domenica 10 giugno 2007

l’Unità 10.6.07
Erano in 60mila, slogan contro il governo e la sinistra
Poche bandiere arcobelano, molto antagonismo. «Bertinotti è un pacifinto»


IN SESSANTAMILA Un corteo grande. Rabbioso. Che urlava slogan duri come le pietre che poi, in serata, un gruppo di incappucciati ha lanciato contro gli «sbirri». Tante bandiere di parte. Parti piccole, minuscole. Isolate e perciò agguerrite. Dal Partito dei marxisti leninisti, a quello dei comunisti duri e puri, ai Carc che inneggiano alle nuove Br, ai Cobas, ai Cub, ai centri sociali più incazzati, al movimento «No dal Molin» contro la base Usa di Vicenza al «Partito Umanista». Tutti in coro contro Bush e Prodi, che sono la stessa cosa: guerrafondai e nemici della pace. Tutti, a pugno teso contro Bertinotti, il Fausto e contro questa «sinistra che è peggio di Berlusconi». «Bertinotti, Ferrero, uscite dal ministero» lo slogan urlato a squarciagola. Ma sì, il lettore dimentichi le grandi manifestazioni per la pace. Quelle con le bandierone arcobaleno (ce n’erano poche decine al corteo di ieri), con le famiglie, i volti sorridenti di uomini e donne allarmati per le guerre, ma accompagnati dalla serenità di chi sa di far parte di un grande movimento di popolo. Ieri a Roma era diverso. C’era di tutto in quella fetta di Italia calata dal Nord e salita dal Sud. Tutte le pulsioni di una parte della società italiana colma di problemi e di rabbia che non si riconosce più in nessun partito. Neppure in quelli fino a ieri ritenuti vicini. Altro che sinistra radicale. «Perdete ogni speranza voi che votate», recitava un cartello. «Siamo contro Bertinotti, Giordano, Migliore: questi traditori», urlava una ragazza di un centro sociale napoletano. Ogni spezzone del corteo ha una sua autonomia, un suo discorso da fare, una sua bandiera da custodire gelosamente. Nessuno vuole riconoscersi nell’altro. Non c’è, come si sarebbe detto un tempo, una direzione politica unitaria. E di questo - e il dramma politico per la sinistra raccontato dalla giornata di ieri sta anche qui - nessuno dei «capi» presenti come al solito alla «testa» del corteo sembra rendersene conto. Ognuno si illude di aver conquistato finalmente una leadership. Sentite Salvatore Cannavò, parlamentare di Rifondazione comunista, esponente della minicorrente di «Sinistra critica». Ha gli occhi lucidi, la parlantina sciolta e l’acquolina in bocca di chi già assapora la conquista. Gli hanno detto che il sit-in pacifista di lotta e di governo di Piazza del Popolo è stato un fallimento clamoroso e lui: «Bene, perché è in questa manifestazione che nasce un' opposizione di sinistra a Prodi. Questa gente lo ha votato. Farebbero bene a valutarlo. La sinistra istituzionale ha fatto un errore clamoroso a non essere qui. Ci sono due sinistre, una di governo confinata in una piazza e una di movimento pronta a fare opposizione». E sentite il Turigliatto, il senatore già esponente di Rifondazione ed oggi rivoluzionario isolato del gruppo misto al Senato. «Il governo Prodi sta sbagliano tutto con la sua politica estera fatta di potenza militare». Si aggiusta la giacca, sorride, stringe mani: finalmente leader di qualcosa.
E il Bernocchi, quello dei Cobas, non è da meno: «Bertinotti? Ma via, è il sommo pontefice, non rappresenta più nessuno. Ormai è uno che esalta la Folgore...». E non poteva mancare Luca Casarini, il leader dei disobbedienti del Nord-Est. A Roma arriva alle sei di sera, Trenitalia gli ha fatto la guerra, dice, ritardando la partenza dei treni. «Ma ora siamo qui, D’Alema e Bertinotti hanno perso la battaglia, noi siamo in 3mila. Noi siamo la vera sinistra, non quelli che sono a Piazza del Popolo, noi siamo la sinistra che sta in piazza». Dietro il grande striscione «No War, no Bush, no Prodi», ci sono altri pezzi di sinistra. Lucio Manisco, Fosco Giannini, Franca Rame passeggia e sorride, Giorgio Cremaschi dei metalmeccanici Cgil. Una ragazza australiana ha il ventre scoperto, col pennarello si è tracciato un messaggio per il mondo intero: «Anche gli australiani sono contro Bush». Più in là, lontano dai «leader» un uomo anziano si tiene lontano dal corteo e sventola una enorme bandiera rossa senza simboli. Sembra felice. Ma è solo pure lui. e.f.

l’Unità 10.6.07
Con i Verdi e la sinistra radicale poca gente

Tante sigle, poche persone in piazza. Non ci si aspettava una folle oceanica in piazza del Popolo, quella «con l’altra America» che critica Bush, ma ce n’è stata meno del previsto al sit-in promosso dall’Arci, dalla Fiom-Cgil, ambientalisti e pacifisti. In piazza i Verdi, Rifondazione, Pdci, Sinistra Europea. Al bar Rosati, sull’angolo, arriva Cossiga, sul bavero una spilletta con la bandiera americana, ci tiene a dire no, «non ce l’ho con la sinistra radicale che manifesta, loro sono coerenti». E non perde occasione per prendersela con Prodi. In piazza s’affaccia il segretario del Pdci Diliberto - «non sono autolesionista, non manifesto contro il mio governo» - mentre Russo Spena (Prc) parla di «piazza simbolica» e Giordano, leader di Rifondazione, afferma che «è sbagliato equiparare il governo Bush al governo Prodi».

Repubblica 10.6.07
I vertici di Rifondazione preoccupati per la scarsa partecipazione alla manifestazione. Migliore: ci aspettavamo più gente
Dalla piazza vuota l'allarme del Prc "Quel corteo, un partito contro di noi"
di Goffredo De Marchis

Slogan soft e poco antiamericanismo per la manifestazione della sinistra di governo
Giordano: ora con Prodi si apre una nuova partita, già dalla prossima settimana
Chi organizza l´altra manifestazione usa Bush ma l´obiettivo siamo noi
Non mi piace questa piazza. Quelli di Rifondazione sono andati al corteo

ROMA - E una piazzetta. «Non mi piace», confessa Oliviero Diliberto dietro gli occhiali scuri. Più bandiere e palloncini che manifestanti. Un migliaio ancora alle sette di sera, qualcuno di più dopo. Meno, molti meno prima quando il sole picchia su una piazza del Popolo senza un angolo all´ombra. I leader della sinistra radicale sfidano il flop delusi, sudati, ma senza timori.
Giovanni Russo Spena, il capogruppo al Senato di Prc, parla di «evento simbolico». L´importante, spiega, è che «ci siano le sigle del movimento pacifista, la Fiom, l´Arci, noi, il Pdci, i Verdi, la Legambiente, la tavola della pace, il no al Dal Molin». Dietro i marchi quasi il deserto. I movimenti sono dall´altra parte, sfilano lungo le strade blindate di Roma. Ci sono anche i giovani di Prc lì, Action, i disobbedienti, i protagonisti della stagione pacifista ai tempi di Berlusconi che allora marciavano con Rifondazione.
Lidia Menapace a 83 anni arriva puntuale, presidia la piazza sotto la canicola, parla con tutti e da militante storica del movimento per la pace pensa di essere nel posto giusto. Anche se poco affollato. «Gli organizzatori dell´altra manifestazione usano Bush e Prodi, ma hanno un solo bersaglio: Rifondazione». Quel corteo è un problema per Prc, perché sicuramente tanti lì dentro sono loro elettori. «I miei - riflette Diliberto per un attimo dimentico dei progetti di unificazione a sinistra - non sono né qui né lì. Diciamo che stanno a casa. Ma quelli di Rifondazione sono di là, con no war». Prc, del resto, aveva coltivato con cura il rapporto con i movimenti. E stato un errore? «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», dice sornione il segretario del Pdci. Franco Giordano però si difende.
Lo fa con il suo piglio, con l´argomento principe che il popolo pacifista o è unito o non è. «Mi sforzo di non disperdere lo spirito originario di questo movimento, che è l´unitarietà», scandisce. Il presidente dei deputati di Prc Gennaro Migliore ammette: «Speravamo in una partecipazione maggiore. Ma non facciamo classifiche». Resta la rabbia contro i fuoriusciti Cannavò e Turigliatto, contro il «nemico» di Rifondazione Luca Casarini. «Hanno aspettato Bush per attaccare noi. Bella prova - sibila Migliore - . Lo facciano direttamente, quando a Roma non c´è il presidente americano. Voglio proprio vedere quanta gente riescono a mettere insieme».
L´abbraccio di Prodi al presidente Usa, pericolo pubblico numero uno per i comunisti, agita i vertici di Prc e Pdci che però sperano sia solo «un segno di buona educazione», come dice Diliberto. Giordano spiega che sono i fatti a contare: «Uscita dall´Iraq, conferma del nostro impegno in Afghanistan senza altre truppe e la strategia libanese che noi abbiamo sostenuto. Questo ci interessa. Poi il bon ton, le leggi della diplomazia interessano meno». La piazza o meglio la piazzetta di ieri aveva veramente poco di antiamericano.
Uno striscione in vista sotto il palco dei musicisti recitava un innocuo: «Con l´altra america». Niente di più di ciò che si vede alle manifestazioni dei Democratici Usa. L´estremismo si avverte appena nelle parole dei gruppi rock. Il leader dei Gang, dal palco, prova a scaldare gli animi: «L´articolo 11 della Costituzione dice che Bush lo possiamo mandare a quel Paese».
Ecco, come dice Giordano, «questa è una kermesse». Cioè, non una manifestazione. Dunque, bando «alle contrapposizioni. Abbiamo provato fino all´ultimo a mettere insieme le piattaforme. Qualcuno non ha voluto». Sintetizza Angelo Bonelli dei Verdi: «Siamo qui perché del corteo no war non abbiamo condiviso alcune parole d´ordine». Ma il segnale di ieri arriva forte e chiaro soprattutto per Rifondazione. Che ha già perso voti nelle amministrative.
Prc sposta ora il terreno di scontro. «Per noi diventa vitale la politica sociale ed economica: salari e pensioni. Su quello non possiamo fare sconti - avverte Russo Spena - . Perché lì ci giochiamo veramente il rapporto con il nostro elettorato». Il capogruppo al Senato sa che il corteo di Piazza della Repubblica è la «prova generale di una nuova soggettività politica». Ovvero di un partito a sinistra di Prc. Che marcherà stretta la sinistra radicale. «Con Prodi si apre una nuova partita, già dalla prossima settimana», annuncia Giordano. Dpef, cancellazione dello scalone, buste paga. La sinistra radicale non può lasciare ai puri e duri anche queste bandiere.

Corriere della Sera 10.6.07
Le due manifestazioni
Rifondazione: Lo spettro della crisi «Lontani dai movimenti»
di Aldo Cazzullo

I dirigenti del Prc quasi soli a Piazza del Popolo, mentre il corteo vero ha occupato il centro di Roma. «E' un segno politico che accelera la crisi di Rifondazione», dice Giorgio Cremaschi, leader dell'opposizione interna.

Lo strappo tra movimenti e Rifondazione «Bertinotti ha rotto con il popolo di Genova»
«I movimenti d'ora in poi si rappresenteranno da soli. Adesso i no global ripartono»
«Non potevamo sfilare con chi considera Prodi peggio di Bush. Che altro potevamo fare?»
«Non mi nascondo dietro un dito, la piazza è vuota. Ma il problema della sinistra sono le amministrative, non la piazza»

ROMA — Il pomeriggio della morte di Carlo Giuliani, Bertinotti arringò in riva al mare di Genova una folla immensa e furente, assecondò a parole la loro rabbia, e seppe incanalarla il giorno dopo in un grande corteo pacifico. Ieri pomeriggio a Roma un corteo parecchio più piccolo si è concluso con incidenti e scontri, i primi da molti anni nella capitale, piazza Navona bloccata dai celerini come nei giorni del '77. Nulla di drammatico: vandalismi, cariche, fughe affannate di turisti con trolley da ore alla ricerca di un varco per l'albergo. Ma, in un giorno così caricato di significati simbolici, anche un tafferuglio segnala una partita difficile per Rifondazione e la sinistra antagonista. Proprio mentre Bertinotti centra l'obiettivo storico di rompere i Ds e aggregare l'area a sinistra del partito democratico, i suoi dirigenti si ritrovano quasi soli in piazza del Popolo, mentre il corteo vero occupa il centro di Roma. La confusione è tale che quattro deputati — Sperandio, Smeriglio, Russo e Peppe De Cristofaro —, incerti su quale piazza scegliere, tentano invano di avvicinarsi a Palazzo Chigi con uno striscione rosso «No war, no Bush», respinti da carabinieri allibiti.
In piazza Navona tira aria di vittoria, anche se sono in troppi a intestarsela. Marco Ferrando il trotzkista parla dal palco a una ventina di amici personali: «Bertinotti ha preso fischi in mezza Italia, lo applaudono solo i ciellini e quelli di Azione Giovani!». Casarini sovrappeso. Turigliatto si è perso: «Avete visto Cannavò?». Tra i parlamentari di Rifondazione ci sono anche Fosco Giannini e Gianluigi Pegolo. Franca Rame dell'Italia dei valori è in pantaloni, maglietta e scarpe bianche con bella giacca colorata: «Voglio dimettermi da senatrice, ma sto verificando chi subentra al mio posto. Metti sia un altro De Gregorio...». E c'è Giorgio Cremaschi, un tempo alter ego di Bertinotti, oggi leader dell'opposizione interna.
«Non c'è stata partita — dice Cremaschi —. Qui, un corteo enorme. Là, un gruppo dirigente che le ha sbagliate tutte. È un segno politico che accelera la crisi di Rifondazione: i movimenti d'ora in poi si rappresenteranno da soli. Dopo qualche anno di silenzio, i no global ripartono. E si comprende che non erano i movimenti a stare con Rifondazione, ma Rifondazione a stare con i movimenti. In questi mesi, Bertinotti e i suoi sono stati paralizzati dalla paura. Paura di rifare il '98, la rottura con Prodi, che all'evidenza è stata vissuta all'interno molto diversamente da come è stata presentata all'esterno. Dopo essersi scottati con l'acqua calda, hanno avuto paura anche dell'acqua fredda. E si sono immolati. In cambio, Prodi non ha fatto una sola delle cose che i movimenti chiedevano». Lei Cremaschi cosa farà? «Non so. Certo non un partitino. Ma la via d'uscita non è neppure dare battaglia dentro Rifondazione. Magari lo farò comunque. La vera questione è che oggi il partito ha rotto con il popolo di Genova».
Al sit-in di piazza del Popolo ci sono due celerini per ogni manifestante. È il primo sabato d'estate, giapponesi stremati supplicano i poliziotti di farli passare, dal palco i fratelli Severini del gruppo Gang chiedono notizie di Bertinotti: «Il compagno Fausto dov'è?».
C'è però il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena, giacca a righe ma senza cravatta, che per la prima volta in vita sua fa proprie le cifre della questura: «Al corteo erano 40 mila reali. Ora molti di loro verranno qui. Con noi ci sono Pax Christi, l'Arci, il capo della Fiom Rinaldini, Giuliana Sgrena... Avremmo fatto volentieri una bella manifestazione tutti insieme, ma non potevamo sfilare con chi considera Prodi peggiore di Bush. Io stesso ho provato a convincere amici trentennali che mi hanno risposto: "Vaffanculo, siete dei guerrafondai...". Quelli vogliono fondare un partito sulle ceneri del governo. Che altro potevamo fare? Va bene così». «No Giovanni, non va bene così — interviene Oliviero Diliberto, che con gli occhiali scuri e il sigaro pare il capo della squadra politica in borghese —. La nostra piazza è deludente. Ma la verità è che i movimenti sono in fase calante. In corteo ci sono le frange estreme che a sinistra sono sempre esistite, e ora usano la pace per attaccare Prodi. Se però chiedete a un palestinese, ai movimenti di liberazione, a un militante del Baath quali referenti abbiano in Italia, vi risponderanno che stanno in questa piazza». «Ci sono anche la Mecozzi della Fiom, Tosini e Scarpa della Cgil!» annuncia trionfante Russo Spena. I fratelli Severini hanno un ultimo appello per Bertinotti incerto se stringere o no la mano a Bush: «Fausto, digli che noi comunisti siamo belli e loro brutti come la fame!».
Mentre di là si scontrano con la polizia, alle 9 di sera in piazza del Popolo i rinforzi devono ancora arrivare. Dalla sua casa di Torino, Marco Revelli, intellettuale molto ascoltato da Bertinotti e ora molto critico, vede nella giornata di ieri «lo sbocco naturale di uno strappo apertosi a Vicenza. Allora i capi di Rifondazione sfilarono con i pacifisti, e Prodi rispose con un no senza se e senza ma. Il partito si è sacrificato all'alleanza di governo. I vincoli di coalizione, e quelli imposti dalle relazioni internazionali, rendono la sinistra critica incompatibile con la rappresentanza dei movimenti, e la limitano alla rappresentazione mediatica. È mancato il coraggio di un grande dibattito interno; si è invece alzato il tiro contro i dissidenti. Temo che la nascita della nuova forza di sinistra si annunci come un'operazione di ceti politici, senza legami con movimenti destinati a rifluire, più che nella clandestinità, nel privato. Più che agli anni Settanta, il rischio è il ritorno agli Ottanta».

Corriere della Sera 10.6.07
Dentro il corteo. Haidi Giuliani e gli incappucciati «Ho urlato: per favore, fermatevi Ma volevano solo distruggere»

ROMA — «E levati, stronza». Il ragazzino con il cappuccio non le lascia neppure il tempo di farlo. Prende la rincorsa e le salta davanti per lanciare una bottiglia che si infrange sugli scudi della polizia.
Non la riconoscono, non sanno chi è, e quelli che lo sanno le fanno un male cane urlandole in faccia che deve scansarsi, «sono 'sti bastardi che hanno ammazzato tuo figlio», come se lei fosse una traditrice, ora che si è piazzata sulla traiettoria dei sassi, dei bastoni, dei cocci di bottiglia per dire loro di fermarsi.
Quella donna piccola, minuta, vestita con una camicetta e sandali neri, che ha provato a mettersi in mezzo a questo delirio di un'ora che ha sporcato una giornata di tranquillo dissenso, si chiama Haidi Giuliani. Volava di tutto, i passanti si rifugiavano sotto ai tavolini dei bar della vie che portano a Campo de' Fiori, si attaccavano ai muri per levarsi dalla traiettoria dei lanci. Ci voleva del fegato per mettersi in mezzo, tentare qualcosa che non fosse mettersi le mani sulla testa e scappare.
Haidi è avanzata con le mani alzate, quasi si stesse consegnando a quel furore senza senso. «Fermatevi, per favore, fermatevi». Scansati, vattene. Non è servito a nulla. I suoi amici l'hanno presa di peso per portarla dietro al cordone di polizia, temevano che si facesse male. «Non capivano niente, neppure quello che gli dicevo. Non volevano sentire ragioni. Ma qualcuno che aveva presente la situazione in realtà c'era. Andava dai più esagitati e li eccitava ancora di più». Li chiama infiltrati, «ma ai miei tempi si diceva provocatori». Chissà cosa penseranno, quei ragazzi, nel sentire la madre di Carlo che loda la polizia. «Non ha caricato, ed era difficile non farlo. Devo dire che il prefetto Serra è stato di parola. Si sono evitati ulteriori danni». E adesso che tutti sono andati via e di questa giornata sembra che restino soltanto i cocci delle fioriere intorno a piazza Navona, l'amarezza di Haidi diventa un sussurro. «Lo so che scriverete soltanto di questo. Come al solito. Quelli volevano distruggere una splendida giornata. E ci sono riusciti».
Si doveva parlare d'altro, con la senatrice Haidi. Dei giovani che indossano la maglietta con la foto del cartello di piazza Alimonda cancellato dalla scritta «Carlo Giuliani, ragazzo». Della sua consapevolezza che quegli abbracci da persone mai viste sono un segno di deferenza, lei è la mamma di Carlo, e dell'effetto che le fa. «Non sono io, è mio figlio che dice ancora qualcosa. Io mi limito a girare l'Italia per tenerne vivo il ricordo». Intorno a lei, nell'interminabile attesa della partenza del corteo, era come se ci fosse una bolla. Dal carro dei Giovani comunisti lanciavano gavettoni a quelli sotto, ma facendo ben attenzione a non centrarla. Un'icona, contro la sua volontà. Perché Haidi nel quadretto della madre addolorata che le viene periodicamente costruito addosso non vuole starci, sente che si tratta comunque di un'intromissione indebita. «Il dolore è mio, ed è una cosa privata. Nessuno mi ha mai visto piangere in pubblico». Si doveva parlare del Movimento, che ormai cammina sempre più in ordine sparso, ognuno per sé, al punto che il termine viene usato ormai soltanto dai media. «In qualche modo a Genova, nel 2001, è finito qualcosa. Un percorso comune, la costruzione di qualcosa che tenesse insieme realtà tanto diverse. Anche per questo sono qui e dopo andrò all'altra manifestazione. Trovo sbagliato che ci si disperda».
In questo lento pomeriggio, Haidi Giuliani raccontava del suo stupore, della voglia di rimozione che ogni tanto entra in circolo e rende questo Paese così particolare. «Perché in Italia non si parla dei processi sui fatti del G8? Non capisco, davvero. I giornali inglesi e tedeschi ne parlano. Noi, muti».
Era stato un colloquio a tappe forzate, interrotto a ripreso più volte. C'era da fare spazio alle persone che vogliono salutarla, le propongono di partecipare a manifestazioni, raduni, iniziative, da Viterbo a Prato, da Venezia a Forlì. Haidi scherzava sulla sua nuova vita. «Sono una senatrice precaria». E confessava che non le piace, l'Italia che vede sui banchi del Senato. «Io ho sempre avuto grande rispetto per le istituzioni. Ma le istituzioni lo mettono a dura prova. Noto uno scollamento totale tra politica e società». Ogni venti minuti, Haidi rispondeva alle telefonate della figlia, che voleva sapere come stava andando, con un filo di apprensione. «Le parti si sono invertite, è lei che si preoccupa per me».
Di questo, e di altro ancora, si doveva parlare, durante una camminata resa pesante solo dal caldo. Poi il corteo è arrivato in corso Vittorio. I ragazzi che stavano dietro lo striscione che precedeva il suo hanno tirato cappucci e passamontagna fuori dallo zaino. Haidi ha provato a fermarli. Si è trovata dentro scene che le hanno inevitabilmente ricordato altro, per questo alla fine della giornata era ancora scossa. «Mi ha colpito questa rabbia cieca. Volevano solo distruggere. Un gruppo di ragazzi male informati, che non sapevano nulla. Hanno rovinato tutto. E adesso le uniche immagini che si vedranno sono quelle degli scontri, il resto non conta». Detto con molta rassegnazione, perché Haidi lo sa bene, è così che va. E un altro mondo non è ancora possibile.

Corriere della Sera 10.6.07
Resta vuota la piazza della «sinistra di governo»
Poche centinaia sotto le bandiere di Prc, Pdci e Verdi Giordano: «Ora lavoriamo per la ricomposizione»

ROMA — «Fa caldo, è presto. Ma arriveranno... La piazza si riempirà». Non arrivano, invece. L'immensa ellissi del Valadier non si riempie e la speranza che Oliviero Diliberto aveva scandito alle cinque nei microfoni dei cronisti, alle sei e mezzo suona come un cupo allarme per la sinistra di governo. Il colpo d'occhio è impietoso, i poliziotti sono quasi più dei manifestanti. Poche centinaia di persone hanno scelto il palco di piazza del Popolo. Il sit-in contro Bush (ma non contro Prodi) promosso da Prc, Pdci, Verdi e schivato dalla Sinistra democratica di Fabio Mussi, sancisce il divorzio dai movimenti. Solo alle otto, quando i leader sono ormai lontani, spezzoni di centri sociali e Giovani comunisti lasciano il corteo dei pacifisti estremisti e approdano sotto l'obelisco: per godersi il concerto dei Modena City Ramblers.
Il flop era annunciato, il che non attutisce il colpo. Sui manifesti c'era scritto «ore 15», ma annusata l'aria l'inizio è slittato alle 17. «Non mi nascondo dietro un dito, la piazza è vuota» ammette Diliberto e dice che il problema della sinistra non è la piazza, ma «i risultati delle amministrative». Franco Giordano invece prova a resistere, dichiara che non di manifestazione si tratta ma di «kermesse», poi addossa alla sinistra-sinistra «l'errore politico» delle due piazze. «Non voglio far polemica, non è nello spirito del movimento costruire contrapposizioni. Ma noi — rivendica il segretario del Prc — volevamo una manifestazione unitaria». E adesso? «Niente drammi, lavoreremo per la ricomposizione della sinistra». Palloncini gialli di Legambiente, poche bandiere rosse, simboli Fiom, Cgil, Arci e sparuti cartelli. «Bush sei come tuo padre, mafioso». «Bush terrorista e dittatore». I Giovani comunisti hanno mandato un lenzuolone: «Nessuno scudo tra noi e le stelle». E lo striscione
choc srotolato dal Movimento Zero? «Noi con i talebani» c'era scritto, ma la polizia l'ha fatto sparire.
Il servizio d'ordine, imponente e inutile, è tutto per Francesco Cossiga. Lo accoglie Diliberto, lo abbraccia in nome della comune «sarditudine». E dire che i comunisti scrivevano Kossiga, con il «k»... Pensa ancora, il segretario del Pdci, che Bush abbia mani grondanti di sangue? «Assolutamente sì. Non è che se le è lavate». I ministri hanno ascoltato le suppliche del premier e sono rimasti a casa. Il sottosegretario Alfonso Gianni pure, ma al cellulare confessa il dispiacere: «Il partito mi ha chiesto di non venire». C'è però Giuliana Sgrena, la giornalista che fu rapita in Iraq, c'è un ex senatore della California di nome Tom Haylen, ci sono il verde Angelo Bonelli e Gennaro Migliore. «Dobbiamo riflettere», guarda avanti il capogruppo del Prc alla Camera. Le voci che arrivano dall'altra piazza, quella degli 80 mila, portano ventate di rabbia contro i leader. Chi dà loro dei «guerrafondai», chi rimprovera scarso coraggio pacifista per un posto al governo.
«Io non sto al governo», si cava fuori Diliberto. Poco più in là Russo Spena spende molte parole per accreditare la «funzione cerniera» del Prc e lanciare «un ponte» tra le due piazze. «Al corteo c'è Heidi Giuliani» ricorda il presidente dei senatori del Prc. Come a dire «è roba nostra», noi siamo qui perché Prodi non cada, ma col cuore...

Repubblica 10.6.07
Cacciari: Giordano, Diliberto e compagni sono conservatori che con l'innovazione non hanno nulla a che spartire
"Rifondazione zavorra per l'Ulivo questo flop di Roma è un segnale"
di Umberto Rosso

Sinistra radicale. Ma quale sinistra radicale. Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Frena le liberalizzazioni
Le vie d’uscita. Ci vuole un Partito democratico federale. Al Nord come al Sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica?

ROMA - «Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l´innovazione non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più nessuno».
Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche grazie a loro.
«Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra».
Non sarà invece che l´anti-americanismo non paga più?
«L´anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non è certo perché la gente ama il presidente degli Usa».
Perché, allora?
«Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi, decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell´Ungheria, di Praga, dell´Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la manifestazione di una minoranza dei conservatori».
Minoranza, perfino?
«Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché stanno dall´altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l´hanno portato: un bisogno della politica, del desiderio, dell´utopia, chiamatela come vi pare».
La sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti?
«Ma radicale de che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l´hanno mai avuto. Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano né a destra né a sinistra».
Però i voti li hanno pescati, il cantiere di sinistra conta 150 parlamentari.
«Gli rimane qualcosa aggirandosi fra i cascami dell´ideologia. Ma soprattutto resistono ancora grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo».
Non sarà che a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga pegno?
«Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c´entra nulla. Anche perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri padri costituenti? Puntare nell´Italia del ‘46, devastata dalla guerra, alla piena occupazione, era un programma di lotta e di governo».
Teme, dopo il flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
«Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no c´è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti all´attacco. E´ l´unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l´arbitro fischi la fine della partita».
Come si mette la palla in rete?
«Una Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica se devo stare con Rifondazione?».

Repubblica 10.6.07
Rischioso elogio del nostro premier (solo un estratto)
di Eugenio Scalfari

(...)
Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede. (...)

Repubblica 10.6.07
Formigoni: il Pd dovrà allearsi con Fi
di Andrea Montanari

SAN PIETROBURGO - «Per non nascere già morto, il Partito democratico dovrà allearsi anche con Forza Italia», dice dalla Russia - dove guida una missione della Regione - Roberto Formigoni. Secondo il presidente della Lombardia, il Pd dovrà abbandonare la sinistra antagonista: «Che senso ha fare un nuovo partito se non si vuole fare anche una nuova politica, forse anche con nuove alleanze e un nuovo sistema elettorale». Alla domanda sulla possibilità che Forza Italia possa essere un eventuale partner politico, Formigoni risponde così: «Spetterà ai responsabili del Pd scegliere, ma mi sembra difficile pensare di dialogare con il centrodestra lasciando da parte quello che si è affermato in questi anni come il protagonista assoluto». Il governatore lombardo affronta poi la questione della Cdl: «L´unità resta fondamentale. Berlusconi in questo momento è il leader assoluto. Dopodichè ho sempre detto di essere favorevole a un partito unitario». Nessun commento sui destini politici di Michela Brambilla, ma un´apertura a una sua possibile corsa personale: «In Italia oggi per un esponente del centrodestra non c´è nulla di più importante che fare il capo della più importante regione italiana. L´unica cosa più importante sarebbe fare il leader, ma ora c´è Berlusconi». E dopo chi vincerà il derby milanese tra lei e Letizia Moratti? «Credo che possiamo vincerlo entrambi. Io non ho ancora deciso se mi ricandiderò nel 2010. Dipende da ciò che avrò voglia di fare. È probabile che alle prossime politiche torni a correre per il Senato».

l’Unità 10.6.07
Gli manca la parola
di Maria Novella Oppo


SE LA CRONACA del Tg1 è esatta (e perché mai dovremmo dubitarne?), George Bush atterrando a Roma, conscio della tensione provocata nel Paese e del particolare momento storico, avrebbe dichiarato: «Sono felice di essere qui». Una dichiarazione impegnativa, che non ha però esaurito la capacità espressiva del presidente Usa, il quale, in quello che viene definito da molti il momento più impegnativo (per lui) del passaggio in Italia, e cioè la visita in Vaticano, stringendo la mano del Papa avrebbe detto all'incirca: «È una gioia essere qui con lei». Notoriamente l’uomo considerato più potente del mondo non è cattolico, ma non perde occasione per dichiarare la sua fede in Dio. Giuliano Ferrara gli crede, e chi siamo noi per dubitare di Giuliano Ferrara? Del resto, quello che possiamo vedere coi nostri occhi anche noi miscredenti è che Bush ha avuto molto da Dio: soldi, petrolio, potere. Gli manca solo il dono della parola. Mentre al suo amico Berlusconi le parole non mancano mai. Ieri infatti ha detto che si vergogna. Era ora.

l’Unità 10.6.07
New York Times: Albania, l’unico Paese dove Bush è benvenuto


Scrive il New York Times, in una corrispondenza da Tirana: «Questa piccola nazione è uno dei pochi luoghi rimasti al mondo in cui il presidente può riscaldarsi lo spirito di fronte a sentimenti a favore dell’America, senza l’ombra di un manifestante. Gli americani qui sono salutati con una adorazione che consola e che sembra venire da un’altra epoca». «L’Albania - continua il NYT - è certamente la nazione più filo americana d’Europa e, forse, nel mondo, ha detto il sindaco di Tirana e leader dell’opposizione (socialista), Edi Rama. (...) Neanche in Michigan il presidente degli Usa sarebbe accolto probabilmente in modo così caloroso». Il Paese è talmente desideroso di mostrare la propria incondizionata benevolenza verso l’illustre ospite che il parlamento albanese il mese scorso ha approvato all’unanimità una legge che autorizza i militari Usa a compiere qualsiasi tipo di intervento sul suolo albanese, compreso l’uso della forza, al fine di garantire la sicurezza del Presidente. Un giornale locale, non si capisce se animato da spirito ironico o da sincera ammirazione è arrivato a titolare: ’Per favore, occupatecì. È però vero, aggiunge l’articolo, che anche nel resto della «Vecchia Europa» si riscontrano segnali che lo spirito critico verso la politica estera americana si è attenuato.

l’Unità 10.6.07
Baudelaire, quei fiori recisi dalla censura
di Antonio Prete


150 ANNI FAusciva la celebre raccolta Les Fleurs du mal che fu sottoposta a furiosi attacchi, processata e condannata: sei poesie furono cancellate dal libro. E bisognerà aspettare il 1949 perché quella sentenza venga annullata

Alla base della condanna una morale fondata sulla censura della corporeità e della lingua che interroga il desiderio

Le poesie tagliate poi uscite a parte mostrano come il dialogo tra poeta e lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia

Un libro di versi, un processo, una condanna per oltraggio alla pubblica morale e al buon costume. Uno sguardo sulla poesia obliquo, infastidito, perbenista: di questo testimoniano, ancora oggi, centocinquanta anni dopo il processo, le sei poesie condannate, incastonate nella splendida corona degli altri Fiori col titolo Pièces condamnées. Un titolo che dice di uno sguardo dell’epoca, ansioso di preservare - col ricorso alla tutela giuridica, e alla sanzione di un tribunale - l’orizzonte di una morale ipocritica, e comune. Una morale fondata sulla censura della corporeità, sulla censura della lingua che interroga il desiderio nella sua incolmabilità e anche nella sua oscurità, nei suoi silenzi, nelle sue sfide.
La prima edizione delle Fleurs du mal è messa in vendita dagli editori Poulet-Malassis et De Broise il 21 giugno del 1857. E, già dopo qualche giorno, alcuni attacchi ben orchestrati su Le Figaro creano intorno alle Fleurs du mal lo stesso clima che s’era creato nei mesi precedenti intorno a Madame Bovary di Flaubert. Né mancano, sulla stampa moralista, i confronti tra le due opere. Negli articoli su Le Figaro e nell’atto ufficiale di denuncia indirizzato alla Direction générale de la sûreté publique quattro poesie sono accusate di oltraggio alla morale religiosa, e ben nove di «attente» alla morale pubblica. Il sequestro degli esemplari del volume già messi in vendita è il primo atto giudiziario cui seguirà rapidamente il processo. Che è celebrato il 20 agosto 1857 presso il Tribunal de la Seine. La requisitoria è affidata al sostituto Ernest Pinard, il giudice che mesi prima aveva tenuto la requisitoria contro Madame Bovary. La difesa è affidata dal poeta all’avvocato Gustave Chaix d’Est-Ange. È per costui che Baudelaire ha preparato un dossier: di questo ci restano le Notes et documents pour mon avocat e Petits moyens de défense tels que je les conçois, uno scritto - di consigli e suggerimenti - che Sainte-Beuve aveva indirizzato al poeta in vista del processo.
Fragile è la difesa dell’avvocato, ma certo non veemente la requisitoria di Monsieur Pinard. Il quale così conclude, rivolto ai giudici: «Siate indulgenti con Baudelaire, che è persona di natura inquieta e priva di equilibrio. Siatelo anche con gli stampatori, che si mettono al coperto dietro l’autore. Ma, condannando almeno alcune poesie del libro, date un avvertimento resosi necessario». E tuttavia l’intera requisitoria espone, nei limiti dichiarati di un giudizio d’ordine soltanto giuridico, la sequenza dei versi «offensivi», aggiungendo alle sei poesie che saranno di fatto espunte altri passaggi, in particolare da Le Reniement de saint Pierre, Abel et Caïn, Les Litanies de Satan, Le Vin de l’assassin e anche Le Beau Navire. La questione posta dal magistrato è se la rappresentazione di quel male che è nel titolo possa indurre alla distanza, alla repulsione, o possa provocare una qualche attrazione. La sua eloquenza ha intorno a questo punto un passaggio molto chiaro: «Crediamo forse che certi fiori dal profumo vertiginoso siano buoni da respirare? Il veleno che emanano non allontana da essi: sale alla testa, ubriaca i nervi, dà turbamento e vertigine, e può anche uccidere». Profumo e veleno: il giudice accoglie due figure ricorrenti e significative dell’immaginazione baudelairiana per dislocarle dall’ordine del linguaggio poetico all’ordine di una moralità che sa i netti confini tra il bene e il male. Una sottrazione di tensione metaforica, un misconoscimento della natura del linguaggio poetico, ma anche, allo stesso tempo, la percezione che nel «libro atroce» trascorre un’energia in grado di scompigliare le convenzioni di una morale borghese.
Sovrapporre il codice alla poesia è un atto non solo improprio ma violento. Passerà quasi un secolo, prima che, il 31 maggio 1949, una Corte di cassazione decida di annullare quella indebita sovrapposizione e quella sentenza.
Un tribunale, dunque, pretende di purificare un libro di versi, cancellando alcune bellissime poesie, nonostante Baudelaire, negli appunti per la difesa stesi per il suo avvocato abbia più volte ripetuto che un libro di versi deve essere giudicato nell’insieme: «Un libro di poesia deve essere valutato nel suo insieme e attraverso la sua conclusione». Circa la questione della morale, ecco un altro appunto per l’avvocato: «Ci sono diverse morali. C’è la morale positiva e pratica alla quale tutti devono obbedire. Ma c’è la morale delle arti. Che è tutt’altra, e, da che mondo è mondo, le Arti lo hanno dimostrato bene». E, ancora, concludendo sulla morale beghina e conformista: «Ormai si faranno solo libri consolanti, libri che servano a dimostrare che l’uomo è nato buono, e che tutti gli uomini sono felici. - Ipocrisia abominevole!».
Il processo, oltre a comminare al poeta e agli editori una consistente ammenda, condanna sei poesie alla sparizione dal libro. Il quale nella fine d’agosto del 1857, conclusosi il processo, viene rimesso in circolazione con un vuoto.
Un vuoto di versi che, volendo segnalare l’avvenuta purificazione del testo, di fatto finisce col segnalare l’altra, profonda mancanza che trascorre in tutti i versi del poeta: una ferita che è solitudine aspra del vivente, lontananza dell’altrove, condanna al regno dell’opacità e della ripetizione. Era forse per questa percezione dell’eloquenza poetica racchiusa in quel vuoto di versi, in quella sottrazione di musica violentemente introdotta nel libro bellissimo e atroce, e non certo per fierezza di collezionista, che Edmond Jabès, nella sua casa parigina, mi mostrava, alcune volte, tra i pochi libri salvati nell’esilio, proprio quella prima edizione delle Fleurs du mal «condannata», mancante delle sei poesie. Il libro con una ferita. Il libro che diceva di una mancanza, della mancanza.
Le sei poesie condannate, che mai il loro autore avrebbe posto in relazione di contiguità, vengono restituite, dal giudizio severo e moralistico di un tribunale, a un’unità fittizia, sancita solo dalla censura. Ma proprio questa unità fittizia l’autore, dopo la condanna, polemicamente accettò, quando nel febbraio del 1866 decise di stampare le sei poesie proprio come «pièces condamnées». L’edizione, che, con il titolo Les Épaves de Charles Baudelaire, comprendeva anche altre nuove poesie, uscì a Bruxelles, con la dicitura Amsterdam (nel frontespizio un’acquaforte di Félicien Rops). Conservando nelle edizioni successive quella unità soltanto di derivazione censoria, le sei poesie hanno ogni volta posto la questione del rapporto tra la lingua della poesia e la lingua della pubblica e convenzionale morale, e hanno mostrato come il dialogo tra il poeta e il lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia e avvenga in quella regione dove il pensiero e l’immaginazione sono la stessa cosa, il sapere e l’esistenza respirano, insieme, nella libertà della lingua, delle sue figure, della sua musica.

Ecco l’«oltraggio» dei versi

E le braccia e le gambe e le cosce e le reni
- ch’eran lisce come olio, morbide come cigno -
prendevano i miei occhi, tutti intenti, e sereni.
E intanto il ventre e i seni, frutti della mia vigna,

amorevoli più degli Angeli del male,
mi turbavano l’anima, ch’era tutta assopita,
la sbalzavano via dal cristallo regale
dove lei solitaria se ne stava, e quieta.

...

E il tuo corpo s’inarca
piega, inclina
come nave sull’onda
che rolla ai fianchi
e i suoi pennoni china
sull’acqua e li affonda

Corriere della Sera 10.6.07
Il classicismo di Leopardi
Un saggio di Mario Martelli
di Luciano Canfora


Esce in questi giorni, col giovanilistico titolo Zapping, lo «Zibaldone» di Mario Martelli (Gli Ori, pp.704, e 40) e ha il pregio del disordine. Del resto raccolte cui un dotto affida il quotidiano bilancio delle sue letture e delle riflessioni che esse hanno suscitato in lui presentano non di rado l'aspetto della «selva». Ma la selva costituisce un disordine sui generis: il filo conduttore c'è ed è nella curiosità e negli andirivieni intellettuali dell'«io» che unifica, come soggetto senziente, quella selva. Talvolta il disordine è ostentato per nascondere qualcosa, come è il caso della prefazione, in forma di lettera, della cosiddetta Biblioteca di Fozio.
Mario Martelli ha — e non da ieri — una sua stella polare, che è la visione del classicismo come costante della letteratura italiana piuttosto che momento storico circoscritto. Questo presupposto, che in realtà è frutto di vasta ricerca empirica (si vedano le pagine sull'uso poetico di già da Dante a Lalla Romano), si invera in un reticolo di riferimenti ai classici, che Martelli valorizza e chiama alla luce nel mentre che percorre senza sosta i sentieri della letteratura perlustrando, indagando, rileggendo, e spesso facendo progredire l'interpretazione proprio attraverso il riconoscimento della fonte classica che sta dietro un verso o una frase. Per esempio del suo prediletto Machiavelli, al quale già aveva dedicato, per la Salerno Editrice, un attento scrutinio degli storici greci antichi che, pur attraverso il filtro di traduzioni latine, sustanziano tanta parte dell'«uso» machiavelliano della storia.
Ma veniamo — in questo «Zibaldone» — ad un caso emblematico del nesso tra scoperta delle fonti e progresso nell'interpretazione. Esso riguarda un verso notissimo e purtuttavia passibile di ulteriore schiarimento, della Ginestra. È il verso 201, il più distaccato del filosofico poema: «Non so se il riso o la pietà prevale». In modo persuasivo Martelli mostra — ciò che era sfuggito ai precedenti interpreti (ma Domenico De Robertis vi s'era approssimato) — che dietro quell'alternativa (riso o pietà) c'è un modello classico: ci sono i due filosofi Democrito ed Eraclito, dei quali l'uno ride e l'altro piange di fronte all'insensatezza dei comportamenti e delle illusioni degli uomini. Alla base c'è una lunghissima tradizione, al principio della quale c'è Seneca, che Martelli opportunamente ricorda e traduce. E si potrebbe anche addurre a riprova certa della fondatezza dell'osservazione di Martelli la lettera di Leopardi a Giordani del 18 giugno 1821: «Ma dimmi, non potresti tu da Eraclito convertirti in Democrito?». «Eraclito — scrive Seneca nel de ira (10, 3) — ogni volta che usciva di casa e intorno a sé vedeva tanto grande numero di malamente viventi, anzi di malamente morenti, piangeva e aveva pietà di quanti gli si facevano incontro contenti e beati. Invece di Democrito dicono che ogni volta che usciva in pubblico gli veniva da ridere: a tal punto nulla di ciò che gli altri seriosamente facevano gli sembrava degno d'esser preso sul serio». La stessa tradizione si ritrova in Giovenale (decima satira): «Ogni volta che mettevano il piede fuori di casa l'uno piangeva, l'altro rideva a labbra aperte».
E c'è, a ben vedere, già Orazio delle Epistole. Nella prima del libro secondo egli inquadra in una situazione concreta il riso di Democrito di fronte alla scempiaggine umana: «Se Democrito fosse tra noi, riderebbe nel vedere le facce del volgo pervase da ammirato stupore alla vista della giraffa o dell'elefante bianco». In Luciano di Samosata il topos è ben chiaro, per esempio nelle Vite all'incanto (13). Ed è interessante osservare che esso si presenta per la prima volta come operante anche nella pittura in un'attestazione tarda e molto interessante di Sidonio Apollinare (V secolo dopo Cristo), nell'Epistola al vescovo Fausto. Lì Sidonio cita la pratica di affrescare i ginnasi e i pritanei con una serie di ritratti di filosofi e scienziati ciascuno presentato con la sua connotazione iconografica tipica: «Speusippo a capo chino, Arato con la testa piegata all'indietro, Zenone con la fronte corrugata, Epicuro con la pelle distesa, Diogene con la barba lunga, Socrate con la chioma candida, Aristotele con un braccio proteso, Senocrate con le gambe accavallate, Eraclito che piange con gli occhi chiusi, Democrito invece che ride a labbra aperte etc.» (Epistole IX, 9, 14). Il passo di Sidonio venne ricopiato pari pari da Pietro Crinito nel De honesta disciplina (1508), opera influentissima nel Rinascimento. Essa ha certamente influito sulle varie raffigurazioni pittoriche moderne dei filosofi.
Certo — all'interno del ciclo dei filosofi — la coppia Eraclito-Democrito godette di una rinomanza privilegiata, in epoca rinascimentale e moderna. Ritorna in più luoghi delle opere italiane di Giordano Bruno e ritorna nell'anonimo Dialogo tra Eraclito e Democrito sulla Rivoluzione politica di Venezia (1797). E trova significativa realizzazione nella grande pittura rinascimentale per esempio nell'affresco del Bramante che raffigura appunto Eraclito, le cui lacrime (un paio) spiccano sulle scarne e ascetiche guance, e Democrito che se la ride «labris apertis», mentre di mezzo c'è la sfera terrestre raffigurata in planimetria: a significare ancora una volta che è del mondo, dei comportamenti degli uomini, che l'uno ride e l'altro piange.

Corriere della Sera 10.6.07
Ritorno a casa. Un capolavoro di Caravaggio
Napoli apre un palazzo del Seicento per il «Martirio di sant'Orsola»
di Biagio Coscia


Dopo un tour internazionale, l'ultimo straordinario dipinto dell'artista trova una sede definitiva nel luogo dove fu realizzato

Era l'opera più misteriosa di Caravaggio, l'ultima della sua vita. Realizzata un mese prima di morire. Ma anche quella dalla storia più sofferta e controversa. Ora è il dipinto che più di ogni altro ha un percorso tracciato da documenti e testimonianze. Dopo essere stato esposto al Museo di Capodimonte e aver compiuto un tour internazionale, da venerdì scorso il «Martirio di sant'Orsola», recentemente restaurato, è esposto in maniera definitiva a Napoli, dove fu realizzato nella primavera del 1610. Bene illuminato, è visibile in una delle sale di Palazzo Zevallos Stigliano in via Toledo, sede degli sportelli e degli uffici di Banca Intesa.
Al dipinto si arriva seguendo un piccolo percorso museale corredato da foto di dettagli, supporti multimediali e didascalie esplicative che aiutano a capire anche com'era Napoli quando ospitò il geniale pittore. Un'epoca di un paio di decenni antecedente alla costruzione del Palazzo, voluto da Giovanni Zevallos (un «self made man» del XVII secolo) e poi appartenuto ai Colonna di Stigliano. Le altre opere d'arte che illustrano la Napoli del '600 sono firmate da Gaspar Van Wittel, l'olandese che cambiò il suo nome in Vanvitelli, padre del più celebre Luigi, pittore e architetto. Nella stessa sezione appaiono diciassette vedute di panorami campani, firmate da un altro olandese, Anton Smink Pitloo, e recuperate sul mercato inglese dal Banco di Napoli.
Completa il percorso uno schermo al plasma dove scorre il documentario realizzato da Mario Martone proprio su Caravaggio. E un racconto delle fasi del restauro da cui è emersa, al centro della tela, una mano che sembra voglia fermare il momento della freccia mortale mentre questa entra nel corpo della donna.
Il quadro fu realizzato per il principe genovese Marcantonio Doria che, come molti collezionisti, era un po' irrequieto e scriveva spesso a Caravaggio per accelerare i tempi della consegna al punto che il dipinto fu messo ad asciugare al sole di Napoli. Nel '72 la Banca Commerciale comprò il capolavoro dalla baronessa di Eboli, cliente dell'Istituto di credito.
Si completa così l'itinerario caravaggesco a Napoli. La città, infatti, vanta altri due capolavori dell'artista, oltre al «Martirio»: «La flagellazione» esposta al museo di Capodimonte e le «Sette opere della Misericordia» al Pio Monte della Misericordia in via dei Tribunali.

Corriere della Sera 10.6.07
Eutanasia. Intervista esclusiva a Jack Kevorkian, appena scarcerato, che si prepara ad una nuova crociata
di Alessandra Farkas


Dottor Morte: «Non sono pentito»
«Morire è un diritto, le leggi migliori sono quelle europee»

NEW YORK — «Continuerò a predicare la legalizzazione del suicidio assistito finché campo. La mia crociata fallirà, ma mi resta un motivo per vivere». Pallido ed emaciato a causa dei gravi problemi di salute che l'affliggono da anni — tra cui diabete, epatite C, pressione alta, vertigini e arteriosclerosi — il «Dottor Morte» Jack Kevorkian sembra impermeabile alla pioggia di critiche, alcune violentissime, che hanno accompagnato la sua scarcerazione dalla prigione di Lakeland, in Michigan.
Il controverso patologo americano, attivista per il diritto all'eutanasia, era stato condannato nel 1999 per omicidio di secondo grado, dopo aver aiutato almeno 130 malati terminali a morire.
Avrebbe dovuto scontare una pena da 10 a 25 anni di carcere - per aver somministrato una iniezione letale, ripresa dalla tv, ad un 52enne affetto dal morbo di Lou Gehrig, detta anche Sclerosi laterale amiotrofica — ma le autorità hanno acconsentito al rilascio anticipato, per «buona condotta».
Oggi Kevorkian non fa un passo senza il suo avvocato ed è corteggiato dai produttori di Hollywood, che vorrebbero girare un film sulla sua vicenda.
Il «New York Times» la definisce «uno showman arrogante e drogato di pubblicità», i gruppi per la difesa dei diritti civili degli handicappati l'accusano di voler sterminare i disabili; persino le associazioni pro-eutanasia sostengono che ha danneggiato la loro causa.
«Sono vittima dei media, che si alleano sempre con i tiranni, mai con la gente della strada, qui in America al 92 per cento pro-eutanasia. I padri fondatori della Patria, Thomas Jefferson, James Madison e Benjamin Franklin, lo sapevano già».
Alcuni hanno ironizzato sul fatto che, nonostante le abbiano dato un anno di vita, d'eutanasia lei non vuol proprio saperne.
«L'ho detto tante volte: io non ho paura di morire. E non l'ho mai avuta».
Continuerà ad aiutare altri a morire?
«Soltanto ed esclusivamente con mezzi legali. Le autorità mi hanno concesso due anni di libertà vigilata. Ma ad una condizione: non violare più la legge aiutando i malati terminali a morire. Ho intenzione di rispettare i patti anche dopo i due anni».
Perché ha deciso di farlo?
«Che vantaggio ne trarrei, se non rischiare di tornare dietro le sbarre? Non ne vale la pena. Adesso tocca alla gente lottare per i propri diritti. Sanciti dalla costituzione».
Di quale costituzione parla?
«Quella americana. In prigione ho avuto modo di studiarla a fondo, scoprendo così la mia nuova missione, più universale della prima: la lotta per i nostri diritti naturali, consacrati dai padri fondatori ma calpestati da decenni di dispotismo bipartisan e abrogati da leggi inique. Anche l'eutanasia è contemplata dal 9˚emendamento della nostra costituzione».
Non tutti la pensano come lei.
«Già. Per questo girerò l'America, predicando e istruendo i giovani. Esortandoli a lottare per i diritti che già hanno e che gli spettano».
Ha intenzione di portare la sua crociata altrove?
«Vorrei tanto andare in Germania, dove vive mia sorella, ma ho bisogno di un visto speciale persino per uscire dal mio stato. In fatto d'eutanasia l'Europa è molto più avanti dell'America».
Che cosa pensa del movimento pro-eutanasia italiano?
«Penso che sia fortissimo, ma la chiesa cattolica è sempre stata contro tutte le libertà e non gli permetterà mai di sfondare. L'Italia dovrebbe adottare il modello olandese, dove il medico accompagna il paziente fino all'ultimo, non quello dell'Oregon, che è disastroso».
In che senso?
«La legge dell'Oregon, che la California adesso vorrebbe stupidamente imitare, abbandona a se stesso chi vuole morire. Chi non può deglutire o muovere la mano è fregato perché tocca al paziente somministrarsi la dose. L'America è il Paese più religioso e perfido del pianeta».
Di chi è la colpa?
«Dell'etica religiosa che qui detta legge all'etica medica e politica. La questione non può e non deve essere regolata dallo stato, ma dalla classe medica».
Intende dall'American Medical Association?
«Macché. Quella è un'organizzazione gestita da politici e religiosi, tutti contrari all'eutanasia. Bisognerebbe fondare un gruppo d'esperti, dalle idee aperte e innovatrici. Purtroppo non sarò io a farlo. La legge me lo vieta».

Ha «aiutato» 130 malati: libero tra le polemiche
Scarcerato pochi giorni fa dalla prigione di Lakeland in Michigan, Jack Kevorkian, 79 anni, americano di origini armene, è il noto «Dottor Morte». Ovvero un medico che si è dedicato con pervicacia ossessiva alla «causa» dell'eutanasia, aiutando a morire almeno 130 persone. Personaggio estremamente discusso e messo sotto inchiesta più volte (nel 1991 lo Stato del Michigan gli revocò l'autorizzazione ad esercitare la professione medica), finì sotto processo nel 1999 per aver somministrato l'ennesima iniezione letale ad un malato di Sclerosi laterale amiotrofica (le immagini furono trasmesse in televisione). Doveva scontare almeno 10 anni di carcere. Ora Kevorkian, sofferente di una epatite C contratta nella guerra del Vietnam, è in cattive condizioni di salute.

L'anniversario dell'assassinio dei fratelli Rosselli
Un video e un convegno per ricordare il 70esimo dell’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, avvenuto a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937.
Un documentario Rai «Il caso Rosselli: un delitto di regime», di Stella Savino e Vania del Borgo sarà in onda il 4 luglio, prodotto con il contributo della della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, presieduta da Valdo Spini deputato di Firenze di Sd.
Finalmente si è rotto quel silenzio che per molti anni c'è stato intorno alla morte dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Un silenzio non casuale, sostiene Silvia Rosselli, figlia di Carlo: «Se ne ricomincia a parlare ora dei fratelli Rosselli, dopo un black-out nel quale una certa sinistra, insieme ad una certa destra, ha monopolizzato la stampa». Ora ha un sogno, vedere quel documentario «proiettato nelle scuole per far conoscere ai più giovani la verità sul sacrificio di due giovani».
Le figure e il ruolo dei fratelli antifascisti uccisi mentre si trovavano al confino in Francia, è stato ricordato da Spini: «sono un esempio in un Paese oggi disorientato dal punto di vista morale e etico. Il loro messaggio unisce e rilancia un concetto di libertà».
Carlo Rosselli, allievo di Salvemini, era stato un combattente antifascista in Spagna, sul fronte di Aragona, cercò poi di costituire un vero e proprio battaglione (intitolato a Matteotti). Nel novembre parlò da Radio Barcellona, esortando gli italiani alla lotta antifascista con il motto "Oggi in Spagna, domani in Italia".
Ancora Valdo Spini: «La Cagoule - l'organizzazione fascista francese al soldo di Mussolini responsabile del delitto - ha fatto poi la sua capriola: è passata dalla parte di De Gaulle. Il documentario ricostruisce anche come uno dei cagoulard, Jean Bouvyier, sia amico di famiglia, e venga visitato in carcere dal ventenne François Mitterrand, allora simpatizzante di destra, prima della maturazione della sua svolta antinazista e della partecipazione alla Resistenza. Successivamente, Mitterrand ministro, darà un salvacondotto per meriti resistenziali allo stesso Bouvyier, che fuggirà in America Latina. In Italia ci sarà un primo processo nel paese ormai liberato, (ma Galeazzo Ciano, diventato traditore, è stato nel frattempo fucilato dalla RSI). Imputati il capo del SIM, generale Roatta, che nel corso del processo, nel marzo 1945, viene fatto fuggire, il collaboratore di Ciano, Filippo Anfuso, e gli ufficiali del SIM, Santo Emanuele e Filippo Navale. Le condanne ci sono, durissime, fucilazione per Anfuso, ergastolo per gli altri, ma prima la Cassazione le annulla, poi, nel 1949 la Corte di assise di Perugia assolve tutti, chi con formula piena, chi, nei casi disperati, per insufficienza di prove. (Calamandrei, sdegnato, parlerà di "giustizia suicida"!). Settanta anni dopo il sacrificio dei Rosselli è una pietra miliare per chi vuole restituire una spina dorsale morale al nostro paese. Il messaggio ideologico di Carlo, il suo «Socialismo Liberale», da testo eretico, criticato nel 1930 da tutta la sinistra tradizionale, addirittura duramente scomunicato dai comunisti, è oggi vivo ed attuale per una sinistra moderna, un potenziale punto di riferimento unitario per chi voglia difendere il sostantivo "socialismo": un socialismo che non si faccia realizzatore delle libertà non è più degno di questo nome e l´affermazione delle libertà, necessita che ne sia promosso l´effettivo godimento per tutti. Alla «Attualità del socialismo liberale» è dedicato un numero speciale dei «Quaderni del Circolo Rosselli», preparato per questo evento.
Il presidente della Rai, Claudio Petruccioli ha proposto che la sede Rai di Firenze venga intitolata ai Fratelli Rosselli. Una proposta giusta e intelligente. Sosteniamola».
(da Repubblica, l'Unità di oggi e dal sito della Fondazione Rosselli qui)


Liberazione 8.6.07
Limiti e paure della ri-fondazione della sinistra
Le tante reticenze che vedo dietro la difesa del mito-Cuba
di Lea Melandri


Cuba appartiene al patrimonio storico del socialismo reale, è ancora l’ultima “resistenza” all’imperialismo americano

Non sono così certa che sia la questione di Cuba ad accendere tanto gli animi dei comunisti "ortodossi", a svelare i residui di autoritarismo, di intolleranza, di "linea giusta", che anche chi non ha esperienza di partito poteva immaginare fossero rimasti inalterati, dietro tutti i propositi di ri-fondazione, ri-lettura della propria storia, ri-pensamento della politica, della gerarchia partitica e così via.
Qualunque sia il giudizio che si può dare sull'attuale situazione cubana, al centro di questa polemica, che non ha risparmiato ad Angela Nocioni e a Piero Sansonetti critiche violente, avvertimenti minacciosi - del tipo "avete passato il limite" - c'è la libertà di pensiero, l'apertura che il giornale ha fatto su temi e pratiche politiche che sappiamo bene quanto siano state occultate, tenute ai margini, per non dire osteggiate dai partiti della sinistra storica, sia moderata che radicale. Come figlia di proletari, mi ha sempre stupito l'arrogante sicurezza con cui i "rivoluzionari" di "buona famiglia" pontificavano sui "bisogni" delle classi indigenti, su una idea di "materialità" in cui erano contemplati solo lo sfruttamento sul lavoro, la salute e un'istruzione già finalizzata ideologicamente. Non posso dimenticare la delusione di non pochi sindacalisti nel constatare che gli operai, che frequentavano i corsi 150 ore, negli anni '70, preferivano parlare dell'amore che della fabbrica, organizzare qualche ballo in più e qualche assemblea in meno. Oggi Rifondazione comunista "scopre" la "persona", le "relazioni umane" relegate nella sfera privata, il maschilismo che ha contraddistinto storicamente il rapporto tra i sessi, si appresta persino ad aprire una breccia sulla "vita psichica". Franco Giordano, alla Conferenza di Carrara, ha parlato della necessità di una "terapia d'urto" per liberarsi di vizi antichi, schemi verticistici, limiti teorici e pratici nell'interpretare i cambiamenti in atto nella società, causa ed effetto della crisi in cui versa la politica. Fausto Bertinotti ha annunciato pochi giorni fa alla stampa, con la solennità dei grandi eventi, che la sinistra, "senza ripensamenti", senza estendere la sua indagine a "nuovi territori", non potrà riprendere il suo cammino. Non è mancata neppure l'indicazione di alcune di queste lande inesplorate: «Una sinistra deve camminare su due gambe: su ciò che non sappiamo dell'uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello sfruttamento e dell'oppressione della società».
Ora, si dà il caso che una componente non insignificante del popolo di sinistra, le donne impegnate da alcuni decenni nei gruppi femministi, ma anche giovani, intellettuali, associazioni della cultura, dell'arte, del lavoro sociale, su uomini e donne abbiamo una conoscenza lunga ed approfondita, anni di ricerca teorica e di pratiche volte a modificare pregiudizi, violenze manifeste e invisibili su cui si sono costruiti gli interni di famiglia quanto le istituzioni e i poteri delle istituzioni pubbliche.
A questo lavoro rimasto forzatamente sotterraneo, dopo l’esplosione degli anni ’70, o costretto a percorrere strade parallele di poca o nessuna considerazione da parte dei media e dei partiti, Liberazione, ha dato, con la direzione di Sansonetti, la passione femminista di Angela Azzaro, l’impegno del Forumdonne, e della redazione nel suo complesso, un rilievo e un riconoscimento finora sconosciuto. A questa apertura devo la mia quasi triennale collaborazione, e quella di molte donne e uomini che nell’autonomia del giornale hanno potuto incontrare percorsi diversi dai propri, confrontare pratiche di movimento e politiche istituzionali, avviare quel cambiamento che dovrebbe portare alla Sinistra europea, a una nuova cultura politica, a rapporti sociali più umani.
La critica all’autoritarismo, alla burocratizzazione, alla cecità ideologica di tanta parte di sinistra che si vorrebbe “rivoluzionaria”, ha trovato un suo punto di forza nella determinazione con cui il giornale ha assunto le tematiche del corpo, della sessualità, della violenza sulle donne, della riflessione sulla maschilità.
Su questa “novità” non c’è stata l’alzata di scudi che ci si poteva aspettare, almeno non in modo diretto, esplicito, conflittuale. Sulla questione di “genere” vale il politicamente corretto, il timore che, opponendosi, si finisca per cementare una socialità tra donne che tutti sanno essere ancora incerta e labile.
Cuba invece appartiene al patrimonio storico del socialismo reale e continua ad essere vista come l’ultima “resistenza” all’imperialismo americano. Qui il pensiero critico, la libertà di giudizio, il confronto delle idee, la non-violenza incontrano il loro “limite” improrogabile, ma anche, come si capiva bene dall’articolo di Marco Consolo, la fuoriuscita di un malumore a lungo represso, “la goccia che fa traboccare il vaso”. Come interpretare altrimenti l’affermazione: «Non si tratta di negare l’autonomia del giornale. Per carità. Lungi da me l’idea di fare un giornale “velina” di partito. Ma decisamente c’è un limite a tutto. Con questa ultima, ennesima, vicenda siamo abbondantemente oltre ».
Ma forse sbaglio a pensare che Cuba sia solo il pretesto ideologicamente più appropriato per gettare discredito sul nuovo corso aperto dal giornale. Cuba c’entra molto con l’ordine di valori e priorità che hanno connotato finora la sinistra anticapitalista, c’entra con l’idea di “libertà comunista” così come è stata rozzamente sintetizzata in articoli e lettere uscite sul giornale di domenica scorsa: «Lei pensa veramente – scriveva un lettore rivolgendosi a Sansonetti- che chi fa parte del terzo mondo consideri di primaria importanza muoversi, leggere, stampare? ». «Li ha mai visti di presenza i bimbi di un qualsiasi paese del centro America? Macilenti, sporchi, che giocano presso fogne a cielo aperto. Viva dio, meglio le illibertà». Sono ragionamenti che abbiamo già sentito, anche se variano ogni volta adattandosi a tempi, luoghi, situazioni diverse. “Borghese” è stato, per la sinistra “rivoluzionaria” degli anni ’70, un movimento di donne che denunciava il predominio della sessualità maschile, la cancellazione delle donne come persone, la subordinazione a una visione del mondo dettata da un soggetto unico. Privilegio di pochi intellettuali è stata considerata la pratica non autoritaria che partiva dagli asili per combattere sul nascere la formazione all’obbedienza, al consenso, alla passività. La libertà che ha come suo fondamento primo la presa di parola, il rifiuto della delega, la partecipazione collettiva ai processi decisionali è stata una delle molle più forti all’allargamento della politica, l’elemento propulsore di movimenti che avrebbero meritato fin dal loro nascere, da parte della sinistra istituzionale, ascolto, ripensamenti, capacità di formulare nuove ipotesi di lotta, nuove forme aggregative. Il tono della maggior parte delle lettere è da “resa dei conti”. Forse, se si riesce una volta tanto a non lasciarsi sedurre da spiriti guerrieri, potrebbe essere semplicemente l’occasione per un chiarimento di idee, visioni del mondo, prospettive, troppo a lungo rimandato. Per questa libertà di incontro, confronto, conflitto, Liberazione si è rivelato davvero un giornale finora “unico”.

sabato 9 giugno 2007

il manifesto 9.6.07
L'editore del settimanale annuncia alla redazione la sostituzione di Purgatori-Ferrigolo. Via il consigliere Gardini
Sciopero a «Left», saltano altri due direttori
di Andrea Fabozzi


Roma Adesso cominceranno a chiamarlo il Maurizio Zamparini dell'editoria. Come il presidente del Palermo calcio, l'editore di Left-Avvenimenti Luca Bonaccorsi ha comunicato ieri alla sbigottita assemblea dei redattori il quarto cambio di allenatore. Cioè direttore. Il quarto in un anno e quattro mesi. E come Zamparini, Bonaccorsi - direttore editoriale e amministratore delegato del settimanale che da questo mese accompagna in edicola la rivista Alternative per il socialismo del presidente della camera Bertinotti - pare intenzionato a richiamare in servizio un collaboratore già sperimentato. La redazione ha risposto con tre giornate di sciopero.
I defenestrati questa volta sono due, il direttore Alberto Ferrigolo e il condirettore Andrea Purgatori. Arrivati solo sei mesi fa per rilanciare il settimanale. Due giornalisti conosciuti ed esperti, che avevano preso il posto di Pino Di Maula a sua volta arrivato per sostituire Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci allontanati per aver cercato di resistere alla pubblicazione settimanale del pensiero di Massimo Fagioli. Lo psichiatra eretico che di Left è il nume tutelare e che ha ospitato la presentazione della rivista di Bertinotti solo sette giorni fa. A febbraio, con l'ultimo cambio di direzione, il settimanale aveva ripreso quota in edicola. Ora l'assemblea dei lavoratori in un comunicato spiega che «la scelta di allontanare questi direttori è in contrasto con l'impegno a mantenere un giornale forte e autorevole, principale garanzia dei posti di lavoro». Purgatori dice di essere preoccupato soprattutto per questo e per il futuro della testata. E per «il rispetto delle regole». Anche perché ai direttori nulla è stato formalmente comunicato, mentre ai lavoratori la proprietà ha annunciato il cambio per il prossimo martedì. Intanto dal consiglio di amministrazione di Left è uscito Ivan Gardini. Un addio che preoccupa anche la segretaria di Stampa romana, il sindacato dei giornalisti. Dice infatti Silvia Garambois: «Siamo molto preoccupati che vada via il socio economicamente più forte». E poi aggiunge: «Avvenimenti ha una storia importante, ora è in una situazione molto delicata, questo costante e vorticoso cambio di direttori rende impossibile il lavoro dei redattori e ci fa preoccupare per il destino del giornale». L'editore annuncia nuovi tagli per fare fronte a non meglio specificate difficoltà economiche. Ma la redazione teme che il progetto sia quello di ridimensionare molto le ambizioni del giornale, che solo cinque mesi fa voleva mettersi nel solco, com'era spiegato nel piano editoriale presentato dai direttori e dagli amministratori, del primo Espresso. Ora il rischio è che si prepari un destino da piccolo giornale di area. «Noi avevamo avvertito - spiega Ferrigolo - che per assicurare un pubblico a Left bisognava evitare di appiattirlo su Rifondazione». Diversità di vedute tra direzione e proprietà, dopo solo 5 mesi, che Purgatori riassume in un episodio: «Per leggere la rivista di Bertinotti che è uscita allegata al giornale che dirigo ho dovuto comprarla in edicola, non me l'hanno fatta vedere prima». «La più totale solidarietà ai lavoratori di Left» è stata espressa ieri dal portavoce di Articolo 21 Giuseppe Giulietti. Aggiungiamo quella del manifesto.

l’Unità 9.6.07
Piazza del Popolo: quelli che tifano «l’altra America» Organizzano Arci e Fiom. C’è la sinistra radicale, scrittori, intellettuali, ambientalisti


«CON L’ALTRA AMERICA», quelli di piazza del Popolo la pensano così. Pacifisti, con il pedigree a posto. Quelli che sono contro la politica del presidente Bush, contro la guerra in Iraq, contro l’eterno rinvio di qualunque piano decente per tentare di salvare il pianeta dal surriscaldamento globale. Non «contro» l’America, ma «con l’altra America». «Con l’altra America fermiamo le guerre di Bush, suoniamogliele e cantiamogliele»: è questo lo slogan della manifestazione-concerto a piazza dal Popolo, dalle 15 di oggi (ma la scaletta di interventi e musica comincia dalle 16,30 fino alle 23 circa). Se c’è qualche timore per l’ordine pubblico non è in questa piazza - che sconta semmai il rischio di un possibile attrito con la sinistra anti-governativa dell’altra manifestazione. L’ambasciata Usa ha comunque invitato gli statunitensi a stare alla larga da entrambe le iniziative.
Promossa da Arci, Associazione per la pace, Fiom-Cgil - che parteciperà anche al corteo per piazza Navona - Forum Ambientalista, Libera, Un ponte per, l’iniziativadi piazza del Popolo conta tra le adesioni gli Statunitensi per la pace e la giustizia, l’Unione degli Studenti, l’Unione degli Universitari, Transform Italia, Lavoro e Società-Cgil. E infinite altre sigle, dal Coordinamento Comitati Cittadini No dal Molin, a Legambiente, Arci Gay, Donne in Nero, Terres des Hommes. E ancora Ebrei contro l’occupazione, Coordinamento Italiano Solidarietà Donne Afgane, Rete degli Studenti. Tra le forze politiche aderiscono Rifondazione Comunista Sinistra Europea, Partito dei Comunisti Italiani, Uniti a Sinistra e Verdi. Incerta ancora ieri la partecipazione del sottosegretario all’economia Paolo Cento - «la mia presenza alla manifestazione è irrilevante». Romano Prodi è contrario alla presenza in piazza di ministri e sottosegretari. Perché «non si può ricevere il presidente Bush e poi andare a manifestare contro di lui».
In piazza del Popolo ci saranno comunque i rappresentanti di movimenti statunitensi, molto critici con l’amministrazione americana. Dal palco interverranno Ann Wright, colonnello dell esercito Usa, Christine Selig a nome del Forum Sociale Usa che si terrà ad Atlanta dal 27 giugno al 1 luglio, Tom Hayden scrittore e attivista pacifista. Gli interventi italiani saranno affidati, tra gli altri, a Giuliana Sgrena per ricordare la richiesta di verità per Nicola Calipari
Sul palco anche Daniel Amit professore israeliano e Jamal Zakout esponente politico palestinese di Gaza. In piazza saranno presentate la campagna per la legge di iniziativa popolare contro la presenza di armi nucleari in Italia e quella contro i profitti di guerra in Iraq. E ci sarà anche un saluto alla manifestazione dai promotori delle manifestazioni anti G8 di Rostock. Ad accompagnare la giornata le note dei Folkabbestia, Gang, Modena City Rambles, Dall Ouna, One Love, Smoke, e il gruppo giamaicano Raymond Wright.

l’Unità 9.6.07
IL CORTEO DEI «DURI» Da piazza della Repubblica partirà il corteo più «osservato». I milanesi della Casa Loca: «Ci chiamano terroristi, ma non siamo noi a fomentare l’odio»
Quelli dei centri sociali, sempre nel mirino: «Ma noi veniamo in pace»
di Francesca Pannone


Estremisti di sinistra. Possibile fucina di neo terroristi. Giovani dediti ad atti di disturbo e rottura, specie nelle manifestazioni e cortei pubblici. Questi alcuni dei giudizi poco teneri, da sempre, espressi riguardo ai vari centri sociali esistenti in Italia, trattati con diffidenza, quando non con aperta ostilità dalla maggior parte delle persone. Di recente, la polemica si è riaccesa intorno a tali realtà giovanili, colpevoli di aver nascosto tra i loro frequentatori i componenti delle Nuove Br. Un gran numero di centri sociali convive, inoltre, da tempo indefinito, con diversi ordini di sgombero. In tale clima, e alla vigilia della visita di George W. Bush, non è facile parlare di questa situazione con rappresentanti dei centri sociali, per esempio, di Milano. In partenza per Roma. «Ci si sente sotto attacco, perciò ci si chiude in se stessi, giocando in difesa» spiega un componente di Casa Loca, centro sociale milanese, situato in Viale Sarca 183, che ha accettato di rispondere a qualche domanda. «Riguardo all’idea che i centri sociali possono essere il coacervo di giovani terroristi» continua l’intervistato, «è una falsità di cui anche i suoi sostenitori sono consapevoli. I centri sociali e il terrorismo sono distanti l’uno dall’altro come pensiero e azioni». Alcuni gesti, come la mania scoppiata di scrivere frasi di rottura sui muri della città, spedire buste con dentro proiettili sono troppo enfatizzati, soprattutto dal punto di vista mediatico, prosegue il ragazzo. «Un centro sociale, quando non è d'accordo con una persona, un’idea, lo dice senza paura, non ha bisogno di scriverlo sulle pareti. Non si possono incolpare i giovani di un centro sociale solo perché, magari, la frase incriminata è scritta a poca distanza dalla loro sede. Neppure si può parlare di terrorismo in casi di buste contenenti proiettili o bollare come terrorista un ragazzo arrestato che non è neanche riuscito a derubare un bancomat». Al contrario, «la parola terrorismo implica che esista qualcuno terrorizzato. Fino al delitto Moro, anche per le Br si parlava di lotta armata, non di terrorismo. Quest’ultimo lo operano le alte sfere e si chiama stato del terrore. Un esempio è indurre in diversi modi, le persone a temere il flusso migratorio. I centri sociali, possono essere definiti frange meno omologate, minorità che non si inquadrano nelle linee ufficiali, formati da persone provenienti da cooperative, che lavorano nel sociale. Al loro interno, si organizzano iniziative culturali, corsi di teatro, mediante cui cercare un’alternativa al classico lavoro salariale». Le varie iniziative, aggiunge un’universitaria che frequenta vari centri sociali della città, sono anche utili alla vita di altri progetti dei centri sociali come gli sportelli e i corsi d'italiano per migranti. «Frequento i centri sociali da tempo con i miei amici e nessuno mi ha mai chiesto di andare a piazzare bombe o sparare a qualcuno» ironizza. Ciò trova conferma nelle parole del componente di Casa Loca. «Non possiamo controllare tutti quelli che entrano nel centro e se uno di loro decide di scrivere sui muri, è libero di farlo». Sul versante politico, ciò che differenzia il lavoro condotto in un centro sociale da quello di un partito, chiarisce il giovane di Casa Loca, è il volontarismo. «Nei centri sociali le decisioni sono prese mediante un collettivo. In un partito, invece, i progetti sono dati dall’alto, dalla federazione. Il rapporto con gli organi politici ufficiali è strumentale. Con noi non funziona la richiesta di tacere, pena il possibile ritorno di Berlusconi al potere. Il presente governo è immobile, ha passato un anno parlando del Partito Democratico, senza risolvere nessun problema concreto, come la precarietà lavorativa». Questo, Casa Loca, lo sostiene anche nel comunicato riguardo al corteo romano contro Bush. «L'Italia continua a scegliere la guerra e la militarizzazione dei territori, a sottostare a Bush anche una volta insediatisi al governo ministri e sottosegretari ostili alla sua politica guerrafondaia». Il comunicato, infine, ribadisce «che sarà un corteo del tutto pacifico, di massa, colorato e determinato».

l’Unità 9.6.07
I RADICALI
Quelli che stanno con Bush senza troppi «se o ma»


La terza manifestazione del giorno è il presidio nell’immensa piazza San Giovanni organizzato dai radicali e in sostegno dell’America sempre e comunque, anche con Bush. Lo ha annunciato giorni fa Marco Pannella, si sono accodati anche politici del centrodestra. «I Conservatori contemporanei italiani sanno quale è il loro posto: affianco agli Stati Uniti», fanno sapere i “Conservatori” di Italo Bocchino. Anche l’altro deputato di An Gustavo Selva ha dato la sua adesione. «Il 5 giugno era il sessantesimo anniversario del Piano Marshall: anche oggi il contributo principale alla causa internazionale (di sangue, specialmente in Afghanistan) è degli americani».

Corriere della Sera 9.6.07
Pannella, benvenuto a George con discorso a Radio radicale
ROMA — Il benvenuto a George Bush è affidato ad un comunicato stampa della Fondazione Magna Charta e ad un messaggio audio di Marco Pannella sulle frequenze di Radio Radicale. I filo-atlantici non vanno in piazza, tutt'al più all'ultimo momento il leader radicale e i suoi, che oggi sono riuniti nella sede di Torre Argentina, potrebbero decidere un blitz in giro per Roma, ma ieri sera l'idea non riscuoteva particolare entusiasmo. Sarà forse perché, come dice Emanuele Macaluso, «di fronte ad un personaggio così squallido non capisco le manifestazioni»? Pannella ha già spiegato che il suo benvenuto è «al presidente della più grande democrazia del mondo, qualunque sia il suo nome». Ma intanto persino un convegno con Antonio Martino, Massimo Teodori, Giuliano Ferrara e Giulio Andreotti per celebrare il sessantesimo anniversario del Piano Marshall è naufragato di fronte all'impossibilità di avere sul palco Walter Veltroni e rendere l'appuntamento bipartisan.
Forse più che il benvenuto, i filoamericani riusciranno a coalizzarsi con il centrodestra per ottenere un dibattito sulla visita di Bush in Parlamento, una volta che il presidente sia partito.

l’Unità 9.6.07
Welby, il giudice si accanisce: «Eutanasia passiva»
Il gip di Roma vuole processare l’anestesista:
«Non è vero che ha solo staccato la spina»
di Anna Tarquini


NEMMENO COSÌ poteva morire Piergiorgio Welby. Nemmeno così, come la Costituzione garantisce, e cioè semplicemente rifiutando l’accanimento terapeutico e chiedere di esser staccato da una macchina che ti tiene in vita, senza nessun altro intervento che possa configurarsi come attivo. A sei mesi di distanza, per la seconda volta e contro lo stesso parere del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari ha detto che no, l’intervento attivo c’è stato e Mario Riccio il medico che ha aiutato Welby a morire deve essere processato. «È una questione etica», una questione di principio. Perciò i magistrati si affrettino a formulare un capo di imputazione, che di eutanasia si è trattato e non di diritto ad andarsene dolcemente e a rifiutare le cure.
Omicidio del consenziente con eutanasia passiva, come dire una nuova fattispecie di reato. Un colpo per Mina Welby, la vedova: «Proprio ora che è in Senato si discute la legge sul testamento biologico» commenta amara. La circostanza, secondo il gip, si sarebbe estrinsecata con «l'intervento attivo dell'anestesista Mario Riccio. Per Renato Laviola non importa che persino l’autopsia su Welby aveva scagionato l’anestesista. L’esame era stato chiesto proprio dai magistrati per chiarire se l’esponente radicale malato di distrofia muscolare era deceduto per eccesso di sedazione o perché era stato staccato dal respiratore artificiale. E alla fine si era sgomberato il campo ad ogni equivoco: Welby era morto perché lo stadio della malattia non gli consentiva di sopravvivere senza la macchina. Ecco, questo non è bastato e nemmeno sono bastate le convinzioni della pubblica accusa.
Ieri Laviola ha respinto la richiesta di archiviazione della posizione di Mario Riccio perché nel nostro ordinamento «c’è il diritto al rifiuto delle cure» anche per motivi etici e religiosi, costituzionalmente garantito; ma nel caso di Piergiorgio Welby c’è stato un intervento attivo di Riccio, giunto apposta a Roma per praticare l’interruzione della ventilazione. Nel viaggio di Riccio da Cremona a Roma - si potrebbe spiegare ironicamente - è ravvisato il reato di eutanasia passiva.
Tanto più - sottolinea il giudice - che Riccio non era il suo medico curante ed era stato chiamato per esperire quella pratica. Spiega infatti Laviola che c’è un diritto costituzionale a rifiutare la cure, ma che nel caso di Welby l’eutanasia passiva «non è consistita nella mera omissione di cure e trattamenti».
Esiste un diritto alla vita - dice - che pure se non è codificato si fonda su varie fattispecie e molte norme codificate, come i reati che sanzionano l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio.
Ora la procura di Roma dovrà ora formulare un capo di imputazione coatto e chiedere il rinvio a giudizio del medico per il reato di omicidio del consenziente. «Sono dispiaciuta - dice Mina Welby - . Credo anche però che ci sarà una riscossa, visto che non c'è cittadino, in italia, che non abbia avuto in casa una persona che ha sofferto tantissimo, alla fine della propria vita, da arrivare chiedere la fine di queste sofferenze». Mario Riccio ha detto di essere «pronto ad assumersi ogni responsabilità, anche se dovesse costare 15 anni di carcere. Sono convinto - sottolinea l'anestetista - e ribadirò nei vari gradi di giudizio che in Italia la legge garantisca il rifiuto della terapia». Marco Cappato che è anche lui indagato per la morte di Piergiorgio Welby ha ringraziato «Furio Colombo e Federico Orlando che hanno per primi contribuito al fondo per le spese processuali, ccp 41025677 intestato a Associazione Luca Coscioni, causale fondo processo Welby».

Repubblica 9.6.07
"Il gip parla di eutanasia passiva, un concetto di retroguardia"
La sorpresa di Riccio "Avevo chiarito tutto"
di Enrico Bonerandi

Ci si appella al diritto alla vita? Se è un diritto si può esercitarlo oppure no
Anche papa Wojtyla rifiutò di sottoporsi a ventilazione e così morì

MILANO - Mario Riccio, si sente perseguitato dalla giustizia?
«La parola giusta è "sorpreso". Pensavo di aver chiarito col gip, nell´udienza del 28 maggio, ogni aspetto del consenso del paziente, che poi era il punto che più interessava il magistrato».
Invece è arrivata la richiesta di imputazione coatta.
«Il pm ha già affermato che ripresenterà richiesta di archiviazione. Devo ancora leggere la sentenza, ma mi sembra che il gip si basi sul concetto di eutanasia passiva, che non ha rilevanza penale. E anche dal punto di vista etico, è un concetto di retroguardia, che ormai non usa quasi più nessuno».
Sia più chiaro.
«Il gip parla di diritto alla vita. Se è un diritto, si può esercitarlo oppure no. Ammesso che esista una legge che sancisca il diritto alla vita, non può essere tramutato in dovere. Anche papa Wojtyla si rifiutò di sottoporsi a ventilazione, e morì. E la donna che due anni fa a Milano non volle farsi amputare la gamba? Dovevano costringerli?».
Allora la sentenza del gip di Roma è strampalata, o sottende un attacco politico?
«Non voglio fare una battaglia ideologica. Mi rifaccio a quanto affermato finora dalla Procura e dal Tribunale civile di Roma. Nella vicenda di Piergiorgio Welby ho agito come loro hanno sostenuto che avessi diritto a fare».
Verrebbe contestata anche la sedazione che lei procurò a Welby per alleviargli il dolore dell´agonia?
«No, a quanto mi risulta, dal punto di vista tecnico il gip non avanza alcuna riserva».
Su questo versante la sua posizione è stata già archiviata dal consiglio dell´ordine dei medici di Cremona.
«Appunto».
È un caso che questa sentenza arrivi quando in parlamento si sta avviando la discussione sul testamento biologico?
«Non so. Di certo l´arretratezza del dibattito etico in Italia è impressionante. Invece di confrontarsi ci si contrappone, senza fare passi in avanti. Voglio sottolineare però che non si deve confondere il diritto con l´etica. Un esempio: abbiamo una legge sull´interruzione di gravidanza, che dunque è consentita. C´è chi ritiene l´aborto un fatto riprovevole, e parecchi medici si rifiutano di procurarlo. Benissimo, c´è una legge che consente l´obiezione. Veniamo al mio caso. Un paziente ha pieno diritto di interrompere le terapie. Ha chiesto a me di intervenire, e io ho esaudito la sua volontà. Poteva chiederlo ad altri medici, che avevano facoltà di rifiutarsi. Punto e basta».
E invece per lei non è ancora finita.
«Ho fiducia che in un´avanzata sede di giudizio il caso verrà archiviato. Sono tranquillo, anche se un´ipotesi che va da 12 a 15 anni di galera sospesa sulla testa non mi fa piacere. Ma visto che siamo in ballo, balliamo».
Anche Giovanni Nuvoli, dopo Welby, si è rivolto a lei.
«Ho chiarito più volte, anche davanti al gip, che si è trattato di un unicum. Sono un medico ospedaliero, il mio lavoro è d´altro tipo. Ho acconsentito perché si era creata con Piergiorgio una relazione personale».
Se ne è mai pentito?
«Portare avanti le proprie idee, anche pagando dei prezzi personali, è così scandaloso?».

l’Unità 9.6.07
Hobsbawm nel segno di Gramsci e del Jazz
di Bruno Gravagnuolo


COMPLEANNI Oggi il grande storico compie 90 anni. Una parabola di ricerca sviluppatasi nel solco del marxismo inglese e arricchita dall’incontro con i «Quaderni del Carcere». Storia, musica e classi subalterne

«Gramsci? Un dono che la campagna ha fatto alla città». È una battuta di Eric Hobsbawm, lo storico gallese e tra i massimi storici britannici, che proprio oggi compie novantanni. Bella perché azzeccata, riferita com’è a una figura ponte tra masse oppresse e alta cultura del 900, un sardo di ascendenze albanesi, capace di ergersi a visioni globali.
Ma bella quella frase perché racchiude tutto il senso delle passioni e del lavoro di Hobsbawm. Ovvero, l’impegno di conoscenza storiografica, volto alla liberazione delle classi subalterne. Nel contesto dello stato-nazione e in quello più ampio del mondo unificato dalle rivoluzioni industriali, a partire dalla prima nell’Inghilterra del 700.
Ma chi è Hobsbawm? Lo abbiamo detto, un grande storico e poi un amico e un ammiratore dell’Italia, e del Pci in particolare, alle cui fortune culturali e alla cui (contrastata) «egemonia» è legata una parte rilevante della sua biografia. Un’Italia incontrata per la prima volta da «emigrante» a due anni, nel passare da Trieste a Vienna. Da cui fuggirà a fine anni trenta per sottrasi alla persecuzione nazista. Italia reincontrata negli anni 50, in visita da Londra, con una lettera di presentazione al Pci di Piero Sraffa. Ma a quel tempo Hobsbawm era già entrato nel circolo aureo degli storici marxisti di Past and Present leggendaria rivista, all’inizio non esclusivamente marxista, a cui prendevano parte Cristopher Hill, studioso della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperialismo. Dunque Hobsbawm comunista e marxista, che si cimenta con la «storia dal basso»: brigranti, ribelli, emarginati, profeti popolari e contadini. Ad esempio studia Il Davide Lazzaretti ribelle «escatologico» del Monte Amiata, ignorando che di lì a poco ne avrebbe ritrovato la figura in un’opera destinata a cambiare la sua vita intellettuale: I Quaderni del Carcere. È Gramsci infatti che muta il suo approccio dottrinario benché mai stalinista. Gramsci che lo persuade che la rivoluzione è un processo complesso, variegato, «chimico». Che risente delle «onde d’urto» internazionali e le ritraduce nei contesti nazionali. Con rivoluzioni attive, rivoluzioni passive, arretramenti, esplosioni, avanzamenti. Ecco allora che la scoperta di Gramsci e del Pci, fanno di Eric Hobsbawm quasi un propagandista della «diversità» di entrambi nel mondo comunista. Un lavoro di sdoganamento e rilancio del marxismo in sede politica e storiografica che parte nel gallese dall’amore per quei Quaderni, su cui relaziona al primo dei grandi convegni gramsciani, quello del 1958.
E così, fecondate da quelle lettuare, arrivano le grandi opere di Eric Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848; Il trionfo della borghesia, 1848-1875; L’età degli imperi, 1875- 1914. Ed ancora, gli studi sui briganti, cartografia sociale e antropologica della rivolta endemica di classi sottomesse che stano ai margini e incalzano, ma non si fanno «dirigenti». E poi, il saggio introduttivo alla Storia del marxismo Einaudi, mappa minuta e ancor valida per orientarsi nel dedalo dei «marxismi» novecenteschi.
Infine il suo capolavoro, quello che ha fatto tanto parlare, uscito in Italia da Rizzoli: Il Secolo breve, 1914-1991. Qual è l’idea di fondo, gramsciana, e compendiata già nel titolo? Qualla di un 900 come «età degli estremi», tra massacri di massa e progresso della scienza e dei diritti. Di un mondo unificato dalla tecnica, tra barbarie ed emancipazioni collettive. Dove un punto di svolta è dato dalla prima guerra mondiale, in cui precipitano in lotta gli imperalismi dei grandi stati-nazione. E il punto finale sta nell’ammaina bandiere al Cremlino, nel natale del 1991.
Periodizzazione criticata quella di Hobsbawm, specie sul « terminus ad quem». Visto che la dinamica di guerre e imperialismi, dopo quella data, è ricominciata sotto forma di nazionalismi, guerre di civiltà e nuovo disordine mondiale, all’ombra dell’unipolarismo americano.
E tuttavia proprio Hobsbawm, ragionandone con Antonio Polito in una intervista Laterza del 1999 (Intervista sul nuovo secolo) si è mostrato ben consapevole che il suo secolo «breve» si allunga, riproducendo all’infinito, e con maggiore espansione delle forze produttive, tutti i fenomeni in precedenza descritti e avviati dal 1914: lo squilibrio tra stati nazione e cosmpolitismo globale, non governato. Due volte gramsciano Hobsbawm, nell’indicare quello squilibrio, e nel segnalare la prima volta in cui si manifesta e cioè la prima guerra mondiale.
E oggi? Oggi Hobsbawm è in bilico tra disicanto, difesa illuminista dell’universalismo, e rivendicazione di ciò che resta dell’utopia comunista. Intesa come capacità di resistenza al dominio planetario sui diseredati. E del resto, pur nel disincanto, Hobsbawm si oppose, da comunista italiano «acquisito», alla svolta dal Pci al Pds. E il giudizio sul comunismo reale? Per lo storico fu decisivo, malgrado le oppressioni e i fallimenti, a favorire e stabilizzare il Welfare in occidente. E a «con- causare» l’età dell’oro: il cinquantennio che va dal 1945 alla metà dei novanta. Ultimo appunto: Hobsbawm è anche un grande amante del Jazz, «musica nera dei subalterni». E scrisse col nome di Frank Newton, tromba di Billie Holiday, The Jazz scene, una storia del genere. Lo incoraggiò Gramsci, quando in carcere predisse: «un giorno berremo il caffè al mattino col Jazz».

Repubblica 9.6.07
Mio padre ucciso da Stalin
Un libro di Gabriele Nissim sulla tragica sorte di Gino De Marchi
di Nello Ajello


L'uomo fu bollato come un traditore Gramsci tentò di difenderlo. Ma nel '38 venne fucilato
Protagonista è Luciana, figlia di un militante comunista emigrato in Urss
Da giovane era stato arrestato a Torino e sotto minaccia aveva fatto il nome di un complice
A Mosca lavora come regista di documentari dedicati alla scienza e alla tecnica

Una tragedia che porta il marchio del Novecento, il memorabile e funesto secolo delle ideologie. È lo spettacolo offerto dal volume di Gabriele Nissim, Una bambina contro Stalin, appena uscito in edizione Mondadori (pagg. 278, euro 17). La bambina che figura nel titolo si chiama Luciana, ed è la figlia di Gino De Marchi, un comunista italiano che venne soppresso nel 1938 in Unione Sovietica, dove il suo partito l´aveva inviato perché potesse espiare, nella patria dei Soviet, una colpa "politica" commessa in patria nella prima gioventù. Il progetto punitivo, purtroppo, si sarebbe attuato alla lettera.
Il caso non può dirsi insolito negli annali del comunismo italiano: di nostri connazionali emigrati in Urss negli anni Venti o Trenta e coinvolti fino al sacrificio nelle trame della repressione staliniana se ne contano vari, e ciascuno restituisce a suo modo il sapore d´un tempo spietato. La specialità che si coglie in questo libro è data proprio dalla figura filiale associata alla vicenda, fin quasi a contendere al padre il ruolo di protagonista. È a lei che l´autore si è rivolto - incontrandola ripetutamente, in anni recenti, in Russia e in Italia - per ricostruire i fatti. Luciana, nata nel 1924, ne è stata diretta testimone fin dalla prima infanzia, e si è poi dedicata lungo oltre mezzo secolo, a coltivare «l´arte della memoria»: riabilitare suo padre, rievocarne le traversie, ricostruire i tratti della sua figura, è stata per lei una missione. Accanto a questa erede, Nissim è riuscito a comporre una saga «dal vero», insieme dolente ed esemplare.
Classe 1902, Gino De Marchi, è stato un comunista della prima ora. Risultava, anzi, iscritto al partito socialista (con netta inclinazione verso la corrente bolscevica), in epoca antecedente alla scissione di Livorno. Idealista, poeta dilettante e politico tutto d´un pezzo, ha svolto attività "militante" fin quasi dall´adolescenza. Nel suo paese di nascita, Fossano, a un passo da Torino, il comunismo s´incarna in un "genius loci", Giovanni Germanetto, autore di Memorie di un barbiere, un´autobiografia popolaresca che, tradotta in Russia dopo il trasferimento dell´autore in quel paese in seguito all´avvento del fascismo, verrà letta come un piccolo classico.
L´occupazione delle fabbriche con epicentro nella Torino operaia trova Gino in prima linea, diventando per lui, insieme, un´epopea e una fonte di guai. Proprio a lui, Gino, poco più che diciottenne, viene affidato, accanto ad altri, il compito di nascondere un piccolo arsenale di armi raccolte in vista di un´eventuale sommossa proletaria: e la cantina in cui vengono depositate è proprio a Fossano, a pochi passi dall´abitazione della famiglia De Marchi. L´operazione si svolge in maniera estremamente incauta, nella concitazione del momento. Ed perciò facile per i carabinieri arrestare Gino e trasferirlo nel carcere di Mondovì, dopo un breve sopralluogo che ha coinvolto sua madre Maria, anche lei fervida comunista. È il 26 aprile del 1921.
L´interrogatorio del giovane è breve e bruciante: di fronte alla minaccia di un coinvolgimento di sua madre nel reato, Gino ammette alcune circostanze e fa il nome di un complice, subito a sua volta incarcerato. È la debolezza o l´errore di chi, giovanissimo, deve misurarsi con un evento cruciale. A lui tocca ora il ruolo del capro espiatorio per una leggerezza collettiva. La qualifica di traditore gli resterà sulla pelle per sempre. Rilasciato dal carcere, verrà sottoposto a un processo ancor più lacerante. Rinchiuso per lunghe ore in un deposito dell´Ordine nuovo - il quotidiano comunista torinese al quale collabora - subisce pesanti umiliazioni ad opera dei compagni di partito, che lo considerano una spia fascista infiltrata nei loro ranghi. Ormai Gino è una presenza ingombrante. Il partito trova una scappatoia per dirimere il caso: il reprobo dovrà recarsi in Russia, dove subirà (ma egli non può prevederlo) una sorta di pratica "lustrale". Gli spetta - come affermerà Dante Corneli, un altro comunista italiano sprofondato nel terrore stalinista e autore di una memoria dal titolo Il redivivo tiburtino - un malinconico primato: quello di essere «il primo italiano in Russia fatto arrestare dai suoi compagni». Il peccato originale commesso in Piemonte troverà, nella patria del comunismo, il suo epilogo.
Giunto nella Russia di Lenin come emigrato politico nel giugno del ´21, finisce in carcere: le comunicazioni dall´Italia sono state sollecite. Poi lo rinchiudono in un campo di concentramento, a Vladykino, dove viene tormentato da attacchi di tubercolosi. A liberarlo (temporaneamente) interviene nel luglio del ´22, Antonio Gramsci, che ne ha pubblicato gli scritti nell´Ordine nuovo e lo considera «un fratello minore» contro il quale non è giusto «infierire». Quando De Marchi viene trasferito a Taskent, in «un luogo isolato dal mondo», Gramsci si adopera ancora a suo favore, ottenendo per lui un ulteriore spostamento a Mosca: lì potrà trovare un´occupazione non frustrante. (Gli interventi di Gramsci in soccorso del giovane piemontese sono stati diffusamente raccontati su questo giornale il 27 aprile scorso da Simonetta Fiori in un´anticipazione dell´opera di Nissim).
Uscito dal carcere e dal lager, Gino non riottiene la tessera del partito. Il «marchio del sospetto» non gli si cancella. E la sua odissea prosegue. Da Mosca, dove ha lavorato come contabile, viene spostato a Sergiev, settanta chilometri dalla capitale, in una comune agricola. Benché il lavoro dei campi non gli si addica, riesce a farsi apprezzare. Tornato a Mosca per intercessione di un autorevole compagno italiano, Francesco Misiano, nel '28 il giovane piemontese viene chiamato a collaborare all´attività della nascente industria cinematografica sovietica. Lo assumono alla Mosfilm, dove s´impegna nella produzione di documentari - i primi dell´epoca sovietica - dedicati alla scienza e alla tecnica in un´ovvia ottica di propaganda. Quest´attività gli piace. Per qualche anno lo sorregge l´illusione di aver superato la fase più critica del suo destino.
Ma il sospetto di essere in trappola gli torna quando, mentre appaiono sulla stampa sovietica gli echi dei grandi e catastrofici processi politici staliniani - intestati a uno Zinoviev, a un Kamenev - la richiesta di De Marchi di recarsi in Spagna per prendere parte, sul fronte della Repubblica, alla guerra civile incontra un netto rifiuto. S´inviano dall´Urss in Spagna soltanto uomini politicamente fidati. Nel suo caso un eventuale assenso dovrebbe tra l´altro giovarsi della firma di un dirigente italiano, un Palmiro Togliatti o un Antonio Roasio. Eventualità impensabile.
Sono passati più di quindici anni dall´arrivo del giovane in Unione Sovietica. Ma a dispetto di ogni apparenza il suo titolo di "nemico del popolo" non è mutato. Nel clima di repressione dei tardi anni Trenta si consumano, anzi, i sospetti arretrati. La svolta finale nel destino di Gino De Marchi porta una data - 2 ottobre 1937 - nella quale egli viene arrestato. In precedenza, una richiesta di chiarimenti sulla personalità del "sospettato", inoltrata alla sezione italiana dell´Internazionale comunista, aveva avuto una risposta secca: di lui abbiamo «una cattiva opinione». Gli interrogatori "celebrati" a suo carico nel palazzone della Lubianka non si discostano d´un pollice da quelli che stanno portando, in Urss, alla dissoluzione di un´intera generazione di bolscevichi illustri. In quella rete, lui è davvero un pesce minuscolo. Tre inquirenti - a nome Sedov, Lunevskij e Leonov - si adoperano per dimostrare che Gino ha continuato, in Unione Sovietica, a fungere da spia fascista, dedicandosi a ordire complotti trotzkisti. Queste ed altre menzogne vengono ripetute nelle deposizioni rilasciate dai suoi compagni di lavoro alla Mosfilm: anche da coloro che sembravano suoi amici. Uno degli accusatori decisivi, il comunista italiano Renato Cerquetti, è a sua volta imputato e sotto tortura ha confessato colpe inesistenti. È insomma un «corpo inerme» nelle mani della polizia e verrà fucilato nel febbraio del ´38. Il 2 giugno dello stesso anno, sarà la volta del trentaseienne De Marchi.
Se ho detto all´inizio che questa di Nissim è una doppia biografia, è perché ogni traversia del protagonista è filtrato attraverso la memoria e la passione documentaria di sua figlia Luciana. Gli episodi che la riguardano - e quelli che concernono, più di scorcio, gli altri familiari di Gino: sua madre, una donna coraggiosa, sua moglie, che non trova la forza di difenderlo e lo abbandona - sono altrettanti capitoli d´una favola crudele. Una bambina che ha oggi ottant´anni (o qualcuno di più) ci invita ad ascoltarla con religioso pudore.

l’Unità 9.6.07 Roma
Auditorium, una nuova orchestra «popolare»
Affidata ad Ambrogio Sparagna, gran cerimoniere della notte della Taranta, la formazione che debutterà il 6 luglio
di Federico Fiume


Dopo la Parco della Musica Jazz Orchestra, la Fondazione Musica per Roma vara una nuova formazione «residente», l’Orchestra Popolare Italiana, presentata ieri all’Auditorium. L’ensemble, sarà diretto da Ambrogio Sparagna, reduce da un’analoga e felice esperienza triennale con l’Orchestra Popolare della Notte della Taranta, e si baserà su di un vasto repertorio incentrato sulle tradizioni regionali italiane. Proprio l’esperienza salentina, nella quale Sparagna ha creato per la prima volta un’orchestra di strumenti popolari («un’eccezione in un ambito dove tradizionalmente non esiste il concetto di musica orchestrata») e la partnership della Fondazione Musica per Roma con La Notte della Taranta, sono alla base di questo progetto. «Questa orchestra - afferma Sparagna - può rappresentare un formidabile veicolo di promozione culturale. Ne va dato atto alla Fondazione che l’ha varata in un momento in cui nel resto d’Italia le orchestre chiudono».
L’organico prevede un nucleo di dieci elementi fissi che collaborerà con musicisti e gruppi provenienti da tutte le regioni d’Italia, arrivando a costituire un’orchestra di oltre trenta elementi tra cantanti e strumentisti, scelti nel panorama della musica popolare italiana. Il debutto dell’Orchestra Popolare Italiana è previsto nell’ambito del Festival di Villa Adriana il 6 luglio con lo spettacolo «Bella fatte chiamà - Canti d’amore dalla Campagna Romana». Ma la si rivedrà anche il 10 agosto a Carpineto Romano, in occasione della notte di San Lorenzo all’interno del festival «I cavalieri cantati». A settembre sarà protagonista della Notte bianca di Roma con una nuova produzione dal titolo «Le stelle di Giufà» che saluterà l’alba nel Parco della Caffarella. In quell’occasione l’Orchestra sarà integrata da diversi artisti ospiti provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo. A partire dall’autunno è prevista una serie di nuove produzioni nell’ambito della programmazione dell’Auditorium con in particolare un evento speciale dedicato ai canti popolari del Natale.

(A entrambi gli eventi partecipa Giuliana De Donno - cfr "spazi"ndr)