martedì 12 giugno 2007

Repubblica 12.6.07
Ora Bertinotti e Diliberto taglino i ponti col comunismo
di Massimo L. Salvadori


Serietà vorrebbe che in vista del nuovo soggetto politico essi tirassero le somme che è stato un sistema dispotico che ha oppresso le masse lavoratrici
Si assiste ad una crescente impopolarità del sistema politico che tocca in primis il governo: la caduta di Prodi non verrebbe perdonata dal popolo del centrosinistra

Si dice che, quando l´economia va bene o abbastanza bene in un paese, vada bene anche per la politica. In generale è così, ma non per l´Italia, patria di anomalie che non finiscono mai. Oggi è proprio il fatto che l´economia conosca una congiuntura favorevole, seppure in misura notevolmente inferiore alla media europea, ad alimentare una crescente impopolarità del sistema politico che tocca, come logico, in primo luogo la coalizione di governo. Dal versante degli industriali Luca di Montezemolo ha denunciato l´incapacità della politica di assicurare la guida necessaria allo sviluppo del paese. Dal versante opposto anche i sindacati esprimono la loro insoddisfazione. A ciò aggiungasi il terzo fronte dell´insoddisfazione nazionale: quello che viene dal popolo sovrano, il quale nell´ultima tornata elettorale ha manifestato in maniera inequivocabile il proprio profondo malcontento con un tasso molto alto di assenteismo, che ha colpito anzitutto i partiti di centrosinistra. Questa è la sostanza della nuova profonda crisi che sovrasta il paese e approfondisce il fossato tra la politica e la società. La quale, quando guarda in alto ai palazzi del potere e al sistema partitico nel suo insieme, vede che riforme importanti non decollano, rimangono oggetto di un dibattito infinito che non conclude. Ed allora l´animosità si rivolge contro la "casta". Infine, la gente non capisce a quali esiti possa pervenire la conclamata volontà di entrambe le coalizioni di dar luogo a più solidi soggetti in grado di darci la tanto a lungo vagheggiata stabilità. Si intende rinvigorire il bipolarismo oppure tornare al proporzionale e a governi dominati dal centro con il taglio delle "estreme"? Tutti gli interrogativi galleggiano nel magma di una politica trascinata in basso da pesi di piombo.
Il governo Prodi offre un bilancio non privo di significativi risultati positivi. Sennonché esso soffre della debolezza della sua maggioranza in Senato, delle tensioni su molti temi tra le sue componenti, di un insufficiente consenso; e sul suo capo pende la spada di Damocle di un governo istituzionale o di un precoce scioglimento delle Camere. Un evento catastrofico per tutti i partiti che compongono la coalizione, che seminerebbe germi di sbandamento se non addirittura di disgregazione nel suo bacino elettorale, il quale non perdonerebbe loro, a torto o a ragione, di aver aperto la strada persino ad un ritorno di Berlusconi. Qui cade il discorso sul Partito democratico e sulle forze che si collocano alla sua sinistra. Il primo è ormai, piaccia o non piaccia, un dato acquisito. Il dado lo ha tratto. Le seconde stanno cercando una loro via.
Veniamo, dunque, alla sinistra a sinistra del Partito democratico. Lo Sdi di Boselli ha messo in piedi una costituente socialista, che, in mancanza di un solido accordo con la nuova Sinistra Democratica, non ha molte possibilità di andare oltre il proprio cerchio iniziale; Bertinotti, Giordano e Diliberto mostrano segni evidenti di un proposito di rinnovamento dei loro partiti, e parlano – soprattutto i primi due – della necessità di dare a se stessi e alla sinistra italiana nuovi orizzonti e nuove basi ideologiche; Mussi e Angius hanno costituito la loro formazione in nome dell´esigenza di continuare a dare una rappresentanza, appunto di "sinistra", al mondo del lavoro e del mantenimento del legame con il Partito Socialista Europeo. E, a sinistra dello Sdi (troppe invero le sinistre a sinistra di qualcos´altro!) circola con insistenza la parola d´ordine dell´"unità" tra Sd, Rifondazione e Ci. Un buon obiettivo, in sé e per sé. Ma attenti. L´unità ha due gambe. Val bene il richiamo alla difesa degli interessi degli strati sociali più deboli e alla laicità dello Stato, ma lo vale altrettanto (ed è lo scoglio più arduo) il fondamento che si intende dare all´unità in termini di cultura politica, di inserimento nel contesto europeo. Si fa carico al Partito democratico di aver voluto unire riformismi eterogenei. Ma quando Bertinotti, Diliberto e Mussi si propongono "l´unità della sinistra" non rischiano di riprodurre un´analoga eterogeneità se i primi due non fanno chiarezza, una vera chiarezza sul rapporto con l´eredità comunista? Rifondazione e Ci hanno raccolto questa eredità, hanno tratto beneficio dalla sua residuale forza di trascinamento nella parte elettorale legata alla nostalgia di un mondo politico e ideologico pur caduto seminando rovine e senza prospettive: ora al loro interno, salvo minoranze di irriducibili, pare si avverta che questa forza è in rapido esaurimento. Ma non possono pensare di continuare a definirsi partiti comunisti, a dire: "siamo comunisti perché noi sì abbiamo a cuore le sorti degli strati sociali più deboli". Non è serio pretendere di restare comunisti su un simile presupposto. La serietà vorrebbe che essi tirassero le somme, una volta per tutte, dal fatto che il comunismo è stato due cose: nella pratica un movimento culminato in un sistema dispotico che ha oppresso in primo luogo le masse lavoratrici e non a caso è caduto senza che nessuno dei popoli posti sotto il suo dominio levasse un dito in sua difesa (una replica in grande del 1943 in Italia); nella teoria un progetto, in totale contrasto con la sua attuazione, di società senza Stato, senza danaro, resa omogenea da un totale collettivismo egualitario conseguente a uno sviluppo senza limiti delle forze produttive; un progetto che ha rappresentato non già la tappa finale dell´evoluzione dall´utopia alla scienza, ma l´ultima delle grandi utopie di millenarismo salvifico in contraddizione irresolvibile con qualsiasi possibile versione della modernità. E dunque, se vogliono dare un senso all´unità della sinistra, occorre che Bertinotti, Giordano e Diliberto, prima di ogni altra cosa, guardino finalmente in faccia la storia, avendo bene in mente che, come Marx diceva giustamente, i valori e le ideologie si giudicano non da quello che astrattamente propongono ma da ciò che concretamente riescono ad attuare. Il socialismo del XXI secolo che sta a cuore a Bertinotti, se mai prenderà corpo, non potrà che avere come premessa lo scioglimento del legame ombelicale con il comunismo sia come pratica storica sia come utopia incapace di incontrare la storia.
E sia inteso. Lo scioglimento del nodo che si richiede di compiere ai partiti che ufficialmente continuano a definirsi comunisti non risponde soltanto a un inderogabile bisogno di rinnovamento della cultura politica: esso costituisce la condizione perché i soggetti che mirano all´unità della sinistra possano garantirsi una vitalità che consenta loro di restare nell´area di governo. Una sinistra "unita" che persistesse troppo a lungo nelle sue irrisolte ambiguità non farebbe che favorire le forze le quali, sotto il segno del neocentrismo, mirano a tagliare fuori " le estreme" dall´area di governo, lasciando ad una piccola pattuglia raccolta intorno allo Sdi, magari partner minore di governo, il privilegio di testimoniare il valore della laicità e ad una pattuglia, probabilmente un poco più consistente ma relegata all´esterno, di presentarsi quale portavoce dell´"opposizione sociale". Avrebbe certo questa formazione unita la soddisfazione di continuare ad esistere in una nicchia, ma non renderebbe un servizio né al paese né alla sinistra.
Sinistra radicale contro D´Alema

Liberazione 12.6.07
Il partito di Sarkozy stravince
Sinistra ai minimi storici Attenti, la Francia è vicina...
di Ritanna Armeni


In Francia per la sinistra le elezioni sono andate male, anche peggio di quello che era ampiamente previsto. Dal primo turno delle legislative i partiti della "gauche" escono nell'insieme fortemente ridimensionati. Con il loro 38 per cento raggiungono il peggior risultato della quinta repubblica. Il partito comunista (4,29%), non avendo raggiunto i venti deputati, per la prima volta non riuscirà ad avere un gruppo parlamentare. I verdi (3,25%) rischiano di non essere presenti all'assemblea nazionale. Quanto ai socialisti privi o quasi di alleati, anche con il 25 per cento che è comunque meno di quanto sperato, costituiranno un' opposizione debole e largamente inefficace.
Nicolas Sarkozy ha fatto il pieno. Sull'onda delle presidenziali, avvantaggiato dalla legge elettorale, si avvia ad avere una maggioranza schiacciante che può, nella sostanza, decidere ciò che vuole. E' riuscito nell' operazione di inglobare la destra xenofoba di Jean Marie Le Pen ridotta a meno del cinque per cento, solo un terzo degli elettori di cinque anni fa. E ha vanificato completamente il tentativo di costruzione del centro di Raymond Bayrou che con il suo sette per cento avrà al massimo quattro eletti.
La destra in Francia ha quindi vinto, senza dubbi, senza incertezze, aiutata da un assenteismo anch'esso da record. Circa il quaranta per cento dei francesi non sono andati a votare. Ritenendo evidentemente che i giochi fossero già stati fatti hanno penalizzato di fatto la sinistra.
Questa sconfitta di grandi dimensioni ci riguarda direttamente. La Francia è vicina, più vicina di quanto possa apparire. Certo da noi c'è un governo di centro sinistra che in mezzo ad un mare di difficoltà riesce a sopravvivere. Certo da noi la sinistra non ha subito una sconfitta così chiara e drammatica. Anzi sia pure di poco ha sopravanzato una destra che era rimasta al governo per cinque anni. Ma la prospettiva e il giudizio cambiano se guardiamo alla società, al suo rapporto con il governo del paese e in generale con la politica; se esaminiamo i rapporti di forza reali, il grado di fiducia nella sinistra e la sua credibilità. Un esame doloroso, ma doveroso ci fa vedere quanto quel che è avvenuto in Francia ci riguardi più di quanto una superficiale analisi del dato politico istituzionale potrebbe farci pensare. Anche in Italia la sinistra appare socialmente sconfitta, anche in Italia non riesce a fare proposte efficaci. La sua analisi della globalizzazione, delle conseguenze di questa sul piano dell'organizzazione sociale e del lavoro nonché del vissuto dei singoli non si è ancora tradotta in efficaci proposte di cambiamento.
Quali sono i risultati e le proposte sul piano della precarizzazione? In che cosa il governo di centro sinistra ha cambiato e ha dato segno di voler cambiare quella condizione? E quello del precariato non è un problema come un altro perché riguarda le giovani generazioni e quindi l'idea di futuro del paese. Non è un caso che in Italia sia pure meno drammaticamente le elezioni amministrative abbiano mandato gli stessi segnali di disincanto e di sfiducia, abbiano mostrato una pressoché identica delusione. Sì, la Francia è davvero vicina, i problemi sono gli stessi. Se in Italia si vedono di meno non è per i meriti della sinistra, ma per i demeriti e le incapacità della destra o delle destre. In Italia non c'è un Nicolas Sarkozy capace di unificare nel decisionismo, in una idea della sicurezza che si identifica con il senso dello Stato, in una modernizzazione spietata, ma capace di raggiungere i suoi obiettivi e in una laicità mai messa neppure in discussione. La destra italiana è divisa, culturalmente scarsa, subalterna ad un cattolicesimo conservatore, priva oggi di una leadership e incapace dopo la sconfitta di Silvio Berlusconi di costruirne una nuova. E questo che oggi impedisce una precipitazione politica che renderebbe chiara la sua egemonia sociale. E' questo che da alla sinistra italiana la speranza di non finire come quella francese. Ma per quanto tempo durerà questa situazione? L'impressione è che i tempi siano diventati davvero stretti, che le possibilità di attesa siano scarse. Chi oggi chiede l'unità della sinistra non è animato dal burocratico desiderio di sommare alcuni gruppi dirigenti, ma dalla convinzione che quello sia il segnale (un primo e insufficiente segnale, ma pur sempre un segnale) che le cose non possano andare avanti senza una nuova presa di responsabilità e che anche la rifondazione culturale, che non può che avere tempi lunghi, abbia bisogno di un inizio immediato. Perché quel che è in gioco oggi non è solo la rifondazione della sinistra, ma la sua stessa esistenza. Francia docet.

Liberazione 12.6.07
La Segreteria del Prc: l'errore di due distinte manifestazioni


La segreteria nazionale del PRC ha effettuato la valutazione sulla giornata del 9 giugno, sulla situazione politica, sulle principali questioni aperte nel merito dello scontro sociale.
Si ribadiscono le ragioni della mobilitazione che sono rafforzate dal sostanziale fallimento del G8 di Rostock su temi fondamentali quali gli interventi necessari per affrontare i cambiamenti climatici e la ripresa della corsa al riarmo, come dimostra il tema dello scudo stellare.
In Italia si sono svolte due manifestazioni distinte, spezzando l'unità del movimento, condizione essenziale della sua capacità di espansione.
Questa divisione è stata un errore. Noi abbiamo lavorato affinché non si producesse. Ancora di più lavoreremo in futuro per impedire il riprodursi del medesimo meccanismo.
La scarsa partecipazione al sit in di Piazza del Popolo, non chiama solo in causa motivi di carattere organizzativo, su cui pure vogliamo riflettere. E' stato vissuto come una scelta separata e riduttiva da parte del popolo della pace. Un errore di valutazione politica di cui intendiamo assumerci pienamente la responsabilità.
Non cambia il nostro giudizio di fondo: è sbagliata l'idea di chi ci dice che dobbiamo scegliere il governo contro i movimenti, in nome di un processo di americanizzazione della politica che vogliamo combattere. E' subalterna al quadro politico dato una pratica dei movimenti che si fa autoreferenziale e rinuncia a incidere nelle scelte, fino a quelle di governo.
Siamo intensamente impegnati nel percorso unitario a sinistra e pensiamo che questo si incontra con una forte richiesta del popolo dell'Unione, in quanto si fonda su una piattaforma condivisa e che possiamo sintetizzare con l'espressione "risarcimento sociale".
Pensioni, utilizzo dell'extragettito, nuove politiche ambientali, rispetto delle comunità locali sono punti fondamentali su cui intendiamo incalzare per una offensiva di carattere politico generale.
Il risultato dei ballottaggi, nella contraddittorietà dei suoi dati, ci parla di una situazione ancora aperta a esiti differenti. Lo straordinario successo di Stefàno a Taranto ci incoraggia nella direzione della costruzione di un percorso che sposti a sinistra l'asse delle politiche e ritrovi, per questa via, una connessione con le aspirazioni al cambiamento di tanta parte del popolo italiano, in particolare il lavoro dipendente e chi oggi soffre di una condizione di precarietà che si fa ogni giorno più insopportabile.
La partecipazione al Pride di sabato prossimo rappresenta un impegno irrinunciabile per rilanciare un'offensiva anche di carattere culturale per l'estensione dei diritti sociali, collettivi e dei singoli e per contrastare una regressione dentro un neofondamentalismo distruttivo delle ragioni del riconoscimento delle differenze e del dialogo.
Il 16 e 17 giugno si svolgerà l'Assemblea Nazionale costitutiva della Sinistra Europea in Italia. Un appuntamento su cui investiamo strategicamente e che parla a tutta la sinistra politica, sociale e di movimento.

Repubblica 12.6.07
"Sbagli, è nel nostro Dna essere di lotta e di governo"
Mussi: non meritiamo questi schiaffi. Russo Spena: sbagliato non andare al corteo
Dopo il colloquio con "Repubblica" critiche al ministro degli Esteri
di Giovanna Casadi


ROMA - I "nodi" verranno al pettine giovedì. Prodi infatti ha convocato i capigruppo dell´Unione di Camera e Senato per un vertice sul Dpef con il ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Ma non sarà un banco di prova solo sulla politica economica, anche se questa rappresenterà il piatto forte del confronto fissato a Palazzo Chigi, alle 13,30: dopo i risultati delle amministrative diventerà una resa dei conti tra i riformisti e la sinistra radicale. Le tensioni si sono andate accumulando in queste settimane. Il vice premier Massimo D´Alema, all´indomani delle due manifestazioni anti-Bush, in un´intervista a Repubblica ha avvertito: «Parliamoci chiaro, il partito di lotta e di governo non è e non può più essere attuale». Fa il paio con la richiesta del presidente del Consiglio agli alleati di avere più senso di responsabilità.
Per i massimalisti dell´Unione, a cominciare da Rifondazione - alle prese con un calo di consensi e con la lacerazione delle due piazze del 9 giugno - va invece modificata la rotta del governo. Nella riunione della segreteria, il Prc ieri recita il "mea culpa": Franco Giordano assicura che il partito avrà come priorità il rapporto con la sua base e incalzerà il governo. «Andremo avanti uniti e l´obiettivo è una politica di risarcimento sociale». Giovanni Russo Spena, il capogruppo al Senato, fa autocritica: «È stato un errore, la gente non capiva perché non eravamo al corteo, dovevamo andare». E poi, l´uscita di D´Alema proprio non piace alla sinistra. «Massimo ha sparato fuori bersaglio», attacca Fabio Mussi, il ministro dell´Università, ex compagno di partito ora leader della Sinistra democratica. Non è vero che il ciclo dei partiti di lotta e di governo è finito «perché la gente non li capisce e non li apprezza più», parafrasa Mussi le parole di D´Alema. Al contrario: «I partiti sono sempre di lotta e di governo, devono governare e stare dentro la società, a contatto con la comunità e provare a rappresentarla. La sinistra non merita gli schiaffi di D´Alema». Reagiscono con fastidio anche Pdci («D´Alema offende milioni di elettori») e Verdi.
«Proprio nel dna della sinistra c´è di essere di lotta e di governo», replica il comunista Pino Sgobio. Né piace D´Alema in versione Partito democratico al capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli: «Vogliamo affrontare il discorso dell´instabilità nella coalizione di governo? Allora D´Alema rivolga un appello anche ai "suoi", al Pd che invece di portare stabilità ha creato fibrillazioni nella coalizione. Noi non siamo degli irresponsabili e ci stiamo interrogando sul perché buona parte dell´elettorato di centrosinistra ha perso fiducia in questo governo». Una riflessione che il segretario dei Ds, Piero Fassino ritiene necessaria. Ne vuole discutere con Prodi nei prossimi giorni, per ribadire che l´Unione ha ereditato «un Paese che era deragliato, ora dobbiamo fare di più e meglio quanto abbiamo impostato». Con i suoi collaboratori al Botteghino, il segretario si è sfogato: «Bisogna smetterla con la fantapolitica del dopo-Prodi». «Barra dritta e non spostare l´asse del governo a sinistra», ammonisce Antonello Soro, il coordinatore della Margherita.

Corriere della Sera 12.6.07
Lo studioso angloamericano denuncia misfatti e sopraffazioni commessi dai seguaci di ogni credo
Contro la religione
Hitchens: la minaccia delle fedi intolleranti è l'arma più pericolosa in mano ai fanatici
di Pierluigi Battista


Vi sentireste più tranquilli se sapeste che in una città sconosciuta, al calar delle tenebre, un folto gruppo di uomini che vi si avvicina ha in realtà appena lasciato un incontro di preghiera? Probabilmente la maggior parte dei lettori risponderebbe di sì: affronterebbe con più sollievo quegli uomini pii e miti che hanno appena onorato comunitariamente il Signore. Christopher Hitchens risponde invece che, limitandosi alle città che iniziano con la lettera «B», a Belfast, Beirut, Bombay, Belgrado, Betlemme e Bagdad, «mi sarei sentito immediatamente minacciato se avessi pensato che il gruppo che mi si avvicinava nel crepuscolo veniva da una cerimonia religiosa». Nel nome di Dio è storicamente e statisticamente più frequente che ci si ammazzi e ci si stermini reciprocamente anziché aiutarsi solidalmente a vicenda, scrive Hitchens. La credenza in un Dio solo di rado alimenta la pietas del credente che aiuta i malati, soccorre i bisognosi o affronta sorridente le gioie del creato. Leggete questo poderoso libro di Hitchens,
Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa (pubblicato da Einaudi), e avrete piuttosto il resoconto spaventoso delle sofferenze inflitte da tutte le religioni in millenni di storia: persecuzioni, massacri, ma anche devastanti sensi di colpa, frustrazioni immense, infanzie popolate da incubi, destini irrimediabilmente consegnati alla paura e all'ignoranza. Un libro che emana sentore di zolfo: facciano attenzione a questo pamphlet, che esce oggi in Italia, i difensori della fede, siano credenti oppure seguaci del motto crociano sull'impossibilità di non dirsi cristiani. Facciano attenzione perché il libro di Hitchens, essendo singolarmente intelligente, scritto con la maestria di un campione della polemica culturale, spiritoso, ferocemente sarcastico, è anche, per tutti questi motivi, straordinariamente insidioso per chi è impegnato nella guerra culturale contro il secolarismo. Non è uno dei soliti esercizi di «ateologia» che dilagano come una moda nell'editoria di tutto il mondo. È pervaso da una sincera ammirazione, e non dal disprezzo per le grandi opere della letteratura, della pittura e dell'architettura ispirate dalla religione. Non è l'incommestibile brodino lamentoso sulle «ingerenze» religiose nella vita civile recitato dal vittimismo laicista. Non è gravemente offensivo nei confronti dei credenti, come nei libri di Piergiorgio Odifreddi che stabiliscono fantasiose connessioni etimologiche tra il «cristiano» e il «cretino». Non è sbilanciato in un doppio standard di malafede, come capita a chi si scaglia con fervore contro il cristianesimo, ma viene paralizzato dal terrore autocensorio politicamente corretto ogni volta che deve affrontare (a proprio rischio e pericolo) le nefandezze dell'islamismo. Ma proprio perché immune da questi difetti appare ancor più persuasivo e sconvolgente l'assunto che ne regge l'argomentazione polemica: le religioni sono (tutte: dall'ebraismo al cristianesimo, dall'islamismo all'induismo, dal buddismo agli effluvi New Age) menzogne, menzogne che hanno fatto e continuano a fare molto male al mondo e alle singole persone.
Il libro di Hitchens ha ricevuto molti attacchi. L'attacco più serio è quello di chi contesta all'autore l'incapacità di spiegare come mai, nel mondo giudaico-cristiano, la scienza abbia avuto una spinta sconosciuta presso altre religioni, e si sia stabilita una separazione tra politica e religione, grazie alla democrazia. Ma il baricentro intellettuale ed emotivo di Hitchens è un altro: la dimostrazione che la crudeltà è sì connaturata all'uomo, ma «coloro che brandiscono un'autorizzazione celeste alla crudeltà sono contaminati dal male e rappresentano assai più di un pericolo». Da qui il tono irridente delle sue domande. Come si fa a onorare una religione in cui si loda «Abramo perché si mostrò disposto ad ascoltare le voci e si fece accompagnare dal figlio in una lunga e piuttosto folle e fosca camminata e il capriccio che alla fine fermò la sua mano assassina è definito come misericordia divina»? E come non considerare il colmo della più spregevole istigazione all'ipocrisia fanatizzata le terrificanti proibizioni in fatto di sesso contenute nel Corano, ma nella «disonesta promessa di un'eterna gozzoviglia nella vita ultraterrena»? E quante approssimazioni, incongruenze, assurdità nelle sacre scritture dei tre monoteismi, che datano l'origine del creato in un mondo di provinciali che non hanno idea di qualcosa che non sia «deserto o greggi o mandrie o esistenza nomadica», mentre la storia del cosmo inizia almeno «dodici miliardi di anni fa».
Oggi, scrive l'autore, «il meno istruito dei miei bambini sa molto di più sull'ordine naturale di qualsiasi fondatore di religione». Basta leggere la leggenda dell'arca di Noé per accorgersi che se l'autore fosse stato davvero Dio onnisciente, non si sarebbe dimenticato di inserire tra gli animali i dinosauri, di cui le genti della Bibbia ignoravano scientificamente l'esistenza, o i marsupiali perché l'Australia non compariva ancora in nessuna mappa. E invece come si spiega, scrive ancora Hitchens nella sua requisitoria antireligiosa, «l'incontestabile tendenza dell'Onnipotente a manifestarsi solo a individui illetterati, in aree desertiche del Medio Oriente che furono a lungo patria della venerazione di idoli e della superstizione»? E perché, vista la tabuizzazione tanto diffusa del maiale, «il cielo odia il prosciutto»? E se si immagina «un creatore infinitamente benigno e onnipotente che vi ha concepiti, vi ha poi fatti e modellati e introdotti in un mondo finalizzato a voi, e che ora vi sorveglia e si prende cura di voi anche quando dormite», allora perché i credenti sono mediamente tanto infelici?

Il paradosso della superstizione
Il Creatore è come il numero tredici

C'è un paradosso fondamentale nel cuore della religione. I tre grandi monoteismi insegnano agli uomini a considerarsi spregevoli, quali miserabili e colpevoli peccatori prostrati davanti a un dio irato e geloso, il quale, secondo racconti discrepanti, li avrebbe creati o dalla polvere e dal fango o da un grumo di sangue. Le varie posizioni della preghiera di solito imitano quella del servo impetrante di fronte a un monarca irritabile. Il messaggio è quello di sottomissione, gratitudine e timore perenni.
La vita è di per sé una povera cosa: un intervallo in cui prepararsi per l'aldilà o per la venuta — o seconda venuta — del messia.
D'altro canto, quasi a mo' di compensazione, la religione insegna agli individui a essere estremamente egocentrici e presuntuosi. Li assicura che dio si prende cura di loro singolarmente e proclama che l'universo è stato creato con essi, specificamente, in mente. Questo spiega l'espressione altezzosa sui volti di chi pratica la religione in maniera ostentata: vi prego di scusare la mia modestia e la mia umiltà, ma si dà il caso che io sia impegnato in una commissione per conto di dio.
Poiché gli esseri umani sono solipsistici per natura, tutte le forme di superstizione godono di un vantaggio naturale. Negli Stati Uniti, cerchiamo di perfezionare sempre più i nostri grattacieli
Christopher Hitchens
e i nostri jet (le due conquiste che gli assassini dell'11 settembre hanno fatto entrare in collisione) e poi, pateticamente, ci rifiutiamo di dare ai piani o alle file di sedili l'irrilevante numero tredici. So che Pitagora confutava l'astrologia con la semplice notazione che gemelli identici non hanno lo stesso futuro, e so anche che lo zodiaco fu definito molto prima della scoperta di parecchi pianeti del nostro sistema solare, e ovviamente capisco che non si può «dimostrare» il mio immediato o più lontano futuro senza che questi nuovi elementi alterino il risultato. Migliaia di persone consultano ogni giorno le loro «stelle» sui giornali e poi hanno attacchi cardiaci o incidenti stradali non predetti. In Minima moralia, Theodor Adorno stigmatizzava l'interesse per l'astrologia come un consumo per menti deboli. Ciononostante, una mattina diedi un'occhiata alla situazione che si delineava per l'Ariete, e come scorsi il pronostico — «un individuo del sesso opposto è interessato a voi e ve lo farà capire» — non riuscii a reprimere del tutto l'insorgere di una sciocca e sia pur minima eccitazione, che nel ricordo è sopravvissuta alla successiva delusione.
E perché nei dieci comandamenti di Mosé si vieta il semplice desiderio della casa del «vicino», «del suo servo, della sua serva, del suo bue, del suo asino, di sua moglie e di altri suoi beni» ma si avanzano capziose giustificazioni «per il traffico di esseri umani, per la pulizia etnica, per la schiavitù, per il prezzo della sposa, per il massacro indiscriminato» e si esalta la strage dei bimbi dell'Egitto o lo sterminio dei dissidenti nei quarant'anni di traversata nel deserto? Interrogativi, quelli di Hitchens, che esigono una risposta, non una scomunica. E non il silenzio imbarazzato, come accade troppo spesso.

Repubblica 12.6.07
Dopo la lettera di Bernardo Bertolucci a "Repubblica" su politica e cultura
di Paolo D'Agostini


Una sfida alta che chiede di favorire lo sviluppo culturale in modo deciso e prioritario
Bellocchio, Luchetti Rulli e Petraglia, Verdone e Rosi per un rilancio del nostro cinema
Luchetti: quello che più vogliamo è che si smetta di volare basso
Bellocchio: non è solo nostalgia per la libertà creativa degli anni Settanta

Bernardo Bertolucci chiama, nella lettera che ieri su Repubblica si appellava alla Politica perché sappia cogliere il valore della Cultura come investimento sul futuro del paese e delle nuove generazioni, e il cinema italiano risponde. Marco Bellocchio: «Sarebbe sbagliato intendere il richiamo di Bernardo alla libertà creativa degli anni 70 come nostalgia per un´età dell´oro passata. L´intelligente ovvietà, che non è un´ovvietà, l´uovo di colombo contenuto nell´appello di Bernardo come nei principi che ispirano il movimento di cui si fa espressione, è: più sono i film che si producono, anche a bassissimo costo, e più aumentano le possibilità che se ne facciano di belli. O anche: perché l´Italia non deve avere la sua Arté, perché la tv italiana non può unirsi a quelle francese, tedesca, spagnola per fare una grande televisione culturale europea? Nessuna bramosia da parte del cinema di sostituirsi alla politica. Di nuovo, però: questo nostro movimento ha successo ed è bello perché dice cose di buonsenso. Chiede che chi fa cultura conti di più nel decidere ciò che lo riguarda». Gli fa eco Daniele Luchetti, regista del Portaborse e del nuovissimo Mio fratello è figlio unico: «Con la sintesi poetica e le parole alte di cui è maestro, Bernardo ha espresso un sentimento generale. Da noi del cinema è partita una riscossa che chiede di estendersi a tutto il resto della cultura italiana. Quello che più di tutto vogliamo è che si esca dall´abitudine di volare basso. Del dire rassegnati "purtroppo le cose stanno così" e "purtroppo non c´è niente da fare". Liberarsi dal sentimento che contagia tanti anche nell´informazione: purtroppo. Non è vero: potrebbe non essere così».
Lo scrittore Stefano Rulli che con Sandro Petraglia è la firma di La meglio gioventù e dell´adattamento di Romanzo criminale, e che del movimento di cui Bertolucci si è fatto bandiera è uno dei cervelli, rilancia: «Nella lettera di Bertolucci non c´è soltanto polemica rivolta ai governi di centrodestra. Ma anche disagio per come quello attuale di centrosinistra si misura con la cultura. Anche questi politici sono in ritardo sull´esigenza di costruire nuovi modelli di rapporto tra politica e cultura. La nostra iniziativa sollecita il dialogo, a partire dall´esperienza del cinema ma con ambizioni di ampio coinvolgimento della cultura italiana nel suo insieme. Un principio di fondo è quello della libertà di espressione: il duopolio Rai-Mediaset produce fatalmente omologazione. Serve invece il contrario, il massimo di diversificazione. In tutto e anche nel cinema: dal colossal al piccolo film sperimentale. Preoccupa che il nostro modello centralizzato non offre alcuna possibilità in tal senso. I primi riscontri ci lasciano ancora nel dubbio sulla volontà di recepire i nostri segnali. Un nodo riguarda l´organismo che secondo noi e anche secondo il progetto di legge elaborato dal governo dovrà nascere sul modello del Centro Nazionale per il Cinema francese. Nel quale confluiranno importanti risorse e competenze di coordinamento generale delle risorse. Ma quale sarà la sua struttura di potere? È prevista la nostra presenza, chi indicherà i membri del consiglio di amministrazione?».
Tanto più generoso in quanto di interessi personali proprio non ne ha, lui che fa il comico ed è sostenuto dal mercato, Carlo Verdone si spende molto nella battaglia. «Io faccio un cinema che è l´ultimo ad aver diritto a finanziamenti pubblici, ma sono anche uno spettatore esigente. Perciò ho subito inviato un sms a Bernardo: "bellissimo e importante. Grazie". È giustificato l´allarme per l´impoverimento culturale che riguarda soprattutto le generazioni nuove. Come non cogliere l´anestesia prodotta dagli ultimi orribili 15-20 anni? Non allarmarsi a constatare che Novecento oggi non troverebbe probabilmente un bacino di utenza? La limitazione che incombe oscura sulla creatività ha costretto tutti a rintanarsi in piccoli racconti, perfino Bertolucci che era il regista dei grandi racconti. Io credo davvero che la cultura sia il termometro dello star bene di una società. Stiamo tutti attenti al prevalere di altri "valori", della slot machine televisiva che dispensa soldi a chi sa qual è la capitale della Norvegia (nei casi in cui venga richiesto un "grande impegno culturale"). Abbiamo e la politica ha enormi responsabilità. Ammiro l´uscita di Bernardo che può essere una grande base di partenza».
Al centro, insomma, una sfida alta. La grande ambizione di ridefinire i rapporti tra politica e cultura. L´idea che un governo moderno debba non "proteggere" o "assistere" ma favorire lo sviluppo culturale come investimento prioritario sul futuro. E se il movimento ha consegnato a Bertolucci e Bellocchio, splendidi 65enni già capofila del giovane cinema arrabbiato, il ruolo di testimonial e di padri nobili, a benedirli con trepida partecipazione c´è il maestro Francesco Rosi. Il quale tuona: «E come potrei non essere d´accordo? Proprio io che ho più volte ripetuto la necessità di un impegno culturale della televisione pubblica? Il suo dovere di trasmettere la storia del cinema italiano, ma anche del teatro, dal dopoguerra in poi? Io che ho proposto in una riunione a livello europeo e in un incontro con la Rai la creazione di un canale satellitare culturale europeo che promuova lo scambio e la conoscenza del patrimonio delle cinematografie europee? Altrimenti di quale Unione Europea parliamo? Io che da anni propongo che nelle scuole secondarie si introduca lo studio della storia del cinema, e ho proposto che i ragazzi del Mezzogiorno frequentino la scuola a tempo pieno, che cioè le scuole siano aperte anche di pomeriggio: che facciano scuola di solidarietà umana e di apprendimento del valore del lavoro. Mi chiedo quante volte bisogna ripetere cose che si vanno dicendo con speranza e ostinazione da anni. Ma bisogna insistere, con la politica, sull´indispensabilità di alimentare la pratica e il bisogno di cultura. Sembra tutto così scontato ma evidentemente non lo è».
Il movimento nominatosi con modestia dei Cento Autori - il suo manifesto "per una Costituente del cinema italiano" è stato sottoscritto da molti più che mille registi, sceneggiatori, attori, produttori, operatori, musicisti - ha già una sua piccola storia. Iniziato in sordina per iniziativa solitaria del regista Giuseppe Piccioni un anno fa sotto elezioni con una "lettera aperta all´Unione", poi rilanciato invocando una guida trasparente e competente per RaiCinema, si è consolidato nell´abitudine di incontrarsi il giovedì pomeriggio alla trasteverina Libreria del Cinema: che ha riportato in auge i tanto rimpianti quanto feroci confronti conviviali di un tempo nei caffè o nelle trattorie. E ha fatto il suo debutto pubblico con l´assemblea del 7 maggio "per una legge buona e giusta" al teatro Ambra Jovinelli di Roma: ospite d´onore il ministro della cultura Rutelli accompagnato dai primi firmatari della proposta di legge Franco e Colasio. Da lì si è impennato il flusso di vivaci scambi epistolari, sul Newsgroup appositamente creato in rete, tra i Paolo (Virzì?), i Daniele, le Francesche (Archibugi e/o Comencini), i Giuseppe e gli Umberto: con l´euforia dell´aver finalmente ritrovato un terreno "per parlarci e parlare di cinema" che autorizza a smetterla con la nostalgia per i gloriosi tempi andati. Ma soprattutto è andato avanti il certosino lavorio delle commissioni create per ciascun segmento in cui la materia si divide. Come i rapporti con Sky in relazione all´introduzione della "tassa di scopo". Quel prelievo che dovrà essere imposto a tutta la catena di sfruttamento del cinema perché nel cinema sia reinvestito.
Non sono mancate le reazioni negative. Pesanti. Come l´attacco di Renato Brunetta e di Libero al cinema "che ruba" i soldi pubblici e porta conformisticamente acqua alla sinistra. O l´altolà di Tullio Camiglieri di Sky alla "tassa di scopo" su Italia Oggi. Prossima scadenza il 14 i David di Donatello, massimo premio del cinema italiano. In attesa di decidere come "manifestare" davanti alle telecamere della diretta su RaiDue alle 18,20 (qualcosa di spettacolare?) è già pronto un appello al Presidente della Repubblica che verrà consegnato a Giorgio Napolitano al ricevimento che di consueto precede al Quirinale la premiazione. Il cinema italiano si rivolgerà al massimo rappresentante della comunità nazionale per sottoporre alla sua nota sensibilità alla cultura i danni provocati da una disinformazione che parla sempre di un cinema brutto e ladro: sintomo della malattia di un popolo che ha perso amore e rispetto per la propria cultura, per i propri artisti e quindi per se stesso.

Repubblica 12.6.07
Morto in Spagna nel '37
Chi uccise l'anarchico Berneri
di Massimo Novelli


Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1937, a Barcellona, veniva assassinato l´anarchico Camillo Berneri, intellettuale e uomo politico di valore, volontario in Spagna e amico di Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, dei fratelli Rosselli. Fin dalle prime ore seguite al ritrovamento del cadavere di Berneri e dell´amico Francesco Barbieri, i loro compagni accusarono i «sicari di Stalin» del duplice delitto, maturato negli scontri fra libertari e comunisti.
L´accusa si cementò nel tempo, anche se fu sempre respinta dai diretti interessati (nel 1950 Palmiro Togliatti si scagliò, dalle colonne di Rinascita, contro Gaetano Salvemini, colpevole di avere dato credito a «una delle più infamanti calunnie della libellistica anticomunista»). Ora, a distanza di settant´anni e a qualche settimana dal convegno dedicatogli ad Arezzo dall´Archivio Famiglia Berneri, dalle carte relative alla polizia politica fascista, esaminate presso l´Archivio Centrale dello Stato dallo storico Roberto Gremmo, si fa strada un´ipotesi che potrebbe scagionare i comunisti: ad ammazzare Berneri e Barbieri sarebbero stati degli agenti al soldo di Angel Galarza Gago, radicalsocialista, allora ministro degli Interni della Repubblica spagnola.
Secondo i rapporti inviati dagli infiltrati dell´Ovra tra gli antifascisti affluiti in Spagna, e ritrovati da Gremmo che sta ultimando un libro sulla vicenda (uscirà tra breve per le edizioni di Storia Ribelle), la tragica fine di Berneri avrebbe avuto come movente la sottrazione da parte di alcuni anarchici di un ingente quantità di denaro che Galarza aveva prelevato dai depositi della Banca di Spagna, «allorché la minaccia di Franco su Madrid andava precisandosi». Berneri e Barbieri potrebbero essere stati testimoni scomodi. Conclude Gremmo: «L´eliminazione dei due italiani fu con buona probabilità un "delitto fra amici", come peraltro aveva ammesso in un´occasione Giovanna Berneri, la vedova di Camillo. Un delitto, in sostanza, causato da una spietata caccia al tesoro, in cui i comunisti non ebbero verosimilmente alcun ruolo».

Repubblica 12.6.07
Da Platone a Nietzsche: la vertà dell'arte e il suotramonto
Il mostruoso dentro di noi
di Franco Rella


Realtà. Il mondo è ancora, anzi ancora di più, frammento e orrida casualità
Tensione. Le cose spinte al loro limite portano Fontana a cercare oltre la superficie del quadro

La sapienza della verità, scrive Platone nel Fedro, non può essere colta direttamente, ma essa, per così dire, traluce nella bellezza che è dunque «ciò che più è manifesto e più degno d´amore». Questa è la bellezza, attraverso i secoli e per tutto l´Occidente, propria dell´arte e non solo dell´arte: la via per giungere alla verità e, con la verità, all´essere. Flaubert si teneva disperatamente ancorato a questa idea, che era diventata per lui una fede. Baudelaire ha però già dichiarato il carattere duplice e ambiguo della bellezza, che Rimbaud definisce "amara" e mostruosa. Dostoevskij nei Fratelli Karamazov afferma che la bellezza è indefinibile e al contempo terribile, in quanto in essa stanno tutti i possibili: il bene e il male, la corruzione e la salvezza.
È a questo punto che si inaugura ciò che possiamo definire il "Moderno". La spinta decisiva verso ciò che è stato definito il "rovesciamento del platonismo" viene però da Nietzsche. Nietzsche libera l´arte da qualsiasi responsabilità nei confronti della bellezza e anche dell´"idea" di verità, investendo l´arte di una responsabilità ancora più grande. Tutto è casualità, tutto e frammento in un mondo in cui non c´è più Dio, vale dire un fondamento su cui basare le nostre certezze. E dunque, egli scrive nello Zarathustra, «il senso del mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità». Pochi anni dopo, nel 1888, Nietzsche va oltre e parla di una metafisica dell´arte, di una metafisica tragica dell´arte. L´arte diventa la via attraverso cui giungere agli interrogativi radicali dell´uomo, alle contraddizioni che lo abitano e lo costituiscono all´interno di un mondo in cui non c´è trascendenza in una verità ulteriore, ma in cui dobbiamo costruire le nostre verità parziali nel tessuto stesso di ciò che appare e che è soltanto nella sua apparenza.
L´arte senza bellezza, l´arte in luogo della filosofia. Nietzsche su questo fronte resiste anche a quella che Calasso, nel suo bellissimo saggio su Ecce homo, ha definito la "subdola ingiustizia" di Heidegger, che ha cercato di riconvertire Nietzsche in un filosofo, in un "dotto".
Tutta l´arte del ventesimo secolo si muove all´interno della responsabilità conoscitiva che gli è stata attribuita da Nietzsche. Il problema della verità diventa il problema del senso. Se nulla garantisce la verità di ciò che enuncio, di ciò a cui do forma, la responsabilità dell´enunciato, del senso delle forme che si producono ricadono interamente sul soggetto che enuncia, sul soggetto che produce delle forme. Questo è il significato della terribile conclusione de L´innominabile di Beckett: «bisogna dirle delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle fino a quando esse non mi trovino, (…) forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato (…) davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare e io continuerò».
Ci sono state certamente, nel ventesimo secolo, riemergenze del platonismo, per esempio in Kandinskij, ma nessuno, mi pare, ha messo in dubbio, il carattere sperimentale e conoscitivo dell´arte riproponendo una bellezza che la garantisca, e che sia dunque la manifestazione della verità.
Ma c´è una svolta, che matura intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, che apre una fase in cui oggi stiamo vivendo. Teorici e artisti, come afferma George Steiner, sembrano ballare ilari e felici intorno all´arca vuota del significato. È l´attacco che viene portato al soggetto e alla sua responsabilità conoscitiva. Il soggetto è per Foucault uno spazio vuoto che si riempie per l´incidenza dei dispostivi che agiscono su di lui da fuori, fino a diventare esso stesso un dispositivo. Deleuze va oltre trasformando il soggetto in un "corpo senza organi" che dilaga rizomaticamente. Il soggetto "neutro" che ne emerge è un soggetto neutralizzato, e dunque deresponsabilizzato non solo nei confronti della verità in senso platonico, ma anche della sua volontà di conoscere. È un soggetto, nella versione italiana di questo versante filosofico, in Gianni Vattimo, debole. È il soggetto di un pensiero debole.
La drammatica tensione attraverso le cose spinte alla loro oltranza che porta Fontana a cercare oltre la superficie del quadro; il gesto con cui Rothko cala sulla finestra del quadro una inattraversabile cortina opaca, segnando una sorta di tragico "non oltre", sembrano essersi per lo più dissolti. Assistiamo a una sovradeterminazione estetica, o al terribile e all´orrendo presentati senza alcun pathos, o ancora a un ricorso all´allegoria che è di fatto la fine del potere simbolico dell´arte. Il senso di queste operazioni non sta nelle opere stesse, ma nel luogo che le accoglie e che le consacra come arte. Sappiamo tutti che se il direttore del Beaubourg apre le porte ai giocolieri che stazionano nel cortile antistante al museo questi diventano immediatamente performers. Sappiamo che qualsiasi cosa varchi quella porta è arte. Sappiamo che questo è il potere incontestato del "sistema dell´arte", che prescinde da bellezza e da conoscenza.
Il mondo è ancora, anzi ancor più, frammento e orrida casualità. Ancora e ancor più grande è dunque la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità. L´arte, lo ha detto Adorno, è apparenza, ma questa apparenza riceve il suo inaggirabile carattere di necessità da ciò che è privo di apparenza, dal senso nascosto e enigmatico del mondo. È in questa apparenza che si esprime la tensione metafisica al senso, e persino alla verità. È sul filo di questa tensione che riappare sulla scena persino il profilo di Platone.

Agi 12.6.07
SINISTRA: CURZI, BRAVO FAUSTO SPERO RIESCA NUOVO SOCIALISMO

(AGI) - Roma, 12 giu. - Sto con Fausto, spero gli riesca la sfida di
costruire 'la nuova sinistra' che non puo' farsi sui vecchi e logori schemi del
passato, ma sul 'nuovo socialismo' che marci su due gambe, quel non sappiamo
dell'uomo e della donna e quel che sappiamo dello sfruttamento e
dell'oppressione della societa'. A parlare e' il 77enne membro del CdA della
Rai, Sandro Curzi che, dal '98 al 2005, ha diretto 'Liberazione', il quotidiano
del Prc e "sono stati sette anni stupendi, di straordinaria, totale e piena
liberta': la fortuna di non aver avuto un padrone-editore", appunto l'allora
segretario politico del Prc, Bertinotti. "Ho stima di Fausto, apprezzo la sua
testardaggine - aggiunge Curzi - di perseguire e cercare sempre strade nuove,
lo dimostra l'incontro con l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, mettendo in
soffitta i vecchi e logori schemi della sinistra: cio' rientra nella sua
formazione, fortemente libertaria e anticonformista che fu della sinistra
socialista". Di Riccardo Lombardi: "un politico che accompagnava l'idea di
socialismo con quella di liberta' come anche Gramsci - precisa Curzi - fu il
protagonista negli anni '60 del primo centro-sinistra, la grande stagione delle
vere riforme fatte in Italia: la nazionalizzazione dell'energia elettrice, la
scuola media unica, lo statuto dei lavoratori". Allora Curzi era 'comunista' e
lavorava a 'l'Unita'' "ma di Lombardi subivo e non ero il solo il fascino: una
figura straordinaria di politico e di uomo". Su quel filone si e' formato
Bertinotti la cui iniziativa di incontrare per la terza volta in tre anni
l'Analisi Collettiva di Fagioli ha suscitato reazioni piu' positive che
negative segno del cambiamento dei tempi. "E' stato un incontro che sono andato
a seguire da curioso - spiega - da vecchio cronista: da una parte la voglia di
capire quel fenomeno particolarissimo per cui tante persone seguono Fagioli,
dall'altra per un po' di preoccupazione: come puo' Fausto andare di mattina
presto, mi sono detto, ad un incontro in un luogo come l'Auditorium, anche
conoscendo la sua audacia? Poi la grande sorpresa e' stata di vedere tutta
quella gente entrare prima, riempire la sala e riservare poi a Fausto
un'accoglienza fantastica: in sala non c'erano vuoti e poi sapere che se ne era
riempita un'altra vicina! Tanti giovani e tante giovani: raramente - nota
Curzi - si vedono cose del genere: poi la compostezza, l'ascolto in silenzio,
le domande per tre ore senza una pausa, una battuta d'arresto, un calo di
attenzione e tensione". Insomma, un incontro culturale e politico di alto
livello? "Indubbiamente - risponde - il livello culturale e' straordinario: e
anche il livello della comunicazione mi ha molto colpito e ne ho parlato con
Fausto in relazione al rapporto tra politica e cittadini". La presenza di tanti
giovani e' un altro elemento di riflessione. "Sono molto piu' portati a
discutere di politica, storia, filosofia, che non dei problemi spiccioli del
quotidiano - osserva - la loro voglia di ricerca, conoscenza, sapere e'
stupefacente". Dunque, quella di Bertinotti, come l'ha chiamata Salvatore
Bonadonna, ex-sindacalista Cgil, ora senatore del Prc, e' stata la nuova 'mossa
del cavallo' che colto di sorpresa tutti, amici e avversari? "Chi vuol cambiare
le cose per fare una societa' socialista, non puo' restare attaccato ai vecchi
logori schemi del passato ma provare e riprovare testardamente e
continuamente", risponde Curzi. (AGI) Pat

lunedì 11 giugno 2007

Repubblica 11.6.07
Il paradosso delle sinistre
di Edmondo Berselli


Se si vuole un´immagine plastica della crisi della sinistra radicale, o come si voglia chiamarla, sinistra «alternativa», «antagonista», «altermondialista», basta mettere a fuoco le due piazze separate in cui è confluita la protesta contro il presidente americano Bush: in Piazza del Popolo la sinistra alternativa di governo, con i Russo Spena e i Diliberto; in Piazza Navona la sinistra alternativa di lotta, in cui spiccavano trotzkisti come Marco Ferrando ed esponenti della disobbedienza come Francesco Caruso e Haidi Giuliani. La sintesi l´ha offerta una delle madonne dell´ultrasinistra storica, Franca Rame andandosene da Piazza Navona: «La politica è una cosa schifosa», spiegando che quest´ultimo anno, passato nelle istituzioni, è stato il peggiore della sua vita.
Da qualsiasi ragione fosse dettato questo giudizio, nella sua emotività sintetizza lo stato d´animo di una parte della sinistra alternativa, quella che si è assunta un compito di governo, e si trova a vivacchiare di compromessi quotidiani nelle aule parlamentari. Certo, la figura di Fausto Bertinotti si staglia sullo scranno della presidenza della Camera, a testimonianza del lungo viaggio che ha portato il movimento a farsi istituzione: è stato il socialista non marxista Bertinotti che prima è riuscito a rinnovare il profilo politico di Rifondazione comunista, sottraendo il partito alle grisaglie postcomuniste, e poi ha completato la sua lunga marcia iscrivendo il Prc nel sistema istituzionale.
La scommessa di Bertinotti è stata uno dei progetti politici più coraggiosi e razionali che si siano visti nel nostro paese. Con fermezza, il leader ha decomunistizzato Rifondazione, facendone un partito esplicitamente non violento, in cui la radicalità è uno stile di pensiero generale più che un modello di comportamento collettivo. Per riuscirci, Bertinotti ha dovuto accettare il confronto con la prassi, il compromesso, il negoziato. Fra l´altro ha accettato anche di partecipare alle primarie dell´Unione contro Prodi, nell´ottobre del 2005, contribuendo così, con il 15 per cento dei suoi voti, a definire il perimetro dell´alleanza di centrosinistra.
Va da sé che per buona parte della sinistra di movimento questa scelta è apparsa come una rinuncia. Il movimento no global, la moltitudine di lotta e dei centri sociali che è confluita sabato in Piazza Navona non si convince facilmente che la scelta «ministeriale» effettuata da Rifondazione sia efficace. Vuole le mani libere, per poter esprimere nel modo più adeguato il suo potenziale di contestazione.
Finora Bertinotti non ha praticamente mai ecceduto dai limiti anche di galateo della sua carica. Anche certi improvvisi acuti, risultati un po´ striduli come il giudizio sul capitalismo italiano «impresentabile» in seguito alla vicenda Telecom, sembrano appartenere all´animo sindacalista del presidente della Camera, una voce dal sen fuggita che non gli preclude viceversa di esprimere apprezzamenti verso l´approccio industrialista del leader della Fiat Sergio Marchionne.
Ma in questo modo Rifondazione ha visto impallidire la sua caratteristica fondamentale. Cioè di essere il partito che presidia l´area della sinistra radicale, che ne filtra tutti gli umori e li riconduce nel circuito della politica ufficiale. I primi segnali concreti della perdita di questo ruolo si erano avuti in seguito alla dissidenza interna sulla politica estera, come nel caso del senatore Franco Turigliatto, uscito dal Prc in quanto postosi «fuori dalla comunità di Rifondazione», secondo le parole della segreteria (con Franco Giordano che lo giudicava «incompatibile» con il partito).
Tutto questo pone problemi seri non soltanto al Prc, che pure dopo il cattivo risultato elettorale delle amministrative di fine maggio si è vista recapitare dall´ala dura atti d´accusa molto aspri sulla «totale indeterminatezza del suo governismo». C´è da tenere conto innanzitutto di una sindrome di disaffezione verso i partiti della sinistra, che la nuova separatezza, resa simbolicamente forte dalle due piazze di Roma, potrebbe intensificare. Ci sono processi in corso nel mondo sindacale, particolarmente dentro la Cgil (in cui la Fiom ha acquistato la consistenza di un quasi-partito), in cui il cammino, o la "deriva", verso il Pd viene giudicato un cedimento alla subalternità neocentrista.
Ma ovviamente lo scenario decisivo dipende dall´evoluzione delle molte sinistre che si stanno disegnando dopo il via al Pd. C´è in atto una sorta di costituente socialista; occorre verificare quale sarà l´approdo di Sinistra democratica, cioè la diaspora diessina guidata da Fabio Mussi; inoltre il cantiere della sinistra coinvolge Verdi e Comunisti italiani, e impone una riflessione senza sconti a Rifondazione comunista. Perché il «governismo», se non incorpora elementi di dinamismo politico, significa in fondo una politica banale: da un lato richieste solidariste di destinare l´extragettito alle fasce sociali «verso cui siamo in debito», come dice il ministro Paolo Ferrero; dall´altro l´opposizione strisciante in aula alle misure di liberalizzazione, talvolta con il contributo di alcune aree corporative del Polo.
L´argomento da mettere sotto osservazione, allora, è una nuova versione del «paradosso delle due sinistre». Secondo cui la sinistra alternativa «istituzionale» non è mai stata così ampia in Parlamento e così debole nell´arena pubblica. Perché rispetto all´opacità del lavoro nelle istituzioni, l´unico antagonismo identificabile è quello dei Caruso, con la sua capacità di mobilitarsi e di puntare sul conflitto. E si sa che quando l´unica alternativa davvero visibile è quella dell´estremismo politico, la vita della sinistra istituzionale, di qualsiasi sinistra si tratti, tende a farsi ogni giorno più difficile.

Repubblica 11.6.07
D’Alema ha detto


(...) Ma l´altra lezione americana, forse quella più importante, riguarda la sinistra. «Il vero evento di questo fine settimana - sostiene D´Alema - è stato il fallimento del corteo della sinistra radicale. Io l´avevo detto: se avete delle critiche da muovere a Bush, c´è già un governo che se ne assume la responsabilità, e che gliele esprime apertamente. A cosa serve l´inutile rito della piazza?». Ora la disperata "sinistra a due piazze" deve riflettere. «Io spero che Rifondazione, il Pdci, i Verdi, traggano il giusto insegnamento da quello che è accaduto. Loro si devono rendere conto che il giochino che chi sta al governo poi va anche a fare i cortei per la strada non funziona più. L´opinione pubblica non lo capisce, e quindi non lo approva». Ma questo, va da sé, per partiti che hanno fatto del "movimento" la loro ragion d´essere significa quasi rinnegare una tradizione politica. «Parliamoci chiaro: il "partito di lotta e di governo" non è e non può più essere attuale. Quella è stata un´idea geniale di Palmiro Togliatti: sapendo bene che il Pci non sarebbe mai andato al governo, aveva coniato la formula per tenercelo agganciato, evitando che gli sfuggisse per la via dell´estremismo. Oggi quella stagione è morta e sepolta. Oggi noi ci stiamo, al governo. E allora abbiamo solo un dovere: governare, e non scendere in piazza».
Il paradosso, nelle condizioni date e con il rischio che oggi l´Unione perda anche la provincia di Genova, è che i Giordano, i Pecoraro e i Diliberto possano invece trarre da quello che è successo la lezione esattamente opposta: perdiamo consensi perché siamo troppo "governativi". Se fosse così, per Prodi sarebbero guai seri. D´Alema vede il rischio: «Certo, il pericolo che si generi un certo nervosismo esiste senz´altro. Sulle pensioni e sul Dpef potrebbero scaricarsi nuove tensioni. Io spero che non facciano questo errore, spero che non si facciano tentare dall´idea di "spostare più a sinistra l´asse di governo", come si usa dire. Non è di questo che c´è bisogno. C´è bisogno di assecondare la crescita, e di tarare l´azione del centrosinistra sull´idea di una vera e propria "ripartenza". Queste serve, mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini…». Questa, al contrario delle precedenti, è una tipica "lezione italiana" (...).
(stralcio da un articolo che appare oggi su Repubblica)

Corriere della Sera 11.6.07
Rifondazione, la tentazione dello «strappo»
Giordano e lo choc della piazza vuota: un cambio subito o il governo sarà in difficoltà
di Monica Guerzoni


ROMA — E adesso, dopo lo choc dell'immensa piazza vuota, Rifondazione ha paura. I consensi elettorali sono in calo, il movimento va per la sua strada e dentro il partito torna ad agitarsi la tentazione dello strappo, la «necessità» di rompere con Romano Prodi e il suo governo. Timori che riecheggiano nell'avvertimento di Franco Giordano agli alleati dell'ala moderata. «Sulla politica economica e sociale chiediamo una netta inversione di tendenza — vuole una svolta a sinistra il segretario del Prc —. Serve uno scarto, un salto di qualità o l'intero governo rischia di trovarsi in enorme difficoltà con gran parte del nostro popolo».
La difficoltà c'è già, era scritta nei volti e negli slogan dei manifestanti, migliaia, in marcia contro Bush e contro Prodi fino a piazza Navona. Immagini che il capogruppo dei senatori di Rifondazione, Giovanni Russo Spena, confida di aver guardato più volte in dvd. «C'erano tanti dei nostri, tanti del Prc...». E le pare un bel segnale, presidente? «No, è evidente che c'è un problema di contenuti, il nostro popolo vive un malessere, è quello che soffre di più la mediazione continua» ammette Russo Spena e guarda al passaggio «stretto e delicato» che attende la sinistra e il governo.
Sono quattro gli appuntamenti chiave, dai quali dipende la scelta di Rifondazione: restare o lasciare? «Per decidere dobbiamo consultare il nostro popolo, che non vede un governo di rottura — risponde Russo Spena —. Su extragettito, salari, dpef e pensioni il nostro atteggiamento cambia profondamente. Basta mediazioni. Non faremo sconti. Noi non siamo, come vorrebbe Rutelli, l'intendenza che segue».
Toni nuovi, bruschi. Il segno di una sfida per la sopravvivenza lanciata ai riformisti del Partito democratico e allo stesso Prodi. Il livello di allarme è altissimo, oggi Giordano riunirà la segreteria, analizzerà i risultati dei ballottaggi e il malumore verrà fuori, anche dalla maggioranza. «C'è un grande problema di politica economica — riconosce il sottosegretario allo Sviluppo, Alfonso Gianni — Senza una svolta si apriranno problemi consistenti». Non sfugge a Claudio Grassi che «il Prc sta soffrendo» e i risultati elettorali «sono preoccupanti». Uscire dal governo? «Difficile, sarebbe un trauma — teme il leader dell'area de l'Ernesto, che ultimamente si è riavvicinata a Giordano — Ma se con le imminenti scelte economiche non otterremo qualcosa, la situazione diventerà ingestibile».
Va ancora oltre il senatore Fosco Giannini, che sabato ha sfilato con Disobbedienti e centri sociali. Parla di «tracollo elettorale» e di «partito dimezzato», paventa una «insurrezione» in Calabria dove «la gente muore di fame» e conclude: «Questo governo non risponde alle speranze che abbiamo seminato, Prodi non può farci pagare altri prezzi. Le pensioni? Se non cancellano lo scalone non le votiamo». Ad aprile il Prc andrà a congresso e lo scontro, durissimo, è già iniziato. Fausto Bertinotti, sia pure col distacco richiesto all'alto incarico istituzionale, segue con attenzione l'ascesa di giovani «leoni» come De Cristofaro, Pecorini, Fratoianni, De Palma e Gennaro Migliore, il capogruppo alla Camera che il presidente vorrebbe segretario. Ma Franco Giordano darà battaglia.
E intanto il movimento si smarca dai partiti. Autonomo. Tentato di farsi partito a sua volta, a costo di infliggere al Prc una dolorosa scissione. I numeri ci sono. Giorgio Cremaschi porterebbe in dote un pezzo di Fiom, Piero Bernocchi i Cobas, Luca Casarini i Disobbedienti, Cannavò e Malabarba la minoranza di Sinistra critica e a quel punto non è detto che Giannini e Pegolo, con la loro fetta di «Ernesto», saprebbero resistere al fascino della rottura. Giordano fa scongiuri: «Non esiste un partito del movimento, non ci sarà mai».
Il flop di piazza del Popolo costringe a interrogarsi pure i Comunisti di Oliviero Diliberto. «Il problema — ragiona il segretario del Pdci — è che il popolo della sinistra non percepisce il cambiamento, non vede la differenza tra il governo di Berlusconi e quello di Prodi. La gente non sta meglio, sta peggio. E quindi non ti vota». Il sottosegretario verde Paolo Cento porta la riflessione alle estreme conseguenze: la governabilità non può essere «un tabù indiscusso». E sorprende quanto serafico sia invece il leader dei verdi. Alfonso Pecoraro Scanio dice che lui sabato era a Malta e che una piazza vuota mentre sfila un corteo è cosa «fisiologica». Problemi organizzativi, insomma. «Certo, sarebbero venuti più numerosi se avessimo manifestato per il clima...».

Corriere della Sera 11.6.07
L'addio di Cannavò: con il Prc è finita E altri compagni verranno con me
di Fabrizio Roncone


ROMA — Sabato pomeriggio, onorevole Salvatore Cannavò, mentre era alla testa del corteo che protestava contro George W. Bush, lei ha detto una cosa del tipo: ho una lettera in tasca, ma voglio aspettare ancora qualche ora...
«E qualche ora, in effetti, è passata».
Appunto.
«Beh, sì, insomma: parlavo del mio rapporto con Rifondazione comunista. È un rapporto che, purtroppo, si è spezzato».
Spezzato, onorevole, è un termine un po' vago.
«Voglio dire che, per quanto mi riguarda, considero quella con Rifondazione un'esperienza chiusa, conclusa. Naturalmente, di questo dovrò comunque parlare anche con i compagni che appartengono alla mia corrente...».
«Sinistra critica».
«A settembre terremo la prima conferenza nazionale».
Queste parole, questi progetti rischiano d'essere un duro colpo per il suo partito.
«Guardi, ad essere sinceri, il mio rapporto con il partito si era profondamente modificato già dopo l'espulsione del senatore Turigliatto».
Era noto, in effetti, che lei non...
«Non partecipavo più, di fatto, alla vita del partito. Non prendevo parte alle direzioni, ed ero fuori dalla quotidianità del gruppo parlamentare».
Poi, sabato, si è ritrovato alla guida di un corteo.
«Conta ciò che ho visto, e sentito, e provato dentro...».
Provi a spiegare.
«Mentre io e altri compagni di Rifondazione eravamo in quel magnifico corteo del movimento, che per altro niente ha avuto a che fare con quei cinquanta teppisti, quella marmaglia che... il vertice del partito se ne stava invece isolato, tremendamente isolato, a piazza del Popolo».
Era una scena eloquente, raccontano.
«Lo so. Ho mandato qualcuno dei miei a verificare. Giordano era circondato da poche decine di persone. La verità è che sabato, in modo fotografico, plastico, tutti abbiamo avvertito il fallimento della linea politica di Rifondazione ».
Che sarebbe?
«Essere di lotta e di governo. Vede, c'è una regola non scritta nella politica italiana».
Quale?
«Non puoi stare nel governo e, contemporaneamente, stare dentro ai movimenti. In Italia è un'operazione che non riesce. E Rifondazione, non casualmente, ormai da qualche mese non riesce più a parlare con i luoghi del movimento, con gli operai...».
Lei sta pensando all'accoglienza freddina che gli operai di Mirafiori, alcuni giorni fa, hanno riservato a Franco Giordano e al ministro Paolo Ferrero.
«Chiaro. È stata una giornata tremenda, quella. Se i tuoi compagni, se il tuo elettorato, non ti riconosce più, vuol dire che sei di fronte al fallimento ».
Chi è responsabile di questo fallimento politico?
«L'intero gruppo dirigente».
Riesce ad essere un poco più preciso?
«Fausto Bertinotti».
Che errori ha commesso?
«Due. Innanzitutto ha sottovalutato i reali rapporti di forza di questo Paese. Era convinto, alla vigilia delle elezioni, che il centrosinistra avrebbe stravinto, mentre, come sappiamo, è finita con un sostanziale pareggio».
Poi?
«Era sicuro che le mobilitazioni di massa sarebbero riuscite a condizionare l'attività del governo. Il quale, invece, ha persino ignorato quello che siamo riusciti a scatenare nel Nord-Est, per la vicenda della base Usa di Vicenza».
Qualcuno, nel partito, comincia a pensare che non fu poi strategico proporre Bertinotti alla presidenza della Camera.
«Fu un errore. Clamoroso. Grossolano. Io lo dissi subito. Ma ricordo che molti compagni mi sorridevano, con aria di sufficienza, come se mi sfuggisse qualcosa, come se non capissi».
Lei dice che ora tra Rifondazione e il movimento c'è una frattura e che...
«Senta: avessero un briciolo di percezione della realtà, i dirigenti di Rifondazione convocherebbero subito un congresso straordinario».
Il professor Massimo Cacciari sostiene che Rifondazione è ormai una zavorra per l'Ulivo.
«Ecco, vede? Cacciari ha capito che Rifondazione è in difficoltà, e attacca. Ma loro no, loro provano a risolvere il problema della debolezza alleandosi, fondendosi con altri deboli. Con i Verdi, con il Pdci, con i mussiani. Sa come finirà?».
No. Come?
«Diventeranno la corrente esterna del Partito democratico».
Lei, invece?
«Io, cosa?».
Quanti conta di portarne via, da Rifondazione? E per fare che?
«Ci conteremo alla conferenza nazionale, a settembre».
Al corteo, sabato, sfilavano almeno cinquantamila persone.
«Alt. Questa è una trappola... ma io non ci casco: guardi che noi non abbiamo mica organizzato quel corteo per fondare un partito...».
Senta, onorevole: ora come si comporterà alla Camera?
«Vuol sapere come voterò?».
Già.
«Deciderò di volta in volta. E per capirci: il Ddl Bersani sulle liberalizzazioni, se non verrà modificato, mi batterò per non farlo passare».
Lei è proprio di lotta.
«Sono coerente. Sa, la coerenza, un tempo, era un valore dentro Rifondazione».
Oggi, politicamente, lei come preferisce essere definito?
«Scriva che ero e resto comunista».

il Riformista 11.6.07
Rifondazione si lecca le ferite di piazza
di Ettore Colombo


Il primo turno delle amministrative (i risultati del secondo si sapranno solo oggi) è stato un mezzo disastro. Il “sit-in” di sabato in piazza del Popolo, in occasione della visita di Bush, un flop imbarazzante e, per quanto in parte annunciato, da far saltare i nervi ai più. I risultati della presenza al governo non si vedono o sono parziali risarcimenti per una base che ha “tirato la cinghia” per anni.
Ma Rifondazione comunista non può far altro che masticar amaro, deglutire e cercare di ripartire. A due giorni dal corteo che ha sancito, di fatto, la nascita di un nuovo soggetto politico radical-massimalista, e a quattro giorni dalla presentazione del Dpef a partiti e sindacati, facciamo un check-up di Rifondazione col ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero e il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena.
«È vero, c’era molto popolo di Rifondazione, nel corteo indetto da centri sociali, Cobas, trotzkisti e partitini comunisti vari, non ho nessun problema ad ammetterlo», attacca Russo Spena, «e non solo per la presenza, concordata, dei giovani comunisti e di qualche sezione sparsa o perché senatori come Haidi Giuliani o deputati come Francesco Caruso e Daniele Farina hanno deciso di andare là e sfilare con loro per creare “un ponte” tra le due manifestazioni. No, c’erano compagni di base in carne e ossa: sabato ne ho incontrati parecchi anch’io o l’ho saputo. Continuo a pensare che abbiamo fatto bene a organizzare il sit-in, dove c’erano presenze qualificate di esponenti di sindacati e associazioni, non solo dei partiti, anche se ci aspettavamo qualcosa di più in termini di gente reale, ma abbiamo anche cercato un’interlocuzione con l’altra piazza, nei giorni precedenti. I suoi leader, però, vogliono lanciare un nuovo soggetto politico radicale e massimalista alla sinistra del Prc e hanno cercato il massimo di separatezza».

il Riformista 11.6.07
In Germania la cosa rossa si fa partito
di Paolo Soldini


C’è una Cosa Rossa anche in Germania. O meglio: c’è stata, giacché da domenica prossimo al suo posto ci sarà un partito vero e proprio. Si chiamerà die Linke (la sinistra) e nascerà dalle ceneri di due partiti già esistenti. Uno, la Wahlalternative Arbeit und soziale Gerechtigkeit (alternativa elettorale lavoro e la giustizia sociale, in sigla Wasg), è complicata quasi quanto il nome che porta. È nata nell’ovest della Germania intorno a quella che fu un tempo un’icona della sinistra socialdemocratica, Oskar Lafontaine, e poi è cresciuta raccogliendo tutto quello che è andato maturando negli ultimi tempi nella società e nel mondo del lavoro a sinistra della Spd. L’altro partito è la Pds (Partei des demokratischen Sozialismus, partito del socialismo democratico), erede ufficiale della Sed, il partito-guida che dominò completamente la vita della dittatura comunista nella Rdt, appena mascherata con l’ipocrita finzione di un “sistema pluripartitico” che contemplava una falsa Cdu, un falso partito liberale, un falso partito nazional-democratico, un falso partito dei contadini (il più improbabile di tutti). Quando la Rdt, caduto il Muro, se ne uscì dalla storia dell’Europa e del mondo, nessuno avrebbe scommesso un marco, neppure uno svalutatissimo marco dell’est, sulla sua sopravvivenza, visto che era stato creato in tutta fretta ed era stato fondato per raccogliere iscritti, simpatizzanti (all’epoca pochi), beni immobiliari e conti bancari della vecchia Sed.

l’Unità 11.6.07
Che fine farà la sinistra smarrita?
Lo schieramento progressista soffre di un deficit di egemonia e di un profilo ideale troppo debole
di Bruno Gravagnuolo


DIBATTITI La destra populista e neo-sovversiva lavora alla spallata contro il «governo dei tagli e delle tasse». E il centrosinistra annaspa. Ma è possibile vincere la partita senza una sinistra di massa e a identità forte? Discutiamone assieme

Che fine ha fatto la sinistra? Esiste ancora come campo attivo di valori, oppure è andata smarrita senza che ce ne accorgessimo?
Inevitabile porsi queste domande dopo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative, dopo il caso «Visco-Speciale» e le fibrillazioni della maggioranza che abbiamo visto. Tutte cose che ribadiscono un dato ormai inconfutabile, di là della fragilità di questo governo, frutto di elezioni vinte a metà e pressato da una destra montante.
E il dato è questo: il deficit di egemonia del centrosinistra. Vale a dire, una mancanza di capacità persuasiva verso le forze produttive del Paese. In ordine alla necessità e all’utilità delle ricette adottate.
Le quali appaiono al più inevitabili, dure e «razionali», ma altresì inadeguate a rilanciare lo sviluppo e ad alleviare le condizioni di vita del lavoro dipendente, gravato nell’ultimo quindicennio da perdita del potere d’acquisto, peggioramento del quotidiano e da regresso della mobilità sociale verso l’alto.
Non intendiamo entrare nel merito delle scelte tecniche adottate negli ultimi quindici anni, a partire dai governi Amato e Ciampi e proseguite con qualche continuità dagli esecutivi di centrosinistra fino ad oggi. Scelte segnate dall’emergenza dei conti e dal peso del vincolo internazionale, con gli obblighi dell’Euro in primo piano. E che hanno contribuito a salvare il paese dalla deriva.
Ma è chiaro che la cultura virtuosa dell’emergenza di bilancio non basta. A superare l’ingovernabiltà del paese e il suo bipolarismo selvatico. E ad aiutare questo governo a uscire dalla secche della precarietà, evitando le tante tagliole di cui è disseminata la sua strada. Non basta se la sinistra è smarrita. Se è divenuta ininfluente sul senso comune degli italiani. Incapace di progettualità e visione. Sgretolata e scarsamente radicata. Impotente a costruire consenso attorno a un alfabeto di valori, priva di soggettività di massa e forza propria, debole nel prospettare emancipazione generale e utilità collettiva (non il teologico «Bene comune»). Ebbene, su tutto ciò è giunta l’ora di aprire una discussione seria, senza infingimenti ed eufemismi. Alla quale l’Unità intende riservare ampio spazio, invitando a intervenire chiunque riconosca almeno l’urgenza del tema. Compresi ovviamente coloro che non condividono le considerazioni che stiamo per esporre.
Dunque «sinistra smarrita». Che significa? Significa innanzitutto la fine di un insediamento storico, cementato nel dopoguerra in prevalenza dal Pci. E che gli eredi del Pci sono stati incapaci di rinnovare e aggiornare, senza buttare il bambino e l’acqua sporca. Sicché sull’onda di trasformazioni dirompenti e non governate - che hanno inciso sul suo Dna di massa - la sinistra è approdata via via a un rovesciamento di valori profondo. Che ne ha alterato profilo e vocazione, rendendola subalterna ad altri valori e ad altri paradigmi. Cioè irriconoscibile o insostenibilmente «light», intimamente depotenziata. Proviamo allora a delineare alcuni punti d’approdo di questa «mutazione». Punti che assumiamo in negativo come emblemi di ciò che ai nostri occhi non è sinistra, e né può esserlo.
Primo: «il leaderismo». Ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e «chiave di volta» del bipolarismo. Una tendenza particolarmente esasperata in Italia, inaugurata simbolicamente da Craxi e scissa per lo più dal contrafforte partitico, programmatico e parlamentare. E proprio la particolare versione italica del leaderismo - connessa alle assurdità sul cosiddetto e inesistente «premierato» - ha avuto un ruolo determinante nello «squagliare» la partecipazione quotidiana e di massa nel segno di appartenenze vissute e responsabili. Le quali poi non sono affatto in contrasto con la cittadinanza, ma anzi la potenziano. Come l’esperienza del 900 dimostra. E i risultati sono stati, personalismo, microleaderismo notabilare (in periferia) e infine il «leaderismo senza leader», da cui è affetta l’attuale discussione sul leader del Partito democratico, sorta di cantiere sull’abisso dove di tutto si parla fuorché di politiche per l’Italia. Dunque il leaderismo all’italiana non è di sinistra.
Secondo: «Legge elettorale e mito della governabilità». Non sono di sinistra. Perché quel che conta non è il maggioritrario in sé come panacea. Poiché anche un maggioritario secco - specie nella versione insensata dell’attuale referendum - può confermare e complicare le divisioni di uno schieramento. Può restituire tutta la frammentazione del territorio, rafforzando i capicordata locali, come abbiam visto ad abundantiam. E può moltiplicare i ricatti nei singoli collegi, stante l’utilità marginale anche di poche centinaia di voti. Al contrario, ciò che assicura un minimo di stabilità sono «partiti a baricentro culturale forte», modernamente identitari e laici, e in grado di arginare il sempre risorgente trasformismo.
Terzo: «Monetarismo e politiche di bilancio ermetiche». Non sono di sinistra. Né sotto forma di alti tassi di interesse e bassi salari. Né in termini di blocco della spesa pubblica legata a investimenti, formazione e infrastrutture. Non per caso Jacques Delors propose anni fa di defalcare quelle spese dal calcolo dei parametri di Maastricht. Bene, che ne è stato di quelle raccomandazioni, in una con quelle di Prodi di non impiccarsi a «parametri stupidi»? Perché Berlusconi ha goduto di tante franchigie nel rientro (mancato) dal deficit, e invece Prodi è così «sotto tutela»? Altro invece è il discorso sulle spese improduttive, come quelle di una politica sopradimensionata. E altro gli sprechi, l’assenteismo, e i diritti senza doveri. È qui che occorre intervenire a sanare e a far cessare privilegi scandalosi del ceto politico. Che nulla hanno a che fare con la dignità della politica e delle istituzioni. Inammissibile ad esempio che una legislatura, o due anni di essa, diano diritto a una pensione e non a contributi da sommare. E insostenibile che un assessore di una media città costi allo stato, portaborse inclusi, 20mila euro netti al mese! E sono cose che si conoscevano ben prima del best seller La casta. Queste le vere riforme istituzionali, «di sinistra».
Quarto: «Lavoro e flessibilità». Così come mediamente vengono «declinati» dalla sinistra riformista essi non rispondono a criteri di sinistra. Il lavoro infatti dovrebbe essere il caposaldo e la prima ragione sociale della sinistra, quella da cui nasce e di cui si alimenta. Non già dunque un «fattore» tra gli altri, ma un diritto primario e un orizzonte di valore. Quale? L’emancipazione stessa del lavoro, la sua «auto-padronanza». La sua priorità gerarchica dentro le trasformazioni dell’economia, che non possono ruotare attorno al predominio dell’azienda privata, i cui fini non sono di per sè «interesse generale». Né in linea di fatto né in linea di principio. Quanto alla «flessibilità», è l’economia che deve rendersi flessibile alle esigenze del lavoro, e non il contrario. Legittimandosi la prima - e in termini costituzionali- solo se assicura sviluppo e occupazione, nel rispetto dei vincoli ambientali e dei diritti della comunità. La competizione globale? Un vincolo, certo non aggirabile. Ma un vincolo appunto, e non un obiettivo, una finalità. Vincolo da rispettare facendo crescere insieme impresa e lavoro, nella prospettiva di estendere regole e diritti universali anche ai paesi che non li rispettano. Ed è esattamente questa «l’esportazione della democrazia» che compete alla sinistra. Il resto? È liberismo, magari con la copertura di politiche imperiali e di guerra.
Quinto: «Laicità». Non è di sinistra una laicità intesa come «dialogo» puro e semplice, o come «sana laicità» che assuma al suo interno le «radici cristiane» da privilegiare comunque. Laicità viceversa è la «neutralità attiva» dello stato tra le fedi. Promozione di regole che sono anche valori civici di libertà, solidarietà, criticità della cultura, autonomia della ricerca. Ben venga l’apporto della «sfida religiosa» sui grandi problemi, ma non al punto da comprimere e compromettere quei valori, avanzando la pretesa di penalizzare giuridicamente gli «stili di vita» dei singoli difformi dalla tradizione.
Sesto: «Privatizzazioni». Bene quelle volte all’interesse dei consumatori, e contro privilegi corporativi. Male quelle che annullano il ruolo propulsivo del pubblico nelle alte energie, nei trasporti di massa, nella scuola, nella sanità. E anche nei settori tecnologici avanzati. Nessuno stato nazione - di sinistra o di destra - rinuncia al suo ruolo in molti di questi campi, specie nell’ultimo. Laddove da noi molte privatizzazioni sono state un vero assalto alla diligenza da parte di concentrazioni finanziarie che hanno riversato il debito sugli utenti, e non hanno investito né innovato. Un’amara vicenda, dettata dall’emergenza dei conti, ma che non può essere assunta a stella polare della sinistra. Tutt’altro: molte di queste privatizzazioni erano agli antipodi di un orizzonte di sinistra. Erano «destra». E in più, proprio nel corso di tali processi di privatizzazione, sono emerse a sinistra tendenze a favore dei nuovi contendenti, per ridefinire la geografia del potere economico, e al fine illusorio di tracciare la mappa di un «nuovo capitalismo» (ma era vecchissimo!)
Infine, il «Partito democratico». Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un’occasione straordinaria, una «fusione di riformismi» per dare stabilità e forza al centrosinistra. E invece rischia di apparire come un «errore di sistema»: destabilizzante e non aggregante. Una ricaduta fatale nel vecchio schema dei partiti parlamentari, notabilari e leaderistici dell’Italia post-unitaria. Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta. Vuol dire: fine della politica organizzata sul territorio. Della capacità di costruire un blocco sociale democratico attorno al lavoro dipendente, da contrapporre al nuovo blocco dell’individualismo proprietario di destra e al suo «neo-sovversivismo». Fine della selezione dei quadri dirigenti e della trasmissione della memoria tra le generazioni. Fine della sinistra con testa, braccia e gambe, come organismo pensante dotato di autonoma personalità e ideali. Della sinistra intesa come emancipazione delle classi subalterne: tutto a favore di una sinistra della mera inclusione liberale al banchetto dell’economia. Una sinistra «light» e di opinione. Ovvero: cittadinanza e consumi rescissi dal lavoro e dal potere. Non solo quindi si è liquefatto il cattolicesimo democratico e laico, assieme alla tradizione organizzata della sinistra storica. Ma si sono accresciute le divisioni in seno al nuovo aggregato in costruzione. Cantiere sull’abisso e «Azione parallela» generica, i cui conflitti interni si ribaltano sull’esile tenuta dell’esecutivo. Con il risultato acclarato di aver ristretto il potenziale del cosiddetto «timone riformista» dentro la coalizione. A vantaggio di disincanto, astensioni e scissioni, e del rafforzamento del versante più radicale del centrosinistra. Dubitiamo che il lancio delle primarie - dimidiate e frenate dalla leadership in carica - possa far lievitare il «cantiere sull’abisso». Fatto sta che al momento tutto si concentra su giochi procedurali chiusi, e rivalità personalistiche. Mentre intanto la destra lavora alla spallata contro il «governo delle tasse e dei tagli» («lavoro sporco» di cui si gioverà). Governo inviso all’impresa, e che non sfonda tra il popolo. Sinistra smarrita: eccolo il vero «riformismo senza popolo». Al quale non s’è posto rimedio, dopo il tanto parlarne. Eppure è tempo di trovarlo quel rimedio e ripensare tutto quel che non funziona, anche a costo di clamorose conversioni ad U. Di questo è urgente parlare, di questo vogliamo discutere. Su l’Unità, adesso.

l’Unità 11.6.07
«Ora niente più sconti al governo»
Sconfitta in piazza, la sinistra radicale rilancia: su pensioni, lavoro, Dpef sarà battaglia
di Simone Collini


DOPO LA VISITA DI BUSH rischia di diventare ancora più complicata la vita del governo Prodi. Il problema non è tanto l’abbraccio con cui il premier ha accolto il presidente Usa a Piazza Colonna, che pure è piaciuto assai poco alla sinistra radicale ma che rimane una fotografia da consegnare al passato. Il problema è quello che si è visto in un’altra piazza romana, e il futuro a cui guardano con preoccupazione Rifondazione comunista, Verdi e Pdci. Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio hanno dato appuntamento ai loro militanti e simpatizzanti in Piazza del Popolo, dove si è svolto un sit-in di protesta contro Bush ma non contro il governo. Solo che militanti e simpatizzanti per la maggior parte o sono restati a casa o hanno sfilato nel corteo “No-War”, che aveva una piattaforma critica tanto con l’amministrazione statunitense quanto con l’esecutivo Prodi. Un brutto segnale per i tre leader, che andando ad aggiungersi ai deludenti risultati delle amministrative ha fatto scattare nell’ala sinistra dell’Unione quello che sarebbe un eufemismo definire un campanello d’allarme. E le cui onde sonore investiranno ora Palazzo Chigi, dal momento che la soluzione al problema della perdita di consenso Prc, Pdci e Verdi l’hanno già individuata: non è chiara la «discontinuità» rispetto al governo precedente, a questo punto serve una «svolta sociale» nell’azione di governo. E insistendo su questi due concetti la sinistra radicale aprirà già dai prossimi giorni una serie di fronti sul terreno del Dpef, della riforma delle pensioni, della legge sul lavoro, tornando poi anche su questioni come la base Usa di Vicenza, la Tav, le missioni all’estero, le spese militari. Con un avvertimento lanciato dal Prc Russo Spena: «Non possiamo più fare sconti a nessuno».
I passi da compiere Diliberto li ha già annunciati ai suoi, a cominciare dalle richieste che porterà al vertice di maggioranza sul Dpef che si farà venerdì. «Il malessere sociale è grande, bisogna far capire meglio che il governo è cambiato». E questo si fa, secondo il segretario dei Comunisti italiani, intervenendo sui salari e sulla legge Biagi, abolendo lo scalone previsto dalla riforma Maroni e dicendo no a qualsiasi ipotesi di aumento dell’età pensionabile.
«Dopo la visita di Bush e le manifestazioni di ieri è necessario rafforzare le politiche pacifiste e antimilitariste», dice il Verde Paolo Cento annunciando che darà battaglia per una «riduzione delle spese militari» già nel Dpef. Il sottosegretario all’Economia prende anche atto della disparità numerica tra le due manifestazioni, e senza troppi giri di parole ne indica il motivo: «C’è una fetta rilevante del popolo pacifista che non si accontenta della discontinuità che fino ad oggi vi è stata tra la politica del governo Prodi e quella del precedente governo Berlusconi». Inoltre, per rimanere in campo Verde, se il ministro dell’Economia Padoa Schioppa si dice convinto che «la Tav passerà al di qua delle Alpi», il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio rimane in attesa delle valutazioni dell’osservatorio tecnico, ribadendo nel frattempo che «si farà, ma non sulla pelle dei cittadini della Val di Susa» e che resta il suo no al mega tunnel.
A soffrire particolarmente in questa situazione è Rifondazione comunista, il partito che più ha lavorato per aprire un dialogo con i movimenti e che dopo un anno della sua prima esperienza di governo si ritrova con un netto calo di consensi alle urne. Serve «un colpo d’ala», dice Russo Spena, a partire dal Dpef e dalle pensioni, altrimenti «i fautori delle larghe intese avranno più forza e Prodi tra qualche mese potrebbe essere costretto a passare la mano». Per il capogruppo del Prc al Senato ora serve «un confronto molto serrato» nella maggioranza, perché nell’Unione ci sono «due linee» che ora toccherà al premier portare a sintesi: «Io spero che Prodi ci riesca. Certo, se viene fuori un Dpef subalterno al programma di Confindustria, il clima diventa infuocato. Non possiamo più fare sconti a nessuno». Anche perché di questo passo rischiano di fare breccia le pressioni sul Prc a rompere con l’esecutivo. Che non mancano, a cominciare da quelle che puntualmente arrivano da Marco Ferrando, ex trotzkista Prc e fondatore del Partito comunista dei lavoratori.
A trovarsi in una situazione delicata, in questo momento, è anche Sinistra democratica. Il movimento politico fondato da Mussi, Salvi e Angius non ha aderito a nessuna delle due manifestazioni. Ma se era nato con l’obiettivo di unire tutte le forze di sinistra, partiti e movimenti, partendo dal fatto inedito che oggi sono tutte al governo, la situazione che si è venuta creando di certo non aiuta. La capogruppo alla Camera di Sd Titti Di Salvo esclude «contraccolpi» sull’esecutivo dopo il flop di Piazza del Popolo, ma sottolinea anche lei che a questo punto bisogna attivarsi per un «recupero del consenso»: «Serve una svolta sociale nell’azione di governo. Lo dice non solo il risultato delle elezioni, ma anche il rapporto Istat, che segnala la presenza in Italia di indici di disuguaglianza molto forti, accompagnati da un profondo disagio sociale». E anche in questo caso le precondizioni sono l’abolizione dello scalone e il no all’aumento dell’età pensionabile. E il banco di prova più immediato il vertice di venerdì sul Dpef.

l’Unità 11.6.07
Gennaro Migliore, il capogruppo Prc: inizieremo subito un dialogo con i movimenti.
Ma il rischio è che i nostri elettori siano tentati da Berlusconi
«Il punto non è Bush. Ma le politiche sociali»
di Enrico Fierro


La gioia per la promozione del «suo» Napoli in serie A. La delusione per le lacerazioni e i toni aspri di una discussione che si preannuncia infinita sul dopo corteo di sabato. Anti-Bush, ma anche - e a tratti soprattutto - anti-Prodi e anti-Bertinotti. La domenica di Gennaro Migliore, classe 1968 e capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, è carica di sentimenti contrastanti. A noi tocca rovinare la festa calcistica.
Onorevole, Marco Ferrando dice che per voi è venuto il momento di smarcarvi da Prodi.
«Rispetto tutti, ma mi manca la fantasia per pensare a Ferrando come leader di qualcosa in grado di dare lezioni. Preferisco ascoltare il mondo che ha partecipato a quel corteo pacifista».
Già ma il corteo di sabato è riuscito, il sit-in della sinistra di lotta e di governo no.
«Ho ben presente i pensieri e le tensioni di quanti sabato hanno sfilato per le strade di Roma per manifestare contro Bush e per chiedere politiche di pace. C’erano anche molti iscritti al mio partito con le bandiere di Rifondazione. Noi avevamo proposto una iniziativa unitaria che non è stata accettata. Evidentemente c’era chi voleva fare un uso politico, politicista, di quelle pulsioni e del corteo. Diciamo la verità, hanno aspettato Bush per fare una manifestazione contro Rifondazione. Detto questo, non mi nascondo le nostre responsabilità. Avremmo dovuto impegnarci di più per una iniziativa più grande e unitaria. Ma un dato è certo: lavoreremo per l’unità con i movimenti, ascolteremo di più le mille voci che vengono da quel mondo».
E’ impressione diffusa che stare al governo non vi faccia bene. State pagando un prezzo troppo alto a Prodi. Il voto delle amministrative sta lì a dimostrarlo.
«Perdiamo, ma non per la politica estera. Il vero campanello d’allarme è sulle politiche sociali. È qui che bisogna aprire una fase nuova e correggere a sinistra l’asse della politica economica del governo».
Giusto, ma come la mette con il ministro Padoa Schioppa?
«Diciamo che la mettiamo e la metteremo. Perché quando il ministro afferma che il sindacato o si rinnova o si estingue, e lascio ai lettori immaginare cosa intenda per rinnovamento, candida il governo alla disfatta. Nella prossima riunione sul Dpef chiederemo che si facciano scelte tutte orientate a politiche di redistribuzione sociale. Ci sono le risorse e sono il frutto di una finanziaria pesante che abbiamo sostenuto. Ora, per favore, non dividiamoci su come investirle in un piano di vero risarcimento sociale».
E Confindustria? E Montezemolo?
«Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto cinque miliardi di euro con il cuneo fiscale, ora tocca a chi ha di meno. Ora il governo deve ascoltare gli operai Fiat da Pomigliano a Mirafiori, i lavoratori con i salari e le pensioni più basse, i giovani disoccupati, la gente strozzata da affitti altissimi e quelle fette di ceto medio che rischiano di scivolare agli ultimi posti della scala sociale. Questa è la vera svolta che la nostra gente si aspetta. Vede, la cosa che mi allarma è che le parole del ministro del Tesoro hanno sempre, se posso dire così, un segno di classe. Non parlano mai alla base, alla gente che pure ha votato per questo governo consentendogli di fare il ministro».
Lo scrittore Marco Revelli disegna scenari inquietanti per la sinistra, dice che ormai avete rotto tutti i ponti con i movimenti, che dietro l’angolo c’è il riflusso degli anni Ottanta, che la situazione è irreversibile.
«Sono solo in parte d’accordo con Revelli. Certo, quando c’è una esasperazione delle posizioni politiche il rischio di passivizzazione dei militanti e dell’elettorato è dietro l’angolo. Ma la situazione non è irreversibile. Da subito inizieremo un confronto con i movimenti, stiamo avviandoci verso un importante momento di confronto anche tra le forze della sinistra che non si riconoscono nel partito democratico, ma il rischio che vedo è un altro, ben più grave. Quando la disaffezione alla politica riguarda ampi ceti popolari, alle porte non c’è il riflusso, ma il sostegno a politiche reazionarie. Per dirla tutta: il rischio è che i nostri elettori votino per Berlusconi. Se permette, mi preoccupo più di questo che di Ferrando e Cannavò».

Repubblica 11.6.07
Giordano, leader di Rifondazione: difendiamo gli elettori del centrosinistra o saremo travolti tutti
"Mai più due piazze della sinistra e Prodi non stia in mezzo al guado"
di Goffredo De Marchis


Gli obiettivi. Abolire lo scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev'essere inserito nel Dpef
I movimenti. La prossima volta saremo con i movimenti, anche se le parole d'ordine non dovessero convincerci
Noi e Cacciari. Dice che noi siamo conservatori, ma la società disegnata da lui è il Medioevo. È frustrato per il Pd

ROMA - «A Prodi voglio dire una cosa sola: non si può più stare in mezzo al guado. Bisogna difendere il nostro blocco sociale di riferimento e avviare, già a partire dal Dpef, una politica di risarcimento sociale. Altrimenti saremo travolti tutti». È il giorno dopo il flop della manifestazione no war, della "piazzetta" del Popolo presidiata da pochi militanti di Prc, Verdi e Pdci e dai loro leader contrapposta al corteo dei movimenti. «Mai più due piazze», annuncia il segretario di Rifondazione Franco Giordano. «La prossima volta saremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci». Ma le difficoltà di Rifondazione rischiano ora di ripercuotersi sull´esecutivo. Perché i comunisti spostano la loro attenzione sulle politiche sociali ed economiche. E chiedono il rispetto del programma.
Ha pensato che la piazza vuota di sabato fa il paio con il calo di Prc alle amministrative?
«Non vedo il collegamento. Il voto amministrativo è senza dubbio per noi un campanello d´allarme certificato. Lo è anche per altri e la voragine del Partito democratico è lampante, ma io guardo al mio partito. A Piazza del Popolo la partecipazione era inadeguata, certo. Ma, ripeto, la nostra era una kermesse e non c´è mai stata una contrapposizione con il corteo no war. Chi lo dice sbaglia bersaglio, non coglie l´elemento di fondo di quel corteo che è un elemento unitario».
Perché stavate da un´altra parte, allora? Forse perché siete diventati più di governo che di lotta?
«Prc voleva costruire una piattaforma unitaria e partecipare al corteo. Ci è stato detto che no, che non volevano. A quel punto abbiamo fatto un passo indietro perché non volevamo diventare motivo di tensione. Ma in quella manifestazione c´era gran parte del nostro popolo, lo so bene. Lo so così bene che posso dire di più: la massima partecipazione, sia alla partenza sia all´arrivo, è stata garantita da noi, da Rifondazione comunista».
Eppure molti slogan erano contro Prc, alcuni pensano che da quel corteo si possa lavorare per dare vita a un nuovo soggetto alla vostra sinistra.
«A sentire gli stessi esponenti, che sono iperpolemici con noi, pare proprio che non sia così. E poi penso che l´autonomia dei movimenti vale sempre. Nei confronti di Rifondazione, del governo e anche di chi vorrebbe sovrapporsi a loro per i suoi piccoli interessi politici».
Cacciari comunque dice che il vostro flop è un ottima notizia per le sorti del centrosinistra.
«Ho letto. Dice che noi siamo conservatori. Ma la società disegnata da lui è il Medioevo! Taglio delle pensioni, privatizzazioni... E la riforma istituzionale? Ci aveva pensato Craxi 25 anni prima di Cacciari. La verità è un´altra: il sindaco scarica su di noi la frustrazione di un sogno infranto, il Pd di cui vorrebbe tanto essere protagonista. Quanto al suo rapporto con i no global lo conosciamo bene: è quello delle pacche sulla spalle. Voi vi occupate dell´idealità ma non disturbate il manovratore che deve governare. Questo è. Una logica paternalistica che non ci appartiene».
Cacciari o no, si è rotto qualcosa nel vostro feeling con i movimenti?
«Noi lavoreremo per la ricomposizione. E non ci sarà più qualcuno che impedirà i processi unitari. Lavoreremo anche unilateralmente per evitare divisioni e le due piazze di sabato. A partire dai prossimi appuntamenti sul terreno pacifista e internazionale. Detto questo, pur mantenendo la critica all´azione di governo alcune cose vanno riconosciute: l´uscita dall´Iraq, che è molto, e per stare a momenti più recenti, la pubblicizzazione dell´acqua. Un risultato importantissimo. È una di quelle liberalizzazioni mancate che mi fanno apparire vecchio a Cacciari e invece mi rendono felice».
È giusto aspettarsi adesso un´offensiva della sinistra radicale contro il resto della maggioranza su tesoretto, pensioni, lavoro?
«Non vogliamo il cortocircuito tra le nostre difficoltà attuali e le politiche sociali. Ci stiamo preparando da tempo ad essere chiari sul fronte economico, per essere sinceri. Il campanello d´allarme delle amministrative è univoco, suona per tutti. C´è un problema drammatico delle classe popolari. Di disincanto e di disaffezione, un elemento acuto di sofferenza. In tante parte del Nord, ma non solo».
Ma per superare questa crisi le ricette dentro l´Unione sono molto diverse.
«Ne esiste una sola. Per tornare a dialogare con quei settori dobbiamo essere limpidi e dare seguito alle promesse della campagna elettorale: abolizione dello scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi. Tutto questo dev´essere nel Dpef, a cominciare dall´extragettito. È evidente una spinta fortissima da parte di certi settori, di cui Montezemolo è il portavoce, di utilizzare quelle risorse evitando la redistribuzione sociale. Sarebbe il programma di un governo istituzionale. Prodi dunque non deve più stare in mezzo al guado».

l'Unità 11.6.07
Narcisista e border line, identikit del pedofilo
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
la trasmissione di Santoro ha aperto gli occhi di tutti su un problema grave, quello legato ai preti che praticano la pedofilia e sul modo in cui la Chiesa li ha protetti finora. Monsignor Fisichella, in trasmissione, ha detto con chiarezza che quei preti «non avrebbero mai dovuto diventare preti». Dal giorno in cui ho visto quelle immagini e sentito quei discorsi, tuttavia, ho due domande che mi girano nella testa. Sono davvero tanti i pedofili? Che dobbiamo pensare di loro? E soprattutto, che potremmo o dovremmo fare per loro?
F.B.

Un convegno promosso dalla Commissione Europea pochi giorni fa a Berlino propone alcune risposte interessanti per i suoi quesiti. Glieli riassumerò qui brevemente.
Sulla diffusione della pedofilia, prima di tutto, un intervento illuminante è stato quello di Peter Vogt che distingue la diffusione nel mondo della pedopornografia su strade commerciali e “non commerciali” utilizzando a titolo di esempio due situazioni approfondite dalla polizia della Sassonia. Nel primo caso, considerato “non commerciale”, il fondatore di un gruppo che scambiava foto e video pedopornografici su internet, era un giovane di 26 anni, pedofilo per sua dichiarazione, che disponeva di un solo, normale, computer. Su richiesta del Tribunale la Microsoft Corporation di cui si serviva accertò che questa singola persona disponeva di 26.536 file pedopornografici, di 36.602 accessi (email account entries) e di 12 gigabyte di file pari a 197 Km di carta. I corrispondenti identificati erano 26.000 e abitavano in 150 Paesi diversi. L’indagine durò un anno e utilizzò dieci funzionari a tempo pieno. I risultati furono straordinarii, tuttavia, se si pensa che nella sola Germania, 14 bambini vennero salvati con interventi portati avanti nelle case dei pedofili così identificati.
Nel secondo caso, dichiaratamente commerciale, quello investigato nel 2006 dal Tribunale di Halle fu un portale pedopornografico. L’ammontare della somma pagata per entrare in quel portale fu ricostruito con l’aiuto delle compagnie che gestiscono più di 20 milioni di carte di credito in Germania. Riportando al complesso dei portali pedopornografici accessibili in quel periodo i dati ottenuti su questo portale, si arriva a calcolare un movimento annuo di 4 milioni di dollari per 50.000 accessi effettuati da almeno 25.000 clienti.
Gli esempi sono interessanti, mi pare, per dare un’idea della diffusione progressivamente più grande e ad oggi davvero impressionante di un fenomeno di cui si parla spesso fugacemente anche in Italia quando il gruppo operativo coordinato dal dott. Vulpiani presso il ministero degli Interni propone i risultati di una sua indagine. Quello su cui è interessante riflettere, tuttavia, è il rapporto che lega la pedofilia virtuale a quella reale, quella di cui in queste ultime settimane soprattutto si è parlato da noi.
Dicendo prima di tutto che le immagini che girano su internet, per hobby o a pagamento, sono immagini di bambini reali. Bambini che hanno la sfortuna di nascere nei Paesi poveri del mondo (quelli, per intenderci, in cui esiste la pratica del turismo sessuale) ma bambini che nascono e/o vivono sempre più spesso, però, anche in Europa. Nei luoghi dell’emigrazione recente, e in quelli, più in generale, dell’emarginazione e della povertà: morale e/o economica. Il che vuol dire che la pedopornografia virtuale, con il suo enorme giro di soldi, si regge su una serie di crimini che sono, tuttavia, assai difficile da scoprire e da portare in Tribunale. Pochi sono i bambini che hanno la possibilità e/o la forza di fare delle denunce, infatti, e molti meno ancora sono quelli alla cui denuncia si crede: arrivando a delle condanne. Ma dicendo anche, con forza, che i partecipanti al seminario della Commissione Europea hanno insistito sul modo in cui la pedopornografia via internet funziona, per la facilità e la frequente impunità dell’accesso, come un punto di partenza di fantasie malate e come occasione di sviluppo di comportamenti pedofili più strutturati e più pericolosi. Dal virtuale al reale, quello che cresce è il bisogno di soddisfare appetiti e/o desideri che un numero progressivamente più grande di persone si accorge di avere o di poter suscitare dentro di sé. Soffrendone, a volte, perché sempre più frequente è la richiesta di aiuto terapeutico di persone (già giudicate o che hanno più semplicemente paura di non dominare i loro istinti) ai centri specializzati che alcuni paesi (ma non il nostro) stanno mettendo in opera. Come ben documentato nel corso dello stesso congresso di Berlino da un gruppo di ricerca che ha avuto modo di prendere in carico, negli ultimi tempi, più di 500 persone, mettendo in opera strategie estremamente interessanti di trattamento.
È su questo dato, in effetti, che bisogna riflettere per rispondere al suo secondo quesito. Dicendo risolutamente che quella da modificare è l’ottica con cui sinora si è guardato al problema della pedofilia.
Autori di reati gravi, le persone che mettono in opera comportamenti pedofili, reali o virtuali, sono stati considerati fino ad oggi solo dei “mostri” o delle persone “cattive”. Quelle che si propongono nei loro confronti sono, dunque, una definizione di ordine morale e una risposta di tipo giudiziario. Senza prendere in considerazione, dunque, le radici psicopatologiche del loro comportamento e senza rendersi conto sino in fondo del fatto che, così facendo, nulla si fa di concreto per evitare (a) che tendenze malate appagate su internet si traducano in reati concreti contro altri bambini e (b) che il pedofilo eventualmente scoperto e condannato non torni, dopo aver espiato la pena, a commettere gli stessi reati. Prevenire è, in casi di questo genere, soprattutto curare. All’interno di una situazione concreta in cui il trattamento deve prevedere insieme la punizione, sul piano civile e penale, e il lavoro terapeutico con la persona.
Affetto da forme diverse di disturbo della personalità, con prevalenza alternata di tratti border line, narcisistici o antisociali, l’insieme delle persone coinvolte oggi nella pedofilia, virtuale e reale, costituiscono un problema di grande importanza per il futuro di un Paese civile. Da affrontare con grande serietà ed impegno. Cercando di utilizzare l’ondata emozionale destata dai fatti di cronaca per ragionare concretamente, come sinora assai poco si è fatto, sulle iniziative da prendere più che per solleticare la curiosità non sempre sana di un pubblico che si appassiona o si scandalizza nel dibattito sui “mostri” e/o sui bambini della cui memoria, secondo alcuni, non ci si dovrebbe fidare.