lunedì 11 giugno 2007

Repubblica 11.6.07
Il paradosso delle sinistre
di Edmondo Berselli


Se si vuole un´immagine plastica della crisi della sinistra radicale, o come si voglia chiamarla, sinistra «alternativa», «antagonista», «altermondialista», basta mettere a fuoco le due piazze separate in cui è confluita la protesta contro il presidente americano Bush: in Piazza del Popolo la sinistra alternativa di governo, con i Russo Spena e i Diliberto; in Piazza Navona la sinistra alternativa di lotta, in cui spiccavano trotzkisti come Marco Ferrando ed esponenti della disobbedienza come Francesco Caruso e Haidi Giuliani. La sintesi l´ha offerta una delle madonne dell´ultrasinistra storica, Franca Rame andandosene da Piazza Navona: «La politica è una cosa schifosa», spiegando che quest´ultimo anno, passato nelle istituzioni, è stato il peggiore della sua vita.
Da qualsiasi ragione fosse dettato questo giudizio, nella sua emotività sintetizza lo stato d´animo di una parte della sinistra alternativa, quella che si è assunta un compito di governo, e si trova a vivacchiare di compromessi quotidiani nelle aule parlamentari. Certo, la figura di Fausto Bertinotti si staglia sullo scranno della presidenza della Camera, a testimonianza del lungo viaggio che ha portato il movimento a farsi istituzione: è stato il socialista non marxista Bertinotti che prima è riuscito a rinnovare il profilo politico di Rifondazione comunista, sottraendo il partito alle grisaglie postcomuniste, e poi ha completato la sua lunga marcia iscrivendo il Prc nel sistema istituzionale.
La scommessa di Bertinotti è stata uno dei progetti politici più coraggiosi e razionali che si siano visti nel nostro paese. Con fermezza, il leader ha decomunistizzato Rifondazione, facendone un partito esplicitamente non violento, in cui la radicalità è uno stile di pensiero generale più che un modello di comportamento collettivo. Per riuscirci, Bertinotti ha dovuto accettare il confronto con la prassi, il compromesso, il negoziato. Fra l´altro ha accettato anche di partecipare alle primarie dell´Unione contro Prodi, nell´ottobre del 2005, contribuendo così, con il 15 per cento dei suoi voti, a definire il perimetro dell´alleanza di centrosinistra.
Va da sé che per buona parte della sinistra di movimento questa scelta è apparsa come una rinuncia. Il movimento no global, la moltitudine di lotta e dei centri sociali che è confluita sabato in Piazza Navona non si convince facilmente che la scelta «ministeriale» effettuata da Rifondazione sia efficace. Vuole le mani libere, per poter esprimere nel modo più adeguato il suo potenziale di contestazione.
Finora Bertinotti non ha praticamente mai ecceduto dai limiti anche di galateo della sua carica. Anche certi improvvisi acuti, risultati un po´ striduli come il giudizio sul capitalismo italiano «impresentabile» in seguito alla vicenda Telecom, sembrano appartenere all´animo sindacalista del presidente della Camera, una voce dal sen fuggita che non gli preclude viceversa di esprimere apprezzamenti verso l´approccio industrialista del leader della Fiat Sergio Marchionne.
Ma in questo modo Rifondazione ha visto impallidire la sua caratteristica fondamentale. Cioè di essere il partito che presidia l´area della sinistra radicale, che ne filtra tutti gli umori e li riconduce nel circuito della politica ufficiale. I primi segnali concreti della perdita di questo ruolo si erano avuti in seguito alla dissidenza interna sulla politica estera, come nel caso del senatore Franco Turigliatto, uscito dal Prc in quanto postosi «fuori dalla comunità di Rifondazione», secondo le parole della segreteria (con Franco Giordano che lo giudicava «incompatibile» con il partito).
Tutto questo pone problemi seri non soltanto al Prc, che pure dopo il cattivo risultato elettorale delle amministrative di fine maggio si è vista recapitare dall´ala dura atti d´accusa molto aspri sulla «totale indeterminatezza del suo governismo». C´è da tenere conto innanzitutto di una sindrome di disaffezione verso i partiti della sinistra, che la nuova separatezza, resa simbolicamente forte dalle due piazze di Roma, potrebbe intensificare. Ci sono processi in corso nel mondo sindacale, particolarmente dentro la Cgil (in cui la Fiom ha acquistato la consistenza di un quasi-partito), in cui il cammino, o la "deriva", verso il Pd viene giudicato un cedimento alla subalternità neocentrista.
Ma ovviamente lo scenario decisivo dipende dall´evoluzione delle molte sinistre che si stanno disegnando dopo il via al Pd. C´è in atto una sorta di costituente socialista; occorre verificare quale sarà l´approdo di Sinistra democratica, cioè la diaspora diessina guidata da Fabio Mussi; inoltre il cantiere della sinistra coinvolge Verdi e Comunisti italiani, e impone una riflessione senza sconti a Rifondazione comunista. Perché il «governismo», se non incorpora elementi di dinamismo politico, significa in fondo una politica banale: da un lato richieste solidariste di destinare l´extragettito alle fasce sociali «verso cui siamo in debito», come dice il ministro Paolo Ferrero; dall´altro l´opposizione strisciante in aula alle misure di liberalizzazione, talvolta con il contributo di alcune aree corporative del Polo.
L´argomento da mettere sotto osservazione, allora, è una nuova versione del «paradosso delle due sinistre». Secondo cui la sinistra alternativa «istituzionale» non è mai stata così ampia in Parlamento e così debole nell´arena pubblica. Perché rispetto all´opacità del lavoro nelle istituzioni, l´unico antagonismo identificabile è quello dei Caruso, con la sua capacità di mobilitarsi e di puntare sul conflitto. E si sa che quando l´unica alternativa davvero visibile è quella dell´estremismo politico, la vita della sinistra istituzionale, di qualsiasi sinistra si tratti, tende a farsi ogni giorno più difficile.

Repubblica 11.6.07
D’Alema ha detto


(...) Ma l´altra lezione americana, forse quella più importante, riguarda la sinistra. «Il vero evento di questo fine settimana - sostiene D´Alema - è stato il fallimento del corteo della sinistra radicale. Io l´avevo detto: se avete delle critiche da muovere a Bush, c´è già un governo che se ne assume la responsabilità, e che gliele esprime apertamente. A cosa serve l´inutile rito della piazza?». Ora la disperata "sinistra a due piazze" deve riflettere. «Io spero che Rifondazione, il Pdci, i Verdi, traggano il giusto insegnamento da quello che è accaduto. Loro si devono rendere conto che il giochino che chi sta al governo poi va anche a fare i cortei per la strada non funziona più. L´opinione pubblica non lo capisce, e quindi non lo approva». Ma questo, va da sé, per partiti che hanno fatto del "movimento" la loro ragion d´essere significa quasi rinnegare una tradizione politica. «Parliamoci chiaro: il "partito di lotta e di governo" non è e non può più essere attuale. Quella è stata un´idea geniale di Palmiro Togliatti: sapendo bene che il Pci non sarebbe mai andato al governo, aveva coniato la formula per tenercelo agganciato, evitando che gli sfuggisse per la via dell´estremismo. Oggi quella stagione è morta e sepolta. Oggi noi ci stiamo, al governo. E allora abbiamo solo un dovere: governare, e non scendere in piazza».
Il paradosso, nelle condizioni date e con il rischio che oggi l´Unione perda anche la provincia di Genova, è che i Giordano, i Pecoraro e i Diliberto possano invece trarre da quello che è successo la lezione esattamente opposta: perdiamo consensi perché siamo troppo "governativi". Se fosse così, per Prodi sarebbero guai seri. D´Alema vede il rischio: «Certo, il pericolo che si generi un certo nervosismo esiste senz´altro. Sulle pensioni e sul Dpef potrebbero scaricarsi nuove tensioni. Io spero che non facciano questo errore, spero che non si facciano tentare dall´idea di "spostare più a sinistra l´asse di governo", come si usa dire. Non è di questo che c´è bisogno. C´è bisogno di assecondare la crescita, e di tarare l´azione del centrosinistra sull´idea di una vera e propria "ripartenza". Queste serve, mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini…». Questa, al contrario delle precedenti, è una tipica "lezione italiana" (...).
(stralcio da un articolo che appare oggi su Repubblica)

Corriere della Sera 11.6.07
Rifondazione, la tentazione dello «strappo»
Giordano e lo choc della piazza vuota: un cambio subito o il governo sarà in difficoltà
di Monica Guerzoni


ROMA — E adesso, dopo lo choc dell'immensa piazza vuota, Rifondazione ha paura. I consensi elettorali sono in calo, il movimento va per la sua strada e dentro il partito torna ad agitarsi la tentazione dello strappo, la «necessità» di rompere con Romano Prodi e il suo governo. Timori che riecheggiano nell'avvertimento di Franco Giordano agli alleati dell'ala moderata. «Sulla politica economica e sociale chiediamo una netta inversione di tendenza — vuole una svolta a sinistra il segretario del Prc —. Serve uno scarto, un salto di qualità o l'intero governo rischia di trovarsi in enorme difficoltà con gran parte del nostro popolo».
La difficoltà c'è già, era scritta nei volti e negli slogan dei manifestanti, migliaia, in marcia contro Bush e contro Prodi fino a piazza Navona. Immagini che il capogruppo dei senatori di Rifondazione, Giovanni Russo Spena, confida di aver guardato più volte in dvd. «C'erano tanti dei nostri, tanti del Prc...». E le pare un bel segnale, presidente? «No, è evidente che c'è un problema di contenuti, il nostro popolo vive un malessere, è quello che soffre di più la mediazione continua» ammette Russo Spena e guarda al passaggio «stretto e delicato» che attende la sinistra e il governo.
Sono quattro gli appuntamenti chiave, dai quali dipende la scelta di Rifondazione: restare o lasciare? «Per decidere dobbiamo consultare il nostro popolo, che non vede un governo di rottura — risponde Russo Spena —. Su extragettito, salari, dpef e pensioni il nostro atteggiamento cambia profondamente. Basta mediazioni. Non faremo sconti. Noi non siamo, come vorrebbe Rutelli, l'intendenza che segue».
Toni nuovi, bruschi. Il segno di una sfida per la sopravvivenza lanciata ai riformisti del Partito democratico e allo stesso Prodi. Il livello di allarme è altissimo, oggi Giordano riunirà la segreteria, analizzerà i risultati dei ballottaggi e il malumore verrà fuori, anche dalla maggioranza. «C'è un grande problema di politica economica — riconosce il sottosegretario allo Sviluppo, Alfonso Gianni — Senza una svolta si apriranno problemi consistenti». Non sfugge a Claudio Grassi che «il Prc sta soffrendo» e i risultati elettorali «sono preoccupanti». Uscire dal governo? «Difficile, sarebbe un trauma — teme il leader dell'area de l'Ernesto, che ultimamente si è riavvicinata a Giordano — Ma se con le imminenti scelte economiche non otterremo qualcosa, la situazione diventerà ingestibile».
Va ancora oltre il senatore Fosco Giannini, che sabato ha sfilato con Disobbedienti e centri sociali. Parla di «tracollo elettorale» e di «partito dimezzato», paventa una «insurrezione» in Calabria dove «la gente muore di fame» e conclude: «Questo governo non risponde alle speranze che abbiamo seminato, Prodi non può farci pagare altri prezzi. Le pensioni? Se non cancellano lo scalone non le votiamo». Ad aprile il Prc andrà a congresso e lo scontro, durissimo, è già iniziato. Fausto Bertinotti, sia pure col distacco richiesto all'alto incarico istituzionale, segue con attenzione l'ascesa di giovani «leoni» come De Cristofaro, Pecorini, Fratoianni, De Palma e Gennaro Migliore, il capogruppo alla Camera che il presidente vorrebbe segretario. Ma Franco Giordano darà battaglia.
E intanto il movimento si smarca dai partiti. Autonomo. Tentato di farsi partito a sua volta, a costo di infliggere al Prc una dolorosa scissione. I numeri ci sono. Giorgio Cremaschi porterebbe in dote un pezzo di Fiom, Piero Bernocchi i Cobas, Luca Casarini i Disobbedienti, Cannavò e Malabarba la minoranza di Sinistra critica e a quel punto non è detto che Giannini e Pegolo, con la loro fetta di «Ernesto», saprebbero resistere al fascino della rottura. Giordano fa scongiuri: «Non esiste un partito del movimento, non ci sarà mai».
Il flop di piazza del Popolo costringe a interrogarsi pure i Comunisti di Oliviero Diliberto. «Il problema — ragiona il segretario del Pdci — è che il popolo della sinistra non percepisce il cambiamento, non vede la differenza tra il governo di Berlusconi e quello di Prodi. La gente non sta meglio, sta peggio. E quindi non ti vota». Il sottosegretario verde Paolo Cento porta la riflessione alle estreme conseguenze: la governabilità non può essere «un tabù indiscusso». E sorprende quanto serafico sia invece il leader dei verdi. Alfonso Pecoraro Scanio dice che lui sabato era a Malta e che una piazza vuota mentre sfila un corteo è cosa «fisiologica». Problemi organizzativi, insomma. «Certo, sarebbero venuti più numerosi se avessimo manifestato per il clima...».

Corriere della Sera 11.6.07
L'addio di Cannavò: con il Prc è finita E altri compagni verranno con me
di Fabrizio Roncone


ROMA — Sabato pomeriggio, onorevole Salvatore Cannavò, mentre era alla testa del corteo che protestava contro George W. Bush, lei ha detto una cosa del tipo: ho una lettera in tasca, ma voglio aspettare ancora qualche ora...
«E qualche ora, in effetti, è passata».
Appunto.
«Beh, sì, insomma: parlavo del mio rapporto con Rifondazione comunista. È un rapporto che, purtroppo, si è spezzato».
Spezzato, onorevole, è un termine un po' vago.
«Voglio dire che, per quanto mi riguarda, considero quella con Rifondazione un'esperienza chiusa, conclusa. Naturalmente, di questo dovrò comunque parlare anche con i compagni che appartengono alla mia corrente...».
«Sinistra critica».
«A settembre terremo la prima conferenza nazionale».
Queste parole, questi progetti rischiano d'essere un duro colpo per il suo partito.
«Guardi, ad essere sinceri, il mio rapporto con il partito si era profondamente modificato già dopo l'espulsione del senatore Turigliatto».
Era noto, in effetti, che lei non...
«Non partecipavo più, di fatto, alla vita del partito. Non prendevo parte alle direzioni, ed ero fuori dalla quotidianità del gruppo parlamentare».
Poi, sabato, si è ritrovato alla guida di un corteo.
«Conta ciò che ho visto, e sentito, e provato dentro...».
Provi a spiegare.
«Mentre io e altri compagni di Rifondazione eravamo in quel magnifico corteo del movimento, che per altro niente ha avuto a che fare con quei cinquanta teppisti, quella marmaglia che... il vertice del partito se ne stava invece isolato, tremendamente isolato, a piazza del Popolo».
Era una scena eloquente, raccontano.
«Lo so. Ho mandato qualcuno dei miei a verificare. Giordano era circondato da poche decine di persone. La verità è che sabato, in modo fotografico, plastico, tutti abbiamo avvertito il fallimento della linea politica di Rifondazione ».
Che sarebbe?
«Essere di lotta e di governo. Vede, c'è una regola non scritta nella politica italiana».
Quale?
«Non puoi stare nel governo e, contemporaneamente, stare dentro ai movimenti. In Italia è un'operazione che non riesce. E Rifondazione, non casualmente, ormai da qualche mese non riesce più a parlare con i luoghi del movimento, con gli operai...».
Lei sta pensando all'accoglienza freddina che gli operai di Mirafiori, alcuni giorni fa, hanno riservato a Franco Giordano e al ministro Paolo Ferrero.
«Chiaro. È stata una giornata tremenda, quella. Se i tuoi compagni, se il tuo elettorato, non ti riconosce più, vuol dire che sei di fronte al fallimento ».
Chi è responsabile di questo fallimento politico?
«L'intero gruppo dirigente».
Riesce ad essere un poco più preciso?
«Fausto Bertinotti».
Che errori ha commesso?
«Due. Innanzitutto ha sottovalutato i reali rapporti di forza di questo Paese. Era convinto, alla vigilia delle elezioni, che il centrosinistra avrebbe stravinto, mentre, come sappiamo, è finita con un sostanziale pareggio».
Poi?
«Era sicuro che le mobilitazioni di massa sarebbero riuscite a condizionare l'attività del governo. Il quale, invece, ha persino ignorato quello che siamo riusciti a scatenare nel Nord-Est, per la vicenda della base Usa di Vicenza».
Qualcuno, nel partito, comincia a pensare che non fu poi strategico proporre Bertinotti alla presidenza della Camera.
«Fu un errore. Clamoroso. Grossolano. Io lo dissi subito. Ma ricordo che molti compagni mi sorridevano, con aria di sufficienza, come se mi sfuggisse qualcosa, come se non capissi».
Lei dice che ora tra Rifondazione e il movimento c'è una frattura e che...
«Senta: avessero un briciolo di percezione della realtà, i dirigenti di Rifondazione convocherebbero subito un congresso straordinario».
Il professor Massimo Cacciari sostiene che Rifondazione è ormai una zavorra per l'Ulivo.
«Ecco, vede? Cacciari ha capito che Rifondazione è in difficoltà, e attacca. Ma loro no, loro provano a risolvere il problema della debolezza alleandosi, fondendosi con altri deboli. Con i Verdi, con il Pdci, con i mussiani. Sa come finirà?».
No. Come?
«Diventeranno la corrente esterna del Partito democratico».
Lei, invece?
«Io, cosa?».
Quanti conta di portarne via, da Rifondazione? E per fare che?
«Ci conteremo alla conferenza nazionale, a settembre».
Al corteo, sabato, sfilavano almeno cinquantamila persone.
«Alt. Questa è una trappola... ma io non ci casco: guardi che noi non abbiamo mica organizzato quel corteo per fondare un partito...».
Senta, onorevole: ora come si comporterà alla Camera?
«Vuol sapere come voterò?».
Già.
«Deciderò di volta in volta. E per capirci: il Ddl Bersani sulle liberalizzazioni, se non verrà modificato, mi batterò per non farlo passare».
Lei è proprio di lotta.
«Sono coerente. Sa, la coerenza, un tempo, era un valore dentro Rifondazione».
Oggi, politicamente, lei come preferisce essere definito?
«Scriva che ero e resto comunista».

il Riformista 11.6.07
Rifondazione si lecca le ferite di piazza
di Ettore Colombo


Il primo turno delle amministrative (i risultati del secondo si sapranno solo oggi) è stato un mezzo disastro. Il “sit-in” di sabato in piazza del Popolo, in occasione della visita di Bush, un flop imbarazzante e, per quanto in parte annunciato, da far saltare i nervi ai più. I risultati della presenza al governo non si vedono o sono parziali risarcimenti per una base che ha “tirato la cinghia” per anni.
Ma Rifondazione comunista non può far altro che masticar amaro, deglutire e cercare di ripartire. A due giorni dal corteo che ha sancito, di fatto, la nascita di un nuovo soggetto politico radical-massimalista, e a quattro giorni dalla presentazione del Dpef a partiti e sindacati, facciamo un check-up di Rifondazione col ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero e il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena.
«È vero, c’era molto popolo di Rifondazione, nel corteo indetto da centri sociali, Cobas, trotzkisti e partitini comunisti vari, non ho nessun problema ad ammetterlo», attacca Russo Spena, «e non solo per la presenza, concordata, dei giovani comunisti e di qualche sezione sparsa o perché senatori come Haidi Giuliani o deputati come Francesco Caruso e Daniele Farina hanno deciso di andare là e sfilare con loro per creare “un ponte” tra le due manifestazioni. No, c’erano compagni di base in carne e ossa: sabato ne ho incontrati parecchi anch’io o l’ho saputo. Continuo a pensare che abbiamo fatto bene a organizzare il sit-in, dove c’erano presenze qualificate di esponenti di sindacati e associazioni, non solo dei partiti, anche se ci aspettavamo qualcosa di più in termini di gente reale, ma abbiamo anche cercato un’interlocuzione con l’altra piazza, nei giorni precedenti. I suoi leader, però, vogliono lanciare un nuovo soggetto politico radicale e massimalista alla sinistra del Prc e hanno cercato il massimo di separatezza».

il Riformista 11.6.07
In Germania la cosa rossa si fa partito
di Paolo Soldini


C’è una Cosa Rossa anche in Germania. O meglio: c’è stata, giacché da domenica prossimo al suo posto ci sarà un partito vero e proprio. Si chiamerà die Linke (la sinistra) e nascerà dalle ceneri di due partiti già esistenti. Uno, la Wahlalternative Arbeit und soziale Gerechtigkeit (alternativa elettorale lavoro e la giustizia sociale, in sigla Wasg), è complicata quasi quanto il nome che porta. È nata nell’ovest della Germania intorno a quella che fu un tempo un’icona della sinistra socialdemocratica, Oskar Lafontaine, e poi è cresciuta raccogliendo tutto quello che è andato maturando negli ultimi tempi nella società e nel mondo del lavoro a sinistra della Spd. L’altro partito è la Pds (Partei des demokratischen Sozialismus, partito del socialismo democratico), erede ufficiale della Sed, il partito-guida che dominò completamente la vita della dittatura comunista nella Rdt, appena mascherata con l’ipocrita finzione di un “sistema pluripartitico” che contemplava una falsa Cdu, un falso partito liberale, un falso partito nazional-democratico, un falso partito dei contadini (il più improbabile di tutti). Quando la Rdt, caduto il Muro, se ne uscì dalla storia dell’Europa e del mondo, nessuno avrebbe scommesso un marco, neppure uno svalutatissimo marco dell’est, sulla sua sopravvivenza, visto che era stato creato in tutta fretta ed era stato fondato per raccogliere iscritti, simpatizzanti (all’epoca pochi), beni immobiliari e conti bancari della vecchia Sed.

l’Unità 11.6.07
Che fine farà la sinistra smarrita?
Lo schieramento progressista soffre di un deficit di egemonia e di un profilo ideale troppo debole
di Bruno Gravagnuolo


DIBATTITI La destra populista e neo-sovversiva lavora alla spallata contro il «governo dei tagli e delle tasse». E il centrosinistra annaspa. Ma è possibile vincere la partita senza una sinistra di massa e a identità forte? Discutiamone assieme

Che fine ha fatto la sinistra? Esiste ancora come campo attivo di valori, oppure è andata smarrita senza che ce ne accorgessimo?
Inevitabile porsi queste domande dopo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative, dopo il caso «Visco-Speciale» e le fibrillazioni della maggioranza che abbiamo visto. Tutte cose che ribadiscono un dato ormai inconfutabile, di là della fragilità di questo governo, frutto di elezioni vinte a metà e pressato da una destra montante.
E il dato è questo: il deficit di egemonia del centrosinistra. Vale a dire, una mancanza di capacità persuasiva verso le forze produttive del Paese. In ordine alla necessità e all’utilità delle ricette adottate.
Le quali appaiono al più inevitabili, dure e «razionali», ma altresì inadeguate a rilanciare lo sviluppo e ad alleviare le condizioni di vita del lavoro dipendente, gravato nell’ultimo quindicennio da perdita del potere d’acquisto, peggioramento del quotidiano e da regresso della mobilità sociale verso l’alto.
Non intendiamo entrare nel merito delle scelte tecniche adottate negli ultimi quindici anni, a partire dai governi Amato e Ciampi e proseguite con qualche continuità dagli esecutivi di centrosinistra fino ad oggi. Scelte segnate dall’emergenza dei conti e dal peso del vincolo internazionale, con gli obblighi dell’Euro in primo piano. E che hanno contribuito a salvare il paese dalla deriva.
Ma è chiaro che la cultura virtuosa dell’emergenza di bilancio non basta. A superare l’ingovernabiltà del paese e il suo bipolarismo selvatico. E ad aiutare questo governo a uscire dalla secche della precarietà, evitando le tante tagliole di cui è disseminata la sua strada. Non basta se la sinistra è smarrita. Se è divenuta ininfluente sul senso comune degli italiani. Incapace di progettualità e visione. Sgretolata e scarsamente radicata. Impotente a costruire consenso attorno a un alfabeto di valori, priva di soggettività di massa e forza propria, debole nel prospettare emancipazione generale e utilità collettiva (non il teologico «Bene comune»). Ebbene, su tutto ciò è giunta l’ora di aprire una discussione seria, senza infingimenti ed eufemismi. Alla quale l’Unità intende riservare ampio spazio, invitando a intervenire chiunque riconosca almeno l’urgenza del tema. Compresi ovviamente coloro che non condividono le considerazioni che stiamo per esporre.
Dunque «sinistra smarrita». Che significa? Significa innanzitutto la fine di un insediamento storico, cementato nel dopoguerra in prevalenza dal Pci. E che gli eredi del Pci sono stati incapaci di rinnovare e aggiornare, senza buttare il bambino e l’acqua sporca. Sicché sull’onda di trasformazioni dirompenti e non governate - che hanno inciso sul suo Dna di massa - la sinistra è approdata via via a un rovesciamento di valori profondo. Che ne ha alterato profilo e vocazione, rendendola subalterna ad altri valori e ad altri paradigmi. Cioè irriconoscibile o insostenibilmente «light», intimamente depotenziata. Proviamo allora a delineare alcuni punti d’approdo di questa «mutazione». Punti che assumiamo in negativo come emblemi di ciò che ai nostri occhi non è sinistra, e né può esserlo.
Primo: «il leaderismo». Ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e «chiave di volta» del bipolarismo. Una tendenza particolarmente esasperata in Italia, inaugurata simbolicamente da Craxi e scissa per lo più dal contrafforte partitico, programmatico e parlamentare. E proprio la particolare versione italica del leaderismo - connessa alle assurdità sul cosiddetto e inesistente «premierato» - ha avuto un ruolo determinante nello «squagliare» la partecipazione quotidiana e di massa nel segno di appartenenze vissute e responsabili. Le quali poi non sono affatto in contrasto con la cittadinanza, ma anzi la potenziano. Come l’esperienza del 900 dimostra. E i risultati sono stati, personalismo, microleaderismo notabilare (in periferia) e infine il «leaderismo senza leader», da cui è affetta l’attuale discussione sul leader del Partito democratico, sorta di cantiere sull’abisso dove di tutto si parla fuorché di politiche per l’Italia. Dunque il leaderismo all’italiana non è di sinistra.
Secondo: «Legge elettorale e mito della governabilità». Non sono di sinistra. Perché quel che conta non è il maggioritrario in sé come panacea. Poiché anche un maggioritario secco - specie nella versione insensata dell’attuale referendum - può confermare e complicare le divisioni di uno schieramento. Può restituire tutta la frammentazione del territorio, rafforzando i capicordata locali, come abbiam visto ad abundantiam. E può moltiplicare i ricatti nei singoli collegi, stante l’utilità marginale anche di poche centinaia di voti. Al contrario, ciò che assicura un minimo di stabilità sono «partiti a baricentro culturale forte», modernamente identitari e laici, e in grado di arginare il sempre risorgente trasformismo.
Terzo: «Monetarismo e politiche di bilancio ermetiche». Non sono di sinistra. Né sotto forma di alti tassi di interesse e bassi salari. Né in termini di blocco della spesa pubblica legata a investimenti, formazione e infrastrutture. Non per caso Jacques Delors propose anni fa di defalcare quelle spese dal calcolo dei parametri di Maastricht. Bene, che ne è stato di quelle raccomandazioni, in una con quelle di Prodi di non impiccarsi a «parametri stupidi»? Perché Berlusconi ha goduto di tante franchigie nel rientro (mancato) dal deficit, e invece Prodi è così «sotto tutela»? Altro invece è il discorso sulle spese improduttive, come quelle di una politica sopradimensionata. E altro gli sprechi, l’assenteismo, e i diritti senza doveri. È qui che occorre intervenire a sanare e a far cessare privilegi scandalosi del ceto politico. Che nulla hanno a che fare con la dignità della politica e delle istituzioni. Inammissibile ad esempio che una legislatura, o due anni di essa, diano diritto a una pensione e non a contributi da sommare. E insostenibile che un assessore di una media città costi allo stato, portaborse inclusi, 20mila euro netti al mese! E sono cose che si conoscevano ben prima del best seller La casta. Queste le vere riforme istituzionali, «di sinistra».
Quarto: «Lavoro e flessibilità». Così come mediamente vengono «declinati» dalla sinistra riformista essi non rispondono a criteri di sinistra. Il lavoro infatti dovrebbe essere il caposaldo e la prima ragione sociale della sinistra, quella da cui nasce e di cui si alimenta. Non già dunque un «fattore» tra gli altri, ma un diritto primario e un orizzonte di valore. Quale? L’emancipazione stessa del lavoro, la sua «auto-padronanza». La sua priorità gerarchica dentro le trasformazioni dell’economia, che non possono ruotare attorno al predominio dell’azienda privata, i cui fini non sono di per sè «interesse generale». Né in linea di fatto né in linea di principio. Quanto alla «flessibilità», è l’economia che deve rendersi flessibile alle esigenze del lavoro, e non il contrario. Legittimandosi la prima - e in termini costituzionali- solo se assicura sviluppo e occupazione, nel rispetto dei vincoli ambientali e dei diritti della comunità. La competizione globale? Un vincolo, certo non aggirabile. Ma un vincolo appunto, e non un obiettivo, una finalità. Vincolo da rispettare facendo crescere insieme impresa e lavoro, nella prospettiva di estendere regole e diritti universali anche ai paesi che non li rispettano. Ed è esattamente questa «l’esportazione della democrazia» che compete alla sinistra. Il resto? È liberismo, magari con la copertura di politiche imperiali e di guerra.
Quinto: «Laicità». Non è di sinistra una laicità intesa come «dialogo» puro e semplice, o come «sana laicità» che assuma al suo interno le «radici cristiane» da privilegiare comunque. Laicità viceversa è la «neutralità attiva» dello stato tra le fedi. Promozione di regole che sono anche valori civici di libertà, solidarietà, criticità della cultura, autonomia della ricerca. Ben venga l’apporto della «sfida religiosa» sui grandi problemi, ma non al punto da comprimere e compromettere quei valori, avanzando la pretesa di penalizzare giuridicamente gli «stili di vita» dei singoli difformi dalla tradizione.
Sesto: «Privatizzazioni». Bene quelle volte all’interesse dei consumatori, e contro privilegi corporativi. Male quelle che annullano il ruolo propulsivo del pubblico nelle alte energie, nei trasporti di massa, nella scuola, nella sanità. E anche nei settori tecnologici avanzati. Nessuno stato nazione - di sinistra o di destra - rinuncia al suo ruolo in molti di questi campi, specie nell’ultimo. Laddove da noi molte privatizzazioni sono state un vero assalto alla diligenza da parte di concentrazioni finanziarie che hanno riversato il debito sugli utenti, e non hanno investito né innovato. Un’amara vicenda, dettata dall’emergenza dei conti, ma che non può essere assunta a stella polare della sinistra. Tutt’altro: molte di queste privatizzazioni erano agli antipodi di un orizzonte di sinistra. Erano «destra». E in più, proprio nel corso di tali processi di privatizzazione, sono emerse a sinistra tendenze a favore dei nuovi contendenti, per ridefinire la geografia del potere economico, e al fine illusorio di tracciare la mappa di un «nuovo capitalismo» (ma era vecchissimo!)
Infine, il «Partito democratico». Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un’occasione straordinaria, una «fusione di riformismi» per dare stabilità e forza al centrosinistra. E invece rischia di apparire come un «errore di sistema»: destabilizzante e non aggregante. Una ricaduta fatale nel vecchio schema dei partiti parlamentari, notabilari e leaderistici dell’Italia post-unitaria. Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta. Vuol dire: fine della politica organizzata sul territorio. Della capacità di costruire un blocco sociale democratico attorno al lavoro dipendente, da contrapporre al nuovo blocco dell’individualismo proprietario di destra e al suo «neo-sovversivismo». Fine della selezione dei quadri dirigenti e della trasmissione della memoria tra le generazioni. Fine della sinistra con testa, braccia e gambe, come organismo pensante dotato di autonoma personalità e ideali. Della sinistra intesa come emancipazione delle classi subalterne: tutto a favore di una sinistra della mera inclusione liberale al banchetto dell’economia. Una sinistra «light» e di opinione. Ovvero: cittadinanza e consumi rescissi dal lavoro e dal potere. Non solo quindi si è liquefatto il cattolicesimo democratico e laico, assieme alla tradizione organizzata della sinistra storica. Ma si sono accresciute le divisioni in seno al nuovo aggregato in costruzione. Cantiere sull’abisso e «Azione parallela» generica, i cui conflitti interni si ribaltano sull’esile tenuta dell’esecutivo. Con il risultato acclarato di aver ristretto il potenziale del cosiddetto «timone riformista» dentro la coalizione. A vantaggio di disincanto, astensioni e scissioni, e del rafforzamento del versante più radicale del centrosinistra. Dubitiamo che il lancio delle primarie - dimidiate e frenate dalla leadership in carica - possa far lievitare il «cantiere sull’abisso». Fatto sta che al momento tutto si concentra su giochi procedurali chiusi, e rivalità personalistiche. Mentre intanto la destra lavora alla spallata contro il «governo delle tasse e dei tagli» («lavoro sporco» di cui si gioverà). Governo inviso all’impresa, e che non sfonda tra il popolo. Sinistra smarrita: eccolo il vero «riformismo senza popolo». Al quale non s’è posto rimedio, dopo il tanto parlarne. Eppure è tempo di trovarlo quel rimedio e ripensare tutto quel che non funziona, anche a costo di clamorose conversioni ad U. Di questo è urgente parlare, di questo vogliamo discutere. Su l’Unità, adesso.

l’Unità 11.6.07
«Ora niente più sconti al governo»
Sconfitta in piazza, la sinistra radicale rilancia: su pensioni, lavoro, Dpef sarà battaglia
di Simone Collini


DOPO LA VISITA DI BUSH rischia di diventare ancora più complicata la vita del governo Prodi. Il problema non è tanto l’abbraccio con cui il premier ha accolto il presidente Usa a Piazza Colonna, che pure è piaciuto assai poco alla sinistra radicale ma che rimane una fotografia da consegnare al passato. Il problema è quello che si è visto in un’altra piazza romana, e il futuro a cui guardano con preoccupazione Rifondazione comunista, Verdi e Pdci. Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio hanno dato appuntamento ai loro militanti e simpatizzanti in Piazza del Popolo, dove si è svolto un sit-in di protesta contro Bush ma non contro il governo. Solo che militanti e simpatizzanti per la maggior parte o sono restati a casa o hanno sfilato nel corteo “No-War”, che aveva una piattaforma critica tanto con l’amministrazione statunitense quanto con l’esecutivo Prodi. Un brutto segnale per i tre leader, che andando ad aggiungersi ai deludenti risultati delle amministrative ha fatto scattare nell’ala sinistra dell’Unione quello che sarebbe un eufemismo definire un campanello d’allarme. E le cui onde sonore investiranno ora Palazzo Chigi, dal momento che la soluzione al problema della perdita di consenso Prc, Pdci e Verdi l’hanno già individuata: non è chiara la «discontinuità» rispetto al governo precedente, a questo punto serve una «svolta sociale» nell’azione di governo. E insistendo su questi due concetti la sinistra radicale aprirà già dai prossimi giorni una serie di fronti sul terreno del Dpef, della riforma delle pensioni, della legge sul lavoro, tornando poi anche su questioni come la base Usa di Vicenza, la Tav, le missioni all’estero, le spese militari. Con un avvertimento lanciato dal Prc Russo Spena: «Non possiamo più fare sconti a nessuno».
I passi da compiere Diliberto li ha già annunciati ai suoi, a cominciare dalle richieste che porterà al vertice di maggioranza sul Dpef che si farà venerdì. «Il malessere sociale è grande, bisogna far capire meglio che il governo è cambiato». E questo si fa, secondo il segretario dei Comunisti italiani, intervenendo sui salari e sulla legge Biagi, abolendo lo scalone previsto dalla riforma Maroni e dicendo no a qualsiasi ipotesi di aumento dell’età pensionabile.
«Dopo la visita di Bush e le manifestazioni di ieri è necessario rafforzare le politiche pacifiste e antimilitariste», dice il Verde Paolo Cento annunciando che darà battaglia per una «riduzione delle spese militari» già nel Dpef. Il sottosegretario all’Economia prende anche atto della disparità numerica tra le due manifestazioni, e senza troppi giri di parole ne indica il motivo: «C’è una fetta rilevante del popolo pacifista che non si accontenta della discontinuità che fino ad oggi vi è stata tra la politica del governo Prodi e quella del precedente governo Berlusconi». Inoltre, per rimanere in campo Verde, se il ministro dell’Economia Padoa Schioppa si dice convinto che «la Tav passerà al di qua delle Alpi», il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio rimane in attesa delle valutazioni dell’osservatorio tecnico, ribadendo nel frattempo che «si farà, ma non sulla pelle dei cittadini della Val di Susa» e che resta il suo no al mega tunnel.
A soffrire particolarmente in questa situazione è Rifondazione comunista, il partito che più ha lavorato per aprire un dialogo con i movimenti e che dopo un anno della sua prima esperienza di governo si ritrova con un netto calo di consensi alle urne. Serve «un colpo d’ala», dice Russo Spena, a partire dal Dpef e dalle pensioni, altrimenti «i fautori delle larghe intese avranno più forza e Prodi tra qualche mese potrebbe essere costretto a passare la mano». Per il capogruppo del Prc al Senato ora serve «un confronto molto serrato» nella maggioranza, perché nell’Unione ci sono «due linee» che ora toccherà al premier portare a sintesi: «Io spero che Prodi ci riesca. Certo, se viene fuori un Dpef subalterno al programma di Confindustria, il clima diventa infuocato. Non possiamo più fare sconti a nessuno». Anche perché di questo passo rischiano di fare breccia le pressioni sul Prc a rompere con l’esecutivo. Che non mancano, a cominciare da quelle che puntualmente arrivano da Marco Ferrando, ex trotzkista Prc e fondatore del Partito comunista dei lavoratori.
A trovarsi in una situazione delicata, in questo momento, è anche Sinistra democratica. Il movimento politico fondato da Mussi, Salvi e Angius non ha aderito a nessuna delle due manifestazioni. Ma se era nato con l’obiettivo di unire tutte le forze di sinistra, partiti e movimenti, partendo dal fatto inedito che oggi sono tutte al governo, la situazione che si è venuta creando di certo non aiuta. La capogruppo alla Camera di Sd Titti Di Salvo esclude «contraccolpi» sull’esecutivo dopo il flop di Piazza del Popolo, ma sottolinea anche lei che a questo punto bisogna attivarsi per un «recupero del consenso»: «Serve una svolta sociale nell’azione di governo. Lo dice non solo il risultato delle elezioni, ma anche il rapporto Istat, che segnala la presenza in Italia di indici di disuguaglianza molto forti, accompagnati da un profondo disagio sociale». E anche in questo caso le precondizioni sono l’abolizione dello scalone e il no all’aumento dell’età pensionabile. E il banco di prova più immediato il vertice di venerdì sul Dpef.

l’Unità 11.6.07
Gennaro Migliore, il capogruppo Prc: inizieremo subito un dialogo con i movimenti.
Ma il rischio è che i nostri elettori siano tentati da Berlusconi
«Il punto non è Bush. Ma le politiche sociali»
di Enrico Fierro


La gioia per la promozione del «suo» Napoli in serie A. La delusione per le lacerazioni e i toni aspri di una discussione che si preannuncia infinita sul dopo corteo di sabato. Anti-Bush, ma anche - e a tratti soprattutto - anti-Prodi e anti-Bertinotti. La domenica di Gennaro Migliore, classe 1968 e capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, è carica di sentimenti contrastanti. A noi tocca rovinare la festa calcistica.
Onorevole, Marco Ferrando dice che per voi è venuto il momento di smarcarvi da Prodi.
«Rispetto tutti, ma mi manca la fantasia per pensare a Ferrando come leader di qualcosa in grado di dare lezioni. Preferisco ascoltare il mondo che ha partecipato a quel corteo pacifista».
Già ma il corteo di sabato è riuscito, il sit-in della sinistra di lotta e di governo no.
«Ho ben presente i pensieri e le tensioni di quanti sabato hanno sfilato per le strade di Roma per manifestare contro Bush e per chiedere politiche di pace. C’erano anche molti iscritti al mio partito con le bandiere di Rifondazione. Noi avevamo proposto una iniziativa unitaria che non è stata accettata. Evidentemente c’era chi voleva fare un uso politico, politicista, di quelle pulsioni e del corteo. Diciamo la verità, hanno aspettato Bush per fare una manifestazione contro Rifondazione. Detto questo, non mi nascondo le nostre responsabilità. Avremmo dovuto impegnarci di più per una iniziativa più grande e unitaria. Ma un dato è certo: lavoreremo per l’unità con i movimenti, ascolteremo di più le mille voci che vengono da quel mondo».
E’ impressione diffusa che stare al governo non vi faccia bene. State pagando un prezzo troppo alto a Prodi. Il voto delle amministrative sta lì a dimostrarlo.
«Perdiamo, ma non per la politica estera. Il vero campanello d’allarme è sulle politiche sociali. È qui che bisogna aprire una fase nuova e correggere a sinistra l’asse della politica economica del governo».
Giusto, ma come la mette con il ministro Padoa Schioppa?
«Diciamo che la mettiamo e la metteremo. Perché quando il ministro afferma che il sindacato o si rinnova o si estingue, e lascio ai lettori immaginare cosa intenda per rinnovamento, candida il governo alla disfatta. Nella prossima riunione sul Dpef chiederemo che si facciano scelte tutte orientate a politiche di redistribuzione sociale. Ci sono le risorse e sono il frutto di una finanziaria pesante che abbiamo sostenuto. Ora, per favore, non dividiamoci su come investirle in un piano di vero risarcimento sociale».
E Confindustria? E Montezemolo?
«Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto cinque miliardi di euro con il cuneo fiscale, ora tocca a chi ha di meno. Ora il governo deve ascoltare gli operai Fiat da Pomigliano a Mirafiori, i lavoratori con i salari e le pensioni più basse, i giovani disoccupati, la gente strozzata da affitti altissimi e quelle fette di ceto medio che rischiano di scivolare agli ultimi posti della scala sociale. Questa è la vera svolta che la nostra gente si aspetta. Vede, la cosa che mi allarma è che le parole del ministro del Tesoro hanno sempre, se posso dire così, un segno di classe. Non parlano mai alla base, alla gente che pure ha votato per questo governo consentendogli di fare il ministro».
Lo scrittore Marco Revelli disegna scenari inquietanti per la sinistra, dice che ormai avete rotto tutti i ponti con i movimenti, che dietro l’angolo c’è il riflusso degli anni Ottanta, che la situazione è irreversibile.
«Sono solo in parte d’accordo con Revelli. Certo, quando c’è una esasperazione delle posizioni politiche il rischio di passivizzazione dei militanti e dell’elettorato è dietro l’angolo. Ma la situazione non è irreversibile. Da subito inizieremo un confronto con i movimenti, stiamo avviandoci verso un importante momento di confronto anche tra le forze della sinistra che non si riconoscono nel partito democratico, ma il rischio che vedo è un altro, ben più grave. Quando la disaffezione alla politica riguarda ampi ceti popolari, alle porte non c’è il riflusso, ma il sostegno a politiche reazionarie. Per dirla tutta: il rischio è che i nostri elettori votino per Berlusconi. Se permette, mi preoccupo più di questo che di Ferrando e Cannavò».

Repubblica 11.6.07
Giordano, leader di Rifondazione: difendiamo gli elettori del centrosinistra o saremo travolti tutti
"Mai più due piazze della sinistra e Prodi non stia in mezzo al guado"
di Goffredo De Marchis


Gli obiettivi. Abolire lo scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev'essere inserito nel Dpef
I movimenti. La prossima volta saremo con i movimenti, anche se le parole d'ordine non dovessero convincerci
Noi e Cacciari. Dice che noi siamo conservatori, ma la società disegnata da lui è il Medioevo. È frustrato per il Pd

ROMA - «A Prodi voglio dire una cosa sola: non si può più stare in mezzo al guado. Bisogna difendere il nostro blocco sociale di riferimento e avviare, già a partire dal Dpef, una politica di risarcimento sociale. Altrimenti saremo travolti tutti». È il giorno dopo il flop della manifestazione no war, della "piazzetta" del Popolo presidiata da pochi militanti di Prc, Verdi e Pdci e dai loro leader contrapposta al corteo dei movimenti. «Mai più due piazze», annuncia il segretario di Rifondazione Franco Giordano. «La prossima volta saremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci». Ma le difficoltà di Rifondazione rischiano ora di ripercuotersi sull´esecutivo. Perché i comunisti spostano la loro attenzione sulle politiche sociali ed economiche. E chiedono il rispetto del programma.
Ha pensato che la piazza vuota di sabato fa il paio con il calo di Prc alle amministrative?
«Non vedo il collegamento. Il voto amministrativo è senza dubbio per noi un campanello d´allarme certificato. Lo è anche per altri e la voragine del Partito democratico è lampante, ma io guardo al mio partito. A Piazza del Popolo la partecipazione era inadeguata, certo. Ma, ripeto, la nostra era una kermesse e non c´è mai stata una contrapposizione con il corteo no war. Chi lo dice sbaglia bersaglio, non coglie l´elemento di fondo di quel corteo che è un elemento unitario».
Perché stavate da un´altra parte, allora? Forse perché siete diventati più di governo che di lotta?
«Prc voleva costruire una piattaforma unitaria e partecipare al corteo. Ci è stato detto che no, che non volevano. A quel punto abbiamo fatto un passo indietro perché non volevamo diventare motivo di tensione. Ma in quella manifestazione c´era gran parte del nostro popolo, lo so bene. Lo so così bene che posso dire di più: la massima partecipazione, sia alla partenza sia all´arrivo, è stata garantita da noi, da Rifondazione comunista».
Eppure molti slogan erano contro Prc, alcuni pensano che da quel corteo si possa lavorare per dare vita a un nuovo soggetto alla vostra sinistra.
«A sentire gli stessi esponenti, che sono iperpolemici con noi, pare proprio che non sia così. E poi penso che l´autonomia dei movimenti vale sempre. Nei confronti di Rifondazione, del governo e anche di chi vorrebbe sovrapporsi a loro per i suoi piccoli interessi politici».
Cacciari comunque dice che il vostro flop è un ottima notizia per le sorti del centrosinistra.
«Ho letto. Dice che noi siamo conservatori. Ma la società disegnata da lui è il Medioevo! Taglio delle pensioni, privatizzazioni... E la riforma istituzionale? Ci aveva pensato Craxi 25 anni prima di Cacciari. La verità è un´altra: il sindaco scarica su di noi la frustrazione di un sogno infranto, il Pd di cui vorrebbe tanto essere protagonista. Quanto al suo rapporto con i no global lo conosciamo bene: è quello delle pacche sulla spalle. Voi vi occupate dell´idealità ma non disturbate il manovratore che deve governare. Questo è. Una logica paternalistica che non ci appartiene».
Cacciari o no, si è rotto qualcosa nel vostro feeling con i movimenti?
«Noi lavoreremo per la ricomposizione. E non ci sarà più qualcuno che impedirà i processi unitari. Lavoreremo anche unilateralmente per evitare divisioni e le due piazze di sabato. A partire dai prossimi appuntamenti sul terreno pacifista e internazionale. Detto questo, pur mantenendo la critica all´azione di governo alcune cose vanno riconosciute: l´uscita dall´Iraq, che è molto, e per stare a momenti più recenti, la pubblicizzazione dell´acqua. Un risultato importantissimo. È una di quelle liberalizzazioni mancate che mi fanno apparire vecchio a Cacciari e invece mi rendono felice».
È giusto aspettarsi adesso un´offensiva della sinistra radicale contro il resto della maggioranza su tesoretto, pensioni, lavoro?
«Non vogliamo il cortocircuito tra le nostre difficoltà attuali e le politiche sociali. Ci stiamo preparando da tempo ad essere chiari sul fronte economico, per essere sinceri. Il campanello d´allarme delle amministrative è univoco, suona per tutti. C´è un problema drammatico delle classe popolari. Di disincanto e di disaffezione, un elemento acuto di sofferenza. In tante parte del Nord, ma non solo».
Ma per superare questa crisi le ricette dentro l´Unione sono molto diverse.
«Ne esiste una sola. Per tornare a dialogare con quei settori dobbiamo essere limpidi e dare seguito alle promesse della campagna elettorale: abolizione dello scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev´essere nel Dpef, a cominciare dall´extragettito. È evidente una spinta fortissima da parte di certi settori, di cui Montezemolo è il portavoce, di utilizzare quelle risorse evitando la redistribuzione sociale. Sarebbe il programma di un governo istituzionale. Prodi dunque non deve più stare in mezzo al guado».

l'Unità 11.6.07
Narcisista e border line, identikit del pedofilo
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
la trasmissione di Santoro ha aperto gli occhi di tutti su un problema grave, quello legato ai preti che praticano la pedofilia e sul modo in cui la Chiesa li ha protetti finora. Monsignor Fisichella, in trasmissione, ha detto con chiarezza che quei preti «non avrebbero mai dovuto diventare preti». Dal giorno in cui ho visto quelle immagini e sentito quei discorsi, tuttavia, ho due domande che mi girano nella testa. Sono davvero tanti i pedofili? Che dobbiamo pensare di loro? E soprattutto, che potremmo o dovremmo fare per loro?
F.B.

Un convegno promosso dalla Commissione Europea pochi giorni fa a Berlino propone alcune risposte interessanti per i suoi quesiti. Glieli riassumerò qui brevemente.
Sulla diffusione della pedofilia, prima di tutto, un intervento illuminante è stato quello di Peter Vogt che distingue la diffusione nel mondo della pedopornografia su strade commerciali e “non commerciali” utilizzando a titolo di esempio due situazioni approfondite dalla polizia della Sassonia. Nel primo caso, considerato “non commerciale”, il fondatore di un gruppo che scambiava foto e video pedopornografici su internet, era un giovane di 26 anni, pedofilo per sua dichiarazione, che disponeva di un solo, normale, computer. Su richiesta del Tribunale la Microsoft Corporation di cui si serviva accertò che questa singola persona disponeva di 26.536 file pedopornografici, di 36.602 accessi (email account entries) e di 12 gigabyte di file pari a 197 Km di carta. I corrispondenti identificati erano 26.000 e abitavano in 150 Paesi diversi. L’indagine durò un anno e utilizzò dieci funzionari a tempo pieno. I risultati furono straordinarii, tuttavia, se si pensa che nella sola Germania, 14 bambini vennero salvati con interventi portati avanti nelle case dei pedofili così identificati.
Nel secondo caso, dichiaratamente commerciale, quello investigato nel 2006 dal Tribunale di Halle fu un portale pedopornografico. L’ammontare della somma pagata per entrare in quel portale fu ricostruito con l’aiuto delle compagnie che gestiscono più di 20 milioni di carte di credito in Germania. Riportando al complesso dei portali pedopornografici accessibili in quel periodo i dati ottenuti su questo portale, si arriva a calcolare un movimento annuo di 4 milioni di dollari per 50.000 accessi effettuati da almeno 25.000 clienti.
Gli esempi sono interessanti, mi pare, per dare un’idea della diffusione progressivamente più grande e ad oggi davvero impressionante di un fenomeno di cui si parla spesso fugacemente anche in Italia quando il gruppo operativo coordinato dal dott. Vulpiani presso il ministero degli Interni propone i risultati di una sua indagine. Quello su cui è interessante riflettere, tuttavia, è il rapporto che lega la pedofilia virtuale a quella reale, quella di cui in queste ultime settimane soprattutto si è parlato da noi.
Dicendo prima di tutto che le immagini che girano su internet, per hobby o a pagamento, sono immagini di bambini reali. Bambini che hanno la sfortuna di nascere nei Paesi poveri del mondo (quelli, per intenderci, in cui esiste la pratica del turismo sessuale) ma bambini che nascono e/o vivono sempre più spesso, però, anche in Europa. Nei luoghi dell’emigrazione recente, e in quelli, più in generale, dell’emarginazione e della povertà: morale e/o economica. Il che vuol dire che la pedopornografia virtuale, con il suo enorme giro di soldi, si regge su una serie di crimini che sono, tuttavia, assai difficile da scoprire e da portare in Tribunale. Pochi sono i bambini che hanno la possibilità e/o la forza di fare delle denunce, infatti, e molti meno ancora sono quelli alla cui denuncia si crede: arrivando a delle condanne. Ma dicendo anche, con forza, che i partecipanti al seminario della Commissione Europea hanno insistito sul modo in cui la pedopornografia via internet funziona, per la facilità e la frequente impunità dell’accesso, come un punto di partenza di fantasie malate e come occasione di sviluppo di comportamenti pedofili più strutturati e più pericolosi. Dal virtuale al reale, quello che cresce è il bisogno di soddisfare appetiti e/o desideri che un numero progressivamente più grande di persone si accorge di avere o di poter suscitare dentro di sé. Soffrendone, a volte, perché sempre più frequente è la richiesta di aiuto terapeutico di persone (già giudicate o che hanno più semplicemente paura di non dominare i loro istinti) ai centri specializzati che alcuni paesi (ma non il nostro) stanno mettendo in opera. Come ben documentato nel corso dello stesso congresso di Berlino da un gruppo di ricerca che ha avuto modo di prendere in carico, negli ultimi tempi, più di 500 persone, mettendo in opera strategie estremamente interessanti di trattamento.
È su questo dato, in effetti, che bisogna riflettere per rispondere al suo secondo quesito. Dicendo risolutamente che quella da modificare è l’ottica con cui sinora si è guardato al problema della pedofilia.
Autori di reati gravi, le persone che mettono in opera comportamenti pedofili, reali o virtuali, sono stati considerati fino ad oggi solo dei “mostri” o delle persone “cattive”. Quelle che si propongono nei loro confronti sono, dunque, una definizione di ordine morale e una risposta di tipo giudiziario. Senza prendere in considerazione, dunque, le radici psicopatologiche del loro comportamento e senza rendersi conto sino in fondo del fatto che, così facendo, nulla si fa di concreto per evitare (a) che tendenze malate appagate su internet si traducano in reati concreti contro altri bambini e (b) che il pedofilo eventualmente scoperto e condannato non torni, dopo aver espiato la pena, a commettere gli stessi reati. Prevenire è, in casi di questo genere, soprattutto curare. All’interno di una situazione concreta in cui il trattamento deve prevedere insieme la punizione, sul piano civile e penale, e il lavoro terapeutico con la persona.
Affetto da forme diverse di disturbo della personalità, con prevalenza alternata di tratti border line, narcisistici o antisociali, l’insieme delle persone coinvolte oggi nella pedofilia, virtuale e reale, costituiscono un problema di grande importanza per il futuro di un Paese civile. Da affrontare con grande serietà ed impegno. Cercando di utilizzare l’ondata emozionale destata dai fatti di cronaca per ragionare concretamente, come sinora assai poco si è fatto, sulle iniziative da prendere più che per solleticare la curiosità non sempre sana di un pubblico che si appassiona o si scandalizza nel dibattito sui “mostri” e/o sui bambini della cui memoria, secondo alcuni, non ci si dovrebbe fidare.

domenica 10 giugno 2007

l’Unità 10.6.07
Erano in 60mila, slogan contro il governo e la sinistra
Poche bandiere arcobelano, molto antagonismo. «Bertinotti è un pacifinto»


IN SESSANTAMILA Un corteo grande. Rabbioso. Che urlava slogan duri come le pietre che poi, in serata, un gruppo di incappucciati ha lanciato contro gli «sbirri». Tante bandiere di parte. Parti piccole, minuscole. Isolate e perciò agguerrite. Dal Partito dei marxisti leninisti, a quello dei comunisti duri e puri, ai Carc che inneggiano alle nuove Br, ai Cobas, ai Cub, ai centri sociali più incazzati, al movimento «No dal Molin» contro la base Usa di Vicenza al «Partito Umanista». Tutti in coro contro Bush e Prodi, che sono la stessa cosa: guerrafondai e nemici della pace. Tutti, a pugno teso contro Bertinotti, il Fausto e contro questa «sinistra che è peggio di Berlusconi». «Bertinotti, Ferrero, uscite dal ministero» lo slogan urlato a squarciagola. Ma sì, il lettore dimentichi le grandi manifestazioni per la pace. Quelle con le bandierone arcobaleno (ce n’erano poche decine al corteo di ieri), con le famiglie, i volti sorridenti di uomini e donne allarmati per le guerre, ma accompagnati dalla serenità di chi sa di far parte di un grande movimento di popolo. Ieri a Roma era diverso. C’era di tutto in quella fetta di Italia calata dal Nord e salita dal Sud. Tutte le pulsioni di una parte della società italiana colma di problemi e di rabbia che non si riconosce più in nessun partito. Neppure in quelli fino a ieri ritenuti vicini. Altro che sinistra radicale. «Perdete ogni speranza voi che votate», recitava un cartello. «Siamo contro Bertinotti, Giordano, Migliore: questi traditori», urlava una ragazza di un centro sociale napoletano. Ogni spezzone del corteo ha una sua autonomia, un suo discorso da fare, una sua bandiera da custodire gelosamente. Nessuno vuole riconoscersi nell’altro. Non c’è, come si sarebbe detto un tempo, una direzione politica unitaria. E di questo - e il dramma politico per la sinistra raccontato dalla giornata di ieri sta anche qui - nessuno dei «capi» presenti come al solito alla «testa» del corteo sembra rendersene conto. Ognuno si illude di aver conquistato finalmente una leadership. Sentite Salvatore Cannavò, parlamentare di Rifondazione comunista, esponente della minicorrente di «Sinistra critica». Ha gli occhi lucidi, la parlantina sciolta e l’acquolina in bocca di chi già assapora la conquista. Gli hanno detto che il sit-in pacifista di lotta e di governo di Piazza del Popolo è stato un fallimento clamoroso e lui: «Bene, perché è in questa manifestazione che nasce un' opposizione di sinistra a Prodi. Questa gente lo ha votato. Farebbero bene a valutarlo. La sinistra istituzionale ha fatto un errore clamoroso a non essere qui. Ci sono due sinistre, una di governo confinata in una piazza e una di movimento pronta a fare opposizione». E sentite il Turigliatto, il senatore già esponente di Rifondazione ed oggi rivoluzionario isolato del gruppo misto al Senato. «Il governo Prodi sta sbagliano tutto con la sua politica estera fatta di potenza militare». Si aggiusta la giacca, sorride, stringe mani: finalmente leader di qualcosa.
E il Bernocchi, quello dei Cobas, non è da meno: «Bertinotti? Ma via, è il sommo pontefice, non rappresenta più nessuno. Ormai è uno che esalta la Folgore...». E non poteva mancare Luca Casarini, il leader dei disobbedienti del Nord-Est. A Roma arriva alle sei di sera, Trenitalia gli ha fatto la guerra, dice, ritardando la partenza dei treni. «Ma ora siamo qui, D’Alema e Bertinotti hanno perso la battaglia, noi siamo in 3mila. Noi siamo la vera sinistra, non quelli che sono a Piazza del Popolo, noi siamo la sinistra che sta in piazza». Dietro il grande striscione «No War, no Bush, no Prodi», ci sono altri pezzi di sinistra. Lucio Manisco, Fosco Giannini, Franca Rame passeggia e sorride, Giorgio Cremaschi dei metalmeccanici Cgil. Una ragazza australiana ha il ventre scoperto, col pennarello si è tracciato un messaggio per il mondo intero: «Anche gli australiani sono contro Bush». Più in là, lontano dai «leader» un uomo anziano si tiene lontano dal corteo e sventola una enorme bandiera rossa senza simboli. Sembra felice. Ma è solo pure lui. e.f.

l’Unità 10.6.07
Con i Verdi e la sinistra radicale poca gente

Tante sigle, poche persone in piazza. Non ci si aspettava una folle oceanica in piazza del Popolo, quella «con l’altra America» che critica Bush, ma ce n’è stata meno del previsto al sit-in promosso dall’Arci, dalla Fiom-Cgil, ambientalisti e pacifisti. In piazza i Verdi, Rifondazione, Pdci, Sinistra Europea. Al bar Rosati, sull’angolo, arriva Cossiga, sul bavero una spilletta con la bandiera americana, ci tiene a dire no, «non ce l’ho con la sinistra radicale che manifesta, loro sono coerenti». E non perde occasione per prendersela con Prodi. In piazza s’affaccia il segretario del Pdci Diliberto - «non sono autolesionista, non manifesto contro il mio governo» - mentre Russo Spena (Prc) parla di «piazza simbolica» e Giordano, leader di Rifondazione, afferma che «è sbagliato equiparare il governo Bush al governo Prodi».

Repubblica 10.6.07
I vertici di Rifondazione preoccupati per la scarsa partecipazione alla manifestazione. Migliore: ci aspettavamo più gente
Dalla piazza vuota l'allarme del Prc "Quel corteo, un partito contro di noi"
di Goffredo De Marchis

Slogan soft e poco antiamericanismo per la manifestazione della sinistra di governo
Giordano: ora con Prodi si apre una nuova partita, già dalla prossima settimana
Chi organizza l´altra manifestazione usa Bush ma l´obiettivo siamo noi
Non mi piace questa piazza. Quelli di Rifondazione sono andati al corteo

ROMA - E una piazzetta. «Non mi piace», confessa Oliviero Diliberto dietro gli occhiali scuri. Più bandiere e palloncini che manifestanti. Un migliaio ancora alle sette di sera, qualcuno di più dopo. Meno, molti meno prima quando il sole picchia su una piazza del Popolo senza un angolo all´ombra. I leader della sinistra radicale sfidano il flop delusi, sudati, ma senza timori.
Giovanni Russo Spena, il capogruppo al Senato di Prc, parla di «evento simbolico». L´importante, spiega, è che «ci siano le sigle del movimento pacifista, la Fiom, l´Arci, noi, il Pdci, i Verdi, la Legambiente, la tavola della pace, il no al Dal Molin». Dietro i marchi quasi il deserto. I movimenti sono dall´altra parte, sfilano lungo le strade blindate di Roma. Ci sono anche i giovani di Prc lì, Action, i disobbedienti, i protagonisti della stagione pacifista ai tempi di Berlusconi che allora marciavano con Rifondazione.
Lidia Menapace a 83 anni arriva puntuale, presidia la piazza sotto la canicola, parla con tutti e da militante storica del movimento per la pace pensa di essere nel posto giusto. Anche se poco affollato. «Gli organizzatori dell´altra manifestazione usano Bush e Prodi, ma hanno un solo bersaglio: Rifondazione». Quel corteo è un problema per Prc, perché sicuramente tanti lì dentro sono loro elettori. «I miei - riflette Diliberto per un attimo dimentico dei progetti di unificazione a sinistra - non sono né qui né lì. Diciamo che stanno a casa. Ma quelli di Rifondazione sono di là, con no war». Prc, del resto, aveva coltivato con cura il rapporto con i movimenti. E stato un errore? «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», dice sornione il segretario del Pdci. Franco Giordano però si difende.
Lo fa con il suo piglio, con l´argomento principe che il popolo pacifista o è unito o non è. «Mi sforzo di non disperdere lo spirito originario di questo movimento, che è l´unitarietà», scandisce. Il presidente dei deputati di Prc Gennaro Migliore ammette: «Speravamo in una partecipazione maggiore. Ma non facciamo classifiche». Resta la rabbia contro i fuoriusciti Cannavò e Turigliatto, contro il «nemico» di Rifondazione Luca Casarini. «Hanno aspettato Bush per attaccare noi. Bella prova - sibila Migliore - . Lo facciano direttamente, quando a Roma non c´è il presidente americano. Voglio proprio vedere quanta gente riescono a mettere insieme».
L´abbraccio di Prodi al presidente Usa, pericolo pubblico numero uno per i comunisti, agita i vertici di Prc e Pdci che però sperano sia solo «un segno di buona educazione», come dice Diliberto. Giordano spiega che sono i fatti a contare: «Uscita dall´Iraq, conferma del nostro impegno in Afghanistan senza altre truppe e la strategia libanese che noi abbiamo sostenuto. Questo ci interessa. Poi il bon ton, le leggi della diplomazia interessano meno». La piazza o meglio la piazzetta di ieri aveva veramente poco di antiamericano.
Uno striscione in vista sotto il palco dei musicisti recitava un innocuo: «Con l´altra america». Niente di più di ciò che si vede alle manifestazioni dei Democratici Usa. L´estremismo si avverte appena nelle parole dei gruppi rock. Il leader dei Gang, dal palco, prova a scaldare gli animi: «L´articolo 11 della Costituzione dice che Bush lo possiamo mandare a quel Paese».
Ecco, come dice Giordano, «questa è una kermesse». Cioè, non una manifestazione. Dunque, bando «alle contrapposizioni. Abbiamo provato fino all´ultimo a mettere insieme le piattaforme. Qualcuno non ha voluto». Sintetizza Angelo Bonelli dei Verdi: «Siamo qui perché del corteo no war non abbiamo condiviso alcune parole d´ordine». Ma il segnale di ieri arriva forte e chiaro soprattutto per Rifondazione. Che ha già perso voti nelle amministrative.
Prc sposta ora il terreno di scontro. «Per noi diventa vitale la politica sociale ed economica: salari e pensioni. Su quello non possiamo fare sconti - avverte Russo Spena - . Perché lì ci giochiamo veramente il rapporto con il nostro elettorato». Il capogruppo al Senato sa che il corteo di Piazza della Repubblica è la «prova generale di una nuova soggettività politica». Ovvero di un partito a sinistra di Prc. Che marcherà stretta la sinistra radicale. «Con Prodi si apre una nuova partita, già dalla prossima settimana», annuncia Giordano. Dpef, cancellazione dello scalone, buste paga. La sinistra radicale non può lasciare ai puri e duri anche queste bandiere.

Corriere della Sera 10.6.07
Le due manifestazioni
Rifondazione: Lo spettro della crisi «Lontani dai movimenti»
di Aldo Cazzullo

I dirigenti del Prc quasi soli a Piazza del Popolo, mentre il corteo vero ha occupato il centro di Roma. «E' un segno politico che accelera la crisi di Rifondazione», dice Giorgio Cremaschi, leader dell'opposizione interna.

Lo strappo tra movimenti e Rifondazione «Bertinotti ha rotto con il popolo di Genova»
«I movimenti d'ora in poi si rappresenteranno da soli. Adesso i no global ripartono»
«Non potevamo sfilare con chi considera Prodi peggio di Bush. Che altro potevamo fare?»
«Non mi nascondo dietro un dito, la piazza è vuota. Ma il problema della sinistra sono le amministrative, non la piazza»

ROMA — Il pomeriggio della morte di Carlo Giuliani, Bertinotti arringò in riva al mare di Genova una folla immensa e furente, assecondò a parole la loro rabbia, e seppe incanalarla il giorno dopo in un grande corteo pacifico. Ieri pomeriggio a Roma un corteo parecchio più piccolo si è concluso con incidenti e scontri, i primi da molti anni nella capitale, piazza Navona bloccata dai celerini come nei giorni del '77. Nulla di drammatico: vandalismi, cariche, fughe affannate di turisti con trolley da ore alla ricerca di un varco per l'albergo. Ma, in un giorno così caricato di significati simbolici, anche un tafferuglio segnala una partita difficile per Rifondazione e la sinistra antagonista. Proprio mentre Bertinotti centra l'obiettivo storico di rompere i Ds e aggregare l'area a sinistra del partito democratico, i suoi dirigenti si ritrovano quasi soli in piazza del Popolo, mentre il corteo vero occupa il centro di Roma. La confusione è tale che quattro deputati — Sperandio, Smeriglio, Russo e Peppe De Cristofaro —, incerti su quale piazza scegliere, tentano invano di avvicinarsi a Palazzo Chigi con uno striscione rosso «No war, no Bush», respinti da carabinieri allibiti.
In piazza Navona tira aria di vittoria, anche se sono in troppi a intestarsela. Marco Ferrando il trotzkista parla dal palco a una ventina di amici personali: «Bertinotti ha preso fischi in mezza Italia, lo applaudono solo i ciellini e quelli di Azione Giovani!». Casarini sovrappeso. Turigliatto si è perso: «Avete visto Cannavò?». Tra i parlamentari di Rifondazione ci sono anche Fosco Giannini e Gianluigi Pegolo. Franca Rame dell'Italia dei valori è in pantaloni, maglietta e scarpe bianche con bella giacca colorata: «Voglio dimettermi da senatrice, ma sto verificando chi subentra al mio posto. Metti sia un altro De Gregorio...». E c'è Giorgio Cremaschi, un tempo alter ego di Bertinotti, oggi leader dell'opposizione interna.
«Non c'è stata partita — dice Cremaschi —. Qui, un corteo enorme. Là, un gruppo dirigente che le ha sbagliate tutte. È un segno politico che accelera la crisi di Rifondazione: i movimenti d'ora in poi si rappresenteranno da soli. Dopo qualche anno di silenzio, i no global ripartono. E si comprende che non erano i movimenti a stare con Rifondazione, ma Rifondazione a stare con i movimenti. In questi mesi, Bertinotti e i suoi sono stati paralizzati dalla paura. Paura di rifare il '98, la rottura con Prodi, che all'evidenza è stata vissuta all'interno molto diversamente da come è stata presentata all'esterno. Dopo essersi scottati con l'acqua calda, hanno avuto paura anche dell'acqua fredda. E si sono immolati. In cambio, Prodi non ha fatto una sola delle cose che i movimenti chiedevano». Lei Cremaschi cosa farà? «Non so. Certo non un partitino. Ma la via d'uscita non è neppure dare battaglia dentro Rifondazione. Magari lo farò comunque. La vera questione è che oggi il partito ha rotto con il popolo di Genova».
Al sit-in di piazza del Popolo ci sono due celerini per ogni manifestante. È il primo sabato d'estate, giapponesi stremati supplicano i poliziotti di farli passare, dal palco i fratelli Severini del gruppo Gang chiedono notizie di Bertinotti: «Il compagno Fausto dov'è?».
C'è però il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena, giacca a righe ma senza cravatta, che per la prima volta in vita sua fa proprie le cifre della questura: «Al corteo erano 40 mila reali. Ora molti di loro verranno qui. Con noi ci sono Pax Christi, l'Arci, il capo della Fiom Rinaldini, Giuliana Sgrena... Avremmo fatto volentieri una bella manifestazione tutti insieme, ma non potevamo sfilare con chi considera Prodi peggiore di Bush. Io stesso ho provato a convincere amici trentennali che mi hanno risposto: "Vaffanculo, siete dei guerrafondai...". Quelli vogliono fondare un partito sulle ceneri del governo. Che altro potevamo fare? Va bene così». «No Giovanni, non va bene così — interviene Oliviero Diliberto, che con gli occhiali scuri e il sigaro pare il capo della squadra politica in borghese —. La nostra piazza è deludente. Ma la verità è che i movimenti sono in fase calante. In corteo ci sono le frange estreme che a sinistra sono sempre esistite, e ora usano la pace per attaccare Prodi. Se però chiedete a un palestinese, ai movimenti di liberazione, a un militante del Baath quali referenti abbiano in Italia, vi risponderanno che stanno in questa piazza». «Ci sono anche la Mecozzi della Fiom, Tosini e Scarpa della Cgil!» annuncia trionfante Russo Spena. I fratelli Severini hanno un ultimo appello per Bertinotti incerto se stringere o no la mano a Bush: «Fausto, digli che noi comunisti siamo belli e loro brutti come la fame!».
Mentre di là si scontrano con la polizia, alle 9 di sera in piazza del Popolo i rinforzi devono ancora arrivare. Dalla sua casa di Torino, Marco Revelli, intellettuale molto ascoltato da Bertinotti e ora molto critico, vede nella giornata di ieri «lo sbocco naturale di uno strappo apertosi a Vicenza. Allora i capi di Rifondazione sfilarono con i pacifisti, e Prodi rispose con un no senza se e senza ma. Il partito si è sacrificato all'alleanza di governo. I vincoli di coalizione, e quelli imposti dalle relazioni internazionali, rendono la sinistra critica incompatibile con la rappresentanza dei movimenti, e la limitano alla rappresentazione mediatica. È mancato il coraggio di un grande dibattito interno; si è invece alzato il tiro contro i dissidenti. Temo che la nascita della nuova forza di sinistra si annunci come un'operazione di ceti politici, senza legami con movimenti destinati a rifluire, più che nella clandestinità, nel privato. Più che agli anni Settanta, il rischio è il ritorno agli Ottanta».

Corriere della Sera 10.6.07
Dentro il corteo. Haidi Giuliani e gli incappucciati «Ho urlato: per favore, fermatevi Ma volevano solo distruggere»

ROMA — «E levati, stronza». Il ragazzino con il cappuccio non le lascia neppure il tempo di farlo. Prende la rincorsa e le salta davanti per lanciare una bottiglia che si infrange sugli scudi della polizia.
Non la riconoscono, non sanno chi è, e quelli che lo sanno le fanno un male cane urlandole in faccia che deve scansarsi, «sono 'sti bastardi che hanno ammazzato tuo figlio», come se lei fosse una traditrice, ora che si è piazzata sulla traiettoria dei sassi, dei bastoni, dei cocci di bottiglia per dire loro di fermarsi.
Quella donna piccola, minuta, vestita con una camicetta e sandali neri, che ha provato a mettersi in mezzo a questo delirio di un'ora che ha sporcato una giornata di tranquillo dissenso, si chiama Haidi Giuliani. Volava di tutto, i passanti si rifugiavano sotto ai tavolini dei bar della vie che portano a Campo de' Fiori, si attaccavano ai muri per levarsi dalla traiettoria dei lanci. Ci voleva del fegato per mettersi in mezzo, tentare qualcosa che non fosse mettersi le mani sulla testa e scappare.
Haidi è avanzata con le mani alzate, quasi si stesse consegnando a quel furore senza senso. «Fermatevi, per favore, fermatevi». Scansati, vattene. Non è servito a nulla. I suoi amici l'hanno presa di peso per portarla dietro al cordone di polizia, temevano che si facesse male. «Non capivano niente, neppure quello che gli dicevo. Non volevano sentire ragioni. Ma qualcuno che aveva presente la situazione in realtà c'era. Andava dai più esagitati e li eccitava ancora di più». Li chiama infiltrati, «ma ai miei tempi si diceva provocatori». Chissà cosa penseranno, quei ragazzi, nel sentire la madre di Carlo che loda la polizia. «Non ha caricato, ed era difficile non farlo. Devo dire che il prefetto Serra è stato di parola. Si sono evitati ulteriori danni». E adesso che tutti sono andati via e di questa giornata sembra che restino soltanto i cocci delle fioriere intorno a piazza Navona, l'amarezza di Haidi diventa un sussurro. «Lo so che scriverete soltanto di questo. Come al solito. Quelli volevano distruggere una splendida giornata. E ci sono riusciti».
Si doveva parlare d'altro, con la senatrice Haidi. Dei giovani che indossano la maglietta con la foto del cartello di piazza Alimonda cancellato dalla scritta «Carlo Giuliani, ragazzo». Della sua consapevolezza che quegli abbracci da persone mai viste sono un segno di deferenza, lei è la mamma di Carlo, e dell'effetto che le fa. «Non sono io, è mio figlio che dice ancora qualcosa. Io mi limito a girare l'Italia per tenerne vivo il ricordo». Intorno a lei, nell'interminabile attesa della partenza del corteo, era come se ci fosse una bolla. Dal carro dei Giovani comunisti lanciavano gavettoni a quelli sotto, ma facendo ben attenzione a non centrarla. Un'icona, contro la sua volontà. Perché Haidi nel quadretto della madre addolorata che le viene periodicamente costruito addosso non vuole starci, sente che si tratta comunque di un'intromissione indebita. «Il dolore è mio, ed è una cosa privata. Nessuno mi ha mai visto piangere in pubblico». Si doveva parlare del Movimento, che ormai cammina sempre più in ordine sparso, ognuno per sé, al punto che il termine viene usato ormai soltanto dai media. «In qualche modo a Genova, nel 2001, è finito qualcosa. Un percorso comune, la costruzione di qualcosa che tenesse insieme realtà tanto diverse. Anche per questo sono qui e dopo andrò all'altra manifestazione. Trovo sbagliato che ci si disperda».
In questo lento pomeriggio, Haidi Giuliani raccontava del suo stupore, della voglia di rimozione che ogni tanto entra in circolo e rende questo Paese così particolare. «Perché in Italia non si parla dei processi sui fatti del G8? Non capisco, davvero. I giornali inglesi e tedeschi ne parlano. Noi, muti».
Era stato un colloquio a tappe forzate, interrotto a ripreso più volte. C'era da fare spazio alle persone che vogliono salutarla, le propongono di partecipare a manifestazioni, raduni, iniziative, da Viterbo a Prato, da Venezia a Forlì. Haidi scherzava sulla sua nuova vita. «Sono una senatrice precaria». E confessava che non le piace, l'Italia che vede sui banchi del Senato. «Io ho sempre avuto grande rispetto per le istituzioni. Ma le istituzioni lo mettono a dura prova. Noto uno scollamento totale tra politica e società». Ogni venti minuti, Haidi rispondeva alle telefonate della figlia, che voleva sapere come stava andando, con un filo di apprensione. «Le parti si sono invertite, è lei che si preoccupa per me».
Di questo, e di altro ancora, si doveva parlare, durante una camminata resa pesante solo dal caldo. Poi il corteo è arrivato in corso Vittorio. I ragazzi che stavano dietro lo striscione che precedeva il suo hanno tirato cappucci e passamontagna fuori dallo zaino. Haidi ha provato a fermarli. Si è trovata dentro scene che le hanno inevitabilmente ricordato altro, per questo alla fine della giornata era ancora scossa. «Mi ha colpito questa rabbia cieca. Volevano solo distruggere. Un gruppo di ragazzi male informati, che non sapevano nulla. Hanno rovinato tutto. E adesso le uniche immagini che si vedranno sono quelle degli scontri, il resto non conta». Detto con molta rassegnazione, perché Haidi lo sa bene, è così che va. E un altro mondo non è ancora possibile.

Corriere della Sera 10.6.07
Resta vuota la piazza della «sinistra di governo»
Poche centinaia sotto le bandiere di Prc, Pdci e Verdi Giordano: «Ora lavoriamo per la ricomposizione»

ROMA — «Fa caldo, è presto. Ma arriveranno... La piazza si riempirà». Non arrivano, invece. L'immensa ellissi del Valadier non si riempie e la speranza che Oliviero Diliberto aveva scandito alle cinque nei microfoni dei cronisti, alle sei e mezzo suona come un cupo allarme per la sinistra di governo. Il colpo d'occhio è impietoso, i poliziotti sono quasi più dei manifestanti. Poche centinaia di persone hanno scelto il palco di piazza del Popolo. Il sit-in contro Bush (ma non contro Prodi) promosso da Prc, Pdci, Verdi e schivato dalla Sinistra democratica di Fabio Mussi, sancisce il divorzio dai movimenti. Solo alle otto, quando i leader sono ormai lontani, spezzoni di centri sociali e Giovani comunisti lasciano il corteo dei pacifisti estremisti e approdano sotto l'obelisco: per godersi il concerto dei Modena City Ramblers.
Il flop era annunciato, il che non attutisce il colpo. Sui manifesti c'era scritto «ore 15», ma annusata l'aria l'inizio è slittato alle 17. «Non mi nascondo dietro un dito, la piazza è vuota» ammette Diliberto e dice che il problema della sinistra non è la piazza, ma «i risultati delle amministrative». Franco Giordano invece prova a resistere, dichiara che non di manifestazione si tratta ma di «kermesse», poi addossa alla sinistra-sinistra «l'errore politico» delle due piazze. «Non voglio far polemica, non è nello spirito del movimento costruire contrapposizioni. Ma noi — rivendica il segretario del Prc — volevamo una manifestazione unitaria». E adesso? «Niente drammi, lavoreremo per la ricomposizione della sinistra». Palloncini gialli di Legambiente, poche bandiere rosse, simboli Fiom, Cgil, Arci e sparuti cartelli. «Bush sei come tuo padre, mafioso». «Bush terrorista e dittatore». I Giovani comunisti hanno mandato un lenzuolone: «Nessuno scudo tra noi e le stelle». E lo striscione
choc srotolato dal Movimento Zero? «Noi con i talebani» c'era scritto, ma la polizia l'ha fatto sparire.
Il servizio d'ordine, imponente e inutile, è tutto per Francesco Cossiga. Lo accoglie Diliberto, lo abbraccia in nome della comune «sarditudine». E dire che i comunisti scrivevano Kossiga, con il «k»... Pensa ancora, il segretario del Pdci, che Bush abbia mani grondanti di sangue? «Assolutamente sì. Non è che se le è lavate». I ministri hanno ascoltato le suppliche del premier e sono rimasti a casa. Il sottosegretario Alfonso Gianni pure, ma al cellulare confessa il dispiacere: «Il partito mi ha chiesto di non venire». C'è però Giuliana Sgrena, la giornalista che fu rapita in Iraq, c'è un ex senatore della California di nome Tom Haylen, ci sono il verde Angelo Bonelli e Gennaro Migliore. «Dobbiamo riflettere», guarda avanti il capogruppo del Prc alla Camera. Le voci che arrivano dall'altra piazza, quella degli 80 mila, portano ventate di rabbia contro i leader. Chi dà loro dei «guerrafondai», chi rimprovera scarso coraggio pacifista per un posto al governo.
«Io non sto al governo», si cava fuori Diliberto. Poco più in là Russo Spena spende molte parole per accreditare la «funzione cerniera» del Prc e lanciare «un ponte» tra le due piazze. «Al corteo c'è Heidi Giuliani» ricorda il presidente dei senatori del Prc. Come a dire «è roba nostra», noi siamo qui perché Prodi non cada, ma col cuore...

Repubblica 10.6.07
Cacciari: Giordano, Diliberto e compagni sono conservatori che con l'innovazione non hanno nulla a che spartire
"Rifondazione zavorra per l'Ulivo questo flop di Roma è un segnale"
di Umberto Rosso

Sinistra radicale. Ma quale sinistra radicale. Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Frena le liberalizzazioni
Le vie d’uscita. Ci vuole un Partito democratico federale. Al Nord come al Sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica?

ROMA - «Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l´innovazione non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più nessuno».
Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche grazie a loro.
«Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra».
Non sarà invece che l´anti-americanismo non paga più?
«L´anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non è certo perché la gente ama il presidente degli Usa».
Perché, allora?
«Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi, decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell´Ungheria, di Praga, dell´Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la manifestazione di una minoranza dei conservatori».
Minoranza, perfino?
«Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché stanno dall´altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l´hanno portato: un bisogno della politica, del desiderio, dell´utopia, chiamatela come vi pare».
La sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti?
«Ma radicale de che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l´hanno mai avuto. Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano né a destra né a sinistra».
Però i voti li hanno pescati, il cantiere di sinistra conta 150 parlamentari.
«Gli rimane qualcosa aggirandosi fra i cascami dell´ideologia. Ma soprattutto resistono ancora grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo».
Non sarà che a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga pegno?
«Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c´entra nulla. Anche perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri padri costituenti? Puntare nell´Italia del ‘46, devastata dalla guerra, alla piena occupazione, era un programma di lotta e di governo».
Teme, dopo il flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
«Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no c´è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti all´attacco. E´ l´unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l´arbitro fischi la fine della partita».
Come si mette la palla in rete?
«Una Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica se devo stare con Rifondazione?».

Repubblica 10.6.07
Rischioso elogio del nostro premier (solo un estratto)
di Eugenio Scalfari

(...)
Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede. (...)

Repubblica 10.6.07
Formigoni: il Pd dovrà allearsi con Fi
di Andrea Montanari

SAN PIETROBURGO - «Per non nascere già morto, il Partito democratico dovrà allearsi anche con Forza Italia», dice dalla Russia - dove guida una missione della Regione - Roberto Formigoni. Secondo il presidente della Lombardia, il Pd dovrà abbandonare la sinistra antagonista: «Che senso ha fare un nuovo partito se non si vuole fare anche una nuova politica, forse anche con nuove alleanze e un nuovo sistema elettorale». Alla domanda sulla possibilità che Forza Italia possa essere un eventuale partner politico, Formigoni risponde così: «Spetterà ai responsabili del Pd scegliere, ma mi sembra difficile pensare di dialogare con il centrodestra lasciando da parte quello che si è affermato in questi anni come il protagonista assoluto». Il governatore lombardo affronta poi la questione della Cdl: «L´unità resta fondamentale. Berlusconi in questo momento è il leader assoluto. Dopodichè ho sempre detto di essere favorevole a un partito unitario». Nessun commento sui destini politici di Michela Brambilla, ma un´apertura a una sua possibile corsa personale: «In Italia oggi per un esponente del centrodestra non c´è nulla di più importante che fare il capo della più importante regione italiana. L´unica cosa più importante sarebbe fare il leader, ma ora c´è Berlusconi». E dopo chi vincerà il derby milanese tra lei e Letizia Moratti? «Credo che possiamo vincerlo entrambi. Io non ho ancora deciso se mi ricandiderò nel 2010. Dipende da ciò che avrò voglia di fare. È probabile che alle prossime politiche torni a correre per il Senato».

l’Unità 10.6.07
Gli manca la parola
di Maria Novella Oppo


SE LA CRONACA del Tg1 è esatta (e perché mai dovremmo dubitarne?), George Bush atterrando a Roma, conscio della tensione provocata nel Paese e del particolare momento storico, avrebbe dichiarato: «Sono felice di essere qui». Una dichiarazione impegnativa, che non ha però esaurito la capacità espressiva del presidente Usa, il quale, in quello che viene definito da molti il momento più impegnativo (per lui) del passaggio in Italia, e cioè la visita in Vaticano, stringendo la mano del Papa avrebbe detto all'incirca: «È una gioia essere qui con lei». Notoriamente l’uomo considerato più potente del mondo non è cattolico, ma non perde occasione per dichiarare la sua fede in Dio. Giuliano Ferrara gli crede, e chi siamo noi per dubitare di Giuliano Ferrara? Del resto, quello che possiamo vedere coi nostri occhi anche noi miscredenti è che Bush ha avuto molto da Dio: soldi, petrolio, potere. Gli manca solo il dono della parola. Mentre al suo amico Berlusconi le parole non mancano mai. Ieri infatti ha detto che si vergogna. Era ora.

l’Unità 10.6.07
New York Times: Albania, l’unico Paese dove Bush è benvenuto


Scrive il New York Times, in una corrispondenza da Tirana: «Questa piccola nazione è uno dei pochi luoghi rimasti al mondo in cui il presidente può riscaldarsi lo spirito di fronte a sentimenti a favore dell’America, senza l’ombra di un manifestante. Gli americani qui sono salutati con una adorazione che consola e che sembra venire da un’altra epoca». «L’Albania - continua il NYT - è certamente la nazione più filo americana d’Europa e, forse, nel mondo, ha detto il sindaco di Tirana e leader dell’opposizione (socialista), Edi Rama. (...) Neanche in Michigan il presidente degli Usa sarebbe accolto probabilmente in modo così caloroso». Il Paese è talmente desideroso di mostrare la propria incondizionata benevolenza verso l’illustre ospite che il parlamento albanese il mese scorso ha approvato all’unanimità una legge che autorizza i militari Usa a compiere qualsiasi tipo di intervento sul suolo albanese, compreso l’uso della forza, al fine di garantire la sicurezza del Presidente. Un giornale locale, non si capisce se animato da spirito ironico o da sincera ammirazione è arrivato a titolare: ’Per favore, occupatecì. È però vero, aggiunge l’articolo, che anche nel resto della «Vecchia Europa» si riscontrano segnali che lo spirito critico verso la politica estera americana si è attenuato.

l’Unità 10.6.07
Baudelaire, quei fiori recisi dalla censura
di Antonio Prete


150 ANNI FAusciva la celebre raccolta Les Fleurs du mal che fu sottoposta a furiosi attacchi, processata e condannata: sei poesie furono cancellate dal libro. E bisognerà aspettare il 1949 perché quella sentenza venga annullata

Alla base della condanna una morale fondata sulla censura della corporeità e della lingua che interroga il desiderio

Le poesie tagliate poi uscite a parte mostrano come il dialogo tra poeta e lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia

Un libro di versi, un processo, una condanna per oltraggio alla pubblica morale e al buon costume. Uno sguardo sulla poesia obliquo, infastidito, perbenista: di questo testimoniano, ancora oggi, centocinquanta anni dopo il processo, le sei poesie condannate, incastonate nella splendida corona degli altri Fiori col titolo Pièces condamnées. Un titolo che dice di uno sguardo dell’epoca, ansioso di preservare - col ricorso alla tutela giuridica, e alla sanzione di un tribunale - l’orizzonte di una morale ipocritica, e comune. Una morale fondata sulla censura della corporeità, sulla censura della lingua che interroga il desiderio nella sua incolmabilità e anche nella sua oscurità, nei suoi silenzi, nelle sue sfide.
La prima edizione delle Fleurs du mal è messa in vendita dagli editori Poulet-Malassis et De Broise il 21 giugno del 1857. E, già dopo qualche giorno, alcuni attacchi ben orchestrati su Le Figaro creano intorno alle Fleurs du mal lo stesso clima che s’era creato nei mesi precedenti intorno a Madame Bovary di Flaubert. Né mancano, sulla stampa moralista, i confronti tra le due opere. Negli articoli su Le Figaro e nell’atto ufficiale di denuncia indirizzato alla Direction générale de la sûreté publique quattro poesie sono accusate di oltraggio alla morale religiosa, e ben nove di «attente» alla morale pubblica. Il sequestro degli esemplari del volume già messi in vendita è il primo atto giudiziario cui seguirà rapidamente il processo. Che è celebrato il 20 agosto 1857 presso il Tribunal de la Seine. La requisitoria è affidata al sostituto Ernest Pinard, il giudice che mesi prima aveva tenuto la requisitoria contro Madame Bovary. La difesa è affidata dal poeta all’avvocato Gustave Chaix d’Est-Ange. È per costui che Baudelaire ha preparato un dossier: di questo ci restano le Notes et documents pour mon avocat e Petits moyens de défense tels que je les conçois, uno scritto - di consigli e suggerimenti - che Sainte-Beuve aveva indirizzato al poeta in vista del processo.
Fragile è la difesa dell’avvocato, ma certo non veemente la requisitoria di Monsieur Pinard. Il quale così conclude, rivolto ai giudici: «Siate indulgenti con Baudelaire, che è persona di natura inquieta e priva di equilibrio. Siatelo anche con gli stampatori, che si mettono al coperto dietro l’autore. Ma, condannando almeno alcune poesie del libro, date un avvertimento resosi necessario». E tuttavia l’intera requisitoria espone, nei limiti dichiarati di un giudizio d’ordine soltanto giuridico, la sequenza dei versi «offensivi», aggiungendo alle sei poesie che saranno di fatto espunte altri passaggi, in particolare da Le Reniement de saint Pierre, Abel et Caïn, Les Litanies de Satan, Le Vin de l’assassin e anche Le Beau Navire. La questione posta dal magistrato è se la rappresentazione di quel male che è nel titolo possa indurre alla distanza, alla repulsione, o possa provocare una qualche attrazione. La sua eloquenza ha intorno a questo punto un passaggio molto chiaro: «Crediamo forse che certi fiori dal profumo vertiginoso siano buoni da respirare? Il veleno che emanano non allontana da essi: sale alla testa, ubriaca i nervi, dà turbamento e vertigine, e può anche uccidere». Profumo e veleno: il giudice accoglie due figure ricorrenti e significative dell’immaginazione baudelairiana per dislocarle dall’ordine del linguaggio poetico all’ordine di una moralità che sa i netti confini tra il bene e il male. Una sottrazione di tensione metaforica, un misconoscimento della natura del linguaggio poetico, ma anche, allo stesso tempo, la percezione che nel «libro atroce» trascorre un’energia in grado di scompigliare le convenzioni di una morale borghese.
Sovrapporre il codice alla poesia è un atto non solo improprio ma violento. Passerà quasi un secolo, prima che, il 31 maggio 1949, una Corte di cassazione decida di annullare quella indebita sovrapposizione e quella sentenza.
Un tribunale, dunque, pretende di purificare un libro di versi, cancellando alcune bellissime poesie, nonostante Baudelaire, negli appunti per la difesa stesi per il suo avvocato abbia più volte ripetuto che un libro di versi deve essere giudicato nell’insieme: «Un libro di poesia deve essere valutato nel suo insieme e attraverso la sua conclusione». Circa la questione della morale, ecco un altro appunto per l’avvocato: «Ci sono diverse morali. C’è la morale positiva e pratica alla quale tutti devono obbedire. Ma c’è la morale delle arti. Che è tutt’altra, e, da che mondo è mondo, le Arti lo hanno dimostrato bene». E, ancora, concludendo sulla morale beghina e conformista: «Ormai si faranno solo libri consolanti, libri che servano a dimostrare che l’uomo è nato buono, e che tutti gli uomini sono felici. - Ipocrisia abominevole!».
Il processo, oltre a comminare al poeta e agli editori una consistente ammenda, condanna sei poesie alla sparizione dal libro. Il quale nella fine d’agosto del 1857, conclusosi il processo, viene rimesso in circolazione con un vuoto.
Un vuoto di versi che, volendo segnalare l’avvenuta purificazione del testo, di fatto finisce col segnalare l’altra, profonda mancanza che trascorre in tutti i versi del poeta: una ferita che è solitudine aspra del vivente, lontananza dell’altrove, condanna al regno dell’opacità e della ripetizione. Era forse per questa percezione dell’eloquenza poetica racchiusa in quel vuoto di versi, in quella sottrazione di musica violentemente introdotta nel libro bellissimo e atroce, e non certo per fierezza di collezionista, che Edmond Jabès, nella sua casa parigina, mi mostrava, alcune volte, tra i pochi libri salvati nell’esilio, proprio quella prima edizione delle Fleurs du mal «condannata», mancante delle sei poesie. Il libro con una ferita. Il libro che diceva di una mancanza, della mancanza.
Le sei poesie condannate, che mai il loro autore avrebbe posto in relazione di contiguità, vengono restituite, dal giudizio severo e moralistico di un tribunale, a un’unità fittizia, sancita solo dalla censura. Ma proprio questa unità fittizia l’autore, dopo la condanna, polemicamente accettò, quando nel febbraio del 1866 decise di stampare le sei poesie proprio come «pièces condamnées». L’edizione, che, con il titolo Les Épaves de Charles Baudelaire, comprendeva anche altre nuove poesie, uscì a Bruxelles, con la dicitura Amsterdam (nel frontespizio un’acquaforte di Félicien Rops). Conservando nelle edizioni successive quella unità soltanto di derivazione censoria, le sei poesie hanno ogni volta posto la questione del rapporto tra la lingua della poesia e la lingua della pubblica e convenzionale morale, e hanno mostrato come il dialogo tra il poeta e il lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia e avvenga in quella regione dove il pensiero e l’immaginazione sono la stessa cosa, il sapere e l’esistenza respirano, insieme, nella libertà della lingua, delle sue figure, della sua musica.

Ecco l’«oltraggio» dei versi

E le braccia e le gambe e le cosce e le reni
- ch’eran lisce come olio, morbide come cigno -
prendevano i miei occhi, tutti intenti, e sereni.
E intanto il ventre e i seni, frutti della mia vigna,

amorevoli più degli Angeli del male,
mi turbavano l’anima, ch’era tutta assopita,
la sbalzavano via dal cristallo regale
dove lei solitaria se ne stava, e quieta.

...

E il tuo corpo s’inarca
piega, inclina
come nave sull’onda
che rolla ai fianchi
e i suoi pennoni china
sull’acqua e li affonda

Corriere della Sera 10.6.07
Il classicismo di Leopardi
Un saggio di Mario Martelli
di Luciano Canfora


Esce in questi giorni, col giovanilistico titolo Zapping, lo «Zibaldone» di Mario Martelli (Gli Ori, pp.704, e 40) e ha il pregio del disordine. Del resto raccolte cui un dotto affida il quotidiano bilancio delle sue letture e delle riflessioni che esse hanno suscitato in lui presentano non di rado l'aspetto della «selva». Ma la selva costituisce un disordine sui generis: il filo conduttore c'è ed è nella curiosità e negli andirivieni intellettuali dell'«io» che unifica, come soggetto senziente, quella selva. Talvolta il disordine è ostentato per nascondere qualcosa, come è il caso della prefazione, in forma di lettera, della cosiddetta Biblioteca di Fozio.
Mario Martelli ha — e non da ieri — una sua stella polare, che è la visione del classicismo come costante della letteratura italiana piuttosto che momento storico circoscritto. Questo presupposto, che in realtà è frutto di vasta ricerca empirica (si vedano le pagine sull'uso poetico di già da Dante a Lalla Romano), si invera in un reticolo di riferimenti ai classici, che Martelli valorizza e chiama alla luce nel mentre che percorre senza sosta i sentieri della letteratura perlustrando, indagando, rileggendo, e spesso facendo progredire l'interpretazione proprio attraverso il riconoscimento della fonte classica che sta dietro un verso o una frase. Per esempio del suo prediletto Machiavelli, al quale già aveva dedicato, per la Salerno Editrice, un attento scrutinio degli storici greci antichi che, pur attraverso il filtro di traduzioni latine, sustanziano tanta parte dell'«uso» machiavelliano della storia.
Ma veniamo — in questo «Zibaldone» — ad un caso emblematico del nesso tra scoperta delle fonti e progresso nell'interpretazione. Esso riguarda un verso notissimo e purtuttavia passibile di ulteriore schiarimento, della Ginestra. È il verso 201, il più distaccato del filosofico poema: «Non so se il riso o la pietà prevale». In modo persuasivo Martelli mostra — ciò che era sfuggito ai precedenti interpreti (ma Domenico De Robertis vi s'era approssimato) — che dietro quell'alternativa (riso o pietà) c'è un modello classico: ci sono i due filosofi Democrito ed Eraclito, dei quali l'uno ride e l'altro piange di fronte all'insensatezza dei comportamenti e delle illusioni degli uomini. Alla base c'è una lunghissima tradizione, al principio della quale c'è Seneca, che Martelli opportunamente ricorda e traduce. E si potrebbe anche addurre a riprova certa della fondatezza dell'osservazione di Martelli la lettera di Leopardi a Giordani del 18 giugno 1821: «Ma dimmi, non potresti tu da Eraclito convertirti in Democrito?». «Eraclito — scrive Seneca nel de ira (10, 3) — ogni volta che usciva di casa e intorno a sé vedeva tanto grande numero di malamente viventi, anzi di malamente morenti, piangeva e aveva pietà di quanti gli si facevano incontro contenti e beati. Invece di Democrito dicono che ogni volta che usciva in pubblico gli veniva da ridere: a tal punto nulla di ciò che gli altri seriosamente facevano gli sembrava degno d'esser preso sul serio». La stessa tradizione si ritrova in Giovenale (decima satira): «Ogni volta che mettevano il piede fuori di casa l'uno piangeva, l'altro rideva a labbra aperte».
E c'è, a ben vedere, già Orazio delle Epistole. Nella prima del libro secondo egli inquadra in una situazione concreta il riso di Democrito di fronte alla scempiaggine umana: «Se Democrito fosse tra noi, riderebbe nel vedere le facce del volgo pervase da ammirato stupore alla vista della giraffa o dell'elefante bianco». In Luciano di Samosata il topos è ben chiaro, per esempio nelle Vite all'incanto (13). Ed è interessante osservare che esso si presenta per la prima volta come operante anche nella pittura in un'attestazione tarda e molto interessante di Sidonio Apollinare (V secolo dopo Cristo), nell'Epistola al vescovo Fausto. Lì Sidonio cita la pratica di affrescare i ginnasi e i pritanei con una serie di ritratti di filosofi e scienziati ciascuno presentato con la sua connotazione iconografica tipica: «Speusippo a capo chino, Arato con la testa piegata all'indietro, Zenone con la fronte corrugata, Epicuro con la pelle distesa, Diogene con la barba lunga, Socrate con la chioma candida, Aristotele con un braccio proteso, Senocrate con le gambe accavallate, Eraclito che piange con gli occhi chiusi, Democrito invece che ride a labbra aperte etc.» (Epistole IX, 9, 14). Il passo di Sidonio venne ricopiato pari pari da Pietro Crinito nel De honesta disciplina (1508), opera influentissima nel Rinascimento. Essa ha certamente influito sulle varie raffigurazioni pittoriche moderne dei filosofi.
Certo — all'interno del ciclo dei filosofi — la coppia Eraclito-Democrito godette di una rinomanza privilegiata, in epoca rinascimentale e moderna. Ritorna in più luoghi delle opere italiane di Giordano Bruno e ritorna nell'anonimo Dialogo tra Eraclito e Democrito sulla Rivoluzione politica di Venezia (1797). E trova significativa realizzazione nella grande pittura rinascimentale per esempio nell'affresco del Bramante che raffigura appunto Eraclito, le cui lacrime (un paio) spiccano sulle scarne e ascetiche guance, e Democrito che se la ride «labris apertis», mentre di mezzo c'è la sfera terrestre raffigurata in planimetria: a significare ancora una volta che è del mondo, dei comportamenti degli uomini, che l'uno ride e l'altro piange.

Corriere della Sera 10.6.07
Ritorno a casa. Un capolavoro di Caravaggio
Napoli apre un palazzo del Seicento per il «Martirio di sant'Orsola»
di Biagio Coscia


Dopo un tour internazionale, l'ultimo straordinario dipinto dell'artista trova una sede definitiva nel luogo dove fu realizzato

Era l'opera più misteriosa di Caravaggio, l'ultima della sua vita. Realizzata un mese prima di morire. Ma anche quella dalla storia più sofferta e controversa. Ora è il dipinto che più di ogni altro ha un percorso tracciato da documenti e testimonianze. Dopo essere stato esposto al Museo di Capodimonte e aver compiuto un tour internazionale, da venerdì scorso il «Martirio di sant'Orsola», recentemente restaurato, è esposto in maniera definitiva a Napoli, dove fu realizzato nella primavera del 1610. Bene illuminato, è visibile in una delle sale di Palazzo Zevallos Stigliano in via Toledo, sede degli sportelli e degli uffici di Banca Intesa.
Al dipinto si arriva seguendo un piccolo percorso museale corredato da foto di dettagli, supporti multimediali e didascalie esplicative che aiutano a capire anche com'era Napoli quando ospitò il geniale pittore. Un'epoca di un paio di decenni antecedente alla costruzione del Palazzo, voluto da Giovanni Zevallos (un «self made man» del XVII secolo) e poi appartenuto ai Colonna di Stigliano. Le altre opere d'arte che illustrano la Napoli del '600 sono firmate da Gaspar Van Wittel, l'olandese che cambiò il suo nome in Vanvitelli, padre del più celebre Luigi, pittore e architetto. Nella stessa sezione appaiono diciassette vedute di panorami campani, firmate da un altro olandese, Anton Smink Pitloo, e recuperate sul mercato inglese dal Banco di Napoli.
Completa il percorso uno schermo al plasma dove scorre il documentario realizzato da Mario Martone proprio su Caravaggio. E un racconto delle fasi del restauro da cui è emersa, al centro della tela, una mano che sembra voglia fermare il momento della freccia mortale mentre questa entra nel corpo della donna.
Il quadro fu realizzato per il principe genovese Marcantonio Doria che, come molti collezionisti, era un po' irrequieto e scriveva spesso a Caravaggio per accelerare i tempi della consegna al punto che il dipinto fu messo ad asciugare al sole di Napoli. Nel '72 la Banca Commerciale comprò il capolavoro dalla baronessa di Eboli, cliente dell'Istituto di credito.
Si completa così l'itinerario caravaggesco a Napoli. La città, infatti, vanta altri due capolavori dell'artista, oltre al «Martirio»: «La flagellazione» esposta al museo di Capodimonte e le «Sette opere della Misericordia» al Pio Monte della Misericordia in via dei Tribunali.

Corriere della Sera 10.6.07
Eutanasia. Intervista esclusiva a Jack Kevorkian, appena scarcerato, che si prepara ad una nuova crociata
di Alessandra Farkas


Dottor Morte: «Non sono pentito»
«Morire è un diritto, le leggi migliori sono quelle europee»

NEW YORK — «Continuerò a predicare la legalizzazione del suicidio assistito finché campo. La mia crociata fallirà, ma mi resta un motivo per vivere». Pallido ed emaciato a causa dei gravi problemi di salute che l'affliggono da anni — tra cui diabete, epatite C, pressione alta, vertigini e arteriosclerosi — il «Dottor Morte» Jack Kevorkian sembra impermeabile alla pioggia di critiche, alcune violentissime, che hanno accompagnato la sua scarcerazione dalla prigione di Lakeland, in Michigan.
Il controverso patologo americano, attivista per il diritto all'eutanasia, era stato condannato nel 1999 per omicidio di secondo grado, dopo aver aiutato almeno 130 malati terminali a morire.
Avrebbe dovuto scontare una pena da 10 a 25 anni di carcere - per aver somministrato una iniezione letale, ripresa dalla tv, ad un 52enne affetto dal morbo di Lou Gehrig, detta anche Sclerosi laterale amiotrofica — ma le autorità hanno acconsentito al rilascio anticipato, per «buona condotta».
Oggi Kevorkian non fa un passo senza il suo avvocato ed è corteggiato dai produttori di Hollywood, che vorrebbero girare un film sulla sua vicenda.
Il «New York Times» la definisce «uno showman arrogante e drogato di pubblicità», i gruppi per la difesa dei diritti civili degli handicappati l'accusano di voler sterminare i disabili; persino le associazioni pro-eutanasia sostengono che ha danneggiato la loro causa.
«Sono vittima dei media, che si alleano sempre con i tiranni, mai con la gente della strada, qui in America al 92 per cento pro-eutanasia. I padri fondatori della Patria, Thomas Jefferson, James Madison e Benjamin Franklin, lo sapevano già».
Alcuni hanno ironizzato sul fatto che, nonostante le abbiano dato un anno di vita, d'eutanasia lei non vuol proprio saperne.
«L'ho detto tante volte: io non ho paura di morire. E non l'ho mai avuta».
Continuerà ad aiutare altri a morire?
«Soltanto ed esclusivamente con mezzi legali. Le autorità mi hanno concesso due anni di libertà vigilata. Ma ad una condizione: non violare più la legge aiutando i malati terminali a morire. Ho intenzione di rispettare i patti anche dopo i due anni».
Perché ha deciso di farlo?
«Che vantaggio ne trarrei, se non rischiare di tornare dietro le sbarre? Non ne vale la pena. Adesso tocca alla gente lottare per i propri diritti. Sanciti dalla costituzione».
Di quale costituzione parla?
«Quella americana. In prigione ho avuto modo di studiarla a fondo, scoprendo così la mia nuova missione, più universale della prima: la lotta per i nostri diritti naturali, consacrati dai padri fondatori ma calpestati da decenni di dispotismo bipartisan e abrogati da leggi inique. Anche l'eutanasia è contemplata dal 9˚emendamento della nostra costituzione».
Non tutti la pensano come lei.
«Già. Per questo girerò l'America, predicando e istruendo i giovani. Esortandoli a lottare per i diritti che già hanno e che gli spettano».
Ha intenzione di portare la sua crociata altrove?
«Vorrei tanto andare in Germania, dove vive mia sorella, ma ho bisogno di un visto speciale persino per uscire dal mio stato. In fatto d'eutanasia l'Europa è molto più avanti dell'America».
Che cosa pensa del movimento pro-eutanasia italiano?
«Penso che sia fortissimo, ma la chiesa cattolica è sempre stata contro tutte le libertà e non gli permetterà mai di sfondare. L'Italia dovrebbe adottare il modello olandese, dove il medico accompagna il paziente fino all'ultimo, non quello dell'Oregon, che è disastroso».
In che senso?
«La legge dell'Oregon, che la California adesso vorrebbe stupidamente imitare, abbandona a se stesso chi vuole morire. Chi non può deglutire o muovere la mano è fregato perché tocca al paziente somministrarsi la dose. L'America è il Paese più religioso e perfido del pianeta».
Di chi è la colpa?
«Dell'etica religiosa che qui detta legge all'etica medica e politica. La questione non può e non deve essere regolata dallo stato, ma dalla classe medica».
Intende dall'American Medical Association?
«Macché. Quella è un'organizzazione gestita da politici e religiosi, tutti contrari all'eutanasia. Bisognerebbe fondare un gruppo d'esperti, dalle idee aperte e innovatrici. Purtroppo non sarò io a farlo. La legge me lo vieta».

Ha «aiutato» 130 malati: libero tra le polemiche
Scarcerato pochi giorni fa dalla prigione di Lakeland in Michigan, Jack Kevorkian, 79 anni, americano di origini armene, è il noto «Dottor Morte». Ovvero un medico che si è dedicato con pervicacia ossessiva alla «causa» dell'eutanasia, aiutando a morire almeno 130 persone. Personaggio estremamente discusso e messo sotto inchiesta più volte (nel 1991 lo Stato del Michigan gli revocò l'autorizzazione ad esercitare la professione medica), finì sotto processo nel 1999 per aver somministrato l'ennesima iniezione letale ad un malato di Sclerosi laterale amiotrofica (le immagini furono trasmesse in televisione). Doveva scontare almeno 10 anni di carcere. Ora Kevorkian, sofferente di una epatite C contratta nella guerra del Vietnam, è in cattive condizioni di salute.

L'anniversario dell'assassinio dei fratelli Rosselli
Un video e un convegno per ricordare il 70esimo dell’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, avvenuto a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937.
Un documentario Rai «Il caso Rosselli: un delitto di regime», di Stella Savino e Vania del Borgo sarà in onda il 4 luglio, prodotto con il contributo della della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, presieduta da Valdo Spini deputato di Firenze di Sd.
Finalmente si è rotto quel silenzio che per molti anni c'è stato intorno alla morte dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Un silenzio non casuale, sostiene Silvia Rosselli, figlia di Carlo: «Se ne ricomincia a parlare ora dei fratelli Rosselli, dopo un black-out nel quale una certa sinistra, insieme ad una certa destra, ha monopolizzato la stampa». Ora ha un sogno, vedere quel documentario «proiettato nelle scuole per far conoscere ai più giovani la verità sul sacrificio di due giovani».
Le figure e il ruolo dei fratelli antifascisti uccisi mentre si trovavano al confino in Francia, è stato ricordato da Spini: «sono un esempio in un Paese oggi disorientato dal punto di vista morale e etico. Il loro messaggio unisce e rilancia un concetto di libertà».
Carlo Rosselli, allievo di Salvemini, era stato un combattente antifascista in Spagna, sul fronte di Aragona, cercò poi di costituire un vero e proprio battaglione (intitolato a Matteotti). Nel novembre parlò da Radio Barcellona, esortando gli italiani alla lotta antifascista con il motto "Oggi in Spagna, domani in Italia".
Ancora Valdo Spini: «La Cagoule - l'organizzazione fascista francese al soldo di Mussolini responsabile del delitto - ha fatto poi la sua capriola: è passata dalla parte di De Gaulle. Il documentario ricostruisce anche come uno dei cagoulard, Jean Bouvyier, sia amico di famiglia, e venga visitato in carcere dal ventenne François Mitterrand, allora simpatizzante di destra, prima della maturazione della sua svolta antinazista e della partecipazione alla Resistenza. Successivamente, Mitterrand ministro, darà un salvacondotto per meriti resistenziali allo stesso Bouvyier, che fuggirà in America Latina. In Italia ci sarà un primo processo nel paese ormai liberato, (ma Galeazzo Ciano, diventato traditore, è stato nel frattempo fucilato dalla RSI). Imputati il capo del SIM, generale Roatta, che nel corso del processo, nel marzo 1945, viene fatto fuggire, il collaboratore di Ciano, Filippo Anfuso, e gli ufficiali del SIM, Santo Emanuele e Filippo Navale. Le condanne ci sono, durissime, fucilazione per Anfuso, ergastolo per gli altri, ma prima la Cassazione le annulla, poi, nel 1949 la Corte di assise di Perugia assolve tutti, chi con formula piena, chi, nei casi disperati, per insufficienza di prove. (Calamandrei, sdegnato, parlerà di "giustizia suicida"!). Settanta anni dopo il sacrificio dei Rosselli è una pietra miliare per chi vuole restituire una spina dorsale morale al nostro paese. Il messaggio ideologico di Carlo, il suo «Socialismo Liberale», da testo eretico, criticato nel 1930 da tutta la sinistra tradizionale, addirittura duramente scomunicato dai comunisti, è oggi vivo ed attuale per una sinistra moderna, un potenziale punto di riferimento unitario per chi voglia difendere il sostantivo "socialismo": un socialismo che non si faccia realizzatore delle libertà non è più degno di questo nome e l´affermazione delle libertà, necessita che ne sia promosso l´effettivo godimento per tutti. Alla «Attualità del socialismo liberale» è dedicato un numero speciale dei «Quaderni del Circolo Rosselli», preparato per questo evento.
Il presidente della Rai, Claudio Petruccioli ha proposto che la sede Rai di Firenze venga intitolata ai Fratelli Rosselli. Una proposta giusta e intelligente. Sosteniamola».
(da Repubblica, l'Unità di oggi e dal sito della Fondazione Rosselli qui)


Liberazione 8.6.07
Limiti e paure della ri-fondazione della sinistra
Le tante reticenze che vedo dietro la difesa del mito-Cuba
di Lea Melandri


Cuba appartiene al patrimonio storico del socialismo reale, è ancora l’ultima “resistenza” all’imperialismo americano

Non sono così certa che sia la questione di Cuba ad accendere tanto gli animi dei comunisti "ortodossi", a svelare i residui di autoritarismo, di intolleranza, di "linea giusta", che anche chi non ha esperienza di partito poteva immaginare fossero rimasti inalterati, dietro tutti i propositi di ri-fondazione, ri-lettura della propria storia, ri-pensamento della politica, della gerarchia partitica e così via.
Qualunque sia il giudizio che si può dare sull'attuale situazione cubana, al centro di questa polemica, che non ha risparmiato ad Angela Nocioni e a Piero Sansonetti critiche violente, avvertimenti minacciosi - del tipo "avete passato il limite" - c'è la libertà di pensiero, l'apertura che il giornale ha fatto su temi e pratiche politiche che sappiamo bene quanto siano state occultate, tenute ai margini, per non dire osteggiate dai partiti della sinistra storica, sia moderata che radicale. Come figlia di proletari, mi ha sempre stupito l'arrogante sicurezza con cui i "rivoluzionari" di "buona famiglia" pontificavano sui "bisogni" delle classi indigenti, su una idea di "materialità" in cui erano contemplati solo lo sfruttamento sul lavoro, la salute e un'istruzione già finalizzata ideologicamente. Non posso dimenticare la delusione di non pochi sindacalisti nel constatare che gli operai, che frequentavano i corsi 150 ore, negli anni '70, preferivano parlare dell'amore che della fabbrica, organizzare qualche ballo in più e qualche assemblea in meno. Oggi Rifondazione comunista "scopre" la "persona", le "relazioni umane" relegate nella sfera privata, il maschilismo che ha contraddistinto storicamente il rapporto tra i sessi, si appresta persino ad aprire una breccia sulla "vita psichica". Franco Giordano, alla Conferenza di Carrara, ha parlato della necessità di una "terapia d'urto" per liberarsi di vizi antichi, schemi verticistici, limiti teorici e pratici nell'interpretare i cambiamenti in atto nella società, causa ed effetto della crisi in cui versa la politica. Fausto Bertinotti ha annunciato pochi giorni fa alla stampa, con la solennità dei grandi eventi, che la sinistra, "senza ripensamenti", senza estendere la sua indagine a "nuovi territori", non potrà riprendere il suo cammino. Non è mancata neppure l'indicazione di alcune di queste lande inesplorate: «Una sinistra deve camminare su due gambe: su ciò che non sappiamo dell'uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello sfruttamento e dell'oppressione della società».
Ora, si dà il caso che una componente non insignificante del popolo di sinistra, le donne impegnate da alcuni decenni nei gruppi femministi, ma anche giovani, intellettuali, associazioni della cultura, dell'arte, del lavoro sociale, su uomini e donne abbiamo una conoscenza lunga ed approfondita, anni di ricerca teorica e di pratiche volte a modificare pregiudizi, violenze manifeste e invisibili su cui si sono costruiti gli interni di famiglia quanto le istituzioni e i poteri delle istituzioni pubbliche.
A questo lavoro rimasto forzatamente sotterraneo, dopo l’esplosione degli anni ’70, o costretto a percorrere strade parallele di poca o nessuna considerazione da parte dei media e dei partiti, Liberazione, ha dato, con la direzione di Sansonetti, la passione femminista di Angela Azzaro, l’impegno del Forumdonne, e della redazione nel suo complesso, un rilievo e un riconoscimento finora sconosciuto. A questa apertura devo la mia quasi triennale collaborazione, e quella di molte donne e uomini che nell’autonomia del giornale hanno potuto incontrare percorsi diversi dai propri, confrontare pratiche di movimento e politiche istituzionali, avviare quel cambiamento che dovrebbe portare alla Sinistra europea, a una nuova cultura politica, a rapporti sociali più umani.
La critica all’autoritarismo, alla burocratizzazione, alla cecità ideologica di tanta parte di sinistra che si vorrebbe “rivoluzionaria”, ha trovato un suo punto di forza nella determinazione con cui il giornale ha assunto le tematiche del corpo, della sessualità, della violenza sulle donne, della riflessione sulla maschilità.
Su questa “novità” non c’è stata l’alzata di scudi che ci si poteva aspettare, almeno non in modo diretto, esplicito, conflittuale. Sulla questione di “genere” vale il politicamente corretto, il timore che, opponendosi, si finisca per cementare una socialità tra donne che tutti sanno essere ancora incerta e labile.
Cuba invece appartiene al patrimonio storico del socialismo reale e continua ad essere vista come l’ultima “resistenza” all’imperialismo americano. Qui il pensiero critico, la libertà di giudizio, il confronto delle idee, la non-violenza incontrano il loro “limite” improrogabile, ma anche, come si capiva bene dall’articolo di Marco Consolo, la fuoriuscita di un malumore a lungo represso, “la goccia che fa traboccare il vaso”. Come interpretare altrimenti l’affermazione: «Non si tratta di negare l’autonomia del giornale. Per carità. Lungi da me l’idea di fare un giornale “velina” di partito. Ma decisamente c’è un limite a tutto. Con questa ultima, ennesima, vicenda siamo abbondantemente oltre ».
Ma forse sbaglio a pensare che Cuba sia solo il pretesto ideologicamente più appropriato per gettare discredito sul nuovo corso aperto dal giornale. Cuba c’entra molto con l’ordine di valori e priorità che hanno connotato finora la sinistra anticapitalista, c’entra con l’idea di “libertà comunista” così come è stata rozzamente sintetizzata in articoli e lettere uscite sul giornale di domenica scorsa: «Lei pensa veramente – scriveva un lettore rivolgendosi a Sansonetti- che chi fa parte del terzo mondo consideri di primaria importanza muoversi, leggere, stampare? ». «Li ha mai visti di presenza i bimbi di un qualsiasi paese del centro America? Macilenti, sporchi, che giocano presso fogne a cielo aperto. Viva dio, meglio le illibertà». Sono ragionamenti che abbiamo già sentito, anche se variano ogni volta adattandosi a tempi, luoghi, situazioni diverse. “Borghese” è stato, per la sinistra “rivoluzionaria” degli anni ’70, un movimento di donne che denunciava il predominio della sessualità maschile, la cancellazione delle donne come persone, la subordinazione a una visione del mondo dettata da un soggetto unico. Privilegio di pochi intellettuali è stata considerata la pratica non autoritaria che partiva dagli asili per combattere sul nascere la formazione all’obbedienza, al consenso, alla passività. La libertà che ha come suo fondamento primo la presa di parola, il rifiuto della delega, la partecipazione collettiva ai processi decisionali è stata una delle molle più forti all’allargamento della politica, l’elemento propulsore di movimenti che avrebbero meritato fin dal loro nascere, da parte della sinistra istituzionale, ascolto, ripensamenti, capacità di formulare nuove ipotesi di lotta, nuove forme aggregative. Il tono della maggior parte delle lettere è da “resa dei conti”. Forse, se si riesce una volta tanto a non lasciarsi sedurre da spiriti guerrieri, potrebbe essere semplicemente l’occasione per un chiarimento di idee, visioni del mondo, prospettive, troppo a lungo rimandato. Per questa libertà di incontro, confronto, conflitto, Liberazione si è rivelato davvero un giornale finora “unico”.