Il paradosso delle sinistre
di Edmondo Berselli
Se si vuole un´immagine plastica della crisi della sinistra radicale, o come si voglia chiamarla, sinistra «alternativa», «antagonista», «altermondialista», basta mettere a fuoco le due piazze separate in cui è confluita la protesta contro il presidente americano Bush: in Piazza del Popolo la sinistra alternativa di governo, con i Russo Spena e i Diliberto; in Piazza Navona la sinistra alternativa di lotta, in cui spiccavano trotzkisti come Marco Ferrando ed esponenti della disobbedienza come Francesco Caruso e Haidi Giuliani. La sintesi l´ha offerta una delle madonne dell´ultrasinistra storica, Franca Rame andandosene da Piazza Navona: «La politica è una cosa schifosa», spiegando che quest´ultimo anno, passato nelle istituzioni, è stato il peggiore della sua vita.
Da qualsiasi ragione fosse dettato questo giudizio, nella sua emotività sintetizza lo stato d´animo di una parte della sinistra alternativa, quella che si è assunta un compito di governo, e si trova a vivacchiare di compromessi quotidiani nelle aule parlamentari. Certo, la figura di Fausto Bertinotti si staglia sullo scranno della presidenza della Camera, a testimonianza del lungo viaggio che ha portato il movimento a farsi istituzione: è stato il socialista non marxista Bertinotti che prima è riuscito a rinnovare il profilo politico di Rifondazione comunista, sottraendo il partito alle grisaglie postcomuniste, e poi ha completato la sua lunga marcia iscrivendo il Prc nel sistema istituzionale.
La scommessa di Bertinotti è stata uno dei progetti politici più coraggiosi e razionali che si siano visti nel nostro paese. Con fermezza, il leader ha decomunistizzato Rifondazione, facendone un partito esplicitamente non violento, in cui la radicalità è uno stile di pensiero generale più che un modello di comportamento collettivo. Per riuscirci, Bertinotti ha dovuto accettare il confronto con la prassi, il compromesso, il negoziato. Fra l´altro ha accettato anche di partecipare alle primarie dell´Unione contro Prodi, nell´ottobre del 2005, contribuendo così, con il 15 per cento dei suoi voti, a definire il perimetro dell´alleanza di centrosinistra.
Va da sé che per buona parte della sinistra di movimento questa scelta è apparsa come una rinuncia. Il movimento no global, la moltitudine di lotta e dei centri sociali che è confluita sabato in Piazza Navona non si convince facilmente che la scelta «ministeriale» effettuata da Rifondazione sia efficace. Vuole le mani libere, per poter esprimere nel modo più adeguato il suo potenziale di contestazione.
Finora Bertinotti non ha praticamente mai ecceduto dai limiti anche di galateo della sua carica. Anche certi improvvisi acuti, risultati un po´ striduli come il giudizio sul capitalismo italiano «impresentabile» in seguito alla vicenda Telecom, sembrano appartenere all´animo sindacalista del presidente della Camera, una voce dal sen fuggita che non gli preclude viceversa di esprimere apprezzamenti verso l´approccio industrialista del leader della Fiat Sergio Marchionne.
Ma in questo modo Rifondazione ha visto impallidire la sua caratteristica fondamentale. Cioè di essere il partito che presidia l´area della sinistra radicale, che ne filtra tutti gli umori e li riconduce nel circuito della politica ufficiale. I primi segnali concreti della perdita di questo ruolo si erano avuti in seguito alla dissidenza interna sulla politica estera, come nel caso del senatore Franco Turigliatto, uscito dal Prc in quanto postosi «fuori dalla comunità di Rifondazione», secondo le parole della segreteria (con Franco Giordano che lo giudicava «incompatibile» con il partito).
Tutto questo pone problemi seri non soltanto al Prc, che pure dopo il cattivo risultato elettorale delle amministrative di fine maggio si è vista recapitare dall´ala dura atti d´accusa molto aspri sulla «totale indeterminatezza del suo governismo». C´è da tenere conto innanzitutto di una sindrome di disaffezione verso i partiti della sinistra, che la nuova separatezza, resa simbolicamente forte dalle due piazze di Roma, potrebbe intensificare. Ci sono processi in corso nel mondo sindacale, particolarmente dentro la Cgil (in cui la Fiom ha acquistato la consistenza di un quasi-partito), in cui il cammino, o la "deriva", verso il Pd viene giudicato un cedimento alla subalternità neocentrista.
Ma ovviamente lo scenario decisivo dipende dall´evoluzione delle molte sinistre che si stanno disegnando dopo il via al Pd. C´è in atto una sorta di costituente socialista; occorre verificare quale sarà l´approdo di Sinistra democratica, cioè la diaspora diessina guidata da Fabio Mussi; inoltre il cantiere della sinistra coinvolge Verdi e Comunisti italiani, e impone una riflessione senza sconti a Rifondazione comunista. Perché il «governismo», se non incorpora elementi di dinamismo politico, significa in fondo una politica banale: da un lato richieste solidariste di destinare l´extragettito alle fasce sociali «verso cui siamo in debito», come dice il ministro Paolo Ferrero; dall´altro l´opposizione strisciante in aula alle misure di liberalizzazione, talvolta con il contributo di alcune aree corporative del Polo.
L´argomento da mettere sotto osservazione, allora, è una nuova versione del «paradosso delle due sinistre». Secondo cui la sinistra alternativa «istituzionale» non è mai stata così ampia in Parlamento e così debole nell´arena pubblica. Perché rispetto all´opacità del lavoro nelle istituzioni, l´unico antagonismo identificabile è quello dei Caruso, con la sua capacità di mobilitarsi e di puntare sul conflitto. E si sa che quando l´unica alternativa davvero visibile è quella dell´estremismo politico, la vita della sinistra istituzionale, di qualsiasi sinistra si tratti, tende a farsi ogni giorno più difficile.
Repubblica 11.6.07
D’Alema ha detto
(...) Ma l´altra lezione americana, forse quella più importante, riguarda la sinistra. «Il vero evento di questo fine settimana - sostiene D´Alema - è stato il fallimento del corteo della sinistra radicale. Io l´avevo detto: se avete delle critiche da muovere a Bush, c´è già un governo che se ne assume la responsabilità, e che gliele esprime apertamente. A cosa serve l´inutile rito della piazza?». Ora la disperata "sinistra a due piazze" deve riflettere. «Io spero che Rifondazione, il Pdci, i Verdi, traggano il giusto insegnamento da quello che è accaduto. Loro si devono rendere conto che il giochino che chi sta al governo poi va anche a fare i cortei per la strada non funziona più. L´opinione pubblica non lo capisce, e quindi non lo approva». Ma questo, va da sé, per partiti che hanno fatto del "movimento" la loro ragion d´essere significa quasi rinnegare una tradizione politica. «Parliamoci chiaro: il "partito di lotta e di governo" non è e non può più essere attuale. Quella è stata un´idea geniale di Palmiro Togliatti: sapendo bene che il Pci non sarebbe mai andato al governo, aveva coniato la formula per tenercelo agganciato, evitando che gli sfuggisse per la via dell´estremismo. Oggi quella stagione è morta e sepolta. Oggi noi ci stiamo, al governo. E allora abbiamo solo un dovere: governare, e non scendere in piazza».
Il paradosso, nelle condizioni date e con il rischio che oggi l´Unione perda anche la provincia di Genova, è che i Giordano, i Pecoraro e i Diliberto possano invece trarre da quello che è successo la lezione esattamente opposta: perdiamo consensi perché siamo troppo "governativi". Se fosse così, per Prodi sarebbero guai seri. D´Alema vede il rischio: «Certo, il pericolo che si generi un certo nervosismo esiste senz´altro. Sulle pensioni e sul Dpef potrebbero scaricarsi nuove tensioni. Io spero che non facciano questo errore, spero che non si facciano tentare dall´idea di "spostare più a sinistra l´asse di governo", come si usa dire. Non è di questo che c´è bisogno. C´è bisogno di assecondare la crescita, e di tarare l´azione del centrosinistra sull´idea di una vera e propria "ripartenza". Queste serve, mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini…». Questa, al contrario delle precedenti, è una tipica "lezione italiana" (...).
(stralcio da un articolo che appare oggi su Repubblica)
Corriere della Sera 11.6.07
Rifondazione, la tentazione dello «strappo»
Giordano e lo choc della piazza vuota: un cambio subito o il governo sarà in difficoltà
di Monica Guerzoni
ROMA — E adesso, dopo lo choc dell'immensa piazza vuota, Rifondazione ha paura. I consensi elettorali sono in calo, il movimento va per la sua strada e dentro il partito torna ad agitarsi la tentazione dello strappo, la «necessità» di rompere con Romano Prodi e il suo governo. Timori che riecheggiano nell'avvertimento di Franco Giordano agli alleati dell'ala moderata. «Sulla politica economica e sociale chiediamo una netta inversione di tendenza — vuole una svolta a sinistra il segretario del Prc —. Serve uno scarto, un salto di qualità o l'intero governo rischia di trovarsi in enorme difficoltà con gran parte del nostro popolo».
La difficoltà c'è già, era scritta nei volti e negli slogan dei manifestanti, migliaia, in marcia contro Bush e contro Prodi fino a piazza Navona. Immagini che il capogruppo dei senatori di Rifondazione, Giovanni Russo Spena, confida di aver guardato più volte in dvd. «C'erano tanti dei nostri, tanti del Prc...». E le pare un bel segnale, presidente? «No, è evidente che c'è un problema di contenuti, il nostro popolo vive un malessere, è quello che soffre di più la mediazione continua» ammette Russo Spena e guarda al passaggio «stretto e delicato» che attende la sinistra e il governo.
Sono quattro gli appuntamenti chiave, dai quali dipende la scelta di Rifondazione: restare o lasciare? «Per decidere dobbiamo consultare il nostro popolo, che non vede un governo di rottura — risponde Russo Spena —. Su extragettito, salari, dpef e pensioni il nostro atteggiamento cambia profondamente. Basta mediazioni. Non faremo sconti. Noi non siamo, come vorrebbe Rutelli, l'intendenza che segue».
Toni nuovi, bruschi. Il segno di una sfida per la sopravvivenza lanciata ai riformisti del Partito democratico e allo stesso Prodi. Il livello di allarme è altissimo, oggi Giordano riunirà la segreteria, analizzerà i risultati dei ballottaggi e il malumore verrà fuori, anche dalla maggioranza. «C'è un grande problema di politica economica — riconosce il sottosegretario allo Sviluppo, Alfonso Gianni — Senza una svolta si apriranno problemi consistenti». Non sfugge a Claudio Grassi che «il Prc sta soffrendo» e i risultati elettorali «sono preoccupanti». Uscire dal governo? «Difficile, sarebbe un trauma — teme il leader dell'area de l'Ernesto, che ultimamente si è riavvicinata a Giordano — Ma se con le imminenti scelte economiche non otterremo qualcosa, la situazione diventerà ingestibile».
Va ancora oltre il senatore Fosco Giannini, che sabato ha sfilato con Disobbedienti e centri sociali. Parla di «tracollo elettorale» e di «partito dimezzato», paventa una «insurrezione» in Calabria dove «la gente muore di fame» e conclude: «Questo governo non risponde alle speranze che abbiamo seminato, Prodi non può farci pagare altri prezzi. Le pensioni? Se non cancellano lo scalone non le votiamo». Ad aprile il Prc andrà a congresso e lo scontro, durissimo, è già iniziato. Fausto Bertinotti, sia pure col distacco richiesto all'alto incarico istituzionale, segue con attenzione l'ascesa di giovani «leoni» come De Cristofaro, Pecorini, Fratoianni, De Palma e Gennaro Migliore, il capogruppo alla Camera che il presidente vorrebbe segretario. Ma Franco Giordano darà battaglia.
E intanto il movimento si smarca dai partiti. Autonomo. Tentato di farsi partito a sua volta, a costo di infliggere al Prc una dolorosa scissione. I numeri ci sono. Giorgio Cremaschi porterebbe in dote un pezzo di Fiom, Piero Bernocchi i Cobas, Luca Casarini i Disobbedienti, Cannavò e Malabarba la minoranza di Sinistra critica e a quel punto non è detto che Giannini e Pegolo, con la loro fetta di «Ernesto», saprebbero resistere al fascino della rottura. Giordano fa scongiuri: «Non esiste un partito del movimento, non ci sarà mai».
Il flop di piazza del Popolo costringe a interrogarsi pure i Comunisti di Oliviero Diliberto. «Il problema — ragiona il segretario del Pdci — è che il popolo della sinistra non percepisce il cambiamento, non vede la differenza tra il governo di Berlusconi e quello di Prodi. La gente non sta meglio, sta peggio. E quindi non ti vota». Il sottosegretario verde Paolo Cento porta la riflessione alle estreme conseguenze: la governabilità non può essere «un tabù indiscusso». E sorprende quanto serafico sia invece il leader dei verdi. Alfonso Pecoraro Scanio dice che lui sabato era a Malta e che una piazza vuota mentre sfila un corteo è cosa «fisiologica». Problemi organizzativi, insomma. «Certo, sarebbero venuti più numerosi se avessimo manifestato per il clima...».
Corriere della Sera 11.6.07
L'addio di Cannavò: con il Prc è finita E altri compagni verranno con me
di Fabrizio Roncone
ROMA — Sabato pomeriggio, onorevole Salvatore Cannavò, mentre era alla testa del corteo che protestava contro George W. Bush, lei ha detto una cosa del tipo: ho una lettera in tasca, ma voglio aspettare ancora qualche ora...
«E qualche ora, in effetti, è passata».
Appunto.
«Beh, sì, insomma: parlavo del mio rapporto con Rifondazione comunista. È un rapporto che, purtroppo, si è spezzato».
Spezzato, onorevole, è un termine un po' vago.
«Voglio dire che, per quanto mi riguarda, considero quella con Rifondazione un'esperienza chiusa, conclusa. Naturalmente, di questo dovrò comunque parlare anche con i compagni che appartengono alla mia corrente...».
«Sinistra critica».
«A settembre terremo la prima conferenza nazionale».
Queste parole, questi progetti rischiano d'essere un duro colpo per il suo partito.
«Guardi, ad essere sinceri, il mio rapporto con il partito si era profondamente modificato già dopo l'espulsione del senatore Turigliatto».
Era noto, in effetti, che lei non...
«Non partecipavo più, di fatto, alla vita del partito. Non prendevo parte alle direzioni, ed ero fuori dalla quotidianità del gruppo parlamentare».
Poi, sabato, si è ritrovato alla guida di un corteo.
«Conta ciò che ho visto, e sentito, e provato dentro...».
Provi a spiegare.
«Mentre io e altri compagni di Rifondazione eravamo in quel magnifico corteo del movimento, che per altro niente ha avuto a che fare con quei cinquanta teppisti, quella marmaglia che... il vertice del partito se ne stava invece isolato, tremendamente isolato, a piazza del Popolo».
Era una scena eloquente, raccontano.
«Lo so. Ho mandato qualcuno dei miei a verificare. Giordano era circondato da poche decine di persone. La verità è che sabato, in modo fotografico, plastico, tutti abbiamo avvertito il fallimento della linea politica di Rifondazione ».
Che sarebbe?
«Essere di lotta e di governo. Vede, c'è una regola non scritta nella politica italiana».
Quale?
«Non puoi stare nel governo e, contemporaneamente, stare dentro ai movimenti. In Italia è un'operazione che non riesce. E Rifondazione, non casualmente, ormai da qualche mese non riesce più a parlare con i luoghi del movimento, con gli operai...».
Lei sta pensando all'accoglienza freddina che gli operai di Mirafiori, alcuni giorni fa, hanno riservato a Franco Giordano e al ministro Paolo Ferrero.
«Chiaro. È stata una giornata tremenda, quella. Se i tuoi compagni, se il tuo elettorato, non ti riconosce più, vuol dire che sei di fronte al fallimento ».
Chi è responsabile di questo fallimento politico?
«L'intero gruppo dirigente».
Riesce ad essere un poco più preciso?
«Fausto Bertinotti».
Che errori ha commesso?
«Due. Innanzitutto ha sottovalutato i reali rapporti di forza di questo Paese. Era convinto, alla vigilia delle elezioni, che il centrosinistra avrebbe stravinto, mentre, come sappiamo, è finita con un sostanziale pareggio».
Poi?
«Era sicuro che le mobilitazioni di massa sarebbero riuscite a condizionare l'attività del governo. Il quale, invece, ha persino ignorato quello che siamo riusciti a scatenare nel Nord-Est, per la vicenda della base Usa di Vicenza».
Qualcuno, nel partito, comincia a pensare che non fu poi strategico proporre Bertinotti alla presidenza della Camera.
«Fu un errore. Clamoroso. Grossolano. Io lo dissi subito. Ma ricordo che molti compagni mi sorridevano, con aria di sufficienza, come se mi sfuggisse qualcosa, come se non capissi».
Lei dice che ora tra Rifondazione e il movimento c'è una frattura e che...
«Senta: avessero un briciolo di percezione della realtà, i dirigenti di Rifondazione convocherebbero subito un congresso straordinario».
Il professor Massimo Cacciari sostiene che Rifondazione è ormai una zavorra per l'Ulivo.
«Ecco, vede? Cacciari ha capito che Rifondazione è in difficoltà, e attacca. Ma loro no, loro provano a risolvere il problema della debolezza alleandosi, fondendosi con altri deboli. Con i Verdi, con il Pdci, con i mussiani. Sa come finirà?».
No. Come?
«Diventeranno la corrente esterna del Partito democratico».
Lei, invece?
«Io, cosa?».
Quanti conta di portarne via, da Rifondazione? E per fare che?
«Ci conteremo alla conferenza nazionale, a settembre».
Al corteo, sabato, sfilavano almeno cinquantamila persone.
«Alt. Questa è una trappola... ma io non ci casco: guardi che noi non abbiamo mica organizzato quel corteo per fondare un partito...».
Senta, onorevole: ora come si comporterà alla Camera?
«Vuol sapere come voterò?».
Già.
«Deciderò di volta in volta. E per capirci: il Ddl Bersani sulle liberalizzazioni, se non verrà modificato, mi batterò per non farlo passare».
Lei è proprio di lotta.
«Sono coerente. Sa, la coerenza, un tempo, era un valore dentro Rifondazione».
Oggi, politicamente, lei come preferisce essere definito?
«Scriva che ero e resto comunista».
il Riformista 11.6.07
Rifondazione si lecca le ferite di piazza
di Ettore Colombo
Il primo turno delle amministrative (i risultati del secondo si sapranno solo oggi) è stato un mezzo disastro. Il “sit-in” di sabato in piazza del Popolo, in occasione della visita di Bush, un flop imbarazzante e, per quanto in parte annunciato, da far saltare i nervi ai più. I risultati della presenza al governo non si vedono o sono parziali risarcimenti per una base che ha “tirato la cinghia” per anni.
Ma Rifondazione comunista non può far altro che masticar amaro, deglutire e cercare di ripartire. A due giorni dal corteo che ha sancito, di fatto, la nascita di un nuovo soggetto politico radical-massimalista, e a quattro giorni dalla presentazione del Dpef a partiti e sindacati, facciamo un check-up di Rifondazione col ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero e il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena.
«È vero, c’era molto popolo di Rifondazione, nel corteo indetto da centri sociali, Cobas, trotzkisti e partitini comunisti vari, non ho nessun problema ad ammetterlo», attacca Russo Spena, «e non solo per la presenza, concordata, dei giovani comunisti e di qualche sezione sparsa o perché senatori come Haidi Giuliani o deputati come Francesco Caruso e Daniele Farina hanno deciso di andare là e sfilare con loro per creare “un ponte” tra le due manifestazioni. No, c’erano compagni di base in carne e ossa: sabato ne ho incontrati parecchi anch’io o l’ho saputo. Continuo a pensare che abbiamo fatto bene a organizzare il sit-in, dove c’erano presenze qualificate di esponenti di sindacati e associazioni, non solo dei partiti, anche se ci aspettavamo qualcosa di più in termini di gente reale, ma abbiamo anche cercato un’interlocuzione con l’altra piazza, nei giorni precedenti. I suoi leader, però, vogliono lanciare un nuovo soggetto politico radicale e massimalista alla sinistra del Prc e hanno cercato il massimo di separatezza».
il Riformista 11.6.07
In Germania la cosa rossa si fa partito
di Paolo Soldini
C’è una Cosa Rossa anche in Germania. O meglio: c’è stata, giacché da domenica prossimo al suo posto ci sarà un partito vero e proprio. Si chiamerà die Linke (la sinistra) e nascerà dalle ceneri di due partiti già esistenti. Uno, la Wahlalternative Arbeit und soziale Gerechtigkeit (alternativa elettorale lavoro e la giustizia sociale, in sigla Wasg), è complicata quasi quanto il nome che porta. È nata nell’ovest della Germania intorno a quella che fu un tempo un’icona della sinistra socialdemocratica, Oskar Lafontaine, e poi è cresciuta raccogliendo tutto quello che è andato maturando negli ultimi tempi nella società e nel mondo del lavoro a sinistra della Spd. L’altro partito è la Pds (Partei des demokratischen Sozialismus, partito del socialismo democratico), erede ufficiale della Sed, il partito-guida che dominò completamente la vita della dittatura comunista nella Rdt, appena mascherata con l’ipocrita finzione di un “sistema pluripartitico” che contemplava una falsa Cdu, un falso partito liberale, un falso partito nazional-democratico, un falso partito dei contadini (il più improbabile di tutti). Quando la Rdt, caduto il Muro, se ne uscì dalla storia dell’Europa e del mondo, nessuno avrebbe scommesso un marco, neppure uno svalutatissimo marco dell’est, sulla sua sopravvivenza, visto che era stato creato in tutta fretta ed era stato fondato per raccogliere iscritti, simpatizzanti (all’epoca pochi), beni immobiliari e conti bancari della vecchia Sed.
l’Unità 11.6.07
Che fine farà la sinistra smarrita?
Lo schieramento progressista soffre di un deficit di egemonia e di un profilo ideale troppo debole
di Bruno Gravagnuolo
DIBATTITI La destra populista e neo-sovversiva lavora alla spallata contro il «governo dei tagli e delle tasse». E il centrosinistra annaspa. Ma è possibile vincere la partita senza una sinistra di massa e a identità forte? Discutiamone assieme
Che fine ha fatto la sinistra? Esiste ancora come campo attivo di valori, oppure è andata smarrita senza che ce ne accorgessimo?
Inevitabile porsi queste domande dopo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative, dopo il caso «Visco-Speciale» e le fibrillazioni della maggioranza che abbiamo visto. Tutte cose che ribadiscono un dato ormai inconfutabile, di là della fragilità di questo governo, frutto di elezioni vinte a metà e pressato da una destra montante.
E il dato è questo: il deficit di egemonia del centrosinistra. Vale a dire, una mancanza di capacità persuasiva verso le forze produttive del Paese. In ordine alla necessità e all’utilità delle ricette adottate.
Le quali appaiono al più inevitabili, dure e «razionali», ma altresì inadeguate a rilanciare lo sviluppo e ad alleviare le condizioni di vita del lavoro dipendente, gravato nell’ultimo quindicennio da perdita del potere d’acquisto, peggioramento del quotidiano e da regresso della mobilità sociale verso l’alto.
Non intendiamo entrare nel merito delle scelte tecniche adottate negli ultimi quindici anni, a partire dai governi Amato e Ciampi e proseguite con qualche continuità dagli esecutivi di centrosinistra fino ad oggi. Scelte segnate dall’emergenza dei conti e dal peso del vincolo internazionale, con gli obblighi dell’Euro in primo piano. E che hanno contribuito a salvare il paese dalla deriva.
Ma è chiaro che la cultura virtuosa dell’emergenza di bilancio non basta. A superare l’ingovernabiltà del paese e il suo bipolarismo selvatico. E ad aiutare questo governo a uscire dalla secche della precarietà, evitando le tante tagliole di cui è disseminata la sua strada. Non basta se la sinistra è smarrita. Se è divenuta ininfluente sul senso comune degli italiani. Incapace di progettualità e visione. Sgretolata e scarsamente radicata. Impotente a costruire consenso attorno a un alfabeto di valori, priva di soggettività di massa e forza propria, debole nel prospettare emancipazione generale e utilità collettiva (non il teologico «Bene comune»). Ebbene, su tutto ciò è giunta l’ora di aprire una discussione seria, senza infingimenti ed eufemismi. Alla quale l’Unità intende riservare ampio spazio, invitando a intervenire chiunque riconosca almeno l’urgenza del tema. Compresi ovviamente coloro che non condividono le considerazioni che stiamo per esporre.
Dunque «sinistra smarrita». Che significa? Significa innanzitutto la fine di un insediamento storico, cementato nel dopoguerra in prevalenza dal Pci. E che gli eredi del Pci sono stati incapaci di rinnovare e aggiornare, senza buttare il bambino e l’acqua sporca. Sicché sull’onda di trasformazioni dirompenti e non governate - che hanno inciso sul suo Dna di massa - la sinistra è approdata via via a un rovesciamento di valori profondo. Che ne ha alterato profilo e vocazione, rendendola subalterna ad altri valori e ad altri paradigmi. Cioè irriconoscibile o insostenibilmente «light», intimamente depotenziata. Proviamo allora a delineare alcuni punti d’approdo di questa «mutazione». Punti che assumiamo in negativo come emblemi di ciò che ai nostri occhi non è sinistra, e né può esserlo.
Primo: «il leaderismo». Ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e «chiave di volta» del bipolarismo. Una tendenza particolarmente esasperata in Italia, inaugurata simbolicamente da Craxi e scissa per lo più dal contrafforte partitico, programmatico e parlamentare. E proprio la particolare versione italica del leaderismo - connessa alle assurdità sul cosiddetto e inesistente «premierato» - ha avuto un ruolo determinante nello «squagliare» la partecipazione quotidiana e di massa nel segno di appartenenze vissute e responsabili. Le quali poi non sono affatto in contrasto con la cittadinanza, ma anzi la potenziano. Come l’esperienza del 900 dimostra. E i risultati sono stati, personalismo, microleaderismo notabilare (in periferia) e infine il «leaderismo senza leader», da cui è affetta l’attuale discussione sul leader del Partito democratico, sorta di cantiere sull’abisso dove di tutto si parla fuorché di politiche per l’Italia. Dunque il leaderismo all’italiana non è di sinistra.
Secondo: «Legge elettorale e mito della governabilità». Non sono di sinistra. Perché quel che conta non è il maggioritrario in sé come panacea. Poiché anche un maggioritario secco - specie nella versione insensata dell’attuale referendum - può confermare e complicare le divisioni di uno schieramento. Può restituire tutta la frammentazione del territorio, rafforzando i capicordata locali, come abbiam visto ad abundantiam. E può moltiplicare i ricatti nei singoli collegi, stante l’utilità marginale anche di poche centinaia di voti. Al contrario, ciò che assicura un minimo di stabilità sono «partiti a baricentro culturale forte», modernamente identitari e laici, e in grado di arginare il sempre risorgente trasformismo.
Terzo: «Monetarismo e politiche di bilancio ermetiche». Non sono di sinistra. Né sotto forma di alti tassi di interesse e bassi salari. Né in termini di blocco della spesa pubblica legata a investimenti, formazione e infrastrutture. Non per caso Jacques Delors propose anni fa di defalcare quelle spese dal calcolo dei parametri di Maastricht. Bene, che ne è stato di quelle raccomandazioni, in una con quelle di Prodi di non impiccarsi a «parametri stupidi»? Perché Berlusconi ha goduto di tante franchigie nel rientro (mancato) dal deficit, e invece Prodi è così «sotto tutela»? Altro invece è il discorso sulle spese improduttive, come quelle di una politica sopradimensionata. E altro gli sprechi, l’assenteismo, e i diritti senza doveri. È qui che occorre intervenire a sanare e a far cessare privilegi scandalosi del ceto politico. Che nulla hanno a che fare con la dignità della politica e delle istituzioni. Inammissibile ad esempio che una legislatura, o due anni di essa, diano diritto a una pensione e non a contributi da sommare. E insostenibile che un assessore di una media città costi allo stato, portaborse inclusi, 20mila euro netti al mese! E sono cose che si conoscevano ben prima del best seller La casta. Queste le vere riforme istituzionali, «di sinistra».
Quarto: «Lavoro e flessibilità». Così come mediamente vengono «declinati» dalla sinistra riformista essi non rispondono a criteri di sinistra. Il lavoro infatti dovrebbe essere il caposaldo e la prima ragione sociale della sinistra, quella da cui nasce e di cui si alimenta. Non già dunque un «fattore» tra gli altri, ma un diritto primario e un orizzonte di valore. Quale? L’emancipazione stessa del lavoro, la sua «auto-padronanza». La sua priorità gerarchica dentro le trasformazioni dell’economia, che non possono ruotare attorno al predominio dell’azienda privata, i cui fini non sono di per sè «interesse generale». Né in linea di fatto né in linea di principio. Quanto alla «flessibilità», è l’economia che deve rendersi flessibile alle esigenze del lavoro, e non il contrario. Legittimandosi la prima - e in termini costituzionali- solo se assicura sviluppo e occupazione, nel rispetto dei vincoli ambientali e dei diritti della comunità. La competizione globale? Un vincolo, certo non aggirabile. Ma un vincolo appunto, e non un obiettivo, una finalità. Vincolo da rispettare facendo crescere insieme impresa e lavoro, nella prospettiva di estendere regole e diritti universali anche ai paesi che non li rispettano. Ed è esattamente questa «l’esportazione della democrazia» che compete alla sinistra. Il resto? È liberismo, magari con la copertura di politiche imperiali e di guerra.
Quinto: «Laicità». Non è di sinistra una laicità intesa come «dialogo» puro e semplice, o come «sana laicità» che assuma al suo interno le «radici cristiane» da privilegiare comunque. Laicità viceversa è la «neutralità attiva» dello stato tra le fedi. Promozione di regole che sono anche valori civici di libertà, solidarietà, criticità della cultura, autonomia della ricerca. Ben venga l’apporto della «sfida religiosa» sui grandi problemi, ma non al punto da comprimere e compromettere quei valori, avanzando la pretesa di penalizzare giuridicamente gli «stili di vita» dei singoli difformi dalla tradizione.
Sesto: «Privatizzazioni». Bene quelle volte all’interesse dei consumatori, e contro privilegi corporativi. Male quelle che annullano il ruolo propulsivo del pubblico nelle alte energie, nei trasporti di massa, nella scuola, nella sanità. E anche nei settori tecnologici avanzati. Nessuno stato nazione - di sinistra o di destra - rinuncia al suo ruolo in molti di questi campi, specie nell’ultimo. Laddove da noi molte privatizzazioni sono state un vero assalto alla diligenza da parte di concentrazioni finanziarie che hanno riversato il debito sugli utenti, e non hanno investito né innovato. Un’amara vicenda, dettata dall’emergenza dei conti, ma che non può essere assunta a stella polare della sinistra. Tutt’altro: molte di queste privatizzazioni erano agli antipodi di un orizzonte di sinistra. Erano «destra». E in più, proprio nel corso di tali processi di privatizzazione, sono emerse a sinistra tendenze a favore dei nuovi contendenti, per ridefinire la geografia del potere economico, e al fine illusorio di tracciare la mappa di un «nuovo capitalismo» (ma era vecchissimo!)
Infine, il «Partito democratico». Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un’occasione straordinaria, una «fusione di riformismi» per dare stabilità e forza al centrosinistra. E invece rischia di apparire come un «errore di sistema»: destabilizzante e non aggregante. Una ricaduta fatale nel vecchio schema dei partiti parlamentari, notabilari e leaderistici dell’Italia post-unitaria. Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta. Vuol dire: fine della politica organizzata sul territorio. Della capacità di costruire un blocco sociale democratico attorno al lavoro dipendente, da contrapporre al nuovo blocco dell’individualismo proprietario di destra e al suo «neo-sovversivismo». Fine della selezione dei quadri dirigenti e della trasmissione della memoria tra le generazioni. Fine della sinistra con testa, braccia e gambe, come organismo pensante dotato di autonoma personalità e ideali. Della sinistra intesa come emancipazione delle classi subalterne: tutto a favore di una sinistra della mera inclusione liberale al banchetto dell’economia. Una sinistra «light» e di opinione. Ovvero: cittadinanza e consumi rescissi dal lavoro e dal potere. Non solo quindi si è liquefatto il cattolicesimo democratico e laico, assieme alla tradizione organizzata della sinistra storica. Ma si sono accresciute le divisioni in seno al nuovo aggregato in costruzione. Cantiere sull’abisso e «Azione parallela» generica, i cui conflitti interni si ribaltano sull’esile tenuta dell’esecutivo. Con il risultato acclarato di aver ristretto il potenziale del cosiddetto «timone riformista» dentro la coalizione. A vantaggio di disincanto, astensioni e scissioni, e del rafforzamento del versante più radicale del centrosinistra. Dubitiamo che il lancio delle primarie - dimidiate e frenate dalla leadership in carica - possa far lievitare il «cantiere sull’abisso». Fatto sta che al momento tutto si concentra su giochi procedurali chiusi, e rivalità personalistiche. Mentre intanto la destra lavora alla spallata contro il «governo delle tasse e dei tagli» («lavoro sporco» di cui si gioverà). Governo inviso all’impresa, e che non sfonda tra il popolo. Sinistra smarrita: eccolo il vero «riformismo senza popolo». Al quale non s’è posto rimedio, dopo il tanto parlarne. Eppure è tempo di trovarlo quel rimedio e ripensare tutto quel che non funziona, anche a costo di clamorose conversioni ad U. Di questo è urgente parlare, di questo vogliamo discutere. Su l’Unità, adesso.
l’Unità 11.6.07
«Ora niente più sconti al governo»
Sconfitta in piazza, la sinistra radicale rilancia: su pensioni, lavoro, Dpef sarà battaglia
di Simone Collini
DOPO LA VISITA DI BUSH rischia di diventare ancora più complicata la vita del governo Prodi. Il problema non è tanto l’abbraccio con cui il premier ha accolto il presidente Usa a Piazza Colonna, che pure è piaciuto assai poco alla sinistra radicale ma che rimane una fotografia da consegnare al passato. Il problema è quello che si è visto in un’altra piazza romana, e il futuro a cui guardano con preoccupazione Rifondazione comunista, Verdi e Pdci. Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio hanno dato appuntamento ai loro militanti e simpatizzanti in Piazza del Popolo, dove si è svolto un sit-in di protesta contro Bush ma non contro il governo. Solo che militanti e simpatizzanti per la maggior parte o sono restati a casa o hanno sfilato nel corteo “No-War”, che aveva una piattaforma critica tanto con l’amministrazione statunitense quanto con l’esecutivo Prodi. Un brutto segnale per i tre leader, che andando ad aggiungersi ai deludenti risultati delle amministrative ha fatto scattare nell’ala sinistra dell’Unione quello che sarebbe un eufemismo definire un campanello d’allarme. E le cui onde sonore investiranno ora Palazzo Chigi, dal momento che la soluzione al problema della perdita di consenso Prc, Pdci e Verdi l’hanno già individuata: non è chiara la «discontinuità» rispetto al governo precedente, a questo punto serve una «svolta sociale» nell’azione di governo. E insistendo su questi due concetti la sinistra radicale aprirà già dai prossimi giorni una serie di fronti sul terreno del Dpef, della riforma delle pensioni, della legge sul lavoro, tornando poi anche su questioni come la base Usa di Vicenza, la Tav, le missioni all’estero, le spese militari. Con un avvertimento lanciato dal Prc Russo Spena: «Non possiamo più fare sconti a nessuno».
I passi da compiere Diliberto li ha già annunciati ai suoi, a cominciare dalle richieste che porterà al vertice di maggioranza sul Dpef che si farà venerdì. «Il malessere sociale è grande, bisogna far capire meglio che il governo è cambiato». E questo si fa, secondo il segretario dei Comunisti italiani, intervenendo sui salari e sulla legge Biagi, abolendo lo scalone previsto dalla riforma Maroni e dicendo no a qualsiasi ipotesi di aumento dell’età pensionabile.
«Dopo la visita di Bush e le manifestazioni di ieri è necessario rafforzare le politiche pacifiste e antimilitariste», dice il Verde Paolo Cento annunciando che darà battaglia per una «riduzione delle spese militari» già nel Dpef. Il sottosegretario all’Economia prende anche atto della disparità numerica tra le due manifestazioni, e senza troppi giri di parole ne indica il motivo: «C’è una fetta rilevante del popolo pacifista che non si accontenta della discontinuità che fino ad oggi vi è stata tra la politica del governo Prodi e quella del precedente governo Berlusconi». Inoltre, per rimanere in campo Verde, se il ministro dell’Economia Padoa Schioppa si dice convinto che «la Tav passerà al di qua delle Alpi», il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio rimane in attesa delle valutazioni dell’osservatorio tecnico, ribadendo nel frattempo che «si farà, ma non sulla pelle dei cittadini della Val di Susa» e che resta il suo no al mega tunnel.
A soffrire particolarmente in questa situazione è Rifondazione comunista, il partito che più ha lavorato per aprire un dialogo con i movimenti e che dopo un anno della sua prima esperienza di governo si ritrova con un netto calo di consensi alle urne. Serve «un colpo d’ala», dice Russo Spena, a partire dal Dpef e dalle pensioni, altrimenti «i fautori delle larghe intese avranno più forza e Prodi tra qualche mese potrebbe essere costretto a passare la mano». Per il capogruppo del Prc al Senato ora serve «un confronto molto serrato» nella maggioranza, perché nell’Unione ci sono «due linee» che ora toccherà al premier portare a sintesi: «Io spero che Prodi ci riesca. Certo, se viene fuori un Dpef subalterno al programma di Confindustria, il clima diventa infuocato. Non possiamo più fare sconti a nessuno». Anche perché di questo passo rischiano di fare breccia le pressioni sul Prc a rompere con l’esecutivo. Che non mancano, a cominciare da quelle che puntualmente arrivano da Marco Ferrando, ex trotzkista Prc e fondatore del Partito comunista dei lavoratori.
A trovarsi in una situazione delicata, in questo momento, è anche Sinistra democratica. Il movimento politico fondato da Mussi, Salvi e Angius non ha aderito a nessuna delle due manifestazioni. Ma se era nato con l’obiettivo di unire tutte le forze di sinistra, partiti e movimenti, partendo dal fatto inedito che oggi sono tutte al governo, la situazione che si è venuta creando di certo non aiuta. La capogruppo alla Camera di Sd Titti Di Salvo esclude «contraccolpi» sull’esecutivo dopo il flop di Piazza del Popolo, ma sottolinea anche lei che a questo punto bisogna attivarsi per un «recupero del consenso»: «Serve una svolta sociale nell’azione di governo. Lo dice non solo il risultato delle elezioni, ma anche il rapporto Istat, che segnala la presenza in Italia di indici di disuguaglianza molto forti, accompagnati da un profondo disagio sociale». E anche in questo caso le precondizioni sono l’abolizione dello scalone e il no all’aumento dell’età pensionabile. E il banco di prova più immediato il vertice di venerdì sul Dpef.
l’Unità 11.6.07
Gennaro Migliore, il capogruppo Prc: inizieremo subito un dialogo con i movimenti.
Ma il rischio è che i nostri elettori siano tentati da Berlusconi
«Il punto non è Bush. Ma le politiche sociali»
di Enrico Fierro
La gioia per la promozione del «suo» Napoli in serie A. La delusione per le lacerazioni e i toni aspri di una discussione che si preannuncia infinita sul dopo corteo di sabato. Anti-Bush, ma anche - e a tratti soprattutto - anti-Prodi e anti-Bertinotti. La domenica di Gennaro Migliore, classe 1968 e capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, è carica di sentimenti contrastanti. A noi tocca rovinare la festa calcistica.
Onorevole, Marco Ferrando dice che per voi è venuto il momento di smarcarvi da Prodi.
«Rispetto tutti, ma mi manca la fantasia per pensare a Ferrando come leader di qualcosa in grado di dare lezioni. Preferisco ascoltare il mondo che ha partecipato a quel corteo pacifista».
Già ma il corteo di sabato è riuscito, il sit-in della sinistra di lotta e di governo no.
«Ho ben presente i pensieri e le tensioni di quanti sabato hanno sfilato per le strade di Roma per manifestare contro Bush e per chiedere politiche di pace. C’erano anche molti iscritti al mio partito con le bandiere di Rifondazione. Noi avevamo proposto una iniziativa unitaria che non è stata accettata. Evidentemente c’era chi voleva fare un uso politico, politicista, di quelle pulsioni e del corteo. Diciamo la verità, hanno aspettato Bush per fare una manifestazione contro Rifondazione. Detto questo, non mi nascondo le nostre responsabilità. Avremmo dovuto impegnarci di più per una iniziativa più grande e unitaria. Ma un dato è certo: lavoreremo per l’unità con i movimenti, ascolteremo di più le mille voci che vengono da quel mondo».
E’ impressione diffusa che stare al governo non vi faccia bene. State pagando un prezzo troppo alto a Prodi. Il voto delle amministrative sta lì a dimostrarlo.
«Perdiamo, ma non per la politica estera. Il vero campanello d’allarme è sulle politiche sociali. È qui che bisogna aprire una fase nuova e correggere a sinistra l’asse della politica economica del governo».
Giusto, ma come la mette con il ministro Padoa Schioppa?
«Diciamo che la mettiamo e la metteremo. Perché quando il ministro afferma che il sindacato o si rinnova o si estingue, e lascio ai lettori immaginare cosa intenda per rinnovamento, candida il governo alla disfatta. Nella prossima riunione sul Dpef chiederemo che si facciano scelte tutte orientate a politiche di redistribuzione sociale. Ci sono le risorse e sono il frutto di una finanziaria pesante che abbiamo sostenuto. Ora, per favore, non dividiamoci su come investirle in un piano di vero risarcimento sociale».
E Confindustria? E Montezemolo?
«Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto cinque miliardi di euro con il cuneo fiscale, ora tocca a chi ha di meno. Ora il governo deve ascoltare gli operai Fiat da Pomigliano a Mirafiori, i lavoratori con i salari e le pensioni più basse, i giovani disoccupati, la gente strozzata da affitti altissimi e quelle fette di ceto medio che rischiano di scivolare agli ultimi posti della scala sociale. Questa è la vera svolta che la nostra gente si aspetta. Vede, la cosa che mi allarma è che le parole del ministro del Tesoro hanno sempre, se posso dire così, un segno di classe. Non parlano mai alla base, alla gente che pure ha votato per questo governo consentendogli di fare il ministro».
Lo scrittore Marco Revelli disegna scenari inquietanti per la sinistra, dice che ormai avete rotto tutti i ponti con i movimenti, che dietro l’angolo c’è il riflusso degli anni Ottanta, che la situazione è irreversibile.
«Sono solo in parte d’accordo con Revelli. Certo, quando c’è una esasperazione delle posizioni politiche il rischio di passivizzazione dei militanti e dell’elettorato è dietro l’angolo. Ma la situazione non è irreversibile. Da subito inizieremo un confronto con i movimenti, stiamo avviandoci verso un importante momento di confronto anche tra le forze della sinistra che non si riconoscono nel partito democratico, ma il rischio che vedo è un altro, ben più grave. Quando la disaffezione alla politica riguarda ampi ceti popolari, alle porte non c’è il riflusso, ma il sostegno a politiche reazionarie. Per dirla tutta: il rischio è che i nostri elettori votino per Berlusconi. Se permette, mi preoccupo più di questo che di Ferrando e Cannavò».
Repubblica 11.6.07
Giordano, leader di Rifondazione: difendiamo gli elettori del centrosinistra o saremo travolti tutti
"Mai più due piazze della sinistra e Prodi non stia in mezzo al guado"
di Goffredo De Marchis
Gli obiettivi. Abolire lo scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev'essere inserito nel Dpef
I movimenti. La prossima volta saremo con i movimenti, anche se le parole d'ordine non dovessero convincerci
Noi e Cacciari. Dice che noi siamo conservatori, ma la società disegnata da lui è il Medioevo. È frustrato per il Pd
ROMA - «A Prodi voglio dire una cosa sola: non si può più stare in mezzo al guado. Bisogna difendere il nostro blocco sociale di riferimento e avviare, già a partire dal Dpef, una politica di risarcimento sociale. Altrimenti saremo travolti tutti». È il giorno dopo il flop della manifestazione no war, della "piazzetta" del Popolo presidiata da pochi militanti di Prc, Verdi e Pdci e dai loro leader contrapposta al corteo dei movimenti. «Mai più due piazze», annuncia il segretario di Rifondazione Franco Giordano. «La prossima volta saremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci». Ma le difficoltà di Rifondazione rischiano ora di ripercuotersi sull´esecutivo. Perché i comunisti spostano la loro attenzione sulle politiche sociali ed economiche. E chiedono il rispetto del programma.
Ha pensato che la piazza vuota di sabato fa il paio con il calo di Prc alle amministrative?
«Non vedo il collegamento. Il voto amministrativo è senza dubbio per noi un campanello d´allarme certificato. Lo è anche per altri e la voragine del Partito democratico è lampante, ma io guardo al mio partito. A Piazza del Popolo la partecipazione era inadeguata, certo. Ma, ripeto, la nostra era una kermesse e non c´è mai stata una contrapposizione con il corteo no war. Chi lo dice sbaglia bersaglio, non coglie l´elemento di fondo di quel corteo che è un elemento unitario».
Perché stavate da un´altra parte, allora? Forse perché siete diventati più di governo che di lotta?
«Prc voleva costruire una piattaforma unitaria e partecipare al corteo. Ci è stato detto che no, che non volevano. A quel punto abbiamo fatto un passo indietro perché non volevamo diventare motivo di tensione. Ma in quella manifestazione c´era gran parte del nostro popolo, lo so bene. Lo so così bene che posso dire di più: la massima partecipazione, sia alla partenza sia all´arrivo, è stata garantita da noi, da Rifondazione comunista».
Eppure molti slogan erano contro Prc, alcuni pensano che da quel corteo si possa lavorare per dare vita a un nuovo soggetto alla vostra sinistra.
«A sentire gli stessi esponenti, che sono iperpolemici con noi, pare proprio che non sia così. E poi penso che l´autonomia dei movimenti vale sempre. Nei confronti di Rifondazione, del governo e anche di chi vorrebbe sovrapporsi a loro per i suoi piccoli interessi politici».
Cacciari comunque dice che il vostro flop è un ottima notizia per le sorti del centrosinistra.
«Ho letto. Dice che noi siamo conservatori. Ma la società disegnata da lui è il Medioevo! Taglio delle pensioni, privatizzazioni... E la riforma istituzionale? Ci aveva pensato Craxi 25 anni prima di Cacciari. La verità è un´altra: il sindaco scarica su di noi la frustrazione di un sogno infranto, il Pd di cui vorrebbe tanto essere protagonista. Quanto al suo rapporto con i no global lo conosciamo bene: è quello delle pacche sulla spalle. Voi vi occupate dell´idealità ma non disturbate il manovratore che deve governare. Questo è. Una logica paternalistica che non ci appartiene».
Cacciari o no, si è rotto qualcosa nel vostro feeling con i movimenti?
«Noi lavoreremo per la ricomposizione. E non ci sarà più qualcuno che impedirà i processi unitari. Lavoreremo anche unilateralmente per evitare divisioni e le due piazze di sabato. A partire dai prossimi appuntamenti sul terreno pacifista e internazionale. Detto questo, pur mantenendo la critica all´azione di governo alcune cose vanno riconosciute: l´uscita dall´Iraq, che è molto, e per stare a momenti più recenti, la pubblicizzazione dell´acqua. Un risultato importantissimo. È una di quelle liberalizzazioni mancate che mi fanno apparire vecchio a Cacciari e invece mi rendono felice».
È giusto aspettarsi adesso un´offensiva della sinistra radicale contro il resto della maggioranza su tesoretto, pensioni, lavoro?
«Non vogliamo il cortocircuito tra le nostre difficoltà attuali e le politiche sociali. Ci stiamo preparando da tempo ad essere chiari sul fronte economico, per essere sinceri. Il campanello d´allarme delle amministrative è univoco, suona per tutti. C´è un problema drammatico delle classe popolari. Di disincanto e di disaffezione, un elemento acuto di sofferenza. In tante parte del Nord, ma non solo».
Ma per superare questa crisi le ricette dentro l´Unione sono molto diverse.
«Ne esiste una sola. Per tornare a dialogare con quei settori dobbiamo essere limpidi e dare seguito alle promesse della campagna elettorale: abolizione dello scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev´essere nel Dpef, a cominciare dall´extragettito. È evidente una spinta fortissima da parte di certi settori, di cui Montezemolo è il portavoce, di utilizzare quelle risorse evitando la redistribuzione sociale. Sarebbe il programma di un governo istituzionale. Prodi dunque non deve più stare in mezzo al guado».
l'Unità 11.6.07
Narcisista e border line, identikit del pedofilo
di Luigi Cancrini
Caro Cancrini,
la trasmissione di Santoro ha aperto gli occhi di tutti su un problema grave, quello legato ai preti che praticano la pedofilia e sul modo in cui la Chiesa li ha protetti finora. Monsignor Fisichella, in trasmissione, ha detto con chiarezza che quei preti «non avrebbero mai dovuto diventare preti». Dal giorno in cui ho visto quelle immagini e sentito quei discorsi, tuttavia, ho due domande che mi girano nella testa. Sono davvero tanti i pedofili? Che dobbiamo pensare di loro? E soprattutto, che potremmo o dovremmo fare per loro?
F.B.
Un convegno promosso dalla Commissione Europea pochi giorni fa a Berlino propone alcune risposte interessanti per i suoi quesiti. Glieli riassumerò qui brevemente.
Sulla diffusione della pedofilia, prima di tutto, un intervento illuminante è stato quello di Peter Vogt che distingue la diffusione nel mondo della pedopornografia su strade commerciali e “non commerciali” utilizzando a titolo di esempio due situazioni approfondite dalla polizia della Sassonia. Nel primo caso, considerato “non commerciale”, il fondatore di un gruppo che scambiava foto e video pedopornografici su internet, era un giovane di 26 anni, pedofilo per sua dichiarazione, che disponeva di un solo, normale, computer. Su richiesta del Tribunale la Microsoft Corporation di cui si serviva accertò che questa singola persona disponeva di 26.536 file pedopornografici, di 36.602 accessi (email account entries) e di 12 gigabyte di file pari a 197 Km di carta. I corrispondenti identificati erano 26.000 e abitavano in 150 Paesi diversi. L’indagine durò un anno e utilizzò dieci funzionari a tempo pieno. I risultati furono straordinarii, tuttavia, se si pensa che nella sola Germania, 14 bambini vennero salvati con interventi portati avanti nelle case dei pedofili così identificati.
Nel secondo caso, dichiaratamente commerciale, quello investigato nel 2006 dal Tribunale di Halle fu un portale pedopornografico. L’ammontare della somma pagata per entrare in quel portale fu ricostruito con l’aiuto delle compagnie che gestiscono più di 20 milioni di carte di credito in Germania. Riportando al complesso dei portali pedopornografici accessibili in quel periodo i dati ottenuti su questo portale, si arriva a calcolare un movimento annuo di 4 milioni di dollari per 50.000 accessi effettuati da almeno 25.000 clienti.
Gli esempi sono interessanti, mi pare, per dare un’idea della diffusione progressivamente più grande e ad oggi davvero impressionante di un fenomeno di cui si parla spesso fugacemente anche in Italia quando il gruppo operativo coordinato dal dott. Vulpiani presso il ministero degli Interni propone i risultati di una sua indagine. Quello su cui è interessante riflettere, tuttavia, è il rapporto che lega la pedofilia virtuale a quella reale, quella di cui in queste ultime settimane soprattutto si è parlato da noi.
Dicendo prima di tutto che le immagini che girano su internet, per hobby o a pagamento, sono immagini di bambini reali. Bambini che hanno la sfortuna di nascere nei Paesi poveri del mondo (quelli, per intenderci, in cui esiste la pratica del turismo sessuale) ma bambini che nascono e/o vivono sempre più spesso, però, anche in Europa. Nei luoghi dell’emigrazione recente, e in quelli, più in generale, dell’emarginazione e della povertà: morale e/o economica. Il che vuol dire che la pedopornografia virtuale, con il suo enorme giro di soldi, si regge su una serie di crimini che sono, tuttavia, assai difficile da scoprire e da portare in Tribunale. Pochi sono i bambini che hanno la possibilità e/o la forza di fare delle denunce, infatti, e molti meno ancora sono quelli alla cui denuncia si crede: arrivando a delle condanne. Ma dicendo anche, con forza, che i partecipanti al seminario della Commissione Europea hanno insistito sul modo in cui la pedopornografia via internet funziona, per la facilità e la frequente impunità dell’accesso, come un punto di partenza di fantasie malate e come occasione di sviluppo di comportamenti pedofili più strutturati e più pericolosi. Dal virtuale al reale, quello che cresce è il bisogno di soddisfare appetiti e/o desideri che un numero progressivamente più grande di persone si accorge di avere o di poter suscitare dentro di sé. Soffrendone, a volte, perché sempre più frequente è la richiesta di aiuto terapeutico di persone (già giudicate o che hanno più semplicemente paura di non dominare i loro istinti) ai centri specializzati che alcuni paesi (ma non il nostro) stanno mettendo in opera. Come ben documentato nel corso dello stesso congresso di Berlino da un gruppo di ricerca che ha avuto modo di prendere in carico, negli ultimi tempi, più di 500 persone, mettendo in opera strategie estremamente interessanti di trattamento.
È su questo dato, in effetti, che bisogna riflettere per rispondere al suo secondo quesito. Dicendo risolutamente che quella da modificare è l’ottica con cui sinora si è guardato al problema della pedofilia.
Autori di reati gravi, le persone che mettono in opera comportamenti pedofili, reali o virtuali, sono stati considerati fino ad oggi solo dei “mostri” o delle persone “cattive”. Quelle che si propongono nei loro confronti sono, dunque, una definizione di ordine morale e una risposta di tipo giudiziario. Senza prendere in considerazione, dunque, le radici psicopatologiche del loro comportamento e senza rendersi conto sino in fondo del fatto che, così facendo, nulla si fa di concreto per evitare (a) che tendenze malate appagate su internet si traducano in reati concreti contro altri bambini e (b) che il pedofilo eventualmente scoperto e condannato non torni, dopo aver espiato la pena, a commettere gli stessi reati. Prevenire è, in casi di questo genere, soprattutto curare. All’interno di una situazione concreta in cui il trattamento deve prevedere insieme la punizione, sul piano civile e penale, e il lavoro terapeutico con la persona.
Affetto da forme diverse di disturbo della personalità, con prevalenza alternata di tratti border line, narcisistici o antisociali, l’insieme delle persone coinvolte oggi nella pedofilia, virtuale e reale, costituiscono un problema di grande importanza per il futuro di un Paese civile. Da affrontare con grande serietà ed impegno. Cercando di utilizzare l’ondata emozionale destata dai fatti di cronaca per ragionare concretamente, come sinora assai poco si è fatto, sulle iniziative da prendere più che per solleticare la curiosità non sempre sana di un pubblico che si appassiona o si scandalizza nel dibattito sui “mostri” e/o sui bambini della cui memoria, secondo alcuni, non ci si dovrebbe fidare.