"Basta grisaglia, rivoglio l'eskimo"
Il popolo di Rifondazione si sfoga sul web: "Dove stiamo andando?"
di Alessandra Longo
Andrea scrive sul blog: "Votiamo per gli ideali, io uscirei dal governo..."
Clima teso anche nel quotidiano. In arrivo un intervento dei redattori su Cuba
Dopo lo strappo con i movimenti del corteo anti-Bush cresce il malessere dei militanti del partito di Bertinotti
Si moltiplicano le lettere a Liberazione. Il direttore Sansonetti: "Il momento è difficile"
ROMA - «Stare nel governo ci porta bene o male? Stare all´opposizione è costruttivo? Io vi dico che non so rispondere, so di non sapere... ma una cosa è certa: lo strappo coi movimenti è evidente, difficile da ricucire. Credo che tutti si debbano porre una domanda: dove stiamo andando?».
Dove stiamo andando: è questo l´interrogativo dentro le mura di Rifondazione, è questo che si chiede, nell´area blog del sito del partito, un anonimo militante, in cerca di nuova identità, afflitto da sbandamento, anche sofferenza.
«Millepapaverirossi», così si firma, non è aggressivo, non è rancoroso, usa il linguaggio di chi, innamorato di un´idea, di una battaglia, di una sfida, sente improvvisamente di aver perso il filo. Dove stiamo andando, qual è la cosa giusta da fare, continuare a stare con Prodi o ritrovare la verginità perduta e rinunciare a contare, a scrivere il futuro? A giudicare dalle prime risposte, la voglia di spezzare le catene della coalizione è tanta: «Tu dici di non sapere che cosa fare, io invece lo so: bisogna abbandonare subito il governo, anzi, prima di subito». Strano, difficile, travagliato momento per Rifondazione, in crisi di rapporto con i movimenti, che pure sono stati il suo alimento vitale, considerata da uno come Massimo Cacciari «la zavorra ideologica» sul cammino di un riformismo altrimenti vincente. Fausto Bertinotti, diventato presidente della Camera (più d´uno, anche in direzione, si chiede se non sia stato un errore rinunciare, nel mezzo del cammino, al suo contributo diretto), procede, scientificamente, per strappi: la non violenza, il superamento della cultura del Novecento, la ricerca mistica, e personale, di un nesso tra cielo e terra e quella, più materiale, di un nuovo cantiere per la sinistra a sinistra del Pd, il riconoscimento della realtà di Israele, le lodi, nel nome della pace, ai parà impegnati in Libano, la rivalutazione delle tele di Sironi e degli scritti di Celine, la fascinazione per la psichiatria "politica" di Massimo Fagioli. La base stenta a stargli dietro, come sempre avviene quando il Capo accelera e il nuovo arriva dall´alto.
Dove stiamo andando, si chiedono i lettori di «Liberazione» (ma anche quelli del «manifesto»). Lettere, sfoghi, invettive, soprattutto dopo l´esperienza dolorosa delle due piazze «no Bush». Piazze, ciascuna con le sue bandiere arcobaleno, piazze che non comunicano, separate dalle scelte di campo, governativi da una parte, non governativi dall´altra. Un errore da non ripetere, riflette il segretario Franco Giordano. Lidia Menapace, intellettuale, senatrice in quota Rifondazione, autrice con Rossanda e altri di un inascoltato appello all´unitarietà, scrive oggi su «Liberazione» che il 9 giugno è stata un´occasione persa: «Movimenti e partiti sono due modalità di espressione politica diverse. E´ mancato un luogo fisico dove potesse avvenire un confronto anche aspro». Il corteo dei movimenti, secondo Menapace, sarebbe dovuto confluire nella piazza del sit-in. Bisognava parlare, parlare, litigare anche, ma non perdere contatto. Si è pentita di stare al governo? No, Menapace, che riceve ancora oggi centinaia di insulti per aver osato criticare le Frecce Tricolori, si guarda intorno e vede «un´Europa di destra», fiuta «un vento autoritario», dalla Polonia alle Repubbliche Baltiche. Meglio stare dentro, meglio cercare di cambiare. C´è un´ultima sfida, adesso, ed è la politica sociale, le pensioni. Rifondazione sa che non può fallire, deve portare a casa qualcosa.
«Ma eskimo e grisaglia sono compatibili»? E´ una domanda di queste ore. Per capire l´aria che tira un buon punto di osservazione è «Liberazione», quotidiano del partito. Piero Sansonetti, il direttore, ne ha fatto, non senza fatica, una cittadella autonoma. Ammette tutto, «il momento difficile, la stagione non proprio rose e fiori». Le tensioni, le contraddizioni, passano tra i tavoli della redazione, attraversano il lavoro dei suoi 30 giornalisti, usciti parecchio depressi dal «caso Cuba». Succede che un´inviata, Angela Nocioni, descrive l´isola come nessuno aveva fatto prima da queste parti. E´ un regime, una dittatura, è arrivato il momento di dirlo. Piovono di colpo 500, 600 lettere di protesta, anche di insulti. Sansonetti difende la scelta, la nomenklatura, però, tranne Bertinotti, non apprezza. «Ci siamo sentiti soli. Abbiamo avuto la sensazione di consumare uno strappo contro il partito - dice un giornalista - ma noi siamo fieri della nostra autonomia, non siamo la Pravda». Pare che sia in preparazione una lettera dei redattori, solidarietà alla collega, orgoglio e difesa del proprio lavoro. Sansonetti fa benissimo il San Sebastiano: «Se vogliamo costruire una cultura nuova, definire un profilo alto di alternativa di società, qualcuno deve funzionare da rompighiaccio, tenere botta. Noi vogliamo andare avanti solo con la bussola della verità. Ma vorrei essere chiaro. Se la base di Rifondazione è in sofferenza non è per lo strappo su Cuba ma perché è dura stare al governo quando il governo non fa nulla di sinistra».
Torni al blog. Nel frattempo, sono le otto di sera, ha scritto Andrea: «Vedi, Rifondazione è un partito particolare, votato generalmente da gente che ha ideali... Rifondazione deve scegliere. La vuoi vedere vivacchiare all´ombra di Prodi? Mi chiedi che cosa farei io. Io uscirei dal governo...». Paolo legge, risponde subito: «No, caro compagno, abbandonare adesso sarebbe un suicidio politico».
Repubblica 13.6.07
Rifondazione agli alleati: "Ora la rotta del governo vada a sinistra"
(...)
ROMA - Dopo la delusione per il voto alle amministrative e il flop della manifestazione di piazza del Popolo, Rifondazione dà l´ultimatum al governo e chiede un cambio di passo. «Rotta a sinistra», ma nessuna ipotesi di disimpegnarsi andando verso l´appoggio esterno del governo. Il segretario Franco Giordano e i capigruppo Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena non vogliono sentirne parlare. Liquidano l´idea come «pura fiction». Il Prc è «saldamente collocato al governo», scandisce Migliore. Un appoggio esterno è «un´ipotesi del tutto infondata e non compare mai nella nostra discussione», precisa il segretario.
Anche se nel partito, Elettra Deiana non esita al contrario a definire «reticente» questo modo di affrontare la questione: «Bisognerebbe dire che Rifondazione è arrivata a un punto di snodo nel senso che la verifica se continuare a stare nel governo va fatta subito». «Opinione personale», smentiscono i capigruppo. Il punto è che al vertice di domani sul Dpef - sottolinea Giordano - chiederemo un salto di qualità netto nella politica del governo con il «superamento dello scalone, l´aumento delle pensioni minime e basse e il risarcimento dei lavoratori con politiche sociali e retributive».
Un «salto» nell´azione del governo è quanto chiedono anche i Ds che ieri hanno riunito l´ufficio di presidenza. «Ora ci vuole uno scatto in avanti su Dpef, riforme e azione di governo». Il segretario, Piero Fassino ne ha parlato in serata con Prodi in un incontro a Palazzo Chigi. Il «clima torbido» dopo le intercettazioni, come primo punto ma poi a seguire, il risultato dei ballottaggi alle amministrative («Chiaro segno di un disagio e di una crisi democratica di estraneità dei cittadini verso le istituzioni che sarebbe un errore non raccogliere»), e lo scatto nella politica del governo. Fassino, uscendo dal colloquio con il premier, ammette che le questioni sul tappeto sono le pensioni, la casa, la famiglia, le infrastrutture e la ricerca e che sul "tesoretto" si attende la quantificazione del ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Ci sono provvedimenti concreti?», gli chiedono i cronisti. «Il governo li sta studiando», risponde. E la sinistra radicale dà molta importanza al vertice di domani a Palazzo Chigi e ieri sera i capigruppo di Pdci, Verdi, Rifondazione e Sinistra democratica si sono riuniti a Palazzo Madama per concordare una posizione unitaria.
(g.c.)
Corriere della Sera 13.6.07
Cossutta: fuori dal Pdci per una forza arcobaleno
MILANO — «Sono fuori dal Pdci, voglio contribuire a riunire tutte le forze della sinistra». In riferimento a un grafico pubblicato dal Corriere, il senatore Armando Cossutta precisa che «già da un anno mi sono dimesso da presidente e da tempo anche dal Pdci. Il mio intento è di contribuire ad unire tutte le forze della sinistra, a partire dal movimento di Mussi e Angius, in un soggetto politico popolare, democratico, plurale con un nome comune (per esempio, "Sinistra"), con un comune simbolo (per esempio, "Arcobaleno") e con liste unitarie a cominciare dalle prossime elezioni amministrative del 2008».
Corriere della Sera 13.6.07
«Tutti al Gay pride». Il Prc cerca la rivincita in piazza
di M.Antonietta Calabrò
ROMA — Rifondazione comunista riparte sabato prossimo dal Gay pride di Roma. A una settimana esatta dal flop di piazza del Popolo, quando la manifestazione anti Bush è andata clamorosamente deserta, e dopo il brusco stop subito con i risultati delle amministrative, il partito di Franco Giordano e del ministro Paolo Ferrero (che parteciperà alla manifestazione insieme al collega "verde" Pecoraro Scanio), fa di nuovo decisamente rotta sui movimenti. A cominciare dalla imminente manifestazione nazionale di gay, lesbiche e transgender, contraltare ideale del Family day. Una svolta che verrà sottolineata in modo solenne: l'Assemblea nazionale costitutiva della Sinistra europea che inizia i suoi lavori proprio sabato mattina, sarà sospesa nel pomeriggio per permettere a tutti i partecipanti di unirsi al Gay pride.
Il Prc, insomma, posto davanti all'alternativa dalemiana («Il ciclo dei partiti di lotta e di governo è finito») sceglie di essere sempre più partito di lotta. La segreteria si è riposizionata sulle piazze lunedì sera «all'unanimità» puntando, per la prima rivincita sul campo, proprio sul corteo che sfocerà sabato pomeriggio nella stessa piazza San Giovanni teatro, un mese fa, dell'affluenza record delle famiglie cattoliche.
A Rifondazione negano che si voglia mettere un cappello politico sul Gay pride o peggio che lo si voglia cannibalizzare. «Noi abbiamo tre pilastri — spiega il segretario Franco Giordano — l'antiliberismo, il pacifismo e la laicità. In questo momento mi sembra che proprio la laicità debba essere fortemente sottolineata». E aggiunge, con una chiara frecciata polemica nei confronti dei Ds e del segretario Piero Fassino, «noi condividiamo tutta la piattaforma del Gay pride». Come è noto, il Botteghino invece se da una parte ha aderito alla manifestazione, dall'altra non ha voluto sottoscrivere alcun manifesto programmatico. «Io rispetto la posizione dei Ds - conclude Giordano - ma penso che oggi bisogna valorizzare le relazioni umane e affettive sia etero che omosessuali. Come di consueto parteciperemo in massa al Gay pride e ci metteremo il massimo impegno». Anche Ramon Mantovani cerca di evidenziare che è «da sempre che noi condividiamo gli obiettivi del Gay pride».
Ma gli organizzatori del Pride sono ben decisi a non finire nell'abbraccio dei partiti. Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay, che all'inizio di quest'anno ha riconsegnato la tessera dei Ds in polemica con Fassino, ieri ha precisato che in ogni caso «sul palco del Pride non salirà nessun leader politico, ad eccezione dei nostri quattro parlamentari "storici": Grillini, Luxuria, De Simone e Silvestri». Sarà lo stesso Mancuso a fare il regista della kermesse che avrà come inno ufficiale il singolo di Daniele Silvestri «Gino e l'Alfetta», per concessione della casa discografica Sony. La madrina del Pride sarà Monica Guerritore. Alla manifestazione hanno aderito anche i ministri Bonino e Mussi. Mentre la loro collega Pollastrini ha dato, come il Comune di Roma, il proprio patrocinio. Aderisce anche il sottosegretario al ministero della famiglia Chiara Acciarini.
Corriere della Sera 13.6.07
Il sacco della verità
Presa islamica di Costantinopoli, storia scritta dai vincitori
di Luciano Canfora
Con quale velocità decadono gli imperi? La domanda è più che mai attuale. Basti pensare che, al di là del vocio di sottofondo rappresentato dalle raffigurazioni ideologiche (l'età dei liberalismi, l'età dei socialismi etc.), la vicenda storica sin qui conosciuta non è che un succedersi, alternarsi, e scontrarsi, di imperi e di aspirazioni imperiali. Il Novecento fu funestato dalla spinta del mondo tedesco a ridisegnare la mappa della suddivisione del mondo tra gli imperi più antichi e consolidati. L'impero russo fu penalizzato alla fine del Novecento ma probabilmente è in ripresa, mentre quello americano, dopo aver raggiunto il vertice del predominio mondiale, nell'anno stesso in cui ha avuto inizio il nuovo secolo, ha incominciato a scricchiolare.
La storia ci insegna che non c'è mai stato un unico impero, anche quando si è data una tale illusione: i romani sapevano che oltre i confini non più dilatabili del loro impero c'erano altri, e questi altri ad un certo punto si mossero. Anche oggi vediamo gli Stati, persino i più solidi, intaccati da un'onda continua e capillare di movimenti di popoli. Non sarebbe sorto il muro voluto dagli Usa al confine col Messico, se il problema non fosse vieppiù preoccupante.
L'impero romano d'Occidente si formò (quand'era guidato ancora dall'oligarchia dirigente della città-stato) con la vittoria su Annibale e poi sulla Macedonia, e durò sette secoli, fino alla metà circa del V secolo d.C. L'impero d'Oriente visse un altro millennio: forse è il più longevo impero che la storia ricordi.
Finì quando la «città di Costantino» fu espugnata dai turchi del grande e illuminato Maometto II, il quale però si proponeva di continuare l'impero che aveva conquistato. E lo storico che narrò le sue gesta, tra cui la presa di Costantinopoli, fu un greco, Michele Critobulo, che scrisse in stile tucidideo l'epopea del nuovo sovrano. Quell'epopea fu narrata anche da storici turchi: Tursun Bey è il più celebre, ed opportunamente la nuova collana mondadoriana «Islamica» ne offre una fresca e ben prefata traduzione. Così il lettore moderno può rendersi direttamente conto dell'elementarità (per non dire banalità divagante) di tale narrazione, ben al di sotto del livello della storiografia di matrice greca anche nei suoi prodotti meno riusciti. Valga per tutti un esempio. Si tratta del resoconto della conquista della fortezza di Costantinopoli: «Presa la fortezza con l'aiuto di Dio e ridotto il nemico inerme all'impotenza, i musulmani si lanciarono a briglia sciolta e, come l'occhio rapace, qual turco razziatore, saccheggia la regione del cuore e dell'anima, con passo intrepido allungarono le mani a razziare e a saccheggiare. Da ogni abitazione, il cui tetto somiglia a Saturno e i cui piani ricordano le sfere dei cieli, da dentro letti intessuti d'oro e da dietro cortine gemmate, spinsero nella strada e nei mercati giovinetti greci e franchi, russi e ungheresi, cinesi e tartari, insomma tirarono per quei capelli, simili ai ciuffi degli idoli, ogni genere di amabili creature: giovinetti rubacuori e schiavi belli come la luna. Di natura gentile, di lineamenti paradisiaci, pronti al servizio fasciati di cintura come luna nei Gemelli; slanciati di statura, dalla guancia di rosa, crederesti che sull'alberello di cipresso una fresca rosa sia sbocciata; dalle sopracciglia arcuate, come due pezzetti di muschio (...). E fanciulle simili a stelle: dalle natiche di rosa selvatica, dalle guance di gelsomino, dai ricci di violetta e dalla statura di cipresso; dal viso di sole, dalla fronte di luna, dalla natura di Venere, dal fare civettuolo di Marte, dai lineamenti di Giove, dalla cintura simile a Orione, dalle sopracciglia come Sagittario, dalla ciocca della Vergine, dalla figura dei Pesci, dall'incedere di pavone, dalla rossa gota, crederesti sia candida rosa tinta dal sangue; dai seni prosperosi, li crederesti due melegrane acerbe su vassoio d'argento; dagli occhi languidi, il suo sguardo è ammaliatore, anzi, assassino; dalle palpebre bistrate, crederesti sia occhio della gazzella di Hotana; dalle gambe formose...». Nel racconto del sacco di Costantinopoli non si fa cenno a distruzioni di libri — che pure ci furono in misura non minore che nel 1204 ad opera dei crociati —, forse perché l'argomento non interessa per nulla al narratore, preso da entusiasmo per l'ampio pascolo sessuale offerto dalla conquista.
L'altro motivo di eccitazione per Tursun è l'oro che fu depredato in quantità ingenti: «Oro e argento furono acquistati al prezzo del rame e dello stagno. In questo modo — commenta —, grazie a quelle cose preziose, molte persone si elevarono dalla più profonda povertà a una straordinaria ricchezza. In breve, gli infedeli, gli uomini che marciano sulla via dell'errore, caddero nella rovina, mentre l'esercito del sultano, meglio ancora l'intero mondo abitato, proprio grazie ai loro preziosi tesori, ai loro fanciulli, ai loro gioielli e ai loro ricchi ornamenti assunse l'aspetto del paradiso».
Il resoconto dei vincitori è sempre unilaterale e talvolta anche irritante. In questo caso è molto utile sul piano storiografico, poiché sulla fine di Costantinopoli pesa, sul piano della «mitologia storiografica», l'effetto della cattiva coscienza del mondo cristiano. Le potenze dell'epoca nulla fecero per salvare Bisanzio, ma lucrarono emotivamente sulla sua caduta per rinfocolare l'odio contro gli «infedeli» e contro gli ortodossi, raffigurati per lo più come infidi e ingrati. Insomma la vicenda del 1453 è davvero, da ogni punto di vista, una pagina capitale nella storia della Realpolitik.
Ma questo non ci indurrà a scivolare nell'illusione ottica di assumere come verità quella dei conquistatori. Audiatur et altera pars («Si ascolti anche l'altra parte») non dovrà significare che la verità ce la fornisce l'altera
pars. Sarebbe un procedimento poco critico. E non è, credo, lo spirito della neonata collana mondadoriana «Islamica» di cui questa Conquista di Costantinopoli (ma il volume contiene molto altro) di Tursun Bey è il secondo titolo.
Un recentissimo libro di Bat Ye'or (Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita,
Lindau editore) descrive, anche se in toni molto aspri, un meccanismo mentale che in alcuni ambienti si sta producendo, il bamboleggiamento estetizzante nei confronti di ciò che viene dall'Islam: una forma di anti-illuminismo estetizzante che non giova alla conoscenza, ma rischia semmai di sostituire un dogmatismo ad un altro. Benemerita è invece l'opera di conoscenza e di allargamento della documentazione se sorretta da spirito critico e non confessionale.
Il subentrare sulle sponde del Bosforo, all'ultimo imperatore bizantino, di un dinasta turco il quale assunse subito il nome di «Cesare» è un evento epocale nella storia degli equilibri di potenza, nonostante il peso ridottissimo dell'ormai larvale impero d'Oriente. È di lì che incomincia la lunga e complicata partita tra «terza Roma» (Mosca), impero ottomano ormai padrone della «seconda Roma» (Bisanzio) e le grandi potenze europee occidentali. Una orwelliana partita a tre, che ancora oggi prosegue con la disputa assai poco teorica sull'allargamento in direzione di Ankara, anziché di Mosca, della «Comunità Europea».
l’Unità 13.6.07
Sinistra senza piazza
Il voto e il vuoto
di Michele Ciliberto
Non c’è da rallegrarsi sul fatto che le manifestazioni organizzate dalle sinistre radicali a Roma siano state un sostanziale insuccesso nonostante i vari tentativi che vengono fatti per offuscarne l’effettivo fallimento.
Una sinistra radicale forte e bene organizzata sarebbe un bene anche per il consolidamento dello schieramento di centrosinistra; e più in generale, per uno sviluppo equilibrato di tutto il nostro Paese.
Tanto più c’è da preoccuparsi perché il sostanziale fallimento delle manifestazioni di Piazza Navona e di Piazza del Popolo viene dopo una significativa flessione elettorale causata, per quanto riguarda le forze del centro-sinistra, da un forte astensionismo. Se si riflette sull’insieme degli eventi di queste ultime settimane è precisamente questo il punto che appare più in rilievo e che preoccupa maggiormente anche per la tenuta democratica del nostro Paese: c’è una tendenza sempre più forte a ritirarsi dalla partecipazione politica anche quando si tratti di importanti scadenze elettorali. Non si arriva a cambiare campo ma ci si mette fuori dal gioco manifestando il proprio disinteresse per come viene giocata la partita. È un gesto politico anche questo che bisogna saper cogliere in tutta la sua profondità senza cullarsi in illusioni che sono alla fine di breve respiro.
È vero: il governo Prodi esce rafforzato dalla visita del presidente Bush anche per la mirabile prova di capacità e di correttezza data dalle forze dell’ordine della quale bisogna tener conto. Ma se si esce dalla logica politica strettamente intesa appare evidente, a mio giudizio, che il governo Prodi continua a essere legato a un filo e che in qualunque momento un refolo di vento può trascinarlo via. Come è stato rilevato molte volte - e anche in questi giorni - paradossalmente la sua forza consiste proprio nella sua debolezza, nell’essere dunque un ossimoro politico. Un governo che voglia però avere ambizioni strategiche - come dovrebbe essere quello di Prodi - non può reggersi su condizioni politiche di questo genere. E qui il problema diventa complicato e merita di essere analizzato in tutta la sua complessità.
Un politico assai autorevole ha sottolineato in questi giorni che il problema essenziale per il nostro Paese è di assecondarne la crescita e «di tarare l’azione del centro-sinistra su un’idea di una e vera e propria “ripartenza”. Questo serve - ha detto Massimo D’Alema - mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini...». Non sono d’accordo; anzi, credo che porre le questioni in questo modo non ci aiuti ad uscire dalle difficoltà in cui ci troviamo. I conflitti, quando sono ordinati e disciplinati, sono sempre positivi per lo sviluppo di una democrazie e, in generale, di un Paese. Non è dunque auspicando la riduzione o la fine dei conflitti che si fa la scelta politicamente giusta.
Il problema di fondo che si esprime nel fallimento delle iniziative contro Bush e nell’astensionismo che ha segnato anche il secondo turno elettorale - due eventi, lo ribadisco, che a mio giudizio vanno considerati insieme - concerne anzitutto la fondamentale crisi di rappresentanza politica che il nostro Paese continua a vivere e che si accentua giorno dopo giorno con una separazione sempre più grave ed evidente di governanti e governati. In Italia è questo il problema che è aperto ormai da qualche decennio, ed esso riguarda direttamente la questione delle fonti e delle forme della sovranità nel nostro Paese; riguarda dunque il problema della nostra democrazia. Ed è nel quadro di questo problema che a mio giudizio va collocata la questione della sinistra in Italia, della sua funzione nazionale, e dello stesso Partito democratico.
Questo partito ha un senso nazionale profondo se ristabilisce su basi nuove il nesso tra “politica” e “società” (per usare due termini classici) costituendo un circuito virtuoso tra governanti e governati; ha un senso cioè se riesce a porre e risolvere in modi nuovi il problema della rappresentanza nel nostro Paese scendendo coraggiosamente anche sul terreno del federalismo. È questa la vera sfida che abbiamo di fronte; ed è proprio su questo terreno che si sono prodotti i danni più gravi. Molte di queste speranze si sono infrante infatti contro le dure repliche di una realtà sorda immobile e incapace di rimettersi in discussione. Le piazze che si erano riempite di gente desiderosa di partecipare si stanno svuotando e cominciano ad essere abbandonate. Se si pensa all’esperienza delle primarie e al valore che avevano assunto le piazze come incontro di partecipazione e di vita democratica sembra che siano passati alcuni secoli invece di pochi mesi. La velocità del cambiamento non può e non deve però sorprendere: sappiamo tutti che i tempi della politica contemporanea sono velocissimi e che non è facile saperli controllare.
Bisogna sempre stare attenti a non stabilire rapporti meccanici tra avvenimenti diversi: una cosa naturalmente è la partecipazione alle primarie per l’elezione dei sindaci; un’altra la partecipazione a una manifestazione contro Bush. Sono ovviamente eventi diversissimi da non confondere. Ciò non toglie che la campana dell’astensionismo abbia suonato in questi giorni anche per il Partito democratico. Come sempre la storia sa essere paradossale: nato per incrementare le speranze di un cambiamento, il Partito democratico, proprio per la fiducia che aveva acceso, rischia di diventare un elemento di distacco e di vero e proprio disincanto che precipita nella crisi della partecipazione politica. Ma anche qui bisogna saper sollevare l’occhio dalla parte e guardare all’intero, cioè al destino di tutta la sinistra italiana.
Sarebbe infatti certamente sbagliato concentrare la propria attenzione solo sulle difficoltà del Partito democratico e non tener conto che il quadro della sinistra va considerato unitariamente, senza dimenticare, naturalmente le differenze profonde che pur ci sono e che vanno dichiarate a viso aperto. Non è però interesse del Partito democratico la frantumazione della sinistra radicale; né è interesse della sinistra radicale il fallimento del Partito democratico.
Bisogna imparare a ragionare in termini sistemici. Se il Partito democratico riesce a crescere in modi positivi esso avrà effetti benefici sull’insieme della sinistra italiana e del nostro Paese, mentre una sua crisi precoce contribuirebbe a un’ulteriore frantumazione del quadro politico italiano nella sua complessità. Allo stesso modo se la sinistra radicale riesce a “ordinarsi” può svolgere una funzione positiva per l’insieme del movimento riformatore italiano. Entrambi, Partito democratico e sinistra radicale, possono e devono dare un contributo alla soluzione al problema centrale della società italiana, quello di una nuova rappresentanza politica - e di nuove forme e modelli di sovranità - che il Paese sta chiedendo con forza e che ancora non riesce ad avere con le conseguenze che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. È su questo terreno che si gioca la partita decisiva, come dimostrano anche i risultati elettorali e specialmente i colpi che il centro-sinistra ha subito nell’Italia settentrionale. Non è molto, però, il tempo che resta a nostra disposizione.
l’Unità 13.6.07
Sinistra in Europa. Non soffre solo Parigi
di Gianni Marsilli
Sinistra, se Parigi piange certo l’Europa non ride
Il Ps ha bruciato già tutti i consensi costruiti per le presidenziali
La Spd governa all’ombra di Merkel. Per Zapatero prime difficoltà
Recuperare sarà dura, durissima. Non s’inventano in tre giorni un obiettivo, una strategia, alleanze, leadership politica. Se poi la diarchia da tinello che governa il partito socialista si mette pure a litigare in pubblico, come accade tra Ségolène Royal e François Hollande, allora ha ragione il giovane e molto severo deputato Manuel Valls, che fu il portavoce di Lionel Jospin a palazzo Matignon: «Sono stufo di vedere la vita politica, e in particolare quella del mio partito, ruotare attorno alla vita di una coppia». Perché non filtra altro, dal fronte targato Ps, e battute e sarcasmi arrivano come se piovesse. Ancor più grave, una prima analisi sociale del voto ha rivelato che si è squagliata come neve al sole la nuova base di consenso, fragile ma ricca di potenziale programmatico ed elettorale.
A mancare all’appello, domenica scorsa, sono stati i giovani e le banlieue. In posti come Argenteuil e Clichy-sous-Bois il consenso socialista si è dimezzato nell’arco di cinque settimane, dal 6 maggio all’11 giugno. Come del resto l’afflusso alle urne, passato dall’84 al 46 per cento, una vera emorragia. In molti avevano creduto in Ségolène, in pochi credono nel suo partito.
La crisi del Ps avrà due sbocchi possibili. Se domenica prossima l’ondata sarkozysta diventerà un vero tsunami, allora sarà molto difficile per François Hollande rimanere alla testa del partito fino al congresso dell’autunno 2008. Dovrà rapidamente dimettersi. Sarà quindi ancor più difficile per Ségolène costruire la sua leadership, operazione che ha bisogno di un po’ di tempo: l’elettorato che è mancato all’appuntamento dell’11 giugno è soprattutto il suo. Hanno resistito meglio, invece, i tradizionali bastioni socialisti, quelli tenuti dagli «elefanti» come Laurent Fabius, Henri Emanuelli, Jack Lang. I quali non mancheranno certo di trarne le conseguenze e di farle pesare. In particolare difficoltà, infatti, sono proprio i membri della guardia più stretta di Ségolène, lo staff che l’aveva accompagnata alle presidenziali. Quasi nessuno è sicuro di essere eletto o rieletto: né il portavoce Arnaud de Montebourg, né il direttore di campagna Jean Louis Bianco, né il portavoce del partito Julien Dray.
La sinistra francese si dibatte quindi nella sua condizione storica naturale, che è minoritaria. È dall’88 che non vince un’elezione politica, con l’eccezione del ’97, quando Jacques Chirac sciolse tanto provvidenzialmente quanto maldestramente un parlamento che gli era fedele per l’80 per cento. I socialisti sono egemoni a sinistra, è vero. Ma non perché abbiano saputo assorbire il resto della sinistra, la quale si è invece estinta da sola sul fronte cieco del rifiuto categorico di qualsiasi nozione di mercato, concorrenza, imprenditorialità. I socialisti sono quindi più soli che egemoni.
A poco serve ai socialisti francesi guardare oltre le frontiere. La sinistra corre il rischio di essere minoritaria quasi dappertutto in Europa. Il 27 giugno prossimo s’insedierà a Downing Street Gordon Brown, ma non sull’onda di una vittoria elettorale. Quella dovrà costruirsela con le unghie e con i denti, per essere riconfermato nel 2009 o nel 2010. I sondaggi britannici continuano infatti a dare i conservatori di David Cameron in testa di parecchie lunghezze. Sarà molto difficile per Brown ricreare lo slancio che fu di Tony Blair dieci anni fa, anche se potrà verosimilmente contare su un partito unito, avendo appena ottenuto l’investitura da parte di 313 sui 352 deputati laburisti. Consapevole dell’usura del New Labour, Brown moltiplica i segnali di discontinuità. Promette un governo «più collegiale», assicura che sarà «meno ossessionato dalla manipolazione mediatica».
Neanche oltre Reno il quadro appare entusiasmante. La Spd governa, ma ad incassare gli utili è Angela Merkel. Kurt Beck, presidente della Spd, è consapevole di un certo sfilacciamento delle sue truppe. Ha deciso di dare al partito una direzione più dinamica e volitiva. I vicepresidenti non saranno più cinque ma tre. Il più anziano è Peter Steinbruck, 60 anni, attuale ministro delle finanze. Accanto a lui Andreas Nahles, 36 anni, che era stata alla testa dei giovani socialdemocratici, e Franck Walter Steinmeier, 51 anni, ministro degli Esteri ed ex braccio destro di Gerhard Schröder. La triade dovrà ricevere l’avallo del congresso che si terrà nel prossimo ottobre ad Amburgo. A dar il mal di testa alla Spd non è soltanto la popolarità di Angela Merkel. Sono i sondaggi, che parlano di una Cdu-Csu al 36-37 per cento e di una Spd al 28-30. E c’è anche il Partito della sinistra nato dalla fusione tra la Wasg (i fuoriusciti dalla Spd come Oskar Lafontaine) e gli ex comunisti dell’est. Nel maggio scorso hanno fatto per la prima volta il loro ingresso in un parlamento regionale occidentale: è accaduto a Brema, dove hanno raccolto l’8,4 per cento dei voti. È inoltre con una certa inquietudine che Zapatero, dall’altra parte dei Pirenei, guarda alle legislative del prossimo marzo. Esaurita la felice ondata riformatrice in senso laico dello Stato, il capo del governo spagnolo si ritrova tra i piedi intero il problema dell’Eta, che i popolari hanno largamente utilizzato per riportare una corta ma indiscutibile vittoria alle municipali e regionali dei giorni scorsi.
Resta alto nel Ps francese, invece, l’interesse per quanto accade in Italia: lo snodo autunnale del Partito democratico, i rapporti tra il centro e la sinistra. Lo vedono come un utile laboratorio, ma i tempi non combaciano: qui si vota domenica prossima, e sarà, se tutto va bene, per cinque anni
Repubblica 10.6.07
Cacciari: Giordano, Diliberto e compagni sono conservatori che con l'innovazione non hanno nulla a che spartire
"Rifondazione zavorra per l'Ulivo questo flop di Roma è un segnale"
di Umberto Rosso
Sinistra radicale. Ma quale sinistra radicale. Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Frena le liberalizzazioni
Le vie d’uscita. Ci vuole un Partito democratico federale. Al Nord come al Sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica?
ROMA - «Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l´innovazione non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più nessuno».
Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche grazie a loro.
«Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra».
Non sarà invece che l´anti-americanismo non paga più?
«L´anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non è certo perché la gente ama il presidente degli Usa».
Perché, allora?
«Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi, decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell´Ungheria, di Praga, dell´Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la manifestazione di una minoranza dei conservatori».
Minoranza, perfino?
«Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché stanno dall´altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l´hanno portato: un bisogno della politica, del desiderio, dell´utopia, chiamatela come vi pare».
La sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti?
«Ma radicale de che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l´hanno mai avuto. Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano né a destra né a sinistra».
Però i voti li hanno pescati, il cantiere di sinistra conta 150 parlamentari.
«Gli rimane qualcosa aggirandosi fra i cascami dell´ideologia. Ma soprattutto resistono ancora grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo».
Non sarà che a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga pegno?
«Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c´entra nulla. Anche perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri padri costituenti? Puntare nell´Italia del ‘46, devastata dalla guerra, alla piena occupazione, era un programma di lotta e di governo».
Teme, dopo il flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
«Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no c´è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti all´attacco. E´ l´unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l´arbitro fischi la fine della partita».
Come si mette la palla in rete?
«Una Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica se devo stare con Rifondazione?».
Repubblica 10.6.07
Rischioso elogio del nostro premier (solo un estratto)
di Eugenio Scalfari
(...)
Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede. (...)
il manifesto 13.6.07
Unitari e radicali per non ingoiare rospi
Pietro Folena *
Il problema, per le forze della sinistra dell'Unione, era partecipare o no al corteo anti-Bush e anti-Prodi? Questa la domanda che sembra attanagliare la nostra discussione di questi giorni. Secondo me è una domanda sbagliata. Se è evidente l'errore compiuto da alcuni movimenti pacifisti e dalle forze politiche della sinistra nell'indire la manifestazione di piazza del Popolo, non credo che partecipare a un corteo indetto su una piattaforma inaccettabile e che non a caso ha visto una partecipazione significativamente più ridotta rispetto a quelle del recente passato, avrebbe evitato di esporre la sinistra a una dinamica negativa. C'era forse un altro modo - lo ha trovato perfino Andrea Riccardi - per manifestare il proprio radicale dissenso con la guerra di Bush.
Guardiamo le cose come stanno. Si può dire che il governo è stato carente un po' su tutti i fronti. Ma quello della politica estera è sicuramente un ambito in cui alcuni importanti cambiamenti ci sono stati: il ritiro dall'Iraq, l'impegno in Libano, il no a ulteriori truppe in Afghanistan e il non impegno di quelle lì presenti in azioni di combattimento, accompagnato dalla proposta di una conferenza di pace, la nostra linea sull'Iran, l'appoggio ai paesi arabi, il dialogo persino con le frange più estreme di quel mondo, lo smarcamento dalle politiche americane e il ritorno nel contesto europeo sono tutti elementi di forte novità. Certo: c'è stato un pesante strappo, gravido di conseguenze, operato personalmente da Prodi, sulla questione del Dal Molin, e il contenzioso nella maggioranza è evidentemente aperto. Però non valorizzare, per questa ragione, i successi ottenuti mi pare autolesionistico. Semmai ora il problema è lo scudo spaziale, e il contrasto a altre scelte di riarmo dell'amministrazione Bush.
Il punto fondamentale, per la sinistra, è quello di evitare due riflessi possibili di questa situazione. Il primo è quello «ipergovernativo» (essere unitari, ma non radicali) per cui occorre digerire qualsiasi rospo in nome della stabilità. D'Alema, in singolare sintonia con Bernocchi, si deve dare pace: si deve essere di lotta e di governo, e certo la sinistra non può seguire i pessimi esempi venuti dalla maggioranza dei Ds che, a forza di ingoiare rospi, ha finito col desiderarli. L'altro riflesso è invece il rifiuto del tema del governo (essere radicali, non unitari), coltivando l'illusione su quanto stavamo bene all'opposizione, la nostalgia di posizioni passate, o comunque la voglia di non combattere più e di rifugiarsi in uno splendido, un po' settario, molto inconcludente isolamento.
C'è una terza strada. Quella di essere unitari e radicali. Di provare a spostare l'asse del governo a sinistra (anche se a qualcuno non piace). Una strada che - per come è fatta la società politica - passa solo attraverso un accordo tra i gruppi dirigenti della sinistra per costruire un soggetto comune. Ma affonda le sue radici nel paese reale. Cosa ci chiede l'elettorato? E' semplice: vuole che otteniamo dei risultati. Vuole che il suo voto sia «utile». Vuole sapere di non avere sbagliato a votare.
I temi sul tappeto sono noti: il tesoretto, la legge 30, le pensioni, i salari, i contratti. Aggiungo la scuola, di cui poco si parla, ma che è in una sofferenza indicibile, le politiche abitative e i diritti civili. Su questi temi noi dobbiamo (e sottolineo: dobbiamo) portare a casa risultati concreti, in linea con il programma dell'Unione. Questi temi insieme costituiscono il banco di prova dell'efficacia della nostra azione come sinistra e la salvezza per lo stesso governo Prodi. Se non ci sarà svolta sulle questioni sociali il problema non si porrà per il Prc, ma sarà il governo a aver intrapreso una strada senza uscita, esaurendo in pochi mesi ogni rapporto di simpatia con l'opinione pubblica. I riformisti-moderati non sono in grado di rispondere alla sfida. Dovremmo farlo noi. Ma ora siamo in sofferenza.
Dobbiamo invece fare tesoro di quanto accaduto a Taranto, dove la sinistra si è presentata unita e ha sbaragliato tutti. Il problema è quello dell'unità delle forze della sinistra, che oggi, alla vigilia di queste sfide, è una vera e propria urgenza. Solo con l'unità possiamo determinare la svolta che auspichiamo. Se questa non è ancora avvenuta non è solo perché ci sono soverchianti forze avversarie. C'è anche una nostra responsabilità, una responsabilità della politica che non riesce ancora a seguire i tempi della società, degli apparati o dei «ceti politici» che resistono all'unità per ragioni di visibilità. I nostri elettori sono invece già uniti. E ci aspettano al traguardo.
Sabato e domenica c'è un appuntamento di grande rilievo, l'assemblea della Sinistra europea. Da lì devono arrivare parole molto chiare sui temi di merito e sul percorso unitario. Si sono fatti passi in avanti (penso all'assemblea dei parlamentari, occultata non a caso da buona parte dei media). Ma insisto: da subito occorre delineare un percorso ambizioso. Dal basso e dall'alto. Entro settembre convochiamo una assemblea pubblica, di massa, una costituente della sinistra. Facciamola precedere da assemblee in tutto il paese. Convochiamo le primarie sul programma. Chiediamo ai nostri elettori cosa vogliono da noi. Cosa fare su pensioni, casa, Dico, scuola, tasse, extragettito. Sulla politica estera e sullo scudo stellare. Diciamo loro che alle prossime elezioni troveranno un nuovo simbolo che ci rappresenta tutti (il simbolo di una coalizione politica, sociale, civile della sinistra), alleato, fin quando possibile, con i moderati del Partito democratico.
Per uscire dalle difficoltà bisogna lanciare il cuore oltre l'ostacolo. E' proprio ora, in un mare aperto e non molto tranquillo, che si misura la capacità della sinistra e dei suoi dirigenti di avere una funzione generale.
* Portavoce di Uniti a sinistra
Liberazione 13.6.07
Banche, politica e intercettazioni
La gogna per D'Alema e la partita Pd
di Rina Gagliardi
Non occorre far parte dei così chiamati addetti ai lavori , basta essere semplicemente una persona di buon senso per capire "che cosa c'è dietro" la massiccia diffusione mediatica delle intercettazioni sulle scalate Unipol-Bnl. Il bersaglio evidente è Massimo D'Alema, la figura politica di massimo spicco (è il caso di dirlo) di cui i Ds a tutt'oggi dispongano. E l'obiettivo, altrettanto evidente, è quello della delegittimazione morale , non certo del coinvolgimento giudiziario, di un intero gruppo dirigente. Ormai, lo scontro politico si svolge senza regole e senza limiti - all'insegna della più totale spregiudicatezza e di una crescente, inquietante volgarità. Così è accaduto, pochi giorni fa, a proposito del "caso Visco" (e Visco non è solo il viceministro delle Finanze che tenta di introdurre in questo Paese la dimensione ignota della lotta all'evasione fiscale, ma è notoriamente un dalemiano di ferro). Così accade oggi, con i paginoni dei maggiori quotidiani che traboccano di conversazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta giudiziaria aperta sulla famosa estate calda del 2005. Così, temiamo, può accadere ancora nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Tanto veleno sparso a profusione evoca un clima da "ultimi giorni della Repubblica", e tende a colpire quel pochissimo che resta della credibilità della politica e delle istituzioni rappresentative.
Ma perché un attacco così insistito e articolato a Massimo D'Alema? Lasciamo stare le "dietrologie" , esercizio nel quale per altro non siamo versati, lasciamo stare i complotti, e guardiamo alla politica. Agli effetti possibili di questa vicenda. Alla lotta furibonda che si sta svolgendo ("dietro le quinte") nel nascente Partito Democratico, per la sua leadership, ma anche per la sua identità politico-culturale. Sarà, il nuovo soggetto della politica italiana, una forza in qualche modo di "compromesso" tra sinistra e centristi, tra socialdemocratici e liberali, tra postcomunisti e (post) democristiani? O non sarà piuttosto un partito puramente liberale, al massimo liberaldemocratica, con qualche spruzzatina di radicalismo? Qui, evidentemente, c'entrano, e non poco, i destini politici dei D'Alema, dei Fassino, dei Rutelli e dei Veltroni. Intendiamoci: l'attuale Ministro degli esteri non è certo un radical: per meglio dire, è sempre stato molto distante dalle posizioni e dalla cultura politica della sinistra, non solo radical. E' un postcomunista (e un post-togliattiano) che, sia pure con frequenti oscillazioni, si riferisce, grosso modo, ad un orizzonte socialdemocratico di tipo europeo. Insomma, a differenza di altri leader ds e margheritini, D'Alema rappresenta nel futuro Partito Democratico una "gamba di sinistra": sinistra alquanto moderata, realpolitiker, qualche volta ipertatticista e perfino cinica, ma pur sempre sinistra, che mantiene un filo di continuità e di rapporto con la storia novecentesca della sinistra. E infatti, come ministro degli esteri del governo Prodi, D'Alema ha cercato, a larghi tratti, di portare avanti una politica un po' più europea, marcando una relativa autonomia dell'Italia dallo strapotere americano e, soprattutto, una notevole discontinuità rispetto al quinquennio berlusconiano. E dunque? Dunque, ove per caso la campagna di discredito sul vicepremier avesse successo e la sua figura pubblica ne uscisse seriamente ridimensionata, la prima e più significativa conseguenza sarebbe sul e nel Pd - dove l'egemonia di Walter Veltroni e di Francesco Rutelli ne uscirebbe, a questo punto, incontrastata. Il Partito Democratico nascerebbe davvero così come lo sogna Antonio Polito nel suo appassionato pamphlet "Oltre il socialismo": liberale, liberista, blairista, ispirato nella politica economica e sociale dai professori del Corriere e dai consiglieri dell'amministrazione di Washington in politica estera. Un destino politico che, in teoria, spalanca spazi immensi alla sinistra che può rinascere. Ma che nella pratica rischia anche e soprattutto di sospingere verso destra l'intera politica democratica italiana.
Dicevamo degli effetti indotti dall'attuale, francamente disgustosa pratica, del gossip sistematico che passa per giornalismo. Una sola osservazione sui suoi contenuti concreti, che rivelano non una deviazione morale, ma una linea politica radicalmente sbagliata: quella che ha portato i Ds, in questi anni, a coltivare il "sogno" di un (loro) rapporto privilegiato con il capitalismo e con i nuovi poteri finanziari. A coltivarlo in termini non solo politicamente subalterni, ma strategicamente perdenti - cioè senza un'ipotesi forte di sviluppo del paese, senza un'analisi e una prospettiva sociale chiare, senza un'idea fondata del ruolo che spetta alla politica. A Massimo D'Alema esprimiamo oggi tutta la nostra solidarietà. Ma ci permettiamo di consegnargli anche una considerazione del tutto fraterna: giocare con le banche, con le scalate, con questo o quel parvenu miracoloso (o miracolato) non è il mestiere che gli compete. Non è il mestiere della politica, non è lo strumento che serve alla sinistra. E, viste le sue più recenti esternazioni che invitano alla sepoltura dei partiti di lotta e di governo, gli assicuriamo che noi, le piazze, continueremo a frequentarle. Fanno meglio delle banche.
Liberazione 13.6.07
Uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della
Guerra europea, quella in cui l'Italia si è gettata nel maggio del '15
Un altro comunismo è possibile?
Il giovane Gramsci a Torino
di Angelo d'Orsi
Una delle tante questioni che concernono lo studio di Gramsci attiene al lungo predominio di una impostazione che ha quasi completamente negletto il periodo torinese, salvo che il biennio consiliarista (1919-‘20), seguito dalla fondazione del Partito Comunista d'Italia, nel gennaio del 1921. Un momento politico che era stato preceduto, di sole tre settimane, dalla fondazione de L'Ordine Nuovo quotidiano, il quale, sotto la medesima testata del "settimanale di cultura socialista" (nato il 1° maggio 1919), in realtà era la continuazione dell'edizione piemontese dell'Avanti!. Tali iniziative, delle quali il Sardo fu animatore e artefice massimo, generalmente sono state definite "giornalistiche", in modo un po' semplificatorio e certamente riduttivo, e sono di conseguenza state interpretate come una mera "preparazione" al "vero" Gramsci, quello dei Quaderni. Non è casuale che quel Gramsci sia quasi l'unico con cui gli studiosi si sono confrontati, e si confrontano tuttora, in un fiorire di studi che ha del prodigioso. Invece occorre insistere su un dato: quelle del periodo torinese (1911-‘22), sono avventure politico-intellettuali di enorme rilievo, la cui lettura non può essere concepita nei termini puramente finalizzati alla comprensione del Gramsci "maturo", il Gramsci che conta, l'autore degno di essere letto e studiato. In realtà il Gramsci torinese, anche quello che precede la fondazione de L'Ordine Nuovo, è pienamente "maturo", e merita di essere analizzato con molta cura, certo per meglio penetrare nell'universo dei Quaderni, ma anche per tutto quanto i suoi scritti e la sua azione politica concreta offrono.
Il Gramsci "giornalista" ci appare dunque uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della Guerra europea, quella in cui l'Italia di Salandra e Sonnino, con la complicità decisiva di re Vittorio Emanuele III, si è gettata irresponsabilmente nel maggio del '15. La Grande guerra, anche per la sua inusitata dimensione globale e per la sua durata, vede all'opera una profluvie di "stenterelli" (per dirla con Gramsci), che inventano, mistificano, mentono e cantano in ogni cortile le loro scempiaggini, che nondimeno fanno presa sulle persone. Dunque il "giovane Gramsci" si dedica ad una sistematica opera di smascheramento della menzogna, con una costanza e un acume che rendono unica la sua figura nel panorama dell'intellettualità italiana: e non così frequente sulla scena europea.
In quest'attività intensissima, a partire dalla fine del '15, dopo quell'anno di autoesclusione a seguito di un articolo dell'ottobre '14, in cui aveva assunto una posizione apparentemente prossima a quella di Mussolini, in rotta con il Partito Socialista, Gramsci porta il significativo bagaglio acquisito nell'inconcluso, ma tutt'altro che inconcludente, "garzonato universitario", nell'Ateneo di Torino, all'insegna di una coniugazione tra milizia e scienza, in un clima di ricchezza scientifica e di fervore culturale che non temeva confronti sulla scena nazionale. Soprattutto contano, nella formazione gramsciana, gli incontri con eccezionali maestri e compagni, da Cosmo a Pastore, da Farinelli a Bartoli, ma anche da Tasca a Terracini, a Togliatti; con questi ultimi egli darà vita, a guerra archiviata, all'eccezionale avventura de L'Ordine Nuovo. Dall'esperienza universitaria, lo studente che non diventerà "dottore", trae non solo il meglio della "Scuola di Torino", fortemente impregnata di "cultura positiva", fatta di rigore, di attenzione al metodo, di filologia, di storicità. Più in generale, si può cogliere negli anni torinesi un incontro tra gli elementi propri del temperamento del giovane, e il genius loci piemontese: un incontro tra due tipi di serietà, di attenzione all'organizzazione e all'educazione, che, a partire da un certo momento, Gramsci vede in essere specialmente nella fabbrica. Il mondo della produzione, la cultura del "lavoro ben fatto", la "civiltà dei produttori", affascina questo "campagnolo" proveniente dall'isola immersa in un mondo che sembra escluso dal take off industriale, un giovane che reca in sé le stimmate di varie civiltà contadine, dall'Albania alla Calabria alla Campania, luoghi di origine delle famiglie paterna e materna.
In questo percorso formativo, tra università e socialismo, tra militanza di partito e "scuola" operaia, Gramsci, in quella sua assoluta, costante e suprema aspirazione alla verità, esalta altresì lo spirito critico, la vocazione antidogmatica, la vocazione a pensare con la propria testa. Ne è prova la lettura originale che egli dà della Rivoluzione bolscevica ("una rivoluzione contro il Capitale"), o della stessa figura di Marx, che non è, per lui, un "pastore" da seguire a guisa di gregge, non un'icona santa davanti alla quale genuflettersi, ma un pensatore e un rivoluzionario con cui fare i conti, e da cui trarre tutta la linfa vitale per nuove rivoluzioni. E Gramsci mette a fuoco una sua teoria rivoluzionaria, che si distanzia progressivamente dal modello leniniano: qui la base prima di una teoria e una pratica di comunismo critico, di cui L'Ordine Nuovo, all'interno di uno sforzo collettivo a livello internazionale di "revisione" critica, ma "antirevisionista" del marxismo, è un punto d'arrivo e di ripartenza.
Il presupposto della rivista è che non ci possa essere rivoluzione senza un'adeguata preparazione culturale, che significa sia lo sforzo di creazione di una cultura (politica, ma non soltanto) proletaria, ma altresì la necessità di acquisire tutto quanto di buono le classi avverse hanno prodotto - ed è tanto! Per Gramsci, come per il Marx del Manifesto, la borghesia ha svolto una funzione rivoluzionaria nella storia…
Sono queste le coordinate essenziali che determinano dunque il quadro entro il quale Gramsci definisce una propria via, "torinese", al socialismo e poi al comunismo. Un comunismo critico, liberamente marxiano, intriso del miglior liberalismo, per certi versi libertario, venato di utopismo, anche se contro l'utopia intesa come regressione sociale e fuga dal politico. Significativamente si intitola La città futura il numero unico pubblicato nel febbraio '17, e scritto interamente da Gramsci: la città futura è la civitas di liberi ed eguali da costruire fin da subito, che prelude alla teoria della "democrazia operaia" avviata un paio d'anni dopo con L'Ordine Nuovo. In questo comunismo ideale, deve esservi spazio per la cultura - vera "gioia" dello spirito - , giacchè il comunismo non intende bandire la bellezza, e per il quale l'arte deve essere libera e creativa.
In tal senso va spiegata l'interpretazione della Rivoluzione d'Ottobre, del bolscevismo e di Lenin. In tal senso, dev'essere considerato L'Ordine Nuovo, punto d'arrivo di un'elaborazione messa a fuoco negli anni della guerra, e punto di partenza dell'esperienza del consiliarismo, che mira a realizzare quella nuova democrazia, partendo dalla fabbrica e dagli operai, individui concreti, "uomini in carne ed ossa", ai quali Gramsci presta un'attenzione quasi esasperata, e dei quali cerca di interpretare i bisogni: questa fu la forza dell "ordinovismo", mentre la sua debolezza consistè in un torinocentrismo, che impedì di cogliere le differenze tra la "Pietrogrado d'Italia" e il resto del Paese.
Nel periodo torinese, in definitiva, Antonio Gramsci lavorò sul piano teorico e su quello pratico-organizzativo, per delineare un comunismo ideale, la cui essenza può essere vista nel porre la verità al di sopra della ragion di Stato o di Partito. Ben altra sarebbe stata la strada del "comunismo reale", ma esso nulla a che fare ha con il pensiero e l'opera di Gramsci, anche se, va detto, che tra la nascita del PCd'I e l'arresto (1926), ci fu una sua "bolscevizzazione", che tuttavia non solo non stravolse quella posizione, ma che, nella riflessione carceraria, fu in parte ridiscussa, all'insegna della profonda meditazione sulla sconfitta epocale del movimento operaio, e della teorizzazione delle nuove vie per una nuova possibile rivoluzione in Occidente, che non avrebbe potuto essere "l'assalto al Palazzo d'Inverno".
Chissà se proprio dall'elaborazione ideale di Gramsci, non si possa dire, con le cautele necessarie, che non soltanto un altro mondo, ma "un altro comunismo è possibile".
Liberazione 13.6.07
Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione
La valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata
ma non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico
di Gianluca Peciola*
Grande e appassionata è stata la manifestazione contro Bush e le politiche di guerra del Governo Prodi. Come Riva Sinistra abbiamo scelto starci, insieme al network comunità in movimento, nonostante i rischi. Ecco il nodo, quali i rischi? Il rischio di essere schiacciati dal taglio pregiudizialmente e ideologicamente antigovernativo. Il rischio di essere coinvolti nella prima presunta o reale rappresentazione pubblica di un nuovo soggetto politico extraistituzionale dagli inconsapevoli o meno richiami "Bordighisti". Il rischio di apparire contrapposti ad un popolo che è parte del movimento e contrapposti a forze politiche che indubbiamente, pure nella loro scelta di Governo, sono dentro i movimenti. Il rischio di fallire, di trovarci impantanati in un corteo in cui il segno prevalente fosse quello dello scontro con Rifondazione (a vantaggio dell'operazione soggettivista di cui sopra) e dello scontro di piazza (cosa che immagino spaventasse anche gli altri partiti). Abbiamo affrontato questi rischi, innanzitutto d'istinto, avvertendo subito la parzialità della convocazione intorno ad un concerto. No, non si può, semplicemente non si può staccare le forme del dissenso in maniera così fredda dai suoi obiettivi. Bush merita una risposta forte, decisa, coinvolgente. Abbiamo deciso di assumere le parole d'ordine della convocazione, segnalando da subito l'indisponibilità a fare di quel corteo un momento di celebrazione di nuova soggettività minoritaria e al tempo stesso di farne il bersaglio per gli amanti dei "racconti della tensione". Radicale, pubblica, pacifica e non contrapposta a una piazza in cui non ci sono nemici. Abbiamo deciso di promuovere il corteo, fondamentalmente perché in quel percorso passava un messaggio politicamente corretto, è cioè un messaggio in cui si può riconoscere gran parte del popolo della Sinistra, non solo di quella radicale. Bush, le sue responsabilità sull'estensione della Guerra, il Governo Prodi e la sua declamata amicizia con gli Stati uniti e con Bush stesso, il nuovo pantano Afghanistan, con i soldati italiani a sostenere un Governo corrotto e una guerra che non vede fine. E poi, contenuto non secondario che ha aggregato quelle migliaia di persone, la delusione intorno agli obiettivi mancati dal Governo Prodi. Tutto quello che avrebbe dovuto mettere in agenda come prioritario e che è lontano dal realizzarsi. Tutto quello che farebbe un governo di Sinistra. Ecco l'altro punto, ecco un aspetto che può spiegare il successo della manifestazione. Un parte del popolo della Sinistra era in piazza. Non ha scelto Piazza del Popolo, ha scelto il corteo. Lo ha fatto anche perché abbiamo contribuito a rappresentare la manifestazione come pacifica, smontando il clima di tensione e dicendo che era la manifestazione di tutti e tutte, e perché ha visto nella piazza una risposta giusta al Governo, non necessariamente per chiederne la caduta, ma per mandargli un segnale di sfiducia e di opposizione. Già, esiste anche questa variante nel popolo della Sinistra, una variante che la lettura "Bordighista" della realtà non comprende. Un popolo che marcia fuori dai confini dei partiti, che continua anche a votarli, che si oppone al Governo ma non auspica la sua crisi, perchè sa che dietro l'angolo c'è una maggioranza che andrebbe da Forza Nuova a Forza Italia, passando per la Lega. Nel corteo ho visto un popolo che vuole il ritiro dei soldati dall'Afghanistan, che vede il governo Prodi subalterno ai piani strategici Statunitensi, che vuole vivere in un paese laico, che vuol sentire parlare di riforme vere e cioè case, reddito, pensioni, politiche di decrescita, un popolo che odia Bush e le sue stragi, un popolo che non vuol sentir parlare di equidistanza tra Israele e Palestina, ma vorrebbe almeno sentire parlare di due stati per due popoli e la condanna ferma di Israele e del suo espansionismo. C'era anche una "rappresentanza" de "i partiti sono tutti uguali". Una rappresentanza che poteva contenere i tifosi della caduta del Governo, ma anche persone che poi votano a Sinistra, per evitare Berlusconi. Bastava girare per il corteo. Gli spezzoni organizzati dai soggetti della sinistra radicale e anticapitalista (tra cui inserisco anche Riva sinistra e il Network) potevano contare intorno a circa 10.000 persone, il resto era composta da persone della Sinistra diffusa, molti di Rifondazione o di "area" rifondazione, ho visto perfino compagni vicini ai DS, ai verdi, compagni che al momento giusto votano la Sinistra radicale e che nel corteo quasi si giustificavano dicendo "là non ce la facevo proprio a stacce". Purtroppo la valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata. Mi è dispiaciuto sentire alcuni dirigenti di Rifondazione sottolineare la distanza dal corteo fino all'ultimo momento. Una sottolineatura che è diventata in alcuni articoli e dichiarazioni anche aggressiva nei toni, mettendo in difficoltà quanti tentavano di stabilire un ponte con il Sit-in. Leggo oggi con piacere la valutazione della Segreteria in merito, valutazione che per il fatto stesso di essere pubblica, costituisce un fatto democratico non scontato, anzi rilevante. Vi è poi, in relazione alla costruzione dell'appuntamento di piazza del Popolo, un altro dato che vorrei approfondire. Un dato più politico e riguarda l'ossatura su cui si vuole costruire il Cantiere. Piazza del Popolo manda un segnale anche in questa direzione. Senza anima non si costruisce nessun nuovo soggetto utile per il cambiamento. Faremmo lo stesso errore del Partito Democratico. Cosa vuol dire "in piazza con l'altra America"? Quale? A chi si voleva parlare, intorno a quale idea forte si è deciso di mobilitare, di far spostare le persone da Rovigo, Catania, Milano, Bari. Ricordate la manifestazione del quattro novembre? Contro la Precarietà, Reddito, lavoro, sicurezza, futuro, casa, unità; unità, si, anche unità della Sinistra se volete, ma una unità che si tesse con l'immaginario e con le sfide quotidiane dei soggetti reali. Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione e le parole d'ordine per cui vale la pena battersi. Non penso sia compito facile, soprattutto in questo frangente, soprattutto con il rischio di apparire come quelli che fanno cadere il Governo nemico di Berlusconi. A Roma stiamo tentando un percorso complesso, radicalità e progetto di competizione sul Governo della città. Partecipazione, autogestione, altraeconomia, antifascismo, battaglie civili e sociali, idea di città tra comunitarismo solidale, inclusione sociale e tensione etica intorno alla politica, contro la città dei lustrini che ammalia senza ridistribuire. Penso che ci siano tutte le condizioni per ragionare di un nuovo percorso per la sinistra radicale, partendo da questo binomio, immaginario di società altra e capacità di contrattualizzare intorno ad obiettivi sociali e civili, scontrandosi con la maggioranza quando necessario. Non è vero quello che dice D'Alema, non è finità la stagione dei soggetti politici di lotta e di Governo. Rifondazione Comunista e la Sinistra Europea, nelle sue diverse articolazioni, lo sono per il fatto stesso che sono nei movimenti e sono nel Governo; sono nei movimenti come erano con piena cittadinanza nel corteo di Sabato, animandolo per buona parte. Si sta nei movimenti forzando, contrattualizzando, praticando forme di autogoverno, si sta nel Governo per aprire spazi, dare visibilità a battaglie sociali e civili, strappare risultati di avanzamento economico e democratico. Si sta nel Governo anche, come Ferrero ci comunica spesso, spiegando i limiti del Governo stesso e dicendo che molti dei risultati dipendono dalla forza dei movimenti e dalla loro capacità egemonica. Si sta nel Governo, ancora, spiegando che l'alternativa non sarebbe la Francia di Sarkosy, ma l'Italia del nuovo patto autoritario e ultraconservatore.
Spero che la giornata di Sabato serva a tutti e tutte per fermarsi a riflettere sui nostri obiettivi immediati e strategici, su quale Sinistra per quale progetto di società. Non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico. Non credo come dice qualcuno che sabato abbia sancito una frattura tra Sinistra di Governo e di opposizione, il quadro è più complesso ed è sempre scorretto mettere vestiti politici intorno alle piazze. Sabato deve diventare materia collettiva di dibattito. Evitando trasformare questo dibattito in resa dei conti tra correnti di partito. Non servirebbe a nessuno, neanche a chi pensa di aver avuto ragione.
*Riva Sinistra