mercoledì 13 giugno 2007

Repubblica 13.6.07
"Basta grisaglia, rivoglio l'eskimo"
Il popolo di Rifondazione si sfoga sul web: "Dove stiamo andando?"
di Alessandra Longo


Andrea scrive sul blog: "Votiamo per gli ideali, io uscirei dal governo..."
Clima teso anche nel quotidiano. In arrivo un intervento dei redattori su Cuba
Dopo lo strappo con i movimenti del corteo anti-Bush cresce il malessere dei militanti del partito di Bertinotti
Si moltiplicano le lettere a Liberazione. Il direttore Sansonetti: "Il momento è difficile"

ROMA - «Stare nel governo ci porta bene o male? Stare all´opposizione è costruttivo? Io vi dico che non so rispondere, so di non sapere... ma una cosa è certa: lo strappo coi movimenti è evidente, difficile da ricucire. Credo che tutti si debbano porre una domanda: dove stiamo andando?».
Dove stiamo andando: è questo l´interrogativo dentro le mura di Rifondazione, è questo che si chiede, nell´area blog del sito del partito, un anonimo militante, in cerca di nuova identità, afflitto da sbandamento, anche sofferenza.
«Millepapaverirossi», così si firma, non è aggressivo, non è rancoroso, usa il linguaggio di chi, innamorato di un´idea, di una battaglia, di una sfida, sente improvvisamente di aver perso il filo. Dove stiamo andando, qual è la cosa giusta da fare, continuare a stare con Prodi o ritrovare la verginità perduta e rinunciare a contare, a scrivere il futuro? A giudicare dalle prime risposte, la voglia di spezzare le catene della coalizione è tanta: «Tu dici di non sapere che cosa fare, io invece lo so: bisogna abbandonare subito il governo, anzi, prima di subito». Strano, difficile, travagliato momento per Rifondazione, in crisi di rapporto con i movimenti, che pure sono stati il suo alimento vitale, considerata da uno come Massimo Cacciari «la zavorra ideologica» sul cammino di un riformismo altrimenti vincente. Fausto Bertinotti, diventato presidente della Camera (più d´uno, anche in direzione, si chiede se non sia stato un errore rinunciare, nel mezzo del cammino, al suo contributo diretto), procede, scientificamente, per strappi: la non violenza, il superamento della cultura del Novecento, la ricerca mistica, e personale, di un nesso tra cielo e terra e quella, più materiale, di un nuovo cantiere per la sinistra a sinistra del Pd, il riconoscimento della realtà di Israele, le lodi, nel nome della pace, ai parà impegnati in Libano, la rivalutazione delle tele di Sironi e degli scritti di Celine, la fascinazione per la psichiatria "politica" di Massimo Fagioli. La base stenta a stargli dietro, come sempre avviene quando il Capo accelera e il nuovo arriva dall´alto.
Dove stiamo andando, si chiedono i lettori di «Liberazione» (ma anche quelli del «manifesto»). Lettere, sfoghi, invettive, soprattutto dopo l´esperienza dolorosa delle due piazze «no Bush». Piazze, ciascuna con le sue bandiere arcobaleno, piazze che non comunicano, separate dalle scelte di campo, governativi da una parte, non governativi dall´altra. Un errore da non ripetere, riflette il segretario Franco Giordano. Lidia Menapace, intellettuale, senatrice in quota Rifondazione, autrice con Rossanda e altri di un inascoltato appello all´unitarietà, scrive oggi su «Liberazione» che il 9 giugno è stata un´occasione persa: «Movimenti e partiti sono due modalità di espressione politica diverse. E´ mancato un luogo fisico dove potesse avvenire un confronto anche aspro». Il corteo dei movimenti, secondo Menapace, sarebbe dovuto confluire nella piazza del sit-in. Bisognava parlare, parlare, litigare anche, ma non perdere contatto. Si è pentita di stare al governo? No, Menapace, che riceve ancora oggi centinaia di insulti per aver osato criticare le Frecce Tricolori, si guarda intorno e vede «un´Europa di destra», fiuta «un vento autoritario», dalla Polonia alle Repubbliche Baltiche. Meglio stare dentro, meglio cercare di cambiare. C´è un´ultima sfida, adesso, ed è la politica sociale, le pensioni. Rifondazione sa che non può fallire, deve portare a casa qualcosa.
«Ma eskimo e grisaglia sono compatibili»? E´ una domanda di queste ore. Per capire l´aria che tira un buon punto di osservazione è «Liberazione», quotidiano del partito. Piero Sansonetti, il direttore, ne ha fatto, non senza fatica, una cittadella autonoma. Ammette tutto, «il momento difficile, la stagione non proprio rose e fiori». Le tensioni, le contraddizioni, passano tra i tavoli della redazione, attraversano il lavoro dei suoi 30 giornalisti, usciti parecchio depressi dal «caso Cuba». Succede che un´inviata, Angela Nocioni, descrive l´isola come nessuno aveva fatto prima da queste parti. E´ un regime, una dittatura, è arrivato il momento di dirlo. Piovono di colpo 500, 600 lettere di protesta, anche di insulti. Sansonetti difende la scelta, la nomenklatura, però, tranne Bertinotti, non apprezza. «Ci siamo sentiti soli. Abbiamo avuto la sensazione di consumare uno strappo contro il partito - dice un giornalista - ma noi siamo fieri della nostra autonomia, non siamo la Pravda». Pare che sia in preparazione una lettera dei redattori, solidarietà alla collega, orgoglio e difesa del proprio lavoro. Sansonetti fa benissimo il San Sebastiano: «Se vogliamo costruire una cultura nuova, definire un profilo alto di alternativa di società, qualcuno deve funzionare da rompighiaccio, tenere botta. Noi vogliamo andare avanti solo con la bussola della verità. Ma vorrei essere chiaro. Se la base di Rifondazione è in sofferenza non è per lo strappo su Cuba ma perché è dura stare al governo quando il governo non fa nulla di sinistra».
Torni al blog. Nel frattempo, sono le otto di sera, ha scritto Andrea: «Vedi, Rifondazione è un partito particolare, votato generalmente da gente che ha ideali... Rifondazione deve scegliere. La vuoi vedere vivacchiare all´ombra di Prodi? Mi chiedi che cosa farei io. Io uscirei dal governo...». Paolo legge, risponde subito: «No, caro compagno, abbandonare adesso sarebbe un suicidio politico».

Repubblica 13.6.07
Rifondazione agli alleati: "Ora la rotta del governo vada a sinistra"
(...)


ROMA - Dopo la delusione per il voto alle amministrative e il flop della manifestazione di piazza del Popolo, Rifondazione dà l´ultimatum al governo e chiede un cambio di passo. «Rotta a sinistra», ma nessuna ipotesi di disimpegnarsi andando verso l´appoggio esterno del governo. Il segretario Franco Giordano e i capigruppo Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena non vogliono sentirne parlare. Liquidano l´idea come «pura fiction». Il Prc è «saldamente collocato al governo», scandisce Migliore. Un appoggio esterno è «un´ipotesi del tutto infondata e non compare mai nella nostra discussione», precisa il segretario.
Anche se nel partito, Elettra Deiana non esita al contrario a definire «reticente» questo modo di affrontare la questione: «Bisognerebbe dire che Rifondazione è arrivata a un punto di snodo nel senso che la verifica se continuare a stare nel governo va fatta subito». «Opinione personale», smentiscono i capigruppo. Il punto è che al vertice di domani sul Dpef - sottolinea Giordano - chiederemo un salto di qualità netto nella politica del governo con il «superamento dello scalone, l´aumento delle pensioni minime e basse e il risarcimento dei lavoratori con politiche sociali e retributive».
Un «salto» nell´azione del governo è quanto chiedono anche i Ds che ieri hanno riunito l´ufficio di presidenza. «Ora ci vuole uno scatto in avanti su Dpef, riforme e azione di governo». Il segretario, Piero Fassino ne ha parlato in serata con Prodi in un incontro a Palazzo Chigi. Il «clima torbido» dopo le intercettazioni, come primo punto ma poi a seguire, il risultato dei ballottaggi alle amministrative («Chiaro segno di un disagio e di una crisi democratica di estraneità dei cittadini verso le istituzioni che sarebbe un errore non raccogliere»), e lo scatto nella politica del governo. Fassino, uscendo dal colloquio con il premier, ammette che le questioni sul tappeto sono le pensioni, la casa, la famiglia, le infrastrutture e la ricerca e che sul "tesoretto" si attende la quantificazione del ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Ci sono provvedimenti concreti?», gli chiedono i cronisti. «Il governo li sta studiando», risponde. E la sinistra radicale dà molta importanza al vertice di domani a Palazzo Chigi e ieri sera i capigruppo di Pdci, Verdi, Rifondazione e Sinistra democratica si sono riuniti a Palazzo Madama per concordare una posizione unitaria.
(g.c.)

Corriere della Sera 13.6.07
Cossutta: fuori dal Pdci per una forza arcobaleno


MILANO — «Sono fuori dal Pdci, voglio contribuire a riunire tutte le forze della sinistra». In riferimento a un grafico pubblicato dal Corriere, il senatore Armando Cossutta precisa che «già da un anno mi sono dimesso da presidente e da tempo anche dal Pdci. Il mio intento è di contribuire ad unire tutte le forze della sinistra, a partire dal movimento di Mussi e Angius, in un soggetto politico popolare, democratico, plurale con un nome comune (per esempio, "Sinistra"), con un comune simbolo (per esempio, "Arcobaleno") e con liste unitarie a cominciare dalle prossime elezioni amministrative del 2008».

Corriere della Sera 13.6.07
«Tutti al Gay pride». Il Prc cerca la rivincita in piazza
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Rifondazione comunista riparte sabato prossimo dal Gay pride di Roma. A una settimana esatta dal flop di piazza del Popolo, quando la manifestazione anti Bush è andata clamorosamente deserta, e dopo il brusco stop subito con i risultati delle amministrative, il partito di Franco Giordano e del ministro Paolo Ferrero (che parteciperà alla manifestazione insieme al collega "verde" Pecoraro Scanio), fa di nuovo decisamente rotta sui movimenti. A cominciare dalla imminente manifestazione nazionale di gay, lesbiche e transgender, contraltare ideale del Family day. Una svolta che verrà sottolineata in modo solenne: l'Assemblea nazionale costitutiva della Sinistra europea che inizia i suoi lavori proprio sabato mattina, sarà sospesa nel pomeriggio per permettere a tutti i partecipanti di unirsi al Gay pride.
Il Prc, insomma, posto davanti all'alternativa dalemiana («Il ciclo dei partiti di lotta e di governo è finito») sceglie di essere sempre più partito di lotta. La segreteria si è riposizionata sulle piazze lunedì sera «all'unanimità» puntando, per la prima rivincita sul campo, proprio sul corteo che sfocerà sabato pomeriggio nella stessa piazza San Giovanni teatro, un mese fa, dell'affluenza record delle famiglie cattoliche.
A Rifondazione negano che si voglia mettere un cappello politico sul Gay pride o peggio che lo si voglia cannibalizzare. «Noi abbiamo tre pilastri — spiega il segretario Franco Giordano — l'antiliberismo, il pacifismo e la laicità. In questo momento mi sembra che proprio la laicità debba essere fortemente sottolineata». E aggiunge, con una chiara frecciata polemica nei confronti dei Ds e del segretario Piero Fassino, «noi condividiamo tutta la piattaforma del Gay pride». Come è noto, il Botteghino invece se da una parte ha aderito alla manifestazione, dall'altra non ha voluto sottoscrivere alcun manifesto programmatico. «Io rispetto la posizione dei Ds - conclude Giordano - ma penso che oggi bisogna valorizzare le relazioni umane e affettive sia etero che omosessuali. Come di consueto parteciperemo in massa al Gay pride e ci metteremo il massimo impegno». Anche Ramon Mantovani cerca di evidenziare che è «da sempre che noi condividiamo gli obiettivi del Gay pride».
Ma gli organizzatori del Pride sono ben decisi a non finire nell'abbraccio dei partiti. Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay, che all'inizio di quest'anno ha riconsegnato la tessera dei Ds in polemica con Fassino, ieri ha precisato che in ogni caso «sul palco del Pride non salirà nessun leader politico, ad eccezione dei nostri quattro parlamentari "storici": Grillini, Luxuria, De Simone e Silvestri». Sarà lo stesso Mancuso a fare il regista della kermesse che avrà come inno ufficiale il singolo di Daniele Silvestri «Gino e l'Alfetta», per concessione della casa discografica Sony. La madrina del Pride sarà Monica Guerritore. Alla manifestazione hanno aderito anche i ministri Bonino e Mussi. Mentre la loro collega Pollastrini ha dato, come il Comune di Roma, il proprio patrocinio. Aderisce anche il sottosegretario al ministero della famiglia Chiara Acciarini.

Corriere della Sera 13.6.07
Il sacco della verità
Presa islamica di Costantinopoli, storia scritta dai vincitori
di Luciano Canfora


Con quale velocità decadono gli imperi? La domanda è più che mai attuale. Basti pensare che, al di là del vocio di sottofondo rappresentato dalle raffigurazioni ideologiche (l'età dei liberalismi, l'età dei socialismi etc.), la vicenda storica sin qui conosciuta non è che un succedersi, alternarsi, e scontrarsi, di imperi e di aspirazioni imperiali. Il Novecento fu funestato dalla spinta del mondo tedesco a ridisegnare la mappa della suddivisione del mondo tra gli imperi più antichi e consolidati. L'impero russo fu penalizzato alla fine del Novecento ma probabilmente è in ripresa, mentre quello americano, dopo aver raggiunto il vertice del predominio mondiale, nell'anno stesso in cui ha avuto inizio il nuovo secolo, ha incominciato a scricchiolare.
La storia ci insegna che non c'è mai stato un unico impero, anche quando si è data una tale illusione: i romani sapevano che oltre i confini non più dilatabili del loro impero c'erano altri, e questi altri ad un certo punto si mossero. Anche oggi vediamo gli Stati, persino i più solidi, intaccati da un'onda continua e capillare di movimenti di popoli. Non sarebbe sorto il muro voluto dagli Usa al confine col Messico, se il problema non fosse vieppiù preoccupante.
L'impero romano d'Occidente si formò (quand'era guidato ancora dall'oligarchia dirigente della città-stato) con la vittoria su Annibale e poi sulla Macedonia, e durò sette secoli, fino alla metà circa del V secolo d.C. L'impero d'Oriente visse un altro millennio: forse è il più longevo impero che la storia ricordi.
Finì quando la «città di Costantino» fu espugnata dai turchi del grande e illuminato Maometto II, il quale però si proponeva di continuare l'impero che aveva conquistato. E lo storico che narrò le sue gesta, tra cui la presa di Costantinopoli, fu un greco, Michele Critobulo, che scrisse in stile tucidideo l'epopea del nuovo sovrano. Quell'epopea fu narrata anche da storici turchi: Tursun Bey è il più celebre, ed opportunamente la nuova collana mondadoriana «Islamica» ne offre una fresca e ben prefata traduzione. Così il lettore moderno può rendersi direttamente conto dell'elementarità (per non dire banalità divagante) di tale narrazione, ben al di sotto del livello della storiografia di matrice greca anche nei suoi prodotti meno riusciti. Valga per tutti un esempio. Si tratta del resoconto della conquista della fortezza di Costantinopoli: «Presa la fortezza con l'aiuto di Dio e ridotto il nemico inerme all'impotenza, i musulmani si lanciarono a briglia sciolta e, come l'occhio rapace, qual turco razziatore, saccheggia la regione del cuore e dell'anima, con passo intrepido allungarono le mani a razziare e a saccheggiare. Da ogni abitazione, il cui tetto somiglia a Saturno e i cui piani ricordano le sfere dei cieli, da dentro letti intessuti d'oro e da dietro cortine gemmate, spinsero nella strada e nei mercati giovinetti greci e franchi, russi e ungheresi, cinesi e tartari, insomma tirarono per quei capelli, simili ai ciuffi degli idoli, ogni genere di amabili creature: giovinetti rubacuori e schiavi belli come la luna. Di natura gentile, di lineamenti paradisiaci, pronti al servizio fasciati di cintura come luna nei Gemelli; slanciati di statura, dalla guancia di rosa, crederesti che sull'alberello di cipresso una fresca rosa sia sbocciata; dalle sopracciglia arcuate, come due pezzetti di muschio (...). E fanciulle simili a stelle: dalle natiche di rosa selvatica, dalle guance di gelsomino, dai ricci di violetta e dalla statura di cipresso; dal viso di sole, dalla fronte di luna, dalla natura di Venere, dal fare civettuolo di Marte, dai lineamenti di Giove, dalla cintura simile a Orione, dalle sopracciglia come Sagittario, dalla ciocca della Vergine, dalla figura dei Pesci, dall'incedere di pavone, dalla rossa gota, crederesti sia candida rosa tinta dal sangue; dai seni prosperosi, li crederesti due melegrane acerbe su vassoio d'argento; dagli occhi languidi, il suo sguardo è ammaliatore, anzi, assassino; dalle palpebre bistrate, crederesti sia occhio della gazzella di Hotana; dalle gambe formose...». Nel racconto del sacco di Costantinopoli non si fa cenno a distruzioni di libri — che pure ci furono in misura non minore che nel 1204 ad opera dei crociati —, forse perché l'argomento non interessa per nulla al narratore, preso da entusiasmo per l'ampio pascolo sessuale offerto dalla conquista.
L'altro motivo di eccitazione per Tursun è l'oro che fu depredato in quantità ingenti: «Oro e argento furono acquistati al prezzo del rame e dello stagno. In questo modo — commenta —, grazie a quelle cose preziose, molte persone si elevarono dalla più profonda povertà a una straordinaria ricchezza. In breve, gli infedeli, gli uomini che marciano sulla via dell'errore, caddero nella rovina, mentre l'esercito del sultano, meglio ancora l'intero mondo abitato, proprio grazie ai loro preziosi tesori, ai loro fanciulli, ai loro gioielli e ai loro ricchi ornamenti assunse l'aspetto del paradiso».
Il resoconto dei vincitori è sempre unilaterale e talvolta anche irritante. In questo caso è molto utile sul piano storiografico, poiché sulla fine di Costantinopoli pesa, sul piano della «mitologia storiografica», l'effetto della cattiva coscienza del mondo cristiano. Le potenze dell'epoca nulla fecero per salvare Bisanzio, ma lucrarono emotivamente sulla sua caduta per rinfocolare l'odio contro gli «infedeli» e contro gli ortodossi, raffigurati per lo più come infidi e ingrati. Insomma la vicenda del 1453 è davvero, da ogni punto di vista, una pagina capitale nella storia della Realpolitik.
Ma questo non ci indurrà a scivolare nell'illusione ottica di assumere come verità quella dei conquistatori. Audiatur et altera pars («Si ascolti anche l'altra parte») non dovrà significare che la verità ce la fornisce l'altera
pars. Sarebbe un procedimento poco critico. E non è, credo, lo spirito della neonata collana mondadoriana «Islamica» di cui questa Conquista di Costantinopoli (ma il volume contiene molto altro) di Tursun Bey è il secondo titolo.
Un recentissimo libro di Bat Ye'or (Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita,
Lindau editore) descrive, anche se in toni molto aspri, un meccanismo mentale che in alcuni ambienti si sta producendo, il bamboleggiamento estetizzante nei confronti di ciò che viene dall'Islam: una forma di anti-illuminismo estetizzante che non giova alla conoscenza, ma rischia semmai di sostituire un dogmatismo ad un altro. Benemerita è invece l'opera di conoscenza e di allargamento della documentazione se sorretta da spirito critico e non confessionale.
Il subentrare sulle sponde del Bosforo, all'ultimo imperatore bizantino, di un dinasta turco il quale assunse subito il nome di «Cesare» è un evento epocale nella storia degli equilibri di potenza, nonostante il peso ridottissimo dell'ormai larvale impero d'Oriente. È di lì che incomincia la lunga e complicata partita tra «terza Roma» (Mosca), impero ottomano ormai padrone della «seconda Roma» (Bisanzio) e le grandi potenze europee occidentali. Una orwelliana partita a tre, che ancora oggi prosegue con la disputa assai poco teorica sull'allargamento in direzione di Ankara, anziché di Mosca, della «Comunità Europea».

l’Unità 13.6.07
Sinistra senza piazza
Il voto e il vuoto
di Michele Ciliberto


Non c’è da rallegrarsi sul fatto che le manifestazioni organizzate dalle sinistre radicali a Roma siano state un sostanziale insuccesso nonostante i vari tentativi che vengono fatti per offuscarne l’effettivo fallimento.
Una sinistra radicale forte e bene organizzata sarebbe un bene anche per il consolidamento dello schieramento di centrosinistra; e più in generale, per uno sviluppo equilibrato di tutto il nostro Paese.
Tanto più c’è da preoccuparsi perché il sostanziale fallimento delle manifestazioni di Piazza Navona e di Piazza del Popolo viene dopo una significativa flessione elettorale causata, per quanto riguarda le forze del centro-sinistra, da un forte astensionismo. Se si riflette sull’insieme degli eventi di queste ultime settimane è precisamente questo il punto che appare più in rilievo e che preoccupa maggiormente anche per la tenuta democratica del nostro Paese: c’è una tendenza sempre più forte a ritirarsi dalla partecipazione politica anche quando si tratti di importanti scadenze elettorali. Non si arriva a cambiare campo ma ci si mette fuori dal gioco manifestando il proprio disinteresse per come viene giocata la partita. È un gesto politico anche questo che bisogna saper cogliere in tutta la sua profondità senza cullarsi in illusioni che sono alla fine di breve respiro.
È vero: il governo Prodi esce rafforzato dalla visita del presidente Bush anche per la mirabile prova di capacità e di correttezza data dalle forze dell’ordine della quale bisogna tener conto. Ma se si esce dalla logica politica strettamente intesa appare evidente, a mio giudizio, che il governo Prodi continua a essere legato a un filo e che in qualunque momento un refolo di vento può trascinarlo via. Come è stato rilevato molte volte - e anche in questi giorni - paradossalmente la sua forza consiste proprio nella sua debolezza, nell’essere dunque un ossimoro politico. Un governo che voglia però avere ambizioni strategiche - come dovrebbe essere quello di Prodi - non può reggersi su condizioni politiche di questo genere. E qui il problema diventa complicato e merita di essere analizzato in tutta la sua complessità.
Un politico assai autorevole ha sottolineato in questi giorni che il problema essenziale per il nostro Paese è di assecondarne la crescita e «di tarare l’azione del centro-sinistra su un’idea di una e vera e propria “ripartenza”. Questo serve - ha detto Massimo D’Alema - mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini...». Non sono d’accordo; anzi, credo che porre le questioni in questo modo non ci aiuti ad uscire dalle difficoltà in cui ci troviamo. I conflitti, quando sono ordinati e disciplinati, sono sempre positivi per lo sviluppo di una democrazie e, in generale, di un Paese. Non è dunque auspicando la riduzione o la fine dei conflitti che si fa la scelta politicamente giusta.
Il problema di fondo che si esprime nel fallimento delle iniziative contro Bush e nell’astensionismo che ha segnato anche il secondo turno elettorale - due eventi, lo ribadisco, che a mio giudizio vanno considerati insieme - concerne anzitutto la fondamentale crisi di rappresentanza politica che il nostro Paese continua a vivere e che si accentua giorno dopo giorno con una separazione sempre più grave ed evidente di governanti e governati. In Italia è questo il problema che è aperto ormai da qualche decennio, ed esso riguarda direttamente la questione delle fonti e delle forme della sovranità nel nostro Paese; riguarda dunque il problema della nostra democrazia. Ed è nel quadro di questo problema che a mio giudizio va collocata la questione della sinistra in Italia, della sua funzione nazionale, e dello stesso Partito democratico.
Questo partito ha un senso nazionale profondo se ristabilisce su basi nuove il nesso tra “politica” e “società” (per usare due termini classici) costituendo un circuito virtuoso tra governanti e governati; ha un senso cioè se riesce a porre e risolvere in modi nuovi il problema della rappresentanza nel nostro Paese scendendo coraggiosamente anche sul terreno del federalismo. È questa la vera sfida che abbiamo di fronte; ed è proprio su questo terreno che si sono prodotti i danni più gravi. Molte di queste speranze si sono infrante infatti contro le dure repliche di una realtà sorda immobile e incapace di rimettersi in discussione. Le piazze che si erano riempite di gente desiderosa di partecipare si stanno svuotando e cominciano ad essere abbandonate. Se si pensa all’esperienza delle primarie e al valore che avevano assunto le piazze come incontro di partecipazione e di vita democratica sembra che siano passati alcuni secoli invece di pochi mesi. La velocità del cambiamento non può e non deve però sorprendere: sappiamo tutti che i tempi della politica contemporanea sono velocissimi e che non è facile saperli controllare.
Bisogna sempre stare attenti a non stabilire rapporti meccanici tra avvenimenti diversi: una cosa naturalmente è la partecipazione alle primarie per l’elezione dei sindaci; un’altra la partecipazione a una manifestazione contro Bush. Sono ovviamente eventi diversissimi da non confondere. Ciò non toglie che la campana dell’astensionismo abbia suonato in questi giorni anche per il Partito democratico. Come sempre la storia sa essere paradossale: nato per incrementare le speranze di un cambiamento, il Partito democratico, proprio per la fiducia che aveva acceso, rischia di diventare un elemento di distacco e di vero e proprio disincanto che precipita nella crisi della partecipazione politica. Ma anche qui bisogna saper sollevare l’occhio dalla parte e guardare all’intero, cioè al destino di tutta la sinistra italiana.
Sarebbe infatti certamente sbagliato concentrare la propria attenzione solo sulle difficoltà del Partito democratico e non tener conto che il quadro della sinistra va considerato unitariamente, senza dimenticare, naturalmente le differenze profonde che pur ci sono e che vanno dichiarate a viso aperto. Non è però interesse del Partito democratico la frantumazione della sinistra radicale; né è interesse della sinistra radicale il fallimento del Partito democratico.
Bisogna imparare a ragionare in termini sistemici. Se il Partito democratico riesce a crescere in modi positivi esso avrà effetti benefici sull’insieme della sinistra italiana e del nostro Paese, mentre una sua crisi precoce contribuirebbe a un’ulteriore frantumazione del quadro politico italiano nella sua complessità. Allo stesso modo se la sinistra radicale riesce a “ordinarsi” può svolgere una funzione positiva per l’insieme del movimento riformatore italiano. Entrambi, Partito democratico e sinistra radicale, possono e devono dare un contributo alla soluzione al problema centrale della società italiana, quello di una nuova rappresentanza politica - e di nuove forme e modelli di sovranità - che il Paese sta chiedendo con forza e che ancora non riesce ad avere con le conseguenze che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. È su questo terreno che si gioca la partita decisiva, come dimostrano anche i risultati elettorali e specialmente i colpi che il centro-sinistra ha subito nell’Italia settentrionale. Non è molto, però, il tempo che resta a nostra disposizione.

l’Unità 13.6.07
Sinistra in Europa. Non soffre solo Parigi
di Gianni Marsilli


Sinistra, se Parigi piange certo l’Europa non ride
Il Ps ha bruciato già tutti i consensi costruiti per le presidenziali
La Spd governa all’ombra di Merkel. Per Zapatero prime difficoltà

Recuperare sarà dura, durissima. Non s’inventano in tre giorni un obiettivo, una strategia, alleanze, leadership politica. Se poi la diarchia da tinello che governa il partito socialista si mette pure a litigare in pubblico, come accade tra Ségolène Royal e François Hollande, allora ha ragione il giovane e molto severo deputato Manuel Valls, che fu il portavoce di Lionel Jospin a palazzo Matignon: «Sono stufo di vedere la vita politica, e in particolare quella del mio partito, ruotare attorno alla vita di una coppia». Perché non filtra altro, dal fronte targato Ps, e battute e sarcasmi arrivano come se piovesse. Ancor più grave, una prima analisi sociale del voto ha rivelato che si è squagliata come neve al sole la nuova base di consenso, fragile ma ricca di potenziale programmatico ed elettorale.
A mancare all’appello, domenica scorsa, sono stati i giovani e le banlieue. In posti come Argenteuil e Clichy-sous-Bois il consenso socialista si è dimezzato nell’arco di cinque settimane, dal 6 maggio all’11 giugno. Come del resto l’afflusso alle urne, passato dall’84 al 46 per cento, una vera emorragia. In molti avevano creduto in Ségolène, in pochi credono nel suo partito.
La crisi del Ps avrà due sbocchi possibili. Se domenica prossima l’ondata sarkozysta diventerà un vero tsunami, allora sarà molto difficile per François Hollande rimanere alla testa del partito fino al congresso dell’autunno 2008. Dovrà rapidamente dimettersi. Sarà quindi ancor più difficile per Ségolène costruire la sua leadership, operazione che ha bisogno di un po’ di tempo: l’elettorato che è mancato all’appuntamento dell’11 giugno è soprattutto il suo. Hanno resistito meglio, invece, i tradizionali bastioni socialisti, quelli tenuti dagli «elefanti» come Laurent Fabius, Henri Emanuelli, Jack Lang. I quali non mancheranno certo di trarne le conseguenze e di farle pesare. In particolare difficoltà, infatti, sono proprio i membri della guardia più stretta di Ségolène, lo staff che l’aveva accompagnata alle presidenziali. Quasi nessuno è sicuro di essere eletto o rieletto: né il portavoce Arnaud de Montebourg, né il direttore di campagna Jean Louis Bianco, né il portavoce del partito Julien Dray.
La sinistra francese si dibatte quindi nella sua condizione storica naturale, che è minoritaria. È dall’88 che non vince un’elezione politica, con l’eccezione del ’97, quando Jacques Chirac sciolse tanto provvidenzialmente quanto maldestramente un parlamento che gli era fedele per l’80 per cento. I socialisti sono egemoni a sinistra, è vero. Ma non perché abbiano saputo assorbire il resto della sinistra, la quale si è invece estinta da sola sul fronte cieco del rifiuto categorico di qualsiasi nozione di mercato, concorrenza, imprenditorialità. I socialisti sono quindi più soli che egemoni.
A poco serve ai socialisti francesi guardare oltre le frontiere. La sinistra corre il rischio di essere minoritaria quasi dappertutto in Europa. Il 27 giugno prossimo s’insedierà a Downing Street Gordon Brown, ma non sull’onda di una vittoria elettorale. Quella dovrà costruirsela con le unghie e con i denti, per essere riconfermato nel 2009 o nel 2010. I sondaggi britannici continuano infatti a dare i conservatori di David Cameron in testa di parecchie lunghezze. Sarà molto difficile per Brown ricreare lo slancio che fu di Tony Blair dieci anni fa, anche se potrà verosimilmente contare su un partito unito, avendo appena ottenuto l’investitura da parte di 313 sui 352 deputati laburisti. Consapevole dell’usura del New Labour, Brown moltiplica i segnali di discontinuità. Promette un governo «più collegiale», assicura che sarà «meno ossessionato dalla manipolazione mediatica».
Neanche oltre Reno il quadro appare entusiasmante. La Spd governa, ma ad incassare gli utili è Angela Merkel. Kurt Beck, presidente della Spd, è consapevole di un certo sfilacciamento delle sue truppe. Ha deciso di dare al partito una direzione più dinamica e volitiva. I vicepresidenti non saranno più cinque ma tre. Il più anziano è Peter Steinbruck, 60 anni, attuale ministro delle finanze. Accanto a lui Andreas Nahles, 36 anni, che era stata alla testa dei giovani socialdemocratici, e Franck Walter Steinmeier, 51 anni, ministro degli Esteri ed ex braccio destro di Gerhard Schröder. La triade dovrà ricevere l’avallo del congresso che si terrà nel prossimo ottobre ad Amburgo. A dar il mal di testa alla Spd non è soltanto la popolarità di Angela Merkel. Sono i sondaggi, che parlano di una Cdu-Csu al 36-37 per cento e di una Spd al 28-30. E c’è anche il Partito della sinistra nato dalla fusione tra la Wasg (i fuoriusciti dalla Spd come Oskar Lafontaine) e gli ex comunisti dell’est. Nel maggio scorso hanno fatto per la prima volta il loro ingresso in un parlamento regionale occidentale: è accaduto a Brema, dove hanno raccolto l’8,4 per cento dei voti. È inoltre con una certa inquietudine che Zapatero, dall’altra parte dei Pirenei, guarda alle legislative del prossimo marzo. Esaurita la felice ondata riformatrice in senso laico dello Stato, il capo del governo spagnolo si ritrova tra i piedi intero il problema dell’Eta, che i popolari hanno largamente utilizzato per riportare una corta ma indiscutibile vittoria alle municipali e regionali dei giorni scorsi.
Resta alto nel Ps francese, invece, l’interesse per quanto accade in Italia: lo snodo autunnale del Partito democratico, i rapporti tra il centro e la sinistra. Lo vedono come un utile laboratorio, ma i tempi non combaciano: qui si vota domenica prossima, e sarà, se tutto va bene, per cinque anni

Repubblica 10.6.07
Cacciari: Giordano, Diliberto e compagni sono conservatori che con l'innovazione non hanno nulla a che spartire
"Rifondazione zavorra per l'Ulivo questo flop di Roma è un segnale"
di Umberto Rosso


Sinistra radicale. Ma quale sinistra radicale. Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Frena le liberalizzazioni
Le vie d’uscita. Ci vuole un Partito democratico federale. Al Nord come al Sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica?

ROMA - «Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l´innovazione non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più nessuno».
Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche grazie a loro.
«Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra».
Non sarà invece che l´anti-americanismo non paga più?
«L´anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non è certo perché la gente ama il presidente degli Usa».
Perché, allora?
«Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi, decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell´Ungheria, di Praga, dell´Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la manifestazione di una minoranza dei conservatori».
Minoranza, perfino?
«Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché stanno dall´altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l´hanno portato: un bisogno della politica, del desiderio, dell´utopia, chiamatela come vi pare».
La sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti?
«Ma radicale de che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l´hanno mai avuto. Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano né a destra né a sinistra».
Però i voti li hanno pescati, il cantiere di sinistra conta 150 parlamentari.
«Gli rimane qualcosa aggirandosi fra i cascami dell´ideologia. Ma soprattutto resistono ancora grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo».
Non sarà che a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga pegno?
«Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c´entra nulla. Anche perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri padri costituenti? Puntare nell´Italia del ‘46, devastata dalla guerra, alla piena occupazione, era un programma di lotta e di governo».
Teme, dopo il flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
«Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no c´è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti all´attacco. E´ l´unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l´arbitro fischi la fine della partita».
Come si mette la palla in rete?
«Una Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica se devo stare con Rifondazione?».

Repubblica 10.6.07
Rischioso elogio del nostro premier (solo un estratto)
di Eugenio Scalfari

(...)
Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede. (...)

il manifesto 13.6.07
Unitari e radicali per non ingoiare rospi
Pietro Folena
*

Il problema, per le forze della sinistra dell'Unione, era partecipare o no al corteo anti-Bush e anti-Prodi? Questa la domanda che sembra attanagliare la nostra discussione di questi giorni. Secondo me è una domanda sbagliata. Se è evidente l'errore compiuto da alcuni movimenti pacifisti e dalle forze politiche della sinistra nell'indire la manifestazione di piazza del Popolo, non credo che partecipare a un corteo indetto su una piattaforma inaccettabile e che non a caso ha visto una partecipazione significativamente più ridotta rispetto a quelle del recente passato, avrebbe evitato di esporre la sinistra a una dinamica negativa. C'era forse un altro modo - lo ha trovato perfino Andrea Riccardi - per manifestare il proprio radicale dissenso con la guerra di Bush.
Guardiamo le cose come stanno. Si può dire che il governo è stato carente un po' su tutti i fronti. Ma quello della politica estera è sicuramente un ambito in cui alcuni importanti cambiamenti ci sono stati: il ritiro dall'Iraq, l'impegno in Libano, il no a ulteriori truppe in Afghanistan e il non impegno di quelle lì presenti in azioni di combattimento, accompagnato dalla proposta di una conferenza di pace, la nostra linea sull'Iran, l'appoggio ai paesi arabi, il dialogo persino con le frange più estreme di quel mondo, lo smarcamento dalle politiche americane e il ritorno nel contesto europeo sono tutti elementi di forte novità. Certo: c'è stato un pesante strappo, gravido di conseguenze, operato personalmente da Prodi, sulla questione del Dal Molin, e il contenzioso nella maggioranza è evidentemente aperto. Però non valorizzare, per questa ragione, i successi ottenuti mi pare autolesionistico. Semmai ora il problema è lo scudo spaziale, e il contrasto a altre scelte di riarmo dell'amministrazione Bush.
Il punto fondamentale, per la sinistra, è quello di evitare due riflessi possibili di questa situazione. Il primo è quello «ipergovernativo» (essere unitari, ma non radicali) per cui occorre digerire qualsiasi rospo in nome della stabilità. D'Alema, in singolare sintonia con Bernocchi, si deve dare pace: si deve essere di lotta e di governo, e certo la sinistra non può seguire i pessimi esempi venuti dalla maggioranza dei Ds che, a forza di ingoiare rospi, ha finito col desiderarli. L'altro riflesso è invece il rifiuto del tema del governo (essere radicali, non unitari), coltivando l'illusione su quanto stavamo bene all'opposizione, la nostalgia di posizioni passate, o comunque la voglia di non combattere più e di rifugiarsi in uno splendido, un po' settario, molto inconcludente isolamento.
C'è una terza strada. Quella di essere unitari e radicali. Di provare a spostare l'asse del governo a sinistra (anche se a qualcuno non piace). Una strada che - per come è fatta la società politica - passa solo attraverso un accordo tra i gruppi dirigenti della sinistra per costruire un soggetto comune. Ma affonda le sue radici nel paese reale. Cosa ci chiede l'elettorato? E' semplice: vuole che otteniamo dei risultati. Vuole che il suo voto sia «utile». Vuole sapere di non avere sbagliato a votare.
I temi sul tappeto sono noti: il tesoretto, la legge 30, le pensioni, i salari, i contratti. Aggiungo la scuola, di cui poco si parla, ma che è in una sofferenza indicibile, le politiche abitative e i diritti civili. Su questi temi noi dobbiamo (e sottolineo: dobbiamo) portare a casa risultati concreti, in linea con il programma dell'Unione. Questi temi insieme costituiscono il banco di prova dell'efficacia della nostra azione come sinistra e la salvezza per lo stesso governo Prodi. Se non ci sarà svolta sulle questioni sociali il problema non si porrà per il Prc, ma sarà il governo a aver intrapreso una strada senza uscita, esaurendo in pochi mesi ogni rapporto di simpatia con l'opinione pubblica. I riformisti-moderati non sono in grado di rispondere alla sfida. Dovremmo farlo noi. Ma ora siamo in sofferenza.
Dobbiamo invece fare tesoro di quanto accaduto a Taranto, dove la sinistra si è presentata unita e ha sbaragliato tutti. Il problema è quello dell'unità delle forze della sinistra, che oggi, alla vigilia di queste sfide, è una vera e propria urgenza. Solo con l'unità possiamo determinare la svolta che auspichiamo. Se questa non è ancora avvenuta non è solo perché ci sono soverchianti forze avversarie. C'è anche una nostra responsabilità, una responsabilità della politica che non riesce ancora a seguire i tempi della società, degli apparati o dei «ceti politici» che resistono all'unità per ragioni di visibilità. I nostri elettori sono invece già uniti. E ci aspettano al traguardo.
Sabato e domenica c'è un appuntamento di grande rilievo, l'assemblea della Sinistra europea. Da lì devono arrivare parole molto chiare sui temi di merito e sul percorso unitario. Si sono fatti passi in avanti (penso all'assemblea dei parlamentari, occultata non a caso da buona parte dei media). Ma insisto: da subito occorre delineare un percorso ambizioso. Dal basso e dall'alto. Entro settembre convochiamo una assemblea pubblica, di massa, una costituente della sinistra. Facciamola precedere da assemblee in tutto il paese. Convochiamo le primarie sul programma. Chiediamo ai nostri elettori cosa vogliono da noi. Cosa fare su pensioni, casa, Dico, scuola, tasse, extragettito. Sulla politica estera e sullo scudo stellare. Diciamo loro che alle prossime elezioni troveranno un nuovo simbolo che ci rappresenta tutti (il simbolo di una coalizione politica, sociale, civile della sinistra), alleato, fin quando possibile, con i moderati del Partito democratico.
Per uscire dalle difficoltà bisogna lanciare il cuore oltre l'ostacolo. E' proprio ora, in un mare aperto e non molto tranquillo, che si misura la capacità della sinistra e dei suoi dirigenti di avere una funzione generale.
* Portavoce di Uniti a sinistra


Liberazione 13.6.07
Banche, politica e intercettazioni
La gogna per D'Alema e la partita Pd
di Rina Gagliardi


Non occorre far parte dei così chiamati addetti ai lavori , basta essere semplicemente una persona di buon senso per capire "che cosa c'è dietro" la massiccia diffusione mediatica delle intercettazioni sulle scalate Unipol-Bnl. Il bersaglio evidente è Massimo D'Alema, la figura politica di massimo spicco (è il caso di dirlo) di cui i Ds a tutt'oggi dispongano. E l'obiettivo, altrettanto evidente, è quello della delegittimazione morale , non certo del coinvolgimento giudiziario, di un intero gruppo dirigente. Ormai, lo scontro politico si svolge senza regole e senza limiti - all'insegna della più totale spregiudicatezza e di una crescente, inquietante volgarità. Così è accaduto, pochi giorni fa, a proposito del "caso Visco" (e Visco non è solo il viceministro delle Finanze che tenta di introdurre in questo Paese la dimensione ignota della lotta all'evasione fiscale, ma è notoriamente un dalemiano di ferro). Così accade oggi, con i paginoni dei maggiori quotidiani che traboccano di conversazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta giudiziaria aperta sulla famosa estate calda del 2005. Così, temiamo, può accadere ancora nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Tanto veleno sparso a profusione evoca un clima da "ultimi giorni della Repubblica", e tende a colpire quel pochissimo che resta della credibilità della politica e delle istituzioni rappresentative.
Ma perché un attacco così insistito e articolato a Massimo D'Alema? Lasciamo stare le "dietrologie" , esercizio nel quale per altro non siamo versati, lasciamo stare i complotti, e guardiamo alla politica. Agli effetti possibili di questa vicenda. Alla lotta furibonda che si sta svolgendo ("dietro le quinte") nel nascente Partito Democratico, per la sua leadership, ma anche per la sua identità politico-culturale. Sarà, il nuovo soggetto della politica italiana, una forza in qualche modo di "compromesso" tra sinistra e centristi, tra socialdemocratici e liberali, tra postcomunisti e (post) democristiani? O non sarà piuttosto un partito puramente liberale, al massimo liberaldemocratica, con qualche spruzzatina di radicalismo? Qui, evidentemente, c'entrano, e non poco, i destini politici dei D'Alema, dei Fassino, dei Rutelli e dei Veltroni. Intendiamoci: l'attuale Ministro degli esteri non è certo un radical: per meglio dire, è sempre stato molto distante dalle posizioni e dalla cultura politica della sinistra, non solo radical. E' un postcomunista (e un post-togliattiano) che, sia pure con frequenti oscillazioni, si riferisce, grosso modo, ad un orizzonte socialdemocratico di tipo europeo. Insomma, a differenza di altri leader ds e margheritini, D'Alema rappresenta nel futuro Partito Democratico una "gamba di sinistra": sinistra alquanto moderata, realpolitiker, qualche volta ipertatticista e perfino cinica, ma pur sempre sinistra, che mantiene un filo di continuità e di rapporto con la storia novecentesca della sinistra. E infatti, come ministro degli esteri del governo Prodi, D'Alema ha cercato, a larghi tratti, di portare avanti una politica un po' più europea, marcando una relativa autonomia dell'Italia dallo strapotere americano e, soprattutto, una notevole discontinuità rispetto al quinquennio berlusconiano. E dunque? Dunque, ove per caso la campagna di discredito sul vicepremier avesse successo e la sua figura pubblica ne uscisse seriamente ridimensionata, la prima e più significativa conseguenza sarebbe sul e nel Pd - dove l'egemonia di Walter Veltroni e di Francesco Rutelli ne uscirebbe, a questo punto, incontrastata. Il Partito Democratico nascerebbe davvero così come lo sogna Antonio Polito nel suo appassionato pamphlet "Oltre il socialismo": liberale, liberista, blairista, ispirato nella politica economica e sociale dai professori del Corriere e dai consiglieri dell'amministrazione di Washington in politica estera. Un destino politico che, in teoria, spalanca spazi immensi alla sinistra che può rinascere. Ma che nella pratica rischia anche e soprattutto di sospingere verso destra l'intera politica democratica italiana.
Dicevamo degli effetti indotti dall'attuale, francamente disgustosa pratica, del gossip sistematico che passa per giornalismo. Una sola osservazione sui suoi contenuti concreti, che rivelano non una deviazione morale, ma una linea politica radicalmente sbagliata: quella che ha portato i Ds, in questi anni, a coltivare il "sogno" di un (loro) rapporto privilegiato con il capitalismo e con i nuovi poteri finanziari. A coltivarlo in termini non solo politicamente subalterni, ma strategicamente perdenti - cioè senza un'ipotesi forte di sviluppo del paese, senza un'analisi e una prospettiva sociale chiare, senza un'idea fondata del ruolo che spetta alla politica. A Massimo D'Alema esprimiamo oggi tutta la nostra solidarietà. Ma ci permettiamo di consegnargli anche una considerazione del tutto fraterna: giocare con le banche, con le scalate, con questo o quel parvenu miracoloso (o miracolato) non è il mestiere che gli compete. Non è il mestiere della politica, non è lo strumento che serve alla sinistra. E, viste le sue più recenti esternazioni che invitano alla sepoltura dei partiti di lotta e di governo, gli assicuriamo che noi, le piazze, continueremo a frequentarle. Fanno meglio delle banche.

Liberazione 13.6.07
Uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della
Guerra europea, quella in cui l'Italia si è gettata nel maggio del '15

Un altro comunismo è possibile?
Il giovane Gramsci a Torino
di Angelo d'Orsi


Una delle tante questioni che concernono lo studio di Gramsci attiene al lungo predominio di una impostazione che ha quasi completamente negletto il periodo torinese, salvo che il biennio consiliarista (1919-‘20), seguito dalla fondazione del Partito Comunista d'Italia, nel gennaio del 1921. Un momento politico che era stato preceduto, di sole tre settimane, dalla fondazione de L'Ordine Nuovo quotidiano, il quale, sotto la medesima testata del "settimanale di cultura socialista" (nato il 1° maggio 1919), in realtà era la continuazione dell'edizione piemontese dell'Avanti!. Tali iniziative, delle quali il Sardo fu animatore e artefice massimo, generalmente sono state definite "giornalistiche", in modo un po' semplificatorio e certamente riduttivo, e sono di conseguenza state interpretate come una mera "preparazione" al "vero" Gramsci, quello dei Quaderni. Non è casuale che quel Gramsci sia quasi l'unico con cui gli studiosi si sono confrontati, e si confrontano tuttora, in un fiorire di studi che ha del prodigioso. Invece occorre insistere su un dato: quelle del periodo torinese (1911-‘22), sono avventure politico-intellettuali di enorme rilievo, la cui lettura non può essere concepita nei termini puramente finalizzati alla comprensione del Gramsci "maturo", il Gramsci che conta, l'autore degno di essere letto e studiato. In realtà il Gramsci torinese, anche quello che precede la fondazione de L'Ordine Nuovo, è pienamente "maturo", e merita di essere analizzato con molta cura, certo per meglio penetrare nell'universo dei Quaderni, ma anche per tutto quanto i suoi scritti e la sua azione politica concreta offrono.
Il Gramsci "giornalista" ci appare dunque uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della Guerra europea, quella in cui l'Italia di Salandra e Sonnino, con la complicità decisiva di re Vittorio Emanuele III, si è gettata irresponsabilmente nel maggio del '15. La Grande guerra, anche per la sua inusitata dimensione globale e per la sua durata, vede all'opera una profluvie di "stenterelli" (per dirla con Gramsci), che inventano, mistificano, mentono e cantano in ogni cortile le loro scempiaggini, che nondimeno fanno presa sulle persone. Dunque il "giovane Gramsci" si dedica ad una sistematica opera di smascheramento della menzogna, con una costanza e un acume che rendono unica la sua figura nel panorama dell'intellettualità italiana: e non così frequente sulla scena europea.
In quest'attività intensissima, a partire dalla fine del '15, dopo quell'anno di autoesclusione a seguito di un articolo dell'ottobre '14, in cui aveva assunto una posizione apparentemente prossima a quella di Mussolini, in rotta con il Partito Socialista, Gramsci porta il significativo bagaglio acquisito nell'inconcluso, ma tutt'altro che inconcludente, "garzonato universitario", nell'Ateneo di Torino, all'insegna di una coniugazione tra milizia e scienza, in un clima di ricchezza scientifica e di fervore culturale che non temeva confronti sulla scena nazionale. Soprattutto contano, nella formazione gramsciana, gli incontri con eccezionali maestri e compagni, da Cosmo a Pastore, da Farinelli a Bartoli, ma anche da Tasca a Terracini, a Togliatti; con questi ultimi egli darà vita, a guerra archiviata, all'eccezionale avventura de L'Ordine Nuovo. Dall'esperienza universitaria, lo studente che non diventerà "dottore", trae non solo il meglio della "Scuola di Torino", fortemente impregnata di "cultura positiva", fatta di rigore, di attenzione al metodo, di filologia, di storicità. Più in generale, si può cogliere negli anni torinesi un incontro tra gli elementi propri del temperamento del giovane, e il genius loci piemontese: un incontro tra due tipi di serietà, di attenzione all'organizzazione e all'educazione, che, a partire da un certo momento, Gramsci vede in essere specialmente nella fabbrica. Il mondo della produzione, la cultura del "lavoro ben fatto", la "civiltà dei produttori", affascina questo "campagnolo" proveniente dall'isola immersa in un mondo che sembra escluso dal take off industriale, un giovane che reca in sé le stimmate di varie civiltà contadine, dall'Albania alla Calabria alla Campania, luoghi di origine delle famiglie paterna e materna.
In questo percorso formativo, tra università e socialismo, tra militanza di partito e "scuola" operaia, Gramsci, in quella sua assoluta, costante e suprema aspirazione alla verità, esalta altresì lo spirito critico, la vocazione antidogmatica, la vocazione a pensare con la propria testa. Ne è prova la lettura originale che egli dà della Rivoluzione bolscevica ("una rivoluzione contro il Capitale"), o della stessa figura di Marx, che non è, per lui, un "pastore" da seguire a guisa di gregge, non un'icona santa davanti alla quale genuflettersi, ma un pensatore e un rivoluzionario con cui fare i conti, e da cui trarre tutta la linfa vitale per nuove rivoluzioni. E Gramsci mette a fuoco una sua teoria rivoluzionaria, che si distanzia progressivamente dal modello leniniano: qui la base prima di una teoria e una pratica di comunismo critico, di cui L'Ordine Nuovo, all'interno di uno sforzo collettivo a livello internazionale di "revisione" critica, ma "antirevisionista" del marxismo, è un punto d'arrivo e di ripartenza.
Il presupposto della rivista è che non ci possa essere rivoluzione senza un'adeguata preparazione culturale, che significa sia lo sforzo di creazione di una cultura (politica, ma non soltanto) proletaria, ma altresì la necessità di acquisire tutto quanto di buono le classi avverse hanno prodotto - ed è tanto! Per Gramsci, come per il Marx del Manifesto, la borghesia ha svolto una funzione rivoluzionaria nella storia…
Sono queste le coordinate essenziali che determinano dunque il quadro entro il quale Gramsci definisce una propria via, "torinese", al socialismo e poi al comunismo. Un comunismo critico, liberamente marxiano, intriso del miglior liberalismo, per certi versi libertario, venato di utopismo, anche se contro l'utopia intesa come regressione sociale e fuga dal politico. Significativamente si intitola La città futura il numero unico pubblicato nel febbraio '17, e scritto interamente da Gramsci: la città futura è la civitas di liberi ed eguali da costruire fin da subito, che prelude alla teoria della "democrazia operaia" avviata un paio d'anni dopo con L'Ordine Nuovo. In questo comunismo ideale, deve esservi spazio per la cultura - vera "gioia" dello spirito - , giacchè il comunismo non intende bandire la bellezza, e per il quale l'arte deve essere libera e creativa.
In tal senso va spiegata l'interpretazione della Rivoluzione d'Ottobre, del bolscevismo e di Lenin. In tal senso, dev'essere considerato L'Ordine Nuovo, punto d'arrivo di un'elaborazione messa a fuoco negli anni della guerra, e punto di partenza dell'esperienza del consiliarismo, che mira a realizzare quella nuova democrazia, partendo dalla fabbrica e dagli operai, individui concreti, "uomini in carne ed ossa", ai quali Gramsci presta un'attenzione quasi esasperata, e dei quali cerca di interpretare i bisogni: questa fu la forza dell "ordinovismo", mentre la sua debolezza consistè in un torinocentrismo, che impedì di cogliere le differenze tra la "Pietrogrado d'Italia" e il resto del Paese.
Nel periodo torinese, in definitiva, Antonio Gramsci lavorò sul piano teorico e su quello pratico-organizzativo, per delineare un comunismo ideale, la cui essenza può essere vista nel porre la verità al di sopra della ragion di Stato o di Partito. Ben altra sarebbe stata la strada del "comunismo reale", ma esso nulla a che fare ha con il pensiero e l'opera di Gramsci, anche se, va detto, che tra la nascita del PCd'I e l'arresto (1926), ci fu una sua "bolscevizzazione", che tuttavia non solo non stravolse quella posizione, ma che, nella riflessione carceraria, fu in parte ridiscussa, all'insegna della profonda meditazione sulla sconfitta epocale del movimento operaio, e della teorizzazione delle nuove vie per una nuova possibile rivoluzione in Occidente, che non avrebbe potuto essere "l'assalto al Palazzo d'Inverno".
Chissà se proprio dall'elaborazione ideale di Gramsci, non si possa dire, con le cautele necessarie, che non soltanto un altro mondo, ma "un altro comunismo è possibile".

Liberazione 13.6.07
Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione
La valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata
ma non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico

di Gianluca Peciola
*

Grande e appassionata è stata la manifestazione contro Bush e le politiche di guerra del Governo Prodi. Come Riva Sinistra abbiamo scelto starci, insieme al network comunità in movimento, nonostante i rischi. Ecco il nodo, quali i rischi? Il rischio di essere schiacciati dal taglio pregiudizialmente e ideologicamente antigovernativo. Il rischio di essere coinvolti nella prima presunta o reale rappresentazione pubblica di un nuovo soggetto politico extraistituzionale dagli inconsapevoli o meno richiami "Bordighisti". Il rischio di apparire contrapposti ad un popolo che è parte del movimento e contrapposti a forze politiche che indubbiamente, pure nella loro scelta di Governo, sono dentro i movimenti. Il rischio di fallire, di trovarci impantanati in un corteo in cui il segno prevalente fosse quello dello scontro con Rifondazione (a vantaggio dell'operazione soggettivista di cui sopra) e dello scontro di piazza (cosa che immagino spaventasse anche gli altri partiti). Abbiamo affrontato questi rischi, innanzitutto d'istinto, avvertendo subito la parzialità della convocazione intorno ad un concerto. No, non si può, semplicemente non si può staccare le forme del dissenso in maniera così fredda dai suoi obiettivi. Bush merita una risposta forte, decisa, coinvolgente. Abbiamo deciso di assumere le parole d'ordine della convocazione, segnalando da subito l'indisponibilità a fare di quel corteo un momento di celebrazione di nuova soggettività minoritaria e al tempo stesso di farne il bersaglio per gli amanti dei "racconti della tensione". Radicale, pubblica, pacifica e non contrapposta a una piazza in cui non ci sono nemici. Abbiamo deciso di promuovere il corteo, fondamentalmente perché in quel percorso passava un messaggio politicamente corretto, è cioè un messaggio in cui si può riconoscere gran parte del popolo della Sinistra, non solo di quella radicale. Bush, le sue responsabilità sull'estensione della Guerra, il Governo Prodi e la sua declamata amicizia con gli Stati uniti e con Bush stesso, il nuovo pantano Afghanistan, con i soldati italiani a sostenere un Governo corrotto e una guerra che non vede fine. E poi, contenuto non secondario che ha aggregato quelle migliaia di persone, la delusione intorno agli obiettivi mancati dal Governo Prodi. Tutto quello che avrebbe dovuto mettere in agenda come prioritario e che è lontano dal realizzarsi. Tutto quello che farebbe un governo di Sinistra. Ecco l'altro punto, ecco un aspetto che può spiegare il successo della manifestazione. Un parte del popolo della Sinistra era in piazza. Non ha scelto Piazza del Popolo, ha scelto il corteo. Lo ha fatto anche perché abbiamo contribuito a rappresentare la manifestazione come pacifica, smontando il clima di tensione e dicendo che era la manifestazione di tutti e tutte, e perché ha visto nella piazza una risposta giusta al Governo, non necessariamente per chiederne la caduta, ma per mandargli un segnale di sfiducia e di opposizione. Già, esiste anche questa variante nel popolo della Sinistra, una variante che la lettura "Bordighista" della realtà non comprende. Un popolo che marcia fuori dai confini dei partiti, che continua anche a votarli, che si oppone al Governo ma non auspica la sua crisi, perchè sa che dietro l'angolo c'è una maggioranza che andrebbe da Forza Nuova a Forza Italia, passando per la Lega. Nel corteo ho visto un popolo che vuole il ritiro dei soldati dall'Afghanistan, che vede il governo Prodi subalterno ai piani strategici Statunitensi, che vuole vivere in un paese laico, che vuol sentire parlare di riforme vere e cioè case, reddito, pensioni, politiche di decrescita, un popolo che odia Bush e le sue stragi, un popolo che non vuol sentir parlare di equidistanza tra Israele e Palestina, ma vorrebbe almeno sentire parlare di due stati per due popoli e la condanna ferma di Israele e del suo espansionismo. C'era anche una "rappresentanza" de "i partiti sono tutti uguali". Una rappresentanza che poteva contenere i tifosi della caduta del Governo, ma anche persone che poi votano a Sinistra, per evitare Berlusconi. Bastava girare per il corteo. Gli spezzoni organizzati dai soggetti della sinistra radicale e anticapitalista (tra cui inserisco anche Riva sinistra e il Network) potevano contare intorno a circa 10.000 persone, il resto era composta da persone della Sinistra diffusa, molti di Rifondazione o di "area" rifondazione, ho visto perfino compagni vicini ai DS, ai verdi, compagni che al momento giusto votano la Sinistra radicale e che nel corteo quasi si giustificavano dicendo "là non ce la facevo proprio a stacce". Purtroppo la valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata. Mi è dispiaciuto sentire alcuni dirigenti di Rifondazione sottolineare la distanza dal corteo fino all'ultimo momento. Una sottolineatura che è diventata in alcuni articoli e dichiarazioni anche aggressiva nei toni, mettendo in difficoltà quanti tentavano di stabilire un ponte con il Sit-in. Leggo oggi con piacere la valutazione della Segreteria in merito, valutazione che per il fatto stesso di essere pubblica, costituisce un fatto democratico non scontato, anzi rilevante. Vi è poi, in relazione alla costruzione dell'appuntamento di piazza del Popolo, un altro dato che vorrei approfondire. Un dato più politico e riguarda l'ossatura su cui si vuole costruire il Cantiere. Piazza del Popolo manda un segnale anche in questa direzione. Senza anima non si costruisce nessun nuovo soggetto utile per il cambiamento. Faremmo lo stesso errore del Partito Democratico. Cosa vuol dire "in piazza con l'altra America"? Quale? A chi si voleva parlare, intorno a quale idea forte si è deciso di mobilitare, di far spostare le persone da Rovigo, Catania, Milano, Bari. Ricordate la manifestazione del quattro novembre? Contro la Precarietà, Reddito, lavoro, sicurezza, futuro, casa, unità; unità, si, anche unità della Sinistra se volete, ma una unità che si tesse con l'immaginario e con le sfide quotidiane dei soggetti reali. Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione e le parole d'ordine per cui vale la pena battersi. Non penso sia compito facile, soprattutto in questo frangente, soprattutto con il rischio di apparire come quelli che fanno cadere il Governo nemico di Berlusconi. A Roma stiamo tentando un percorso complesso, radicalità e progetto di competizione sul Governo della città. Partecipazione, autogestione, altraeconomia, antifascismo, battaglie civili e sociali, idea di città tra comunitarismo solidale, inclusione sociale e tensione etica intorno alla politica, contro la città dei lustrini che ammalia senza ridistribuire. Penso che ci siano tutte le condizioni per ragionare di un nuovo percorso per la sinistra radicale, partendo da questo binomio, immaginario di società altra e capacità di contrattualizzare intorno ad obiettivi sociali e civili, scontrandosi con la maggioranza quando necessario. Non è vero quello che dice D'Alema, non è finità la stagione dei soggetti politici di lotta e di Governo. Rifondazione Comunista e la Sinistra Europea, nelle sue diverse articolazioni, lo sono per il fatto stesso che sono nei movimenti e sono nel Governo; sono nei movimenti come erano con piena cittadinanza nel corteo di Sabato, animandolo per buona parte. Si sta nei movimenti forzando, contrattualizzando, praticando forme di autogoverno, si sta nel Governo per aprire spazi, dare visibilità a battaglie sociali e civili, strappare risultati di avanzamento economico e democratico. Si sta nel Governo anche, come Ferrero ci comunica spesso, spiegando i limiti del Governo stesso e dicendo che molti dei risultati dipendono dalla forza dei movimenti e dalla loro capacità egemonica. Si sta nel Governo, ancora, spiegando che l'alternativa non sarebbe la Francia di Sarkosy, ma l'Italia del nuovo patto autoritario e ultraconservatore.
Spero che la giornata di Sabato serva a tutti e tutte per fermarsi a riflettere sui nostri obiettivi immediati e strategici, su quale Sinistra per quale progetto di società. Non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico. Non credo come dice qualcuno che sabato abbia sancito una frattura tra Sinistra di Governo e di opposizione, il quadro è più complesso ed è sempre scorretto mettere vestiti politici intorno alle piazze. Sabato deve diventare materia collettiva di dibattito. Evitando trasformare questo dibattito in resa dei conti tra correnti di partito. Non servirebbe a nessuno, neanche a chi pensa di aver avuto ragione.
*Riva Sinistra

martedì 12 giugno 2007

Repubblica 12.6.07
Ora Bertinotti e Diliberto taglino i ponti col comunismo
di Massimo L. Salvadori


Serietà vorrebbe che in vista del nuovo soggetto politico essi tirassero le somme che è stato un sistema dispotico che ha oppresso le masse lavoratrici
Si assiste ad una crescente impopolarità del sistema politico che tocca in primis il governo: la caduta di Prodi non verrebbe perdonata dal popolo del centrosinistra

Si dice che, quando l´economia va bene o abbastanza bene in un paese, vada bene anche per la politica. In generale è così, ma non per l´Italia, patria di anomalie che non finiscono mai. Oggi è proprio il fatto che l´economia conosca una congiuntura favorevole, seppure in misura notevolmente inferiore alla media europea, ad alimentare una crescente impopolarità del sistema politico che tocca, come logico, in primo luogo la coalizione di governo. Dal versante degli industriali Luca di Montezemolo ha denunciato l´incapacità della politica di assicurare la guida necessaria allo sviluppo del paese. Dal versante opposto anche i sindacati esprimono la loro insoddisfazione. A ciò aggiungasi il terzo fronte dell´insoddisfazione nazionale: quello che viene dal popolo sovrano, il quale nell´ultima tornata elettorale ha manifestato in maniera inequivocabile il proprio profondo malcontento con un tasso molto alto di assenteismo, che ha colpito anzitutto i partiti di centrosinistra. Questa è la sostanza della nuova profonda crisi che sovrasta il paese e approfondisce il fossato tra la politica e la società. La quale, quando guarda in alto ai palazzi del potere e al sistema partitico nel suo insieme, vede che riforme importanti non decollano, rimangono oggetto di un dibattito infinito che non conclude. Ed allora l´animosità si rivolge contro la "casta". Infine, la gente non capisce a quali esiti possa pervenire la conclamata volontà di entrambe le coalizioni di dar luogo a più solidi soggetti in grado di darci la tanto a lungo vagheggiata stabilità. Si intende rinvigorire il bipolarismo oppure tornare al proporzionale e a governi dominati dal centro con il taglio delle "estreme"? Tutti gli interrogativi galleggiano nel magma di una politica trascinata in basso da pesi di piombo.
Il governo Prodi offre un bilancio non privo di significativi risultati positivi. Sennonché esso soffre della debolezza della sua maggioranza in Senato, delle tensioni su molti temi tra le sue componenti, di un insufficiente consenso; e sul suo capo pende la spada di Damocle di un governo istituzionale o di un precoce scioglimento delle Camere. Un evento catastrofico per tutti i partiti che compongono la coalizione, che seminerebbe germi di sbandamento se non addirittura di disgregazione nel suo bacino elettorale, il quale non perdonerebbe loro, a torto o a ragione, di aver aperto la strada persino ad un ritorno di Berlusconi. Qui cade il discorso sul Partito democratico e sulle forze che si collocano alla sua sinistra. Il primo è ormai, piaccia o non piaccia, un dato acquisito. Il dado lo ha tratto. Le seconde stanno cercando una loro via.
Veniamo, dunque, alla sinistra a sinistra del Partito democratico. Lo Sdi di Boselli ha messo in piedi una costituente socialista, che, in mancanza di un solido accordo con la nuova Sinistra Democratica, non ha molte possibilità di andare oltre il proprio cerchio iniziale; Bertinotti, Giordano e Diliberto mostrano segni evidenti di un proposito di rinnovamento dei loro partiti, e parlano – soprattutto i primi due – della necessità di dare a se stessi e alla sinistra italiana nuovi orizzonti e nuove basi ideologiche; Mussi e Angius hanno costituito la loro formazione in nome dell´esigenza di continuare a dare una rappresentanza, appunto di "sinistra", al mondo del lavoro e del mantenimento del legame con il Partito Socialista Europeo. E, a sinistra dello Sdi (troppe invero le sinistre a sinistra di qualcos´altro!) circola con insistenza la parola d´ordine dell´"unità" tra Sd, Rifondazione e Ci. Un buon obiettivo, in sé e per sé. Ma attenti. L´unità ha due gambe. Val bene il richiamo alla difesa degli interessi degli strati sociali più deboli e alla laicità dello Stato, ma lo vale altrettanto (ed è lo scoglio più arduo) il fondamento che si intende dare all´unità in termini di cultura politica, di inserimento nel contesto europeo. Si fa carico al Partito democratico di aver voluto unire riformismi eterogenei. Ma quando Bertinotti, Diliberto e Mussi si propongono "l´unità della sinistra" non rischiano di riprodurre un´analoga eterogeneità se i primi due non fanno chiarezza, una vera chiarezza sul rapporto con l´eredità comunista? Rifondazione e Ci hanno raccolto questa eredità, hanno tratto beneficio dalla sua residuale forza di trascinamento nella parte elettorale legata alla nostalgia di un mondo politico e ideologico pur caduto seminando rovine e senza prospettive: ora al loro interno, salvo minoranze di irriducibili, pare si avverta che questa forza è in rapido esaurimento. Ma non possono pensare di continuare a definirsi partiti comunisti, a dire: "siamo comunisti perché noi sì abbiamo a cuore le sorti degli strati sociali più deboli". Non è serio pretendere di restare comunisti su un simile presupposto. La serietà vorrebbe che essi tirassero le somme, una volta per tutte, dal fatto che il comunismo è stato due cose: nella pratica un movimento culminato in un sistema dispotico che ha oppresso in primo luogo le masse lavoratrici e non a caso è caduto senza che nessuno dei popoli posti sotto il suo dominio levasse un dito in sua difesa (una replica in grande del 1943 in Italia); nella teoria un progetto, in totale contrasto con la sua attuazione, di società senza Stato, senza danaro, resa omogenea da un totale collettivismo egualitario conseguente a uno sviluppo senza limiti delle forze produttive; un progetto che ha rappresentato non già la tappa finale dell´evoluzione dall´utopia alla scienza, ma l´ultima delle grandi utopie di millenarismo salvifico in contraddizione irresolvibile con qualsiasi possibile versione della modernità. E dunque, se vogliono dare un senso all´unità della sinistra, occorre che Bertinotti, Giordano e Diliberto, prima di ogni altra cosa, guardino finalmente in faccia la storia, avendo bene in mente che, come Marx diceva giustamente, i valori e le ideologie si giudicano non da quello che astrattamente propongono ma da ciò che concretamente riescono ad attuare. Il socialismo del XXI secolo che sta a cuore a Bertinotti, se mai prenderà corpo, non potrà che avere come premessa lo scioglimento del legame ombelicale con il comunismo sia come pratica storica sia come utopia incapace di incontrare la storia.
E sia inteso. Lo scioglimento del nodo che si richiede di compiere ai partiti che ufficialmente continuano a definirsi comunisti non risponde soltanto a un inderogabile bisogno di rinnovamento della cultura politica: esso costituisce la condizione perché i soggetti che mirano all´unità della sinistra possano garantirsi una vitalità che consenta loro di restare nell´area di governo. Una sinistra "unita" che persistesse troppo a lungo nelle sue irrisolte ambiguità non farebbe che favorire le forze le quali, sotto il segno del neocentrismo, mirano a tagliare fuori " le estreme" dall´area di governo, lasciando ad una piccola pattuglia raccolta intorno allo Sdi, magari partner minore di governo, il privilegio di testimoniare il valore della laicità e ad una pattuglia, probabilmente un poco più consistente ma relegata all´esterno, di presentarsi quale portavoce dell´"opposizione sociale". Avrebbe certo questa formazione unita la soddisfazione di continuare ad esistere in una nicchia, ma non renderebbe un servizio né al paese né alla sinistra.
Sinistra radicale contro D´Alema

Liberazione 12.6.07
Il partito di Sarkozy stravince
Sinistra ai minimi storici Attenti, la Francia è vicina...
di Ritanna Armeni


In Francia per la sinistra le elezioni sono andate male, anche peggio di quello che era ampiamente previsto. Dal primo turno delle legislative i partiti della "gauche" escono nell'insieme fortemente ridimensionati. Con il loro 38 per cento raggiungono il peggior risultato della quinta repubblica. Il partito comunista (4,29%), non avendo raggiunto i venti deputati, per la prima volta non riuscirà ad avere un gruppo parlamentare. I verdi (3,25%) rischiano di non essere presenti all'assemblea nazionale. Quanto ai socialisti privi o quasi di alleati, anche con il 25 per cento che è comunque meno di quanto sperato, costituiranno un' opposizione debole e largamente inefficace.
Nicolas Sarkozy ha fatto il pieno. Sull'onda delle presidenziali, avvantaggiato dalla legge elettorale, si avvia ad avere una maggioranza schiacciante che può, nella sostanza, decidere ciò che vuole. E' riuscito nell' operazione di inglobare la destra xenofoba di Jean Marie Le Pen ridotta a meno del cinque per cento, solo un terzo degli elettori di cinque anni fa. E ha vanificato completamente il tentativo di costruzione del centro di Raymond Bayrou che con il suo sette per cento avrà al massimo quattro eletti.
La destra in Francia ha quindi vinto, senza dubbi, senza incertezze, aiutata da un assenteismo anch'esso da record. Circa il quaranta per cento dei francesi non sono andati a votare. Ritenendo evidentemente che i giochi fossero già stati fatti hanno penalizzato di fatto la sinistra.
Questa sconfitta di grandi dimensioni ci riguarda direttamente. La Francia è vicina, più vicina di quanto possa apparire. Certo da noi c'è un governo di centro sinistra che in mezzo ad un mare di difficoltà riesce a sopravvivere. Certo da noi la sinistra non ha subito una sconfitta così chiara e drammatica. Anzi sia pure di poco ha sopravanzato una destra che era rimasta al governo per cinque anni. Ma la prospettiva e il giudizio cambiano se guardiamo alla società, al suo rapporto con il governo del paese e in generale con la politica; se esaminiamo i rapporti di forza reali, il grado di fiducia nella sinistra e la sua credibilità. Un esame doloroso, ma doveroso ci fa vedere quanto quel che è avvenuto in Francia ci riguardi più di quanto una superficiale analisi del dato politico istituzionale potrebbe farci pensare. Anche in Italia la sinistra appare socialmente sconfitta, anche in Italia non riesce a fare proposte efficaci. La sua analisi della globalizzazione, delle conseguenze di questa sul piano dell'organizzazione sociale e del lavoro nonché del vissuto dei singoli non si è ancora tradotta in efficaci proposte di cambiamento.
Quali sono i risultati e le proposte sul piano della precarizzazione? In che cosa il governo di centro sinistra ha cambiato e ha dato segno di voler cambiare quella condizione? E quello del precariato non è un problema come un altro perché riguarda le giovani generazioni e quindi l'idea di futuro del paese. Non è un caso che in Italia sia pure meno drammaticamente le elezioni amministrative abbiano mandato gli stessi segnali di disincanto e di sfiducia, abbiano mostrato una pressoché identica delusione. Sì, la Francia è davvero vicina, i problemi sono gli stessi. Se in Italia si vedono di meno non è per i meriti della sinistra, ma per i demeriti e le incapacità della destra o delle destre. In Italia non c'è un Nicolas Sarkozy capace di unificare nel decisionismo, in una idea della sicurezza che si identifica con il senso dello Stato, in una modernizzazione spietata, ma capace di raggiungere i suoi obiettivi e in una laicità mai messa neppure in discussione. La destra italiana è divisa, culturalmente scarsa, subalterna ad un cattolicesimo conservatore, priva oggi di una leadership e incapace dopo la sconfitta di Silvio Berlusconi di costruirne una nuova. E questo che oggi impedisce una precipitazione politica che renderebbe chiara la sua egemonia sociale. E' questo che da alla sinistra italiana la speranza di non finire come quella francese. Ma per quanto tempo durerà questa situazione? L'impressione è che i tempi siano diventati davvero stretti, che le possibilità di attesa siano scarse. Chi oggi chiede l'unità della sinistra non è animato dal burocratico desiderio di sommare alcuni gruppi dirigenti, ma dalla convinzione che quello sia il segnale (un primo e insufficiente segnale, ma pur sempre un segnale) che le cose non possano andare avanti senza una nuova presa di responsabilità e che anche la rifondazione culturale, che non può che avere tempi lunghi, abbia bisogno di un inizio immediato. Perché quel che è in gioco oggi non è solo la rifondazione della sinistra, ma la sua stessa esistenza. Francia docet.

Liberazione 12.6.07
La Segreteria del Prc: l'errore di due distinte manifestazioni


La segreteria nazionale del PRC ha effettuato la valutazione sulla giornata del 9 giugno, sulla situazione politica, sulle principali questioni aperte nel merito dello scontro sociale.
Si ribadiscono le ragioni della mobilitazione che sono rafforzate dal sostanziale fallimento del G8 di Rostock su temi fondamentali quali gli interventi necessari per affrontare i cambiamenti climatici e la ripresa della corsa al riarmo, come dimostra il tema dello scudo stellare.
In Italia si sono svolte due manifestazioni distinte, spezzando l'unità del movimento, condizione essenziale della sua capacità di espansione.
Questa divisione è stata un errore. Noi abbiamo lavorato affinché non si producesse. Ancora di più lavoreremo in futuro per impedire il riprodursi del medesimo meccanismo.
La scarsa partecipazione al sit in di Piazza del Popolo, non chiama solo in causa motivi di carattere organizzativo, su cui pure vogliamo riflettere. E' stato vissuto come una scelta separata e riduttiva da parte del popolo della pace. Un errore di valutazione politica di cui intendiamo assumerci pienamente la responsabilità.
Non cambia il nostro giudizio di fondo: è sbagliata l'idea di chi ci dice che dobbiamo scegliere il governo contro i movimenti, in nome di un processo di americanizzazione della politica che vogliamo combattere. E' subalterna al quadro politico dato una pratica dei movimenti che si fa autoreferenziale e rinuncia a incidere nelle scelte, fino a quelle di governo.
Siamo intensamente impegnati nel percorso unitario a sinistra e pensiamo che questo si incontra con una forte richiesta del popolo dell'Unione, in quanto si fonda su una piattaforma condivisa e che possiamo sintetizzare con l'espressione "risarcimento sociale".
Pensioni, utilizzo dell'extragettito, nuove politiche ambientali, rispetto delle comunità locali sono punti fondamentali su cui intendiamo incalzare per una offensiva di carattere politico generale.
Il risultato dei ballottaggi, nella contraddittorietà dei suoi dati, ci parla di una situazione ancora aperta a esiti differenti. Lo straordinario successo di Stefàno a Taranto ci incoraggia nella direzione della costruzione di un percorso che sposti a sinistra l'asse delle politiche e ritrovi, per questa via, una connessione con le aspirazioni al cambiamento di tanta parte del popolo italiano, in particolare il lavoro dipendente e chi oggi soffre di una condizione di precarietà che si fa ogni giorno più insopportabile.
La partecipazione al Pride di sabato prossimo rappresenta un impegno irrinunciabile per rilanciare un'offensiva anche di carattere culturale per l'estensione dei diritti sociali, collettivi e dei singoli e per contrastare una regressione dentro un neofondamentalismo distruttivo delle ragioni del riconoscimento delle differenze e del dialogo.
Il 16 e 17 giugno si svolgerà l'Assemblea Nazionale costitutiva della Sinistra Europea in Italia. Un appuntamento su cui investiamo strategicamente e che parla a tutta la sinistra politica, sociale e di movimento.

Repubblica 12.6.07
"Sbagli, è nel nostro Dna essere di lotta e di governo"
Mussi: non meritiamo questi schiaffi. Russo Spena: sbagliato non andare al corteo
Dopo il colloquio con "Repubblica" critiche al ministro degli Esteri
di Giovanna Casadi


ROMA - I "nodi" verranno al pettine giovedì. Prodi infatti ha convocato i capigruppo dell´Unione di Camera e Senato per un vertice sul Dpef con il ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Ma non sarà un banco di prova solo sulla politica economica, anche se questa rappresenterà il piatto forte del confronto fissato a Palazzo Chigi, alle 13,30: dopo i risultati delle amministrative diventerà una resa dei conti tra i riformisti e la sinistra radicale. Le tensioni si sono andate accumulando in queste settimane. Il vice premier Massimo D´Alema, all´indomani delle due manifestazioni anti-Bush, in un´intervista a Repubblica ha avvertito: «Parliamoci chiaro, il partito di lotta e di governo non è e non può più essere attuale». Fa il paio con la richiesta del presidente del Consiglio agli alleati di avere più senso di responsabilità.
Per i massimalisti dell´Unione, a cominciare da Rifondazione - alle prese con un calo di consensi e con la lacerazione delle due piazze del 9 giugno - va invece modificata la rotta del governo. Nella riunione della segreteria, il Prc ieri recita il "mea culpa": Franco Giordano assicura che il partito avrà come priorità il rapporto con la sua base e incalzerà il governo. «Andremo avanti uniti e l´obiettivo è una politica di risarcimento sociale». Giovanni Russo Spena, il capogruppo al Senato, fa autocritica: «È stato un errore, la gente non capiva perché non eravamo al corteo, dovevamo andare». E poi, l´uscita di D´Alema proprio non piace alla sinistra. «Massimo ha sparato fuori bersaglio», attacca Fabio Mussi, il ministro dell´Università, ex compagno di partito ora leader della Sinistra democratica. Non è vero che il ciclo dei partiti di lotta e di governo è finito «perché la gente non li capisce e non li apprezza più», parafrasa Mussi le parole di D´Alema. Al contrario: «I partiti sono sempre di lotta e di governo, devono governare e stare dentro la società, a contatto con la comunità e provare a rappresentarla. La sinistra non merita gli schiaffi di D´Alema». Reagiscono con fastidio anche Pdci («D´Alema offende milioni di elettori») e Verdi.
«Proprio nel dna della sinistra c´è di essere di lotta e di governo», replica il comunista Pino Sgobio. Né piace D´Alema in versione Partito democratico al capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli: «Vogliamo affrontare il discorso dell´instabilità nella coalizione di governo? Allora D´Alema rivolga un appello anche ai "suoi", al Pd che invece di portare stabilità ha creato fibrillazioni nella coalizione. Noi non siamo degli irresponsabili e ci stiamo interrogando sul perché buona parte dell´elettorato di centrosinistra ha perso fiducia in questo governo». Una riflessione che il segretario dei Ds, Piero Fassino ritiene necessaria. Ne vuole discutere con Prodi nei prossimi giorni, per ribadire che l´Unione ha ereditato «un Paese che era deragliato, ora dobbiamo fare di più e meglio quanto abbiamo impostato». Con i suoi collaboratori al Botteghino, il segretario si è sfogato: «Bisogna smetterla con la fantapolitica del dopo-Prodi». «Barra dritta e non spostare l´asse del governo a sinistra», ammonisce Antonello Soro, il coordinatore della Margherita.

Corriere della Sera 12.6.07
Lo studioso angloamericano denuncia misfatti e sopraffazioni commessi dai seguaci di ogni credo
Contro la religione
Hitchens: la minaccia delle fedi intolleranti è l'arma più pericolosa in mano ai fanatici
di Pierluigi Battista


Vi sentireste più tranquilli se sapeste che in una città sconosciuta, al calar delle tenebre, un folto gruppo di uomini che vi si avvicina ha in realtà appena lasciato un incontro di preghiera? Probabilmente la maggior parte dei lettori risponderebbe di sì: affronterebbe con più sollievo quegli uomini pii e miti che hanno appena onorato comunitariamente il Signore. Christopher Hitchens risponde invece che, limitandosi alle città che iniziano con la lettera «B», a Belfast, Beirut, Bombay, Belgrado, Betlemme e Bagdad, «mi sarei sentito immediatamente minacciato se avessi pensato che il gruppo che mi si avvicinava nel crepuscolo veniva da una cerimonia religiosa». Nel nome di Dio è storicamente e statisticamente più frequente che ci si ammazzi e ci si stermini reciprocamente anziché aiutarsi solidalmente a vicenda, scrive Hitchens. La credenza in un Dio solo di rado alimenta la pietas del credente che aiuta i malati, soccorre i bisognosi o affronta sorridente le gioie del creato. Leggete questo poderoso libro di Hitchens,
Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa (pubblicato da Einaudi), e avrete piuttosto il resoconto spaventoso delle sofferenze inflitte da tutte le religioni in millenni di storia: persecuzioni, massacri, ma anche devastanti sensi di colpa, frustrazioni immense, infanzie popolate da incubi, destini irrimediabilmente consegnati alla paura e all'ignoranza. Un libro che emana sentore di zolfo: facciano attenzione a questo pamphlet, che esce oggi in Italia, i difensori della fede, siano credenti oppure seguaci del motto crociano sull'impossibilità di non dirsi cristiani. Facciano attenzione perché il libro di Hitchens, essendo singolarmente intelligente, scritto con la maestria di un campione della polemica culturale, spiritoso, ferocemente sarcastico, è anche, per tutti questi motivi, straordinariamente insidioso per chi è impegnato nella guerra culturale contro il secolarismo. Non è uno dei soliti esercizi di «ateologia» che dilagano come una moda nell'editoria di tutto il mondo. È pervaso da una sincera ammirazione, e non dal disprezzo per le grandi opere della letteratura, della pittura e dell'architettura ispirate dalla religione. Non è l'incommestibile brodino lamentoso sulle «ingerenze» religiose nella vita civile recitato dal vittimismo laicista. Non è gravemente offensivo nei confronti dei credenti, come nei libri di Piergiorgio Odifreddi che stabiliscono fantasiose connessioni etimologiche tra il «cristiano» e il «cretino». Non è sbilanciato in un doppio standard di malafede, come capita a chi si scaglia con fervore contro il cristianesimo, ma viene paralizzato dal terrore autocensorio politicamente corretto ogni volta che deve affrontare (a proprio rischio e pericolo) le nefandezze dell'islamismo. Ma proprio perché immune da questi difetti appare ancor più persuasivo e sconvolgente l'assunto che ne regge l'argomentazione polemica: le religioni sono (tutte: dall'ebraismo al cristianesimo, dall'islamismo all'induismo, dal buddismo agli effluvi New Age) menzogne, menzogne che hanno fatto e continuano a fare molto male al mondo e alle singole persone.
Il libro di Hitchens ha ricevuto molti attacchi. L'attacco più serio è quello di chi contesta all'autore l'incapacità di spiegare come mai, nel mondo giudaico-cristiano, la scienza abbia avuto una spinta sconosciuta presso altre religioni, e si sia stabilita una separazione tra politica e religione, grazie alla democrazia. Ma il baricentro intellettuale ed emotivo di Hitchens è un altro: la dimostrazione che la crudeltà è sì connaturata all'uomo, ma «coloro che brandiscono un'autorizzazione celeste alla crudeltà sono contaminati dal male e rappresentano assai più di un pericolo». Da qui il tono irridente delle sue domande. Come si fa a onorare una religione in cui si loda «Abramo perché si mostrò disposto ad ascoltare le voci e si fece accompagnare dal figlio in una lunga e piuttosto folle e fosca camminata e il capriccio che alla fine fermò la sua mano assassina è definito come misericordia divina»? E come non considerare il colmo della più spregevole istigazione all'ipocrisia fanatizzata le terrificanti proibizioni in fatto di sesso contenute nel Corano, ma nella «disonesta promessa di un'eterna gozzoviglia nella vita ultraterrena»? E quante approssimazioni, incongruenze, assurdità nelle sacre scritture dei tre monoteismi, che datano l'origine del creato in un mondo di provinciali che non hanno idea di qualcosa che non sia «deserto o greggi o mandrie o esistenza nomadica», mentre la storia del cosmo inizia almeno «dodici miliardi di anni fa».
Oggi, scrive l'autore, «il meno istruito dei miei bambini sa molto di più sull'ordine naturale di qualsiasi fondatore di religione». Basta leggere la leggenda dell'arca di Noé per accorgersi che se l'autore fosse stato davvero Dio onnisciente, non si sarebbe dimenticato di inserire tra gli animali i dinosauri, di cui le genti della Bibbia ignoravano scientificamente l'esistenza, o i marsupiali perché l'Australia non compariva ancora in nessuna mappa. E invece come si spiega, scrive ancora Hitchens nella sua requisitoria antireligiosa, «l'incontestabile tendenza dell'Onnipotente a manifestarsi solo a individui illetterati, in aree desertiche del Medio Oriente che furono a lungo patria della venerazione di idoli e della superstizione»? E perché, vista la tabuizzazione tanto diffusa del maiale, «il cielo odia il prosciutto»? E se si immagina «un creatore infinitamente benigno e onnipotente che vi ha concepiti, vi ha poi fatti e modellati e introdotti in un mondo finalizzato a voi, e che ora vi sorveglia e si prende cura di voi anche quando dormite», allora perché i credenti sono mediamente tanto infelici?

Il paradosso della superstizione
Il Creatore è come il numero tredici

C'è un paradosso fondamentale nel cuore della religione. I tre grandi monoteismi insegnano agli uomini a considerarsi spregevoli, quali miserabili e colpevoli peccatori prostrati davanti a un dio irato e geloso, il quale, secondo racconti discrepanti, li avrebbe creati o dalla polvere e dal fango o da un grumo di sangue. Le varie posizioni della preghiera di solito imitano quella del servo impetrante di fronte a un monarca irritabile. Il messaggio è quello di sottomissione, gratitudine e timore perenni.
La vita è di per sé una povera cosa: un intervallo in cui prepararsi per l'aldilà o per la venuta — o seconda venuta — del messia.
D'altro canto, quasi a mo' di compensazione, la religione insegna agli individui a essere estremamente egocentrici e presuntuosi. Li assicura che dio si prende cura di loro singolarmente e proclama che l'universo è stato creato con essi, specificamente, in mente. Questo spiega l'espressione altezzosa sui volti di chi pratica la religione in maniera ostentata: vi prego di scusare la mia modestia e la mia umiltà, ma si dà il caso che io sia impegnato in una commissione per conto di dio.
Poiché gli esseri umani sono solipsistici per natura, tutte le forme di superstizione godono di un vantaggio naturale. Negli Stati Uniti, cerchiamo di perfezionare sempre più i nostri grattacieli
Christopher Hitchens
e i nostri jet (le due conquiste che gli assassini dell'11 settembre hanno fatto entrare in collisione) e poi, pateticamente, ci rifiutiamo di dare ai piani o alle file di sedili l'irrilevante numero tredici. So che Pitagora confutava l'astrologia con la semplice notazione che gemelli identici non hanno lo stesso futuro, e so anche che lo zodiaco fu definito molto prima della scoperta di parecchi pianeti del nostro sistema solare, e ovviamente capisco che non si può «dimostrare» il mio immediato o più lontano futuro senza che questi nuovi elementi alterino il risultato. Migliaia di persone consultano ogni giorno le loro «stelle» sui giornali e poi hanno attacchi cardiaci o incidenti stradali non predetti. In Minima moralia, Theodor Adorno stigmatizzava l'interesse per l'astrologia come un consumo per menti deboli. Ciononostante, una mattina diedi un'occhiata alla situazione che si delineava per l'Ariete, e come scorsi il pronostico — «un individuo del sesso opposto è interessato a voi e ve lo farà capire» — non riuscii a reprimere del tutto l'insorgere di una sciocca e sia pur minima eccitazione, che nel ricordo è sopravvissuta alla successiva delusione.
E perché nei dieci comandamenti di Mosé si vieta il semplice desiderio della casa del «vicino», «del suo servo, della sua serva, del suo bue, del suo asino, di sua moglie e di altri suoi beni» ma si avanzano capziose giustificazioni «per il traffico di esseri umani, per la pulizia etnica, per la schiavitù, per il prezzo della sposa, per il massacro indiscriminato» e si esalta la strage dei bimbi dell'Egitto o lo sterminio dei dissidenti nei quarant'anni di traversata nel deserto? Interrogativi, quelli di Hitchens, che esigono una risposta, non una scomunica. E non il silenzio imbarazzato, come accade troppo spesso.

Repubblica 12.6.07
Dopo la lettera di Bernardo Bertolucci a "Repubblica" su politica e cultura
di Paolo D'Agostini


Una sfida alta che chiede di favorire lo sviluppo culturale in modo deciso e prioritario
Bellocchio, Luchetti Rulli e Petraglia, Verdone e Rosi per un rilancio del nostro cinema
Luchetti: quello che più vogliamo è che si smetta di volare basso
Bellocchio: non è solo nostalgia per la libertà creativa degli anni Settanta

Bernardo Bertolucci chiama, nella lettera che ieri su Repubblica si appellava alla Politica perché sappia cogliere il valore della Cultura come investimento sul futuro del paese e delle nuove generazioni, e il cinema italiano risponde. Marco Bellocchio: «Sarebbe sbagliato intendere il richiamo di Bernardo alla libertà creativa degli anni 70 come nostalgia per un´età dell´oro passata. L´intelligente ovvietà, che non è un´ovvietà, l´uovo di colombo contenuto nell´appello di Bernardo come nei principi che ispirano il movimento di cui si fa espressione, è: più sono i film che si producono, anche a bassissimo costo, e più aumentano le possibilità che se ne facciano di belli. O anche: perché l´Italia non deve avere la sua Arté, perché la tv italiana non può unirsi a quelle francese, tedesca, spagnola per fare una grande televisione culturale europea? Nessuna bramosia da parte del cinema di sostituirsi alla politica. Di nuovo, però: questo nostro movimento ha successo ed è bello perché dice cose di buonsenso. Chiede che chi fa cultura conti di più nel decidere ciò che lo riguarda». Gli fa eco Daniele Luchetti, regista del Portaborse e del nuovissimo Mio fratello è figlio unico: «Con la sintesi poetica e le parole alte di cui è maestro, Bernardo ha espresso un sentimento generale. Da noi del cinema è partita una riscossa che chiede di estendersi a tutto il resto della cultura italiana. Quello che più di tutto vogliamo è che si esca dall´abitudine di volare basso. Del dire rassegnati "purtroppo le cose stanno così" e "purtroppo non c´è niente da fare". Liberarsi dal sentimento che contagia tanti anche nell´informazione: purtroppo. Non è vero: potrebbe non essere così».
Lo scrittore Stefano Rulli che con Sandro Petraglia è la firma di La meglio gioventù e dell´adattamento di Romanzo criminale, e che del movimento di cui Bertolucci si è fatto bandiera è uno dei cervelli, rilancia: «Nella lettera di Bertolucci non c´è soltanto polemica rivolta ai governi di centrodestra. Ma anche disagio per come quello attuale di centrosinistra si misura con la cultura. Anche questi politici sono in ritardo sull´esigenza di costruire nuovi modelli di rapporto tra politica e cultura. La nostra iniziativa sollecita il dialogo, a partire dall´esperienza del cinema ma con ambizioni di ampio coinvolgimento della cultura italiana nel suo insieme. Un principio di fondo è quello della libertà di espressione: il duopolio Rai-Mediaset produce fatalmente omologazione. Serve invece il contrario, il massimo di diversificazione. In tutto e anche nel cinema: dal colossal al piccolo film sperimentale. Preoccupa che il nostro modello centralizzato non offre alcuna possibilità in tal senso. I primi riscontri ci lasciano ancora nel dubbio sulla volontà di recepire i nostri segnali. Un nodo riguarda l´organismo che secondo noi e anche secondo il progetto di legge elaborato dal governo dovrà nascere sul modello del Centro Nazionale per il Cinema francese. Nel quale confluiranno importanti risorse e competenze di coordinamento generale delle risorse. Ma quale sarà la sua struttura di potere? È prevista la nostra presenza, chi indicherà i membri del consiglio di amministrazione?».
Tanto più generoso in quanto di interessi personali proprio non ne ha, lui che fa il comico ed è sostenuto dal mercato, Carlo Verdone si spende molto nella battaglia. «Io faccio un cinema che è l´ultimo ad aver diritto a finanziamenti pubblici, ma sono anche uno spettatore esigente. Perciò ho subito inviato un sms a Bernardo: "bellissimo e importante. Grazie". È giustificato l´allarme per l´impoverimento culturale che riguarda soprattutto le generazioni nuove. Come non cogliere l´anestesia prodotta dagli ultimi orribili 15-20 anni? Non allarmarsi a constatare che Novecento oggi non troverebbe probabilmente un bacino di utenza? La limitazione che incombe oscura sulla creatività ha costretto tutti a rintanarsi in piccoli racconti, perfino Bertolucci che era il regista dei grandi racconti. Io credo davvero che la cultura sia il termometro dello star bene di una società. Stiamo tutti attenti al prevalere di altri "valori", della slot machine televisiva che dispensa soldi a chi sa qual è la capitale della Norvegia (nei casi in cui venga richiesto un "grande impegno culturale"). Abbiamo e la politica ha enormi responsabilità. Ammiro l´uscita di Bernardo che può essere una grande base di partenza».
Al centro, insomma, una sfida alta. La grande ambizione di ridefinire i rapporti tra politica e cultura. L´idea che un governo moderno debba non "proteggere" o "assistere" ma favorire lo sviluppo culturale come investimento prioritario sul futuro. E se il movimento ha consegnato a Bertolucci e Bellocchio, splendidi 65enni già capofila del giovane cinema arrabbiato, il ruolo di testimonial e di padri nobili, a benedirli con trepida partecipazione c´è il maestro Francesco Rosi. Il quale tuona: «E come potrei non essere d´accordo? Proprio io che ho più volte ripetuto la necessità di un impegno culturale della televisione pubblica? Il suo dovere di trasmettere la storia del cinema italiano, ma anche del teatro, dal dopoguerra in poi? Io che ho proposto in una riunione a livello europeo e in un incontro con la Rai la creazione di un canale satellitare culturale europeo che promuova lo scambio e la conoscenza del patrimonio delle cinematografie europee? Altrimenti di quale Unione Europea parliamo? Io che da anni propongo che nelle scuole secondarie si introduca lo studio della storia del cinema, e ho proposto che i ragazzi del Mezzogiorno frequentino la scuola a tempo pieno, che cioè le scuole siano aperte anche di pomeriggio: che facciano scuola di solidarietà umana e di apprendimento del valore del lavoro. Mi chiedo quante volte bisogna ripetere cose che si vanno dicendo con speranza e ostinazione da anni. Ma bisogna insistere, con la politica, sull´indispensabilità di alimentare la pratica e il bisogno di cultura. Sembra tutto così scontato ma evidentemente non lo è».
Il movimento nominatosi con modestia dei Cento Autori - il suo manifesto "per una Costituente del cinema italiano" è stato sottoscritto da molti più che mille registi, sceneggiatori, attori, produttori, operatori, musicisti - ha già una sua piccola storia. Iniziato in sordina per iniziativa solitaria del regista Giuseppe Piccioni un anno fa sotto elezioni con una "lettera aperta all´Unione", poi rilanciato invocando una guida trasparente e competente per RaiCinema, si è consolidato nell´abitudine di incontrarsi il giovedì pomeriggio alla trasteverina Libreria del Cinema: che ha riportato in auge i tanto rimpianti quanto feroci confronti conviviali di un tempo nei caffè o nelle trattorie. E ha fatto il suo debutto pubblico con l´assemblea del 7 maggio "per una legge buona e giusta" al teatro Ambra Jovinelli di Roma: ospite d´onore il ministro della cultura Rutelli accompagnato dai primi firmatari della proposta di legge Franco e Colasio. Da lì si è impennato il flusso di vivaci scambi epistolari, sul Newsgroup appositamente creato in rete, tra i Paolo (Virzì?), i Daniele, le Francesche (Archibugi e/o Comencini), i Giuseppe e gli Umberto: con l´euforia dell´aver finalmente ritrovato un terreno "per parlarci e parlare di cinema" che autorizza a smetterla con la nostalgia per i gloriosi tempi andati. Ma soprattutto è andato avanti il certosino lavorio delle commissioni create per ciascun segmento in cui la materia si divide. Come i rapporti con Sky in relazione all´introduzione della "tassa di scopo". Quel prelievo che dovrà essere imposto a tutta la catena di sfruttamento del cinema perché nel cinema sia reinvestito.
Non sono mancate le reazioni negative. Pesanti. Come l´attacco di Renato Brunetta e di Libero al cinema "che ruba" i soldi pubblici e porta conformisticamente acqua alla sinistra. O l´altolà di Tullio Camiglieri di Sky alla "tassa di scopo" su Italia Oggi. Prossima scadenza il 14 i David di Donatello, massimo premio del cinema italiano. In attesa di decidere come "manifestare" davanti alle telecamere della diretta su RaiDue alle 18,20 (qualcosa di spettacolare?) è già pronto un appello al Presidente della Repubblica che verrà consegnato a Giorgio Napolitano al ricevimento che di consueto precede al Quirinale la premiazione. Il cinema italiano si rivolgerà al massimo rappresentante della comunità nazionale per sottoporre alla sua nota sensibilità alla cultura i danni provocati da una disinformazione che parla sempre di un cinema brutto e ladro: sintomo della malattia di un popolo che ha perso amore e rispetto per la propria cultura, per i propri artisti e quindi per se stesso.

Repubblica 12.6.07
Morto in Spagna nel '37
Chi uccise l'anarchico Berneri
di Massimo Novelli


Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1937, a Barcellona, veniva assassinato l´anarchico Camillo Berneri, intellettuale e uomo politico di valore, volontario in Spagna e amico di Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, dei fratelli Rosselli. Fin dalle prime ore seguite al ritrovamento del cadavere di Berneri e dell´amico Francesco Barbieri, i loro compagni accusarono i «sicari di Stalin» del duplice delitto, maturato negli scontri fra libertari e comunisti.
L´accusa si cementò nel tempo, anche se fu sempre respinta dai diretti interessati (nel 1950 Palmiro Togliatti si scagliò, dalle colonne di Rinascita, contro Gaetano Salvemini, colpevole di avere dato credito a «una delle più infamanti calunnie della libellistica anticomunista»). Ora, a distanza di settant´anni e a qualche settimana dal convegno dedicatogli ad Arezzo dall´Archivio Famiglia Berneri, dalle carte relative alla polizia politica fascista, esaminate presso l´Archivio Centrale dello Stato dallo storico Roberto Gremmo, si fa strada un´ipotesi che potrebbe scagionare i comunisti: ad ammazzare Berneri e Barbieri sarebbero stati degli agenti al soldo di Angel Galarza Gago, radicalsocialista, allora ministro degli Interni della Repubblica spagnola.
Secondo i rapporti inviati dagli infiltrati dell´Ovra tra gli antifascisti affluiti in Spagna, e ritrovati da Gremmo che sta ultimando un libro sulla vicenda (uscirà tra breve per le edizioni di Storia Ribelle), la tragica fine di Berneri avrebbe avuto come movente la sottrazione da parte di alcuni anarchici di un ingente quantità di denaro che Galarza aveva prelevato dai depositi della Banca di Spagna, «allorché la minaccia di Franco su Madrid andava precisandosi». Berneri e Barbieri potrebbero essere stati testimoni scomodi. Conclude Gremmo: «L´eliminazione dei due italiani fu con buona probabilità un "delitto fra amici", come peraltro aveva ammesso in un´occasione Giovanna Berneri, la vedova di Camillo. Un delitto, in sostanza, causato da una spietata caccia al tesoro, in cui i comunisti non ebbero verosimilmente alcun ruolo».

Repubblica 12.6.07
Da Platone a Nietzsche: la vertà dell'arte e il suotramonto
Il mostruoso dentro di noi
di Franco Rella


Realtà. Il mondo è ancora, anzi ancora di più, frammento e orrida casualità
Tensione. Le cose spinte al loro limite portano Fontana a cercare oltre la superficie del quadro

La sapienza della verità, scrive Platone nel Fedro, non può essere colta direttamente, ma essa, per così dire, traluce nella bellezza che è dunque «ciò che più è manifesto e più degno d´amore». Questa è la bellezza, attraverso i secoli e per tutto l´Occidente, propria dell´arte e non solo dell´arte: la via per giungere alla verità e, con la verità, all´essere. Flaubert si teneva disperatamente ancorato a questa idea, che era diventata per lui una fede. Baudelaire ha però già dichiarato il carattere duplice e ambiguo della bellezza, che Rimbaud definisce "amara" e mostruosa. Dostoevskij nei Fratelli Karamazov afferma che la bellezza è indefinibile e al contempo terribile, in quanto in essa stanno tutti i possibili: il bene e il male, la corruzione e la salvezza.
È a questo punto che si inaugura ciò che possiamo definire il "Moderno". La spinta decisiva verso ciò che è stato definito il "rovesciamento del platonismo" viene però da Nietzsche. Nietzsche libera l´arte da qualsiasi responsabilità nei confronti della bellezza e anche dell´"idea" di verità, investendo l´arte di una responsabilità ancora più grande. Tutto è casualità, tutto e frammento in un mondo in cui non c´è più Dio, vale dire un fondamento su cui basare le nostre certezze. E dunque, egli scrive nello Zarathustra, «il senso del mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità». Pochi anni dopo, nel 1888, Nietzsche va oltre e parla di una metafisica dell´arte, di una metafisica tragica dell´arte. L´arte diventa la via attraverso cui giungere agli interrogativi radicali dell´uomo, alle contraddizioni che lo abitano e lo costituiscono all´interno di un mondo in cui non c´è trascendenza in una verità ulteriore, ma in cui dobbiamo costruire le nostre verità parziali nel tessuto stesso di ciò che appare e che è soltanto nella sua apparenza.
L´arte senza bellezza, l´arte in luogo della filosofia. Nietzsche su questo fronte resiste anche a quella che Calasso, nel suo bellissimo saggio su Ecce homo, ha definito la "subdola ingiustizia" di Heidegger, che ha cercato di riconvertire Nietzsche in un filosofo, in un "dotto".
Tutta l´arte del ventesimo secolo si muove all´interno della responsabilità conoscitiva che gli è stata attribuita da Nietzsche. Il problema della verità diventa il problema del senso. Se nulla garantisce la verità di ciò che enuncio, di ciò a cui do forma, la responsabilità dell´enunciato, del senso delle forme che si producono ricadono interamente sul soggetto che enuncia, sul soggetto che produce delle forme. Questo è il significato della terribile conclusione de L´innominabile di Beckett: «bisogna dirle delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle fino a quando esse non mi trovino, (…) forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato (…) davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare e io continuerò».
Ci sono state certamente, nel ventesimo secolo, riemergenze del platonismo, per esempio in Kandinskij, ma nessuno, mi pare, ha messo in dubbio, il carattere sperimentale e conoscitivo dell´arte riproponendo una bellezza che la garantisca, e che sia dunque la manifestazione della verità.
Ma c´è una svolta, che matura intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, che apre una fase in cui oggi stiamo vivendo. Teorici e artisti, come afferma George Steiner, sembrano ballare ilari e felici intorno all´arca vuota del significato. È l´attacco che viene portato al soggetto e alla sua responsabilità conoscitiva. Il soggetto è per Foucault uno spazio vuoto che si riempie per l´incidenza dei dispostivi che agiscono su di lui da fuori, fino a diventare esso stesso un dispositivo. Deleuze va oltre trasformando il soggetto in un "corpo senza organi" che dilaga rizomaticamente. Il soggetto "neutro" che ne emerge è un soggetto neutralizzato, e dunque deresponsabilizzato non solo nei confronti della verità in senso platonico, ma anche della sua volontà di conoscere. È un soggetto, nella versione italiana di questo versante filosofico, in Gianni Vattimo, debole. È il soggetto di un pensiero debole.
La drammatica tensione attraverso le cose spinte alla loro oltranza che porta Fontana a cercare oltre la superficie del quadro; il gesto con cui Rothko cala sulla finestra del quadro una inattraversabile cortina opaca, segnando una sorta di tragico "non oltre", sembrano essersi per lo più dissolti. Assistiamo a una sovradeterminazione estetica, o al terribile e all´orrendo presentati senza alcun pathos, o ancora a un ricorso all´allegoria che è di fatto la fine del potere simbolico dell´arte. Il senso di queste operazioni non sta nelle opere stesse, ma nel luogo che le accoglie e che le consacra come arte. Sappiamo tutti che se il direttore del Beaubourg apre le porte ai giocolieri che stazionano nel cortile antistante al museo questi diventano immediatamente performers. Sappiamo che qualsiasi cosa varchi quella porta è arte. Sappiamo che questo è il potere incontestato del "sistema dell´arte", che prescinde da bellezza e da conoscenza.
Il mondo è ancora, anzi ancor più, frammento e orrida casualità. Ancora e ancor più grande è dunque la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità. L´arte, lo ha detto Adorno, è apparenza, ma questa apparenza riceve il suo inaggirabile carattere di necessità da ciò che è privo di apparenza, dal senso nascosto e enigmatico del mondo. È in questa apparenza che si esprime la tensione metafisica al senso, e persino alla verità. È sul filo di questa tensione che riappare sulla scena persino il profilo di Platone.

Agi 12.6.07
SINISTRA: CURZI, BRAVO FAUSTO SPERO RIESCA NUOVO SOCIALISMO

(AGI) - Roma, 12 giu. - Sto con Fausto, spero gli riesca la sfida di
costruire 'la nuova sinistra' che non puo' farsi sui vecchi e logori schemi del
passato, ma sul 'nuovo socialismo' che marci su due gambe, quel non sappiamo
dell'uomo e della donna e quel che sappiamo dello sfruttamento e
dell'oppressione della societa'. A parlare e' il 77enne membro del CdA della
Rai, Sandro Curzi che, dal '98 al 2005, ha diretto 'Liberazione', il quotidiano
del Prc e "sono stati sette anni stupendi, di straordinaria, totale e piena
liberta': la fortuna di non aver avuto un padrone-editore", appunto l'allora
segretario politico del Prc, Bertinotti. "Ho stima di Fausto, apprezzo la sua
testardaggine - aggiunge Curzi - di perseguire e cercare sempre strade nuove,
lo dimostra l'incontro con l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, mettendo in
soffitta i vecchi e logori schemi della sinistra: cio' rientra nella sua
formazione, fortemente libertaria e anticonformista che fu della sinistra
socialista". Di Riccardo Lombardi: "un politico che accompagnava l'idea di
socialismo con quella di liberta' come anche Gramsci - precisa Curzi - fu il
protagonista negli anni '60 del primo centro-sinistra, la grande stagione delle
vere riforme fatte in Italia: la nazionalizzazione dell'energia elettrice, la
scuola media unica, lo statuto dei lavoratori". Allora Curzi era 'comunista' e
lavorava a 'l'Unita'' "ma di Lombardi subivo e non ero il solo il fascino: una
figura straordinaria di politico e di uomo". Su quel filone si e' formato
Bertinotti la cui iniziativa di incontrare per la terza volta in tre anni
l'Analisi Collettiva di Fagioli ha suscitato reazioni piu' positive che
negative segno del cambiamento dei tempi. "E' stato un incontro che sono andato
a seguire da curioso - spiega - da vecchio cronista: da una parte la voglia di
capire quel fenomeno particolarissimo per cui tante persone seguono Fagioli,
dall'altra per un po' di preoccupazione: come puo' Fausto andare di mattina
presto, mi sono detto, ad un incontro in un luogo come l'Auditorium, anche
conoscendo la sua audacia? Poi la grande sorpresa e' stata di vedere tutta
quella gente entrare prima, riempire la sala e riservare poi a Fausto
un'accoglienza fantastica: in sala non c'erano vuoti e poi sapere che se ne era
riempita un'altra vicina! Tanti giovani e tante giovani: raramente - nota
Curzi - si vedono cose del genere: poi la compostezza, l'ascolto in silenzio,
le domande per tre ore senza una pausa, una battuta d'arresto, un calo di
attenzione e tensione". Insomma, un incontro culturale e politico di alto
livello? "Indubbiamente - risponde - il livello culturale e' straordinario: e
anche il livello della comunicazione mi ha molto colpito e ne ho parlato con
Fausto in relazione al rapporto tra politica e cittadini". La presenza di tanti
giovani e' un altro elemento di riflessione. "Sono molto piu' portati a
discutere di politica, storia, filosofia, che non dei problemi spiccioli del
quotidiano - osserva - la loro voglia di ricerca, conoscenza, sapere e'
stupefacente". Dunque, quella di Bertinotti, come l'ha chiamata Salvatore
Bonadonna, ex-sindacalista Cgil, ora senatore del Prc, e' stata la nuova 'mossa
del cavallo' che colto di sorpresa tutti, amici e avversari? "Chi vuol cambiare
le cose per fare una societa' socialista, non puo' restare attaccato ai vecchi
logori schemi del passato ma provare e riprovare testardamente e
continuamente", risponde Curzi. (AGI) Pat