«LEFT AVVENIMENTI»
Il settimanale oggi non è in edicola
Ferrigolo e Purgatori fuori, è sciopero
Non c’è pace nella redazione del settimanale Left, che oggi non è in edicola per uno sciopero indetto dopo l’annuncio dato dall’editore di un piano di ristrutturazione e dell’avvicendamento alla direzione. Via Alberto Ferrigolo, insediatosi all’inizio dell’anno, e il condirettore Andrea Purgatori. Al loro posto, da due giorni, Pino Di Maula (di ritorno) e Luca Bonaccorsi, amministratore delegato della cooperativa che edita Left e fino a due giorni fa anche direttore editoriale. Cambi motivati con esigenze economiche ma che ricordano invece la vicenda che portò all’allontanamento, a febbraio dello scorso anno, dell’allora direttore Adalberto Minucci e del condirettore Giulietto Chiesa entrati in contrasto con le idee politiche e giornalistiche del “rubrichista” Massimo Fagioli. E il timore, anche in questo caso, è che l’allontanamento dei direttori preluda ad una normalizzazione della linea editoriale. Ma preoccupazione c’è anche per i tagli annunciati: il 30% ai costi della struttura e un minacciato (dopo lo sciopero) intervento anche sul corpo redazionale.
Repubblica 15.6.07
La vera storia dei favolosi inca
Nuovi documenti sulla Conquista in un saggio di Laura L. Minelli
di Adriano Prosperi
Il saccheggio delle immense ricchezze fu devastante
Il grande Impero crollò in mezzo ai barbagli del dio oro
La mia impresa scrive Colombo in una lettera inedita, fu una grande opera di misericordia
Una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V lo accusava di aver avvelenato i guerrieri
La conquista del grande impero del Sole è una delle pagine più celebri della storia mondiale. Nel 1532 un pugno di spagnoli comandati da Francisco Pizarro incontra l´inca Atahuallpa a Cajamarca. E´ un incontro breve e violento: un frate porge all´Inca il suo breviario e gli chiede di adorare il Libro sacro degli spagnoli, l´Inca lo getta a terra con disprezzo, Pizarro lo fa prigioniero mentre i suoi uomini sbaragliano l´esercito dell´Inca. Il grande impero crolla in mezzo agli accecanti barbagli non del dio Sole di cui gli Inca erano creduti i figli, ma del nuovo dio dei conquistatori: l´oro. Sotto il segno dell´oro si scatenò il saccheggio di un impero immenso, esteso dall´altipiano andino alle coste del Pacifico e alle foreste tropicali amazzoniche. Conquista difficile, ostacolata da guerre e ribellioni ma anche dai contrasti tra i conquistadores. L´intervento di una burocrazia imperiale spagnola assistita dal clero cancellò le tracce della religione e della cultura antica. Ma rimasero nella memoria dei popoli andini episodi di resistenza eroica come quello di Tupac Amaru asserragliato a Machu Picchu. Il termine «tupamaro» come sinonimo di ribelle doveva entrare nel vocabolario europeo, mentre anche la parola Perù diventava nome comune, sinonimo di ricchezze strepitose.
Di quel mondo immenso e misterioso, del suo passato e della sua cultura rimasero tracce come i grandi templi o la rete delle strade irraggiantesi da Cuzco. E restarono le narrazioni storiche, quelle trionfali della Spagna conquistatrice ma anche quella di un uomo che recava nel proprio sangue l´eredità antica degli Inca accanto a quella dei conquistatori: Garcilaso de la Vega «el Inca». I suoi Commentari reali dalla data della prima edizione spagnola (1606) non hanno più cessato di popolare la fantasia dei lettori coi colori dei mondi cancellati e delle loro favolose ricchezze. Forse solo i poemi omerici hanno alimentato in maggior misura le emozioni e le passioni di cui si nutre l´archeologia; con la differenza che la storia degli Inca non appartiene alla cultura europea: è come un fiume maestoso che improvvisamente si inabissa e scompare.
Garcilaso conosceva sugli Inca le storie ascoltate durante l´infanzia: favole, canzoni, ricordi di epoche lontane. Ma aveva anche letto un libro di storia che non ci è rimasto: la storia dell´Impero Inca del gesuita Blas Valera. Era scritta - dice Garcilaso - in un latino elegantissimo, ma era stata distrutta nel corso del sacco di Cadice a opera degli inglesi nel 1596 e poco dopo anche l´autore era morto.
Era veramente morto Blas Valera? Anni fa dall´archivio privato di una famiglia napoletana è emerso tra altri documenti un memoriale di Blas Valera datato 10 maggio 1618 e indirizzato al «popolo suo» (quello dei conquistati): vent´anni dopo la sua presunta morte, Blas Valera era vivo anche se costretto all´esilio e scriveva un durissimo atto d´accusa contro chi aveva distrutto il suo popolo e devastato la sua terra. Quanto a Garcilaso, lo accusava di aver saccheggiato la sua opera tradendone lo spirito e aggiustando i fatti narrati agli interessi dei padroni spagnoli. Nella scatola che contiene il memoriale sono conservati altri documenti veramente singolari di cui si è discusso di recente in convegni di specialisti. Oggi finalmente il tutto viene messo a disposizione degli studiosi dall´archeologa americanista bolognese Laura Laurencich Minelli in un robusto volume che contiene trascrizioni e traduzioni dei documenti corredati di saggi e di annotazioni, nonchè una utilissima serie di riproduzioni fotografiche («Exsul immeritus Blas Valera Populo suo» e «Historia et rudimenta linguae Peruanorum», Indios, gesuiti e spagnoli in due documenti segreti sul Perù del XVII secolo, a cura di Laura Laurencich Minelli, Clueb). La storia di questi documenti e della loro circolazione è segnata da un fitto segreto e da ambienti dove l´esoterismo era di casa: confessori ed eretici, indios e gesuiti se li passarono di mano in America finchè, giunti a Napoli nel ‘700, finirono in mano a un celebre personaggio che coltivò un proprio inquietante mondo di arti segrete e maledette: il principe napoletano Raimondo de Sangro. L´esame diretto di queste fonti tuttora in mani private ma finalmente accessibili agli studiosi grazie a questo volume permetterà verifiche e approfondimenti. Ma intanto è giusto che se ne dia un resoconto ai lettori curiosi.
I nuclei del dossier sono almeno tre. Quello centrale riguarda la storia di Blas Valera e del gruppo a lui legato. Poi ci sono quelli relativi a Cristoforo Colombo e soprattutto a Pizarro e alla giornata di Cajamarca del 1532. Un terzo nucleo è relativo alla decifrazione dei quipus, la scrittura fatta di cordicelle annodate in uso nell´impero degli Inca. Questa parte linguistica è appassionante e permette anche ai profani di entrare (con l´aiuto competente di Laura L. Minelli) nei segreti di una scrittura fatta di nodi, di numeri e di pezzi di materia, remotissima dalle nostre pratiche e dalle nostre concezioni. Ma sarebbe lungo descriverla; perciò qui fisseremo lo sguardo su di un´altra questione, quella che si può definire «l´altra faccia della Conquista».
Un frammento di lettera di Colombo è la prima scoperta che si fa in questo dossier. Il corpo disperso dell´epistolario del grande navigatore si arricchisce così di una testimonianza inedita, anche se lacerata e parziale: la lettera, scritta da Siviglia al figlio Diego, reca la celebre firma di Colombo come «Christum ferens». E questa è una chiave importante per capire tutta la vicenda.
Colombo, com´è noto, amava presentarsi come lo strumento della Provvidenza divina per la grande impresa della diffusione del cristianesimo nel mondo e della conclusione messianica dei tempi della storia umana. In questo frammento si decifra solo una sua frase che dice (in castigliano): «la mia impresa fu una grande opera di misericordia». Sembra che Blas Valera abbia ricevuto questo frammento dal gesuita Juan de Mariana, grande storico e ardito teorico del diritto dei popoli di ricorrere al tirannicidio contro i sovrani ingiusti. Blas Valera maledice Colombo, che per lui è figlio del diavolo e non di Cristo. E fa sue le parole di una canzoncina circolante in una confraternita di indios peruviani: «Maledetta sia l´ora in cui Colombo partì, la Santa Maria lo portò,. .. Benedette siano le Indie... Colombo le scoprì, Cortes le distrusse, Pizarro le avvelenò».
Chi scrive queste parole è un missionario gesuita figlio di una donna india e di uno spagnolo, un uomo che odia il padre e ama la madre, che combatte i dominatori spagnoli ma ne condivide la religione. In lui si incontrano tutte le contraddizioni e le delusioni della conquista del Nuovo Mondo. A distanza di poco più d´un secolo dal viaggio di Colombo, Valera e i gesuiti che lo circondano portano avanti in segreto una battaglia per la tutela degli indios dai conquistatori: ma la loro battaglia è combattuta in nome del sogno messianico di un cristianesimo rinnovato e della missione apostolica propagandata da Colombo.
Questa faccia nascosta della conquista è quella di una cultura meticcia: uomini come Garcilaso de la Vega, come Blas Valera, sono nati su quella prima linea dello scontro di popoli che fu la violenza dei conquistadores sulle donne del Nuovo Mondo ma hanno poi formato la loro cultura nelle scuole dei gesuiti europei.
Blas Valera, per odio al nome spagnolo del padre, si era dedicato alla stesura di una contro-storia della conquista.
In questo dossier figura il documento principale di cui era entrato in possesso: il testo originale di una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V da Francisco de Chaves, uno dei conquistadores, il 5 agosto 1533: Chaves vi accusava Pizarro di aver distribuito barili di vino avvelenato con l´arsenico agli uomini dell´Inca, che erano morti immediatamente lasciandolo così in balia degli spagnoli. Quella denunzia Blas Valera la conservava per il suo popolo a documento che la conquista era stata basata sulla frode e che perciò gli spagnoli non avevano nessun diritto di dominio sul popolo andino.
Si capisce che la sua opera di storico aveva creato gravi imbarazzi politici alla Compagnia di Gesù. Perciò Blas Valera aveva dovuto sparire di circolazione, fingersi morto. Ma non per questo aveva cessato di dedicarsi alla sua missione di storico. A quanto emerge da questi documenti fu dalla sua collaborazione con l´indio Guaman Poma de Ayala che nacque quell´opera straordinaria che è la «Nueva coronica y buen gobierno», con le sue sconvolgenti rappresentazioni pittoriche delle violenze dei conquistatori.
Sono passati secoli da queste vicende. L´impero spagnolo è scomparso, la decolonizzazione ha obbligato la cultura europea a guardare l´altra faccia della sua conquista del mondo. Ma finora questa ricerca è rimasta velleitaria e inappagata. Vedere la storia con gli occhi dei vinti: ci riusciremo mai? Lo sguardo dall´alto dei vincitori ha molti cronisti pronti a descriverlo, mentre l´ultimo sguardo di chi sprofonda nella sconfitta si inabissa con lui e molto raramente trova un testimone disposto a raccoglierlo. I sommersi restano senza storia e senza volto, come quei naufraghi attaccati ai bordi di una rete per tonni che abbiamo visto in una foto recente: un cerchio di esseri indistinti e lontani, già oltre i confini della specie umana, quasi una via di mezzo tra i pesci e noi.
Attraverso il dossier di Blas Valera non è la voce dei sommersi dell´America precolombiana che ci giunge da lontano. La storia che questi documenti raccontano è un´altra: quella di una cultura meticcia di mediatori e di missionari gesuiti che cercò di porre un argine agli orrori consumati sul popolo americano in nome del cristianesimo europeo.
Repubblica 15.6.07
Intervista con il paleontologo Emmanuel Anati
L’uomo preistorico alla ricerca di dio
Le tavole della pietra fallica di paspardo
I graffiti non hanno finalità estetiche
«L´uomo preistorico non passava mica la vita a spaccare selci. Era un grande intellettuale, aveva una vita spirituale, creava ideologie, leggeva la Natura e giocava con la Natura». Sorride Emmanuel Anati come tutti gli studiosi che sanno trattare con leggerezza materie arcane. Settantasette anni, ordinario di Paleontologia e direttore del Centro camuno di studi preistorici, è scopritore - fra l´altro - di Har Karkom, la montagna-santuario preistorica nel Sinai che sembra essere la vera ispirazione del monte dell´Esodo. Anati parla di una nuovissima stagione in cui sono entrate le ricerche sulla preistoria.
«L´arte preistorica - sottolinea - non ha finalità estetiche, ma è uno strumento di trasmissione di messaggi e informazioni. Le incisioni rupestri stanno diventando leggibili, anche facendo uso dei sistemi di decrittazione dello spionaggio. Significa che la Storia si dilata da qualche migliaio di anni, com´è ora, ad un arco di cinquantamila anni».
Professore Anati, che cosa ha imparato a leggere dall'arte rupestre?
«Il significato di segni e colori, per cominciare. Un boscimane del Sudafrica, per esempio, quando dipinge una giraffa gialla o rossa non lo fa per estetismo, ma per indicare situazioni differenti. Nei graffiti preistorici abbiamo ventidue simboli elementari. Il punto, la coppella, la linea, il cerchio, lo zig-zag. E ognuno può avere vari significati. Lo zig-zag è l´acqua, la fecondità, la forza virile. Il cerchio è il sole, il pozzo, la capanna oppure l´Io. La croce può rimandare all´identità tribale. Il punto, indica il "fare". Un piede e il punto significa camminare. Sesso e punto, accoppiarsi. Animali selvaggi e punto, cacciare».
Accanto ai pittogrammi e agli ideogrammi appare ora anche il termine di psicogrammi. Che significa?
«Il pittogramma è un segno figurativo apparentemente leggibile, eppure ha sempre un doppio senso. L´ideogramma è un segno ripetitivo: il cerchio esprime sole, luce, calore. Lo psicogramma è una specie di punto esclamativo». E qui Anati traccia su un foglio un rettangolo con tanti raggi: «Ecco, significa Energia». E ancora traccia semicerchi uno sopra l´altro: «Questo significa Piacere».
Cos'altro si è approfondito?
«L´Homo Sapiens è un grande analista della realtà. Vede giorno e notte, vita e morte, uomo e donna, cielo e terra, grotta e sole. E´ il sistema binario. Anche oggi in certe lingue si dice il mare la terra, il sole e la luna. Sarebbero oggetti neutri, ma dalla preistoria ci è venuto il sistema binario».
Ha già realizzato decrittazioni precise?
«Diciannove monumenti rupestri della Dordogna, scoperti tra il 1904 e il 1916, recano sistematicamente segni di vulve, punti, coppelle, segni animali, segni maschili. L´animale è sempre uno, il numero delle vulve varia. Siamo di fronte ad una sorta di atto matrimoniale, che regola le relazioni tra le donne e il clan totemico».
Al XXII Valcamonica Symposium, cui hanno partecipato quest´anno studiosi di trentaquattro paesi del mondo, sono esposte varie tavole della Pietra Fallica di Paspardo (nella riserva rupestre della Valcamonica, che ospita rocce con trecentomila segni, la più grande densità d´Europa). E´ un graffito con sessantaquattro iscrizioni. Un fallo gigante, segni umani con la testa e senza testa, zig-zag, segni di strane palette che sono simboli di energia magica. Un caos apparente, a cui Anati è riuscito a dare ordine.
«E´ il racconto mitico - spiega il professore - di uno Spirito ancestrale da cui proviene l´Energia Virile. Si possono riconoscere tre fasi. La nascita per opera di un´energia sotterranea. L´incontro con forze-spirito che generano a loro volta tante energie. La conclusione è raffigurata dall´energia virile che esce fluida a zig zag dal grande pene, dentro il quale opera l´energia magica rappresentata dalle cosiddette palette. Siamo in presenza di un´iniziazione».
Iniziazioni, riti, miti. Spiriti e figure umane. Nella preistoria nasce prima l'Io o Dio?
«Tutti e due. Già con l´Uomo di Neanderthal troviamo, tra i 100.000 e i 50.000 anni fa, sepolture con oggetti di accompagnamento che rivelano la credenza in una sopravvivenza dell´anima. Però a differenza di noi moderni per l´uomo preistorico hanno un´anima anche le piante e gli animali. Con l´avvento dell´Homo Sapiens, circa 35.000 anni fa, troviamo resti animali ritualizzati».
E' questa la preistoria di Dio?
«Preferisco parlare di Spiriti. Gli Dei nascono con le strutture sociali complesse, con le civiltà urbane della Mesopotamia, dell´Egitto. Non piacerà ai prelati: ma Dio nasce quando ci sono società numerose da gestire da parte di una o più Autorità. Allora nasce l´Olimpo con una Divinità capo e altri dei che fanno i ministri della guerra, dell´amore e così via».
L'elemento religioso nella preistoria come si rivela?
«Per le popolazioni paleolitiche si esprime negli Spiriti ancestrali. Tutti i popoli hanno simboli della propria origine».
Come si riconoscono gli Spiriti nell'arte rupestre?
«Con determinati simboli. Uno Spirito di fecondità può essere un grande cerchio con due gambe. Oppure figure metà uomo e metà animale, mostri, animali immaginari. Ci aiutano a capire anche le popolazioni primitive ancora esistenti. Spiriti sono i defunti, che dal loro nascondiglio fanno dispetto. I Wandjina, in Australia, raffigurano gli Spiriti come Nuvole senza bocca».
Esistono anelli di congiunzione tra gli Spiriti ancestrali e una prima immagine di Divinità?
«Nell´Australia del Nord si racconta di uno Spirito che dormiva sempre, poi si è svegliato e ha creato la terra camminando. Dove poggiava i piedi nascevano le valli e tutt´intorno le montagne».
E tutte quelle statuine preistoriche di donne opulente non sono la Grande Dea Madre?
«No, nel Paleolitico non c´era ancora il concetto di divinità. Le Veneri-Dee non sono mai esistite. Quelle donne dai seni cadenti e dalle cosce enormi sono le Matrone delle tribù, le Nonne sagge, che danno consigli e fanno divinazioni. Si sono fatti troppi sogni sulla Preistoria. Non c´è spazio per le Veneri. Solo per Spiriti ancestrali, forze della natura, sole, luna, stelle».
Repubblica 15.6.07
In un documentario Bbc la storia di Weir che ispirò Stevenson
Così nacque il Dottor Jekyll
LONDRA - Furono le storie raccontategli dalla tata Cummy su un uomo che praticava incesto e magia nera nella Edimburgo del 1600 ma di giorno conduceva una vita integerrima, a ispirare a Robert Louis Stevenson Il dottor Jekyll e Mr. Hyde. Lo sostiene un documentario della Bbc, girato dal noto giallista Ian Rankin, il quale afferma che Stevenson era «inorridito» dalle storie su Thomas Weir e sulla di lui sorella, che di giorno predicavano in nome di dio ma di notte avevano rapporti incestuosi, praticavano stregoneria e sesso con gli animali. Furono condannati e messi al rogo nel 1670. La terribile vicenda, raccontata a Stevenson due secoli dopo, gli faceva avere gli incubi. (E. F.)
Corriere della sera 15.6.07
Solidarietà da «Liberazione», critiche dal partito. La giornalista: intolleranza contro di me
Angela, la cronista anti Fidel che fa litigare la sinistra
di Gianna Fregonara
Il reportage su Cuba esce su Liberazione il 22 maggio. I lettori si lamentano, risponde loro Sansonetti il 2 giugno. Sul tema sono intervenuti ieri Folena e Cannavò
ROMA — È una giornalista di 36 anni senza tessera, laurea in scienze politiche, e una passione smisurata per l'America Latina. Ha fatto venire una vera e propria crisi di nervi ai dirigenti di Rifondazione e ai lettori del giornale su cui scrive, «Liberazione». Come? Con una serie di corrispondenze da Cuba e dal Venezuela, in cui racconta che non sono l'Eldorado. Apriti cielo.
Angela Nocioni, umbra di Assisi, corrispondente da Buenos Aires da un anno e mezzo, ha ricevuto la solidarietà (e una solida difesa) dal suo direttore Piero Sansonetti e da Rina Gagliardi che non lesina l'autocritica scrivendo ai lettori «le nostre scalate al cielo si sono risolte in una catastrofe», ma anche una valanga di insulti. Indignati, intristiti «per la disinformazione e la superficialità », come scrive da Bruxelles Mario Gabrielli, i lettori protestano. E arriva anche uno schiaffo (metaforico) da Fabio Amato, responsabile Esteri del Prc: «E' stata la mancanza di rispetto nei reportage che ha offeso i sentimenti di tanti compagni».
Lei, che a L'Avana ha anche studiato qualche anno fa, su questo si è arrabbiata: «Trovo agghiacciante più di una censura che persone colte non si vergognino a mettere in discussione non il contenuto ma il tono di un articolo. Non è pensabile l'intolleranza rispetto all'ironia».
Non è la prima volta che le corrispondenze di Angela Nocioni fanno scoppiare le polveri tra i lettori di «Liberazione ». Fu lei a fare la prima intervista a Chavez, e allora fu accusata di sostenere un dittatore. Oggi le critiche arrivano dall'altro fronte da quanti non accettano la disillusione. La sua mail è stata invasa di lettere, i siti della sinistra radicale non parlano che di lei e delle sue corrispondenze in cui racconta che a Cuba si fa la fame. Al giornale sono arrivate decine e decine di lettere, c'è stata anche una manifestazione di castristi per protestare davanti alla sede. E la polemica non accenna a finire.
il Riformista Lettere 15.6.07
I had a dream
Caro direttore, ho fatto un sogno semplice. Ho sognato che il ministro degli Interni, di fronte alle rivelazioni sulle «macellerie messicane», sulle «notti cilene» di Genova, si presentava al paese dicendo solennemente e semplicemente: «Non accadrà mai più, e i responsabili la pagheranno cara». Ma l'Italia non è un paese semplice, e il mio sogno era forse un po' troppo americano. Mi farò quindi bastare i raffinati ragionamenti del ministro sulla disaffezione degli italiani verso la politica. Cordialmente
Marco Brandirali Pavia
il Riformista 15.6.07
Jervis. Lo psichiatra invoca (ma non usa) la «pietas» tra credenti e laici
La poesia è un lusso e le passioni sono attaccapanni linguistici
di Elisabetta Ambrosi
«Vedi, in quei silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità».
Chi l'avrebbe mai detto che in questa poesia di Eugenio Montale, I limoni, la più bella della raccolta Ossi di seppia, si annidasse il germe del fondamentalismo? Eppure, è quanto sostiene uno degli psichiatri e psicoanalisti italiani più noti, Giovanni Jervis, che nel suo ultimo volume Pensare dritto, pensare storto (Boringhieri, 2007) mette in guardia dalla ricerca a tutti i costi «dell'anello che non tiene», ricerca che finisce dritta nella superstizione e nel fanatismo. La poesia come la religione? «Sì, poesia e arte hanno qualcosa in comune con i sentimenti religiosi», afferma il professore. «Entrambe trasfigurano momenti di sensibilità legati alle nostre fragilità: ma non costituiscono un processo di conoscenza, anzi rischiano di portarci fuori strada. Eppoi con le poesie non si risolvono certo i problemi concreti. La poesia è un lusso».
Sobrietà, rigore, scienza. Nessuna sbavatura. Questa l'immagine che ci rimanda l'ossuto professore, seduto sul divano scuro del suo studio romano. Pur avendo una formazione psicoanalitica e difendendo alcune intuizioni freudiane, Jervis appartiene chiaramente all'“altra sponda”, quella della psicologia scientifica, il cui universo è popolato, invece che da simboli e archetipi, da topi da esperimento e da scimmie. Un realismo naturalista, scientifico e oggettivista, dotato di un linguaggio freddo e analitico, dove sono bandite parole come «male» e «passioni», a favore di espressioni quali «stati disposizionali, motivazioni, aspettative».
Questo linguaggio è messo nel libro al servizio di uno scopo preciso. «Il mio bersaglio», spiega calmo, «era l'attuale dibattito tra laici e credenti. Volevo arrivare a fornire degli strumenti per capirlo meglio, da un lato rifuggendo da schematismi à la Odifreddi del tipo “Dio non esiste e ora ve lo dimostro” - e quindi cercando di capire gli aspetti umani del credere, relativi alla rispettabile fragilità del vivere; dall'altro, evitando di nascondere il contrasto tra posizioni laiche e religiose, destinato a accentuarsi perché si tratta di posizioni sempre più incompatibili. In questo senso, ho cercato di portare una serie di argomenti e nozioni che riguardano quel modo di funzionare psicologico».
Un modo che, nel libro, sembra equivalere ad un pensare «storto», come il titolo eloquentemente esprime. «No, non è così», contesta Jervis. «Con quell'aggettivo mi riferisco all'insieme di piccoli e grandi deragliamenti che sono tipici della nostra razionalità e del nostro parlare comune. Le imperfezioni del ragionare cominciano da un niente, dall'essere catturati da certa retorica oppure da certi errori logici, e poi magari portano lontanissimo». Il meccanismo che conduce l'uomo al completo “sbandamento” cognitivo, però, ancora sfugge. «L'uomo non è naturalmente cattivo, come molti hanno pensato. Anzi, esiste in lui una moralità spontanea. Tuttavia, essendo un animale sociale, tende imitare gli altri, e questo può portarlo a comportamenti prosociali o antisociali. In questo senso può arrivare a compiere atrocità, come ha mostrato di recente lo psicologo sociale Philip Zimbardo». O, parimenti, al fondamentalismo religioso.
Sembra, insomma, che la religione abbia ben poco a che fare con quella passione per l'assoluto, su cui tanti pensatori hanno scritto. D'altro canto, per l'austero psichiatra, le passioni sono «attaccapanni» linguistici, cui non corrisponde alcuna realtà. «Grazie all'analisi scientifica, fenomeni complessi e irriducibili come le passioni possono essere analizzati e scomposti in qualcos'altro, che non si chiama più “passione”». Stesso trattamento viene riservato all'interpretazione dei significati, momento chiave del trattamento psicoanalitico. «L'ermeneutica non ci serve quasi più, se non in rari casi, quando, soprattutto per esigenze pratiche di comprensione interpersonale nella vita quotidiana, abbiamo bisogno di ricorrere a dei mezzi interpretativi che fanno appello alla soggettività. Ma si tratta di spiegazioni contingenti».
Dunque neanche un pizzico di quella nostalgia di infinito, o meglio di «tristezza della finitezza», di cui hanno parlato autori come Paul Ricoeur e George Steiner? «Ho la sensazione che entrambi tendano ad elevare la sensibilità poetica a discorso conoscitivo. Inoltre uno è immerso in un universo spirituale, l'altro è un pensatore religioso».
Difficile capire, a questo punto del discorso, in che modo la posizione di Jervis si differenzi da quella di Dennett e Odifreddi. «Per loro la religione è una specie di malattia da cui con opportuni ragionamenti e letture ci si può liberare. Io penso invece che la religione sarà pure una erranza della mente, ma si basa su esigenze psicologiche che vanno rispettate. Verso chi invoca Dio di fronte alla morte va mostrata pietà». Ah, ecco, la pietà. Ma siamo sicuri che sia il sentimento giusto per avviare il dialogo tra credenti e non? Jervis si corregge, parla di pietas. Forse suona meglio. Certo è che nel suo libro, asciutto e impersonale, di questa pure poco utile pietas è difficile, davvero, trovare traccia.
Liberazione 15.6.07
Presentata l'assemblea nazionale fondativa che si svolge domani e domenica a Roma
Giordano: «Soggetto aperto e plurale, sarà il motore del processo unificatore della sinistra»
«Pacifista, antiliberista, laica». Ecco la Sinistra europea
di Romina Velchi
Il gran giorno della sinistra europea è domani. A Roma come a Berlino. E non è un caso. La sinistra - quella che non si arrende alla crisi della politica, al liberismo galoppante, alla globalizzazione - ha deciso di «fare sul serio», per dirla con Franco Giordano. A Roma si terrà l'assemblea fondativa della Sinistra europea in Italia; a Berlino si svolgerà il congresso di unificazione (che per la verità si apre oggi) della Linke di Lothar Bisky e Oskar Lafontaine. Due appuntamenti che si parlano e non solo perché è previsto un collegamento video.
Dunque, sabato e domenica, in contemporanea con l'"evento" tedesco, Roma vedrà la nascita della Sinistra europea. La due giorni è stata presentata ieri a Roma, alla Camera dei deputati, dal segretario del Prc e dai rappresentanti di alcune delle 14 reti nazionali e 50 associazioni locali che andranno a costituire il nuovo soggetto politico. Un soggetto, spiega Giordano, «pacifista, antiliberista e laico, che prova a investire sulla partecipazione. Ma il cui elemento fondante è la democrazia di genere». E sì, perché l'assemblea della SE sarà la prima in cui è rigorosamente rispettata la parità tra uomini e donne tra i mille delegati: 50 e 50. E chissà che questo non abbia qualcosa a che fare con la massiccia presenza femminista: «Per la prima volta - lo sottolinea la senatrice del Prc Maria Luisa Boccia - le femministe aderiscono ad una formazione politica. Siamo sempre state gelose della nostra autonomia e, in passato, abbiamo rotto anche con i movimenti su questo tema. Se oggi facciamo questo passo è perché siamo cinvinte che la sfida stavolta possa essere vinta».
Insomma, la SE sarà, promettono i suoi promotori, un «soggetto vivo», proprio in tempi di crisi della politica. «Aperto», è la parola, perché proverà a «investire sulla partecipazione», a nascere «all'insegna del pluralismo diffuso sul territorio». La sfida è proprio quella e, chissà, forse è già vinta se è vero che alla due giorni - che si svolgerà al Palafiera dell'Eur - saranno presenti 200 ospiti di associazioni, sindacati, movimenti: dalle reti ambientali e femministe ai giovani, dai migranti ai coordinamenti delle vertenze territoriali, all'informazione, alla cultura. Guardando all'Europa, certo; ma senza dimenticare casa nostra, dove la sinistra ha urgente bisogno di rinnovarsi. Così, quello a cui pensano il Prc e gli altri soggetti promotori, è «un progetto di forze, anche le più diverse, legato a pezzi di società, che sia espressione del movimento sindacale». In poche parole, «una grande esperienza che si propone di confrontarsi con tutta la sinistra perché dobbiamo accelerare un processo unitario più largo».
Lo dice chiaro e tondo, Giordano. La SE dovrà essere «un soggetto politico importante che si pone come motore di un processo unificatore della sinistra». Che «investe sui processi democratici», perché noi siamo quelli che non rinunciano alla propria soggettività, che considerano i propri contenuti come una «ricchezza»; ciò che solo può contrastare la crisi della politica, il distacco, la disillusione delle persone. Non per caso, osserva Pietro Folena (Uniti a sinistra), questa assemblea è «il primo approdo di un percorso che tutti insieme abbiamo iniziato a Genova nel 2001 e che non si chiude domenica».
Per tutti di questo si tratta: di un'esperienza plurale, nella quale ricercare «nuove pratiche della politica», per «ridurre la distanza - le parole sono dell'eurodeputato Vittorio Agnoletto - tra il palazzo, le dinamiche di partito e la mobilitazione sociale, facendo sì che i movimenti diventino parte attiva della politica, siano linfa vitale». Per questo, la SE sarà un partito «decentrato, organizzato in reti». Per questo durante i lavori verrà annunciata la nascita del portale della sinistra, un "social network" «aperto ai contributi di tutta la sinistra per la sinistra». E per questo, infine, nel pomeriggio di sabato l'assemblea sarà sospesa per permettere a tutti di partecipare al Gay Pride.
Due giorni che saranno un susseguirsi di incontri, dibattiti, tavole rotonde. Al centro di quelli di domani ci sarà il tema del "futuro della sinistra", sul quale si confronteranno, tra gli altri, Giordano, Diliberto, (Pdci), Di Salvo (Sd), Cento (Verdi), Rinaldini (Fiom), Salvato (RossoVerde), don Tonio Dell'Olio (Libera), Ferrentino (NoTav), Lovison (No Dal MOlin), Beni (Arci). Domenica sono previsti gli interventi di Tortorella, Occhetto, Fava e, con un collegamento audiovideo da Berlino, di Bertinotti, nella veste di presidente della Sinistra europea. Chiusura nel pomeriggio con la votazione dei documenti finali e degli organismi della SE in Italia. Benvenuta Sinistra europea.
Liberazione 15.6.07
Salvadori, il comunismo è insopprimibile voglia di pubblico
Lo storico aveva chiesto dalle pagine di "Repubblica" a Bertinotti e Diliberto di liquidare definitivamente l'esperienza
comunista. Ma senza quel movimento l'origine dei mali sociali sarebbe stata ricercata in "leggi naturali" ineluttabili
di Luigi Cavallaro
Non è serio pretendere di restare "comunisti" in nome di una generica difesa degli interessi delle classi più deboli, scrive su Repubblica Massimo L. Salvadori: nella realtà, infatti, il comunismo «è stato due cose: nella pratica un movimento culminato in un sistema dispotico che ha oppresso in primo luogo le masse lavoratrici e non a caso è caduto senza che nessuno dei popoli posti sotto il suo dominio levasse un dito in sua difesa; nella teoria un progetto, in totale contrasto con la sua attuazione, di società senza Stato, senza denaro, resa omogenea da un collettivismo egualitario conseguente a uno sviluppo senza limiti delle forze produttive; un progetto che ha rappresentato non già la tappa finale dell'evoluzione dall'utopia alla scienza, ma l'ultima delle grandi utopie di millenarismo salvifico in contraddizione irrisolvibile con qualsiasi possibile versione della modernità». Insomma, farebbero bene Rifondazione e Comunisti italiani a «guardare finalmente in faccia la storia, avendo bene in mente che, come Marx diceva giustamente, i valori e le ideologie si giudicano non da quello che astrattamente propongono ma da ciò che concretamente riescono ad attuare», e a tagliare definitivamente i ponti col comunismo, rinunciando alla «residuale forza di trascinamento» di un'identità nostalgica e improduttiva per le sorti del Paese e della sinistra.
Salvadori è storico autorevole, per giunta autore di un ponderoso tomo sulla storia del pensiero comunista, dunque il suo giudizio va preso sul serio: se davvero il comunismo fosse stato quelle due cose lì, converrebbe non pensarci più e parlar d'altro. Ma per quanto le articolazioni e i distinguo tipici di un saggio non possano esser rifusi in un articolo di giornale, qualche considerazione in più è proprio il caso di farla, e proprio alla luce dell'indicazione metodologica che Salvadori riprende da Marx: le ideologie si giudicano non per ciò che astrattamente propongono, ma per ciò che concretamente riescono a produrre.
Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello Stato borghese, ovunque vigente all'epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell'ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra politica ed economia non ne era che il precipitato "ideologico". Per quanto gli Stati già si occupassero variamente della povertà in cui l'accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, strappate alle loro condizioni di vita, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi a insipienza o stupidità dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla "società politica" scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della "società civile" andasse ricercato nella condizione di separatezza dal processo sociale di produzione in cui veniva trovarsi lo Stato, e di rintracciare piuttosto l'origine dei mali sociali in "leggi naturali" cui nessuna potenza umana poteva comandare.
Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere "solo" politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l'indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello Stato tramite una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono a questo.
Ed è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la rivoluzione d'Ottobre prima e l'avvento delle "socialdemocrazie" in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d'uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di "non-rivalità" e "non-escludibilità", per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). E' questo, cioè, che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri - burocrazie, partiti politici e associazioni professionali - hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l'andamento generale della società, sottratto così al moto "anarchico" tipico del modo di produzione capitalistico e divenuto (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica - di una politica economica. Lo ha dovuto ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò "capitalismo" risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista […] Possiamo senz'altro dire che […] la maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».
Non induca in errore il fatto che uno sviluppo del genere ha avuto diverse forme di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni "giacobine", per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di "rivoluzioni passive", cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali: bisogna essere ciechi per non vedere che un progetto in cui lo Stato non fosse un'entità economicamente irrilevante, in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l'attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell'appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all'azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un'ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d'uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. E non meno ciechi bisogna essere per non vedere che i comunisti (e i socialisti) sono state parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceti medi e Emilia rossa di Togliatti per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l'Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile - le "regioni rosse", et pour cause .
In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato l'abolizione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al "partito unico" e al "totalitarismo": l'esperienza occidentale insegna proprio il contrario, che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze - esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.
Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della "grande trasformazione" che il mondo in cui viviamo ha subito da ottant'anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello Stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all'esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica . E proprio in questa opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte - filosofiche, certo, ma anche la filosofia ci parla della realtà, a saperci guardar dentro.
Il punto, però, qui è politico e non puramente storico. Il fatto che tramite l'azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare i beni pubblici dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c'è stata una storia e adesso non ce n'è più»: al contrario, la crisi che attraversa la produzione pubblica di beni e servizi fin dagli anni Settanta evidenzia che non sarà certamente questa l'ultima forma di "produzione socializzata", dunque non possiamo proporre per il futuro le stesse ricette del passato. Ma di qui a negare che il comunismo sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», come scrissero limpidamente Marx e Engels, ne corre, a meno di dimenticare che lo sforzo degli essere umani è stato ed è tuttora quello di portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.
Crediamo fermamente che una prospettiva del genere, che riconosce come figli legittimi del movimento comunista tutti i "comunismi statuali" del Novecento (salvo criticarli, anche duramente, in base al tasso di democrazia interna), sia l'unica che possa dar conto del motivo per cui, contro ogni richiesta d'abiura, possiamo e dobbiamo continuare a dirci "comunisti" nel ventunesimo secolo. Diversamente, avrebbero ragione i Salvadori (e i Salvati) a rimproverarci che "il comunismo buono non esiste" e a ritenere che il "movimento reale" rimandi in realtà alla celebre affermazione di Bernstein: «il movimento è tutto, il fine nulla». Proprio come il Partito democratico.
il manifesto 15.6.07
Intervista Fabio Mussi traccia il percorso di una riunificazione della sinistra
«Usciamo dalle trincee»
Il ministro dell'Università: torniamo a una politica di contenuti e valori. Il governo? «Si salva se si corregge la rotta» Una critica al capitalismo aiuta a ricostruire le radici di una sinistra di massa Mi preoccupa ma non mi colpisce la rapidità con cui si squagliano i Ds. Non abbiamo molto tempo per rispondere alla domanda sociale
di Loris Campetti
«Scudo spaziale: D'Alema, Italia non è contraria». Quando gli viene consegnato l'ultimo lancio dell'Ansa, datato 14 giugno ore 12,31, il ministro Fabio Mussi sbotta: «E invece io sì che sono contrario». E ne spiega le ragioni: «Hai voglia a parlare di sistema di sicurezza, ma sicurezza contro chi? E perché in Polonia e in Repubblica Ceca? In realtà è soltanto uno strumento di accelerazione della corsa al riarmo. Oggi nel mondo si bruciano in armamenti molte più risorse di quante non se ne spendessero negli anni della guerra fredda». Ma non è di politica estera che parliamo con Mussi, se non a commento delle agenzie di stampa che gli vengono recapitate nel corso dell'intervista («In Palestina c'è il primo colpo di stato senza stato»). Parliamo della sinistra e della sua multiforme crisi, parliamo del progetto del suo «movimento» di ricostruire un soggetto di sinistra senza aggettivi. Gli aggettivi non servono, dal momento che il nascente partito democratico neanche pretende di essere di sinistra. Insieme a Valentino Parlato incontriamo Mussi nel suo ufficio all'Eur, al ministero dell'Università e della Ricerca.
Partiamo dalla crisi della politica e dei suoi linguaggi. Girando come una trottola l'Italia per incontrare i militanti di Sinistra democratica, aprire sedi, dibattere con le altre forze della sinistra, hai ripetuto che non andrai a «Porta a Porta», sottintendendo che non è quella la forma della politica che ti interessa.
E' dal '98 che non ci vado e penso che dovremmo tutti ridurre le apparizioni televisive che sembrano gratificanti perché la gente ti ferma per strada per dirti che ti ha visto, ma mentre fanno crescere il leaderismo abbassano la qualità della politica. I leader sono ridotti a telepredicatori e i militanti a spettatori. Non esiste un altro paese al mondo in cui i leader politici accettino di essere ridotti ad attori di uno spettacolo circense, sempre con la stessa compagnia di giro. Non è spettacolo - e non penso soltanto a «Porta a Porta» - è avanspettacolo.
Nostalgia delle rarissime conferenze stampa di Togliatti in abito scuro e stile sobrio?
Di Togliatti e anche di Berlinguer. Nostalgia degli articoli di Giorgio Amendola. La politica deve avere solennità, mistero, carisma, altro che questo circolo mediatico. Qualche decennio fa fece scandalo a sinistra Milovan Gilas che, parlando del socialismo reale e della Jugoslavia, denunciò la nascita di una «nuova classe» dei politici. Anche qui è nata una nuova classe che va ben oltre la ovvia necessità, nel tempo in cui viviamo, di una professionalità della politica. Qui siamo alla politica come moltiplicatore di posti di lavoro. Una volta chiesi a un giovane ricercatore che cosa avrebbe voluto fare nella vita, mi ha risposto «il consigliere di circoscrizione». E sai perché? Perché un consigliere di circostrizione guadagna più di un ricercatore. Quando gli ho chiesto per quale partito avrebbe voluto farlo mi ha guardato con aria interrogativa e ha risposto «per chi mi prende».
Al tempo della svolta della Bolognina ti rivolgesti a chi difendeva le ragioni del Pci parlando di attaccamento all'orsacchiotto di peluche. Ora, alle riunioni di Sinistra democratica non mancano i nostalgici del Pci.
Avevo parlato della paura di perdere il bambolotto di pezza. Ciò di cui oggi si sente la mancanza è la scuola politica di allora, la sua qualità. Nessuna nostalgia invece per i vecchi riti. Il Pci era un luogo di democrazia, persino il vituperato centralismo democratico era migliore dei metodi attuali di formazione delle decisioni politiche.
La nascita di Sd si vuole finalizzata alla ricostruzione di una sinistra, unendo in un processo i frammenti esistenti. Come pensi di riuscirci?
Lo so che è un'impresa difficilissima, ma vedo il bisogno diffuso, ascolto le domande di tantissime persone: abbiamo il dovere politico di tentare una risposta positiva. Se alla fine della fiera, dopo 15 anni di stallo, l'edificio politico dovesse essere costituito da un Partito democratico al 20-25%, più un arcipelago alla sua sinistra fatto di forze dell'1-2 o magari 6% e tutti insieme 20 punti sotto la destra, avremmo fatto una bella frittata. E penso a Gramsci e alla tragedia della democrazia liberale: è possibile che da una bilancia che da troppo tempo non pende da una parte escano soluzioni autoritarie, bonapartiste. Vogliamo provare a non farla, questa frittata? Penso non a un partito ma a un'aggregazione politica pesante, di massa, per tornare dentro la società. Ci rendiamo conto che ormai anche a sinistra si parla degli operai come fanno gli antropologi con le tribù amazzoniche?
Ma gli operai esistono ancora? Forse volevi dire i precari...
Non c'è soltanto il precariato, il nodo centrale è la svalorizzazione del lavoro, pagato a prezzi orientali e rivenduto a prezzi occidentali. Mai come oggi sono stati tanto numerosi i lavoratori salariati classici, milioni in Italia, miliardi nel mondo. E' in atto poi un processo - avremmo detto un tempo - di proletarizzazione, con i ricercatori che guadagnano meno di 1000 euro. La scommessa è come rimettere insieme queste figure. Come, se non con un'idea politica forte e semplice? Dobbiamo muoverci in fretta...
Anche perché il degrado della politica e il suo sradicamento dalla società produce anche degrado sociale.
Un operaio di Piombino, già dirigente della Fiom, mi ha scritto una lettera che mi ha tolto il fiato: non vi seguo più, dice, ormai vi occupate solo di carcerati, di finocchi e di negri. Il radicamento sociale, però, non lo ricostruisci con una risposta economico-corporativa ma ridandoci un progetto. Si è straparlato di fine delle ideologie, ma solo la nostra è introvabile, sono fallite le macroideologie. Ma in un mondo che si vuole secolarizzato trionfa la potenza delle idee, per quanto misere e di seconda mano possano essere. Berlusconi non ha vinto soprattutto grazie ai mezzi di comunicazione ma grazie alle idee. Idee medievali, se lui è ricco può far diventare ricchi anche noi, hanno pensato in tanti. E' attualissima la lezione di Adorno sulle semi-ideologie di seconda mano. Si vince con le idee semplici.
Ti aspettavi la rapidità con cui si stanno liquefacendo i Ds?
Mi colpisce ma, purtroppo, non mi sorprende. Quando c'è un cedimento strutturale viene giù tutto. I centri veri di potere che detengono banche, imprese, gruppi editoriali, dove c'è gente che ancora studia Gramsci e il concetto di egomonia, hanno costruito un arco di trionfo allo scioglimento dei Ds. Come hanno ottenuto il risultato voluto, scomparso il maggior partito della sinistra, è arrivata la stangata, persino il dileggio. Ciò aumenta le nostre responsabilità. Noi abbiamo fatto un movimento, non siamo interessati al ventitreesimo partitino. Stiamo raccogliendo un insperato consenso, moltissimi giovani si avvicinano, moltissime donne. Arrivano anche molti eletti nelle istituzioni, e sanno di fare una scelta a loro rischio e pericolo. Oggi Sd è il terzo gruppo dell'Unione e ovunque ci siamo presentati è andata molto bene. Pur in un contesto politico ed elettorale preoccupantissimo.
I tempi sono stretti, dici, ma smantellare strutture, partiti, persino rendite di posizione non è la cosa più semplice del mondo. Come vanno i rapporti con Prc, Pdci e Verdi?
Per costruire un nuovo soggetto della sinistra ciascuno di noi deve cambiare profondamente, rimettersi in discussione, abbandonando nicchie e trincee combattendo in campo aperto. Se resti sempre in trincea, prima o poi chi combatti viene a prenderti. Attenzione però, la sinistra è in crisi in tutt'Europa, bisogna cercarne le cause.
Da dove ripartite in questa ricerca?
Rispondo con le frasi pronunciate alla nostra assemblea del 5 maggio da Massimo Salvadori: 1) non nasce una sinistra nuova senza una critica del comunismo novecentesco; 2) ciò che però sopravvive del Novecento è l'idea socialista; 3) non si esce dalla crisi senza una critica puntuale al capitalismo contemporaneo. Un capitalismo diventato incompatibile con il pianeta Terra.
Ci sono le idee e ci sono le azioni. A che punto siete nella costruzione di pratiche unitarie a sinistra?
Ci siamo incontrati con tutti. Anche con lo Sdi, con cui condividiamo le battaglie per i diritti civili ma abbiamo differenze sulla politica internazionale e sull'economia. Abbiamo stretto rapporti con Prc, Pdci e Verdi - ma non c'è solo questo a sinistra, ci sono i movimenti, ci sono tanti uomini e donne impegnate nell'associazionismo e nel volontariato verso cui dobbiamo avere uno sguardo largo - e abbiamo incontrato le confederazioni sindacali. Infine, abbiamo riunito i 150 parlamentari che si collocano a sinistra del Partito democratico e andiamo verso una collegialità delle decisioni. Oggi (ieri, ndr) portiamo un punto di vista condiviso all'incontro sul Dpef. Non siamo pentiti dei sacrifici chiesti con la Finanziaria per avviare il risanamento dei conti, cosicché oggi è possibile e doveroso ridefinire un'agenda forte e credibile per garantire un risarcimento sociale: le batterie del governo si possono ricaricare puntando su riforme sociali ed economiche efficaci.
Ma la destra dello schieramento si mette di traverso. Percorrerete questa strada anche a rischio di una crisi di governo?
Il rischio di una crisi, con i numeri che abbiamo al Senato, esiste fin dal primo giorno di governo. Il rischio di morire è connesso alla nascita. Abbiamo un governo che si regge su una coalizione molto ampia e ogni volta va trovato un punto di equilibrio. Sapendo che se salta questo governo non c'è all'orizzonte qualcosa di meglio.
Quale risarcimento, quali riforme sociali?
Bisogna guardare in giù, verso il basso, e in su, verso l'alto. In giù, nella sofferenza di ampi strati della popolazione, lavoratori precari, lavoratori dipendenti, pensionati. In su, alla scuola, alla formazione, alla ricerca, all'innovazione. L'Europa è il fanalino di coda rispetto agli Usa e all'Oriente sugli investimenti verso l'alto, e l'Italia in Europa non è certo messa bene. L'Italia è l'unico paese con gli Stati uniti in cui cresce la disuguaglianza, crescono i poveri e crescono i ricchi. In Italia i redditi si sono ulteriormente spostati dai salari ai profitti. Se si avvia questo cammino, se sapremo guardare verso il basso e verso l'alto, sarà anche meno complicato un ritorno nella società, tra gli operai che votano Lega.
Nel vostro incontro prima del Dpef, come forze di sinistra avete detto che sulle pensioni sosterrete un eventuale accordo sindacale. Non sarebbe meglio garantirvi un'atonomia politica e di giudizio?
Se si arriverà a un accordo tra le parti sociali non cavalcheremo la logica del più uno, non scavalcheremo i sindacati. Ma finalmente, usciamo dall'ossessione pensionistica. Pensiamo alla ricerca scientifica. La sinistra deve lavorare sui contenuti, sulle politiche e sui valori fondativi.
Quali sono i tempi della nascita del nuovo soggetto di sinistra?
Avremo bisogno di qualche prova elettorale, già in autunno e nella prossima primavera quando andrà al voto metà del corpo elettorale.
Sempre che non cada il governo. Quali sono i passaggi più pericolosi?
Il rischio, lo ripeto, è quotidiano. Ma le alternative - governi tecnici, governi istituzionali - sono peggiori del presente. Per questo bisogna difendere il governo Prodi. Per difenderlo, però, bisogna correggerlo.
Agi 16.6.07
SE: DI SALVO (SD), SONO OTTIMISTA SU RIAGGREGAZIONE SINISTRA
(AGI) - Roma, 16 giu. - Sono ottimista sulla riaggregazione delle diverse espressioni di una 'sinistra diffusa e larga' che non ha accettato la soluzione del Pd: dobbiamo fare in fretta e bene, e trovare soluzione alle divergenze che ci ancora ci sono. A parlare il capo-gruppo di 'Sd' alla Camera, Titti Di Salvo che domani interverra' all'assemblea costituente della 'Sinistra Europea', il nuovo soggetto politico continentale, cardine della strategia ad ampio respiro ideata nel 2001 da Fausto Bertinotti. "Stimo molto Fausto, la sua coerenza, capacita' di analisi e approfondimento, disponibilita' al confronto con gli altri senza mai smarrire - spiega la Di Salvo - il profilo del suo progetto: percio' non sono rimasta sorpresa per l'incontro all'Auditorium con l'Analisi Collettiva: e' la conferma di una ricerca continua che lo porta a discutere e confrontarsi con tutti". E domani la Di Salvo, un passato da sindacalista Cgil prima in Piemonte, poi in segreteria confederale, discutera' di 'futuro della sinistra' tra gli altri con Oliviero Diliberto, Pietro Folena, Paolo Cento. "La collocazione europea e' il punto non ancora sciolto: per noi di Sd e' il socialismo europeo, per altri 'Sinistra Europea' - aggiunge la Di Salvo - E' questo un punto importante: non si puo' fingere che non ci sia". Ma accanto alle divergenze ci sono pero' molte assonanze: e comunque, nota la Di Salvo, "un processo di riaggregazione a sinistra richiede disponibilita' reciproche a rimetter in discussione qualcosa perche' non puo' esser - dice - una semplice sommatoria". E per fortuna accanto al Presidente della Camera, c'e' "un politico fine, intelligente e di grandissima qualita' come Mussi che pensa - prosegue la Di Salvo - e progetta una politica di qualita', piu' sui programmi che sugli organigrammi: e l'antidoto alla politica d'immagine e di spettacolo e' la partecipazione della gente, del popolo di una sinistra diffusa e larga". Per questo alla Di Salvo la dizione 'Cosa Rossa' non piace: "meglio - chiarisce - l'Ulivo di sinistra, per una sinistra diffusa e larga in cui c'e' spazio anche per lo Sdi con cui si sono assonanze sui diritti civili e la laicita'". L'abbandono del comunismo per il 'nuovo socialismo' proposto da Bertinotti nella sua rivista 'Alternative per il socialismo' e' comunque un punto importante per il confronto, visto che si richiama ad una nobile esperienza: le riforme di struttura. "Si' sono uno dei punti di riferimento: ma l'ambizione di ricostruire una 'cultura politica' della sinistra - precisa la Di Salvo - richiede anche rapporti con modelli culturali come il pacifismo, la tutela dei diritti civili, l'ambientalismo. Una cultura che ovviamente sia finalizzata al governo e al cambiamento della societa'". Insomma, il processo di riaggregazione a sinistra e' in moto: ma forse ci vorra' ancora del tempo per 'superare' la divergenze che ancora ci sono. "Sono ottimista - conclude la Di Salvo - ce la possiamo fare". E, in contemporanea con l'assise di Roma, a Berlino ci sara' il Congresso di unificazione della Linke di Lothar Bisky e Oskar Lafontaine. "Sinistra Europea e' il primo approdo di un percorso che tutti insieme abbiamo iniziato a Genova nel 2001 - sostiene Pietro Folena, leader di 'Uniti a Sinistra' e presidente della Commissione Cultura della Camera - E' un processo apertissimo che non si chiude il 17: investe altre forze della sinistra". (AGI) Pat