rivolgono al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed alla senatrice del PRC-SE Maria Luisa Boccia, prima firmataria del disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo.
È un messaggio forte (“siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena sia tramutata in pena di morte”), un grido di fronte al quale non si può girare la testa e far finta di nonsentire.
La questione dell’abolizione dell’ergastolo, una pena che esclude per il condannato la prospettiva di una nuova vita, è questione da sempre al centro delle battaglie progressiste, è un obiettivo irrinunciabile di civiltà giuridica, è il cardine di quel “diritto penale minimo e mite” che solo può invertire la spirale perversa che continuamente si crea tra le urla scomposte del giustizialismo, l’emarginazione di intere fasce sociali, la negazione dei diritti e della speranza.
Per questa ragione l’Associazione Antigone, la Sinistra Europea e il Partito della Rifondazione Comunista hanno organizzato un pubblico convegno il 18 giugno sull’argomento (Roma, ex Hotel Bologna, ore 17) e lanciano un appello al mondo della cultura e dello spettacolo perché possa veicolare questo grido di dolore e di sollecitazione che viene dalle carceri e spingere le forze parlamentari ad una scelta coraggiosa, opportuna e civile. Per aderire: associazione.antigone@tin.it; gennaro.santoro@rifondazione.it

Prime adesioni
Giorgio Arlorio, Ascanio Celestini, Simonetta Cossu, Sandro Curzi, Erri De Luca, Leo Gullotta, Wilma Labate, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, Piero Sansonetti, Pasquale Scimeca, Daniele Vicari.

il manifesto 5.6.07
Le due piazze di Rifondazione
Il 9 giugno «no Bush» a Roma mette in difficoltà il partito.
Che promuove ufficialmente il sit-in di piazza del Popolo. Ma molti «simpatizzanti», a partire da Action, saranno al corteo antagonista

di Alessandro Braga


Roma. Rifondazione comunista starà con il piede in due scarpe. Ovvero, con i suoi militanti divisi in due piazze. Gestire politicamente la questione non sarà per niente facile.
Sabato a Roma arriverà George W. Bush e la piazza, come in qualunque luogo del mondo dove metta piede il presidente statunitense, si prepara ad accoglierlo con contestazioni. A Roma, le piazze saranno addirittura due: una stanziale, piazza del Popolo, dove la sinistra di governo assieme a Arci, Fiom e altre associazioni pacifiste ha organizzato una giornata di canti, balli e dibattiti per «suonarle e cantarle» a Bush; l'altra, in movimento, è quella della sinistra radicale non di governo, che attraverserà in corteo la città e, oltre a Bush, contesterà anche il governo italiano.
Non sarà una giornata di mobilitazione in cui ci saranno da una parte i «buoni» e dall'altra i «cattivi». Anche perché al corteo parteciperanno tante persone che sono elettori di quei partiti che se ne staranno a piazza del Popolo. Semplicemente, spiegano gli organizzatori del No Bush No War Day, quelli del corteo insomma, «ci saranno due manifestazioni perché agisce una contraddizione tra due piattaforme diverse tra loro rispetto alla visita di Bush, al ruolo degli Stati Uniti e alle responsabilità del governo italiano nella guerra permanente».
Fino alla fine, del resto, molti tra i partecipanti al corteo hanno cercato di dialogare con la piazza del Prc. Non certo i Cobas o il Partito comunista dei lavoratori, per cui la deriva governista di Rifondazione è inaccettabile da sempre ma, ad esempio, il Network delle comunità in movimento, che raggruppa tra gli altri Action, il centro sociale milanese Leoncavallo e addirittura i Giovani Comunisti, associazione giovanile dello stesso Prc.
Nunzio D'Erme ha dichiarato che «per il movimento è inaccettabile rinchiudersi in una piazza. Ma in quella piazza ci saranno tanti bravi compagni con cui vogliamo dialogare da subito». Resta il fatto, sottolineano però quelli del Network, «che di fronte alla venuta di un criminale di guerra rispondere con un concerto è inefficace. Come è improprio tacere le responsabilità del governo, soprattutto dopo che Prodi ha rivendicato la decisione di portare a termine il progetto Dal Molin».
Come per la manifestazione contro l'ampliamento della base americana di Vicenza, la patata bollente resta in mano a Rifondazione comunista. Allora, il problema era se «Vicenza valesse un governo». Ora, se è sufficiente un concerto, con contorno di dibattiti, per manifestare la propria contrarietà al presidente americano in visita in Italia.
Per il gruppo dirigente di Rifondazione pare proprio di sì. Michele De Palma, della segreteria nazionale, ha spiegato che «la manifestazione a cui aderirà il Prc sarà diversa da quella organizzata dai gruppi dell'estrema sinistra non di governo». Un piede qua e uno là insomma, un occhio alla piazza e uno agli alleati di governo. Che questo basti ai militanti della base non è così sicuro. Almeno a giudicare dalle adesioni al corteo di pezzi del Prc: da alcuni deputati a consiglieri comunali di tutta Italia, fino a semplici militanti, saranno molti i rifondaroli che marceranno contro Bush. Tutta l'area di Sinistra Critica sarà al corteo e non a piazza del Popolo. Di più, i Giovani comunisti fanno parte del Network delle comunità in movimento, tra i promotori del corteo. E il Network guarda alla Sinistra europea come cantiere praticabile per l'unità dei movimenti. Se ciò non avvenisse, dicono, «Sinistra europea rischierebbe di nascere già morta per via di un processo che coinvolge i partiti politici istituzionali, ma che bypassa il dibattito politico vero». Il rischio per Rifondazione non è solo quello di perdere contatti con il movimento, ma con i suoi stessi militanti e elettori.
Le ultime elezioni amministrative hanno già dato un segnale in questo senso: il Prc ha pagato con un sensibile calo di consensi il suo primo anno di governo. Un'ulteriore ambiguità potrebbe aumentare il numero di quegli elettori che si ritroverebbero costretti, non sentendosi più rappresentati, a scegliere alle prossime tornate elettorali la via dell'astensione.

il manifesto 5.6.07
Ora di religione. Appello al premier: sconfessi Fioroni
di Francesca Longo


Un'ulteriore novità per i ragazzi che quest'anno affronteranno l'esame di maturità: se non sei stato esonerato dall'ora di religione cattolica ci sono crediti in più. L'iniziativa ha fatto mostra di sé mesi fa in una ordinanza ministeriale ed è finita sul tavolo del Tar del Lazio dietro segnalazione della Consulta romana per la laicità delle istituzioni (cui molte associazioni, chiese protestanti, unione delle comunità ebraiche ecc. hanno aderito). Al ministro Fioroni arriva la notizia che il Tar ha accolto l'istanza di sospensione dell'ordinanza ministeriale, sebbene solo con un provvedimento cautelare, e si rivolge al Consiglio di stato. E il Presidente della sesta sezione del Consiglio di stato annulla provvisoriamente (però sino al giorno successivo agli scrutini) l'ordinanza cautelare del Tar: pertanto, almeno per quest'anno, un buon voto in religione (cattolica) è d'aiuto per risollevare le medie. Grazia divina, evidentemente.
Scrive il Tar: «Sul piano didattico, l'insegnamento della religione non può a nessun titolo concorrere alla formazione del credito scolastico per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive». Scrive la Consulta per la laicità: «Nell'attuale situazione gli scrutini si svolgeranno secondo la volontà del ministro, ma il successivo pronunciamento nel merito del Tar Lazio, che deve ancora avvenire, con molta probabilità ne porrà in dubbio l'esito annullando la parte impugnata dell'ordinanza ministeriale. Si verificherebbe così una situazione di incertezza giuridica sul corso e sugli esiti degli esami di stato, la cui responsabilità non potrà che ricadere sul governo. Chiediamo a Romano Prodi di adoperarsi in tempi rapidissimi affinché impedisca questo grave scempio della laicità della scuola pubblica e vengano ristabiliti lo status quo ante, la legalità e la certezza del diritto, dal momento che il governo può annullare in sede di autotutela le contestate e discriminatorie innovazioni apportate dall' ordinanza ministeriale 26/2007». I tempi devono essere davvero rapidi: gli scrutini si terranno la prossima settimana. E al premier si rivolge anche la Rete degli studenti, che parla di «scandalose ambiguità createsi a ridosso degli impegni di fine anno che danneggiano solo e unicamente gli studenti nel proprio diritto di essere valutati indipendentemente dalla scelta o meno di una materia facoltativa». La Rete attiverà uno sportello on line «per reclami e ricorsi degli studenti che si trovino discriminati».

Repubblica 5.6.07
Cercasi guida disperatamente
Perché la sinistra ha smarrito il carisma
Un paese che appare senza un vero ricambio politico e generazionale
La crisi di identità è maturata dentro scelte politiche poco coraggiose
di Francesco Merlo


In Italia abbiamo capi e padroni, abbiamo "imperium" ma non abbiamo leadership, abbiamo bulli e abbiamo comandanti, abbiamo "dux" ma non abbiamo leader. E infatti abbiamo avuto Mussolini ma non Churchill; non abbiamo avuto De Gaulle e Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro grande forza dalle potenze estere, erano gli autorevoli rappresentanti consolari delle due metà del mondo, erano insomma leader per conto d´altri, leader senza leadership. Alla fine, molto raramente abbiamo avuto un´autonoma leadership e dunque veri leader nazionali, che sono infatti significati non tradotti e non traducibili nella nostra pur bella e ricca lingua, benché siano essenziali alla democrazia prima ancora che al nascente Partito democratico.
Supremazia, egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento, autorevole e non autoritaria influenza politica, dirigenza e direzione: leadership è parola inglese che rimanda al mare perché viene da leader, da to lead, che vuol dire condurre, e da ship che è la nave, ma è anche è il suffisso che nella lingua inglese dà qualità all´astrazione, come in scholarship e in citizenship, e deriva dal germanico skop e quindi skip e appunto ship, nave, che in antico tedesco si dice schif, in greco skaphos e schyphos e in latino scapha ed è sempre lo stesso campo semantico, quello del bastimento e dell´imbarcarsi perché la leadership nella civiltà anglosassone viene battezzata sul mare, nel confronto con l´oceano, con quel "sea power" che è motore della storia.
Senza volere qui rifare la storia dell´influenza del "sea power" nell´evoluzione dell´umanità ci basta ricordare che la seconda guerra mondiale è stata vinta dai navalisti e persa dai continentalisti, e che l´Italia è lontana dall´etimo stesso della leadership, perché, pur essendo una penisola, una quasi isola, la sua non è storia di navi, di flotte, di controllo delle acque, di ufficiali di marina che avevano un´educazione da statisti, di marinai che diventavano leader perché si misuravano con la forza degli oceani, di portaerei che erano un modo di accorciare le distanze e controllare il mondo. E infatti ancora oggi la formazione della nostra classe dirigente è lontana dagli orizzonti internazionali, non c´è nessun leader italiano che si qualifichi attraverso strategie mondiali, dal nuovo ruolo della Cina e dell´India alla forza dell´Islam… Difficilmente la leadership italiana si affaccia al mondo. Campioni di fantasia e di inventiva abbiano avuto il ministro della Devoluzione e quello dei Rapporti con il Parlamento, quello per gli Italiani nel mondo e quello per gli Affari regionali, e abbiano persino il ministero per l´Attuazione del programma di governo che è una sorta di ministero della Supercazzola con scappellamento a destra o a sinistra, ma abbiamo, senza nulla togliere alle qualità di Massimo D´Alema, per tradizione, un politica estera approssimativa e abborracciata, con gli avanzi di cucina delle politica interna, idea arcitaliana appunto, radicatissima nella nostra storia, con alleanze mai sicure, trattati mai definitivi, con il nemico che è anche amico e viceversa.
Come si forma la leadership in Italia? Ebbene, non c´è nulla di più lontano dalla idea occidentale della leadership. Le ambizioni infatti si muovono nell´ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, non c´è nessuno che osi dire «io voglio fare il presidente del consiglio, o della repubblica o il segretario del partito democratico», come ha fatto per esempio per esempio Sarkozy che già tre anni fa conquistava l´Ump, il partito dell´ostile Chirac, e intanto confessava di pensare all´Eliseo «tutte le mattine mentre mi faccio la barba». In Italia invece tutti hanno paura di bruciarsi e di esporsi, Veltroni non osa sfidare D´Alema, la Finocchiaro si finge umile, Rutelli lavora nell´oscurità, nessuno si fida di nessuno, si inventano candidati civetta e finte primarie con il vincitore bloccato, si punta su qualcuno solo per farlo impallinare, non c´è nulla di pulito, di chiaro, di laico, e alla fine la scelta del leader, quale che sia la carica da ricoprire, sarà il frutto di negoziati estenuanti, di compromessi al ribasso e mai di una forte competizione a viso aperto. La scelta viene via via depotenziata politicamente e umanamente. Quasi sempre il prescelto è un politico di basso profilo, possibilmente già vecchio, meglio se un po´ acciaccato, si spera che sia un utile brav´uomo, il quale ovviamente alla prima prova difficile, alla prima sconfitta amministrativa per esempio, o si rifugia nella retorica o si esprime in una rabbia inconsulta minacciando di dimettersi. Ricordate come Tony Blair seppe prendere su di sé l´impopolarità della guerra in Iraq e riuscì a vincere per la terza volta le elezioni politiche?
Invece il leader italiano somiglia al titano Enceslao che scala l´Olimpo e crede di essere diventato un dio. Giove afferra quell´omuncolo e lo scaglia sulla terra mettendogli sullo stomaco un´immensa montagna, l´Etna. E il tapino sta lì, costretto a fare il morto, a trattenere il respiro... Solo quando non ne può più tossisce e si agita, si scuote, si gratta, starnutisce. E allora apriti cielo, la terra trema, le bocche del vulcano sputano fuoco e pietre, il cielo si oscura.
Né va meglio nella cosiddetta società civile, all´università per esempio, che, unico paese occidentale, l´Italia considera il serbatoio fintamente tecnico della politica. E´ tipico di un Paese arretrato trarre i suoi quadri dirigenti dall´università. La leadership nei paesi occidentali si forma nella scuole di alta amministrazione, oppure nell´alta politica o ancora nelle professioni. La classe dirigente italiana, invece, o viene dalla burocrazia dei partiti, o è una specie di università allargata con tutte le miserie della gestione del potere universitario spavaldamente praticate in nome della cultura. All´università il clientelismo si chiama cooptazione, la mafia si chiama scuola o baronia, la gerontocrazia si chiama scienza, il traffico delle cattedre si chiama concorso. Ma la sostanza è che la leadership universitaria è autoreferenziale, immutabile, cerimoniale, fondata sul culto del vecchio, sulla ossificazione delle idee, sulla mummificazione della cultura e dunque anche della politica.
E dovrebbe essere superfluo spiegare che il leader guida e il padrone comanda e che nella cultura della leadership, scriveva Comte, «ogni partecipazione al comando è degradante». Non ci sorprende dunque che i governi italiani, quelli di sinistra come quelli di destra, siano in perenne crisi di consenso, si dissipino in un gorgoglio di comandi, un flottare di ordini, perché appunto la mancanza di leadership ordina e riordina e preordina e postordina e sputacchia disordinatamente discorsi e sentenze, encicliche e omelie, ordini di servizio e servizi d´ordine, ma non governa, non guida, non dirige, non traccia la rotta di un Paese che rimane «nave senza nocchiero in gran tempesta». La leadership italiana sembra l´epifania postcoitale perché, come si sa, nel nostro Paese, «cumannari è megghiu di futtiri».

Repubblica 5.6.07
Quando erano i partiti che dettavano la linea
Fintantoché la sfera del confronto politico era saturata dall’opposizione fra Dc e Pci, non c’era spazio per decisioni personalistiche
di Edmondo Berselli


Nel clima del dopoguerra, dominato dalle grandi visioni ideologiche e dalle contrapposizioni "di civiltà", la leadership politica era una funzione sfuggente. Il 1945 aveva segnato il crollo dei totalitarismi nell´Europa occidentale, mentre l´Unione Sovietica centrata sulla dittatura di Stalin era circondata dall´alone della vittoria contro il nazismo. Così, le figure di spicco nei partiti che si riaffacciavano alla democrazia rappresentavano la sintesi di pensieri forti e anzi di storie che avevano percorso il Novecento.
Più che dalla figura del leader, la scena era occupata dal partito: il Pci doveva essere il moderno Principe, secondo la lezione di Gramsci, teso a conquistare un primato egemonico; mentre la Dc si riproponeva come partito-società, capace di aderire a tutte le pieghe della collettività. Fra i ritratti nelle Case del popolo o all´ombra dei campanili, il partito di massa, appariva in grado di esprimere, attraverso la sua organizzazione capillare, un´intelligenza collettiva.
Certo, la leadership esisteva: ma era una polarità individuale che si irradiava sulla struttura politica, che a sua volta la rafforzava. Alcide De Gasperi incarnava la dottrina sociale della chiesa, un cattolicesimo liberale che faceva i conti con il popolarismo delle origini, il viaggio dentro il fascismo e lo sforzo strenuo di rilanciare il paese dopo la tragedia della guerra.
A sua volta, Palmiro Togliatti, "il Migliore", riassumeva in se stesso un´avventura rivoluzionaria che recava dentro di sé una carriera come esponente dell´internazionalismo, la lotta antifascista che in cui si era distinto come "Ercoli", il capo comunista clandestino, l´uomo dell´Hotel Lux, l´ufficiale di campo del socialismo sovietico. In Italia, era il leader assoluto che tuttavia esplicava il suo ruolo all´interno della procedura del Pci, scritta sulle regole del centralismo democratico. Mentre De Gasperi appariva semmai come un "primus inter pares", soggetto ben presto alle manovre e ai veti dell´organizzazione dc, Togliatti era il capo indiscusso di un´istituzione perfetta.
L´organizzazione comunista era riuscita a intimorire e infine a subordinare il Partito socialista di Pietro Nenni, che soltanto con la transizione al centrosinistra e all´accordo con la Dc avrebbe ritrovato il sentiero dell´autonomia politica; ma soprattutto dava l´idea di una macchina autoriferita quanto infallibile, in grado di collocare al proprio interno ogni protagonismo e ogni personalità, dall´ortodossia pragmatica e riformista di Amendola al "lavoro di massa" in chiave prerivoluzionaria di Ingrao.
Non si usava nemmeno, la parola leader: nelle file dc si cominciò a parlare dei "cavalli di razza" quando apparvero protagonisti come Amintore Fanfani e Aldo Moro. Ma se Moro impersonava effettivamente una leadership culturale, per la sua capacità di pensare all´evoluzione integrale del sistema politico, con uno sguardo al possibile perfezionamento del "bipartitismo imperfetto", a Fanfani invece si imputava un piglio semi-gollista, una più visibile propensione al comando che si scontrava facilmente con l´inclinazione "dorotea" del corpo del partito e alla sua diffidenza per le concentrazioni di potere.
Lo spirito democristiano infatti si rivelava più compiutamente nelle personalità politicamente duttili di Mariano Rumor e di Flaminio Piccoli, e fuori dall´area del doroteismo nel pragmatismo assoluto di Giulio Andreotti, per il quale le categorie politiche sono sempre risultate astrazioni (non è un caso che proprio il pratico Andreotti fosse chiamato a gestire il governo di solidarietà nazionale con i comunisti). Per qualche aspetto invece il calore della leadership era più sentito a sinistra, proprio perché era l´integrale struttura del partito a convergere nella figura del segretario: processo simbolico e funzionale a cui va aggiunto il fascino popolare di un capo come Enrico Berlinguer, le cui caratteristiche personali eccedevano i confini politici del Pci, qualificandolo come un possibile simbolo nazionale.
Ma fintanto che la sfera del confronto politico era saturata dalla contrapposizione fra Dc e Pci, non c´era spazio per l´emergere di figure in grado di plasmare la politica su un profilo personale. Anzi, per diversi anni uno dei leader più visibili fu una personalità laterale alla politica, il capo della Cgil Luciano Lama. Perché il tema della leadership divenisse istanza politica rilevante, fu necessario l´emergere di una posizione eccentrica, rappresentata negli anni Ottanta da Bettino Craxi: «capo del governo e insieme dell´opposizione», come lo descrisse Adriano Sofri, portatore di un´ipotesi mitterrandiana di alternativa alla Dc che prevedeva la sostanziale subordinazione dei comunisti, intorno al quale nacquero le prime teorizzazioni sul capo carismatico e sul "decisionismo".
Dovevano cioè rompersi quegli equilibri, come scrisse su MicroMega uno dei primi ideologi dell´onda lunga socialista, Giuliano Ferrara, fondati su «un´egemonia democristiana da null´altro corretta se non da un potere di veto comunista». La crisi dei partiti storici invitava a recuperare le categorie schmittiane della decisione e la configurazione weberiana del leader. Intorno all´immagine di Craxi si sono giocate le prime sperimentazioni leaderistiche della politica italiana. Che naturalmente sarebbero diventate utili con il tracollo della "Repubblica dei partiti", allorché si affermò lo schema dell´alternanza.
Che cosa c´è infatti dopo i partiti, se non la concentrazione del potere nel leader, alimentata dalla vertigine massmediatica? Quando le forze politiche tradizionali si disintegrano come la Dc e il Psi dopo Tangentopoli, o affrontano metamorfosi infinite come il Pci a partire dal 1989, viene il momento della contrapposizione giocata tra immagini pubbliche, in cui la "personalizzazione" della politica tende a superare il vecchio elemento ideologico o il suo residuo.
Non c´è soltanto la "scesa in campo" di Silvio Berlusconi, il re televisivo: con le nuove regole elettorali anche nel territorio, ossia nei comuni e nelle altre unità amministrative, la personalizzazione e quindi il "fattore" della leadership si diffonde in tutto il sistema politico. Plasma l´azione pubblica, ma anche l´organizzazione degli staff e delle coalizioni; diventa un totem su cui si misurano carriere e scelte programmatiche, su cui si allestiscono strumenti di selezione come le primarie. E alla fine, scontata la maggiore facilità rispetto alla sinistra con cui la destra può affidarsi al leader, potrebbe anche lasciare il campo a una sindrome nuova, in cui il comando, il ruolo da conquistare, si infittisce di mediazioni e tatticismi, e alla fine potrebbe istituire l´ultima variante, segnata da un´assenza, da uno spazio vuoto: il fantasma della leadership senza leader.

Repubblica 5.6.07
Il modello populista e le democrazie europee
di Antonio Gnoli


«In una democrazia di massa il concetto di "leadership" può variare di importanza a seconda del ruolo che vi svolgono i partiti», dice Yves Mény, politologo francese, Presidente dell´Istituto Universitario internazionale di Firenze, autore fra l´altro di un apprezzato saggio sui temi del populismo.
«Nell´Europa democratica del ventesimo secolo, per esempio, il leader non era scelto dall´elettorato, ma era l´espressione di un apparato. Per arrivare a ricoprire la posizione di vertice occorreva un cammino lungo e spesso lento, e soprattutto soggiacere alle regole del partito. Solo in rare occasioni il leader entrava in contatto con le masse. Le quali a loro volta si riconoscevano più nei simboli del partito che nei discorsi del capo. Negli Stati Uniti, dove i partiti sono soprattutto macchine elettorali, la leadership come riconoscimento popolare di una guida individuale si è affermata con più facilità. Nel modello americano, una campagna elettorale si fa più sul carattere della persona che sul programma.
La situazione di questi ultimi anni, segnata dall´indebolimento delle ideologie, ha spinto l´Europa verso un´americanizzazione della politica. I partiti – si pensi anche al caso italiano – non sono più concepiti principalmente come risorse simboliche e sempre meno mediano tra le istituzioni e il popolo. È in questo clima che può nascere o rafforzarsi la leadership individuale. Essa implica un insieme di qualità personali che dopo Max Weber si è presa l´abitudine di chiamare carismatiche.
Non è detto che il carisma corrisponda sempre a qualità reali di chi lo esercita. In una società mediatica, il politico che oggi vuole il consenso tenderà a non scontentare l´elettorato. Sempre più spesso il discorso del leader è gestito e calibrato quotidianamente sulla base delle reazioni ai sondaggi e delle analisi sull´opinione pubblica. Non è un caso che la recente campagna elettorale di Sarkozy sia stata caratterizzata dalle tematiche legate all´identità razziale e a una forte critica del Sessantotto, due motivi graditi alla maggioranza dei francesi. È chiaro dunque che la leadership oggi, più che in passato, si riconosce nei caratteri di una persona che riflette le aspettative dell´opinione pubblica. Essa ha più possibilità di imporsi, se nasce da una crisi della politica. Nei momenti di rottura – una guerra, una svolta radicale, il crollo di un sistema – il leader può emergere in tutta la sua forza. È a questa altezza che si colloca l´esperienza populista. La leadership populista si autoistituisce, piegando le regole e le strutture alle esigenze e ai bisogni del capo del movimento. Ma la sua durata è limitata nel tempo, ha vita breve a meno di non riuscire ad assestarsi istituzionalmente».

Repubblica 5.6.07
Fenomenologia del leader carismatico
L’occidente in crisi sedotto dal capo
di Carlo Galli


Definizione. Il leader non crea la storia ma sa leggere la crisi in atto e catalizza le energie sociali mettendole in moto verso una direzione possibile

Se il mondo antico interpretava spesso la politica come l´azione di un nocchiero che guida la nave della città, l´età moderna ha privilegiato, da parte "borghese", la centralità dei cittadini e l´impersonalità universale del comando dello Stato; mentre a sinistra si è creduto che la storia si muova in virtù di grandi forze oggettive e necessarie, che l´agire politico abbia come soggetti le masse, e che la dirigenza politica debba solo interpretare correttamente i segni dei tempi. Queste convinzioni hanno fatto sì che rispetto ai democratici e ai socialisti la destra – col suo culto del capo come l´eroe che ci lascia solo il compito di credere, obbedire, combattere per un destino che egli ci addita – sia stata più propensa a porre la leadership al centro della riflessione politica.
Ma la scienza politica fra Otto e Novecento ha scoperto, con i teorici delle élites (Mosca, Pareto, Michels) e con Max Weber, la leadership, plurale e singolare. Agli individui e alle masse si sono così aggiunti, come protagonisti della politica, oligarchie e capi. In particolare, Weber ha individuato fra i tipi di potere legittimo, oltre a quello tradizionale e a quello legale, anche quello carismatico: il potere personale innovatore, rivoluzionario, che deriva a un capo dal possedere uno straordinario dono di grazia (il carisma), e dal venire obbedito per questo. E la storia del XX secolo ha conosciuto grandi figure di leader; nefasti, come Hitler, Stalin, Mussolini, ma anche capi democratici come Roosevelt, liberali come Churchill, nazionalisti come De Gaulle. E se non il carisma in senso rivoluzionario, una evidente credibilità personale - determinata dalla coerenza degli intenti e dalle sofferenze patite - ha contrassegnato anche la leadership di De Gasperi, Togliatti, Nenni e Saragat.
Da queste figure, pur così diverse tra loro, emerge che il leader è la personalità che, con un gesto innovatore, sa smarcarsi dalle élites, e che opera nella sua persona una sintesi politica concreta tra l´emergenza puntuale del momento storico e un più vasto orizzonte che egli scopre e addita - e così fornisce alla esperienza comune se non ‘il´senso, almeno uno dei sensi possibili - . Il leader insomma sa dire Io con tanta forza da provocare il formarsi non episodico di un Noi, e persegue la propria visione personale rendendola condivisibile da molti.
Ma il leader non crea la storia; piuttosto, egli sa leggere le crisi in atto e catalizza le energie sociali, mettendole in moto verso una direzione possibile. E´ un trascinatore egli stesso coinvolto nel processo a cui dà impulso. E´ tanto autore del proprio tempo quanto prodotto dal tempo. E´ un visionario pratico, che coniuga l´etica della convinzione con quella della responsabilità. Ha bisogno della collettività, come questa di lui. Questa miscela di interpretazione personale e di movimento collettivo si manifesta di solito nei momenti di emergenza, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nei processi di formazione di imperi e Stati; ma anche le ricostruzioni, le uscite dalle crisi, sono opera di grandi leader (Roosevelt e De Gasperi, tra gli altri).
Il rapporto del leader col proprio tempo non è però garantito: ci sono leader solo potenziali, fuori del proprio tempo, anacronicisti, e quindi senza efficacia; e tempi che conoscono crisi e difficoltà ma non hanno leader che indichino la via. Tempi cioè - e sono i nostri - in cui le forme della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate; mentre la sostanza della politica, il suo potere invasivo e persuasivo, passa altrove, e si abbatte direttamente sulla vita - sul corpo e sulle menti - delle persone. Tempi in cui le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e in cui le sfide, fattesi planetarie, sembrano fenomeni naturali, non politici; tempi in cui la contingenza non è più un´eccezione ma una quotidianità straripante e sfuggente, che non si sa come afferrare per darle una forma. Tempi in cui si reagisce alle sfide non con energia collettiva, ma con la ricerca di vie di fuga individuali o di gruppo; in cui la politica si è spezzettata in una miriade di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, che non richiedono o che sembrano non avere più una soluzione pubblica.
I leader - in Occidente - si fanno quindi più rari non tanto perché la pianta-uomo abbia cessato di dare frutti eccellenti quanto perché si è trasformata la politica, nelle sue categorie portanti e nella percezione diffusa che se ne ha. E´ sempre più raro che ci sia un Io perché più fievole si è fatta l´esigenza che la politica serva a creare un Noi, a indicare un orizzonte da raggiungere, una storia praticabile. In questi tempi la politica è una gestione del presente resa interessante da ‘personaggi´, da leaderini vanitosi e inconcludenti, da aspiranti pifferai magici; e la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza.
In questi tempi di disorientamento, quindi, prima di rispondere alla domanda sui leader - cioè su chi ci conduce, e verso dove - bisogna interrogarsi su dove va quella complessa e variabile combinazione di ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto, che chiamiamo politica; cioè porre la questione della sua trasformazione. Saranno leader coloro che, nel bene e nel male, sapranno dare risposte condivise - se sono ancora possibili - a questo interrogativo; che scommetteranno sulle nuove vie - se ci sono, e se mobilitano ancora i cittadini - grazie alle quali la politica possa ancora essere l´insieme dei processi e delle azioni con cui si costruisce un mondo comune.

Corriere della Sera 5.6.07
La sinistra radicale. Sottosegretari pronti a «tradire» il premier. Ma il Prc teme il flop della piazza buonista
di Monica Guerzoni


ROMA — Disobbedire. Scendere in piazza contro George W.Bush a dispetto delle preghiere di Romano Prodi. È la tentazione che serpeggia nel governo, dove l'appello a restare a casa, mormorato dal premier venerdì durante il vertice coi segretari, ha lasciato piuttosto freddi gli alleati dell'ala sinistra. I ministri, salvo sorprese dell'ultim'ora, non deluderanno il Professore, mentre tra i sottosegretari qualcuno è pronto a smarcarsi. A dispetto degli ultimi appelli, scanditi da chi teme ripercussioni su Palazzo Chigi.
«Mi aspetto manifestazioni civili e pacifiche», è il garbato monito del ministro prodiano Giulio Santagata. «Non possiamo accettare un tale spirito antiamericano» prende le distanze dagli alleati Mauro Fabris, braccio destro di Mastella. E pure Piero Fassino dev'esser preoccupato se dice di attendersi, dagli esponenti del governo, «una certa riservatezza».
Alfonso Gianni, sottosegretario del Prc, sbuffa infastidito. Arriva dal Giappone e nulla sapeva dell'editto prodiano. «Il richiamo del premier mi sembra estremamente negativo e fuori luogo». Dunque sottosegretario, lei sabato sarà in piazza del Popolo? «Non vedo perché non dovrei manifestare col mio partito. Ognuno è libero di protestare, ovviamente nei limiti di una manifestazione pacifica». La fitta delegazione di Rifondazione sarà guidata da Franco Giordano, il quale ieri, alla direzione del partito, ha lanciato un forte richiamo alla mobilitazione. Segno che ora il Prc teme il flop: un supercorteo gonfio di giovani, no global e pacifisti—estremisti (tra cui i rifondaroli indipendenti Francesco Caruso e Heidi Giuliani) e una gigantesca, semivuota piazza del Popolo buonista. Con la segreta speranza che il No Bush Day non passi alla storia della sinistra come la data del pubblico divorzio tra il Prc e i movimenti. Anche Oliviero Diliberto ha scelto la protesta soft. Per non disertare la piazza fermerà per un'ora il comitato centrale del Pdci e salirà sul palco assieme a Sgobio, Venier e alla presidente dei senatori comunisti, Manuela Palermi. Fabio Mussi invece non andrà. La sua Sinistra democratica ha scelto di non aderire, anche se qualche esponente di spicco come Carlo Leoni potrebbe affacciarsi al sit-in. E non ci sarà Alfonso Pecoraro Scanio, pure lui è ministro e a rappresentare i Verdi sarà il capogruppo Angelo Bonelli. Non da solo, forse... Gridare «guerrafondaio» al presidente degli Stati Uniti e rinfacciargli il rifiuto di ratificare gli accordi di Kyoto piacerebbe infatti anche a Paolo Cento, quasi pronto a sciogliere la riserva. «Se non avessi incarichi di governo la mia collocazione naturale sarebbe a manifestare — conferma il sottosegretario all'Economia — D'altronde Mastella ha manifestato contro i Dico e dunque la regola di Prodi non vale più». Esprimere il proprio sdegno contro l'illustre ospite è «del tutto legittimo» conclude Cento, il quale invita a spostare l'attenzione sull'altro corteo, quello antigovernativo dei Cobas e dei centri sociali: «Il vero nodo sarà quello che succede dall'altra parte...». Dall'altra parte, cioè al corteo No Bush No War (e anche No Prodi) che da piazza della Repubblica a piazza Navona vedrà sfilare Franco Turigliatto, Salvatore Cannavò, Fernando Rossi e il leader della Fiom, Giorgio Cremaschi, succede che in molti guardano agli scontri di Rostock e temono disordini. Il governo Prodi non si renda «complice del tremendo rischio che si ripeta la tragica repressione del 2001 a Genova» è l'appello del leader dei Cobas, Piero Bernocchi, mentre Marco Ferrando (Pcl) prevede che non ci saranno scontri ma una «grande, pacifica opposizione da sinistra al governo Prodi». E il Comitato 9 giugno, che raccoglie le adesioni al corteo di circa 200 sigle, prova a fermare gli allarmi strumentali: «È inquietante che si cerchi di schiacciare la mobilitazione nella logica della piazza dei buoni e del corteo dei cattivi...».
E così tra le due piazze, con una certa malizia, prova a infilarsi Marco Pannella. Il leader dei Radicali propone un'altra piazza del Popolo, una manifestazione che accolga Bush con cartelli «W gli Usa» e con slogan che inneggino alla democrazia a stelle e strisce: «Viva il popolo americano nostro fratello...».

Corriere della Sera 5.6.07
Saltammo giù dagli alberi rimanendo su due piedi
Nuova ipotesi: andatura bipede 15 milioni di anni fa
2,4 milioni di anni fa: compare il primo Homo
L'origine della teoria dallo studio degli oranghi
di Viviano Domenici


I nostri antenati impararono a camminare su due piedi quando ancora vivevano sugli alberi e non, come finora ritenuto, quando furono costretti ad abbandonare la vita arboricola e affrontare gli spazi aperti della savana.
Questa è l'ipotesi avanzata da tre zoologi britannici basata sull'osservazione del comportamento degli oranghi nelle foreste dell'isola indonesiana di Sumatra. Autori della ricerca, pubblicata sull'ultimo numero della rivista Science, sono Susannah Torpe e Roger Holder, dell'Università di Birmingham, e Robin Crompton, dell'Università di Liverpool, che hanno studiato gli orango nel loro ambiente naturale. Questi primati, che oggi vivono solo nelle foreste di Sumatra e del Borneo, conducono una vita prevalentemente arboricola, hanno un sistema di locomozione basato principalmente sull'uso degli arti anteriori per sospendersi e spostarsi tra i rami (brachiazione) e scendono sul terreno solo per attraversare brevi tratti privi di alberi, per bere o per raccogliere qualche frutto caduto; poi tornano sugli alberi evitando così possibili incontri coi predatori.
La loro struttura anatomica è quindi decisamente specializzata per vivere sugli alberi, ma i ricercatori si sono accorti che quando queste scimmie si spostano poggiandosi su rami robusti utilizzano tutte e quattro gli arti senza mai distendere completamente le articolazioni, come invece può fare chi — come l'uomo — ha un'andatura bipede.
Quando invece si spostano su rami più piccoli e flessibili, che rendono la situazione più precaria, gli orango si alzano sulle zampe posteriori e utilizzano le braccia, allargandole, per mantenere l'equilibrio. In questa particolare situazione gli orango si trovano molto spesso perché la frutta migliore è prevalentemente quella che cresce sui rami più alti, più soleggiati, ma più sottili e meno affidabili. Proprio in questi casi, hanno osservato i tre zoologi britannici, cioè quando devono arrivare a un frutto altrimenti irraggiungibile, gli orango distendono completamente le articolazioni delle anche e delle ginocchia, cosa che non fanno mai quando utilizzano tutti e quattro gli arti. Cioè assumono una posizione tipica solo di chi può camminare su due zampe, cioè noi e i nostri antenati australopiteci. Date queste osservazioni, i tre zoologi propongono l'ipotesi che l'andatura bipede sia apparsa quando il lontano progenitore di uomini e scimmie viveva ancora sugli alberi. Questo imporrebbe quindi di spostare la data della comparsa dell'andatura bipede almeno a 15 milioni di anni fa, momento in cui gli orango si separarono dal ramo evolutivo dal quale sarebbero successivamente emersi i gorilla (10 milioni di anni fa), gli scimpanzè (5-7 milioni di anni fa), gli australopiteci, la prima forma Homo (circa 2 milioni e 400 mila anni fa).
Uno spostamento all'indietro nel tempo che difficilmente sarà accettato senza discussioni dagli antropologi poiché l'ipotesi è basata non su studi sulla morfologia degli orango — di cui non è mai stata messa in luce alcuna tendenza allo sviluppo del bipedismo — ma solo sull'osservazione del comportamento di animali attualmente viventi. Proprio per questo, le prime critiche sono già emerse. Secondo l'antropologa Yvette Deloison, del Cnrs francese, «se l'antenato comune delle scimmie antropomorfe e degli ominidi avesse avuto un'anatomia che gli permetteva di fare tutto quello che fanno gli oranghi con mani e piedi, sarebbe stato già troppo specializzato per dar vita a quello che noi siamo oggi».
In attesa che l'ipotesi dei tre zoologi britannici passi il vaglio degli antropologi non rimane che tenerci ben saldi alla teoria che collega la comparsa dell'andatura bipede alla drastica riduzione delle foreste africane, che avvenne oltre cinque milioni di anni fa e che costrinse i nostro antenato ad affrontare, su due piedi, gli spazi aperti della savana. Il momento esatto in cui questo avvenne non lo sapremo mai, ma conosciamo con precisione la data della prima passeggiata su due piedi di cui abbiamo testimonianza concreta: 3 milioni e settecentocinquantamila anni. A tanto risalgono le impronte di due australopiteci che camminarono su un terreno fangoso a Laetoli, in Tanzania, mentre scappavano da un vulcano in eruzione.

Corriere della Sera 5.6.07
La Nobel iraniana, attivista per i diritti umani, critica duramente l'ex deputata di origine somala
Ebadi contro Hirsi Ali
«Attaccando in blocco l'Islam fa il gioco dei regimi teocratici»
Saranno le donne ad abbattere il potere dei mullah
di Alessandra Farkas


NEW YORK — La signora dai capelli corti indossa una giacca grigia di taglio maschile, mentre passeggia con aria sbarazzina nella hall di uno degli alberghi più kitsch di Manhattan, masticando con gran gusto una chewing-gum. «In Occidente mi sento più libera perché non debbo portare il velo», spiega Shirin Ebadi attraverso un'interprete che traduce dal farsi. «Odio il copricapo che sono costretta ad indossare in Iran, per non essere frustata». Alla vigilia della sua imminente trasferta in Italia — dove il 7 giugno parteciperà alla Conferenza sulla pace, la solidarietà e l'integrazione razziale organizzata all'Hotel Royal di Sanremo dalla Provincia di Imperia — l'avvocatessa iraniana, attivista dei diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2003, si trova negli Stati Uniti per una serie di conferenze universitarie su temi quali «la relazione tra Islam e diritti civili» e «il ruolo delle donne nella democrazia».
«Anche nei campus americani molti ignorano che l'Iran ha dato il voto alle donne ben prima della Svizzera», spiega la Ebadi, ex presidente di una sezione del tribunale di Teheran, licenziata dopo la rivoluzione islamica nel 1979. «Duemila anni fa il mio Paese era governato da due regine: Boran e Azarmidokht. E anche in futuro saranno le donne a liberare l'Iran, guidandolo fuori dall'attuale medioevo, non i soldati americani. Quando iniziai ero sola; oggi il Paese è pieno di giovani donne più agguerrite e brave di me».
Ovunque vada, tutti le rivolgono la stessa domanda: potrà mai la religione islamica accettare l'eguaglianza tra i sessi? «La mia risposta è sì. L'Islam, come le altre religioni, si presta a interpretazioni diverse. Il concetto di eguaglianza — puntualizza — non è affatto negato dal Corano». Il che spiega come mai in Arabia Saudita le donne non possono neppure guidare l'auto, mentre in Paesi quali Bangladesh e Pakistan sono state presidenti e ministri. O perché la poligamia, praticata in Iran, sia bandita in Indonesia.
«Se una donna iraniana vuole viaggiare e lavorare, ha bisogno del permesso scritto del marito. Ironicamente ciò vale anche per Fatemeh Javadi, vice del presidente Mahmoud Ahmadinejad: una donna. Nei nostri tribunali la testimonianza di due donne corrisponde a quella di un solo uomo. Perché la nostra vita vale la metà rispetto alla loro». La Ebadi non si stanca di ripetere le «eresie» che — come testimonia nel libro Il mio Iran (Sperling & Kupfer, pp. 320, e
17) — nel 2000 la catapultarono sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran. Ma, al contrario di tanti intellettuali fuggiti in Europa e America, lei ha deciso di restare. «Il dissidente è come un pesce nell'oceano — teorizza —. Se lo butti in un acquario, smette di nuotare e di riprodursi». Eppure non se la sente di criticare gli esuli: «Quando sei certo di essere giustiziato, spesso non ti resta altro che scappare». E se a lei il premio Nobel ha conferito una certa immunità, la strada è ancora tutta in salita.
«Quando mi scelsero per il Nobel, il governo aspettò 24 ore prima di annunciarlo. E lo fece in piena notte, al termine di un notiziario che nessuno guarda». In Iran la Ebadi continua a sentirsi «censurata al 100 per cento». «Per questo viaggio tanto. Voglio che il mio messaggio esca e si diffonda». Ai tempi del Nobel, l'allora presidente Khatami sminuì il premio come «un atto politico, privo d'importanza». Qualcuno parlò di «gelosia», giacché nel 2001 lo stesso Khatami era stato, senza successo, candidato al Nobel. «È un vero peccato, perché non sono mai stata una sua rivale. Sono un avvocato dei diritti umani e mai e per nessun motivo entrerò in politica». Perché?
«Preferisco giudicare il governo dall'esterno. Perché anche la democrazia più avanzata rischia di trasformarsi in dittatura, se non la si critica».
Ma un conto è attaccare i poteri dispotici, un altro è prendersela con la religione, come fa la scrittrice d'origine somala Ayaan Hirsi Ali. «Le sue tesi — spiega la Ebadi — sono pericolose, reazionarie e identiche a quelle delle dittature islamiche che dice di aborrire. La signorina Ali sostiene che, per qualsiasi azione intrapresa da governi non democratici in Iran e Arabia Saudita, la colpa ricade sull'Islam.
È la stessa identica tesi di quei regimi. Che si difendono dalle accuse di tirannia affermando di "limitarsi a seguire regole e precetti dell'Islam"».
Il suo timore è che il messaggio di Hirsi Ali possa fomentare l'odio antislamico, già molto in voga in Europa. «Io preferisco enfatizzare i tanti punti in comune tra Islam, giudaismo e Cristianesimo. Dobbiamo invitare la gente alla riconciliazione e alla concordia, non incitarla al conflitto e alla violenza». Anche il contrasto Iran-ebrei, a suo dire, è fittizio: «Sin dai tempi dell'imperatore Ciro il Grande, gli ebrei erano amati e benvenuti in Persia. L'antisemitismo non è nel nostro Dna».
In Iran, oggi, continua ad avere molti amici ebrei: «Certo, la rivoluzione islamica ha introdotto regole discriminatorie nei loro confronti. Ma ciò è vero per qualsiasi gruppo religioso non sciita. I più perseguitati oggi sono i baha'i». Nella lista nera del regime ci sono anche centinaia di intellettuali, scrittori, femministe e dissidenti che la Ebadi rappresenta da anni, completamente gratis.
Lo scorso aprile la scrittrice ha lanciato una provocatoria proposta al governo di Teheran: indire un referendum, sotto l'egida dell'Onu, per far decidere al popolo iraniano se perseguire il programma nucleare. «Ahmadinejad continua a dire che è il popolo a chiedere il nucleare e che il suo programma è a scopi pacifici. Il mondo non gli crede; quindi non gli resta che democratizzare il sistema politico. Perché solo quando i cittadini potranno supervisionare le azioni dei loro leader, che oggi decidono tutto clandestinamente, nascondendosi dietro porte chiuse, potremo dormire sonni tranquilli». Tra una battaglia e l'altra riesce a trovare un po' di tempo per scrivere? «La scrittura è il ristoro che mi alleggerisce le spalle appesantite dal mio lavoro di avvocato. Magari non dormo, ma trovo sempre la maniera di scrivere. Lo faccio soprattutto negli aeroporti, tra un volo e l'altro».
Il suo nuovo libro, in uscita l'anno prossimo, è dedicato alla diaspora iraniana. «La rivoluzione islamica — racconta — ha disperso il mio popolo attraverso il mondo. Secondo l'Unesco, l'Iran ha il più elevato tasso di fuga di cervelli rispetto a qualsiasi altro Paese del pianeta. La mia nuova opera esplorerà questo doloroso e inarrestabile fenomeno». Rimpianti? «Mi dispiace di non essere riuscita ad incontrare papa Wojtyla, candidato con me al Nobel, il primo che mi telefonò per congratularsi. Era già molto vecchio e malato e purtroppo non ce l'abbiamo fatta a conoscerci di persona».

il Riformista 5.6.07
FAUSTO 2 L'INCONTRO DI SABATO
Solo lui può ripensare la sinistra. E da Fagioli lo ha dimostrato
di Antonio Ghirelli


L'«analisi collettiva» che Fausto Bertinotti ha tenuto venerdì scorso con gli allievi di Massimo Fagioli all'Auditorium di Roma riscuotendo enorme successo, merita qualche riflessione per una serie di buone ragioni. La prima riguarda l'oratore: uno dei pochi dirigenti del movimento democratico che, al di là della sua collocazione nella "sinistra alternativa" e di un palese autocompiacimento, offre serie garanzie di cultura umanistica oltre che politica, di brillante intelligenza e di un'ansia di ricerca che è davvero poco diffusa nell'era del Partito democratico e di Forza Italia.
La seconda, e ancor più importante, ragione di interesse per ciò che dice e fa l'ex sindacalista lombardiano, chiama in causa il pauroso sbandamento di cui è preda non tanto il centrosinistra, che è una coalizione ancor più casuale e caotica della defunta Casa delle libertà, quanto la stessa costellazione della sinistra.
E accaduto, infatti, ciò che tanti di noi compreso il sottoscritto avevano previsto quando si è cominciato a concretare il progetto della trasformazione nel Pd dell'alleanza elettorale dell'Ulivo: l'ala più moderata degli ex popolari ha già cominciato nelle elezioni amministrative a trasferirsi all'ombra di Pezzotta, mentre quella più coerente dei Democratici di sinistra ha dato eloquenti segni di insoddisfazione, oscillando tra l'astensionismo e l'arruolamento nelle tre formazioni alternative: l'ex correntone, il Pdci e Rifondazione. Per giunta, la disfatta del nuovo partito nel Nord ha provocato la reazione allarmata di quei sindaci e governatori piantati in asso dall'elettorato, e quindi tentati di regionalizzare il Pd anche per reagire all'esclusione del comitato dei 45. Le liti e le gelosie tra i capi del Pd centrale, più la dispettosa rivolta di Bordon e pochi altri secessionisti, hanno completato un quadro che non è solo desolante ma anche allarmante perché rischia di moltiplicare, anziché ridurre, il numero dei partiti in concorso e quindi di accentuare la confusione e la inefficienza del governo.
In questo contesto è fin troppo facile pensare che soltanto Bertinotti potrebbe tentare l'unificazione o la federazione di partiti e di gruppi riluttanti all'assorbimento della sinistra in una formazione moderna, ma moderata e sostanzialmente di ispirazione cattolica, come il Pd che tra l'altro si trova a operare in una fase storica di strenua mobilitazione del Vaticano nel segno dell'ortodossia dottrinaria proprio (e quasi esclusivamente) nel nostro Paese. Ed è alla luce di questa situazione, mentre il mondo delle banche e delle imprese mostra modesti ma indiscutibili segni di ripresa, che la partecipazione del presidente della Camera alla "analisi politica" degli allievi di Fagioli e in particolare alcune sue esternazioni prendono risalto.
Lasciamo stare gli apprezzamenti autocritici su Sironi e su Céline che possono apparire anche un po' ingenui, ma già l'ammissione che la destra non è necessariamente «rozza e ignorante» e che una ricerca può essere «buona» indipendentemente da chi la conduce, è un passo avanti nel rifiuto del settarismo. Ancor più significativa è la condanna della violenza nonché dell'idea che «prima è la presa del potere e poi la sua trasformazione», talché la rivoluzione diventi per Bertinotti soprattutto «un processo di liberazione», in nome di una «rottura con il passato», ossia con il comunismo di obbedienza sovietica.
Ma nell'atto stesso in cui l'oratore dell'Auditorium prospetta queste sostanziali varianti al teorema della Terza Internazionale, egli tiene a sottolineare che «una sconfitta non segna per forza in modo negativo il valore di un'esperienza»: una proposizione discutibilissima dal momento che stiamo parlando di settant'anni di storia, di massacri e sofferenze inaudite per centinaia di milioni di esseri umani, una frase che ha in molti l'aria di rappresentare una concessione tattica a gran parte dei sostenitori della sinistra alternativa. Subito dopo, però, Beninotti ha parlato di «una sconfitta della storia grande e terribile del comunismo», sostenendo legittimamente che essa «non cancella il problema della necessità della liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento, tanto più nella fase attuale, dominata dalla globalizzazione, dalla mercificazione totale delle cose, ma anche degli uomini».
C'è dell'esagerazione in questa analisi, la quale esula la considerazione delle mirabili conquiste scientifiche, mediche e tecnologiche che la società postindustriale registra, delle memorabili riforme nel campo dei diritti individuali e sociali, della travolgente riscossa dei paesi già coloniali. Ma, nella sostanza, il problema delineato da Bertinotti trova tutti noi socialisti assolutamente concordi. Ciò che ci lascia perplessi, invece, è la contraddizione tra l'ammissione che bisogna prendere coscienza dell'impossibilità di vincere «senza ripensamenti e senza indagare in nuovi territori» (cioè senza una seria autocritica sul fallimento del comunismo) e la pretesa di imporre una sinistra "alternativa" alla socialdemocrazia, senza uno straccio di altrettanto seria strategia che non si riduca al movimentismo o alla difesa tetragona di un welfare ormai anacronistico (e, comunque, realizzato a suo tempo dai revisionisti e non dai bolscevichi). E allora? Dividerci in nome di un'alternativa immaginaria fa semplicemente il gioco delle multinazionali, delle grandi concentrazioni bancarie e della nostre ingorde corporazioni. È un suicidio.

il Riformista 5.6.07
FAUSTO 1. IL SUO SAGGIO SULL'EUROPA E LA SINISTRA
Chi sta al governo non può far opposizione L'ibrido di Bertinotti esclude il riformismo
di Rino Formica


Dobbiamo esser grati al presidente Bertinotti per aver risollevato il dibattito teorico a sinistra con il saggio L'Europa e la Sinistra. Il paradosso del vuoto e della necessità sulla nuova rivista da lui diretta. Rischiava, tutta la discussione, di annullarsi nel vuoto politico non dell'Europa (come afferma sin dal titolo il presidente della Camera forse dimentico che quel vuoto è stato recentemente occupato dalla destra sarkoziana) ma nel vuoto della discussione sul nuovo Partito democratico che si sta spegnendo nell'elaborazione dei regolamenti e procedure elettorali ai quali viene meccanicisticamente affidata la scelta del leader.
Tornando al contributo dell'onorevole Bertinotti, non può sfuggire la portata e l'ammirazione della fatica, vale a dire lo sforzo di definire i nuovi confini della sinistra (dopo la fusione ulivista), affermare le ragioni politiche e storiche dell'identità della sinistra, della maturità di un progetto unitario del complesso della sinistra, dove per "complesso" non si intende l'aggregazione quantitativa di forze, esperienze e soggetti che si muovono in questo campo, ma un'area che va politicamente organizzata e che comprende la sinistra operaia e sindacale (quella legata alla centralità della fabbrica e della figura del lavoratore, centralità negata dal nuovo capitalismo che invece vuole relegare il soggetto lavoratore nella frammentazione sociale e politica) e poi, i movimenti sociali, i movimenti delle vecchie e delle nuove radicalità, gli eretici di ogni stagione, e giù sino ai soggetti, alle nuove marginalità e alienazioni, alle nuove sofferenze sociali e individuali.
Vasto programma, unificare politicamente le forze già organizzate nelle forme politiche tradizionali con la sinistra eretica e movimentista, con il soggetto alienato. Da Gramsci a Marcuse, insomma. Il contesto in cui il progetto bertinottiano si muove è segnato dal trionfo e dal dilagare del nuovo capitalismo vorace come sempre di tempo di lavoro e di non lavoro, il cui paradigma scientifico e tecnologico «sposta la soglia dello sfruttamento alla mente stessa dell'uomo», per usare le parole di Bertinotti. Ma non l'avevamo anche capito dai Gründrisse di Marx?
Cosa può opporre la sinistra a questo progetto totalizzante? Al dilagare del "vuoto politico" riempito soltanto dal neoegemonismo del capitale che sradica la classe operaia dal luogo storico della fabbrica per ricacciarla nella dimensione individuale, nel mondo alienato della società dei consumi?
La sinistra (ovvero l'ibrido bertinottiano di Partito-chiesa più movimenti ereticali) non può opporre certamente le esperienze delle socialdemocrazie, né dei socialismi italiano ed europeo degradati a «culture liberalsociali», cornpromesse con il neoliberismo responsabile di questo sconquasso politico e sociale. Non può riproporre il compromesso socialdemocratico che dal dopoguerra a oggi ha rappresentato (secondo il nostro modesto giudizio) una stagione di conquiste economiche e civili ma che, secondo il presidente della Camera, ha rappresentato la condizione dell'invadenza capitalistica. La massima concessione che Bertinotti può concedere all'attualità del socialismo è quella di separare il proprio corso dai socialisti.
Allora, se dobbiamo tralasciare socialismi e riformismi, socialdemocrazie e compromessi socialdemocratici, se dobbiamo lasciare nell'armadio quarant'anni di storia del movimento operaio italiano ed europeo, qual è lo strumento in grado di «collocare l'iniziativa in una società attraversata, oltre che da movimenti di cambiamento, da divisioni e frantumazioni di ogni sorta, da solitudini e scoppi di violenza, da individualismi e egoismi tribali»? Bertinotti ha la risposta: un nuovo soggetto della sinistra.
Chiediamo a Bertinotti una precisazione: sarebbe un nuovo soggetto iscritto nel solco del socialismo europeo, che si richiama a quella tradizione? No, ribadirebbe Bertinotti, è un nuovo soggetto della sinistra e basta. Ma alla nettezza della risposta non corrisponde altrettanta chiarezza di profilo per la sinistra immaginata e desiderata. E un composto formato da tanti pezzi non tutti componibili e compatibili. Troviamo la sinistra elitaria di provenienza azionista (quella che le masse un giorno capiranno), la sinistra operaista e sindacalista, la sinistra libertaria, i movimenti forgiati nelle lotte del Sessantotto nutriti dall'ideologia del comunismo rivoluzionario e i nuovi movimenti che a quell'esperienza si sono ispirati e che a quell'ideologia si sentono estranei.
È questo il nuovo soggetto della sinistra? La sinistra che deve opporsi alla destra larga di Sarkozy in Francia e dei Sarkozy sparsi in tutta Europa? E praticabile l'unificazione delle forme ereticali nate dalla crisi del comunismo e del massimalismo? E possibile riannodare tali forme attorno al Partito di classe, a quel che resta del partito togliattiano berlingueriano? Ne dubitiamo.
Piuttosto che la riunificazione del variegato mondo ereticale della sinistra attorno al suo nucleo di ortodossia (altro esperimento estremo del presidente Bertinotti!), a noi sembra più realistico pensare a un soggetto di sinistra che si riconosca nell'orizzonte e nella cultura dell'idealità di emancipazione e di progresso, che è propria del socialismo, e nello stesso tempo sappia rinnovarsi e proporsi si come forza di governo di alternativa democratica e riformista alla destra.
Questa sinistra l'abbiamo chiamata del socialismo largo, che attragga non il caleidoscopio delle radicalità. degli elitarismi e delle eresie del comunismo, ma costruisca un soggetto che includa forze organizzate in un progetto di avanzamento della condizione umana e civile e che incardini questo progetto nelle condizioni dell'oggi, un progetto che riconosca sì le contraddizioni della modernità ma che sappia indicare le strade per la loro risoluzione in un rapporto con le altre forze di sinistra e del centro democratico. Un progetto di governo per un paese moderno come il nostro, per oggi e non per un lontano futuro.
Quello che Bertinotti non spiega è il procedimento attraverso il quale il movimentismo che per sua natura e costituzione è a vocazione antigovernativa, strutturalmente all'opposizione, anticipatrice e valorizzatrice delle contraddizioni presenti e potenziali ma non attrezzato e interessato a ricercare le soluzioni pratiche, diventa compatibile con la cultura di governo. Non si chiede di trasformare le culture antagoniste in cultura di governo ma quanto meno di essere il pungolo di una cultura di governo.
Vorremmo dire al presidente Bertinotti che chi governa non può essere allo stesso tempo opposizione. Tra l'altro la cultura di "governo" che anima il partito di cui Bertinotti è insostituibile esponente non prevede la parlamentarizzazione delle radicalità diffuse e organizzate nella società (linea che fu ad esempio del vecchio Pci), ma intende coltivarle nella loro caratteristica "naturale" di opposizione permanente al sistema, nella loro vocazione radicale e rappresentarle nella loro contrapposizione sistemica. A meno che Bertinotti non dica che l'odierna collocazione governativa della sinistra antagonista è un incidente della storia, buono solo per dimostrare al contrario quanto sia dannoso per questa parte della sinistra intrattenere rapporti con le culture riformiste, dal momento che la condizione della governabilità di per sé mortifica e impoverisce la potenza liberatrice dei movimenti.
Senza dare lezioni ad alcuno, né tanto meno al presidente Bertinotti, ricordiamo che per chi voglia porsi sul terreno della sinistra del socialismo europeo, la democrazia dell'alternativa non può intendersi come incidente della storia, perché questa è precisamente la storia del socialismo europeo.

lunedì 4 giugno 2007









Auditorium di Roma
1 giugno 2007, 12:45, Esterno

(fotografie di Giacomo Mutti; clicca sulle immagini per ingrandirle)
l'Unità 4.6.07
Gramsci: l’«Inferno» dantesco per parlare al Pci
La rottura netta con il Comintern e col Partito Comunista, e la rottura personale con Togliatti
di Adriano Guerra


Lo studio di Vacca e Rossi decodifica i saggi su Alighieri, Croce e Machiaveli scritti dal carcere come messaggi al partito

Un’esplicita condanna del marxismo sovietico e una diversa strategia per combattere il fascismo

Giustificati i sospetti del pensatore sardo
La gestione di Togliatti non fu esemplare ma alla fine chi decise furono Stalin e Mussolini

Gramsci in carcere a Turi, Togliatti a Mosca, dove c’è con la famiglia Schucht la moglie Julia coi figli. E dove c’è Stalin. In Italia c’è Mussolini, e c’è il «Tribunale speciale» al lavoro. Siamo nel pieno del secolo «grande e terribile», coi suoi momenti di gloria, di generosità e di solidarietà, ma anche di paure, di incomprensioni, di tradimenti, ed è questo il quadro entro cui va collocata la ricerca di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, appena pubblicata da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp.245, euro 19.00).
Negli anni della guerra fredda - come si sa - i tentativi di custodire ma anche di preservare dalla curiosità altrui piccoli e grandi segreti famigliari e di partito, hanno portato a stendere veli su verità dolorose. Così è nata la «questione Gramsci». Non pochi di questi veli sono stati rimossi grazie alle ricerche di numerosi studiosi. Altri lo sono con questo libro, che è un’opera «aperta» e dunque - come sempre accade quando un tema viene affrontato da più autori - con interpretazioni non sempre collimanti e in qualche caso anche contraddittorie. Ma, vivaddio, questa è la ricerca. E quel che di nuovo veniamo a sapere impone di modificare vecchie convinzioni. Ora sappiamo ad esempio, che Gramsci scrivendo in carcere centinaia di pagine su Benedetto Croce, sul fordismo, su Macchiavelli, non intendeva (soltanto) lavorare für ewig (per l’eterno), ma anche condurre una vigorosa e quotidiana lotta politica all’interno del partito e del movimento comunista.
Che sin dai giorni dell’arresto egli fosse in contrasto con Togliatti era noto. Quel che era meno noto, e per certi aspetti, del tutto ignoto, è rappresentato da una parte dall’ampiezza e dalle forme nelle quali il confronto fra i due dirigenti ha continuato a svolgersi e dall’altra, e soprattutto, dai contenuti reali del confronto stesso. Su questi punti il libro di Rossi e Vacca dice cose nuove che riguardano intanto il ruolo reale svolto da Piero Sraffa. A differenza di quel che si riteneva, il famoso economista non ha ricoperto nella vicenda il ruolo di semplice strumento di contatto, quasi anodino e neutrale, fra i due, soltanto perché amico di Gramsci e di Togliatti, e soprattutto del primo, ma ha agito per volontà e vocazione propria. Perché Sraffa era un intellettuale comunista, un uomo di partito, sia pure «senza tessera» (e «senza tessera» per potersi muovere liberamente, o quasi, fra Londra, Parigi e il carcere di Turi).
Nuovo è poi quel che Rossi ha scoperto sui «codici letterari» impiegati da Gramsci per riprendere nel 1931 la discussione iniziata con Togliatti nel 1926 sui pericoli che sarebbero nati qualora la maggioranza di Stalin non si fosse accontentata di vincere la sua battaglia contro la minoranza di Trotskij, ma avesse teso a «stravincere». Gramsci ha utilizzato a questo proposto vari testi: uno scritto su Benedetto Croce e il materialismo storico, il Canto X dell’Inferno, (quello di Farinata degli Uberti, ma Gramsci per far sapere al partito il suo pensiero sulle posizioni del Comintern ha posto al centro la figura di Cavalcanti), e, ancora, una finta recensione alla Storia d’Europa di Croce. Quel che viene fuori, attraverso il lavoro di decodificazione delle «lettere» e l’analisi di alcuni documenti sin qui inediti - prima di tutto il Rapporto steso da Gennaro Gramsci che era stato incaricato dal partito di informare il fratello sulle ultime scelte del partito - è il quadro complessivo delle divaricazioni che si erano progressivamente venute a creare fra il prigioniero e il Pci.
Queste divaricazioni riguardavano soprattutto il giudizio sul fascismo e sulla tattica per combatterlo: erano ancora valide le Tesi di Lione del gennaio 1926 nelle quali, seppure entro il quadro di una situazione italiana definita «prerivoluzionaria», si poneva al centro la questione dell’unità classe operaia- proletariato agricolo-contadini, con le scelte politiche conseguenti (dialogo e intesa con socialisti e socialdemocratici per dar vita al «fronte unico») oppure occorreva far propria la linea del Comintern (1928) e soprattutto del X Plenum (luglio 1929) sulla «Terza fase», con le parole d’ordine della «crisi generale del capitalismo», della «classe contro classe» e del «socialfascismo»?
Gramsci si pronunciò sempre per la validità delle tesi di Lione e dunque contro il Comintern e contro la «traduzione italiana» della «terza fase» avviata dal Pci nel 1929 con la «svolta», e alla fine parlò dell’Assemblea Costituente, e dunque di una battaglia da condurre per obiettivi democratico-borghesi nelle condizioni del pluralismo e del pluripartitismo politico, come di un obiettivo valido non già dopo la caduta del fascismo ma negli anni stessi del fascismo, utilizzando le occasioni fornite dal confronto che si era aperto sui temi del corporativismo.
A dare organicità alla lotta politica di Gramsci c’era - va ancora detto - una concezione dell’egemonia che si distaccava fortemente dai moduli, allora imperanti, della «dittatura del proletariato», e - ancora - c’era una esplicita dichiarazione di condanna del marxismo sovietico considerato alla stregua del «teologismo medievale».
Rottura netta, insomma, col Comintern e col Pci che è diventata anche grave e irreparabile rottura personale con Togliatti, ma che non ha però impedito a quest’ultimo - come i due autori riconoscono ampiamente - di guardare a quel che Gramsci produceva in carcere come ad un patrimonio prezioso da salvaguardare per il futuro, e non solo per il partito.
La svolta verso la rottura radicale ha preso avvio - come si sa - con la «famigerata» lettera di Grieco del 1928 interpretata da Gramsci, per il fatto che con essa il partito lo indicava come il capo del Pci, come il momento di avvio di una iniziativa diretta, consapevolmente o inconsapevolmente, a trattenerlo in carcere. Ed è continuata, sempre secondo Gramsci, col ritardato e in più di un caso il mancato sostegno da parte del partito alle diverse vie - ultimo il «tentativo grande» - studiate e tentate da Gramsci per ottenere la liberazione.
Per quel che riguarda l’impatto che le differenzazioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime fascista hanno avuto sulla questione della liberazione di Gramsci è presto detto: scartata sin dal primo momento la via della richiesta di grazia, l’unica possibilità per uscire dal carcere consisteva per Gramsci nel puntare sul riavvicinamento che si stava verificando fra l’Urss e l’Italia fascista, entrambe preoccupate per l’ascesa di Hitler. Trattativa diretta fra due Stati impegnati nella preparazione di un «Patto di non aggressione» dunque, tenendo all’oscuro il partito, tanto più che quest’ultimo stava in quella fase chiedendo la liberazione dei prigionieri politici dalle carceri fasciste attraverso manifestazioni e campagne di stampa. Con iniziative cioè che - pensava Gramsci - non avrebbero potuto che irrigidire le posizioni di Mussolini.
Se si prende in considerazione nel suo insieme l’atteggiamento tenuto dal Pci nei confronti del problema della liberazione di Gramsci si può ragionevolmente pervenire alla conclusione, come fanno i due autori, che le preoccupazioni e anche i sospetti di Gramsci, erano in parte giustificati. Se però si guarda a come si sono svolti i fatti non si può non rilevare il peso che hanno avuto, insieme alle divergenze, le incomprensioni dovute all’accumularsi senza tregua di equivoci, di informazioni parziali o del tutto errate che non hanno consentito alle parti di avere incontri chiarificatori. Basti dire, nell’ordine, che la «famigerata» lettera di Grieco che tanti sospetti ha generato in Gramsci, non ha avuto nessun peso nel determinare la condanna (non figura neppure negli atti processuali) e, per quel che riguarda il suo contenuto, non è certo attraverso di essa che gli inquisitori hanno appreso che gli imputati che avevano di fronte erano i dirigenti al massimo livello del partito. A spingere poi il Pci a far propria la campagna avviata a Parigi, sulla base di documenti che illustravano le condizioni di salute di Gramsci, per la liberazione dei prigionieri politici in Italia, non è stata una scelta di Togliatti, ma un complesso di circostanze che hanno preso il via da un’iniziativa della Concentrazione antifascista.
Va infine ricordato che anche Togliatti pensava che le Tesi di Lione (delle quali era stato coautore) non avessero perso di significato dopo il X Plenum del Comintern e, come Vacca ha ampiamente dimostrato già in un libro precedente, la sua analisi del fascismo presenta indubbie affinità con quella di Gramsci. Quel che soprattutto ha distinto i due dirigenti è stato l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Urss. Da una parte c’era il «realismo» di Togliatti che ha spinto quest’ultimo a schierarsi con l’Urss di Stalin anche quando diverse da quelle imposte da Mosca erano le sue convinzioni. E questo perché non vedeva altra scelta nel momento in cui in Europa si trattava di fronteggiare il fascismo. Dall’altra parte c’era il «non realismo» (ma forse, proprio perché fondato su una scelta non di «campo» ma di collocazione ideale eticamente oltreché politicamente fondata, è possibile parlare di «realismo» altro, superiore) di Gramsci.
Del tutto oziosa, almeno nel momento in cui siamo di fronte al problema di ricostruire una vicenda, è chiedersi adesso chi avesse ragione.
La gestione di Togliatti della «questione Gramsci» non è certo - come si è visto - esente da critiche. Non si può però dimenticare che - come è ricordato nelle ultime pagine del libro - a decidere sulla sorte di Gramsci sono stati Mussolini e Stalin. Poco prima che Litvinov giungesse a Roma per la firma del «Patto», Gramsci era stato portato - e forse perché Mussolini si proponeva di utilizzare la carta della liberazione dell’uomo che aveva fatto condannare a 20 anni di reclusione - da Turi al carcere presentabile di Civitavecchia. Ma per Stalin Gramsci era evidentemente ancora quello della lettera del 1926, un «trotskista». Meglio lasciarlo in carcere in Italia. Avvenne così che quando il ministro degli esteri sovietico incontrò Mussolini non fece cenno della questione. E quest’ultimo non aggiunse verbo.

l'Unità 4.6.07
Un reportage da Cuba critica il regime. Apriti cielo, valanga di lettere contro l’articolo. Il direttore lapidario: «Non esiste nessun buon giornalismo che non sia libero»
Tra Sansonetti e Castro i lettori di «Liberazione» scelgono Fidel


Se gli avessero messo in mano gli ultimi tre numeri di Liberazione, Jan Grzebsky non avrebbe avuto quei giramenti di testa: il mondo gira come girava quando si addormentò nel coma, 19 anni fa, il ferroviere polacco vittima di un incidente sul lavoro. Diviso in due e con le consuete accuse di falsa coscienza, il/la “giornalista” scritta fra virgolette che «non so se sia in buona fede o no».
La testa deve invece aver girato, come fosse entrato in un rotor, in una macchina del tempo, a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, mercoledì scorso, quando aprendo la posta elettronica è stato sommerso dalla valanga di proteste per il reportage firmato dall’inviata all’Avana Angela Nocioni.
Le colpe di Angela. Che aveva scritto di «indecente» l’inviata? Aveva scritto (bene) quello che tutti sanno, ovvero che da Cuba chi ha meno di quaranta anni cerca di partire ma che questo è difficile perché il passaporto non è un diritto ma un premio. Soprattutto, Angela aveva commesso l’imperdonabile leggerezza di raccontare come sono percepiti dalla gente comune i «testimonial» del regime. Giustino Di Celmo, italiano, padre di Fabio, rimasto ucciso in un attentato terroristico organizzato da Posada Carriles. «Di Celmo se lo portano dappertutto, in Tv, ai comizi, gli hanno dato una laurea honoris causa e lui, grato, parla di Cuba come del migliore dei mondi possibili». In un paese dove è vietato aprire ristoranti privati, Di Celmo ha la sua pizzeria dove si prepara la «pizza Fabio», 4 dollari e 75. E poi i Cinque eroi, detenuti negli Stati Uniti. «Di mestiere facevano le spie - scrive Nocioni - Da quando sono famosi, però, sono scrittori, poeti, caricaturisti. Li pubblicano come fosse Garcia Marquez». In un paese dove manca la carta e al massimo uno scrittore può aspirare a una tiratura di duemila copie. Apriti cielo. Nelle lettere di chi a Cuba è stato con il festival della Gioventù o con le brigate del lavoro volontario (e quindi l’isola l’ha vista senza i paraocchi) nelle testimonianze dei segretari dei circoli Italia-Cuba, questa è «superficialità», «mancanza di analisi storico-politica», «denigrazione». Il senatore Fosco Giannini e Alessandra Riccio, invece, ci spiegano che i Cinque non erano spie ma «infiltrati negli ambienti anticastristi della Florida» e nei loro confronti ci vuole «rispetto».
Le colpe di Piero. Il direttore difende la giornalista: «Non esiste nessun buon giornalismo che non sia libero». Macchè, per Mario Gabrielli Cossu (segretario del circolo Prc di Bruxelles) questa è subalternità al pensiero dominante. Per Pablo Genova questa è «una campagna diffamatoria contro Cuba». Ma Sansonetti non si limita alla difesa dell’inviata. «Io non mi sento di condannare in blocco - scrive - il castrismo, perché conosco bene il valore della rivolta di Castro e del Che contro la dittatura di Batista... Ma questo non mi impedisce di considerare l’odierno regime cubano un regime non solo lontanissimo, ma addirittura inconciliabile con le idee di una sinistra moderna». Scherziamo? Ci spiega Bruno Steri, direttore di Essere comunisti, che l’Oms definisce il sistema sanitario cubano uno dei migliori del mondo. «Cuba si erge a capofila dei diseredati del mondo e lancia una sfida globale per una nuova rivoluzione energetica». Mentre un altro lettore sente puzza di bruciato: Sansonetti non era all’Unità quando si iniziò a denigrare Togliatti?
Nessun modello politico accettabile - scrive il direttore - «può fare a meno dei presupposti fondamentali della democrazia (delle elezioni) e delle libertà individuali». È troppo. Scende in campo Fabio Amato, Responsabile nazionale esteri di Prc, che cita il teologo della liberazione Frei Betto: «Come faccio a parlare di diritti umani a Cuba, quando in America Latina milioni di persone non hanno conquistato ancora i diritti animali, quelli di avere un tetto, uno straccio per ripararsi dalla pioggia, il cibo di tutti i giorni da dare ai propri figli?» e poi descrive in perfetto stile zdanoviano i cubani «nelle loro umili case ma piene di dignità. La dignità di chi sapeva di vivere in un periodo difficile, duro ma consapevoli di difendere la loro indipendenza e le conquiste sociali della rivoluzione».
Questo sì che è un linguaggio che deve suonare musica alle orecchie dell’ambasciatore cubano. Che, infatti, ha invitato Sansonetti per un «franco colloquio».

Corriere della Sera 4.6.07
Il coraggio di criticare Cuba (da sinistra) e l'ira dei fedeli traditi
di Pierluigi Battista


Un diluvio di lettere ha sommerso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista colpevole di aver pubblicato un reportage da Cuba di Angela Nocioni in cui il regime castrista non era esattamente descritto come il paradiso in terra. I lettori si sono detti «indignati» per il proditorio attacco, «sconcertati» per la «campagna diffamatoria» cui il giornale si sarebbe prestato, facendosi megafono di «qualunquismo giornalistico», nonché vetrina di un «ignobile articolo» che suscita solo «amarezza». Un lettore si è detto addirittura «pietrificato» per via della dolorosa sorpresa. Un altro, furente, ha accusato il giornale di essersi docilmente sottomesso al «pensiero unico», prova definitiva del tradimento di Rifondazione comunista, oramai convertita (ma davvero?) all'egemonia culturale del «liberalismo». I lettori hanno reagito come fedeli sgomenti davanti al tempio profanato, come seguaci di una dottrina costretti a subire le parole blasfeme pronunciate dal pulpito. E tutto per un articolo non gradito.
Un articolo che il direttore del quotidiano, Piero Sansonetti, ha difeso anche a costo di inasprire le proteste dei lettori che ne chiedevano la scomunica. La sinistra, ha scritto Sansonetti, «non può che considerare il regime cubano il contrario di se stessa». Ragionamento coerente e lineare, in teoria: come potrebbe infatti una sinistra che si vuole libertaria, portabandiera dell'«esaltazione dei diritti», ostile alla censura, allo Stato onnipotente, alla polizia senza briglie, come può questa sinistra riconoscersi in uno Stato di polizia a partito unico, a giornale unico, a ortodossia unica, come può vedersi rappresentata da un regime le cui carceri sono stracolme di dissidenti, dove i poveri cristi fuggono per mare su zattere di fortuna e gli omosessuali sono indecentemente perseguitati? Difficilissimo, in pratica: perché la mitologia rivoluzionaria è infinitamente più forte (e seducente) della realtà, e perché il pregiudizio ideologico è capace di resistere a ogni confutazione fattuale. Per questo tra i seguaci delle religioni secolari appare così istintivo il ricorso all'anatema, l'ostilità nei confronti di chi si permette di dubitare di una fede incorruttibile e dunque difesa con la stessa veemente ultimatività con cui si difende qualcosa di sacro.
Per questo acquista un valore esemplare la scelta coraggiosa del direttore di Liberazione. Del quale si possono anche eventualmente non condividere alcuni residui «giustificazionisti» sulla dittatura cubana. Ma del quale non si può non apprezzare un atteggiamento ben poco frequentato: la sfida al senso comune della propria parte, la temerarietà di mettersi controvento, di affrontare l'esame, e persino le reazioni emotivamente infuocate della propria comunità di appartenenza. Virtù molto rara. Rara a sinistra, dove si allestiscono ecumenici Pantheon per non scontentare nessuno e ricercare il consenso di tutti. Rara a destra, dove il culto del Capo soffoca i dissensi e mortifica ogni voce critica. Ed è curioso constatare come proprio nella roccaforte ideologica che fa della fedeltà a un'ideologia la propria insegna omaggiandola persino nella denominazione, Rifondazione comunista, si stia mostrando una disponibilità autocritica (a cominciare dalla battaglia sulla non violenza di Bertinotti) sconosciuta nella politica italiana. Criticare il regime cubano quando è ancora in sella, e non decine d'anni dopo con il solito rosario del «sottovalutammo», «sbagliammo», «non capimmo», è un buon inizio. Anche a costo di urtare la sensibilità del mondo cui si appartiene: imparare da Rifondazione.
Anatemi dei lettori contro il reportage uscito sul giornale di Rifondazione e difeso dal direttore

Repubblica 4.6.07
Sinistra dell'Unione e "duri" d'accordo: non temiamo infiltrazioni dei Black bloc. Prodi: con il presidente Usa rapporti molto buoni
"Contesteremo Bush senza scontri"
Ma Casarini avverte: "Niente zone rosse o esploderà la rabbia"
di Umberto Rosso


A piazza del Popolo verrà organizzato un sit-in, a cui aderisco- no molti parlamentari della maggioranza, Sinistra Democratica, Pdci, Prc, Fiom-Cgil, Arci, Un ponte per e altre organizzazioni

La sinistra antagonista ha lanciato una mobilitazione da tutta Italia per il corteo del 9 giugno, con pullman e treni: questi sono stati ribattezzati "No Bush No War" o "Strike War Express"

Il presidente del Consiglio ricorda però la diversità di vedute su Iraq e ambiente
Il leader dei Disobbedienti: i nostri cortei vanno autorizzati senza limitazioni

ROMA - Le due piazze anti-Bush non temono alcun effetto Rostock. Tutto «filerà liscio» a piazza del Popolo, garantisce la sinistra dell´Unione che sabato si ritrova al sit-in contro il presidente americano. E «pacifica e popolare» giurano gli organizzatori sarà anche l´altra manifestazione, il corteo dei "duri" che sfila da piazza della Repubblica a piazza Navona, «non temiamo infiltrazioni, i black bloc se ne staranno in Germania». Nell´attesa, di sicuro cresce la tensione politica. Epicentro, il centrosinistra. Il presidente del Consiglio, da Parigi, fa sapere di avere sempre avuto con Bush «rapporti personali molto buoni», ma precisa subito che «se si hanno delle buone relazioni non è vietato avere interpretazioni o idee diverse». Prodi parla in una intervista alla radio francese Europe 1, e dice così: «Io ho sempre detto no alla guerra in Iraq perché ho sempre pensato che sarebbe stato un errore storico». E anche sul protocollo di Kyoto, ricorda, ci sono state opinioni diverse con Bush.
Amicizia ma in autonomia. Ed è la linea sulla quale il premier ha chiesto e ottenuto da ministri della sinistra di non scendere sabato prossimo in piazza contro il presidente americano. Invito accolto, per cui stavolta almeno l´esecutivo in quanto tale dovrebbe finire al riparo dalle polemiche. Paolo Ferrero ha annunciato che quel giorno sarà a Brescia. Bianchi è un tecnico. Pecoraro e Mussi si chiamano fuori. Ma i leader politici invece in piazza andranno, la sinistra di lotta e di governo dell´Unione conferma: in campo contro la visita di Bush. Il Professore ci aveva anche provato, a dissuaderli, senza stringere troppo per la verità di fronte alle immediate reazioni negative di Rifondazione e dei Comunisti italiani. «Presidente - ha obiettato nel vertice di maggioranza il segretario del Pdci - ma se andranno a protestare anche alcuni chierichetti della Margherita...».
Così al sit-in di piazza Navona, sabato pomeriggio, in prima fila Giordano e Diliberto, i verdi guidati dal capogruppo Bonelli, una ventina di parlamentari della Sinistra democratica, anche se a titolo individuale perché l´ex correntone ds alla fine ha deciso di non aderire ufficialmente alla manifestazione promossa da Rifondazione, Pdci, Fiom-Cgil, Arci. «Poco tempo per discutere la piattaforma - spiega Cesare Salvi, capogruppo di Sd al Senato - con il rischio di confondere obiettivi giusti, come il "no" allo scudo stellare di Bush, con un generico anti-americanismo». Ma l´arco della protesta si è allargato fino a toccare anche la Margherita ed esponenti del mondo cattolico delle Acli. Il tesoriere del partito, il rutelliano Luigi Lusi, ha firmato l´appello anche se ha deciso di non andare in piazza, mentre al sit-in ci sarà il collega deputato Francesco Ferrante, ex direttore di Legambiente. Così, mentre Prodi stringerà la mano a Bush a Palazzo Chigi, una fetta della maggioranza provvede a contestarlo. Riaprendo la vecchia polemica, ovvero il centrosinistra che va in piazza contro se stesso. La "trincea" della sinistra è pronta: nel mirino della manifestazione il guerrafondaio Bush e non Prodi, che dall´Iraq al Libano ha avviato un cambio di rotta nella politica estera. Ma, nel clima della nascente Cosa Rossa e di rapporti burrascosi con il Pd, si rischiano nuove tensioni nel centrosinistra.
Il premier sarà invece il bersaglio dichiarato dell´altro corteo, l´ala dura del movimento, che sabato sfila invece da piazza della Repubblica a piazza Navona. Partito comunista dei lavoratori (nato dalla scissione di Rifondazione), i Cobas guidati da Piero Bernocchi, i Disobbedienti di Luca Casarini, centri sociali. Via Bush e via Prodi. «Il sit-in di piazza del Popolo - accusa Marco Ferrando, segretario del Pcl - è pura ipocrisia: la sinistra al governo è subalterna alle scelte di Bush». Attesi al corteo anche i dissidenti del Prc Cannavò e Turigliatto, e Giorgio Cremaschi, segreteria Fiom. Previsione della vigilia: decine di migliaia di partecipanti, e pacifici. Anche se Casarini avverte «autorizzino il nostro corteo senza limitazioni e zone rosse, altrimenti ci sarà rabbia tra i manifestanti». Ma per la verità, come confermano gli stessi organizzatori romani, non è prevista alcuna zona rossa e il percorso è già stato concordato con il prefetto di Roma Serra: il corteo, così come quello del marzo scorso sull´Afghanistan, marcerà lontano dai palazzi del potere. Polemiche invece con i vertici delle ferrovie, che non avrebbero concesso tariffe speciali per i treni dei disobbedienti.

l'Unità 4.6.07
Un dna di troppo
di Silvia Ballestra


Avevamo letto quant’era stata brava Antonella Duchini, il pm di Perugia che si è occupata del caso di Marsciano, a presenziare giorno e notte ai sopralluoghi, impegnandosi in prima linea senza risparmio, esplorando ogni possibile pista, e avevamo pensato: per forza, è una donna, si sentirà più coinvolta da questa orribile tragedia. Una donna incinta di otto mesi picchiata a morte, ammazzata in casa sua, coi due bimbi piccoli che dormono nella stanza accanto, non può non toccare chiunque. Ma se sei donna, vorrei pensare, ancora di più. La componente umana di identificazione ed empatia, in certi casi, può non essere secondaria.
Ma ecco ora una mossa a sorpresa: la richiesta dell’esame del Dna del feto che la povera Barbara Cicioni portava in grembo. Si vuole capire se quello della gelosia è un movente possibile. Una mossa, verrebbe da dire, molto maschile, molto in linea con i tanti processi per stupro d’antan, quando, invece di indagare sugli stupratori, si metteva sotto esame la condotta di vita delle vittime, la loro presunta «immoralità»
L’ha provocato, girava da sola di notte, era vestita da zoccola, era piena di uomini: pare incredibile ma erano questi gli argomenti delle difese, solo trent’anni fa (pure meno!), nelle aule giudiziarie. Aule piene di avvocati e magistrati uomini che a volte, anche solo con un’occhiata eloquente, si intendevano al volo. Colpevolizzando la vittima, si sgravavano i colpevoli, come se davvero potessero mai esistere circostanze attenuanti a crimini così odiosi e orrendi. Poi i costumi per fortuna - e anche grazie al lavoro di tante donne e uomini - sono cambiati e certe enormità non si sono più sentite.
Ecco: perché pare di risentirle, oggi, davanti a quest’esame? Davanti a questa strabiliante richiesta? La magistratura faccia il suo mestiere, per carità, ma non è questo il segnale che vorremmo per affrontare l’emergenza delle violenze sulle donne. Emergenza prima di tutto culturale, bisognosa di segnali forti e non di scivolosi appigli.
Cambierebbe qualcosa, forse, se da quell’esame dovesse uscire una paternità della bimba diversa da quella dell’assassino? Il delitto sarebbe meno grave? Un uomo che ha ucciso di botte la madre dei suoi figli e poi manipolato la scena del crimine per accusare i soliti fantomatici stranieri ladri, ne uscirebbe un po’ meno peggio? Avrebbe uno sconto di pena? Questioni tecniche, certo. Ma la sola idea ci sembra agghiacciante.
Di sicuro, purtroppo, appare molto credibile il ritratto delle condizioni in cui è maturato questo delitto. Condizioni molto tipiche: le violenze che si ripetono da anni, fisiche e psicologiche, contro la moglie, ma anche contro i figli. La frustrazione dell’uomo che si sente spodestato nella gestione della casa e del lavoro dalla moglie che invece fatica duro dall’alba fino a tardi. Il contesto ambientale con il clan contadino fortemente patriarcale e incombente. Le scappatelle nei night della zona, le botte e le accuse assurde alla moglie (tipico del sesso forte che si ritrova debole, e quindi mena), la crisi per il terzo figlio in arrivo. L’inadeguatezza per una famiglia sacra (e perciò violenta) che, letteralmente, ti si stringe addosso fino a soffocarti.
Resta il problema, questo sì da discutere e indagare, del perché la violenza in famiglia sia così diffusa. Del perché queste coppie così serrate, ancora pensate e fondate sul possesso, accettino una routine fatta di botte e insulti che a volte sfociano in omicidio. L’esame non va fatto al feto, al suo dna, all’immaginario «altro padre». No. Facciamo l’esame a questi rapporti malati. Che non vanno bene per niente, che sono un pericolo sociale. Quella della gelosia è storia vecchia, inutile davanti ad amori che sono soltanto possesso e atti di proprietà.
La passione è un’altra cosa e i lucchetti dell’amore, tanto à la page, che prevedono una coppia chiusa in se stessa e perciò isolata e paranoica, non sono affatto un bel simbolo da vendere ai più giovani. Ma l’anticamera delle sberle. Facciamolo a tutto questo, l’esame del dna.

l'Unità 4.6.07
Quell’oscura violenza che nasce nelle famiglie
di Luigi Cancrini


Un uomo, dice l’accusa, ha ucciso la moglie incinta di 8 mesi. Tutti sapevano, pare, che maltrattava lei e i bambini. La gente che gli grida «bastardo!» in tutti i servizi televisivi di dopo non poteva davvero far niente prima?
Lettera firmata

La stragrande maggioranza degli omicidi si compie in famiglia. Da noi e in altri paesi. Con buona pace dei leghisti e di chi li sta a sentire, pronti sempre a gettare la colpa su quelli che vengono da altri paesi per cercare il lavoro e il benessere che non trovano altrove. Con buona pace di quelli che continuano a santificare la famiglia, scaricando sulle coppie di fatto e sui gay la loro inutile aggressività.
La maggior parte degli omicidi che si compiono in famiglia potrebbe essere evitata. Uccidere è un passaggio tardivo, in genere, all’interno di una escalation di violenze verbali e fisiche di cui nessuno parla, come in questo caso, se non quando l’irreparabile è gia accaduto. Picchiare la moglie è sport ancora abbastanza diffuso. Nel paese in cui la famiglia deve essere difesa ad ogni costo quella che non è difesa, purtroppo, è la donna che le botte le prende. Se si ribella e va dai carabinieri, quello che le viene consigliato è di pensarci bene: giustamente, del resto, perché se la denuncia va avanti, i tempi lunghi della giustizia la costringono a ritrattare o a subire ulteriori minacce ed altre botte. Nessuno le offre nulla, infatti, che possa aiutarla davvero a difendersi ed a riorganizzarsi dal punto di vista economico, abitativo o lavorativo. Nessuno, ovviamente, tranne i centri antiviolenza dei Comuni o delle Province che la accolgono, in casi estremi ma sempre per periodi brevi nelle scomodissime e povere comunità madre-bambino. Che le offrono un’assistenza legale ma che hanno risorse sempre troppo limitate per darle un aiuto reale e duraturo.
Ci vuole un coraggio molto grande, in realtà, per ribellarsi nel caso in cui si sia vittima di violenza nella propria casa. Quello che se ne è accorto, finora in splendida solitudine, è il legislatore spagnolo perché una delle leggi approvate dal governo di Zapatero è proprio quella che riguarda la violenza di genere: la violenza, cioè, dell’uomo sulla donna e sui bambini. Immaginando corsie preferenziali e tempi molto brevi per l’intervento del giudice e misure immediate per il sostegno economico, abitativo e lavorativo della donna che trova la forza per sporgere la sua denuncia. Avversata violentemente (non si sa bene perché) dalla destra e dalla Chiesa, questa legge prevede fra l’altro, accanto alla pena, l’ obbligo di terapia per i violenti, finanziamenti e progetti per i servizi chiamati a metterla in opera.
Con chiarezza proponendo l’idea per cui quella su cui si punta non è tanto la "punizione" dei colpevoli quanto la prevenzione di fatti più gravi: una prevenzione naturalmente basata sulla cura delle persone problematiche e dei legami in cui si soffre troppo.
Faccio il terapeuta della famiglia da troppi anni per non sapere quanto sia grave e difficile da districare il nodo di un legame patologico fra due esseri umani che si sono amati e che non riescono più, da un certo momento in poi, a capirsi e a raggiungersi. "Odio et amo" diceva Catullo, ed è sicuramente vero che l’odio può stravolgere la vita di una coppia rendendola insensibile ai guai che la lacerazione produce sui due partners e sui figli che hanno la sventura di vivere con loro. Quando un nodo di questo tipo si stringe intorno alla vita di due persone condannate a stare insieme dalla loro stessa patologia oltre che dalle costrizioni culturali o istituzionali, d’altra parte, sperare che loro ne escano da soli serve a poco.
Quello che è necessario fare con urgenza, invece, è aiutarli a portare fuori la propria sofferenza. Chiedendo aiuto per lei e per lui perché, riconosciuto colpevole di aver picchiato la moglie, l’uomo che in relazioni come queste perde la sua capacità di controllo e di critica, può essere aiutato seriamente a non diventare l’assassino di lei e dei propri figli. La cosa più importante da fare, dunque, è una legge che renda facile questa richiesta d’aiuto. Rompendo la convinzione diffusa, prima di tutto, del matrimonio e della famiglia intesi come "bene assoluto". Piaceva forse ai confessori di una volta ma è terribilmente controproducente e alla base oggi, purtroppo, di molti delitti evitabili lo sforzo delle donne che in casa ingoiano tutto, soprusi e violenze, nel nome di una rassegnazione sacrificale il cui esito inevitabile è un accumulo, nel tempo difficile da sostenere, d’odio e di sfiducia, di infelicità e di disprezzo. Quella di cui si diceva un tempo che "eroicamente" sopportava è sempre più oggi una donna che dà un contributo importante ad un aggravamento progressivo della sua situazione famigliare: incidendo pesantemente, che se ne renda conto o no, sulla vita sua e sullo sviluppo dei figli.
Dobbiamo riflettere seriamente a mio avviso, in Parlamento, sulla necessità di prendere iniziative di questo tipo sul piano legislativo se davvero vogliamo che vicende come quella ricostruita oggi dall’accusa a Perugia non si ripetano. Il mio lavoro mi mette di fronte ogni giorno alla constatazione per cui le percosse dell’uomo sulla donna e, spesso, sui figli sono frequenti: nelle famiglie italiane così come in quelle spagnole. L’idea da cui dobbiamo partire a questo punto non può essere che una: quella per cui fondamentale, in tutte queste situazioni, è un intervento precoce. Un intervento che renda difficili e del tutto improbabili, cioè, gli sviluppi più drammatici di cui, come lei giustamente nota, ci si accorge, altrimenti, dopo: quand’è troppo tardi.
Non è per niente una fantasia, cara L. quella di chi immagina che una cultura diversa e una legge più giusta avrebbero permesso ai vicini o ai parenti della donna che oggi non c’è più, una donna che, da quello che sappiamo, aveva scelto, come tante altre, la strada del silenzio, di intervenire più efficacemente prima che un omicidio così prevedibile venisse effettivamente commesso.

l'Unità 4.6.07
Da «Science». Un’ipotesi osservando gli orangutan
I nostri antenati bipedi quando erano sugli alberi


I nostri antenati potrebbero aver cominciato a camminare su due gambe quando ancora vivevano sugli alberi. Osservando alcuni Orangutan, un gruppo di ricercatori ha visto che essere bipedi può aver offerto molti vantaggi ai nostri antenati permettendo loro di bilanciarsi con le braccia mentre passavano da un ramo all’altro. Gli autori della ricerca suggeriscono che gli ominidi abbiano abbandonato la foresta a causa dei cambiamenti climatici quando già camminavano eretti.

l'Unità 4.6.07
In Basilicata. La seconda struttura pubblica italiana
Così si curano gratis anoressia e bulimia

di Cristiana Pulcinelli

Chiaromonte è un paesino arroccato su un cucuzzolo nell’entroterra della Basilicata. Anche arrivarci non è facile, visto che è fuori dalle traiettorie più battute della nostra penisola. Eppure, a Chiaromonte c’è un fiore all’occhiello della nostra sanità. Si tratta del Centro per i disturbi del comportamento alimentare e del peso «G.Gioia», il primo centro pubblico residenzale ad occuparsi delle persone affette da anoressia, bulimia e disturbo da abbuffate compulsive nel sud d’Italia. Il Centro nei giorni scorsi ha festeggiato il primo compleanno con un convegno a cui hanno partecipato esperti di queste patologie arrivati da tutta Italia. Un anno difficile, ma di grande soddisfazione, hanno raccontato i responsabili.
Tutto è nato da un incontro avvenuto quache anno fa tra il direttore della Asl 3 di Lagonegro, Mario Marra, e i genitori di una ragazza affetta da anoressia, i signori Gioia. La ragazza era stata ricoverata in una clinica svizzera per curare la sua malattia, ma il costo della retta era così alto che la famiglia si era ritrovata ben presto sul lastrico. Il padre della ragazza si era rivolto al direttore della Asl per chiedere aiuto. Pochi giorni dopo, però, il signor Gioia moriva. Si è fatta così strada l’idea di creare un centro pubblico che potesse ospitare le ragazze affette da distrurbi alimentari senza costringerle a rivolgersi alle cliniche private o a farsi ricoverare negli ospedali. Un esempio (l’unico, per la verità) a cui fare riferimento c’era: la residenza Palazzo Francisci di Todi aperta nel 2003. Il luogo anche: il vecchio ospedale in disuso di Chiaromonte. Il centro è nato e non poteva che essere dedicato a Giovanni Gioia.
La struttura ha 20 posti letto in regime residenziale e 10 in regime semiresidenziale. Un’équipe composta da figure professionali diverse (psicologo, psichiatra, nutrizionista, endocrinologo, pediatra, ginecologo...), sale comuni grandi e luminose dove si svolgono lezioni di teatro e danza, laboratori di arti applicate e di scrittura creativa. Fuori, vicino al lago, c’è il maneggio dove le ragazze possono andare a cavallo o sull’asino, attività che sembra abbiano un forte valore terapeutico.
I disturbi alimentari sono un fenomeno in crescita: oggi, secondo alcune stime, colpiscono il 4% degli adolescenti e la fascia d’età interessata si allarga sia alle preadolescenti sia alle donne sopra i 40 anni, mentre il numero dei maschi colpiti aumenta. Forse, l’esempio di Todi e Chiaromonte andrebbe seguito.

Repubblica 4.6.07
Sulla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica un tema spinoso dei rapporti con l'Islam
"Ecco perché Maometto non è profeta per i cristiani"
Le tesi passate al vaglio della Segreteria di Stato


CITTÀ DEL VATICANO - «Maometto, profeta anche per i cristiani?». È il titolo di un articolo sui difficili rapporti tra musulmani e cristianesimo che sarà pubblicato sul prossimo numero del quindicinale dei Gesuiti, Civiltà Cattolica. Articolo destinato a far discutere sia per il tema sollevato che per la risposta fornita dalla stessa Compagnia di Gesù, anche se in apertura del servizio sembra voler tendere una mano ai seguaci di Maometto. «L´islam ha condotto molti a credere in Dio, ma - puntualizza Civiltà Cattolica - non ha conosciuto l´amore di Dio e la grandezza della vocazione dell´essere umano che si sono rivelati in Gesù». Autore dell´articolo, il gesuita tedesco Christian W. Troll, professore di Islamologia e relazioni islamo-cristiane alla Facoltà di Teologia di Francoforte. Le tesi dell´articolo hanno, però, un peso specifico ancora maggiore rispetto a una normale lezione accademica, perché il servizio - come tutte le altre pubblicazioni di Civiltà Cattolica - prima della pubblicazione è stato sottoposto all´imprimatur ufficiale della Segreteria di Stato della Santa Sede.
«I musulmani riconoscono Gesù come profeta: perchè i cristiani non fanno altrettanto con Maometto?», si chiede, tra l´altro, padre Troll, che ricorda che per l´islam il messaggio di Maometto «è valido per tutti e per sempre, mentre quello di Gesù e degli altri profeti lo sarebbe soltanto per un popolo e per un tempo».
Maometto - avverte ancora il professore - ricorre alla forza per diffondere la fede e rifiuta i «servi sofferenti». E inoltre, «nel Corano la sofferenza - ragiona il gesuita - viene considerata come una realtà che sopravviene da fuori, limita Dio e lo umilia. Perciò bisogna pensare a un Dio libero dalla sofferenza e incapace di qualsiasi dolore». Al contrario, nel cristianesimo, «la misura di Cristo va oltre, fino alla grazia del dono di sè nell´incarnazione e nell´amore sofferente. Mentre il Corano rifiuta la redenzione perchè non è conciliabile con la sovranità di Dio, il Vangelo vive tutto del libero dono di Dio in Cristo».
Per i cristiani - scrive il teologo gesuita - ciò significa che a motivo della fede in un Dio sempre più grande questo dono non può essere escluso. Da qui l´impossibilità per gli stessi credenti in Gesù a considerare Maometto un profeta anche dal punto di vista cristiano.
(o. l. r.)