giovedì 14 giugno 2007

l’Unità 14.6.07
Curzi: «Rifondazione in affanno, ma io dico che serve più piazza»
«La vecchia formula di “lotta e di governo” funziona. Vedo in prospettiva un partito per la sinistra, con dentro anche Boselli»
di Wanda Marra


PIÙ PIAZZA, subito la costruzione della sinistra-sinistra, e largo ai giovani nel partito. Si potrebbe sintetizzare così la “ricetta” di Sandro Curzi, Consigliere d’Amministrazione Rai, ex Direttore di Liberazione, per reagire al momento difficile di Rifondazione.
La crisi di Rifondazione sembra un dato incontrovertibile. È d’accordo?
«Per il partito è un momento molto brutto. Ciò accade perché Rc ha una dislocazione d’avanguardia nella sinistra italiana e questa non sta bene».
I dati delle amministrative puniscono tutta la sinistra, ma molto anche Rc. Perché?
«C’è una nostra incapacità di radicamento nel territorio. Non a caso l’unico risultato davvero positivo è stato quello di Taranto, dove Rc si è contrapposta insieme ad altri ad una parte del centrosinistra. Una scelta sofferta, ma che è caduta su una personalità radicata nel territorio. Ma a proposito di questo discorso, ho visto a Roma un manifesto di una Festa dell’Unità che parlava di “Democratic party”. Ma che cos’è il “Democratic Party?».
Tornando a Rc. Forse l’idea di un partito di lotta e di governo ha fatto il suo tempo, come afferma anche D’Alema?
«Non vedo come un partito non possa essere completamente legato alla società e contemporaneamente alle istituzioni. La prima volta in cui si parlò per il Pci di Togliatti di partito di lotta e di governo, il Pci stava al governo. E negli stessi anni in cui Togliatti era Ministro della Giustizia, noi organizzavamo scioperi alla rovescia, occupazioni e così via. Nella fase più recente della nostra storia, Berlinguer seppe far funzionare il partito come di lotta e di governo. Ad esempio nella lotta al terrorismo eravamo di lotta o di governo?».
Magari allora era una formula che funzionava. Ma a giudicare da quel che succede ora, come il flop della manifestazione di sabato scorso, sembrerebbe che non funzioni più....
«Oggi non funziona se noi non sappiamo comunicare. Io in realtà la scelta di sabato non l’ho capita. E infatti non c’ero. Perché fare un presidio e un corteo? Rc sta facendo una giusta autocritica, e me la faccio anch’io. Sarebbe stato meglio fare un grande corteo, in cui eravamo tutti. Anche i Ds, anche i Dl. Bertinotti giustamente richiamava l’importanza dell’esperienza della Perugia-Assisi. Quella poteva nascere come una grande manifestazione, isolando ovviamente i teppisti».
D’Alema ha sostenuto che l’opposizione alla politica di Bush la fa già il governo italiano, e quindi non c’era bisogno di una manifestazione...
«Una manifestazione come l’ho descritta io, sarebbe stata addirittura d’appoggio alla politica di D’Alema».
Ma non concorda sul fatto che c’è un problema con la piazza? Gli ultimi fischi li ha presi Giordano martedì sera a Firenze dai centri sociali.
«C’è un problema con la piazza, come c’è stato tante volte nel passato. Ma non si abbandonano le piazze, le strade. Anzi, serve più piazza, e più comizi».
Molti, anche dentro Rifondazione, hanno criticato la decisione di Bertinotti di fare il Presidente della Camera. È d’accordo?
«No. Si tratta di una critica sbagliata. Bertinotti ha fatto una scelta importante, proprio nel segno di un partito di lotta e di governo. E ha dimostrato un grande rispetto delle istituzioni. Sta facendo un lavoro egregio,all’interno di una situazione ingarbugliata e imbarbatita».
Forse, allora, è stata una scelta difficile per Rc...
«Certamente è stata una scelta molto sofferta per Rifondazione. Sento tuttora la mancanza di un leader forte come Bertinotti nella costruzione di questa sinistra che dobbiamo fare».
I vertici del partito non sono all’altezza?
«Non voglio dare la pagella agli attuali dirigenti. Ho grande stima e amicizia per Giordano. Ma certo la capacità di un compagno come Bertinotti c’era invidiata un po’ da tutti. Sempre nella politica ci sono quelli che sono un passo avanti.Inviterei tutti i compagni di Rc a essere umili. Ci sono giovani leader che devono venire avanti. Tutti dobbiamo saper stare al nostro posto, senza mettere i galloni».
Si può uscire da questa empasse?
«Se cresce la politica in Italia. C’è una crisi generale del sistema politico, Rc per prima cosa deve mettersi in testa alla costruzione della nuova forza che deve raggruppare la sinistra-sinistra».
A proposito di questo. Crede che si possa ancora parlare di comunismo?
«Dipende da cosa si intende con questa definizione».
Vede un partito nel futuro della sinistra-sinistra?
«Vedo la costruzione di una forza nuova che pian piano diventa partito. E ci vedo dentro anche Boselli. Nel Pci del 34% non c’erano contrasti o differenze? Il percorso deve essere il più rapido possibile».

Repubblica 14.6.07
A Firenze interrotto un dibattito. Il segretario: ma la platea ha fischiato i disturbatori
Scintille tra Prc e no-global Giordano contestato alla festa
Domenica, per la prima volta da quando è alla Camera, Bertinotti parlerà ai militanti


ROMA - Gli hanno gridato: «Giordano fa l´amerikano». Un gruppetto di una quarantina di giovani dei centri sociali e no-global hanno contestato martedì sera il segretario di Rifondazione e l´appoggio alle politiche internazionali del governo Prodi. Sul palco della festa nazionale di Liberazione a Firenze era in corso un dibattito con il ministro Fabio Mussi e Gianni Rinaldini della Fiom. Giordano non ha reagito mentre per una decina di minuti tre contestatori hanno cercato di issare uno striscione, criticato Rifondazione, i Ds, il Pd e denunciato gli scontri con la polizia durante il corteo anti-Bush. Ma dalla platea sono partiti cori contro i contestatori: «Scemi, scemi, vergogna... ».
Giordano non solo non ne ha fatto un dramma ma ha sottolineato la «civiltà» di quel migliaio di persone in platea: «Mi pare abbiano dato una splendida e civile risposta». Per lui l´episodio non è affatto da inserire nel file "crisi del partito". In Prc tuttavia i malumori ci sono, e forti. Sono stati affrontati durante l´ultima riunione della segreteria, e di nuovo ieri da Giordano con i capigruppo di Camera e Senato Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena, dopo la riunione di tutta la sinistra radicale preparatoria all´incontro di stamane a Palazzo Chigi sul Dpef con Prodi e il ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Nessun ultimatum - hanno detto alla fine della riunione i presidenti dei deputati e dei senatori - ma il governo deve tornare al programma dell´Unione, o oppure vuol dire che non è affezionato alla sua maggioranza e ai cittadini che l´hanno votato». In pratica, una ricontrattazione che vede in primo piano le questioni economiche. La sinistra massimalista questa volta conta di «lottare unita». «La sinistra sia unita e radicale - esorta Pietro Folena del Prc in una lettera aperta pubblicata sul manifesto - . Non può essere ipergoverantiva e quindi digerire ogni rospo in nome della stabilità. La sinistra deve essere di lotta e di governo senza seguire i pessimi esempi venuti dalla maggioranza dei Ds».
E comunque, il popolo di Rifondazione aspetta le parole del "lider maximo" Fausto Bertinotti, che per la prima volta da quando è diventato presidente della Camera interverrà a un appuntamento politico, l´assemblea della Sinistra europea, sabato e domenica. Ma è Sinistra europea, la creatura politica di Bertinotti, la strategia a più ampio respiro che fu l´ultimo suo atto da segretario di Rifondazione. Anche se ci sono aree di sofferenza, il partito è in modo compatto sulla linea che Bertinotti ha tracciato nel congresso di Venezia del 2005. Sabato mattina, la giornata è dedicata al futuro della sinistra e ci saranno anche Oliviero Diliberto, leader del Pdci, e Titti Di Salvo, capogruppo di Sinistra democratica a Montecitorio. Non ci saranno invece alcuni "dissidenti" di Rifondazione, come Salvatore Cannavò che ha già parlato di una mini-scissione della sua corrente "Sinistra critica", e comunque ritiene di essere «un ospite non gradito». Nella due giorni confronto sui temi e le scelte politiche concrete, inclusa la possibilità di un soggetto unico della sinistra e sulla sua collocazione in Europa.
(g. c.)

Repubblica 14.6.07
Un congresso a Firenze sull’uso dello humor nella cura
Se il terapeuta è divertente
L’ironia come antidoto al dolore


Una folla di terapeuti delle principali scuole italiane e europee si riunisce sul tema dell´umorismo nella clinica. Serissimamente, s´intende, con fior di relazioni e seminari, come d´obbligo in ogni convegno internazionale che si rispetti - e quindi anche in questo, in programma da oggi a domenica nelle sale del Palazzo dei Congressi di Firenze. "Umorismo e altre strategie per sopravvivere alle crisi emozionali": bel tema, in sé spiritoso, solo apparentemente laterale e invece molto importante. E anche impegnativo, perché umorismo sembra una paroletta ma tende a inglobare l´universo intero della comicità, fatto di mille sfaccettature e sfumature, dalla barzelletta al nonsense, dalla battuta innocua alla derisione, dall´ironia che è sempre lieve al sarcasmo che quasi sempre è aggressivo.
L´idea intanto è di due noti terapeuti della famiglia - Maurizio Andolfi e Camillo Loriedo - interessati ad approfondire una questione ancora irrisolta, seppure ha attraversato la storia della psicologia, e della psicoanalisi più in particolare. È degli albori del secolo scorso (1905) Il motto di spirito e la sua relazione con l´inconscio di Freud che non esitava a definire l´umorismo - aspetto delicato e impalpabile della cultura umana - come «il trionfo del principio del piacere», un´irriducibile sfida alle ragioni ferree della realtà. Per il maestro viennese, non c´è solo un vistoso elemento liberatorio nell´esercizio dello humour, ma «un che di grandioso e di nobilitante».
Ancora, giusto per fare un paio di esempi: molto più tardi, alla fine degli anni Ottanta, usciva da Cortina un libro magistrale come L´ironia attraverso la psicoanalisi di Giorgio Sacerdoti e più di recente un bel saggio di Mario Farnè significativamente intitolato Guarir dal ridere (Bollati Boringhieri). E comunque non è solo il mondo variegato della psicologia a interrogarsi sul senso profondo del "fare spirito", un terreno in cui le incursioni di altri saperi sono state molto colte - dalla filosofia (Il riso di Bergson) alla letteratura (L´umorismo di Pirandello).
«Ma quello che a noi interessa è l´uso dello humour nella relazione terapeutica, esplorarne il significato inconscio e le eventuali conseguenze cliniche», precisa Patrizia Moselli, allieva di Alexander Lowen, trainer internazionale di bioenergetica, presidente - per i prossimi due anni - della Fiap, la Federazione italiana di associazioni di psicoterapia. «L´umorismo è un´esperienza "alta" nel rapporto particolarissimo tra terapeuta e paziente, rappresenta uno stato di grazia e di profonda intimità spirituale, consente uno sguardo "altro" sugli aspetti che vengono via via affrontati, anche i più drammatici. Quando emerge il lato paradossale, "buffo" delle cose, chi è colpito dal dolore può distanziarsene, rintracciare un punto di vista diverso, avviare un processo di trasformazione emotiva, prima ancora che puramente mentale. Quanto al terapeuta, sempre che sia dotato di senso dell´umorismo, deve saperlo comunque ben dosare: senza censure ma anche senza inutili esibizioni, evitando con cura che il paziente possa sentirsi deriso».
Tra i protagonisti del congresso fiorentino c´è Patch Adams, l´inventore della "clownterapia" diffusa soprattutto in campo pediatrico, nella cura dei bambini disturbati. Bizzarro medico americano reso celebre da un film del ‘98 interpretato da Robin Williams, va in giro per il mondo proclamando che «l´antidoto a tutti i mali è l´umorismo» - con un qualche eccesso di enfasi o di ottimismo, non essendo francamente credibile che sia l´allegria alla base dei trattamenti terapeutici, tanto più se in gioco non c´è solo una crisi esistenziale ma "qualcosa" che meno si presta all´ilarità.
È vero però che non sempre in terapia ci si dispera e si piange, a volte effettivamente si sorride e si ride. L´immagine caricaturale dell´analista arcigno e severissimo con il paziente - anzi, con il suo caso clinico - appartiene ormai al passato, magari al cinema più datato di Woody Allen: oggi nessun terapeuta di nessuna scuola si presenta come una mummia silenziosa ed enigmatica. Tende invece all´empatia, al coinvolgimento nella relazione, seppure con grande cautela (se è bravo, naturalmente).
Quello che può diventare interessante è l´allusione implicita nella battuta umoristica, e dunque la possibilità di "metaforizzare" la sofferenza, la finestra che può aprirsi su un malessere spesso preso narcisisticamente troppo sul serio - e quasi sempre quando il malessere non è effettivamente serio. In altre parole, se vivere è faticoso per tutti (e per molti assai più che per pochi), la leggerezza dell´autoironia è una strada maestra da percorrere con abilità, aiuta a smantellare certe rigidità decisamente nevrotiche, quella pesantezza - in fondo anche frivola e superficiale - di considerare sé stessi e i propri crucci come l´ombelico del mondo.

Repubblica Firenze 14.6.07
Esperti a Siena: siamo ricchi e in carriera, ma tristi
Società del benessere, l’infelicità trionfa
Soli e stressati, così il modello Usa si estende anche all'Italia
di Laura Montanari


Certosa di Pontignano, a convegno esperti da tutto il mondo
Il reddito pro-capite aumenta così come la "povertà relazionale"
Negli Stati Uniti le donne lavorano oltre due mesi in più rispetto al 1975

Se c´è una formula che porta alla felicità, non pensate di trovarla chiusa dentro un ufficio, negli scatti di carriera, nelle spericolate arrampicate sociali o in un portafoglio pieno. Stareste inseguendo un miraggio. Siamo più ricchi, più soli, benestanti e meno contenti dicono le medie matematiche americane succhiate dalla prima banca dati sui fenomeni socio-economici, la General Social Survey. Grandi televisori, computer, dvd, home video, case ben equipaggiate, diventate isole, fortezze, tane per le nostre solitudini: possiamo comprare molte cose, non quello che ci serve per stare meglio. E´ il tema di uno degli studi che saranno presentati, cifre alla mano, nel convegno che si apre oggi pomeriggio alla Certosa di Pontignano (Siena) e al quale partecipano economisti, sociologi e psicologi provenienti da diverse università del mondo. «Policies for happiness», cioè le politiche per la felicità: è l´ambizioso titolo di una tre giorni che chiama a raccolta gli esperti che si occupano delle motivazioni del benessere individuale e delle politiche più adatte a sostenerlo, cioè quelle riforme economiche, sociali, istituzionali e culturali capaci di generare la soddisfazione dell´individuo.
«Gli americani negli ultimi trent´anni sono diventati più infelici» spiega Stefano Bartolini, economista dell´università di Siena che ha realizzato la ricerca fra gli altri, assieme a Ennio Bilancini (Siena) e Maurizio Pugno (Cassino). Il declino della curva della felicità è il risultato di due forze contrapposte: una positiva, l´aumento del reddito pro-capite, l´altra negativa, la «povertà relazionale». Il saldo finale è a favore di quest´ultima e il fenomeno non è soltanto americano, lo si può estendere ai Paesi occidentali e industrializzati. Il modello è il medesimo. «La gente è più sola nel privato, non sul lavoro - prosegue il professor Bartolini - in trent´anni, negli Usa, il reddito pro-capite è lievitato, si guadagna di più e si lavora per più tempo: le donne per esempio, in media, due mesi e mezzo all´anno in più rispetto al 1975». Finita la giornata, impiegata fuori o dentro un ufficio, nelle mansioni più semplici o in quelle di vertice, ci restano addosso le pressioni, le incertezze: la paura di essere licenziati, di non essere adeguati, di non far carriera, paure trasversali rispetto alle occupazioni e alla busta paga. Quando poi apriamo la porta di casa e ci buttiamo in un mondo privato, lo troviamo magari poco popolato, freddo, desolato come certi orizzonti di Second Life. «Per comprendere l´importanza delle relazioni rispetto a quella del reddito nel determinare la felicità - racconta l´economista senese - prendiamo ad esempio, gli indicatori del clima sociale, misurando il valore monetario della onestà e solidarietà altrui. Gli individui che percepiscono gli altri come in genere onesti e solidali tendono ad essere più felici di quelli che percepiscono il contrario, cioè disonestà e mancanza di solidarietà. Per questi ultimi il reddito familiare addizionale necessario per raggiungere la felicità dei primi è 67.000 dollari annui (25.000 dollari è il valore della solidarietà e 42.000 dollari quello della onestà)». Dunque non è vero che la felicità non ha un costo, un codice a barre, in realtà qualcosa si può calcolare. «In altre parole - riprende il professor Bartolini - un individuo che percepisce di vivere tra gente disonesta e poco solidale necessita di 67.000 dollari annui in più di uno che percepisce il contrario, per raggiungere lo stesso livello di felicità. Ancora più impressionante è il valore economico della solitudine. Un individuo privo di contatti con amici e vicini dovrebbe disporre di 320.000 dollari annui in più rispetto a un altro che invece frequenta amici e vicini, per raggiungere il suo stesso livello di felicità». Sono cifre consistenti che portano alla conclusione che «l´economia americana avrebbe dovuto crescere a ritmi ben più elevati di quelli registrati perché l´aumento della povertà relazionale che essa ha sperimentato, non diminuisce la felicità dell´individuo». E´ chiaro che siamo davanti a dati soggettivi, la percezione della solitudine cambia da persona a persona, ma i grandi numeri, i campioni molto estesi, finiscono poi col tracciare un quadro capace di mettere a fuoco una tendenza: «La nostra ipotesi è che il declino della felicità e l´aumento degli orari di lavoro siano spiegate dal deterioramento delle relazioni, dalle difficoltà comunicative: se resto in ufficio mi sento utile, guadagno, sono impegnato e non avverto quanto sono solo». Tra gli indicatori della General Social Survey che segnalano la povertà relazionale, c´è anche il tempo che passiamo davanti alla tv.
Al convegno internazionale alla Certosa di Pontignano che si chiuderà il 17, interverranno fra gli altri Samuel Bowles, che insegna all´università di Siena e al Santa Fe Institute, Bruno Frey, dell´università di Zurigo, Andrew Clark dell´Ecole Normale Supérieure di Parigi e molti altri. Tutto il programma degli interventi su www.unisi.it

Corriere della Sera 14.6.07
Parla Julien Ries, massimo esperto di riti e simboli, mentre esce il suo libro dedicato a religione e politica
Democrazia senza Sacro
«Escludere i miti è un'illusione laica E ogni partito resta una Chiesa
di Armando Torno


Julien Ries è uno dei più autorevoli antropologi del sacro del nostro tempo. Come nessun altro ha studiato le connessioni tra religione e politica, tra simboli e realtà. Incontrarlo — ora che la Jaca Book ha avviato l'Opera omnia in 11 grossi tomi — significa chiedersi quali scenari si apriranno nel terzo millennio. Il lungo magistero all'Università di Lovanio e il servizio sacerdotale, che mai ha tralasciato, hanno reso i suoi discorsi essenziali. Parla come chi ha conosciuto troppe cose, pesando frasi e sillabe, senza preoccuparsi di essere dolce o riverente con le idee che consentono ai salotti televisivi di tirare avanti. Comincia: «Il sacro è come l'amore, la politica invece assomiglia al cibo. Ma senza il sacro sarebbe difficile pensare o capire le ragioni ultime della politica. Gli osservatori acuti sanno che ogni intuizione politica è in parte nata da un'idea teologica». E ancora: «Ogni forma politica ha bisogno di sacro — dimensione dell'uomo che entra continuamente nel gioco della storia — o sparisce. E chi tende a escluderlo si illude, perché lo trasforma. Non possiamo vivere senza riti, senza simboli e senza miti, così come non riusciamo senza gli altri. Ogni partito politico è simile a una piccola Chiesa».
Non ce la sentiamo di replicare. Di certo, sfogliando il volume da poco in libreria, L'uomo e il sacro nella storia dell'umanità (Jaca Book), è inevitabile chiedergli qualcosa intorno alla democrazia, idea diventata per il mondo contemporaneo punto di riferimento assoluto. Sorride, non si fa pregare: «La democrazia, per realizzarsi, tende a eliminare il sacro. O meglio, si potrebbe dire che questa nobile forma di governo è un tentativo di sostituirlo con idee e progetti che mirano al bene comune. Ma, così facendo, la storia insegna che può creare un vuoto, il quale — lo ripeto — si colma con altre forme (a volte imprevedibili) di sacro. D'altro canto, non dimentichi che i totalitarismi del XX secolo, nati intorno a figure quali Mussolini, Hitler o Stalin, hanno compiuto un percorso inverso cercando di risacralizzare il potere per dotare di maggiore autorità le loro azioni: per questo hanno cancellato i rapporti democratici». Una pausa. Poi continua: «È una storia che si perde nei tempi e che si comincia a osservare negli antichi regni dei sumeri o degli egizi, dove c'era una connessione stretta tra politica e sacro; in Grecia, invece, il rapporto salta e la politica diventa laica. L'uomo, però, non è mai riuscito a dimenticare il sacro. Eliminato da una parte, si presenta dall'altra e anche oggi fa sentire il suo peso. Pensi a quanto è successo nella recente campagna elettorale in Francia per la corsa all'Eliseo: entrambi i candidati, dopo aver sottolineato il loro laicismo, hanno sentito il bisogno di spiegare quale posizione avessero con la religione. E anche in Italia non è possibile fare politica ignorando le questioni religiose».
Le pause di Julien Ries sono micidiali. Sembrano i silenzi dei vecchi capitani di nave, dinanzi ai quali si può solo rispondere con altri silenzi. Dovete aspettare che il comandante riprenda il discorso, quasi fosse un vento favorevole. «Perché è difficile da spiegare questa connessione tra politica e sacro?», prosegue il maestro di Lovanio. Si risponde: «Forse perché l'homo religiosus (nacque quando comparvero le tombe) fece la sua apparizione poco meno di 100 mila anni prima dell'homo politicus, che divenne tale con la scrittura. Noi, per dirla in breve, siamo gli eredi di quest'ultimo homo e anche di una serie di problemi legati al sacro che per decine di millenni sono rimasti aperti». Sembra quasi che Ries voglia condurci per mano in una dimensione dove i nostri antenati hanno lottato per dimenticare, nella quale le grandi ierofanie — le manifestazioni del sacro — hanno condizionato la vita e posto un'ipoteca sul futuro. Noi che ci crediamo democratici e laici forse non abbiamo ancora concluso l'antica guerra con i misteri che ci avvolgono. Il maestro di Lovanio continua: «La politica vive di simboli: dall'inno nazionale al distintivo che si mette all'occhiello. Ma ogni simbolo altro non cerca di essere che la rivelazione di un mistero. Per questo le dittature li hanno moltiplicati». E ancora: «Hitler pensò innanzitutto a un riferimento forte. La svastica è stata forse la più grande sovversione simbolica della storia: è la potenza del sole che viene trasformata nella potenza del Führer. Ma anche la falce e il martello, che rappresentano i miti del marxismo, sono simboli formidabili. Il denaro, invece, è l'immagine del liberalismo; vale a dire, è il tentativo di rendere acquistabile e disponibile la realtà con un mezzo che si è trasformato in qualcosa di sacro».
Con Ries si desiderano affrontare anche le questioni aperte che caratterizzano la vita contemporanea. Per questo ci sfugge una domanda che si allontana dalle precedenti, ma che comunque riguarda un diffuso problema della nostra realtà sociale: «E la droga?». Non lascia passare nemmeno un secondo: «È un sostituto del sacro». Poi aggiunge, quasi a precisazione: «L'uomo di oggi cerca il simbolo, ma bisogna ammettere che non riesce a riconoscerlo. Lo confonde, lo immagina, lo scambia con altro. E continua a cadere in contraddizioni: parla ancora e sempre di nazismo e comunismo, condannandoli giustamente, ma rendendoli sempre presenti. Non ha più un'idea del sacro e a questi mali attinge qualcosa... Qualcosa di indefinito che dovrebbe indurci a riflettere seriamente».
Il discorso, chissà perché, ha toccato poi il suicidio («è la perdita di un legame con i simboli, con la vera identità dell'uomo»); quindi Ries ricorda Mircea Eliade e Georges Dumézil («due care persone, con le quali ho discusso a lungo»); infine gli abbiamo chiesto se condivide la tesi di René Girard — l'autore de La violenza e il sacro, un saggio continuamente ristampato da Adelphi — che vede appunto nella violenza il cuore autentico e l'anima segreta del sacro. Risponde: «È un fatto che l'esteriorizzazione della violenza, nel sacrificio espiatorio per esempio, sia considerata come necessaria alla sopravvivenza del gruppo. In ogni caso, il sacro moderno o postcristiano, che ritroviamo in mezzo al capovolgimento operato dalla nostra cultura, sembra coincidere con tutte le ambiguità dell'istinto religioso». E tali ambiguità, per loro natura, possono generare violenza. Inducono a ripensare l'uomo che verrà attraverso il sacro che continua a vivere nelle idee e nei nostri gesti. Siano essi ispirati alla pace od offerti a una «guerra giusta».

Corriere della sera 14.6.07
Era nato a Berlino 102 anni fa. Spiegò che la percezione è un atto creativo
Addio a Rudolf Arnheim, lo psicologo dell'arte
di Pierluigi Panza


Nel suo più celebre libro, Arte e percezione visiva del 1954, Rudolf Arnheim mostrò come il vedere fosse un atto creativo e come il giudizio visivo e la comprensione intellettuale del mondo dell'arte fossero tutt'uno con l'atto stesso del percepire. Con questa intuizione rivoluzionò la critica e la teoria dell'arte più ancora che la psicologia e, per un paio di decenni (anche con l'affermarsi dello Strutturalismo), il suo pensiero divenne il fulcro delle interpretazioni di quadri e facciate d'architettura. Rudolf Arnheim è morto il 9 giugno nella sua casa di Ann Arbor, in Michigan, all'invidiabile età di 102 anni. Ne ha dato notizia la sua famiglia ieri al «Washington Post».
Arnheim era nato a Berlino il 15 luglio del 1904, dove si era laureato in psicologia sperimentale con i fondatori della scuola della Gestalt (disciplina che studia il rapporto tra immagine e percezione) Max Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Lewin. Dai suoi esperimenti sulla percezione nacque nel 1932 il suo primo libro, Film come arte. Con l'avvento del nazismo (era di famiglia ebrea) si trasferì a Roma; quindi, nel 1938 (con la promulgazione delle leggi razziali), si rifugiò a Londra dove lavorò anche per la BBC e da qui, nel 1940, emigrò negli Stati Uniti, dove ha vissuto per tutto il resto della sua vita. Qui ha lavorato per le fondazioni Rockefeller e Guggenheim e ha insegnato alla Columbia di New York, poi ad Harward e quindi, dal 1974, all'Università del Michigan prima di ritirarsi definitivamente.
Nel '54 pubblicò Arte e percezione visiva (tradotto da Feltrinelli nel 1962) dove stabilì che il vedere era un atto creativo e il giudicare dipendeva dal ruolo che il vissuto svolgeva attivamente nel campo della percezione. Opponendosi al formalismo critico, riportando — con la costante esemplificazione di opere di pittura, scultura e architettura — la forma al significato e al contenuto, mostrò come si potessero cogliere i significati delle opere d'arte approfondendo il rapporto tra biografia e forma, spazio, luce, colore, movimento attraverso il tramite della percezione. Lo «psicologo» divenne così «critico d'arte» e operando una saldatura tra le tesi di Arnheim e quelle della psicologia junghiana e dell'iconologia (e di Erwin Panofsky per quanto riguarda l'architettura) si diedero vita a studi che mostrarono come le scelte dei colori e delle forme nei pittori dipendevano da modalità psicologiche e percettive (ricerche che vennero da altri, specie su Van Gogh) e come anche la interpretazioni critiche fossero condizionata dalle modalità percettive del singolo individuo. Si giunse così a spiegare interi quadri come «Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovannino» con la duplice presenza femminile materna negli anni infantili di Leonardo. Nelle università di tutto il mondo vennero allora attivate cattedre di Psicologia della percezione, molte delle quali sono andate via via sparendo.
Negli anni successivi Arnheim studiò la pittura di Picasso (Guernica. Genesi di un dipinto, del 1962) e nel 1969 diede alle stampe un altro importante studio teorico intitolato Il pensiero visivo.
Arnheim si può considerare uno dei teorici della cultura visiva, specie negli aspetti legati alla creazione e ricezione artistica, temi oggi ripresi da Hans Robert Jauss. Nel 2004, in occasione dei suoi 100 anni — e dei 50 anni del suo libro più famoso —, ad Arnheim vennero dedicate alcune celebrazioni in Europa e negli Stati Uniti.

l’Unità 14.6.07
Rudolf Arnheim: tutto il potere all’occhio
di Enrico Crispolti


È MORTO a 102 anni lo studioso che innovò profondamente l’estetica unendo arte e psicologia. La visione, per lui, non era una semplice registrazione meccanica ma un rapporto di empatia tra chi guarda e l’oggetto osservato

Prima di emigrare nel 1939 negli Usa a seguito delle leggi razziali, insegnando psicologia dell’arte nel Sarah Lawrence College, a Bronxville, e poi nella Harvard University, avviando un’esperienza di riflessione, ricerca e approfondimento che lo porterà a comporre uno dei suoi testi più noti, Art and visual perception (Arte e percezione visiva), pubblicato nel 1954 dalla University of California Press (e tradotto nelle edizioni Feltrinelli nel 1962, con prefazione di Gillo Dorfles), Rudolf Arnheim si è occupato di cinema, rivendicandone in Film als Kunst, pubblicato nel 1932, l’artisticità e l’autonomia come ulteriore arte, in termini di specificità di linguaggio visivo (luce, inquadratura, profondità di campo, ecc.). Parallelamente alla rivendicazione che andava compiendo in Italia il soltanto di sei anni più giovane Carlo Ludovico Ragghianti, il cui primo contributo, Cinematografo rigoroso, è del 1933 (un’esperienza che confluirà nel suo Cinema arte figurativa, nel 1952). E proprio occupandosi di cinema Arnheim è vissuto a Roma, dal fatidico 1933, anno della presa del potere da parte dei Nazisti, al 1938, collaborando al periodico Bianco e Nero e come redattore dell’Enciclopedia del Cinema.
Formatosi a Berlino studiando psicologia sperimentale (discepolo di Wertheimer), tuttavia il destino di Arnheim è stato piuttosto quello dell’elaborazione di un’estetica complessivamente fondata su teorie psicologiche piuttosto che su speculazioni filosofiche nella prospettiva appunto specificamente di un’«estetica psicologica». «La visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti»; in un riscontro d’implicazione empatica, portando dunque ad un diverso livello di complessità e globalità le intuizioni della cosiddetta «pura visibilità» in una lettura non meramente contenutistica dell’opera d’arte visiva. Al fondamentale Arte e percezione visiva hanno fatto seguito numerosi altri suoi contributi raccolti poi in opere di particolare rilevanza come sistematizzazione di una ricognizione analitica delle valenze psicologiche delle strutture visive. Da Toward a Psychology of Art (Faber and Faber, Londra, 1966), in traduzione Einaudi del 1969, a Visual Thinking (University of California Press), pubblicato in Italia da Einaudi nel 1974, a Entropy and Art. An Essay on disorder and order, pubblicato tradotto pure da Einaudi nel 1974 (1989) come Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, e da The Power of the Center (University of California Press, 1982), tradotto sempre da Einaudi nel 1982, con il sottotitolo Psicologia della composizione nelle arti visive, a La dinamica della forma architettonica, tradotto da Feltrinelli nel 1981, a (University of California Press, 1986), in traduzione Feltrinelli 1987 come New Essays on the Psychology of ArtIntuizione e intellett. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, a La Radio. L’arte dell’ascolto, tradotto dagli Editori Riuniti nel 1987, e fino a To the rescue of art. Twenty-six essays (sempre University of California Press, 1992), tradotto nel 1994 da Feltrinelli.
La sua analisi intendeva porsi a tutto campo. «Si presume che ogni settore della psicologia generale comporti applicazioni nel campo artistico», sottolinea nell’introduzione a Verso una psicologia dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione. E tuttavia la sua indagine procedeva senza sistemacità quanto piuttosto fondandosi su una consapevolezza sperimentale, affermando che i suoi saggi «nascono dalla prospettiva e dall’interesse di un singolo individuo, e riferiscono su tutto ciò in cui gli è capitato di imbattersi». Considerando infatti pariteticamente il rapporto con opere del passato quanto della contemporaneità: su Henry Moore, per esempio, ma in particolare su Picasso’s Guernica, pubblicato nel 1962 (e tradotto da Feltrinelli). Ma la sua attenzione visiva rappresentava a sua volta una scelta di campo entro una totalità percettivo-sensoriale. Se si è limitato ad analizzare il «senso della vista» è perché lo ha considerato «l’organo più squisitamente efficiente della cognizione umana», e il più vicino alla sua esperienza. Ma: «Teorie più ampie dovranno occuparsi delle potenzialità e delle debolezze specifiche delle altre modalità sensoriali, e della cooperazione intima che si istituisce tra tutti gli organi di senso»; avverte introducendo Il pensiero visivo. La sua metodologia analitica aspirava ad una capacità di penetrazione di linguaggi artistici di tutti i tempi. «La cosa più importante che ci resta da fare è rivivere ed esplorare i principi su cui si fonda ogni processo effettivamente produttivo delle arti. Se crediamo che l’arte sia una condizione imprescindibile dell’esistenza umana, sul piano non solo psicologico ma anche biologico, dobbiamo presumere che essa affondi le sue radici nelle profondità del nostro essere. E queste radici devono essere rintracciate», scrive introducendo Per la salvezza dell’Arte.
Di fronte alla decostruzione non soltanto della forma ma degli stessi media artistici, e soprattutto una perdita di cognizione delle motivazioni stesse dell’espressione artistica, che cosa rimane oggi della lezione di Arnheim? Certamente una grande, esemplare, intenzionalità utopica di chiarezza analitica; ma certamente anche un fondamentale richiamo alla complessità di componenti semiologiche e psicologiche di un linguaggio che per quanto fattosi sempre più anche cosale, oggettuale, è pur sempre sostanzialmente visivo, persino nelle sue estreme desinenze virtuali attuali.

LA TESTIMONIANZA Tra i suoi numerosi viaggi anche le visite all’Università di Palermo
Uno studioso che si avvicinava all’arte come alla vita
di Lucia Russo*
*Docente di Psicologia dell’Arte

Il 15 luglio avrebbe compiuto 103 anni. Nato a Berlino nel 1904, da bambino aveva visto l’imperatore Guglielmo II guidare a cavallo la parata annuale, e da giovane aveva lavorato proprio in un’ala del Palazzo imperiale, divenuta sede dell’Istituto di Psicologia dopo la rivoluzione del 1918. Formatosi alla scuola di Wertheimer e Köhler, divenne famoso a soli 28 anni con Film als Kunst, riconosciuto subito un classico della teoria cinematografica. Ma non fu la fama a spingerlo fuori dalla Germania e a portarlo a vivere in due grandi capitali europee - prima a Roma e poi a Londra - e infine ad attraversare l’Atlantico e a diventare cittadino americano. Lui di origini ebree, nel 1933 sfuggì ai nazisti; e venne accompagnato alla porta dai fascisti nel 1938. Forse avrebbe scelto di vivere in Italia, se - come dirà anni dopo - Mussolini non avesse adottato le leggi razziali. Ma le adottò, e giusto in tempo perché Arnheim, da villa Torlonia, sede dell’«Istituto internazionale per la Cinematografia Educativa» dove lavorava, andasse incontro ai bombardamenti di Londra. E poi l’America. Inizialmente furono i sommovimenti politici a portare «un sedentario per natura» - come si definiva - fuori dal paese natio e a spostarlo da un paese all’altro. E poi, ritornato alla vita accademica, dopo anni di giornalismo e di critica militante, saranno i contributi originali dati alla psicologia a portarlo in giro per il mondo. La psicologia delle arti è una sua creatura. Così sono state innumerevoli le istituzioni culturali che lo hanno invitato. Fino al Giappone, dove soggiornò per un anno, e spesso in Italia dove ritornò tante volte e sempre con desiderio. Conoscere luoghi diversi, usi e costumi non ancora omologati, l’aveva sempre considerato un necessario arricchimento, e come mi disse, commentando l’elezione di un Presidente Usa, era preoccupato perché l’eletto non aveva mai messo il naso fuori dalla sua nazione, e soprattutto non era mai stato in Europa.
Ricordo il suo arrivo a Palermo per un ciclo di lezioni all’università. Andammo, io e Luigi Russo, ad attenderlo all’aeroporto. Avevamo avuto un rapporto solo epistolare e non riuscimmo a individuare tra i passeggeri uno straniero nato nel 1904. Alla fine rimase soltanto un signore con una valigia a tracolla e una sacca in mano. Troppo giovane: non poteva certo essere lui. E invece era proprio Arnheim. Da quel momento, per tutto il suo soggiorno palermitano, avemmo il privilegio di stare in sua compagnia. E per esplicitare il senso di quel privilegio mi servirò delle parole di Fedele D’Amico, che per quella che è la mia esperienza di Arnheim - la persona e la teoria - sono perfette e avrei voluto scriverle io: «La virtù straordinaria di Arnheim, prima che nella qualità dei suoi scritti, sta nel suo carattere, che di quella qualità è la conditio sine qua non. E il dato essenziale del suo carattere è nel modo di affrontare, prima che il lavoro, la vita. Arnheim porta a ogni cosa, a ogni manifestazione della vita, anche delle cose apparentemente più futili, un interesse profondo; ma al tempo stesso pacato, senza infatuazioni. Crede nella positività della vita, ma discrimina il male dal bene, l’errore dalla verità, e fermamente; però senza iattanza, senza ira, senza virus polemico. Il suo piacere principale - un piacere profondo, ma non compiaciuto, non edonistico - sta nel conoscere: conoscere come veramente stiano le cose. Accetta il mondo in cui vive, ma non per questo lo giustifica, né ci si rassegna: dai suoi mali si riscatta guardandolo negli occhi tranquillamente, direttamente, cercando di comprendere. Ora questo atteggiamento si può rilevare facilmente dai suoi studi; ma tanto più impressiona nel contatto diretto con l’uomo, nella vita. Perché anche il più saggio dei filosofi difficilmente si conforma al cento per cento, nella vita, alla sua filosofia; mentre in lui non solo l’adeguazione è perfetta, ma la “filosofia”, per dir così, nasce dal suo modo di vivere, piuttosto che viceversa. Per questo conoscerlo di persona, partecipare della sua intimità, è un bene inestimabile. È una critica silenziosa a tutte le nostre intemperanze, alle nostre intolleranze, e fondata non già sull’avallo di ciò che non ci piace, bensì su un giudizio spassionato, diretto, “naturale”. E un atteggiamento tanto più persuasivo in quanto attestato da una persona che ha vissuto in proprio eventi crudeli, senza evitare, senza rifiutare la sofferenza. E un atteggiamento che si manifesta subito, al primo incontro. Perché Arnheim è lo stesso per chiunque, si mette subito al livello di chiunque, direi anzi che si ritiene al livello di chiunque». Ecco il Grande Maestro del Novecento che si è spento, anche se continua a brillare attraverso le sue opere capitali. all’Università di Palermo.

Repubblica 14.6.07
Diciotto santuari persi in un mese: parla Alastair Northedge, massimo esperto di Samarra
"Così scompare il patrimonio dell'antica Mesopotamia"
di Alix Van Buren


Tre giorni di lutto nazionale in Iraq per i minareti sbriciolati del santuario di Askariyah: è plumbea la voce di Alastair Northedge, massima autorità mondiale nell´arte di Samarra, docente di Arte e Archeologia islamica alla Sorbonne parigina. Se nel febbraio del 2006, alla notizia del bombardamento di quello stesso mausoleo, lui tuonava contro la profanazione del culto, dell´arte e della storia, questa volta al telefono da Parigi ha il tono sconsolato di chi cerca rifugio nella rassegnazione: «Il fatto è», dice, «che la devastazione dell´Iraq è per certi versi dissimile dalla rovina toccata a tanti Paesi infestati dalle guerre: qui si assiste alla distruzione del patrimonio di una intera nazione, anziché di città isolate. Se infatti osserva la Seconda guerra mondiale, in Europa si sono persi beni inestimabili, però più per negligenza che per proposito. E invece adesso, dalle forze della coalizione all´insorgenza, tutti si accaniscono contro le fragili architetture dell´antica Mesopotamia».
Professore Northedge, che aspetto ha la mappa dell´arte irachena vista dal suo osservatorio?
«È una mappa tutta crivellata dagli scavi dei trafficanti di antichità, dai colpi degli obici e dei mortai di entrambi gli schieramenti avversari. Poco sfugge alla violenza. Oggi fanno notizia le bombe detonate da mani esperte a Samarra, ma in un solo mese si è consumata un´orgia di scempi: 18 santuari del IX e X secolo sono andati perduti in appena quattro settimane, e fra questi alcune delle più splendide moschee del mondo arabo».
Qual è il danno reale inferto a Samarra?
«Il danno già era stato causato dagli ordigni del 2006: un colpo ben studiato contro il luogo di sepoltura di due fra gli imam più venerati, progettato da chi voleva un´apocalisse. Adesso quegli stessi ci riprovano, con mezzi identici. Sotto il profilo architettonico, i minareti hanno un valore relativo. Risalgono all´Ottocento: sono piuttosto recenti. Ma sotto il profilo politico il potenziale è esplosivo: la carica deriva dalla centralità del culto del Dodicesimo imam, cioè a dire del Messia, svanito in quel luogo e di cui si aspetta il ritorno. Davvero: il nuovo attentato è una pessima notizia: l´ultima di una indicibile sequenza di ferite».
A quali altre pensa?
«A troppe per riassumerle: penso a Ur, la città di Abramo, sfigurata da scariche di granate. Penso al tragico destino del Museo nazionale, alla metà dei capolavori svanita; ai cinque secoli di testi ottomani dati alle fiamme nella Biblioteca nazionale, alla grandiosa città di Babilonia riconvertita in base americana, i viali plurimillenari spianati dai tank».
«Vuole che le dica ancora? Il caravanserraglio di Khan al-Raba, del X secolo, è stato usato dalle forze alleate per far esplodere gli arsenali catturati agli insorti. Rimangono solo rovine. I resti di Isin e Shurnpak, città del 2000 a.C., sono evaporati, e così pure castelli, ziqqurat, antichi minareti e moschee. E fuori della capitale, almeno diecimila siti d´inestimabile valore per la storia della civiltà occidentale sono alla mercé dei saccheggiatori».
Professore, lei sta dipingendo un patrimonio dell'umanità per sempre perduto?
«Niente affatto: malgrado la profondità dell´orrore, nell´archeologia esiste sempre un margine parziale di conservazione. Nemmeno i saccheggiatori sanno distruggere tutto. Però, perché la storia e l´arte dell´Iraq risorgano, bisognerà aspettare la fine della guerra, il ritiro americano. Nell´attesa, noi archeologi non possiamo far altro che stare a guardare».

il manifesto 14.6.07
Senza se e senza ma, per il movimento
di Salvatore Cannavò


Salvatore Cannavò * Il 9 giugno è per i movimenti italiani e la sinistra una data spartiacque da cui emergono almeno tre elementi di riflessione. Il primo è che il movimento contro la guerra si è dato una nuova occasione dopo la straordinaria giornata del 17 febbraio a Vicenza. La continuità con quella giornata, del resto, è dimostrata dalla massiccia partecipazione dei No Dal Molin così come dall'«eccedenza», dalla presenza massiccia cioè di soggetti esterni alle forze organizzate e che hanno costituito l'anima del corteo. Una presenza libera dalla paura, che ha dato fiducia alla manifestazione, alla sua piattaforma senza mai prendere in considerazione, nemmeno per sbaglio, la possibilità di unire le piazze o quant'altro. Se si manifesta contro la guerra lo si fa «senza se e senza ma», quindi anche contro le politiche di Prodi. Il resto è superfluo.
Sinistra Critica ha giocato un ruolo importante in questa dinamica anche per gli eventi del 21 febbraio, per il voto contrario al governo e per il «caso Turigliatto». Quella scelta, solo apparentemente isolata, ha contribuito a riaprire un dibattito, costruire una polarizzazione, offrire a tutti e tutte uno spazio di azione che lentamente è stato occupato da molti fino al successo della manifestazione del 9 giugno. Un'energia si è risvegliata, dopo un anno di torpore, e ora alcune scelte diventano obbligate come ad esempio il ritorno a Vicenza per bloccare i lavori della base.
Il secondo elemento è che si è vista in piazza, per la prima volta, un'opposizione di sinistra al governo Prodi. Un'opposizione sociale, basata su un contenuto specifico e quindi non generalizzabile, ma desiderosa di non mediare e di non arretrare sul valore indisponibile del no alla guerra. Una manifestazione dagli immediati effetti politici, enfatizzati dal flop di piazza del Popolo in gran parte dovuto all'arroccamento dei partiti di governo e alla loro pretesa di essere depositari di una domanda sociale altrimenti muta. Il 9 giugno quella spinta sociale si è data la parola e ha pesato sugli equilibri politici. Anche il fronte delle pensioni oggi è più mosso in virtù di quella manifestazione e la stessa offensiva delle destre trova un parziale, ma reale, controbilanciamento a sinistra. Speriamo che il Gay Pride vada nella stessa direzione.
In terzo luogo c'è una conseguenza politica che riguarda i rapporti a sinistra. Il fallimento di piazza del Popolo dice del fallimento della linea del «partito di lotta e di governo» - e non si giochi sull'assonanza di questo giudizio con le parole di D'Alema: quando ha finanziato la guerra la sinistra italiana è stata tutta dalemiana. Rifondazione, dovrebbe, oltre che uscire dal governo, convocare al più presto un congresso straordinario e fare il bilancio di questi ultimi due anni. Ma al di là delle vicende di partito, appare oggi chiaro che ci sono due strade davanti a noi: l'unificazione della sinistra di governo o il rilancio di una sinistra anticapitalista e antagonista. Non ci sono mediazioni possibili. Un ciclo si è chiuso alle nostre spalle e riguarda principalmente il Prc.
Non sappiamo quanto possa germogliare dal 9 giugno: per parte nostra pensiamo che sia bene vengano fuori dei «patti» plurali e molteplici, che uniscano politico e sociale, associazionismo e sindacati, gruppi politici e comitati di scopo: un patto contro la guerra, un patto contro la precarietà, un patto per la difesa delle comunità in lotta, e così via. Anche perché la rifondazione della sinistra alternativa non può che ripartire da questo terreno.
Come Sinistra Critica guardiamo ormai decisamente al futuro puntando al consolidamento di una soggettività autonoma in un percorso aperto, plurale, indipendente dal governo e dagli equilibri interni alla sinistra di governo. Se questo processo possa scaturire in un Forum dell'opposizione sociale o qualcosa di simile lo vedremo in corso d'opera. Certo è che una nuova fase si apre. Noi vi contribuiremo come già fatto il 9 giugno dove abbiamo saggiato la stessa nostra capacità di produrre iniziativa e organizzazione, di essere cioè uno strumento per resistere alla crisi di Rifondazione e della sinistra in generale. Proseguiremo su questa strada, con determinazione, a partire dalla prima Conferenza nazionale di Sinistra critica che si terrà il prossimo autunno. Sarà quella l'occasione per fare il punto della situazione e progettare una rifondazione della sinistra che sia anticapitalistica, ecologista, femminista, internazionalista.
*Sinistra Critica

il manifesto 14.6.07
La politica della vita sul margine pericoloso dell'impersonale
Un'intervista con il filosofo italiano dopo l'uscita del suo ultimo libro «Terza persona». Genealogia di un concetto in cui il soggetto è norma di se stesso e che manifesta una corporeità che la tradizione giuridica ha spesso cancellato
di Roberto Ciccarelli


«La persona anima i dibattiti tra filosofi e politici, teologi e giuristi, in suo nome si inaugurano corsi di laurea nelle facoltà di filosofia. Inoltre, la persona riassume in una forma svelta ed incisiva l'attivismo dei cattolici nella difesa della sacralità della vita e quello dei laici quando si tratta di dimostrare che la vita è il risultato dello sviluppo naturale». Per il filosofo Roberto Esposito, che incontriamo in occasione dell'uscita del nuovo libro Terza Persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale (Einaudi, pp. 184, euro 17), il ritorno a questa categoria ha un duplice significato: «All'incrocio tra due discorsi divergenti - spiega Esposito - più che indicare delle risposte definitive, la persona è la bussola concettuale che esprime, da un lato, il ritorno ad una teologia politica carica di elementi inquietanti, mentre dall'altro lato è il segno di un rinnovamento del discorso giuridico che cerca nella "persona", e nella sua dimensione corporea e concreta, l'occasione per superare le dimensioni ristrette, e particolaristiche, del "cittadino", il controverso protagonista delle rivoluzioni moderne e delle costituzioni democratiche».
«Rispetto a queste due strade - continua Esposito - ho scelto la via più complessa della decostruzione: lavorare la persona dall'interno, cercando di bloccare il dispositivo di separazione escludente, gerarchico e violento che la caratterizza. È una prospettiva, questa, che sfugge alla discussione filosofica contemporanea. Per questo, credo sia importante farne la storia, chiarire le differenze che esistono tra le varie posizioni, ma anche attivare uno sguardo sagittale che vede, sotto le grandi discontinuità delle epoche, le continuità che tutt'ora permangono in questo concetto».
In questa genealogia lei individua nella persona la presenza di almeno tre figure: la persona cristiana, quella romana e, infine, quella giuridica. Da cosa è caratterizzata la persona cristiana?
La filosofia personologica cristiana presenta due punti fondamentali: la doppia natura di Cristo e la Trinità. In ciascuno di questi blocchi dogmatico-concettuali, l'elemento dominante è che l'unità in Cristo, come nella Trinità, è costituita dalla separazione. Due nature in Uno significa che l'unità di Cristo ha la forma del binomio. Sia che si tratti di una persona in due nature, sia che si tratti di una natura in due persone, abbiamo un'unità costituita dalla separazione. Questo ragionamento, sia pure in forme teologiche diverse, si ritrova nella Trinità dove ciò che conta è che l'Uno è costituito da una differenza in tre. Nella concezione cristiana della persona, ciò che conta è il dispositivo tra unità e separazione. Del resto, la concezione cristiana dell'uomo presuppone una distinzione in cui un'anima è impiantata nel corpo. La stessa concezione della vita ultra-terrena prevede che la parte che resta in vita, o risorge, è appunto l'anima. Anche se nel cristianesimo esiste la teoria della resurrezione del corpo, l'elemento dominante rimane la differenza tra anima e corpo.
Qual è la differenza rispetto alla persona romana?
Il diritto romano ha una potenza di codificazione più forte dell'ambito teo-filosofico e ha sistematizzato in modo ancora più netto e rigoroso il nesso tra unità e separazione. La persona costituisce a Roma de iure personarum, il luogo nel quale si distinguono i liberi dagli schiavi. A loro volta, con una serie di biforcazioni consecutive, i liberi sono liberi per nascita o per affrancamento, il diritto romano funziona sempre per creazione di norme ed eccezioni che specificano ed evadono la norma. Le persone si distinguono in persone e non-persone. Dunque, sin dalla sua origine, la persona romana ha dentro di sé l'idea di non-persona. Tuttavia, non-persona non è solamente lo schiavo, ma ogni cittadino in quanto figlio, questo perché a Roma nessuno nasce persona. Qualcuno lo diventa, qualcuno attraversa lo status personale per poi uscirne. Quello che conta è la dialettica continua tra personalizzazione e spersonalizzazione. La continuità tra la persona cristiana e quella romana è storicamente attestata. Il cristianesimo diventa la religione romana con l'imperatore Costantino. Ma fin da prima ci sono contaminazione tra le due parti.
In che modo, a suo parere, tale continuità torna a manifestarsi oggi?
Direi nel discorso bioetico, il luogo del conflitto politico oggi più forte, come si è visto nelle manifestazioni del Family Day e dell'Orgoglio laico di qualche settimana fa. In questa discussione credo che ci sia tuttavia un equivoco di fondo, nel senso che si definiscono in contrapposizione sempre più marcata orizzonti culturali e vettori ideologici che invece condividono presupposti comuni. All'interno dell'orizzonte della bioetica, cattolici e laici condividono l'idea della persona. Entrambi assumono come presupposto l'assoluto primato del personale sull'impersonale. Lo scontro nasce sulla definizione di quale sia il momento in cui un essere umano inizia ad essere persona o finisce di esserlo. Secondo la linea cattolica, si è persona fin dal concepimento. Secondo quella laica, con lo sviluppo naturale. E così per quanto riguarda l'eutanasia. Entrambi condividono la necessità di salvaguardare, sacralizzandola o considerandola vita qualificata, solo la vita personale. Del resto, la connessione si vede anche dal fatto che nella concezione cattolica il corpo umano e l'essere vivente sono nella disponibilità divina.
Perché, secondo il cattolicesimo, non ci si può suicidare? Perché il corpo è proprietà del suo creatore. Anche nella concezione laica, in particolare nella tradizione liberale, il corpo è proprietà di qualcuno, del soggetto stesso che abita nella persona. Ma che sia proprietà divina, o che sia proprietà del soggetto che lo abita, comunque il corpo vivente è pensato nel senso di una cosa. Solo una cosa può essere proprietà di qualcuno. Potrebbe essere non proprietà solamente un corpo umano che non appartenesse al soggetto, ma che fosse il soggetto. Perché questo sia pensabile bisogna a mio avviso pensare la persona nella forma dell'impersonale. Un corpo umano non proprietà di qualcuno può essere logicamente pensato solo dal punto di vista dell'impersonale. Cosa che non si fa mai.
Un altro tema molto presente nel suo ultimo libro è la critica della soggettività astratta e formale del diritto moderno al quale lei contrappone la categoria di «persona vivente». Può spiegare il senso di questa definizione?
Quando parlo di «persona vivente», o di «terza persona», non intendo pormi in contrasto assoluto con il tema di persona. Nella «persona vivente» intravedo piuttosto la dimensione in cui la persona non è separata dalla vita, o da se stessa, ma coincide con essa in un sinolo inscindibile di forma e forza, di esterno e d'interno, in cui il soggetto è finalmente norma a se stesso e non deve nulla ad istanze trascendentali. In altre parole, un unicum che coniuga il singolare e il plurale nella stessa persona. La Dichiarazione universale sui diritti umani del '48, pur affermando la dignità della persona, rilanciava il trascendentale che fa dell'uomo qualcosa in più della materia vivente. E così fanno tutte le altre Carte dei diritti. In questo modo, non si fa altro che continuare a separare l'idea di persona soggetto dal suo corpo.
La cultura giuridica è cosciente del problema, basti ricordare alla densa riflessione di Stefano Rodotà e al suo libro di grande valore teorico La vita e le regole. La mia impressione è che Rodotà abbia la mia stessa perplessità nei confronti del dispositivo giuridico. Il diritto, lo ha detto il filosofo tedesco Niklas Luhmann, è pur sempre un grande meccanismo immunitario fondato sulla separazione di categorie che includono qualcosa per escludere altro. Il confronto in corso tra noi ha comunque chiarito che è necessario restituire alla soggettività una concretezza più corporea, e meno particolaristica, e contrastare la separazione e l'esclusione che caratterizzano la persona.
Il filosofo francese Maurice Blanchot ha sostenuto che l'intero pensiero occidentale potrebbe essere letto come il tentativo di rimuovere l'impersonale, o il neutro come lui lo chiama. Che cosa rende così inquietante questa prospettiva?
La difficoltà, prima ancora che ideologica e logica, è addirittura linguistica. Per la precisione, esiste una difficoltà logico-sintattica a pensare l'impersonale. Il nostro discorso, come ha spiegato il linguista Emile Benveniste, la stessa interlocuzione è fondata sulla prima e sulla seconda persona. Il pensiero traduce immediatamente il linguaggio, si pensa in prima persona, si pensa nella forma di un «io» che si rivolge ad un «tu», presente o assente che sia. Prendiamo, invece, il «lei» che si usa in italiano. E' un termine femminile, dunque già decentrato rispetto alle modalità maschili del discorso occidentale, ma è soprattutto l'unico singolare che è insieme plurale. Tanto è vero è che, in alcuni casi, il «lei» si dice anche «loro». A differenza di «noi» e «voi», che sono estensioni quantitative di «io» e «tu», «lei» è sempre impersonale. Noi ci concepiamo nella forma della trascendenza, o quantomeno del trascendentale: l'Io non coincide mai con se stesso, è sempre altro da sé, la vita è quello slancio che mi tiene fuori da me stesso. Il «lei», o l'«egli», invece, ci sottraggono a questa logica e ci portano a quella che un altro filosofo francese, Gilles Deleuze, ha chiamato l'«immanenza assoluta», nella quale io vedo la principale caratteristica della «persona vivente».
Chi altro è riuscito a pensare a fondo l'impersonale?
Pensare l'impersonale dal punto di vista dell'immanenza è molto difficile, anzi fino ad oggi è stato quasi impensabile. Lo ha fatto con coraggio l'arte nel XX secolo, oltre ad una serie di pensatori, e di pensatrici. Penso a Simone Weil, e all'attacco che ha sferrato alla persona, e al diritto, in nome dell'impersonale. Lei sosteneva che il sacro è la parte impersonale dell'uomo. Questo è un modo di ripensare la decostruzione della soggettività, che è in sé maschile, in una chiave che interroga radicalmente il pensiero della differenza. Su questo Angela Putino ha dato un contributo straordinario nel suo ultimo libro su Simone Weil Un'intima estraneità. I suoi sono raggi di luce grazie ai quali si può capire che cos'è il pensiero dell'impersonale. Lei amava usare un approccio matematico che ci porta ad un modo di intendere la realtà che sfugge alle categorie della tradizione greca e romana, cattolica o laica. E' un discorso che taglia questi orizzonti e tocca quel punto che Simone Weil chiamava «punto di infinito». Angela diceva che l'intelligenza batte su un limite fino a quando si trova dall'altra parte. L'impersonale è quest'altra parte, che non si vede, sembra irraggiungibile, si abbatte sul limite, e poi lo supera. Pensare l'impersonale come ha fatto lei, o come ha fatto Kafka in alcuni racconti, significa esporsi a un rischio estremo. Talvolta questo rischio è la morte. In fondo, tutti i pensieri che decostruiscono la persona stanno su questo margine pericoloso.

Corriere della Sera 14.6.07
Il ministro presenta il suo libro sui disturbi alimentari
Melandri: «Contro l'anoressia dialogo, fantasia e tanto sport»
di Carlotta Niccolini


«La moda non è l'unica responsabile di questi gravi disagi ma non trovare jeans taglia 46 può farti sentire inadeguata»

Racconta Giovanna Melandri che qualche tempo fa, trovandosi a New York, le venne in mente di andare a parlare di anoressia con l'icona mondiale del sistema moda (oltre che una delle donne più magre del mondo). Appena entrata nell'ufficio di Anna Wintour, la ministra (in jeans e maglione) si è sentita squadrata dalla testa ai piedi, come la povera assistente del film «Il diavolo veste Prada». «È una donna in gamba, ma è stato subito chiaro che avevamo idee molto lontane. Per lei il problema era la bulimia, "altro che anoressia!". Invece sono due facce della stessa medaglia. Lo sa che in Italia il 6 per cento delle donne soffre di un rapporto disturbato con l'alimentazione e con il corpo?».
Purtroppo è anche un dato in aumento...
«Infatti, da qui è nata l'idea del Manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia, la cui genesi è raccontata nel libro. Lungi da me voler attribuire le cause di questi gravi disturbi psicologici e affettivi alle proposte degli stilisti o alle riviste femminili. Ma anche il contesto è importante e soprattutto è giusto rivendicare una responsabilità sociale della politica e delle imprese».
Questo non rischia di tradursi in un'invasione dello Stato in sfere personali?
«No, perché non si tratta di intervenire con una legge ma di seguire una strada che punta all'autoregolamentazione.
Lo stesso percorso che stiamo facendo anche rispetto al consumo giovanile di alcolici, collaborando con i produttori e i gestori dei locali».
«Come un chiodo» raccoglie storie, statistiche, indirizzi dei principali centri di studio sui disturbi alimentari. Per chi l'ha scritto?
«Il libro è dedicato a Eva e Maddalena, la bambina di Benedetta (Silj, coautrice, ndr) e la mia. Ma la speranza è che possa essere utile a tutte le famiglie e anche a chi opera tutti i giorni con il regno delle immagini femminili. Ecco, mi piacerebbe che lo leggessero i giovani stilisti e che servisse per formare un modello estetico almeno non univoco».
Per esempio vestiti oltre la taglia 42?
«Per esempio. A 15-16 anni basta poco per sentirsi inadeguati, basta anche entrare in un negozio con un'amica e non trovare un jeans taglia 44 o 46».
Che cos'altro può aiutare le ragazze in difficoltà?
«Lo sport. L'attività fisica regolare, praticata fin da piccoli, facilita la costruzione dell'autostima e un'educazione alla cooperazione. Per questo stiamo lavorando per aumentare l'offerta sportiva nelle scuole e per rendere detraibili dalle tasse i corsi di sport dei ragazzi».
Un'ultima cosa ministro, posso chiederle che taglia porta?
«Una serena 44».

Liberazione 14.6.07
Un fatto è certo, a Cuba c'è un regime
Cuba, oltre al socialismo ci vuole la democrazia
di Pietro Folena
*

Liberazione è stata "irriverente" verso Cuba, Fidel Castro, la Rivoluzione? Ha offeso il "coraggioso popolo cubano"? Sarà. Il problema non sono gli accenti, non sono certe frasi che appaiono degli "sfottò". Il problema è cosa pensiamo, noi a sinistra, del regime cubano.
Sono molto preoccupato del dibattito di questi giorni su Liberazione. Guardiamoci negli occhi e parliamo chiaramente. A Cuba non c'è la democrazia. Questo è un fatto. Non ci sono libere elezioni. Non c'è un sistema pluralistico. Se questo accadesse da noi, in Italia, grideremmo al regime. Ebbene, a Cuba c'è un regime. Poi si può anche dire che tutto sommato quel regime ha assicurato sinora dei benefici sociali. Che l'embargo ha portato Cuba ad irrigidirsi. Che Cuba può aprirsi al mondo e il mondo a Cuba (come disse Giovanni Paolo II) se quell'embargo cade. Che sono stati fatti importanti passi in avanti su molti fronti, ad esempio quello dei diritti degli omosessuali.
Ma ciò non toglie che a Cuba non c'è la democrazia. Né quella "borghese", né quella "partecipata", né tanto meno quella "proletaria" (ammesso che abbia senso parlare in questi termini). Che i diritti politici minimi lì vanno strappati a costo di essere accusati di "intendenza col nemico", con ciò che ne consegue sul piano personale.
Noi ci lamentiamo perché abbiamo una democrazia asfittica. Vorremmo superare la semplice rappresentanza, la delega, il distacco tra il Palazzo e il Popolo. A Cuba questa discussione semplicemente non c'è perché non c'è possibilità di "espandere" una democrazia che non esiste. Mi fa una certa impressione persino dover ribadire una cosa tanto ovvia.
A Cuba c'è un ottimo sistema sanitario? Lo so bene, sono felice per i cubani, vorrei che fosse difeso. La scuola funziona meglio che in molti paesi occidentali? Idem come sopra.
Ma se noi affermiamo che una democrazia è menomata se non è accompagnata dai diritti sociali, come possiamo affermare che invece i diritti sociali senza democrazia sono sufficienti? Non basta riconoscere i diritti sociali per dirsi di sinistra o comunisti. Non esiste giustificazione, scusa o relativismo. La penso come Piero Sansonetti: "Non esiste nessun modello politico accettabile che possa fare a meno dei presupposti fondamentali della democrazia". Per questo, ad esempio, oltre a Cuba, critico anche l'America dei brogli elettorali. Sono evidentemente cose del tutto diverse, ma l'effetto è simile nel momento in cui, per quattro anni, gli Usa hanno avuto un presidente non eletto dal popolo, ma dai giudici della Corte Suprema.
La democrazia non è una variabile dipendente, non è divisibile e non è negoziabile. Chi, come noi, si batte per far avanzare la democrazia in Occidente e in Italia, non può che criticare aspramente tutto ciò che va in un'altra direzione in qualsiasi parte del mondo. Battersi perché cambi. Questo ovviamente non significa associarsi alla destra. Ma nel momento in cui diciamo che occorre trattare, trattare e ancora trattare in ogni circostanza per alleggerire e risolvere le tensioni internazionali, allora dobbiamo anche dire che la fine dell'embargo contro Cuba passa anche (non solo) attraverso la fine dell'embargo contro la democrazia da parte del regime castrista.
L'Italia deve essere amica di Cuba. Del suo popolo in primo luogo. E con il suo governo deve avere un rapporto dialettico, lontano dall'ostilità guerrafondaia degli Usa ma altrettanto lontana dal giustificazionismo.
Negli anni scorsi ho avuto forti contatti con l'opposizione di sinistra che opera all'interno di Cuba. Un'opposizione che riconosce le buone cose che pure a Cuba esistono, ma che oltre al socialismo vuole la democrazia. Perché le due cose non possono che stare insieme.
*Deputato gruppo Prc-Se

mercoledì 13 giugno 2007

Repubblica 13.6.07
"Basta grisaglia, rivoglio l'eskimo"
Il popolo di Rifondazione si sfoga sul web: "Dove stiamo andando?"
di Alessandra Longo


Andrea scrive sul blog: "Votiamo per gli ideali, io uscirei dal governo..."
Clima teso anche nel quotidiano. In arrivo un intervento dei redattori su Cuba
Dopo lo strappo con i movimenti del corteo anti-Bush cresce il malessere dei militanti del partito di Bertinotti
Si moltiplicano le lettere a Liberazione. Il direttore Sansonetti: "Il momento è difficile"

ROMA - «Stare nel governo ci porta bene o male? Stare all´opposizione è costruttivo? Io vi dico che non so rispondere, so di non sapere... ma una cosa è certa: lo strappo coi movimenti è evidente, difficile da ricucire. Credo che tutti si debbano porre una domanda: dove stiamo andando?».
Dove stiamo andando: è questo l´interrogativo dentro le mura di Rifondazione, è questo che si chiede, nell´area blog del sito del partito, un anonimo militante, in cerca di nuova identità, afflitto da sbandamento, anche sofferenza.
«Millepapaverirossi», così si firma, non è aggressivo, non è rancoroso, usa il linguaggio di chi, innamorato di un´idea, di una battaglia, di una sfida, sente improvvisamente di aver perso il filo. Dove stiamo andando, qual è la cosa giusta da fare, continuare a stare con Prodi o ritrovare la verginità perduta e rinunciare a contare, a scrivere il futuro? A giudicare dalle prime risposte, la voglia di spezzare le catene della coalizione è tanta: «Tu dici di non sapere che cosa fare, io invece lo so: bisogna abbandonare subito il governo, anzi, prima di subito». Strano, difficile, travagliato momento per Rifondazione, in crisi di rapporto con i movimenti, che pure sono stati il suo alimento vitale, considerata da uno come Massimo Cacciari «la zavorra ideologica» sul cammino di un riformismo altrimenti vincente. Fausto Bertinotti, diventato presidente della Camera (più d´uno, anche in direzione, si chiede se non sia stato un errore rinunciare, nel mezzo del cammino, al suo contributo diretto), procede, scientificamente, per strappi: la non violenza, il superamento della cultura del Novecento, la ricerca mistica, e personale, di un nesso tra cielo e terra e quella, più materiale, di un nuovo cantiere per la sinistra a sinistra del Pd, il riconoscimento della realtà di Israele, le lodi, nel nome della pace, ai parà impegnati in Libano, la rivalutazione delle tele di Sironi e degli scritti di Celine, la fascinazione per la psichiatria "politica" di Massimo Fagioli. La base stenta a stargli dietro, come sempre avviene quando il Capo accelera e il nuovo arriva dall´alto.
Dove stiamo andando, si chiedono i lettori di «Liberazione» (ma anche quelli del «manifesto»). Lettere, sfoghi, invettive, soprattutto dopo l´esperienza dolorosa delle due piazze «no Bush». Piazze, ciascuna con le sue bandiere arcobaleno, piazze che non comunicano, separate dalle scelte di campo, governativi da una parte, non governativi dall´altra. Un errore da non ripetere, riflette il segretario Franco Giordano. Lidia Menapace, intellettuale, senatrice in quota Rifondazione, autrice con Rossanda e altri di un inascoltato appello all´unitarietà, scrive oggi su «Liberazione» che il 9 giugno è stata un´occasione persa: «Movimenti e partiti sono due modalità di espressione politica diverse. E´ mancato un luogo fisico dove potesse avvenire un confronto anche aspro». Il corteo dei movimenti, secondo Menapace, sarebbe dovuto confluire nella piazza del sit-in. Bisognava parlare, parlare, litigare anche, ma non perdere contatto. Si è pentita di stare al governo? No, Menapace, che riceve ancora oggi centinaia di insulti per aver osato criticare le Frecce Tricolori, si guarda intorno e vede «un´Europa di destra», fiuta «un vento autoritario», dalla Polonia alle Repubbliche Baltiche. Meglio stare dentro, meglio cercare di cambiare. C´è un´ultima sfida, adesso, ed è la politica sociale, le pensioni. Rifondazione sa che non può fallire, deve portare a casa qualcosa.
«Ma eskimo e grisaglia sono compatibili»? E´ una domanda di queste ore. Per capire l´aria che tira un buon punto di osservazione è «Liberazione», quotidiano del partito. Piero Sansonetti, il direttore, ne ha fatto, non senza fatica, una cittadella autonoma. Ammette tutto, «il momento difficile, la stagione non proprio rose e fiori». Le tensioni, le contraddizioni, passano tra i tavoli della redazione, attraversano il lavoro dei suoi 30 giornalisti, usciti parecchio depressi dal «caso Cuba». Succede che un´inviata, Angela Nocioni, descrive l´isola come nessuno aveva fatto prima da queste parti. E´ un regime, una dittatura, è arrivato il momento di dirlo. Piovono di colpo 500, 600 lettere di protesta, anche di insulti. Sansonetti difende la scelta, la nomenklatura, però, tranne Bertinotti, non apprezza. «Ci siamo sentiti soli. Abbiamo avuto la sensazione di consumare uno strappo contro il partito - dice un giornalista - ma noi siamo fieri della nostra autonomia, non siamo la Pravda». Pare che sia in preparazione una lettera dei redattori, solidarietà alla collega, orgoglio e difesa del proprio lavoro. Sansonetti fa benissimo il San Sebastiano: «Se vogliamo costruire una cultura nuova, definire un profilo alto di alternativa di società, qualcuno deve funzionare da rompighiaccio, tenere botta. Noi vogliamo andare avanti solo con la bussola della verità. Ma vorrei essere chiaro. Se la base di Rifondazione è in sofferenza non è per lo strappo su Cuba ma perché è dura stare al governo quando il governo non fa nulla di sinistra».
Torni al blog. Nel frattempo, sono le otto di sera, ha scritto Andrea: «Vedi, Rifondazione è un partito particolare, votato generalmente da gente che ha ideali... Rifondazione deve scegliere. La vuoi vedere vivacchiare all´ombra di Prodi? Mi chiedi che cosa farei io. Io uscirei dal governo...». Paolo legge, risponde subito: «No, caro compagno, abbandonare adesso sarebbe un suicidio politico».

Repubblica 13.6.07
Rifondazione agli alleati: "Ora la rotta del governo vada a sinistra"
(...)


ROMA - Dopo la delusione per il voto alle amministrative e il flop della manifestazione di piazza del Popolo, Rifondazione dà l´ultimatum al governo e chiede un cambio di passo. «Rotta a sinistra», ma nessuna ipotesi di disimpegnarsi andando verso l´appoggio esterno del governo. Il segretario Franco Giordano e i capigruppo Gennaro Migliore e Giovanni Russo Spena non vogliono sentirne parlare. Liquidano l´idea come «pura fiction». Il Prc è «saldamente collocato al governo», scandisce Migliore. Un appoggio esterno è «un´ipotesi del tutto infondata e non compare mai nella nostra discussione», precisa il segretario.
Anche se nel partito, Elettra Deiana non esita al contrario a definire «reticente» questo modo di affrontare la questione: «Bisognerebbe dire che Rifondazione è arrivata a un punto di snodo nel senso che la verifica se continuare a stare nel governo va fatta subito». «Opinione personale», smentiscono i capigruppo. Il punto è che al vertice di domani sul Dpef - sottolinea Giordano - chiederemo un salto di qualità netto nella politica del governo con il «superamento dello scalone, l´aumento delle pensioni minime e basse e il risarcimento dei lavoratori con politiche sociali e retributive».
Un «salto» nell´azione del governo è quanto chiedono anche i Ds che ieri hanno riunito l´ufficio di presidenza. «Ora ci vuole uno scatto in avanti su Dpef, riforme e azione di governo». Il segretario, Piero Fassino ne ha parlato in serata con Prodi in un incontro a Palazzo Chigi. Il «clima torbido» dopo le intercettazioni, come primo punto ma poi a seguire, il risultato dei ballottaggi alle amministrative («Chiaro segno di un disagio e di una crisi democratica di estraneità dei cittadini verso le istituzioni che sarebbe un errore non raccogliere»), e lo scatto nella politica del governo. Fassino, uscendo dal colloquio con il premier, ammette che le questioni sul tappeto sono le pensioni, la casa, la famiglia, le infrastrutture e la ricerca e che sul "tesoretto" si attende la quantificazione del ministro dell´Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Ci sono provvedimenti concreti?», gli chiedono i cronisti. «Il governo li sta studiando», risponde. E la sinistra radicale dà molta importanza al vertice di domani a Palazzo Chigi e ieri sera i capigruppo di Pdci, Verdi, Rifondazione e Sinistra democratica si sono riuniti a Palazzo Madama per concordare una posizione unitaria.
(g.c.)

Corriere della Sera 13.6.07
Cossutta: fuori dal Pdci per una forza arcobaleno


MILANO — «Sono fuori dal Pdci, voglio contribuire a riunire tutte le forze della sinistra». In riferimento a un grafico pubblicato dal Corriere, il senatore Armando Cossutta precisa che «già da un anno mi sono dimesso da presidente e da tempo anche dal Pdci. Il mio intento è di contribuire ad unire tutte le forze della sinistra, a partire dal movimento di Mussi e Angius, in un soggetto politico popolare, democratico, plurale con un nome comune (per esempio, "Sinistra"), con un comune simbolo (per esempio, "Arcobaleno") e con liste unitarie a cominciare dalle prossime elezioni amministrative del 2008».

Corriere della Sera 13.6.07
«Tutti al Gay pride». Il Prc cerca la rivincita in piazza
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Rifondazione comunista riparte sabato prossimo dal Gay pride di Roma. A una settimana esatta dal flop di piazza del Popolo, quando la manifestazione anti Bush è andata clamorosamente deserta, e dopo il brusco stop subito con i risultati delle amministrative, il partito di Franco Giordano e del ministro Paolo Ferrero (che parteciperà alla manifestazione insieme al collega "verde" Pecoraro Scanio), fa di nuovo decisamente rotta sui movimenti. A cominciare dalla imminente manifestazione nazionale di gay, lesbiche e transgender, contraltare ideale del Family day. Una svolta che verrà sottolineata in modo solenne: l'Assemblea nazionale costitutiva della Sinistra europea che inizia i suoi lavori proprio sabato mattina, sarà sospesa nel pomeriggio per permettere a tutti i partecipanti di unirsi al Gay pride.
Il Prc, insomma, posto davanti all'alternativa dalemiana («Il ciclo dei partiti di lotta e di governo è finito») sceglie di essere sempre più partito di lotta. La segreteria si è riposizionata sulle piazze lunedì sera «all'unanimità» puntando, per la prima rivincita sul campo, proprio sul corteo che sfocerà sabato pomeriggio nella stessa piazza San Giovanni teatro, un mese fa, dell'affluenza record delle famiglie cattoliche.
A Rifondazione negano che si voglia mettere un cappello politico sul Gay pride o peggio che lo si voglia cannibalizzare. «Noi abbiamo tre pilastri — spiega il segretario Franco Giordano — l'antiliberismo, il pacifismo e la laicità. In questo momento mi sembra che proprio la laicità debba essere fortemente sottolineata». E aggiunge, con una chiara frecciata polemica nei confronti dei Ds e del segretario Piero Fassino, «noi condividiamo tutta la piattaforma del Gay pride». Come è noto, il Botteghino invece se da una parte ha aderito alla manifestazione, dall'altra non ha voluto sottoscrivere alcun manifesto programmatico. «Io rispetto la posizione dei Ds - conclude Giordano - ma penso che oggi bisogna valorizzare le relazioni umane e affettive sia etero che omosessuali. Come di consueto parteciperemo in massa al Gay pride e ci metteremo il massimo impegno». Anche Ramon Mantovani cerca di evidenziare che è «da sempre che noi condividiamo gli obiettivi del Gay pride».
Ma gli organizzatori del Pride sono ben decisi a non finire nell'abbraccio dei partiti. Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay, che all'inizio di quest'anno ha riconsegnato la tessera dei Ds in polemica con Fassino, ieri ha precisato che in ogni caso «sul palco del Pride non salirà nessun leader politico, ad eccezione dei nostri quattro parlamentari "storici": Grillini, Luxuria, De Simone e Silvestri». Sarà lo stesso Mancuso a fare il regista della kermesse che avrà come inno ufficiale il singolo di Daniele Silvestri «Gino e l'Alfetta», per concessione della casa discografica Sony. La madrina del Pride sarà Monica Guerritore. Alla manifestazione hanno aderito anche i ministri Bonino e Mussi. Mentre la loro collega Pollastrini ha dato, come il Comune di Roma, il proprio patrocinio. Aderisce anche il sottosegretario al ministero della famiglia Chiara Acciarini.

Corriere della Sera 13.6.07
Il sacco della verità
Presa islamica di Costantinopoli, storia scritta dai vincitori
di Luciano Canfora


Con quale velocità decadono gli imperi? La domanda è più che mai attuale. Basti pensare che, al di là del vocio di sottofondo rappresentato dalle raffigurazioni ideologiche (l'età dei liberalismi, l'età dei socialismi etc.), la vicenda storica sin qui conosciuta non è che un succedersi, alternarsi, e scontrarsi, di imperi e di aspirazioni imperiali. Il Novecento fu funestato dalla spinta del mondo tedesco a ridisegnare la mappa della suddivisione del mondo tra gli imperi più antichi e consolidati. L'impero russo fu penalizzato alla fine del Novecento ma probabilmente è in ripresa, mentre quello americano, dopo aver raggiunto il vertice del predominio mondiale, nell'anno stesso in cui ha avuto inizio il nuovo secolo, ha incominciato a scricchiolare.
La storia ci insegna che non c'è mai stato un unico impero, anche quando si è data una tale illusione: i romani sapevano che oltre i confini non più dilatabili del loro impero c'erano altri, e questi altri ad un certo punto si mossero. Anche oggi vediamo gli Stati, persino i più solidi, intaccati da un'onda continua e capillare di movimenti di popoli. Non sarebbe sorto il muro voluto dagli Usa al confine col Messico, se il problema non fosse vieppiù preoccupante.
L'impero romano d'Occidente si formò (quand'era guidato ancora dall'oligarchia dirigente della città-stato) con la vittoria su Annibale e poi sulla Macedonia, e durò sette secoli, fino alla metà circa del V secolo d.C. L'impero d'Oriente visse un altro millennio: forse è il più longevo impero che la storia ricordi.
Finì quando la «città di Costantino» fu espugnata dai turchi del grande e illuminato Maometto II, il quale però si proponeva di continuare l'impero che aveva conquistato. E lo storico che narrò le sue gesta, tra cui la presa di Costantinopoli, fu un greco, Michele Critobulo, che scrisse in stile tucidideo l'epopea del nuovo sovrano. Quell'epopea fu narrata anche da storici turchi: Tursun Bey è il più celebre, ed opportunamente la nuova collana mondadoriana «Islamica» ne offre una fresca e ben prefata traduzione. Così il lettore moderno può rendersi direttamente conto dell'elementarità (per non dire banalità divagante) di tale narrazione, ben al di sotto del livello della storiografia di matrice greca anche nei suoi prodotti meno riusciti. Valga per tutti un esempio. Si tratta del resoconto della conquista della fortezza di Costantinopoli: «Presa la fortezza con l'aiuto di Dio e ridotto il nemico inerme all'impotenza, i musulmani si lanciarono a briglia sciolta e, come l'occhio rapace, qual turco razziatore, saccheggia la regione del cuore e dell'anima, con passo intrepido allungarono le mani a razziare e a saccheggiare. Da ogni abitazione, il cui tetto somiglia a Saturno e i cui piani ricordano le sfere dei cieli, da dentro letti intessuti d'oro e da dietro cortine gemmate, spinsero nella strada e nei mercati giovinetti greci e franchi, russi e ungheresi, cinesi e tartari, insomma tirarono per quei capelli, simili ai ciuffi degli idoli, ogni genere di amabili creature: giovinetti rubacuori e schiavi belli come la luna. Di natura gentile, di lineamenti paradisiaci, pronti al servizio fasciati di cintura come luna nei Gemelli; slanciati di statura, dalla guancia di rosa, crederesti che sull'alberello di cipresso una fresca rosa sia sbocciata; dalle sopracciglia arcuate, come due pezzetti di muschio (...). E fanciulle simili a stelle: dalle natiche di rosa selvatica, dalle guance di gelsomino, dai ricci di violetta e dalla statura di cipresso; dal viso di sole, dalla fronte di luna, dalla natura di Venere, dal fare civettuolo di Marte, dai lineamenti di Giove, dalla cintura simile a Orione, dalle sopracciglia come Sagittario, dalla ciocca della Vergine, dalla figura dei Pesci, dall'incedere di pavone, dalla rossa gota, crederesti sia candida rosa tinta dal sangue; dai seni prosperosi, li crederesti due melegrane acerbe su vassoio d'argento; dagli occhi languidi, il suo sguardo è ammaliatore, anzi, assassino; dalle palpebre bistrate, crederesti sia occhio della gazzella di Hotana; dalle gambe formose...». Nel racconto del sacco di Costantinopoli non si fa cenno a distruzioni di libri — che pure ci furono in misura non minore che nel 1204 ad opera dei crociati —, forse perché l'argomento non interessa per nulla al narratore, preso da entusiasmo per l'ampio pascolo sessuale offerto dalla conquista.
L'altro motivo di eccitazione per Tursun è l'oro che fu depredato in quantità ingenti: «Oro e argento furono acquistati al prezzo del rame e dello stagno. In questo modo — commenta —, grazie a quelle cose preziose, molte persone si elevarono dalla più profonda povertà a una straordinaria ricchezza. In breve, gli infedeli, gli uomini che marciano sulla via dell'errore, caddero nella rovina, mentre l'esercito del sultano, meglio ancora l'intero mondo abitato, proprio grazie ai loro preziosi tesori, ai loro fanciulli, ai loro gioielli e ai loro ricchi ornamenti assunse l'aspetto del paradiso».
Il resoconto dei vincitori è sempre unilaterale e talvolta anche irritante. In questo caso è molto utile sul piano storiografico, poiché sulla fine di Costantinopoli pesa, sul piano della «mitologia storiografica», l'effetto della cattiva coscienza del mondo cristiano. Le potenze dell'epoca nulla fecero per salvare Bisanzio, ma lucrarono emotivamente sulla sua caduta per rinfocolare l'odio contro gli «infedeli» e contro gli ortodossi, raffigurati per lo più come infidi e ingrati. Insomma la vicenda del 1453 è davvero, da ogni punto di vista, una pagina capitale nella storia della Realpolitik.
Ma questo non ci indurrà a scivolare nell'illusione ottica di assumere come verità quella dei conquistatori. Audiatur et altera pars («Si ascolti anche l'altra parte») non dovrà significare che la verità ce la fornisce l'altera
pars. Sarebbe un procedimento poco critico. E non è, credo, lo spirito della neonata collana mondadoriana «Islamica» di cui questa Conquista di Costantinopoli (ma il volume contiene molto altro) di Tursun Bey è il secondo titolo.
Un recentissimo libro di Bat Ye'or (Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita,
Lindau editore) descrive, anche se in toni molto aspri, un meccanismo mentale che in alcuni ambienti si sta producendo, il bamboleggiamento estetizzante nei confronti di ciò che viene dall'Islam: una forma di anti-illuminismo estetizzante che non giova alla conoscenza, ma rischia semmai di sostituire un dogmatismo ad un altro. Benemerita è invece l'opera di conoscenza e di allargamento della documentazione se sorretta da spirito critico e non confessionale.
Il subentrare sulle sponde del Bosforo, all'ultimo imperatore bizantino, di un dinasta turco il quale assunse subito il nome di «Cesare» è un evento epocale nella storia degli equilibri di potenza, nonostante il peso ridottissimo dell'ormai larvale impero d'Oriente. È di lì che incomincia la lunga e complicata partita tra «terza Roma» (Mosca), impero ottomano ormai padrone della «seconda Roma» (Bisanzio) e le grandi potenze europee occidentali. Una orwelliana partita a tre, che ancora oggi prosegue con la disputa assai poco teorica sull'allargamento in direzione di Ankara, anziché di Mosca, della «Comunità Europea».

l’Unità 13.6.07
Sinistra senza piazza
Il voto e il vuoto
di Michele Ciliberto


Non c’è da rallegrarsi sul fatto che le manifestazioni organizzate dalle sinistre radicali a Roma siano state un sostanziale insuccesso nonostante i vari tentativi che vengono fatti per offuscarne l’effettivo fallimento.
Una sinistra radicale forte e bene organizzata sarebbe un bene anche per il consolidamento dello schieramento di centrosinistra; e più in generale, per uno sviluppo equilibrato di tutto il nostro Paese.
Tanto più c’è da preoccuparsi perché il sostanziale fallimento delle manifestazioni di Piazza Navona e di Piazza del Popolo viene dopo una significativa flessione elettorale causata, per quanto riguarda le forze del centro-sinistra, da un forte astensionismo. Se si riflette sull’insieme degli eventi di queste ultime settimane è precisamente questo il punto che appare più in rilievo e che preoccupa maggiormente anche per la tenuta democratica del nostro Paese: c’è una tendenza sempre più forte a ritirarsi dalla partecipazione politica anche quando si tratti di importanti scadenze elettorali. Non si arriva a cambiare campo ma ci si mette fuori dal gioco manifestando il proprio disinteresse per come viene giocata la partita. È un gesto politico anche questo che bisogna saper cogliere in tutta la sua profondità senza cullarsi in illusioni che sono alla fine di breve respiro.
È vero: il governo Prodi esce rafforzato dalla visita del presidente Bush anche per la mirabile prova di capacità e di correttezza data dalle forze dell’ordine della quale bisogna tener conto. Ma se si esce dalla logica politica strettamente intesa appare evidente, a mio giudizio, che il governo Prodi continua a essere legato a un filo e che in qualunque momento un refolo di vento può trascinarlo via. Come è stato rilevato molte volte - e anche in questi giorni - paradossalmente la sua forza consiste proprio nella sua debolezza, nell’essere dunque un ossimoro politico. Un governo che voglia però avere ambizioni strategiche - come dovrebbe essere quello di Prodi - non può reggersi su condizioni politiche di questo genere. E qui il problema diventa complicato e merita di essere analizzato in tutta la sua complessità.
Un politico assai autorevole ha sottolineato in questi giorni che il problema essenziale per il nostro Paese è di assecondarne la crescita e «di tarare l’azione del centro-sinistra su un’idea di una e vera e propria “ripartenza”. Questo serve - ha detto Massimo D’Alema - mentre non servono nuovi conflitti. La gente vuole che il Paese sia governato. La gente è stufa dei casini...». Non sono d’accordo; anzi, credo che porre le questioni in questo modo non ci aiuti ad uscire dalle difficoltà in cui ci troviamo. I conflitti, quando sono ordinati e disciplinati, sono sempre positivi per lo sviluppo di una democrazie e, in generale, di un Paese. Non è dunque auspicando la riduzione o la fine dei conflitti che si fa la scelta politicamente giusta.
Il problema di fondo che si esprime nel fallimento delle iniziative contro Bush e nell’astensionismo che ha segnato anche il secondo turno elettorale - due eventi, lo ribadisco, che a mio giudizio vanno considerati insieme - concerne anzitutto la fondamentale crisi di rappresentanza politica che il nostro Paese continua a vivere e che si accentua giorno dopo giorno con una separazione sempre più grave ed evidente di governanti e governati. In Italia è questo il problema che è aperto ormai da qualche decennio, ed esso riguarda direttamente la questione delle fonti e delle forme della sovranità nel nostro Paese; riguarda dunque il problema della nostra democrazia. Ed è nel quadro di questo problema che a mio giudizio va collocata la questione della sinistra in Italia, della sua funzione nazionale, e dello stesso Partito democratico.
Questo partito ha un senso nazionale profondo se ristabilisce su basi nuove il nesso tra “politica” e “società” (per usare due termini classici) costituendo un circuito virtuoso tra governanti e governati; ha un senso cioè se riesce a porre e risolvere in modi nuovi il problema della rappresentanza nel nostro Paese scendendo coraggiosamente anche sul terreno del federalismo. È questa la vera sfida che abbiamo di fronte; ed è proprio su questo terreno che si sono prodotti i danni più gravi. Molte di queste speranze si sono infrante infatti contro le dure repliche di una realtà sorda immobile e incapace di rimettersi in discussione. Le piazze che si erano riempite di gente desiderosa di partecipare si stanno svuotando e cominciano ad essere abbandonate. Se si pensa all’esperienza delle primarie e al valore che avevano assunto le piazze come incontro di partecipazione e di vita democratica sembra che siano passati alcuni secoli invece di pochi mesi. La velocità del cambiamento non può e non deve però sorprendere: sappiamo tutti che i tempi della politica contemporanea sono velocissimi e che non è facile saperli controllare.
Bisogna sempre stare attenti a non stabilire rapporti meccanici tra avvenimenti diversi: una cosa naturalmente è la partecipazione alle primarie per l’elezione dei sindaci; un’altra la partecipazione a una manifestazione contro Bush. Sono ovviamente eventi diversissimi da non confondere. Ciò non toglie che la campana dell’astensionismo abbia suonato in questi giorni anche per il Partito democratico. Come sempre la storia sa essere paradossale: nato per incrementare le speranze di un cambiamento, il Partito democratico, proprio per la fiducia che aveva acceso, rischia di diventare un elemento di distacco e di vero e proprio disincanto che precipita nella crisi della partecipazione politica. Ma anche qui bisogna saper sollevare l’occhio dalla parte e guardare all’intero, cioè al destino di tutta la sinistra italiana.
Sarebbe infatti certamente sbagliato concentrare la propria attenzione solo sulle difficoltà del Partito democratico e non tener conto che il quadro della sinistra va considerato unitariamente, senza dimenticare, naturalmente le differenze profonde che pur ci sono e che vanno dichiarate a viso aperto. Non è però interesse del Partito democratico la frantumazione della sinistra radicale; né è interesse della sinistra radicale il fallimento del Partito democratico.
Bisogna imparare a ragionare in termini sistemici. Se il Partito democratico riesce a crescere in modi positivi esso avrà effetti benefici sull’insieme della sinistra italiana e del nostro Paese, mentre una sua crisi precoce contribuirebbe a un’ulteriore frantumazione del quadro politico italiano nella sua complessità. Allo stesso modo se la sinistra radicale riesce a “ordinarsi” può svolgere una funzione positiva per l’insieme del movimento riformatore italiano. Entrambi, Partito democratico e sinistra radicale, possono e devono dare un contributo alla soluzione al problema centrale della società italiana, quello di una nuova rappresentanza politica - e di nuove forme e modelli di sovranità - che il Paese sta chiedendo con forza e che ancora non riesce ad avere con le conseguenze che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. È su questo terreno che si gioca la partita decisiva, come dimostrano anche i risultati elettorali e specialmente i colpi che il centro-sinistra ha subito nell’Italia settentrionale. Non è molto, però, il tempo che resta a nostra disposizione.

l’Unità 13.6.07
Sinistra in Europa. Non soffre solo Parigi
di Gianni Marsilli


Sinistra, se Parigi piange certo l’Europa non ride
Il Ps ha bruciato già tutti i consensi costruiti per le presidenziali
La Spd governa all’ombra di Merkel. Per Zapatero prime difficoltà

Recuperare sarà dura, durissima. Non s’inventano in tre giorni un obiettivo, una strategia, alleanze, leadership politica. Se poi la diarchia da tinello che governa il partito socialista si mette pure a litigare in pubblico, come accade tra Ségolène Royal e François Hollande, allora ha ragione il giovane e molto severo deputato Manuel Valls, che fu il portavoce di Lionel Jospin a palazzo Matignon: «Sono stufo di vedere la vita politica, e in particolare quella del mio partito, ruotare attorno alla vita di una coppia». Perché non filtra altro, dal fronte targato Ps, e battute e sarcasmi arrivano come se piovesse. Ancor più grave, una prima analisi sociale del voto ha rivelato che si è squagliata come neve al sole la nuova base di consenso, fragile ma ricca di potenziale programmatico ed elettorale.
A mancare all’appello, domenica scorsa, sono stati i giovani e le banlieue. In posti come Argenteuil e Clichy-sous-Bois il consenso socialista si è dimezzato nell’arco di cinque settimane, dal 6 maggio all’11 giugno. Come del resto l’afflusso alle urne, passato dall’84 al 46 per cento, una vera emorragia. In molti avevano creduto in Ségolène, in pochi credono nel suo partito.
La crisi del Ps avrà due sbocchi possibili. Se domenica prossima l’ondata sarkozysta diventerà un vero tsunami, allora sarà molto difficile per François Hollande rimanere alla testa del partito fino al congresso dell’autunno 2008. Dovrà rapidamente dimettersi. Sarà quindi ancor più difficile per Ségolène costruire la sua leadership, operazione che ha bisogno di un po’ di tempo: l’elettorato che è mancato all’appuntamento dell’11 giugno è soprattutto il suo. Hanno resistito meglio, invece, i tradizionali bastioni socialisti, quelli tenuti dagli «elefanti» come Laurent Fabius, Henri Emanuelli, Jack Lang. I quali non mancheranno certo di trarne le conseguenze e di farle pesare. In particolare difficoltà, infatti, sono proprio i membri della guardia più stretta di Ségolène, lo staff che l’aveva accompagnata alle presidenziali. Quasi nessuno è sicuro di essere eletto o rieletto: né il portavoce Arnaud de Montebourg, né il direttore di campagna Jean Louis Bianco, né il portavoce del partito Julien Dray.
La sinistra francese si dibatte quindi nella sua condizione storica naturale, che è minoritaria. È dall’88 che non vince un’elezione politica, con l’eccezione del ’97, quando Jacques Chirac sciolse tanto provvidenzialmente quanto maldestramente un parlamento che gli era fedele per l’80 per cento. I socialisti sono egemoni a sinistra, è vero. Ma non perché abbiano saputo assorbire il resto della sinistra, la quale si è invece estinta da sola sul fronte cieco del rifiuto categorico di qualsiasi nozione di mercato, concorrenza, imprenditorialità. I socialisti sono quindi più soli che egemoni.
A poco serve ai socialisti francesi guardare oltre le frontiere. La sinistra corre il rischio di essere minoritaria quasi dappertutto in Europa. Il 27 giugno prossimo s’insedierà a Downing Street Gordon Brown, ma non sull’onda di una vittoria elettorale. Quella dovrà costruirsela con le unghie e con i denti, per essere riconfermato nel 2009 o nel 2010. I sondaggi britannici continuano infatti a dare i conservatori di David Cameron in testa di parecchie lunghezze. Sarà molto difficile per Brown ricreare lo slancio che fu di Tony Blair dieci anni fa, anche se potrà verosimilmente contare su un partito unito, avendo appena ottenuto l’investitura da parte di 313 sui 352 deputati laburisti. Consapevole dell’usura del New Labour, Brown moltiplica i segnali di discontinuità. Promette un governo «più collegiale», assicura che sarà «meno ossessionato dalla manipolazione mediatica».
Neanche oltre Reno il quadro appare entusiasmante. La Spd governa, ma ad incassare gli utili è Angela Merkel. Kurt Beck, presidente della Spd, è consapevole di un certo sfilacciamento delle sue truppe. Ha deciso di dare al partito una direzione più dinamica e volitiva. I vicepresidenti non saranno più cinque ma tre. Il più anziano è Peter Steinbruck, 60 anni, attuale ministro delle finanze. Accanto a lui Andreas Nahles, 36 anni, che era stata alla testa dei giovani socialdemocratici, e Franck Walter Steinmeier, 51 anni, ministro degli Esteri ed ex braccio destro di Gerhard Schröder. La triade dovrà ricevere l’avallo del congresso che si terrà nel prossimo ottobre ad Amburgo. A dar il mal di testa alla Spd non è soltanto la popolarità di Angela Merkel. Sono i sondaggi, che parlano di una Cdu-Csu al 36-37 per cento e di una Spd al 28-30. E c’è anche il Partito della sinistra nato dalla fusione tra la Wasg (i fuoriusciti dalla Spd come Oskar Lafontaine) e gli ex comunisti dell’est. Nel maggio scorso hanno fatto per la prima volta il loro ingresso in un parlamento regionale occidentale: è accaduto a Brema, dove hanno raccolto l’8,4 per cento dei voti. È inoltre con una certa inquietudine che Zapatero, dall’altra parte dei Pirenei, guarda alle legislative del prossimo marzo. Esaurita la felice ondata riformatrice in senso laico dello Stato, il capo del governo spagnolo si ritrova tra i piedi intero il problema dell’Eta, che i popolari hanno largamente utilizzato per riportare una corta ma indiscutibile vittoria alle municipali e regionali dei giorni scorsi.
Resta alto nel Ps francese, invece, l’interesse per quanto accade in Italia: lo snodo autunnale del Partito democratico, i rapporti tra il centro e la sinistra. Lo vedono come un utile laboratorio, ma i tempi non combaciano: qui si vota domenica prossima, e sarà, se tutto va bene, per cinque anni

Repubblica 10.6.07
Cacciari: Giordano, Diliberto e compagni sono conservatori che con l'innovazione non hanno nulla a che spartire
"Rifondazione zavorra per l'Ulivo questo flop di Roma è un segnale"
di Umberto Rosso


Sinistra radicale. Ma quale sinistra radicale. Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Frena le liberalizzazioni
Le vie d’uscita. Ci vuole un Partito democratico federale. Al Nord come al Sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica?

ROMA - «Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l´innovazione non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più nessuno».
Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche grazie a loro.
«Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra».
Non sarà invece che l´anti-americanismo non paga più?
«L´anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non è certo perché la gente ama il presidente degli Usa».
Perché, allora?
«Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi, decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell´Ungheria, di Praga, dell´Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la manifestazione di una minoranza dei conservatori».
Minoranza, perfino?
«Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché stanno dall´altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l´hanno portato: un bisogno della politica, del desiderio, dell´utopia, chiamatela come vi pare».
La sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti?
«Ma radicale de che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l´hanno mai avuto. Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano né a destra né a sinistra».
Però i voti li hanno pescati, il cantiere di sinistra conta 150 parlamentari.
«Gli rimane qualcosa aggirandosi fra i cascami dell´ideologia. Ma soprattutto resistono ancora grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo».
Non sarà che a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga pegno?
«Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c´entra nulla. Anche perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri padri costituenti? Puntare nell´Italia del ‘46, devastata dalla guerra, alla piena occupazione, era un programma di lotta e di governo».
Teme, dopo il flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
«Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no c´è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti all´attacco. E´ l´unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l´arbitro fischi la fine della partita».
Come si mette la palla in rete?
«Una Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare politica se devo stare con Rifondazione?».

Repubblica 10.6.07
Rischioso elogio del nostro premier (solo un estratto)
di Eugenio Scalfari

(...)
Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica.
La sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le recenti amministrative non sono andate affatto bene. L´effetto sembra esser stato quello di suggerirle un´ulteriore radicalizzazione politica soprattutto in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell´impiego delle risorse disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione, dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito e al voto della Camera guidata dal suo presidente.
Apprezzo l´eloquenza e la rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno all´immagine sua e, quel che è peggio, dell´istituzione che presiede. (...)

il manifesto 13.6.07
Unitari e radicali per non ingoiare rospi
Pietro Folena
*

Il problema, per le forze della sinistra dell'Unione, era partecipare o no al corteo anti-Bush e anti-Prodi? Questa la domanda che sembra attanagliare la nostra discussione di questi giorni. Secondo me è una domanda sbagliata. Se è evidente l'errore compiuto da alcuni movimenti pacifisti e dalle forze politiche della sinistra nell'indire la manifestazione di piazza del Popolo, non credo che partecipare a un corteo indetto su una piattaforma inaccettabile e che non a caso ha visto una partecipazione significativamente più ridotta rispetto a quelle del recente passato, avrebbe evitato di esporre la sinistra a una dinamica negativa. C'era forse un altro modo - lo ha trovato perfino Andrea Riccardi - per manifestare il proprio radicale dissenso con la guerra di Bush.
Guardiamo le cose come stanno. Si può dire che il governo è stato carente un po' su tutti i fronti. Ma quello della politica estera è sicuramente un ambito in cui alcuni importanti cambiamenti ci sono stati: il ritiro dall'Iraq, l'impegno in Libano, il no a ulteriori truppe in Afghanistan e il non impegno di quelle lì presenti in azioni di combattimento, accompagnato dalla proposta di una conferenza di pace, la nostra linea sull'Iran, l'appoggio ai paesi arabi, il dialogo persino con le frange più estreme di quel mondo, lo smarcamento dalle politiche americane e il ritorno nel contesto europeo sono tutti elementi di forte novità. Certo: c'è stato un pesante strappo, gravido di conseguenze, operato personalmente da Prodi, sulla questione del Dal Molin, e il contenzioso nella maggioranza è evidentemente aperto. Però non valorizzare, per questa ragione, i successi ottenuti mi pare autolesionistico. Semmai ora il problema è lo scudo spaziale, e il contrasto a altre scelte di riarmo dell'amministrazione Bush.
Il punto fondamentale, per la sinistra, è quello di evitare due riflessi possibili di questa situazione. Il primo è quello «ipergovernativo» (essere unitari, ma non radicali) per cui occorre digerire qualsiasi rospo in nome della stabilità. D'Alema, in singolare sintonia con Bernocchi, si deve dare pace: si deve essere di lotta e di governo, e certo la sinistra non può seguire i pessimi esempi venuti dalla maggioranza dei Ds che, a forza di ingoiare rospi, ha finito col desiderarli. L'altro riflesso è invece il rifiuto del tema del governo (essere radicali, non unitari), coltivando l'illusione su quanto stavamo bene all'opposizione, la nostalgia di posizioni passate, o comunque la voglia di non combattere più e di rifugiarsi in uno splendido, un po' settario, molto inconcludente isolamento.
C'è una terza strada. Quella di essere unitari e radicali. Di provare a spostare l'asse del governo a sinistra (anche se a qualcuno non piace). Una strada che - per come è fatta la società politica - passa solo attraverso un accordo tra i gruppi dirigenti della sinistra per costruire un soggetto comune. Ma affonda le sue radici nel paese reale. Cosa ci chiede l'elettorato? E' semplice: vuole che otteniamo dei risultati. Vuole che il suo voto sia «utile». Vuole sapere di non avere sbagliato a votare.
I temi sul tappeto sono noti: il tesoretto, la legge 30, le pensioni, i salari, i contratti. Aggiungo la scuola, di cui poco si parla, ma che è in una sofferenza indicibile, le politiche abitative e i diritti civili. Su questi temi noi dobbiamo (e sottolineo: dobbiamo) portare a casa risultati concreti, in linea con il programma dell'Unione. Questi temi insieme costituiscono il banco di prova dell'efficacia della nostra azione come sinistra e la salvezza per lo stesso governo Prodi. Se non ci sarà svolta sulle questioni sociali il problema non si porrà per il Prc, ma sarà il governo a aver intrapreso una strada senza uscita, esaurendo in pochi mesi ogni rapporto di simpatia con l'opinione pubblica. I riformisti-moderati non sono in grado di rispondere alla sfida. Dovremmo farlo noi. Ma ora siamo in sofferenza.
Dobbiamo invece fare tesoro di quanto accaduto a Taranto, dove la sinistra si è presentata unita e ha sbaragliato tutti. Il problema è quello dell'unità delle forze della sinistra, che oggi, alla vigilia di queste sfide, è una vera e propria urgenza. Solo con l'unità possiamo determinare la svolta che auspichiamo. Se questa non è ancora avvenuta non è solo perché ci sono soverchianti forze avversarie. C'è anche una nostra responsabilità, una responsabilità della politica che non riesce ancora a seguire i tempi della società, degli apparati o dei «ceti politici» che resistono all'unità per ragioni di visibilità. I nostri elettori sono invece già uniti. E ci aspettano al traguardo.
Sabato e domenica c'è un appuntamento di grande rilievo, l'assemblea della Sinistra europea. Da lì devono arrivare parole molto chiare sui temi di merito e sul percorso unitario. Si sono fatti passi in avanti (penso all'assemblea dei parlamentari, occultata non a caso da buona parte dei media). Ma insisto: da subito occorre delineare un percorso ambizioso. Dal basso e dall'alto. Entro settembre convochiamo una assemblea pubblica, di massa, una costituente della sinistra. Facciamola precedere da assemblee in tutto il paese. Convochiamo le primarie sul programma. Chiediamo ai nostri elettori cosa vogliono da noi. Cosa fare su pensioni, casa, Dico, scuola, tasse, extragettito. Sulla politica estera e sullo scudo stellare. Diciamo loro che alle prossime elezioni troveranno un nuovo simbolo che ci rappresenta tutti (il simbolo di una coalizione politica, sociale, civile della sinistra), alleato, fin quando possibile, con i moderati del Partito democratico.
Per uscire dalle difficoltà bisogna lanciare il cuore oltre l'ostacolo. E' proprio ora, in un mare aperto e non molto tranquillo, che si misura la capacità della sinistra e dei suoi dirigenti di avere una funzione generale.
* Portavoce di Uniti a sinistra


Liberazione 13.6.07
Banche, politica e intercettazioni
La gogna per D'Alema e la partita Pd
di Rina Gagliardi


Non occorre far parte dei così chiamati addetti ai lavori , basta essere semplicemente una persona di buon senso per capire "che cosa c'è dietro" la massiccia diffusione mediatica delle intercettazioni sulle scalate Unipol-Bnl. Il bersaglio evidente è Massimo D'Alema, la figura politica di massimo spicco (è il caso di dirlo) di cui i Ds a tutt'oggi dispongano. E l'obiettivo, altrettanto evidente, è quello della delegittimazione morale , non certo del coinvolgimento giudiziario, di un intero gruppo dirigente. Ormai, lo scontro politico si svolge senza regole e senza limiti - all'insegna della più totale spregiudicatezza e di una crescente, inquietante volgarità. Così è accaduto, pochi giorni fa, a proposito del "caso Visco" (e Visco non è solo il viceministro delle Finanze che tenta di introdurre in questo Paese la dimensione ignota della lotta all'evasione fiscale, ma è notoriamente un dalemiano di ferro). Così accade oggi, con i paginoni dei maggiori quotidiani che traboccano di conversazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta giudiziaria aperta sulla famosa estate calda del 2005. Così, temiamo, può accadere ancora nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Tanto veleno sparso a profusione evoca un clima da "ultimi giorni della Repubblica", e tende a colpire quel pochissimo che resta della credibilità della politica e delle istituzioni rappresentative.
Ma perché un attacco così insistito e articolato a Massimo D'Alema? Lasciamo stare le "dietrologie" , esercizio nel quale per altro non siamo versati, lasciamo stare i complotti, e guardiamo alla politica. Agli effetti possibili di questa vicenda. Alla lotta furibonda che si sta svolgendo ("dietro le quinte") nel nascente Partito Democratico, per la sua leadership, ma anche per la sua identità politico-culturale. Sarà, il nuovo soggetto della politica italiana, una forza in qualche modo di "compromesso" tra sinistra e centristi, tra socialdemocratici e liberali, tra postcomunisti e (post) democristiani? O non sarà piuttosto un partito puramente liberale, al massimo liberaldemocratica, con qualche spruzzatina di radicalismo? Qui, evidentemente, c'entrano, e non poco, i destini politici dei D'Alema, dei Fassino, dei Rutelli e dei Veltroni. Intendiamoci: l'attuale Ministro degli esteri non è certo un radical: per meglio dire, è sempre stato molto distante dalle posizioni e dalla cultura politica della sinistra, non solo radical. E' un postcomunista (e un post-togliattiano) che, sia pure con frequenti oscillazioni, si riferisce, grosso modo, ad un orizzonte socialdemocratico di tipo europeo. Insomma, a differenza di altri leader ds e margheritini, D'Alema rappresenta nel futuro Partito Democratico una "gamba di sinistra": sinistra alquanto moderata, realpolitiker, qualche volta ipertatticista e perfino cinica, ma pur sempre sinistra, che mantiene un filo di continuità e di rapporto con la storia novecentesca della sinistra. E infatti, come ministro degli esteri del governo Prodi, D'Alema ha cercato, a larghi tratti, di portare avanti una politica un po' più europea, marcando una relativa autonomia dell'Italia dallo strapotere americano e, soprattutto, una notevole discontinuità rispetto al quinquennio berlusconiano. E dunque? Dunque, ove per caso la campagna di discredito sul vicepremier avesse successo e la sua figura pubblica ne uscisse seriamente ridimensionata, la prima e più significativa conseguenza sarebbe sul e nel Pd - dove l'egemonia di Walter Veltroni e di Francesco Rutelli ne uscirebbe, a questo punto, incontrastata. Il Partito Democratico nascerebbe davvero così come lo sogna Antonio Polito nel suo appassionato pamphlet "Oltre il socialismo": liberale, liberista, blairista, ispirato nella politica economica e sociale dai professori del Corriere e dai consiglieri dell'amministrazione di Washington in politica estera. Un destino politico che, in teoria, spalanca spazi immensi alla sinistra che può rinascere. Ma che nella pratica rischia anche e soprattutto di sospingere verso destra l'intera politica democratica italiana.
Dicevamo degli effetti indotti dall'attuale, francamente disgustosa pratica, del gossip sistematico che passa per giornalismo. Una sola osservazione sui suoi contenuti concreti, che rivelano non una deviazione morale, ma una linea politica radicalmente sbagliata: quella che ha portato i Ds, in questi anni, a coltivare il "sogno" di un (loro) rapporto privilegiato con il capitalismo e con i nuovi poteri finanziari. A coltivarlo in termini non solo politicamente subalterni, ma strategicamente perdenti - cioè senza un'ipotesi forte di sviluppo del paese, senza un'analisi e una prospettiva sociale chiare, senza un'idea fondata del ruolo che spetta alla politica. A Massimo D'Alema esprimiamo oggi tutta la nostra solidarietà. Ma ci permettiamo di consegnargli anche una considerazione del tutto fraterna: giocare con le banche, con le scalate, con questo o quel parvenu miracoloso (o miracolato) non è il mestiere che gli compete. Non è il mestiere della politica, non è lo strumento che serve alla sinistra. E, viste le sue più recenti esternazioni che invitano alla sepoltura dei partiti di lotta e di governo, gli assicuriamo che noi, le piazze, continueremo a frequentarle. Fanno meglio delle banche.

Liberazione 13.6.07
Uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della
Guerra europea, quella in cui l'Italia si è gettata nel maggio del '15

Un altro comunismo è possibile?
Il giovane Gramsci a Torino
di Angelo d'Orsi


Una delle tante questioni che concernono lo studio di Gramsci attiene al lungo predominio di una impostazione che ha quasi completamente negletto il periodo torinese, salvo che il biennio consiliarista (1919-‘20), seguito dalla fondazione del Partito Comunista d'Italia, nel gennaio del 1921. Un momento politico che era stato preceduto, di sole tre settimane, dalla fondazione de L'Ordine Nuovo quotidiano, il quale, sotto la medesima testata del "settimanale di cultura socialista" (nato il 1° maggio 1919), in realtà era la continuazione dell'edizione piemontese dell'Avanti!. Tali iniziative, delle quali il Sardo fu animatore e artefice massimo, generalmente sono state definite "giornalistiche", in modo un po' semplificatorio e certamente riduttivo, e sono di conseguenza state interpretate come una mera "preparazione" al "vero" Gramsci, quello dei Quaderni. Non è casuale che quel Gramsci sia quasi l'unico con cui gli studiosi si sono confrontati, e si confrontano tuttora, in un fiorire di studi che ha del prodigioso. Invece occorre insistere su un dato: quelle del periodo torinese (1911-‘22), sono avventure politico-intellettuali di enorme rilievo, la cui lettura non può essere concepita nei termini puramente finalizzati alla comprensione del Gramsci "maturo", il Gramsci che conta, l'autore degno di essere letto e studiato. In realtà il Gramsci torinese, anche quello che precede la fondazione de L'Ordine Nuovo, è pienamente "maturo", e merita di essere analizzato con molta cura, certo per meglio penetrare nell'universo dei Quaderni, ma anche per tutto quanto i suoi scritti e la sua azione politica concreta offrono.
Il Gramsci "giornalista" ci appare dunque uno straordinario osservatore della vicenda storica, e in particolare della Guerra europea, quella in cui l'Italia di Salandra e Sonnino, con la complicità decisiva di re Vittorio Emanuele III, si è gettata irresponsabilmente nel maggio del '15. La Grande guerra, anche per la sua inusitata dimensione globale e per la sua durata, vede all'opera una profluvie di "stenterelli" (per dirla con Gramsci), che inventano, mistificano, mentono e cantano in ogni cortile le loro scempiaggini, che nondimeno fanno presa sulle persone. Dunque il "giovane Gramsci" si dedica ad una sistematica opera di smascheramento della menzogna, con una costanza e un acume che rendono unica la sua figura nel panorama dell'intellettualità italiana: e non così frequente sulla scena europea.
In quest'attività intensissima, a partire dalla fine del '15, dopo quell'anno di autoesclusione a seguito di un articolo dell'ottobre '14, in cui aveva assunto una posizione apparentemente prossima a quella di Mussolini, in rotta con il Partito Socialista, Gramsci porta il significativo bagaglio acquisito nell'inconcluso, ma tutt'altro che inconcludente, "garzonato universitario", nell'Ateneo di Torino, all'insegna di una coniugazione tra milizia e scienza, in un clima di ricchezza scientifica e di fervore culturale che non temeva confronti sulla scena nazionale. Soprattutto contano, nella formazione gramsciana, gli incontri con eccezionali maestri e compagni, da Cosmo a Pastore, da Farinelli a Bartoli, ma anche da Tasca a Terracini, a Togliatti; con questi ultimi egli darà vita, a guerra archiviata, all'eccezionale avventura de L'Ordine Nuovo. Dall'esperienza universitaria, lo studente che non diventerà "dottore", trae non solo il meglio della "Scuola di Torino", fortemente impregnata di "cultura positiva", fatta di rigore, di attenzione al metodo, di filologia, di storicità. Più in generale, si può cogliere negli anni torinesi un incontro tra gli elementi propri del temperamento del giovane, e il genius loci piemontese: un incontro tra due tipi di serietà, di attenzione all'organizzazione e all'educazione, che, a partire da un certo momento, Gramsci vede in essere specialmente nella fabbrica. Il mondo della produzione, la cultura del "lavoro ben fatto", la "civiltà dei produttori", affascina questo "campagnolo" proveniente dall'isola immersa in un mondo che sembra escluso dal take off industriale, un giovane che reca in sé le stimmate di varie civiltà contadine, dall'Albania alla Calabria alla Campania, luoghi di origine delle famiglie paterna e materna.
In questo percorso formativo, tra università e socialismo, tra militanza di partito e "scuola" operaia, Gramsci, in quella sua assoluta, costante e suprema aspirazione alla verità, esalta altresì lo spirito critico, la vocazione antidogmatica, la vocazione a pensare con la propria testa. Ne è prova la lettura originale che egli dà della Rivoluzione bolscevica ("una rivoluzione contro il Capitale"), o della stessa figura di Marx, che non è, per lui, un "pastore" da seguire a guisa di gregge, non un'icona santa davanti alla quale genuflettersi, ma un pensatore e un rivoluzionario con cui fare i conti, e da cui trarre tutta la linfa vitale per nuove rivoluzioni. E Gramsci mette a fuoco una sua teoria rivoluzionaria, che si distanzia progressivamente dal modello leniniano: qui la base prima di una teoria e una pratica di comunismo critico, di cui L'Ordine Nuovo, all'interno di uno sforzo collettivo a livello internazionale di "revisione" critica, ma "antirevisionista" del marxismo, è un punto d'arrivo e di ripartenza.
Il presupposto della rivista è che non ci possa essere rivoluzione senza un'adeguata preparazione culturale, che significa sia lo sforzo di creazione di una cultura (politica, ma non soltanto) proletaria, ma altresì la necessità di acquisire tutto quanto di buono le classi avverse hanno prodotto - ed è tanto! Per Gramsci, come per il Marx del Manifesto, la borghesia ha svolto una funzione rivoluzionaria nella storia…
Sono queste le coordinate essenziali che determinano dunque il quadro entro il quale Gramsci definisce una propria via, "torinese", al socialismo e poi al comunismo. Un comunismo critico, liberamente marxiano, intriso del miglior liberalismo, per certi versi libertario, venato di utopismo, anche se contro l'utopia intesa come regressione sociale e fuga dal politico. Significativamente si intitola La città futura il numero unico pubblicato nel febbraio '17, e scritto interamente da Gramsci: la città futura è la civitas di liberi ed eguali da costruire fin da subito, che prelude alla teoria della "democrazia operaia" avviata un paio d'anni dopo con L'Ordine Nuovo. In questo comunismo ideale, deve esservi spazio per la cultura - vera "gioia" dello spirito - , giacchè il comunismo non intende bandire la bellezza, e per il quale l'arte deve essere libera e creativa.
In tal senso va spiegata l'interpretazione della Rivoluzione d'Ottobre, del bolscevismo e di Lenin. In tal senso, dev'essere considerato L'Ordine Nuovo, punto d'arrivo di un'elaborazione messa a fuoco negli anni della guerra, e punto di partenza dell'esperienza del consiliarismo, che mira a realizzare quella nuova democrazia, partendo dalla fabbrica e dagli operai, individui concreti, "uomini in carne ed ossa", ai quali Gramsci presta un'attenzione quasi esasperata, e dei quali cerca di interpretare i bisogni: questa fu la forza dell "ordinovismo", mentre la sua debolezza consistè in un torinocentrismo, che impedì di cogliere le differenze tra la "Pietrogrado d'Italia" e il resto del Paese.
Nel periodo torinese, in definitiva, Antonio Gramsci lavorò sul piano teorico e su quello pratico-organizzativo, per delineare un comunismo ideale, la cui essenza può essere vista nel porre la verità al di sopra della ragion di Stato o di Partito. Ben altra sarebbe stata la strada del "comunismo reale", ma esso nulla a che fare ha con il pensiero e l'opera di Gramsci, anche se, va detto, che tra la nascita del PCd'I e l'arresto (1926), ci fu una sua "bolscevizzazione", che tuttavia non solo non stravolse quella posizione, ma che, nella riflessione carceraria, fu in parte ridiscussa, all'insegna della profonda meditazione sulla sconfitta epocale del movimento operaio, e della teorizzazione delle nuove vie per una nuova possibile rivoluzione in Occidente, che non avrebbe potuto essere "l'assalto al Palazzo d'Inverno".
Chissà se proprio dall'elaborazione ideale di Gramsci, non si possa dire, con le cautele necessarie, che non soltanto un altro mondo, ma "un altro comunismo è possibile".

Liberazione 13.6.07
Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione
La valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata
ma non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico

di Gianluca Peciola
*

Grande e appassionata è stata la manifestazione contro Bush e le politiche di guerra del Governo Prodi. Come Riva Sinistra abbiamo scelto starci, insieme al network comunità in movimento, nonostante i rischi. Ecco il nodo, quali i rischi? Il rischio di essere schiacciati dal taglio pregiudizialmente e ideologicamente antigovernativo. Il rischio di essere coinvolti nella prima presunta o reale rappresentazione pubblica di un nuovo soggetto politico extraistituzionale dagli inconsapevoli o meno richiami "Bordighisti". Il rischio di apparire contrapposti ad un popolo che è parte del movimento e contrapposti a forze politiche che indubbiamente, pure nella loro scelta di Governo, sono dentro i movimenti. Il rischio di fallire, di trovarci impantanati in un corteo in cui il segno prevalente fosse quello dello scontro con Rifondazione (a vantaggio dell'operazione soggettivista di cui sopra) e dello scontro di piazza (cosa che immagino spaventasse anche gli altri partiti). Abbiamo affrontato questi rischi, innanzitutto d'istinto, avvertendo subito la parzialità della convocazione intorno ad un concerto. No, non si può, semplicemente non si può staccare le forme del dissenso in maniera così fredda dai suoi obiettivi. Bush merita una risposta forte, decisa, coinvolgente. Abbiamo deciso di assumere le parole d'ordine della convocazione, segnalando da subito l'indisponibilità a fare di quel corteo un momento di celebrazione di nuova soggettività minoritaria e al tempo stesso di farne il bersaglio per gli amanti dei "racconti della tensione". Radicale, pubblica, pacifica e non contrapposta a una piazza in cui non ci sono nemici. Abbiamo deciso di promuovere il corteo, fondamentalmente perché in quel percorso passava un messaggio politicamente corretto, è cioè un messaggio in cui si può riconoscere gran parte del popolo della Sinistra, non solo di quella radicale. Bush, le sue responsabilità sull'estensione della Guerra, il Governo Prodi e la sua declamata amicizia con gli Stati uniti e con Bush stesso, il nuovo pantano Afghanistan, con i soldati italiani a sostenere un Governo corrotto e una guerra che non vede fine. E poi, contenuto non secondario che ha aggregato quelle migliaia di persone, la delusione intorno agli obiettivi mancati dal Governo Prodi. Tutto quello che avrebbe dovuto mettere in agenda come prioritario e che è lontano dal realizzarsi. Tutto quello che farebbe un governo di Sinistra. Ecco l'altro punto, ecco un aspetto che può spiegare il successo della manifestazione. Un parte del popolo della Sinistra era in piazza. Non ha scelto Piazza del Popolo, ha scelto il corteo. Lo ha fatto anche perché abbiamo contribuito a rappresentare la manifestazione come pacifica, smontando il clima di tensione e dicendo che era la manifestazione di tutti e tutte, e perché ha visto nella piazza una risposta giusta al Governo, non necessariamente per chiederne la caduta, ma per mandargli un segnale di sfiducia e di opposizione. Già, esiste anche questa variante nel popolo della Sinistra, una variante che la lettura "Bordighista" della realtà non comprende. Un popolo che marcia fuori dai confini dei partiti, che continua anche a votarli, che si oppone al Governo ma non auspica la sua crisi, perchè sa che dietro l'angolo c'è una maggioranza che andrebbe da Forza Nuova a Forza Italia, passando per la Lega. Nel corteo ho visto un popolo che vuole il ritiro dei soldati dall'Afghanistan, che vede il governo Prodi subalterno ai piani strategici Statunitensi, che vuole vivere in un paese laico, che vuol sentire parlare di riforme vere e cioè case, reddito, pensioni, politiche di decrescita, un popolo che odia Bush e le sue stragi, un popolo che non vuol sentir parlare di equidistanza tra Israele e Palestina, ma vorrebbe almeno sentire parlare di due stati per due popoli e la condanna ferma di Israele e del suo espansionismo. C'era anche una "rappresentanza" de "i partiti sono tutti uguali". Una rappresentanza che poteva contenere i tifosi della caduta del Governo, ma anche persone che poi votano a Sinistra, per evitare Berlusconi. Bastava girare per il corteo. Gli spezzoni organizzati dai soggetti della sinistra radicale e anticapitalista (tra cui inserisco anche Riva sinistra e il Network) potevano contare intorno a circa 10.000 persone, il resto era composta da persone della Sinistra diffusa, molti di Rifondazione o di "area" rifondazione, ho visto perfino compagni vicini ai DS, ai verdi, compagni che al momento giusto votano la Sinistra radicale e che nel corteo quasi si giustificavano dicendo "là non ce la facevo proprio a stacce". Purtroppo la valutazione che ha portato a Piazza del popolo è stata sbagliata. Mi è dispiaciuto sentire alcuni dirigenti di Rifondazione sottolineare la distanza dal corteo fino all'ultimo momento. Una sottolineatura che è diventata in alcuni articoli e dichiarazioni anche aggressiva nei toni, mettendo in difficoltà quanti tentavano di stabilire un ponte con il Sit-in. Leggo oggi con piacere la valutazione della Segreteria in merito, valutazione che per il fatto stesso di essere pubblica, costituisce un fatto democratico non scontato, anzi rilevante. Vi è poi, in relazione alla costruzione dell'appuntamento di piazza del Popolo, un altro dato che vorrei approfondire. Un dato più politico e riguarda l'ossatura su cui si vuole costruire il Cantiere. Piazza del Popolo manda un segnale anche in questa direzione. Senza anima non si costruisce nessun nuovo soggetto utile per il cambiamento. Faremmo lo stesso errore del Partito Democratico. Cosa vuol dire "in piazza con l'altra America"? Quale? A chi si voleva parlare, intorno a quale idea forte si è deciso di mobilitare, di far spostare le persone da Rovigo, Catania, Milano, Bari. Ricordate la manifestazione del quattro novembre? Contro la Precarietà, Reddito, lavoro, sicurezza, futuro, casa, unità; unità, si, anche unità della Sinistra se volete, ma una unità che si tesse con l'immaginario e con le sfide quotidiane dei soggetti reali. Dobbiamo recuperare il sogno della trasformazione e le parole d'ordine per cui vale la pena battersi. Non penso sia compito facile, soprattutto in questo frangente, soprattutto con il rischio di apparire come quelli che fanno cadere il Governo nemico di Berlusconi. A Roma stiamo tentando un percorso complesso, radicalità e progetto di competizione sul Governo della città. Partecipazione, autogestione, altraeconomia, antifascismo, battaglie civili e sociali, idea di città tra comunitarismo solidale, inclusione sociale e tensione etica intorno alla politica, contro la città dei lustrini che ammalia senza ridistribuire. Penso che ci siano tutte le condizioni per ragionare di un nuovo percorso per la sinistra radicale, partendo da questo binomio, immaginario di società altra e capacità di contrattualizzare intorno ad obiettivi sociali e civili, scontrandosi con la maggioranza quando necessario. Non è vero quello che dice D'Alema, non è finità la stagione dei soggetti politici di lotta e di Governo. Rifondazione Comunista e la Sinistra Europea, nelle sue diverse articolazioni, lo sono per il fatto stesso che sono nei movimenti e sono nel Governo; sono nei movimenti come erano con piena cittadinanza nel corteo di Sabato, animandolo per buona parte. Si sta nei movimenti forzando, contrattualizzando, praticando forme di autogoverno, si sta nel Governo per aprire spazi, dare visibilità a battaglie sociali e civili, strappare risultati di avanzamento economico e democratico. Si sta nel Governo anche, come Ferrero ci comunica spesso, spiegando i limiti del Governo stesso e dicendo che molti dei risultati dipendono dalla forza dei movimenti e dalla loro capacità egemonica. Si sta nel Governo, ancora, spiegando che l'alternativa non sarebbe la Francia di Sarkosy, ma l'Italia del nuovo patto autoritario e ultraconservatore.
Spero che la giornata di Sabato serva a tutti e tutte per fermarsi a riflettere sui nostri obiettivi immediati e strategici, su quale Sinistra per quale progetto di società. Non è il momento dei processi, è il momento del confronto pubblico. Non credo come dice qualcuno che sabato abbia sancito una frattura tra Sinistra di Governo e di opposizione, il quadro è più complesso ed è sempre scorretto mettere vestiti politici intorno alle piazze. Sabato deve diventare materia collettiva di dibattito. Evitando trasformare questo dibattito in resa dei conti tra correnti di partito. Non servirebbe a nessuno, neanche a chi pensa di aver avuto ragione.
*Riva Sinistra