domenica 17 giugno 2007

l’Unità 17.6.07
Bertinotti a Berlino lancia la «Linke» all’italiana. Ma a Roma Diliberto...
Il presidente della Camera parla della necessità di una sinistra antagonista davvero unita, e oggi sarà in Italia per il lancio di «Sinistra Europea»


Il segretario del Pdci non è d’accordo con l’idea di rinviare all’autunno la nascita della «cosa rossa»
Titti Di Salvo (Sd) è critica: «Non amo la “cosa rossa” preferisco parlare di Ulivo di sinistra...»

DIE LINKE Parla a Berlino, ma guarda all’Italia, Fausto Bertinotti. Solo una sinistra antagonista veramente unita può «evitare la catastrofe» contrastando la minac-
cia del capitalismo che «ruba» il futuro dei lavoratori: è il messaggio che il presidente della Camera Fausto Bertinotti lancia all’assemblea costituente della «Linke», la formazione politica che nasce dall’unificazione del Pds (il partito comunista erede del Sed della Germania est guidato da Gregor Gysi) con la Wasg (la formazione socialdemocratica con al vertice Oskar Lafontaine che ha abbandonato la Spd). Ma Bertinotti parla a Berlino perché a Roma intendano. Domani sarà fondata la sezione italiana della Sinistra europea: ancora nulla di storico come la nascita della Linke, come ammette lo stesso presidente della Camera, ma comunque un passo verso quell’unità della sinistra antagonista che per lui rappresenta l’unica via per essere «protagonista del nostro tempo». Davanti agli 800 delegati della «Linke» Bertinotti si rivolge con un duro attacco al capitalismo che, accusa, «ci ruba il futuro. Solo una sinistra forte può aiutarci a riconquistarlo, e abbiamo bisogno di una sinistra forte anche per riprenderci la vita». Secondo Bertinotti, dunque, «Die Linke» rappresenta «un incoraggiamento molto forte» anche per la sinistra italiana.
Bertinotti ne parlerà anche oggi a Roma, intervenendo all’assemblea che darà vita alla sezione italiana della Sinistra Europea. Ieri il leader del Pdci Oliviero Diliberto, ospite dell’assemblea, ha spronato: «Entro l’autunno proviamo a fare una cosa tutti insieme. Passiamo dalle parole ai fatti perchè i tempi in politica non sono una variabile indipendente, ma sono la politica». Diliberto ha confessato di essere «stufo di assemblee o cantieri che rimangono aperti per anni» dove «puntualmente si invoca l’unità della sinistra». E ha avvertito: «Se si aspetta chi dice ”dateci tempo per maturare una decisione”, il rischio è di marcire».
Un invito chiaro e netto a partire «con chi ci sta» che non riceve, per ora, quel consenso sperato sui tempi ravvicinati. L’indicazione dell’autunno come data per partire viene accolta solo da Paolo Cento che, intervenuto dopo Diliberto, parla di un «orizzonte compatibile» ma avverte che «l’accelerazione deve nascere anche dal basso». Per la Sinistra democratica, è intervenuta Titti Di Salvo che ha detto di essere favorevole a «tempi veloci ma non a far finta che non ci siano problemi da risolvere». «Non amo la Cosa rossa perché chiude e non parla a tanti. Preferisco l’Ulivo di sinistra», ha precisato Di Salvo. Franco Giordano, nel suo intervento, ha glissato sulla data dell’autunno proposta da Diliberto e ha ribadito che il Prc sarà «motore del processo di unificazione».
Il dialogo dei mussiani con la sinistra radicale non piace al leader dello Sdi Enrico Boselli. «Sinistra democratica ha puntato con decisione all’unità dei partiti dell’estrema sinistra che esplicitamente e con forti argomentazioni ideologiche rifiutano la socialdemocrazia europea- spiega boselli-. Ma non può nascere una forza che si ispiri alla socialdemocrazia europea con la piattaforma di Rifondazione». Dunque, dice Boselli, «meglio che con Mussi ci si veda presto per parlarsi con franchezza, da compagno a compagno».

l’Unità 17.6.07
In Germania nasce Die Linke, il partito della sinistra radicale
La nuova forza politica guidata da Lafontaine e Bisky mette in crisi Spd, Cdu e Verdi
di Cinzia Zambrano


LE SINISTRE DEGLI ALTRI In Italia si chiama -o dovrebbe- «Cosa rossa». In Germania al politichese italiano tanto evocativo quanto fumoso, si preferisce la chiarezza. Così alla nuova creatura di sinistra della sinistra nata ieri dalla fusione di Wasg (acronimo di
una sequela di parole che in italiano suonano più o meno come Alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale) e la Linkspartei (erede della Pds, a sua volta erede della Sed, i comunisti dell’ex Rdt) si è dato il nome di Die Linke, la Sinistra appunto. Quella che gli altri, nonostante le apparenze non rappresentano. E per la quale i due padri della nuova forza politica tedesca, l’intramontabile Oskar Lafontaine e il carismatico Lothar Bisky, intendono invece battersi. Ergendosi come minaccia per la Spd, quelli che un tempo erano «compagni», e il loro alleato al governo, i cristiano-democratici di Angela Merkel.
Ci sono voluti due anni, tante discussioni, gestazione non facile, ma alla fine la creatura è nata. Non solo. Ha anche unito sul piano geografico due correnti che si muovevano su territori opposti. Letteralmente. La Linkspartei infatti ha accumulato il suo consenso sulle ceneri del Pc della vecchia Germania dell’est comunista, mentre la Wasg è cresciuta all’ovest, attorno all’enfant terrible Lafontaine, ai dissidenti della Spd e ai sindacalisti insofferenti per i tagli allo stato sociale decisi dal governo di Schröder. A cui, Oskar il Rosso, dopo anni di cammino politico insieme, sbattè la porta in faccia dimettendosi da ministro delle Finanze. «Noi siamo il solo partito che rimette in questione il sistema capitalista», ha tuonato Lafontaine, che -come da copione- ha attaccato duramente la politica della Grosse Koalition. «La maggioranza del parlamento decide sempre contro la maggioranza della popolazione. Noi vogliamo reintrodurre lo stato sociale», e giù applausi.
La fusione dei due movimenti ha fatto dire a Gregor Gysi, eminenza grigia dei postcomunisti, che «Die Linke completa la riunificazione tedesca» 17 anni dopo la caduta del Muro. Alla sua guida, i circa 800 delegati convenuti a Berlino hanno eletto a larghissima maggioranza Lafontaine e Bisky. Che dunque resteranno punto di riferimento, il primo per l’ovest, il secondo per i postcomunisti concentrati in massima parte nei Länder orientali. Alla cerimonia è intervenuto anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti che ha definito Die Linke un «esempio per tutta la sinistra europea».
Sono bastati i primi vagiti del partito della sinistra radicale per far saltare i nervi a tutto lo schieramento politico tedesco. Dalla Spd alla Cdu è stato un rincorrersi frenetico di condanne. Il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd) ha definito il programma di Die Linke «una via sicura verso la povertà». Critiche anche dalla Cdu, l’Unione cristiano democratica alleata della Spd. «Con i comunisti non si può fare alcuna politica», ha detto il premier della Turingia Dieter Althaus. Per il leader liberale Fdp Guido Westerwelle il nuovo partito della sinistra costituisce «una minaccia per la Germania». Claudia Roth dei Verdi ha rinfacciato a Die Linke di non avere un programma credibile: «Non basta chiedere il ritiro delle truppe tedesche dall’Afghanistan».
Reazioni comprensibili, basta guardare i dati di un sondaggio che appare oggi sulla Bild: Die Linke avrebbe un potenziale elettorale in tutto il paese del 24%. Nei Laender orientali ex comunisti arriverebbe addirittura al 44%, all’ovest del paese al 19%.

Corriere della Sera 17.6.07
«Lo avevamo detto» Dalla sinistra radicale torna la critica ai Ds
Giordano: scelte sbagliate dietro quelle manovre


ROMA — Nel maxi-tendone della vecchia Fiera di Roma, dove si svolge il convegno della Sinistra Europa, aleggia un ritornello: «L'avevamo detto due estati fa». Perché ai tempi dei «furbetti del quartierino» gli esponenti di Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi, ma anche dell'allora sinistra diessina, ora Sinistra Democratica, avevano preso le distanze talvolta in modo netto da quella commistione tra politica ed economia. Ma ora, dopo aver letto i verbali delle intercettazioni e ciò che ha detto Stefano Ricucci ai magistrati sulle scalate a Bnl e Antonveneta, quell' «avevamo detto» diventa «lo ridiciamo con forza». Il verde Paolo Cento fa un commento amaro: «Una parte del centrosinistra ha puntato sul mondo della finanza pensando di riuscire a governarlo e invece non ci è riuscito: sono tutti rimasti schiacciati da una macchina ben più esperta di loro in traffici di proprietà e controproprietà. Detto questo, bisogna arrivare presto in Parlamento ad un legge che tuteli ogni cittadino, non solo i politici, di fronte ad intercettazioni di quel tipo ».
Titti Di Salvo, ora nella Sinistra Democratica, viene dai Ds, ma fu tra quelli che già due anni fa criticarono la dirigenza del partito per la «disinvoltura » con cui trattò la faccenda Unipol. Ed oggi è sempre più convinta che «la politica deve svolgere il suo ruolo e l'economia fare la sua parte in modo distinto». Insomma, ad ognuno il suo ruolo «evitando intrecci non trasparenti che indeboliscono la sinistra». Giovanni Russo Spena (Rifondazione Comunista) riflette sul fatto che «si è rovesciata tutta la logica del rapporto tra politica ed economia tanto cara alla sinistra ». Perché «invece di pensare a come redistribuire il reddito si cerca di giungere ai posti di comando».
«Sì — concorda il segretario dello stesso partito, Franco Giordano — due anni fa criticammo con forza l'impianto politico che stava dietro a quelle manovre. E avevamo ragione ». Ci fu «una dura critica», che resta anche oggi. Anche se, fa notare il leader del Prc, «c'è una strana tempistica nella pubblicazione di queste ultime intercettazioni».
Per l'ex diessino Pietro Folena (ora nelle file di Rifondazione) è quasi una confessione: «Allora, due estati fa, ero appena uscito dal partito, ma quando scoppiò il caso Unipol mi convinsi che era necessario pronunciare un giudizio severo per scongiurare quello che a mio avviso era un pericolo». La paura cioè che si snaturasse un pezzo importante della sinistra: «Sotto il profilo del movimento cooperativo che incarnano le coop, si trattava di un'alleanza decisamente spregiudicata. Io credo nel mutualismo e continuerò a crederci». E ancora: «È assolutamente improprio che un partito della sinistra sostenga una scalata finanziaria. So bene che non c'è rilevanza penale nelle intercettazioni che riguardano i miei ex compagni di partito e sono solidale con loro di fronte agli attacchi che hanno subìto. Però, diciamo la verità: le espressioni che hanno usato e che sono state rese note danno la cifra di un cambiamento radicale dei Ds e di tutta una certa sinistra».

Corriere della Sera 17.6.07
La «Cosa rossa»: protagonisti solo se uniti
di R.Zuc.


ROMA — Da Berlino Fausto Bertinotti lancia l'appello: «Saremo protagonisti solo se uniti». E alla Fiera di Roma Rifondazione comunista cerca di raccoglierlo avviandosi a cambiare nome per accogliere tutte quelle realtà che gravitano attorno al partito. Nasce così la sezione italiana della Sinistra Europea. E, nel primo giorno del convegno costitutivo, accorrono le forze politiche più vicine.
Oliviero Diliberto si dichiara stanco di «parole, cantieri e laboratori». E invita i compagni di Prc e Verdi ad «unire la sinistra» una volta per tutte. Sullo sfondo, confessa, c'è lo spauracchio del governo Dini, governo delle «larghe intese» che il segretario del Pdci vede come il fumo negli occhi.
Ci sono però diversi punti di vista.
Interviene dal palco anche Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra Democratica alla Camera, che, pur convinta di percorrere la strada dell'unità, fa presente che per lei, come per tutti i diessini che hanno abbandonato il partito al congresso di Firenze, il socialismo europeo resta il punto di riferimento. Vale a dire a livello internazionale, l'appartenenza al Pse.
Franco Giordano ascolta tutti e alla fine l'obiettivo dell'assemblea: «Vogliamo creare un soggetto pacifista, antiliberista e laico». Poi, entrando nelle scelte politiche di questi giorni, annuncia che il Prc «non accetterà» che venga rinviato l'abbattimento dello scalone delle pensioni e che lotterà con tutte le sue forze per impedire l'ampliamento della base americana di Vicenza: «È alla nostra portata».

Repubblica 17.6.07
"In Turchia le origini degli Etruschi"
Il mistero svelato dal test del Dna. I ricercatori: aveva ragione Erodoto
di Elena Dusi


Analizzata la mappa genetica di centinaia di cittadini della Toscana
Il confronto con gli abitanti dell'antica Lidia ha dato risultati positivi
Mediorientali anche gli antenati della mucca chianina

ROMA - La genetica dà ragione a Erodoto. Gli Etruschi approdarono nella penisola al termine di un viaggio iniziato in Turchia 3mila anni fa. Il punto di partenza è stato fissato nella regione anatolica della Lidia, che si affaccia sull´Egeo. Una tappa probabile è stata l´isola di Lemnos, al largo delle coste greche.
Le analisi del Dna condotte negli ultimi anni lasciano pochi dubbi sul percorso degli Etruschi. L´ultima conferma arriva da uno studio dell´università di Torino su un gruppo di discendenti del popolo che visse tra l´Arno e il Tevere. Alberto Piazza ha raccontato i dettagli del suo studio ieri a Nizza, nel congresso della Società europea di genetica umana. I ricercatori torinesi sono partiti dal Dna di alcuni individui maschi delle città di Volterra (116 persone sottoposte all´analisi), Murlo (86 persone) e della valle del Casentino (61 persone). Tutti i volontari vivevano da almeno tre generazioni nel proprio paese e avevano un cognome tipico della zona. Per quanto possibile, questi criteri servivano ad arruolare solo i discendenti Doc degli Etruschi, escludendo l´influsso delle migrazioni.
Il codice genetico degli "etruschi contemporanei" è stato messo a confronto con quello di 1264 uomini provenienti dalla stessa Toscana, dal Nord Italia, dai Balcani del sud, da Sicilia e Sardegna, da Lemnos e dall´Anatolia. Fra la manciata di geni presi in considerazione per effettuare il confronto, 5 ricorrevano in maniera identica in Turchia e a Lemnos. E 1 tipico degli abitanti di Murlo combaciava perfettamente solo con quello degli anatolici. Molto deboli erano invece le corrispondenze genetiche fra i discendenti dei tirreni e gli altri italiani.
«I campioni di Dna provenienti da Murlo e Volterra - spiega Piazza - sono correlati molto più a quelli dei popoli orientali che non a quelli degli altri abitanti della penisola. La nostra ricerca conferma che Erodoto aveva ragione, e gli Etruschi arrivarono in Italia dall´antica Lidia. Ma per esserne certi al 100 per cento estenderemo le analisi ad altri villaggi della Toscana. Proveremo anche a estrarre del materiale genetico dalle sepolture».
Con i frammenti di Dna provenienti da 30 tombe etrusche si era cimentato tre anni fa Guido Barbujani dell´università di Ferrara. Anche lui concluse che gli Etruschi provenivano dall´Anatolia, o comunque dalle coste orientali del Mediterraneo. Alberto Piazza e i suoi colleghi ad aprile avevano pubblicato sull´American Journal of human genetics un primo studio molto simile all´attuale, arrivando alle stesse conclusioni di oggi. Ma mentre ora i genetisti hanno analizzato frammenti del cromosoma Y (che si trasmette per via maschile), allora utilizzarono 322 volontarie donne, andando a studiare alcune sezioni del Dna mitocondriale (ereditabile solo tra madre e figlia) e confrontandole con quelle di 15mila donne di 55 popolazioni diverse in Europa e Medio Oriente. Sempre all´inizio del 2007 l´università Cattolica di Piacenza aveva esteso il metodo del Dna anche a quattro razze di bovini toscani. Del tutto estranee agli altri esemplari italiani, chianine e compagne mostrarono affinità con le mucche balcaniche, anatoliche e mediorientali. Segno che sulle navi, nonostante la fame imperante, i Tirreni fecero salire anche le loro mandrie.

Corriere della Sera Salute 17.6.07
Il controllo degli psicofarmaci ai bambini
Una nuova proposta di legge: ma forse basterebbe applicare le norme che ci sono
di Riccardo Renzi


Ho letto che è stata presentata una proposta di legge che vieta l'adozione nelle scuole di test psichiatrici, senza il consenso dei genitori. Io faccio l'insegnante in una scuola elementare e sono rimasta sorpresa. Pensavo che questo obbligo ci fosse già...
F.L.( Roma)

Sono d'accordo con lei. Mi sembra infatti che questa proposta di legge (condivisibile nei contenuti) rientri nel costume molto italiano, popolo dalle centomila leggi, di riproporre norme che già ci sono e che (questo casomai è il problema) non vengono rispettate. Ricordiamo che la legge si propone di regolamentare l'uso degli psicofarmaci nei bambini: in Italia sono soltanto tre le specialità indicate. Due di essi (il metilfenidato, cioè il Ritalin, e l'atomoxetina) servono per curare la controversa Adhd (sindrome da iperattività e deficit di attenzione), il terzo, la fluoxetina (il Prozac, per intenderci) è uno dei più diffusi antidepressivi. La proposta di legge raccomanda in questo campo la massima attenzione e controllo da parte delle Regioni, il che ci sembra un semplice richiamo a un dovere. Per quel che riguarda i tre farmaci c'è già una normativa giustamente molto restrittiva: prescrizione soltanto da parte di un neuropsichiatra infantile, la costituzione di un registro Nazionale e il monitoraggio obbligatorio dei piccoli pazienti per l'Adhd, limite sopra gli otto anni e con precise indicazioni di gravità della malattia e sempre in associazione a una psicoterapia per la fluoxetina. La legge infine prevede anche, come lei ricorda, il divieto di sottoporre i bambini nelle scuole a test psichiatrici e a qualsiasi provvedimento terapeutico senza il consenso dei genitori. Sacrosanto: ma sembra anche a me che questo obbligo ci sia già e si chiami «consenso informato». La mia impressione è che questa legge voglia soltanto cavalcare un atteggiamento diffuso dell'opinione pubblica, che considera lo psichiatra una specie di «uomo nero» da tenere lontano dai bambini, con il suo armamentario di pericolosi farmaci. Questo atteggiamento mi sembra comporti un rischio: quello di sottovalutare la malattia psichiatrica, soprattutto la depressione (2 per cento dei bambini e 7 per cento degli adolescenti). Giusto non fidarsi troppo dei farmaci, limitandoli il più possibile e subordinandoli alla psicoterapia, ma attenzione a non «mettere fuori legge» la prevenzione di una malattia grave e diffusa.

Corriere della Sera Roma 17.6.07
Villa Medici In mostra le opere che misero a nudo la Germania di Hitler, ma anche i lavori visionari rifiutati dalla critica americana
Grosz, contro il Reich e il capitalismo
Da Berlino a New York, l'odissea dell'artista che rifiutò nazismo e leggi di mercato
di Giuseppe Di Stefano


Fuggito negli Usa si trovò a fare i conti col potere delle leggi di mercato: il fiasco finanziario della sua arte lo costrinse a diventare insegnante Sofferenze visionarie. Sono tratti duri, angosciosi, sofferti, quelli che caratterizzano molte opere di George Grosz, come l'«Autoritratto con uccello e ratto» del 1940 e la drammatica «Danza dell'uomo grigio» (1949). Ma ci sono anche immagini in apparenza più miti, qual è il «Monte dei pegni», acquerello del '23

«La città era scura, fredda e piena di voci. Le loro strade sono diventate gole selvagge piene di omicidi dolosi e traffico di cocaina, i loro nuovi simboli sono la verga di acciaio e la gamba di una sedia sanguinosa e rotta... Fuori marciava un gruppo di uomini con la camicia bianca, che cantavano ininterrottamente: "Svegliati Germania! Crepate giudei"». Grosz è allibito, attraversato da oscuri presagi alla vista delle «colonne di croci uncinate» che, negli anni precedenti la presa di potere da parte di Hitler, scorrazzano per le strade di Berlino, aggredendo e ferendo. Li detesta, li sfugge. È il 1930. Scrive ancora nel suo diario: «Questa Berlino non mi piace». La osserva, la scruta e fa ricorso a una satira implacabile per denunciarne i vizi, le assurdità, le distorsioni. Nei quadri ad olio, negli acquerelli e nei disegni entrano prepotentemente personaggi nuovi, grassi capitalisti, burocrati dai volti disfatti, militari boriosi. È la Germania che si avvia, cantando e gozzovigliando, verso la guerra, animata da un sogno di potenza che si lascerà dietro, con la fine di Hitler, un numero incredibile di morti e di tragedie. E che offrirà materia dolorosa per le prime opere di un altro tedesco, il futuro Nobel della letteratura, Heinrich Böll.
Grosz mette a nudo, in ridicolo, la Germania del Terzo Reich che, di fatto, privandolo della cittadinanza tedesca, lo costringe nel 1933 ad autoesiliarsi. Se ne va a New York con la famiglia, come tanti intellettuali da Max Beckmann ad Hannah Arendt, ma presto deve fare i conti con una realtà tutt'altro che facile. Scopre il potere che risiede nelle leggi di mercato. «La sua libertà d'espressione - nota Philippe Dagen - non è limitata da alcuna censura politica, ma la sua capacità d'espressione è determinata dal successo o dal fiasco finanziario delle sue opere». E un fiasco è per Grosz è la serie di litografie Interregnum, che viene ignorato dai critici. Il guaio è che gli americani non vogliono saperne di «scheletri e immagini di morte» che attribuiscono alla sua eredità «teutonica». La minaccia, nell'America liberista, è l'indifferenza e la povertà.
Così l'antinazista diventa anche anticapitalista. «La sola legge che regge quello che è il mondo - scrive - è l'ispirazione, l'umore del momento ». Niente commerci, niente affari. Non gli resta che darsi all'insegnamento.
Entro questi due poli contrapposti, ma per certi versi contigui, si pone la mostra «Gorge Grosz. Berlino-New York tra visioni e realtà », curata da Ralph Jentsch, che resterà aperta fino al 15 luglio. Jentsch, direttore della Fondazione che porta il nome dell'artista tedesco, propone un affascinante itinerario con opere per la maggior parte inedite, in particolare quelle realizzate prima del 1920. Compresi i bozzetti di scenografie e costumi eseguiti tra il 1919 e il 1954 per le opere teatrali di Bernard Shaw, Iwan Goll, Georg Kaiser, Paul Zech e altri. In mostra anche i numerosi collages realizzati nel 1959 nello stile della pop-art. Pamphlet tesi alla satira e alla critica sociale da una parte, e opere dedicate al teatro e ai personaggi tragici dei quali propone una lettura d'avanguardia.
Di grande impatto emotivo la «Danza dell'uomo grigio», un uomo-stecchino che, impazzito, esegue la danza dei folli in un mondo sull'orlo della catastrofe. Pennino di bambù, penna, matita e biacca servono all'artista per illustrare la Divina Commedia. E ancora prostitute, ubriachi, maniaci, assassini. Il mondo ricorda un macello, dove si commercia carne umana, gli uomini- maiali di un'incisione del 1926. E poi il nazismo ricorrente: come in una nemesi storica, che fa giustizia dell'Olocausto, ecco un preveggente acquerello del 1940: «Soluzione finale». Hitler, disteso in poltrona, suicida con un colpo di pistola alla tempia. Alle sue spalle una cartina geografica, imbrattata di rosso, dell'Unione Sovietica. Contro i totalitarismi, contro la società degli affari, contro la guerra. Un disegno del 1927 mostra un ammasso di scheletri, teschi di uomini uccisi con un colpo di pistola. Il titolo di questa carneficina si riduce a una domanda inquietante: «Per che cosa?».

«GEORGE GROSZ. BERLIN-NEW YORK TRA VISIONI E REALTÀ», Accademia di Francia, Villa Medici, viale Trinità dei Monti 1

Liberazione 17.6.07
Berlino, Bertinotti saluta la Linke: «Sinistra, l'unità o la scomparsa»
Unità, radicalità: non si tratta stavolta della bussola d'una alleanza, d'una coalizione, d'una politica nei confronti di altre forze democratiche
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Il presidente della Camera dei deputati parla per la Sinistra europea al congresso tedesco
«E' un gran giorno, tutte le sinistre europee né avevano bisogno». Poi: «Lo sento anche in Italia»

Unità, radicalità: non si tratta stavolta della bussola d'una alleanza, d'una coalizione, d'una politica nei confronti di altre forze democratiche. Si tratta della costituzione stessa della sinistra: quella di ora, XXI secolo tra guerra e convivenza, e di qui, Europa tra globalizzazione e alternativa. Sono l'unità e la radicalità che promanano da un evento politico importante, davvero non ordinario, che ieri ha preso forma a Berlino: la costituzione di Die Linke, La Sinistra. E' avvenuto con il congresso di fondazione, che è anche stato quello di fusione tra le due formazioni che alla Linke danno vita: la Pds (partito del socialismo democratico) figlia del travaglio dei comunisti dell'Est dopo la caduta del Muro e del "socialismo reale", e la Wasg, costituita dopo l'uscita di dirigenti socialdemocratici dei Lander occidentali dal corpaccione della Spd. Un evento, appunto: nella politica tedesca anzitutto, dove rappresenta in termini soggettivi la prima vera unificazione Est-Ovest, oltre alla novità della dislocazione d'una forza considerevole a sinistra del post-riformismo segnato dall'era Schroeder e finito in Grande Coalizione con i democristiani della cancelliera Angela Merkel. Ma è un evento anche nel panorama della sinistra europea, in un frangente che generalmente non si direbbe propizio e felice: e lo è anche per quell'esperimento di formazione, rete continentale che "sinistra europea" ha scelto di chiamarsi. Lo è in avanti, oltre.
E' quest'evento che incrocia Fausto Bertinotti, presidente della Camera dei deputati italiana ma anche del partito di Sinistra europea. E che parla nel cuore della sessione d'apertura del congresso costitutivo di Die Linke. Alla vigilia dell'intervento che pronuncerà oggi, a Roma, in quello di Sinistra europea italiana. Il messaggio berlinese di Bertinotti si rivolge, è chiaro, anche all'Italia: proprio perché è rivolto all'intero contesto europeo delle sfide per la sinistra, per i movimenti e per le forze d'alternativa al neoliberismo. All'urgenza dell'unità. Ma è, sopra ogni cosa, la registrazione e l'amplificazione del messaggio che viene dall'evento stesso, dalle voci e dai volti di questa Linke che irrompe come un soffio di speranza nel cuore europeo, in Germania. Un soffio fatto di quelle cose: appunto, la radicalità dei bisogni rivendicati e delle idee propugnate e il fatto politico, concreto e decisivo, dell'unità.
Parla, Bertinotti, subito dopo la trascinante orazione di Oskar Lafontaine, l'uomo e il politico ex-socialdemocratico al cui coraggio politico si deve in molta parte la nascita della Linke, che presiede insieme a Lothar Bisky, intervenuto in apertura. In mezzo, solo una breve pausa di ordinamento dei lavori da parte d'una presidenza formata da giovani e condotta da una ragazza. Bertinotti, che è stato accolto al suo arrivo dall'applauso dei delegati, parla così in anticipo sulla scaletta originariamente prevista: scandisce lentamente il suo saluto e la platea, dispersa dopo le relazioni dei leader, minuto dopo minuto si ricompone e ascolta attenta l'eco europea di questa storia tedesca, che le sue parole testimoniano.
Il Bertinotti che ha parlato ieri a Berlino lo ha fatto, in primo luogo, per raccogliere la novità della costituzione della Linke. «Questo è un grande giorno - dice subito - per tutte le sinistre europee». Un giorno di cui «avevamo un gran bisogno perché quello che attraversiamo è un momento difficile e dobbiamo guardare in faccia a questa difficoltà». E', dopo la dose d'entusiasmo e determinazione offerta da Lafontaine, il richiamo alla coscienza comune d'un rischio incombente, come s'è visto «dalle elezioni politiche in Francia e da quelle in Italia». Quale? «Il rischio è che la sinistra di alternativa sia condannata a una posizione marginale nella politica». Mentre «oggi c'è un grande bisogno di sinistra» anche per un altro e superiore motivo: «Perché senza una sinistra forte il mondo», stretto nella tenaglia «di terrorismo e guerra» e in quella del neoliberismo, «rischia la catastrofe».
Per Bertinotti con la nascita della Linke «si dice all'Europa che la sinistra deve e può diventare protagonista della politica nel nostro tempo attraverso l'unità». E ancora, ai delegati: «Voi rappresentate un esempio per tutta la sinistra europea in quanto preparate le condizioni per un nuovo rapporto tra la politica ed il popolo, tra la sinistra e i movimenti».
Echeggiano le suggestioni venute dall'eloquio di Lafontaine. Bertinotti riprende quella del «laboratario dell'America Latina» evocato dal leader tedesco parlando della «leadership» di Hugo Chavez ma anche, aveva sottolineato, di Evo Morales: «il presidente indio» boliviano importante non solo per la rivendicazione «delle risorse espropriate», ma ancor più «perché insediandosi ha parlato nella sua lingua indigena». Il ragionamento bertinottiano, a sua volta, è che il «socialismo del XXI secolo» appunto «non può prevedere solo la pur necessaria emancipazione economica, ma dev'essere un processo di liberazione complessiva delle donne e degli uomini da ogni sfruttamento e alienazione».
Un omaggio ai segni sparsi nel suo discorso da Lafontaine, con le sue sei citazioni di Rosa Luxembourg accanto non solo a Karl Liebnecht ma anche a Willi Brandt, è pure il singolo riferimento bertinottiano a "Rosa la rossa": «Serve la sinistra per combattere la guerra. Infatti il movimento per la pace ha avuto ragione su tutta la linea, quello della guerra torto su ogni cosa». Più in generale, «il capitalismo ci ruba il futuro» e «solo una sinistra forte ci può aiutare a riconquistarlo». E «abbiamo bisogno di una sinistra forte anche per riprenderci la vita», giacché questo capitalismo non solo «vuole cancellare la storia del movimento operaio» ma, soprattutto, «produce una crisi della coesione sociale, l'impoverimento di strati importanti della popolazione e del potere di acquisto di pensioni e salari, rischiando di condannare la nostra società al precariato, in base ad una precisa scelta politica e sociale volta a costruire un nuovo comando sui lavoratori». E' un capitalismo che «riduce le persone a numeri, colonizza corpi e menti delle persone facendone dei meri mezzi di produzione». Perciò «una nuova sinistra» oggi «deve recuperare la sua grande idea originaria di liberazione».
Per capire quanto poco siano di circostanza queste frasi, quanto invece siano in sintonia con l'uditorio, bastava vederla, la Linke, la Sinistra tedesca a congresso: una platea di ottocento delegate e delegati, in quest'ordine perché moltissime per una volta sono le donne; un corpo plurale di generazioni, ìtanti quarantenni e altrettanti giovani quando non giovanissimi. C'è l'anziano Hans Modrow, c'è Bisky che arringa ricordando «le pratiche di resistenza pacifica sono una nostra tradizione, siamo nati nella giornata del 4 novembre 1989 a Berlino Est», c'è Gregor Gysi che ha concluso il giorno prima l'ultimo congresso della Pds, già Linke-Pds. Ma ci sono anche persone come la delegata della Wasg che dalla tribuna rivendica d'essere, pur se negli "anta", alla prima esperienza di partito. Società civile, sindacalisti, attiviste e attivisti di Attac come delle reti che hanno contestato e assediato in forme democraticamente varie il recentissimo G8 di Heiligendamm. Il disabile che arriva in sedia a rotelle al microfono a gridare la rottura del senso di minorità, elencando tutte le «minoranze» che, in fin dei conti, «insieme sono nient'altro che la società». Ecologisti come lo stesso responsabile per la pace dei Verdi, che siede nei posti d'onore in polemica con l'onda lunga delle scelte di Joska Fischer. Deputati socialdemocratici che seguono ora l'esodo attivo della Wasg proprio nel salto all'unità d'un nuovo soggetto. E poi, Lafontaine: che mostra come tutto questo possa vibrare e far vibrare nelle parole di un signore di 64 anni, capace d'ascoltare e di dar voce.
Bertinotti, incalzato all'uscita dagli inviati dei media italiani, non elude il tema della lezione che viene per casa nostra: «Ogni paese ha la sua storia ma l'esigenza di una sinistra di alternativa e di fare presto anche in Italia, è una esigenza che sento molto forte». Quanto a riferirsi ad una formula-guida, una risposta che vale per molto altro: «Per fortuna, anche attraverso una storia tanto travagliata, ci siamo liberati dei modelli. E sarà bene non ripercorrere più questa strada». Ma, in Italia, se «il coraggio non credo difetti ai gruppi dirigenti interessati», pure «quello che davvero conta più di tutto è la consapevolezza della sfida: se pensi che se non raggiungi l'obiettivo scompari dalla scena, alla fine trovi la forza».

Liberazione 17.6.07
Al Palafiera a Roma è iniziata la prima assemblea nazionale
Nasce Sinistra europea, è unitaria e radicale
di Stefano Bocconetti


A Roma prende il via la fase costituente. Oggi parla Fausto Bertinotti
Un confronto a più voci sul futuro di tutta la sinistra: «L'unità un obbiettivo irreversibile»

Nasce. Nasce molto radicale. Con un linguaggio immediato, diretto. Che da molto tempo era sconosciuto alle cronache politiche. Nasce anche con le parole di Franco Giordano. Che annuncia la "disobbedienza civile" alla costruzione del cantiere del Dal Molin. Lui, e tanti altri con lui andranno a Vicenza, si siederanno a terra proprio davanti a quel terreno spianato e cercheranno di impedire la costruzione della nuova base Nato. Quella voluta da Berlusconi e avallata da Prodi. Nasce radicale, ma nasce anche unitaria. Se don Tonino Dall'Olio dice, citado Giovanni XXIII: «Non mi interessa tanto sapere se le nostre storie passate possono avere punti di contatto. Mi interessa sapere che siamo in grado di progettare insieme una strada comune». Nasce radicale, unitaria e plurale. Se Bianca Pomeranzi, storica femminista, o Andrea Maccarone, del comitato promotore del Gay Pride - quello che sta per cominciare a due passi da qui - chiedono di fare i conti una volta per tutte con il "secolo breve". Col '900. Per affermare che non esiste una "scala" di priorità, una graduatoria nelle contraddizioni: prima vengono le questioni sociali, poi il tema dei diritti. Dei diritti collettivi ed individuali. Che è stata la cultura, la vecchia cultura che ha portato alla sconfitta il movimento operaio nel secolo scorso. Nasce radicale, unitario, plurale. Nasce europea: «L'unica dimensione che possa dare un senso alle battaglie, a cominciare da quella per la pace», per usare ancora le parole di Giordano. E nasce oggi. Davanti a contrasti che la sinistra, una sinistra più interessata al proprio orticello, ai "propri simboli", non è stata fino ad ora in grado di capire. Conntrasti, come quelli di cui parla Arturo Di Corinto, esponente di Net Left, che racconta come l'esproprio del liberismo, in un modo occidentale dove la ciminiera è stata sostituita dalla produzione dei beni immateriali, cominci con l'esproprio della conoscenza. Con la riduzione dei saperi collettivi dentro la prigione dei copyright.
La Sinistra Europea, la Sinistra Europea in Italia nasce così. Con l'assemblea al Palafiera di Roma, che ha dato "ufficialmente" il via alla fase costituente del nuovo soggetto della sinistra d'alternativa. Nasce con una due giorni di dibattito che si concluderà stamane, quando prenderà la parola, fra gli altri, anche Fausto Bertinotti. Reduce dal congresso di Berlino della "die Linke", la "sezione tedesca" della Sinistra europea.
Nasce così, con decine di interventi. Con un confronto che ha riguardato l'intera sinistra: da quella "politica" - c'erano e hanno parlato Diliberto, Paolo Cento e Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra democratica alla Camera - a quella "sociale", con le parole - le importanti parole - di Gianni Rinaldini, segretario Fiom, o con quelle di Paolo Beni, Presidente dell'Arci. Ma l'atto di nascita di un "soggetto politico" - non si possono usare sinonimi, non si può parlare di partito perché Sinistra Europea avrà una struttura confederale, un po' come quella della Cgil per capire -, l'atto di nascita, si diceva, non può essere fatto solo di discorsi. Di progetti. E' fatto di tante altre cose.
Una, in particolare. Perché mai come in questo periodo, tanti convegni sono pieni di frasi sul "rinnovamento della politica". Sui nuovi modi di fare politica che, naturalmente, sono l'antidoto all'"antipolitica". Discorsi riecheggiati anche qui. Solo che in questa sala, quel nuovo "modo", hanno cominciato a sperimentarlo. Ed è una novità percepibile immediatamente, quasi visivamente. Al Palafiera si sono parlati politica e movimenti, partiti e sociale. Tutti sullo stesso piano. I leader delle formazioni politiche, i dirigenti e i deputati di Rifondazione, così come le associazioni di base, i delegati dei movimenti. Da quelli che si battono contro gli inceneritori a quelli che occupano le case. Al movimento per la pace. Tutti hanno avuto a disposizione sette minuti e mezzo. Non un secondo di più. Non una deroga, per nessuno.
Su nessun argomento. Nè quando Massimiliano Smeriglio introduce i lavori, parlando di "filosofia". E raccontando che nella sua città, Roma, si è già messo in piedi un laboratorio che prova a disegnare un'altra cultura della sinistra. Dove ci sia il «noi e il voi, ma anche il tu e l'io». Che consideri inscindidibili insomma le battaglie sociali con quelle per rispondere ai nuovi bisogni. Individuali. Nessuna deroga neanche per Titti De Simone che annuncia da domani la battaglia parlamentare per una nuova stagione dei diritti civili, o per Walter De Cesaris. Sette minuti anche per lui, che pure - gliel'hanno riconosciuto tutti, a cominciare da Alessandro Cardulli che ha fatto gli onori di casa - è stato il "pacato ma tenace" organizzatore di questa assemblea. E così anche De Cesaris deve sintetizzare: raccontando che Sinistra europea è nata per «connettere culture politiche differenti», che vogliono «rimanere differenti». E sette minuti anche per Giordano. Il cui intervento - lo dicono un po' tutti gli osservatori - è sembrato un punto di svolta nel rapporto con la maggioranza: «Non tollereremo nulla di meno che l'abolizione dello scalone, non accetteremo la costruzione della base a Vicenza, non restereno a guardare se il governo continuerà ad ignorare le esigenze delle comunità locali».
Gli stessi minuti, per dirne una, che spetteranno a quella ragazza di Piacenza. Che dal palco fa semplicemente un racconto. Il racconto del perché è qui. Una brevissima storia che comincia due mesi fa, quando nel suo paese il Comune decise di costruire un inceneritore. Le persone, la sua comunità, si mobilitano. E in quella battaglia - vittoriosa, perché l'inceneritore è stato bloccato - incontra il "nodo" ambientalista della Sinistra europea. O per dirna un'altra, lo stesso tempo che tocca a Nunzio D'Erme, di Action. Che in perfetta lingua romana urla: « Datece li sordi ». Che forse è la traduzione della parola d'ordine - "redistribuzione" delle ricchezze - che accumuna tutta l'assemblea.
Si potrebbe proseguire così a lungo. Perché l'incontro al Palafiera è stato uno scambio, un incontro di esperienze. E' stato "anche" uno scambio di esperienze. Ma c'è stato qualcos'altro. Sotteso ad un'unica domanda: ma la Sinistra europea in Italia sarà d'aiuto o no all'unità della sinistra? Servirà a costruire il nuovo soggetto che comprenda tutta intera la sinistra? Le risposte. Netta quella di Giordano: l'unità delle sinistre è un processo irreversibile, e Sinistra europea ne vuole essere «il motore». Netta anche quella di De Cesaris: Sinistra europea «è un punto di partenza». Che magari sembra un po' diversa da quella di Smeriglio che dalla tribuna scandisce che «Sinistra europea non è a tempo». Che a sua volta sembra ancora un po' diversa da quella di Titti De Simone. Convinta, con una punta di orgoglio, che se si è arrivati fin qui «molto lo si deve all'esperienza, al coraggio innovatore di Rifondazione». Un patrimonio che non può essere disperso.
Al Palafiera si discute così. Ma che quella sia la strada, quella che porta all'unità della sinistra, nessuno lo mette in dubbio. Unità che non può nascere da un patto fra stati maggiori, che deve essere imposta dal basso. E qui è riecheggiata, sia nel discorso di Giordano che in quello di Paolo Cento, l'idea di dieci assemblee da fare in città diverse. In autunno. Dove il «popolo della sinistra» faccia sentire la sua voce. Ma comunque verso quell'obiettivo si va.
La riprova, anche nella giornata di ieri. Quando Diliberto - concedendo qualcosa alla platea, con un pizzico di demagogia, insomma - ha detto che «non ne può più di cantieri» e formule varie ma che quell'unità bisogna farla. Subito. O come quando Titti Di Salvo ha spiegato che Sinistra democratica nasce proprio per questo: per riorganizzare la sinistra. Anche se non si nasconde le difficoltà. Ma forse, l'intervento più importante di tutti l'ha fatto Gianni Rinaldini. Non s'è nascosto nulla: «Siamo messi proprio male», ha esordito. Per raccontare che c'è il rischio che la sinistra - meglio: il tema del lavoro che la sinistra incarna - sia semplicemente tagliato fuori dalla politica. In Italia e in Europa. E se questa è la dimensione del problema, non basta l'«unità di azione» fra i gruppi parlamentari che pure è importante. Ci vuole di più. Lui chiede di più: chiede che si cominci a ridiscutere, tutti insieme, i tratti di una sinistra del terzo millennio. Di una sinistra. Una sola, senza altri aggettivi. Lui lancia il sasso. Paolo Beni, dell'Arci, magari sarà un po' più cauto: dirà che lui guarda a tutti gli spazi comuni che si offrono alla sinistra. Qualcuno si spinge più in là, altri meno. Ma comunque, la strada è tracciata.

Liberazione 17.6.07
Unità a sinistra, Giordano:: «Processo irreversibile»
All'assemblea della SE, leader politici, esponenti di associazioni e movimenti discutono del futuro della sinistra: «Fare presto, ricostruire il rapporto con la società». Rinaldini: diamoci «valori universali»
di Romina Velchi


La situazione è «terribile», dice Emilio Molinari (Contratto mondiale dell'acqua); addirittura «catastrofica», rincara Nunzio D'Erme (Network dei movimenti); di sicuro «siamo messi male» concorda Gianni Rinaldini (segretario della Fiom). Ma la via d'uscita c'è ed è a portata di mano. Non è la Sinistra europea - che muove adesso i primi passi - ma passa per la Sinistra europea, pensata come strumento per ricostruire «una soggettività unitaria», da mettere a «disposizione di tutte le sinistre» (Giordano). Sennò perché tenere, all'assemblea costitutiva della SE, una tavola rotonda su "Il futuro della sinistra"? Ancora una volta in "avanscoperta", la SE prova a battere una strada inedita, mettendo a confronto culture e soggettività diverse, qualche volta persino contrastanti. Solo che questa volta l'obiettivo sembra più chiaro e condiviso: andare verso una nuova sinistra unita. Non come una «scorciatoia dalle nostre difficoltà» (dirà poi il segretario del Prc), ma perché alla crisi della rappresentanza (che poi è anche della democrazia, lo ripeteranno un po' tutti gli interventi) «si deve dare una risposta o saremo spazzati via».
L'urgenza, dunque, è questa: andare avanti, subito; magari procedendo per tentativi ed errori, ma andare avanti. Lo dice esplicitamente Oliviero Diliberto: «Chiudiamo la fase convegnistica e passiamo dalle parole ai fatti». E propone che «entro l'autunno» si faccia «qualcosa tutti insieme, chi ci sta ci sta». E poiché anche la forma è sostanza, il segretario del Pdci propone novità nelle «forme» della politica, per esempio introducendo nel nuovo soggetto unitario «criteri di temporaneità e rotazione delle cariche, istituzionali e di partito. A cominciare da me».
Eccolo il tema del rapporto con la società, del legame sempre più fievole tra il Palazzo e i cittadini, della burocrazia politica, delle stesse facce di sempre però non più credibili. E' vero che il dibattito sulla crisi della politica è diventato «stucchevole», come osserva Paolo Beni. Ma è anche vero che la crisi c'è e nasce dalla «precarietà, dall'insicurezza, dalla sfiducia». Chi lo sa meglio dei movimenti? «Hanno prodotto saperi, sono un patrimonio prezioso per la politica». «Noi ci siamo», tende la mano il presidente dell'Arci; ma dateci degli «spazi per il confronto», dove si possa dare un «contributo autonomo». Che poi è quello che chiede - sebbene con accenti assai diversi - D'Erme: «Il vero cantiere sono i movimenti»; voi decidete «qual è il punto di non ritorno» ed evitate una «sommatoria di ceti politici». «Dove sta la gente? - chiede polemicamente - Se la casa della sinistra è quella di Piazza del Popolo stiamo freschi».
La gente la trovi se affronti le questioni concrete («A tutti i D'Alema italiani chiediamo: dì qualcosa di concreto», esorta Tonio Dell'Olio di "Libera"). Per esempio, se vai a Vicenza, una città «in lutto» dice Paola Lovison (Comitati No Dal Molin). Quel movimento, dice, ci parla di questioni non da poco: partecipazione e democrazia, pace e guerra. «Chi comanda in Italia? Siamo una colonia? E la sinistra dov'è? Che fa? - scuote la platea - Sta a voi fare della nostra battaglia la vostra battaglia». «Su Vicenza la frattura non è sanata» e non «vale il richiamo alla responsabilità di governo», raccoglie il testimone Paolo Cento (Verdi), il quale pensa ad una sinistra «arcobaleno», che abbia «capacità di incidere sulle scelte», che sappia «valorizzare il conflitto» e costruire rapporti «non gerarchici» tra la politica e la società. Concetti sui quali insiste anche Vittorio Agnoletto («L'unità della sinistra la sperimenteremo a Vicenza o sulla legge 30»), il quale mette anche l'accento su quell'aggettivo, "europea": «Non è casuale, vogliamo fare dell'Europa uno spazio di libertà» e di relazioni paritarie nel mondo. Mentre Pietro Folena (che invita a «fare presto») propone le case della sinistra come «luoghi nuovi», veicolo per una «sinistra popolare, semplice, che affronta le questioni elementari». A patto che tutti facciano un «atto di umiltà, di generosità» e nessuno sventoli «bandiere identitarie».
E se Titti Di Salvo, capogruppo di Sd alla Camera, invita a non sottovalutare il fatto che al confronto sulle pensioni «ci siamo arrivati con una posizione comune e non era scontato», Gianni Rinaldini avverte che dal confronto con il governo non può uscire un «peggioramento nelle condizioni dei lavoratori», pena una frattura «insanabile». Perciò alla sinistra "unita" chiede qualcosa di più di una «posizione comune». Chiede «idee» nuove, valori che siano «universali» (anche se Ersilia Salvato, pur invitando a «ragionare sul socialismo del XXI secolo», propone di non sottovalutare le conquiste del 900), perché «se c'è un futuro è per una sinistra con radici di massa». Perciò subito un «patto di unità di azione», ma anche via ad un «laboratorio» per la «rielaborazione di che cosa significa essere sinistra oggi». Che poi è l'interrogativo posto in apertura del dibattito da Piero Sansonetti: «Ci può essere una Sinistra europea che non sia capace di trovare la connessione tra le tre grandi esperienze del movimento operaio, del femminismo e della nonviolenza?». La risposta è già contenuta nel modo stesso in cui nasce la SE: con un dibattito in cui i primi a prendere la parola sono esponenti delle associazioni e dei movimenti e la cui assemblea fondativa ha la parità assoluta tra delegati e delegate. Il che certo non basta, sottolineano Bianca Pomeranzi (Rete femminista) e Angela Azzaro ( Liberazione ) se la politica non trasforma le proprie categorie e non fa vivere le differenze: «Non siamo un fiore all'occhiello da esibire».
Pur con tutti i distinguo e le incertezze, avverte in conclusione Giordano, «il processo unitario è irreversibile e decisivo». Decisivo per l'oggi perché dobbiamo essere efficaci nell'azione politica (ed essere uniti aiuta): il governo è «un mezzo» e «non rinunceremo all'abolizione dello scalone, sulla Tav non potrà esserci alcun accordo che non sia condiviso dalla popolazione, il Dal Molin possiamo impedirlo». Decisivo per il futuro: l'Europa deve «battere un colpo» e noi dobbiamo saper proporre una «alternativa di società». Ma non ce la faremo se saremo percepiti come «tecnocratici e elitari». Per questo siamo pronti a «innovare la nostra pratica politica» (mettendo per esempio al centro la democrazia di genere), senza però rinnegare nulla del bagaglio culturale del Prc. «Si parla tanto della crisi di Rifondazione. Ebbene, voglio dirlo: senza di noi questo processo non sarebbe stato possibile».

Liberazione 17.6.07
Non è come nel '98: ora siamo noi la maggioranza dell'Unione
di Francesco Ferrara


Alcune parole chiare sulla attualità stringente.
La necessità di una sinistra unita subito, si deve alimentare da un dibattito vero sui fondamenti di quello che chiamiamo socialismo del XXI secolo. Al tempo stesso, occorre trovare anche le forme unitarie in cui tale rapporto si concretizza e trova espressione fin dentro le rappresentanze istituzionali. Questo processo è fondamentale. Noi, non siamo a rimorchio: ne siamo stati i promotori. Non è un vanto, è un fatto. La prima riunione dei segretari dei partiti che ha dato il via a questo percorso è stata promossa da Franco Giordano.
Allo stesso tempo, dobbiamo avere la consapevolezza precisa che, se non si passa su alcune questioni di fondo che riguardano il crocevia difficile dello scontro sociale e politico, tutto il processo unitario diviene vuota tattica, politicismo allo stato puro, il tentativo di sopperire alla sconfitta sociale con la chiusura nella cittadella della politica.
Questo è il punto. Per dirla con una immagine: la sinistra unita deve affrontare i tornanti pericolosi di questa strettoia. Se li supera e li supera assieme può sperare di accumulare forza per il rettilineo della volata, altrimenti va fuori pista.
Le cose vanno, quindi dette per quelle che sono.
Il Ministro Damiano ha detto che ci sono 2 miliardi e mezzo di euro per interventi di redistribuzione sociale. Chi e quando lo ha deciso ? Questa posizione è la replica di quella del Ministro Padoa Schioppa ma non è la nostra posizione, quella di una parte decisiva della maggioranza e del governo e non era, neanche, la posizione che Prodi aveva espresso.
Allora, prima ancora di vedere cosa si fa con quei soldi, va detto che non accettiamo che al risarcimento sociale rimanga il residuo dopo aver accontentato i tecnocrati di Bruxelles e la Confindustria. Quando nella finanziaria, si è trattato del cuneo fiscale, 6 miliardi di euro, il tema del risanamento del debito non c'era. Oggi c'è perché tocca ai lavoratori. Non possiamo accettarlo.
Il governo ha detto che non vi sono le risorse per abolire lo scalone e ha avanzato una proposta per reperire i fondi, fatta apposta per essere rifiutata dai sindacati. Sembra assomigliare al gioco delle tre carte. Alla fine, ci si prepara a sostituire lo scalone con gli scalini ? Va detto chiaro e tondo che non ci va bene. Né ora, né domani.
Ugualmente, si tratta di intervenire con decisione su alcune questioni di fondo e che chiamano in causa le ragioni dei più grandi movimenti di lotta che hanno attraversato il nostro Paese in questi anni.
La moratoria sulle privatizzazioni dell'acqua varata alla Camera, è un impegno collettivo della maggioranza. Non la si può toccare perché non piace alla Confindustria e a qualcuno del governo.
Sulla base di Vicenza, la decisione di Prodi non ci impegna perché non l'abbiamo né mai condivisa, né mai concordata. Il governo non parla in nostro nome e, quindi, su questo tema noi ci riteniamo liberi di contestare fino in fondo, fino alle conseguenze necessarie, questa scelta. Per noi, vale il metodo del dialogo e della trattativa con le popolazioni. Vale per la Tav e vale per Vicenza.
Non voglio eludere un punto. Si dirà: state tornando a "svolta o rottura" del 1998?
La questione è tutta differente. E' il Partito democratico che sta destabilizzando l'Unione e sta rompendo il patto del programma, proponendone una versione tutta moderata e appiattita sui poteri forti.
Per questo, dobbiamo oggi aprire un vero conflitto che rompa il logoramento che stiamo vivendo e ponga il tema di un rilancio del profilo riformatore.
Tutta un'altra storia rispetto al 1998. Non è lo scontro tra Rifondazione Comunista e l'Ulivo. E' in gioco il rapporto tra l'Unione e il suo popolo. Noi pensiamo di essere la maggioranza: l'Unione materiale, ovvero il complesso delle forze sociali e democratiche del Paese, condivide l'esigenza al cambiamento che noi poniamo. Il popolo dell'Unione vuole questo cambiamento.
E, alla fine ? Alla fine, trarremo le conseguenze sulla base dell'esito di questo scontro. L'espressione "tirare la corda ma non spezzarla mai" l'abbiamo sconfitta già da oltre dieci anni. Non la riproponiamo oggi. Quando fai un conflitto, lo fai fino in fondo. E' come in una grande vertenza: scioperi, fai manifestazioni, tratti.. Alla fine trai il bilancio. Il bilancio lo si fa tutti assieme e non nel chiuso dei gruppi dirigenti. Neanche quelli legittimi degli organismi di partito. Qui sta l'idea di una grande consultazione di massa.
Su Rifondazione, volano corvi e becchini che ci vorrebbero seppelliti senza neanche farci il funerale.
Revelli parla del suicidio di Rifondazione e lo mette in relazione con la deriva dei Ds. No. Non ci siamo proprio. Noi, lo abbiamo riconosciuto, il 9 giugno abbiamo fatto un errore di valutazione. Non si tratta di un errore che deriva da una scelta strategica. Noi abbiamo cercato fino alla fine di svolgere una manifestazione unitaria. Forse dovevamo decidere di parteciparvi unilateralmente. Anzi, sicuramente. Ma non si possono scambiare lucciole per lanterne e confondere un episodio con una strategia. Siamo stati a Vicenza e vi torneremo. Siamo con il movimento per l'acqua. Siamo con i popoli della Val Susa. Siamo con i lavoratori.
Il fatto è che questi nostri "amici" in realtà hanno in odio l'anomalia di Rifondazione Comunista. Sono l'omologo speculare di D'Alema. Questo ultimo ci dice che dobbiamo stare al governo contro i movimenti. L'altro ci dice che, in quanto stiamo al governo, non possiamo stare con i movimenti. In realtà, staremo con i movimenti, oggi e domani. Al governo ci siamo oggi per far incidere i movimenti nelle scelte. Domani, vedremo. Il governo non è il fine della nostra politica. Il fine della nostra politica è la trasformazione della società
Con buona pace di corvi e becchini, dimostreremo che l'anomalia di Rifondazione Comunista non è in vendita e non è merce disponibile nel mercato della politica.
Abbiamo sempre riconoscituto che Rifondazione da sola non basta. Per questo facciamo la sinistra europea, come spazio comune di appartenenza. Per questo, ci apriamo al rapporto a sinistra per costruire la forza d'urto necessaria in questa fase.
Insomma, il futuro è ancora nelle nostre mani.

Liberazione 17.6.07
Germania, una nazione che ritrova l'unità socialista
di Paola Giaculli


Con la sinistra della Linke si fondono le due anime del paese a 17 anni dalla
riunificazione tedesca seguita al crollo del regime della Germania dell'Est, la Ddr

Cade il muro. La Germania vive la sua prima vera riunificazione. Con la sinistra della Linke si fondono le due anime del paese a 17 anni dalla riunificazione tedesca seguita al crollo del regime della Germania dell'Est, la Ddr. Sono le anime rappresentate dal partito della ex Pds e della ex Wasg, che hanno compiuto un atto di valore culturale e politico fondamentale. Dopo la riunificazione, la Germania non ha cessato di essere divisa: da un lato i "vincenti", i tedeschi occidentali, dall'altra i "perdenti", i cittadini di serie B, i tedeschi orientali, prima vittime della dittatura del socialismo reale con l'annientamento dei diritti civili e poi della distruzione totale della struttura pubblica, delle privatizzazioni, della cancellazione dei diritti sociali. E' la Pds a farsi carico, con grande coraggio e determinazione, della ricostruzione e del rinnovamento democratico del partito: perché d'ora in poi il socialismo o è democratico o non è. "Veterocomunisti", "ex partito di regime", i "rossi": il disprezzo usato nei confronti dei "perdenti" alimenta il complesso di inferiorità di chi ha la sorte di essere nato "di là", di chi si ostina, a partire dagli errori del passato, a dare una prospettiva alla solidarietà sociale nella democrazia.
C'è come una macchia originale, che sembra onnipresente nella storia tedesca: prima con il nazismo, e quindi la riconferma a ovest, sotto i governi del democristiano Adenauer, di ex quadri nazisti alle leve della giustizia e dell'istruzione pubblica o addirittura nella politica, con la rimozione della memoria durata circa 40 anni. La macchia, anche se sembra indelebile, comincia a sbiadirsi da una parte con la ribellione dei giovani del '68 contro l'autoritarismo, il silenzio colpevole dei genitori sul nazismo, e dall'altra, con lo scatto autonomo l'Ost-Politik, la politica dell'avvicinamento all'est, perseguita dal socialdemocratico Willy Brandt, meritato premio Nobel per la pace, che apre piccoli varchi nel muro. Chi lo vuole scavalcare da est rischia e, tante volte perde la vita: tragica esemplificazione del fallimento del socialismo reale con le carceri politiche, la Stasi, la sicurezza di stato. Eppure il popolo della Ddr ha provato ad emanciparsi dai soprusi.Era quello che sosteneva il grande movimento degli anni 80, che invade Alexanderplatz, con il milione del 4 novembre 1989. Cinque giorni dopo il muro sarebbe crollato sotto il peso della protesta.
Dalle macerie del socialismo reale rinasce la speranza con la Pds che cerca affannosamente di affermarsi a ovest, ma il cancelliere democristiano Helmut Kohl, con la riunificazione-annesione dell'est compiuta a tappe forzate nel 1990, irride il partito dei "rote Socken", dei calzini rossi, e con esso una parte consistente di popolo. Stavolta sì che la Germania dell'ovest indaga, "epura" i tribunali, le scuole, le università, licenziando insegnanti, ricercatori. Aver lavorato a est non conta: anche le pensioni valgono tuttora meno che a ovest. Ancor oggi a est si guadagna, a parità di occupazione, dal 20 al 40% in meno che a ovest. Puniti per aver vissuto nel regime, o per essere nati da genitori che vi hanno vissuto. Dice giustamente Gysi: «Si è parlato delle élites, dei funzionari di regime, ma chi ha pensato ai milioni di persone che erano il popolo della Ddr?» E se il regime era illiberale, che dire delle conquiste sociali, dell'istruzione e della sanità garantite a vita, degli asili nido per tutti i bambini, dell'emancipazione delle donne? E come puntare il dito anche contro la cultura in toto di quel paese, se nella Ddr, decideva di rimanere una grande intellettuale e scrittrice critica come Christa Wolf? E lei non è che un autorevole esempio. Ma si era agli anni 90, quelli delle magnifiche e progressive sorti della globalizzazione capitalistica. E allora l'annessione del cancelliere Kohl azzera tutto, svende tutto ed esporta tutto. Anche i partiti si impiantano a est. Una colonizzazione generalizzata dell'ovest sull'est. Solo la Pds ha qui vita e radici proprie.
Ora la vita degli "altri", cessa di essere confinata a est e irrompe nella politica nazionale, con uno scatto di maturità: nel momento in cui nasce la sinistra unita della Linke, il popolo della Pds si emancipa dal complesso di inferiorità indotto da ovest. Può ben farlo, il travaglio per il socialismo democratico è durato ben 17 anni e la Pds ha superato ampiamente la prova. Altrimenti a che sarebbe servito riflettere sugli errori del passato e ripudiare lo stalinismo, se non per guardare ad una società pacifica di eguali, di solidarietà e di giustizia sociale? Questo è il pesante bagaglio e dote che la Pds porta con sé in questa unione con la Wasg, il partito dell'ovest, di sindacalisti e ex socialdemocratici che hanno rotto con la Spd, perché questa, con la guerra e la spietatezza sociale del neoliberismo, ha rotto con il suo popolo. Dalle speranze deluse dalla Spd a ovest, dal socialismo reale prima e dalla riunificazione poi, a est, riprende il cammino di una sinistra che guarda a Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Willi Brandt, come dice il neo co-presidente della Linke Oskar Lafontaine, ex presidente della Spd. Si riprendono le grandi tradizioni della sinistra tedesca in un'operazione culturale che contamina e unisce, finalmente, la politica, la cultura e il paese stesso. Da una parte la cultura socialdemocratica, pacifista ed ecologista tradita da Spd e Verdi, dall'altra il socialismo democratico: entrambe vengono sussunte nel grande soggetto unitario.
Ma l'evento storico c'è tutto: ora si riunisce e si riconcilia con se stesso e la propria storia un popolo intero. Lothar Bisky, l'autorevole intellettuale, prima leader della Pds, da ieri da co-presidente della Linke, che ha voluto con tutte le sua forze, cita Rosa Luxemburg, con la sua «dannata voglia di essere felice: sono pronta giorno dopo giorno a lottare con testardaggine per la mia piccola porzione di felicità».

Liberazione 17.6.07
Cuba, Venezuela, "Liberazione" e la verità
Criticare quegli articoli non è un attacco alla libertà di espressione
di Mercedes Frias *


Caro direttore,
cosa volete dimostrare? Dove volete arrivare?
Avete deciso di raccontarci la verità su Cuba, sul Venezuela e poi chissà quale sarà il prossimo bersaglio. La verità, quale verità? Verità di chi? Qualcuno ci ha spiegato come davanti ad un muro rosa con un minuscolo punto grigio si può decidere di vedere il punto grigio. E questo presunto punto grigio per te, e per quella che hai chiamato «una delle giornaliste più brave della nostra redazione, e anche una delle più acute e informate osservatrici dell'America latina», è la verità.
Angela Nocioni, ridicolizzando Chavez e Venezuela, con tono offensivo, ci descrive una sorta di tiranno pittoresco, ma io mi domando, dov'era l'acuta osservatrice quando Azione Democratica e Copei giocavano a ping pong con il potere in una perfetta alternanza? C'era la democrazia? Sì, perché per questi acuti osservatori la democrazia si sostanzia nelle elezioni, non importa di chi, non importa come, non importa cosa si faccia. Rafael Calderas, Carlos Andrés Perez, Luis Herrera Campins, e compagnia, in quel balletto ineffabile delle democrazie di vetrina caratteristiche dell'America Latina, loro sì, formavano delle squadre, partecipatissime, che arrivavano sempre a fine mandato, fino al turno seguente. Peccato che questi giganti della democrazia tenessero di più alla riproduzione del potere delle oligarchie locali, alla difesa dei grandi interessi transnazionali, che all'alimentazione, alla salute, all'istruzione del popolo venezuelano.
L'analisi della brava giornalista raggiunge l'inverosimile quando fa riferimento al mancato rinnovo per altri venti anni della concessione televisiva alla famiglia che da cinquant'anni l'occupava. E mi fermo qua per quanto riguarda il merito.
Mi sfugge il senso di un attacco così sistematico all'unico paese che ha saputo tenere la testa alta sfidando fino allo sfinimento il potere imperiale Usa.
Mi sfugge il senso di questo accanimento nei confronti dei paesi che finalmente cominciano ad alzarsi, tenuti per mano. Certo, tenuti per mano. Forse la nostra esperta non sa come sono entrati nella storia ufficiale questi paesi, forse non sa che sono nati in catene, che il loro ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale era quello di fornitori di prodotti, spesso da dessert, per soddisfare bisogni altrui. Forse non sa che le indipendenze conquistate nell'800 non hanno significato autonomia per nessuno di questi paesi e che semplicemente cambiavano padrone, attraverso l'asservimento delle classi politiche nazionali. Non sa che tutte le ricette per lo "sviluppo", a partire della seconda metà del '900, altro non erano che delle strategie per il controllo delle risorse e la perpetuazione della dipendenza: riforma agraria, rivoluzione verde, zone franche industriali, ecc. L'esperta ignora che ogni tipo di scambio commerciale avveniva (… grazie anche a Chavez si può cominciare a parlare al passato), esclusivamente o al limite prioritariamente, con gli Stati Uniti, e che i rapporti fra paesi dell'area erano pressoché nulli. Quel cucciolo di dittatore che lei dal suo piedistallo ha descritto, non soltanto ha avviato una politica di redistribuzione delle risorse, di nazionalizzazione delle ricchezze del paese, ma sta eseguendo azioni concrete di interscambio fra i paesi della regione, e per la prima volta si apre una crepa nel consolidato monopolio statunitense di relazione con ogni paese del "cortile posteriore di casa". Sarà roba di poco conto, per chi, come Angela Nocioni, di democrazia se ne intende, ma Chavez è stato il propulsore di questa esperienza inedita di rafforzamento politico collettivo, che rende meno vulnerabili i singoli paesi nei confronti del gigante del nord, imponendo di fatto una ridefinizione dei rapporti. Non so se lei capisce cosa significa la prospettiva di abbandonare la posizione genuflessa.
Questa enfasi sulla democrazia nominale mi ricorda una canzone dei Los Guaraguaos (gruppo venezuelano di musica di protesta degli anni '70): «non ti far ingannare quando ti parlano di progresso, perché tu rimani magro e loro aumentano di peso». Il progresso era la parola d'ordine degli anni '60-'70, tanto che Kennedy fondò la "alianza para el progresso". Il progresso ieri, come la democrazia di oggi alla Bush.
Ne sappiamo di democrazia di facciata da quelle parti. Infatti, nel 1983 è stato "derrocado" Maurice Bishop in Granada, perché non era abbastanza digeribile, e nel 1990, in nome dei nobili principi come quelli che ispirano le critiche dell'esperta, i sandinisti hanno dovuto cedere il passo alla democraticissima Violeta Chamorro. Il resto della storia lo conosciamo tutte e tutti, o no?
Così, per caso, questi paladini dei valori universali e universalizzabili potrebbero far cadere un occhio su Haiti, tanto per aiutarsi ad inserire Cuba nel suo contesto.
Da donna ignorante del terzo mondo, mi indigna la supponenza. Mi stupisce l'eurocentrismo primitivo, incapace di elaborare, con uno strumento di lettura completamente cristallizzato, incapace di fare un minimo di operazione di decentramento, di spostamento del proprio punto di vista. Di ricollocarlo, nella consapevolezza che la propria visione parte da un'angolatura specifica, parziale, collocabile in uno spazio culturale.
Capisco che sia più chic solidarizzare per los desaparecidos, manifestare contro un golpe, commuoverci per i bambini e le bambine di strada, fare un giretto con la macchina fotografica per las favelas; paga molto meno supportare chi, con tutti i difetti, con tutte le debolezze e contraddizioni al mondo, lotta per la dignità e la libertà.
Che si tratti soltanto di una questione di priorità? Meno male che non le stabilisce l'acuta osservatrice di cui sopra.
Forse questa fase politica dell'America Latina è una fragile parentesi destinata ad esaurirsi a breve; ma forse gli intellettuali del nord, quelli che sanno veramente come va il mondo, dovrebbero attingere ad altre chiavi di analisi, non basta Weber, Freud e neanche il vecchio Marx, bisogna essere in grado di guardare oltre. Ricordo che l'America Latina ha prodotto le sue analisi economiche, come la teoria della dipendenza, che contestualizza l'analisi marxista; ha sviluppato le sue pratiche socio-religiose, come la teologia della liberazione, per farne due esempi, e potrà trovare la via di una società diversa a partire dal suo contesto, della sua storia, delle sue donne e dei suoi uomini.
C'è un altro acuto osservatore che scrive sull'America Latina. Scrive su Repubblica e riesce a concludere che Chavez è un assistenzialista, raccontando dell'equipaggiamento delle scuole. Che questa operazione la facciano i giornali "amarillos" si può anche capire; che la faccia l'organo del Partito Comunista rifondato è molto meno comprensibile.
Direttore, ho letto i tuoi articoli di pieno supporto e grandi lodi alla tua giornalista. Dallo spazio dato a questi reportage, si evince che questa è proprio una linea del giornale. Vorrei che non faceste le vittime appellandovi all'attacco alla libertà di espressione, ma penso sia necessario, visto che, se non erro, si tratta del giornale del Partito, che a questo punto il Partito debba chiarire se linea del giornale equivale alla linea del Partito, oppure a che cosa? Anche per chiarezza nel rapporto con i paesi vituperati.
deputata Prc-Se

il manifesto 17.6.07
Crisi e mutazione Prc non è al requiem
di Alfonso Gianni
*

La lettura del pezzo di Marco Revelli pubblicato ieri è di quelle che lasciano l'amaro in bocca. Non tanto perché si presenta come un attacco frontale a Rifondazione (per la verità, più nel titolo che non nel testo), quanto perché a tanta spietata critica distruttiva, nei confronti delle sinistre, ma anche dei movimenti, non corrisponde un'indicazione di via d'uscita.
L'idea di proporre il sit-in in alternativa al corteo no war, è stato senza dubbio un errore, e anche grossolano. Per quanto anche il palco di Piazza del Popolo abbia dato vita ad un'iniziativa multicolore e polifonica, erano in pochi a poterla apprezzare. I motivi di questo errore non sono casuali, ma da qui a trarne la conclusione della rappresentazione plastica del fallimento della politica di Rifondazione degli ultimi anni, come dice Revelli, ce ne corre. A Vicenza e altrove non è stato così, eppure al governo ci eravamo e infatti più d'uno al Senato ne approfittò per dargli uno scrollone ( e non mi riferisco a Turigliatto, ma alla triade Chiesa-Confindustria-Usa incarnate da alcuni noti senatori a vita).
Invece Revelli, dal flop del 9 giugno e dal degrado morale della sinistra tifosa di scalate bancarie (fatti peraltro non comparabili), trae la conclusione che le due sinistre, quella moderata e quella radicale, cadono insieme, mentre la salute degli stessi movimenti sarebbe assai malferma. Ac simul stabunt ac simul cadent, egli dice, perché verrebbe meno il principio di rappresentanza, cioè la possibilità di tradurre in forma politica la domanda sociale. C'è chi risolve il problema con la teoria dell'esodo (Negri). Non così sembra fare Revelli, che afferma la necessità di dare vita a un pensiero capace di reinterpretare il presente. Giusto, ma bisognerebbe almeno convenire su alcune cose.
Pur essendo vero che la crisi della sinistra è parte della crisi di rappresentanza, quest'ultima non è giunta al suo requiem. Da questa crisi è necessario e possibile uscire per strade diverse da quelle del lobbismo o della semplice rappresentazione.
La parte moderata ha scelto di fuoriuscire dai confini della sinistra con la costruzione del partito democratico, che rivela un'astrazione da ceti e blocchi sociali da rappresentare. La corsa al centro ne è la conseguenza, ma, come dimostrano i sociologi, il «centro sociale» non esiste se non come illusione ottico-politica.
La parte radicale ha di fronte a sé il compito e l'opportunità di rifondare tutta la sinistra. E' dunque in crisi, ma in un processo di trasformazione. Ed è questa una situazione nuova. Per questo le politiche passate non bastano più. Deve cambiare la natura, oltre che la dimensione, del soggetto di questa sinistra, unitario sul piano politico e plurale su quello delle culture. Muta il suo rapporto con il quadro politico e con il governo, la cui transitorietà è implicita. Si arricchiscono le relazioni con i movimenti, cui non si chiede di lasciarsi rappresentare o interpretare, ma di essere a loro modo protagonisti di un processo costituente.
Non solo la critica del presente, ma l'individuazione di un sistema di valori è essenziale. La sinistra del XXI secolo va ridisegnata e la dimensione nazionale non basta. Nell'assemblea a Roma di Sinistra europea, i termini più usati sono eguaglianza e differenza. Vengono accostati, ma sono un'endiadi di opposti. Il primo aveva innervato la cultura del movimento rivoluzionario lungo due secoli, il secondo quella del liberalesimo. Per noi oggi sono un valore solo se stanno insieme. E' una novità che apprezziamo ancora poco ed è solo un esempio del cammino che dobbiamo compiere.

il manifesto 17.6.07
Rifondazione accende la Sinistra europea
«Un soggetto a rete, pacifista e antiliberista a disposizione di tutti, irreversibile l'unità a sinistra» dice Franco Giordano. Diliberto gli chiede di passare ai fatti entro l'autunno


La «Sinistra europea» (Se) che nasce ufficialmente oggi a Roma è un parto che Rifondazione aspetta quasi dal 2001: un evento atteso da ben sei anni. «Un nuovo soggetto politico continentale, pacifista, antiliberista e laico che mettiamo a disposizione di tutta la sinistra italiana», spiega il segretario del Prc Franco Giordano nel suo intervento introduttivo. Il problema è che il «punto di arrivo» della Se nel frattempo è diventato un «punto di partenza» verso l'unità a sinistra, un «processo», questo, che lo stesso Giordano definisce senza mezzi termini «irreversibile, decisivo per l'oggi e strategico per il futuro».
E' una platea un po' «anomala» quella che accoglie il nuovo organismo al Palafiera di Roma: metà delegati del Prc, metà di oltre 60 associazioni e 4 «nodi tematici». Perché in effetti oggi non nasce un nuovo partito ma addirittura il primo tentativo di superare la «forma-partito». Una struttura a rete che accantona la vecchia appartenenza totale in favore di una militanza diversa. Quasi duemila persone, tantissimi i giovani, molta curiosità ma soprattutto molta preoccupazione sul governo e le sorti di una sinistra in crisi profonda.
La Se appare come qualcosa di più di Rifondazione ma molto di meno della sinistra unitaria. Ha più sostanza di una tappa intermedia e meno del soggetto che verrà. A ben vedere il vero leitmotiv di tutti gli interventi è stata infatti la frattura tra rappresentanza politica e società, la «separazione tra la politica e la vita» azzarderà nel suo intervento Pietro Folena.
Dal palco si avvicendano in tanti, «un dibattito molto aperto e non gerarchico», sintetizza Gennaro Migliore, oggi capogruppo Prc alla camera ma giovane skipper della formazione che in Europa è nata due anni fa con il congresso di Atene. In Italia invece Rifondazione, Sinistra europea e «cantiere della sinistra» andranno avanti di pari passo. Come e per quanto tempo nessuno lo sa. La prudenza dei dirigenti è massima, proprio nel giorno in cui a Berlino le forze a sinistra dell'Spd compiono un'unificazione storica.
«Dobbiamo soprattutto essere utili, se ci rinchiudiamo dentro una discussione identitaria è finita», avverte Giordano. Mentre il segretario della Fiom Gianni Rinaldini ribadisce «l'interesse per qualsiasi tentativo di creare un nuovo soggetto politico della sinistra» ma si rammarica della mancanza di una cultura comune: «Su questo il biennio 2001-2003 è stato davvero un'occasione persa», recrimina.
Interviene Oliviero Diliberto, gesto impensabile fino a poco fa, e non usa giri di parole: «Dobbiamo passare dalle parole ai fatti. Basta con convegni e cantieri che durano troppo a lungo». Avanti tutta e chi ci sta ci sta. Ogni riferimento ai socialisti e a una parte della Sinistra democratica è voluto. «Entro l'autunno facciamo una cosa tutti assieme», chiede il segretario del Pdci incassando applausi. Una scadenza temporale su cui Giordano, nella sua replica, glisserà. Come sulle forme che il processo unitario dovrà e potrà assumere.
Paolo Cento propone dieci assemblee unitarie in dieci città e dice no a una «cosa rossa» che metterebbe in difficoltà il Sole che ride. Proposta accolta. Qualche difficoltà in più invece per Titti Di Salvo, capogruppo alla camera di Sinistra democratica. «Andiamo avanti un passo alla volta, è necessario unire la sinistra e farlo presto - dice dal palco - ma senza ignorare le differenze e nel solco, a nostro avviso, del socialismo europeo». E' una sorta di «Ulivo di sinistra» o Ulivo «stile '96» che piace molto ai Verdi e per ora convince poco Prc e Pdci: «La 'cosa rossa' chiude e non convince tanti», avverte Di Salvo.
Nominalismi che non nascondono le difficoltà. Anzi. I partiti a sinistra aumentano di numero ma non in consensi o efficacia. Le iniziative unitarie si susseguono settimanalmente più o meno con gli stessi protagonisti e le stesse parole d'ordine. Oggi parlerà Fausto Bertinotti, al suo primo intervento di partito dopo l'elezione al vertice di Montecitorio. Da Berlino ha lanciato l'allarme: «La sinistra sia unita o sarà la catastrofe». Come dire, socialismo (del XXI secolo) o morte. M. Ba.

il manifesto 17.6.07
A Berlino fusione a sinistra tra Pds e Linkspartei
Linke, una sola casa per Gysi e Lafontaine
Per il programma otto punti chiari su lavoro e salute e il no senza e senza ma alla guerra. Bertinotti: «Una unione che incoraggia la sinistra italiana»
di Guido Ambrosino


Un ritmo di marcia rock irrompe dagli altoparlanti. Un mare di grossi palloni rossi inonda la sala, ondeggia sulla folla che lo fa lentamente rimbalzare fino al soffitto. I delegati si abbracciano. Alle 16.35 è nato un nuovo partito, «Die Linke»: la sinistra. Nome geniale nella sua brevità. E astuto, perché, aggirando l'annosa querelle sulla via giusta tra comunismo, socialismo, socialismo democratico, socialdemocrazia e quant'altro, trova, per il momento, tutti d'accordo. Solo un voto contrario e due astenuti alla conta decisiva sulla fusione tra Linkspartei-Pds, il partito nato diciassette anni fa dall'impietosa autocritica dei realsocialisti orfani della Repubblica democratica tedesca, e l'Alternativa per la giustizia sociale, raggruppamento messo in piedi nel 2005 da ex socialdemocratici e sindacalisti.
I nodi verranno al pettine quando si tratterà di scrivere un nuovo programma. Per il momento ci si è accontentati di uno statuto e di «elementi programmatici» ridotti all'osso: difesa dello stato sociale, lotta alle privatizzazioni e alla precarizzazione del lavoro, rifiuto di ogni intervento militare all'estero. Al congresso ci si è accordati su sei punti su cui intervenire nel prossimo futuro: salario minimo di otto euro l'ora; un assegno sociale che copra i bisogni dei disoccupati, senza ricatti per chi rifiuti lavori al di sotto della sua qualificazione; diritto a un posto gratuito all'asilo per ogni bambino; rifiuto della riforma che sposta gradualmente fino a 67 anni l'età della pensione; rifiuto della privatizzazione delle ferrovie; ritiro immediato dall'Afghanistan.
Un programma tutto d'opposizione perché, a parte l'eccezione della partecipazione al governo nella regione di Berlino (eccezione infelice, che è costata ai socialisti la metà dei voti alle ultime elezioni), e a dispetto di un forte radicamento nelle amministrazioni comunali dell'est, contro i socialisti della Linke vige ancora un patto di esclusione. Finché la Spd continuerà a ripetere: «Con quelli noi non parliamo nemmeno», la Linke non si vedrà indotta in tentazioni opportunistiche.
Fausto Bertinotti, che viene spesso a Berlino da quando è presidente della Sinistra europea ha strappato applausi con una tirata contro il capitalismo, che minaccia di portare il pianeta alla «catastrofe» e «ci ruba il futuro». «Abbiamo bisogno di una sinistra forte - ha continuato - per riprenderci la vita». Una sinistra che non si potrà accontentare della pur fondamentale emancipazione economica, ma che si batta «per un socialismo come processo di liberazione di uomini e donne da ogni forma di sfruttamento e di alienazione». Ma Bertinotti si è ben guardato dall'addentrarsi nelle pieghe della politica internazionale. Se avesse cercato di difendere il voto di Rifondazione sul prolungamento della missione italiana in Afghanistan, la platea berlinese lo avrebbe cacciato a male parole.
Il suo amico Oskar Lafontaine parla tutta un'altra lingua. Qualifica di terrorismo la crociata occidentale in Iraq e in Afghanistan: «Il Bundestag definisce il terrorismo come ricorso illegale alla violenza per il perseguimento di fini politici. Non c'è dubbio che sia quindi terroristica la guerra condotta in Iraq contro il diritto internazionale. Così come è terroristico l'indiscriminato ricorso alla violenza anche contro civili in Aghanistan, nel quadro dell'operazione Enduring Freedom». Operazione ormai non più distinguibile dalla missione Isaf (quella cui partecipano anche contingenti tedeschi e italiani).
Ieri a Berlino non c'era né tempo né voglia per polemiche tra partiti fratelli. Era una festa di matrimonio. E i fotografi si sono gettati sulla coppia di fatto del giorno, Gregor Gysi e Oskar Lafontaine, le due star della Linke.
A Gysi è riuscito il miracolo di portare ironia e un pizzico di scetticismo nel serioso patrimonio genetico dei socialisti dell'est. A Lafontaine, negli anni '80, riuscì un prodigio non meno sensazionale: aprire la Spd «produttivista» e «economicista» all'alleanza con i verdi e alle radicali istanze che portavano con sé, anche sul terreno dei diritti civili. La combinazione di questi due talenti fa ben sperare.
Già guidano in tandem il gruppo parlamentare, e continueranno a farlo. Gysi, che ha avuto seri problemi col cuore, non se l'è sentita di assumersi un secondo incarico alla guida del partito. Nel secondo tandem, eletto ieri alla presidenza del partito unificato, entra quindi solo Lafontaine, affiancato da Lothar Bisky, già presidente della Linkspartei. Lafontaine, il nuovo arrivato, ha perfino scavalcato Bisky nelle preferenze, con 622 voti contro 580 (su 715 voti espressi).
Le donne hanno protestato per questo doppio maschile. Sono state compensate con tre delle quattro vicepresidenze. Nessuna sorpresa per la direzione: sono stati confermati i 22 candidati proposti dalla Linkspartei (metà donne, metà uomini) e i 22 nominati dalla Wasg. La torta è stata divisa in due parti uguali, sebbene i socialisti dell'ovest abbiano solo 12.000 iscritti, contro i 72.000 della Linkspartei.

sabato 16 giugno 2007

Liberazione 16.6.07
La visita del presidente della Camera in Russia:
gli incontri interparlamentari e il confronto col primo ministro sulla fase internazionale
Bertinotti a Mosca, dialogo sulle crisi
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Il presidente della Duma di Stato, Boris Vjaceslavovic Gryzlov, il primo ministro Michail Efimovic Fradkov, il ministro degli Affari esteri Serghei Viktorovich Lavrov; a parte il presidente Putin, nella sua visita di giovedì a Mosca il presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana Fausto Bertinotti ha incontrato praticamente tutti i vertici della Federazione russa. Lo ha fatto in colloqui bilaterali, a partire da quello con Gryzlov dopo che i loro due discorsi avevano inaugurato l'ottava riunione della "Grande Commissione" Italia-Russia, formata appunto da una delegazione di Montecitorio (Benedetti Valentini di An, Compagnon dell'Udc, Marcenaro dell'Ulivo, Provera del Prc e Venier del Pdci) presieduta dal vicepresidente della Camera stessa, Giulio Tremonti e da una della Duma guidata dall'omologa Liubov Sliska.
Se l'avvio della sessione di lavori della "Grande Commissione" ha espresso particolari significati, avendo nella sua agenda argomenti non proprio marginali quali il "dialogo" sulla "sicurezza" tra Russia e paesi Nato, i rapporti politici tra la Federazione e l'Ue, quelli economici e il confronto sulla storia dopo il 1989; gli incontri a porte chiuse di Bertinotti con il premier e il capo della diplomazia russi hanno costituito l'occasione di un confronto privilegiato sulla fase attuale delle relazioni internazionali. Una fase che, oltre ogni formalità, è stata affrontata per com'è: drammatica, percorsa da pesanti dinamiche di regressione e da altrettante opportunità deluse o a rischio di rivelarsi tali. Ed è in questo quadro che la preoccupazione investe l'Europa: soprattutto nel quadro delle opportunità deluse, perché molte sono - o sono state - incentrate sulle qualità possibili del suo essere polo e insieme spartiacque, specie nella cornice di un'epoca segnata dalla coppia "terrorismo"-"guerra preventiva" cara all'analisi bertinottiana.
Non è stata dunque una tappa scontata, la visita ufficiale di Bertinotti a Mosca. Ancor meno scontato che un visitatore del genere indichi, come ha fatto, ai suoi interlocutori una doppia «bussola» quale quella della condivisione di diritti e democrazia e del superamento della contraddizione tra crescita economica e aumento delle diseguaglianze, attraverso la lotta alla precarietà.
Già nella mattina di giovedì, nel discorso pronunciato dopo il presidente della Duma, Gryzlov, ad introduzione della "Grande Commissione" interparlamentare, Bertinotti aveva messo l'accento su un tema approfondito successivamene col primo ministro Fradkov e il titolare degli Affari esteri Lavrov: quello delle «decisioni reciprocamente condivise». Anche sullo sfondo della discussione tra la delegazione dei deputati italiani e quelli della Duma, c'era infatti un difetto di decisioni: riguardo agli impegni bilaterali già assunti, come sul terreno oggi quanto mai accidentato dei rapporti multilaterali. Meglio: la diffusa espressione dei limiti delle decisioni politiche, laddove ad una ripresa di slancio in punto di partenariati economici non corrisponde una fase di dialogo politico soddisfacente, col risultato di rendere più angusto del possibile il respiro dei primi.
E' stato in questa cornice che Bertinotti ha portato, in una sede pubblica come l'avvio della riunione della "Grande Commissione", l'accento sulla questione dei diritti umani, di particolare criticità nella vicenda russa - dalla guerra in Cecenia ai metodi di governo in faccia alle opposizioni interne. Attento a non offrire alcun alibi a confusioni con il tono e il senso di altri approcci politici che impugnano strumentalmente il tema per alimentare in realtà confronti di forza, il messaggio bertinottiano ha preso piede da una chiarificazione netta: «Nessun Paese può ergersi a giudice di altri, al contrario, insieme deve essere trovata la via più efficace per un confronto che nella reciproca comprensione lavori per una crescente affermazione della democrazia e dei diritti». Proprio le «assemblee» rappresentative dovrebbero essere «il luogo istituzionale principale per risolvere compiutamente l'istanza della partecipazione» e per questa via «offrire concretamente una prospettiva di cambiamento a tutti coloro che il nuovo tempo delle relazioni economiche e sociali sta ponendo ai margini del corso della storia». Perché, ricorda, tanto la Russia come l'Ue «sono attraversate da giganteschi cambiamenti che investono l'economia e i rapporti tra le diverse economie che, a loro volta, investono direttamente le condizioni sociali dei popoli e i diritti delle persone». E aggiunge un leit motiv che ripeterà al premier e a Lavrov: «La crescita non è automaticamente portatrice di progresso sociale e questo apre una grande questione democratica».
Di qui un'indicazione che è soprattutto un auspicio: «Solo una grande politica può affrontare tali temi. Il confronto tra realtà diverse e una nuova cooperazione internazionale per la costruzione della pace e per la lotta alla povertà e alle diseguaglianze è la cornice affinchè questa nuova politica possa prendere corpo». La politica stessa, argomenta evidentemente avendo a mente anche il bagaglio di pensieri "italiani" che reca con sé, «deve rinnovare la propria capacità di indagare la realtà, di analizzarne gli snodi critici e i punti di sofferenza, di proporre soluzioni in grado di interpretare i fenomeni del nostro tempo in tutta la loro complessità».
Ne deriva l'articolazione di una prospettiva più ampia per le stesse relazioni di mercato: insiste a dire che «i grandi temi della cooperazione economica, a partire da quella energetica, debbono rafforzarsi insieme a quelli della democrazia e dei diritti», Bertinotti. E sui rapporti bilaterali italo-russi, nell'incontro a due con Gryzlov invita a guardare alla «grande leva economica che può venire dalla cultura, una vera e propria "energia bianca"».
D'altronde proprio Gryzlov illustra nel suo discorso un punto che tornerà martellante anche nelle posizioni del governo russo ascoltate poi da Bertinotti: la precipitazione - pesante su tutti gli altri terreni di confonto, già politicamente ardui dalla divergenza radicale sul Kosovo alle differenze d'approccio con l'Iran, sino allo stallo dell'iniziativa del "quartetto" sul Medio Oriente - dei rapporti sulla questione del disarmo, con l'inizitiva statunitense dello "scudo" in Polonia e Cekia e con le politiche di "allargamento" della Nato. Il presidente della Duma ripete il discorso di Putin: «L'ampliamento della Nato è ingiustificato, così come ingiustificata è la crescita di installazioni militari dell'Alleanza Atlantica vicino ai nostri confini». Chiosa: «Proseguiremo il nostro lavoro per assicurare pace e stabilità all'Europa ma siamo contro una nuova corsa agli armamenti e riteniamo che l'unica strada da seguire sia il disarmo in Europa centrale».
Sono parole che al pomeriggio tornano in forma sintetica nei discorsi a porte chiuse di Fradkov e, invece dettagliatamente, in quelli del capo della diplomazia russa Lavrov: il quale ha buona parte delle sue preoccupazioni rivolte in primo luogo, certo, al disastro di Gaza e al precipitare della situazione in Medio Oriente, ma anche alla Conferenza sul disarmo di Vienna, chiusasi infatti ieri con un nulla di fatto sul Trattato sulle armi convenzionali in Europa mai ratificato dagli euro-occidentali e impugnato da Mosca nel frangente dello scontro sullo "scudo". Bertinotti illustra il suo punto di vista, in verità eclettico rispetto alle voci ufficiali Ue e Nato sinora ascoltate, sin dal briefing con i giornalisti italiani dopo il colloquio con Gryzlov: «Quando qualcuno si sente in qualche modo accerchiato, è buona politica ascoltare con attenzione le sue preoccupazioni». Ma non si limita a questo: «contrastare una spinta al riarmo», prosegue, «è un tema ineludibile. È un problema insieme di pace e di un'idea dell'economia per il futuro». Introduce quel che illustra in seguito alla "Casa Bianca" moscovita e nella sala degli incontri ufficiali ristretti al ministro degli Esteri: «Condividiamo con la Russia la politica di valorizzazione delle Nazioni Unite e anche di una politica che lavori per la pace e per risolvere i punti di crisi e di controversia nel mondo attraverso il metodo della trattativa e del negoziato». Una politica, al momento, tutta a venire: e per nulla assicurata, in particolare dalla "vacanza" dell'Europa.

il manifesto 16.6.07
Nasce Sinistra europea

Per qualcuno è nata già morta, per altri, al contrario, è il futuro. In ogni caso, oggi e domani a Roma si tiene l'assemblea nazionale costitutiva della sezione italiana di Sinistra europea. Una due giorni di dibattito che darà vita al nuovo soggetto. Oggi all'ordine del giorno è prevista una tavola rotonda sul «futuro della sinistra» a cui interverranno, oltre agli esponenti di Rifondazione comunista, che è la promotrice in Italia del progetto, anche i rappresentanti delle reti e delle associazioni che vi aderiranno. Nel pomeriggio, il dibattito delle delegate e dei delegati, poi sospensione dei lavori per prendere parte al gay pride. Domenica mattina è previsto invece l'intervento di Fausto Bertinotti. L'intervento più atteso, visto che segna il suo ritorno alla vita del partito, ma anche quello che più provocherà polemiche. E' proprio il presidente della camera infatti l'obiettivo delle critiche di chi, nel Prc, non vede di buon occhio la nascita di Sinistra europea. Sinistra critica non parteciperà neppure all'incontro, mentre la minoranza dell'Ernesto ci sarà, ma «solo di passaggio», come afferma il senatore Fosco Giannini, direttore della rivista. «Siamo fortemente contrari alla nascita di questo soggetto, è un'operazione moderata e socialdemocratica», Giannini, insieme con il deputato Gianluigi Pegolo e a Leonardo Masella, capogruppo del Prc nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna, auspica, invece di una svolta ancor più governista del suo partito, «il rilancio di un moderno partito comunista, e non il suo superamento». Pena, come gli ultimi risultati elettorali dimostrano, « una consunzione elettorale sempre più ampia», conclude Giannini.

Repubblica 16.6.07
Prc, l’ultimatum dei giovani "Fare presto cose di sinistra"
Troppe armi e poco welfare: il j'accuse contro il governo amico
di Alessandra Longo


La responsabile dell'organizzazione giovanile: "Ripenso ai post-it per Bertinotti: sono quelli i desideri da soddisfare"
Giudizi duri su Prodi: "Lontano dalle sofferenze della gente". Ma anche realismo: "Farlo cadere non serve"
Tra i gesti-simbolo suggeriti quello di "bloccare le ruspe alla base di Vicenza". E di aumentare le pensioni

ROMA - Ha una bella faccia sorridente, 25 anni, una storia politica che inizia con le proteste del Movimento Studentesco contro la riforma Berlinguer, un padre, già operaio Enel, finito a 50 anni, nell´era delle ristrutturazioni, a lavorare, cuffie in testa, nel call center dell´azienda. Betta Piccolotti è la portavoce dei Giovani Comunisti di Rifondazione. Se uno vuol capire come se la passa il partito in questa fase delicata, quali sono i sentimenti, le emozioni dei 15 mila iscritti sotto i 30 anni, deve ascoltare voci come la sua. Voci che non mediano il pensiero, non filtrano e soppesano, come fanno i senior, anche quelli più radicali.
Del governo Prodi Betta pensa questo: «E´ totalmente ingessato, ha difficoltà ad individuare i nodi reali, non si connette con la sofferenza della gente sui temi del lavoro, dei salari, della pace, della guerra». Betta parla, guardando onestamente anche all´interno del suo partito, di «disillusione, di umore nero del popolo della sinistra». Dorme ancora bene la notte, dice, ma «si sta interrogando»: «O si cambia rotta, o sarà un autunno caldo».
No, non è una scalmanata: «Penso che far cadere questo governo non risolverebbe nulla. Il punto è un altro: riequilibrare il rapporto tra governati e governanti. Non ho mai pensato che Prodi fosse un rivoluzionario ma che mettesse fine alle storture berlusconiane, questo sì». E´ andata, il 9 giugno scorso, al corteo No-Bush con gli amici del Network delle comunità in movimento, poi è passata al sit-in «istituzionale» di piazza del Popolo, «una piazza triste, come lo sono tutte le piazze senza persone».
Un po´ triste lo è anche lei per come vanno le cose: «Penso alla campagna delle primarie, ai post-it che i militanti, gli elettori, mandavano a Bertinotti, con i loro voglio». Voglio vedere i miei sorridere quando prendono la pensione, voglio scogliere senza cemento, voglio la tassa sui furbi, doppia se di sinistra, voglio fumarmi uno spinello, voglio che il mio pensiero sia rispettato. «Mi chiedo - dice Betta - se il governo Prodi sia ancora permeabile a questi voglio. E mi piacerebbe conoscere i voglio dei futuri iscritti al partito democratico. Perché il problema, sono sicura, non è solo nostro».
«L´aumento delle spese militari, il diktat di Vicenza, lo scudo stellare, la lotta alla precarietà». Betta pensa che Rifondazione debba far sentire meglio la sua voce sia pur nella cornice «del compromesso più avanzato», e difende la libertà dei movimenti», quasi la ragione sociale del partito, «che non devono farsi imbrigliare dalla logica delle coalizioni». Betta parla la stessa lingua di Alessandro Rozza, 25 anni, leonkavallino: «Il partito deve prendere la sua anima dal Movimento. Il passaggio a Sinistra Europea va proprio in questa direzione, un soggetto allargato, una forma partito confederale, non verticistica, costruita sulla partecipazione dal basso». Come si sente un leonkavallino di questi tempi? «Come Nanni Moretti, mi aspetto qualcosa di sinistra. Rifondazione non si è impegnata solo con il Movimento ma anche con gli elettori».
Michele De Palma ha 31 anni, gli occhialetti alla Gramsci, siede nella segreteria nazionale, è stato alla guida dei Giovani Comunisti prima di Betta Piccolotti, ha cominciato a far politica a Terlizzi, lo stesso paese di Niki Vendola, lotta alla mafia, Movimento Studentesco. Dice: «Non ho mai pensato che dal governo si potesse cambiare il mondo e nemmeno che Bush e Prodi siano la stessa cosa, come ho letto su certi striscioni il 9 giugno. Ma così non va bene. Basterebbe rispettare il programma dell´Unione, basterebbe non allontanare i pensionati che protestano davanti a Palazzo Chigi».
Un´altra voce, giovane, che non usa un linguaggio ultimativo nei confronti del governo, che capisce le difficoltà oggettive del suo partito ma lo vorrebbe più tonico, forse più spregiudicato nei rapporti con gli alleati, sicuramente più libero di «bloccare le ruspe a Vicenza, di difendere le ragioni degli abitanti della Val di Susa». Nessuno di loro che perda tempo a parlare dei teocon, dell´Udeur. Il confronto è tutto a sinistra. Per esempio con Massimo Cacciari, che li ha molto sfidati: «Ha detto che Rifondazione è la zavorra ideologica della coalizione - ricorda De Palma - ha un´idea della società sul modello neo-americano: i movimenti si agitano, la politica governa e il fiume volge sempre verso la stessa sponda. Io penso che quello che Cacciari chiama zavorra sia il lievito della società, altrimenti la politica diventa solo risposta di volta in volta alle sollecitazioni delle lobbies». Noi siamo un´altra cosa, si ripetono i Giovani Comunisti, quasi per farsi coraggio e scacciare il timore che l´essere al governo possa produrre una «contaminazione» negativa, ingessi, separi, allontani. Anche per questo è stato molto apprezzato il mea culpa di Giordano sulle due piazze separate anti Bush. «In politica - dice De Palma - raramente si ammettono gli errori».
Correggere la rotta: è questa l´ossessione, l´obiettivo, con l´ansia che il tempo è poco, che il rapporto con gli elettori - le amministrative lo dimostrano - ha subito un vulnus, e bisogna fare presto. Nicola Fratoianni, 32 anni, segretario regionale di Rifondazione in Puglia è l´unico che si concede un sorriso di questi tempi. Ha tirato la volata a Niki Vendola e ha puntato su Ippazio Stefàno, eletto alla bulgara sindaco di Taranto. Non vuole assolutamente l´etichetta di vincente ma una ricetta deve esserci, al netto delle specificità locali, se le cose possono anche andare così. «Certo che c´è - dice Fratoianni - si chiama coerenza. Vai al governo e sai che devi mediare - Vendola lo fa - ma devi anche introdurre un tratto, fare qualcosa di sinistra per l´appunto. Se elimini la gran parte dei ticket sanitari, se fai una legge regionale sui servizi sociali che dà diritti anche alle coppie di fatto, se in due anni apri 10 parchi, allora le cose possono anche funzionare. Adesso il governo Prodi dovrebbe togliere lo scalone, combattere seriamente la precarietà, ritoccare le pensioni minime. C´è sofferenza, c´è crisi, anche nel nostro partito. Ma se ne esce solo così: dando risposte alla gente, facendo quel che si è promesso».

il manifesto 16.6.07
Il commento. La settimana nera di Rifondazione comunista
di Marco Revelli


Su ciò che è accaduto a Roma una settimana fa si è discusso ampiamente. Sul palcoscenico di piazza del Popolo è andata in scena, con la plasticità degli eventi simbolici, la «caduta» di Rifondazione comunista: il fallimento della sua linea politica, non solo degli ultimi mesi ma degli ultimi anni. Dico di Rifondazione comunista, anche se non è l'unica a aver allestito quella piazza, perché è stata la formazione politica che più di ogni altra aveva puntato sul «rapporto con i movimenti» (per usare l'espressione di rito) e insieme che più aveva dato per far nascere e sostenere il governo Prodi. Ora, nel vuoto di quella piazza - e nel pieno delle strade «alternative» circostanti - poteva constatare con quanta rapidità almeno un quinquennio di lavoro «con il sociale» (diciamo: da Genova in poi...) fosse stato azzerato da poco più di un anno di presenza nell'esecutivo.
Il sabato nero della «sinistra radicale di governo» - si può dire così? - non può essere tuttavia separato da ciò che è avvenuto la settimana successiva, e che ha riempito le prime pagine di tutti i giornali. Intendo la devastante crisi d'immagine che ha colpito i massimi vertici dei Ds con la diffusione delle intercettazioni relative alle scalate bancarie. Che non è questione di «complotti», di «follia italiana», di gossip o di malcostume informativo: forse c'è anche questo, ma non è la questione principale. E neppure un aspetto secondario - di «costume», appunto - di una lotta politica che si svolge su ben altri terreni. E', al contrario, la prova desolante del livello di degrado politico, etico, persino linguistico e - l'espressione è estrema, ma non ne trovo un'altra adeguata - «antropologico» di quel pezzo di classe politica a cui buona parte degli elettori di sinistra aveva pensato (illudendosi) di poter affidare il risanamento morale del nostro paese. E' la fine di quella residua legittimazione morale che aveva costituito l'ultimo, tenue filo di continuità di un'Italia che continuava a credere nella politica perché s'immaginava e l'immaginava «altra» rispetto alle orge del potere berlusconiane. Il lessico degli «intercettati», gli argomenti usati, gli uomini con cui e di cui parlano (avete presente il «compagno» Ricucci?), la superficialità e l'arroganza che trapelano, la logica affaristica che esprimono, il piglio da «razza padrona» che denunciano, non costituiranno di per sé (almeno per ora) prove di reato. Ma ragione di una delegittimazione politica totale (da «sen vajan todos»), questo sì, almeno da parte di chiunque non condivida un realismo e un cinismo di tipo tardo-bolscevico alla Ferrara.
Le due sinistre
Può dunque apparire come una terribile beffa del destino che, nel corso della stessa settimana, entrambe le «due sinistre» italiane cadano insieme. Che mentre esplode la crisi della più importante componente della «sinistra moderata» impegnata a convergere drasticamente e definitivamente verso il centro, contemporaneamente imploda la linea politica del partito che più avrebbe potuto «capitalizzarne» gli esiti, o comunque contribuire alla nascita di una più vasta alternativa organizzata a sinistra lungo un percorso di dialogo col «sociale». E che per anni si era preparato a questo momento. Né mi sembra, sinceramente, che la voragine che si va aprendo «in alto» possa essere riempita, in tempo utile, da ciò che si muove «in basso».
Il corteo che sabato scorso ha attraversato Roma è stato grande, non c'è dubbio, bello, multicolore e polifonico (almeno nella sua stragrande maggioranza e fino a cinque minuti dalla fine). Ha dimostrato che un nucleo ampio, massificato, di partecipazione attiva contro la guerra e per l'autodifesa dei territori non si lascia intossicare dai miasmi che escono dal palazzo. Può sopravvivere all'asfissia dei piani alti. Ma non prefigura ancora un'altra «politica possibile». Non rappresenta neppure tutto l'esteso tessuto partecipativo che si era materializzato a Genova nel 2001, con i centri sociali e le parrocchie, i militanti della sinistra radicale e i boy scout, la rete Lilliput di Alex Zanotelli e la Fiom di Claudio Sabattini tutti fusi insieme... Ne costituisce solo l'anima «politicamente organizzata», più una sorta di partito in pectore che non il «movimento dei movimenti». Per questo, la legittima soddisfazione dei suoi organizzatori, se travalica in gioia trionfale mi ricorda un po' chi celebri una festa di compleanno nella sala da ballo del Titanic.
Il fatto è che lo spettacolo (inguardabile e terribilmente triste) a cui stiamo assistendo in questi mesi è quello di una sinistra che «viene giù» tutta insieme. Che cade in tutte le sue componenti, nel quadro di una più generale «crisi della politica». Di un mutamento genetico delle caratteristiche stesse del «politico» - dei suoi ambiti spaziali, delle sue forme espressive e organizzative, dei suoi valori di riferimento e delle sue concrete possibilità di azione - che fa venir meno il contesto stesso in cui l'identità della sinistra si era strutturata. E' cioè la politica del «moderno» - quella fondata sulla centralità della «forma-stato» e della sua sovranità su base nazionale, sulla relativa autonomia della decisione politica, sulla responsabilità territoriale dei diversi attori sociali e politici, sulla possibilità di localizzarne i conflitti e di regolarne le forme - che cade. E trascina con sé nella crisi il proprio primogenito legittimo, la «sinistra» appunto, colpendo mortalmente uno dei cardini della sua esistenza come entità «politica»: il principio di rappresentanza. La possibilità stessa di tradurre le domande e i conflitti sociali in forma politica.
E' questo, oggi, il capo delle tempeste di ogni sinistra: questa difficoltà a tener fede all'imperativo della responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei propri rappresentati, che riproduce su scala allargata l'immagine, reale, della «casta» chiusa. Dell'oligarchia dominante. Del «ceto» mosso più da solidarietà (affinità, complicità...) interne e «orizzontali», che non da un qualche rispetto per i propri elettori a cui chiedono una legittimazione tradita.
Ho detto «difficoltà» a tener fede, e avrei anche potuto chiamarla «impossibilità», e non «cattiva volontà» o «indisponibilità», per sottolineare il carattere in buona misura «obbligato» della patologia. Il suo stare nell'ordine (o nel disordine) delle cose, in un contesto dai confini labili, in cui i vincoli di coalizione e delle relazioni trans-nazionali sono feroci, e tagliano spesso le connessioni verticali con la propria gente e i propri territori.
Interlocuzione lobbistica
Non è che i «politici di professione» non ne siano consapevoli. La destra lo sa benissimo, e trova in ciò conferma della propria affermazione totalitaria dell'esistente come unica idea regolatrice, e della propria conclamata «passione per gli interessi». A sinistra, una parte ha evidentemente pensato di far fronte alla crisi sciogliendovisi dentro, e puntando (quasi) tutto sull'interlocuzione lobbistica e sul tentativo di «comprarsi» una parte di sistema economico per ripartire di lì a ridisegnare il profilo del capitalismo italiano (quello che hanno fatto da sempre gli «altri»). Un'altra parte, logorata la rappresentanza, ha giocato le proprie carte sulla rappresentazione di sé come icona simbolica di un'identità altrove introvabile. Ma sono state, entrambe, risposte di corto respiro: l'una destinata a incagliarsi nell'intrico delle cordate e nelle loro implicazioni giudiziarie. L'altra a inabissarsi sulle piazze.
Un pensiero piccolo di fronte a eventi grandi - «epocali» suggerisce qualcuno -, è rovinoso. E credo che sia proprio dal pensiero, dall'elaborazione di un linguaggio e di una rete di categorie capaci di reinterpretare il presente, che si dovrebbe ripartire, se non si vuole che anche l'ultima chance offertaci oggi, la costruzione di un'ampia area politica, sociale e culturale non conciliata con l'esistente ma capace di pesarvi e dire la propria, si disfi nelle mani di chi vi lavora, prima ancora di vedere la luce.

Liberazione 16.6.07
Intervista al capogruppo della Sinistra democratica al Senato: «La delusione attorno al governo riguarda tante scelte: da quella del segreto su Omar al Dal Molin, fino alla tragica verità sul G8»
Salvi: «De Gennaro si dimetta. Ma Prodi non ha nulla da dire?»
di Stefano Bocconetti


Si parte da un dato. «Certificato» dal voto amministrativo e da mille altri «segnali»: la delusione, la forte delusione per questo governo. Che molti spiegano per le scelte - o non scelte - di politica economica e sociale. «E io credo che sia importante aver recuperato l'unità d'azione fra tutti i gruppi parlamentari della sinistra per provare a modificare l'impostazione monetarista di Padoa Schioppa». C'è tutto questo, certo. Ma Cesare Salvi, capogruppo della Sinistra democratica a Palazzo Madama, dice di più: «La delusione si spiega anche con tante altre scelte cose. Che rivelano arroganza, miopia, disinteresse per le richieste del "nostro popolo". E stai attento: sto parlando di richieste che non costano neanche una lira. Che insomma non andrebbero a sbattere con quei vincoli di bilancio tanto cari a Padoa Schioppa».
A cosa ti riferisci esattamente?
L'elenco sarebbe lunghissimo.
Vediamo solo i titoli.
Da dove cominciamo? Per esempio dalla vicenda del sequestro di Abu Omar e dalla decisione del governo di confermare il segreto di stato. Scelta che si è accompagnata con pesanti attacchi alla Procura di Milano. Scelta che viene contestata dai liberali svizzeri, non da Chavez. Liberali svizzeri.
E poi?
La vicenda di Hanefi. Il nostro paese dovrebbe, in teoria, ospitare una conferenza internazionale sulla giustizia in Afghanistan. Mentre a Kabul marcisce nelle carceri il rappresentante di Emergency, senza che sia stata formulata contro di lui neanche un'accusa. Possibile che il nostro governo non abbia nulla da dire? Di più: la vicenda del Dal Molin. Proprio qui, in Senato, s'è votato un documento che impegnava l'esecutivo ad una conferenza sulle servitù militari, che impegnava l'esecutivo a cercare le vie del dialogo con le comunità locali. Come sia andata, lo sanno tutti: un generale, a nome di un ambasciatore, ha comunicato che la base si farà. Comunque. Io credo che neanche in paesi vassalli degli Stati Uniti, come potrebbero oggi essere la Bulgaria o la Romania si sarebbe accettata una simile violazione della propria autonomia. Non basta? C'è il caso di Pio Pompa, lo «spione» che cercava di incastrare tutti i leader politici. Che è ancora seduto, magari due uffici più in là di quelli del ministro Parisi. E poi, c'è il G8.
La macelleria messicana.
Esatto. Quel che è emerso è esattamente quel che tanti avevano denunciato a Genova. E sono fatti gravissimi, drammaticamente gravi. E allora quello che si chiede è davvero poco. Neanche la commissione d'inchiesta - che pure, ricordiamolo faceva parte del programma dell'Unione, col quale si sono vinte le elezioni - ma possibile che nessuno nel governo abbia nulla da dire? Possibile che nessun ministro possa fare nulla?
Fare cosa? Allontanare il capo della polizia, De Gennaro?
Io credo che sarebbe un atto di sensibilità da parte di De Gennaro quello di dimettersi, di lasciare l'incarico. Almeno fino a che i fatti non siano stati chiariti. Ma Amato, e lo stesso Prodi possibile che non riescano a tirar fuori neanche una parola? Possibile che non ci sia la possibilità di un'inchiesta amministrativa? Perché non si può delegare tutto alla magistratura. Troppo comodo. C'è un "piano politico" che non può essere ignorato. Lì, alla Diaz, la democrazia è stata sospesa, violata. Possibile che l'esecutivo non possa dire una parola su questo? Possibile che non possa fare nulla?
Ma secondo te, perchè accade tutto questo?
Perché nel governo c'è tanta sottovalutazione su quanto siano rilevanti queste questioni. Su quanto siano importanti "atti politici" per ripristinare le regole democratiche. Che valgono, che devono valere per tutti. Sì, nel governo, c'è molta sottovalutazione di quanto alcune scelte pesino, siano considerate rilevanti anche dal nostro elettorato. Sottovalutazione unita ad uno scarso peso che ha la sinistra nello schieramento. Che ha avuto.
Perché usi il passato? Non è più così?
Nel coordinamento dei gruppi parlamentari s'è deciso che ci si occuperà anche di questi temi. Ci batteremo per quella che è stata giustamente chiamata la "redistribuzione sociale" delle risorse. Ma ci batteremo anche su questi temi. Su questi punti. Proveremo a svincolarci.
"Svincolarci". Che vuol dire?
Far vedere che la sinistra ha una sua elaborazione autonoma, è in grado di produrre proprie richieste.
Richieste che arriveranno fino a dove?
Immagino che tu voglia sapere qualcosa sulle sorti del governo. E ti rispondo che il governo rischia solo se non fa nulla. Certo, tutti sappiamo che non esistono alternative più avanzate rispetto al governo Prodi. Ma questo non significa che occorra stare fermi, stare a guardare. Non significa che non si debba proporre e dire la nostra su tutto ciò che non va. A Roma e altrove.
Pure qui: con questo "altrove"esattamente che vuoi dire?
Ma, insomma, non sono solo io a vedere quel che accade in tutte le regioni meridionali, guidate da giunte di centrosinistra. In tutte, meno che nella Puglia di Vendola. Ma in Campania, in Calabria, in Basilicata c'è una generale sottovalutazione del fenomeno mafioso. C'è disattenzione se non di peggio.
Di peggio?
Sì, di peggio. Ormai, e il voto amministrativo mi pare l'abbia rivelato esattamente, la gente percepisce come omogenei il centrodestra e il centrosinistra. In molte parti del paese c'è un'omologazione fra i due schieramenti, uniti dalle pratiche di sottogoverno, clientelari. Acquiescenti verso i fenomeni mafiosi.
E' così dappertutto?
No. Infatti sono stati importantissimi i risultati di Taranto e di Gela. Lì, si è dimostrato che quella che chiamano "sinistra radicale", o sinistra d'alternativa può essere davvero il motore di un rinnovamento del Sud. Sì, quelle due città, assieme alla Puglia rivelano che la sinistra, la sinistra vera, può candidarsi ad essere classe dirigente. Ma il resto del centrosinistra - è un dato sul quale tanti dovrebbero riflettere - viene ormai percepito come esattamente uguale all'altro schieramento. Anche qui, o c'è uno "scatto" o non si va da nessuna parte. Col rischio di rimetterci tutti.
E allora?
Io sono convinto che l'"antipolitica" deve trovare una risposta forte soprattutto a sinistra. Una risposta unitaria della sinistra. Una risposta che ovviamente tenga conto di quanto siano rilevanti, drammatiche le condizioni sociali del nostro paese. Che abbia chiaro quanto ci sia bisogno di redistribuire ricchezza. Ma che sappia unire tutto questo ad una battaglia chiamiamola ideale. Sì, la battaglia sociale deve unirsi ad un nuovo "agire politico". Che per esempio faccio diverso questo governo dal suo predecessore.

Repubblica 16.6.07
Germania, la "Sinistra" sfida la Spd
"Die Linke" nasce dall´unione tra la Pds e i seguaci di Lafontaine
Al congresso di Berlino prende corpo la "Cosa rossa" tedesca Ospite d'onore, Fausto Bertinotti
di Andrea Tarquini


BERLINO - Ci sono voluti due anni di trattative, alla fine è arrivata la svolta. Nasce a Berlino la Linke (sinistra), il nuovo partito unito della sinistra radicale. I postcomunisti (o neocomunisti) della Pds dell´Est, guidati da Gregor Gysi e Lothar Bisky, e i dissidenti massimalisti della Wasg che hanno lasciato la Spd con Oskar Lafontaine, si uniscono formalmente oggi in una sola forza politica. È una sfida pericolosa per la Spd, la socialdemocrazia orfana del cancelliere Schroeder e al governo nella Grosse Koalition guidata dalla Cancelliera conservatrice Angela Merkel. Il nuovo partito - la prima forza parlamentare a sinistra della socialdemocrazia dal dopoguerra - stravolge aritmetica ed equilibri, e può cambiare le regole del gioco della governabilità nella prima potenza europea.
È il momento delle emozioni, nel centro congressi dell´hotel Estrel a Sonnenallee, a un passo da dove passava il Muro. Ieri le due anime hanno tenuto i loro congressi di scioglimento, 400 delegati ciascuno. Oggi 800 delegati riuniti delle due formazioni terranno le assise di nascita formale. Sono attesi anche ospiti stranieri, di cui il più alto in rango è il presidente italiano della Camera, Fausto Bertinotti.
Giustizia sociale sopra ogni cosa, no duro al neoliberismo, basta con la partecipazione a operazioni militari che il governo (con mandato Onu, come nei Balcani o in Afghanistan) difende quali missioni di pace. Basta tagli al welfare, dare di più ai perdenti della globalizzazione.
Ecco il credo della Linke. Può catturare molti consensi dei delusi dalla Spd e di chi per protesta vota i neonazisti. Il nuovo partito oggi è molto più forte all´Est, ma appare deciso a prendere piede anche a Ovest. Il primo test, le elezioni a Brema, è stato un successo.
La nuova formazione è pericolosa per la Spd, che nei sondaggi è appena al 27 per cento contro il 38 per cento della Cdu-Csu di Angela Merkel, scriveva ieri il Tagesspiegel. In casa socialdemocratica, avvertiva la Sueddeutsche Zeitung, il nervosismo è palpabile. I sondaggi danno la Linke tra il 9 e il 10 per cento. Il che potrebbe significare che in Germania o governerà una Grosse Koalition, o coalizioni di minimo tre partiti. Perché i liberali o i verdi, da soli, potrebbero non bastare più a sostenere i due partiti di massa.
Diciotto anni dopo la caduta del Muro, Oskar e Gregor, l´infaticabile duo ribelle di Berlino, sdoganano dunque i sogni di ieri per reinventare la sinistra radicale e sfidare l´establishment del Centro.

Parla Oskar Lafontaine, guida dei dissidenti socialdemocratici:
"Siamo l'alternativa ai delusi da Schroeder"

BERLINO - Oskar Lafontaine, il nuovo partito è una sfida alla Spd?
«Sì. Perché la Spd ha abbandonato i suoi valori e i suoi principi, perde elettori e iscritti, non ha una strategia per uscire dalla sua crisi».
Però è al governo con la Cdu di Angela Merkel. Non è un vantaggio?
«Anche nella Grosse Koalition la Spd è per l´aumento dell´iva, una politica di taglio al welfare e partecipazione a guerre contrarie al diritto internazionale».
La Linke può creare nuove formule di governo?
«A livello locale si parla. A livello nazionale la Spd rifiuta ogni collaborazione con noi. Così continueranno a perdere seguito, e forse la situazione cambierà».
I vostri avversari vi accusano di minacciare la governabilità. Cosa risponde?
«È la Grosse Koalition ad aver danneggiato la democrazia. Tre quarti del Bundestag governano contro l´opinione della maggioranza della gente. In alcune elezioni va a votare meno della metà. Noi rendiamo la democrazia più stabile. Anche perché creiamo per il voto di protesta un´alternativa a votare per l´ultradestra».
Cioè volete contendere elettori ai neonazisti?
«Chi è deluso dal governo ha con noi un´alternativa democratica, non più solo la scelta letale di sfogare la rabbia votando per i neonazisti».
Volete essere solo voce di protesta o anche a disposizione per coalizioni?
«Vogliamo cambiare la politica. Se sarà possibile solo all´opposizione, resteremo all´opposizione. Se altri partiti cambieranno linea sui grandi temi della giustizia sociale e del no alla guerra, potranno diventare partner».
La sinistra in Europa attraversa un momento difficile. Dalla Spd, al Ps francese, al Labour. Come può rilanciarsi?
«Deve battersi in modo credibile per valori socialdemocratici e per la pace. Blair era popolare finché ha fatto politica sociale. Con la guerra in Iraq si è giocato tutto. Zapatero al contrario ha mantenuto la promessa: ritiro subito dall´Iraq. E ha svecchiato le strutture della società spagnola».
La Francia non le sembra una crisi quasi senza appello della sinistra?
«In Francia la sinistra ha un compito ancora più difficile. Il gollismo è statalista, ha un´anima sociale. Sarkozy vuole una politica fiscale reazionaria, ma anche controlli democratici sulla Banca centrale europea, e dialogo con i sindacati. La sinistra non ha saputo darsi un profilo e programmi più convincenti».
E in Italia?
«In Italia il centrosinistra avrà l´appoggio della gente solo se la convincerà di fare una politica migliore del centrodestra».
Quale rapporto auspica con il movimento no global?
«È molto importante. Noi al G8 siamo stati il solo partito dalla parte dei no global non violenti in piazza».
Come vi schierate sulla Costituzione europea?
«Abbiamo appoggiato il no al referendum in Francia. La Costituzione non può essere imposta sopra le teste dei popoli».
(a.t.)

Gysi, il leader che avviò la trasformazione del partito comunista
"Il disagio dell'Est è ancora una realtà"

BERLINO - Gregor Gysi, il nuovo partito non è troppo un matrimonio tra due anime?
«C´è un momento logico e un momento casuale. All´Ovest nel dopoguerra purtroppo non si manifestò mai il bisogno di un movimento democratico, parlamentare, alla sinistra della Spd. E d´altra parte la mia strategia, di radicare all´Ovest il mio partito riformato dell´est non è riuscita. La Storia tedesca è diversa. La divisione ha creato all´Ovest che riciclava ex nazisti un anticomunismo militante che il regime sbagliato della Ddr, col Muro e altro, ha alimentato».
Perché dovrebbe avere successo il nuovo partito?
«Perché la globalizzazione ha posto in forse lo Stato sociale, i valori per cui la gente votava socialdemocrazia».
Quanto devono restare diverse le due anime?
«Dobbiamo cercare di essere veramente un partito unito. Non so quanto abbiamo bisogno di differenze, le differenze esistono. Dobbiamo imparare a convivervi: biografie dell´Est e dell´Ovest. Per me è importante evitare l´errore di trascurare improvvisamente l´identità tedesco-orientale. Intanto però i nostri elettori si sentono più legittimati».
Quanto pesa il passato, per le due anime del nuovo partito?
«Abbiamo riflettuto sulla Storia più degli altri: Cdu e liberali hanno assorbito acriticamente Cdu e liberali dell´Est, ex partiti fiancheggiatori nella Ddr. Le due anime hanno storie diverse, impareremo a fare i conti. La Storia della sinistra è sempre complicata. L´ingiustizia della Storia è che la sinistra democratica non ha capito di aver incassato anche lei una sconfitta con la sconfitta della sinistra dogmatica dopo l´89. La vita non è sempre giusta. Due conclusioni: vogliamo solo un socialismo democratico, mai autoritario, ma crediamo nel socialismo. Riteniamo che il capitalismo non abbia risposte adeguate alle grandi sfide dell´umanità».
In Europa la sinistra se la passa male.
«Ma in America latina si sta rafforzando. Dal Cile al Brasile, dall´Uruguay al Venezuela. sinistre moderate o radicali sono protagoniste del momento. Ecco il segnale: la nuova sinistra viene dall´America latina, non dall´Europa. Evitiamo arroganze eurocentriche. Essere a sinistra non vuol dire avere sempre la maggioranza nella società, ma essere riconoscibili, avere un´identità».
Ma tra democratici come Michelle Bachelet e Lula, e l´autoritario Chavez dall´altro, c´è una bella differenza, non le pare?
«A Caracas ci sono stati tentativi illegali di rovesciare il presidente, a Brasilia no. Ci sono sinistre moderate e radicali. Ma la gente non vuol più vivere in miseria. L´importante è che la sinistra latinoamericana eviti l´errore dello statalismo del nostro vecchio est: un´economia di mercato funzionante serve, le panetterie di Stato impoveriscono tutti. E ogni potere politico va sottoposto a controlli democratici».
(a.t.)

il manifesto 16.6.07
Germania. La Linke rifonda la socialdemocrazia
Nuovo partito Nasce oggi a Berlino la seconda gamba della Sinistra europea. Tra sindacato e no global
di Guido Ambrosino

Nasce oggi un nuovo partito, die Linke (la sinistra), dalla fusione tra Linkspartei.Pds - il partito socialista radicato nelle ragioni dell'est - e la Wasg, raggruppamento di sindacalisti e socialdemocratici delusi, formatosi a ovest attorno all'ex presidente della Spd Oskar Lafontaine. Si tratta ora di ratificare, con l'elezione di organismi dirigenti comuni, un processo avviato da tempo.
Già alle politiche del 2005 i candidati della Wasg si presentarono nelle liste della Linkspartei. Al Bundestag, sin dall'inizio della legislatura, opera un gruppo parlamentare comune, presieduto in tandem da Gregor Gysi e Oskar Lafontaine. Gli iscritti, con schiaccianti maggioranze, hanno approvato la fusione in un referendum.
Ieri, all'hotel Estrel di Berlino, i delegati della Linkspartei e della Wasg si sono riuniti per l'ultima volta separatamente, per scegliere i candidati da presentare oggi all'assemblea comune. La grande sala, già teatro dei congressi convocati dalla Spd per confermare qualche anno fa la svolta neoliberista di Schröder, era divisa in due da una parete mobile. Nel settore della Linkspartei molti delegati dai capelli bianchi, ma anche molte donne e giovani. In quello della Wasg prevaleva il sale e pepe di maschi cinquantenni, sindacalisti frustrati da decenni di rapporti privilegiati con la Spd.
A parte la diversa distribuzione per fasce d'età, non è più possibile distinguere a prima vista tra Ossis e Wessis, orientali e occidentali. Ancora dieci anni fa nel guardaroba dei socialisti dell'est sopravvivevano giubbotti di popeline grigiolini, camicie di fibre sintetiche, pantaloni dalla piega rigida. Ormai, a dispetto delle discrepanze nei livelli salariali e nei tassi di disoccupazione, doppi nelle regioni orientali, gli stili di vista si sono avvicinati.
Il lino ha preso il posto del terital. E nell'una come nell'altra mezza sala i discorsi sulla contraddizione capitale-lavoro, vista ancora una generazione fa come «principale», si alternano, senza unilaterali gerarchie di valori, a interventi sui diritti civili, sull'ambiente o sulla questione femminile, sulla pace o sul clima. Semmai, da questo punto di vista, i «tradizionalisti» sembrano più numerosi nelle fila della Wasg. La Pds, uscita 17 anni fa dalla catastrofe del partito di regime della Rdt, ha imparato ad apprezzare l'arcobaleno dei «movimenti». Nelle manifestazioni anti-G8 a Rostock i suoi giovani si muovevano perfettamente a proprio agio nel mainstream antiautoritario dei «globalcritici».
Willy Brandt, alla vigilia della riunificazione tedesca, diceva che doveva «crescere insieme» quel che c'era in comune dall'una e dall'altra parte. C'è voluto tempo per ritrovarsi. Ora, a sinistra della Spd, il lungo processo di avvicinamento sembra compiuto. Lo ha accelerato la svolta a destra impressa dal cancelliere Schröder alla Spd all'inizio del millennio. Oskar Lafontaine, che aveva portato la Spd alla vittoria nel 1998, e era ministro delle finanze nel primo governo Schröder, si scontrò subito col cancelliere sul fisco e abbandonò le cariche di partito e di governo. Ma non ha più resistito sull'Aventino quando Schröder è passato a realizzare i tagli allo stato sociale, escogitati dal compare Peter Hartz (ex direttore del personale della Volkswagen, nel frattempo condannato per distrazione di fondi e corruzione a «luci rosse» dei rappresentanti sindacali della casa automobilistica); e quando è nato un movimento di protesta appoggiato da pezzi importanti del sindacato.
Da soli i dissidenti socialdemocratici non avrebbero sorpassato la soglia di sbarramento del 5%. Di qui la ricerca di un'alleanza con la Pds, che d'altra parte, da sempre snobbata dagli elettori dell'ovest, cercava innesti autenticamente occidentali. È bastato per un 8,7% alle ultime politiche. E per approdare la prima volta in un parlamento regionale dell'ovest, il maggio scorso a Brema, con l'8,4%. Il fatto che il nuovo partito nasca come reazione alla crisi della Spd lo connota - in modo tutt'altro che innovativo - come un progetto di rifondazione socialdemocratica.

l’Unità 16.6.07
Francia, socialisti a caccia dell’ultimo voto
Domani il secondo turno per le legislative. L’Ump vola nei sondaggi, il Ps spera di limitare i danni
di Gianni Marsilli


AH, LE DONNE Per Dominique Strauss Kahn oramai una croce, più che una delizia. Lo scorso novembre gli aveva fatto lo sgambetto la radiosa Ségolène Royal, umiliandolo alle primarie interne al partito socialista. Domani potrebbe fargli le scarpe Sylvie Noachovitch, una bella quarantenne slanciata, bruna dagli occhi azzurri, avvocatessa di mestiere e per giunta volto televisivo fino al marzo scorso, ospite fissa di una nota trasmissione di TF1. Al primo turno la signora, candidata Ump, ha preso il 37,37% dei voti, 90 più di DSK. I due si disputano il collegio di Sarcelles, nella banlieue parigina. La riserva di voti di DSK è in teoria più importante di quella della sua rivale, ragion per cui il leader socialdemocratico ostenta olimpica calma, anche se definisce «ipotetico» l’indice di gradimento di Sylvie tra le classi popolari di quella periferia. Ipotetico, non valutabile, però possibile. Certo che per lui, perdere proprio nel comune di cui è stato sindaco, sarebbe uno smacco. Per questo DSK fa una campagna meno spettacolare ma più meticolosa. Dice che va a pescare gli astensionisti «uno per uno» per riportarli all’ovile.
Più a sud, a Chalon-sur-Saône, un altro tenore socialista vive una difficile vigilia elettorale. Si tratta del vulcanico Arnaud de Montebourg, giovane «innovatore» del partito e portavoce di Ségolène durante la campagna presidenziale (tranne che per il mese di marzo, quando fu sospeso per aver sparato in tv che «l’unico difetto di Ségolène è il suo compagno», ovvero François Hollande). Si gioca il ballottaggio con un aitante 35enne biondo dagli occhi di ghiaccio, che fino ad un paio di anni fa di mestiere faceva lo 007. È stato agente segreto nei Balcani, in Bosnia in particolare. Evoca volentieri le bombe su Sarajevo, ma si confonde con le date. Ma che importa, con un simile esotico bagaglio e con la sua giovanile energia il James Bond Arnaud Danjean ha preso il 43,9 dei voti domenica scorsa, 2 punti in più del povero Montebourg. Al quale domani non resta che incrociare le dita, dopo essersi sgolato tutta la settimana: «Andate e votate! Dopo sarà troppo tardi!».
Periclitante anche la posizione di Vincent Peillon, l’altro «innovatore» di fede royalista, più a nord, nella Somme. E non dormono tra due guanciali neanche Jean Jack Queyranne, presidente socialista della regione Rodano-Alpi, né Jean Louis Bianco, ambedue nomi noti dai tempi di Mitterrand, resuscitati dalla ventata presidenziale di Ségolène. Lei è stata come una trottola. Per aiutare gli uni e gli altri ha preso treni, aerei, per essere a nord la mattina, a Parigi il pomeriggio e la sera in Savoia. Ségolène avrebbe potuto anche risparmiarsi tutti questi viaggi: lei non è candidata, avendo optato per la presidenza della sua regione, il Poitou-Charente. Ma vuole diventare la numero 1 del partito, e alle legislative non poteva certo rimanere alla finestra.
L’ultimo sondaggio conferma l’ondata blu-Sarkozy: la nuova Assemblea vedrà tra i 380 e i 410 seggi targati Ump su 577. L’isola socialista non dovrebbe tuttavia essere lillipuziana: tra i 125 e i 155 parlamentari. Dominique Strauss Kahn ritiene che il risultato può considerarsi «buono», nelle condizioni date, a partire dai 120 deputati. L’ex ministro dell’Economia la mette giù senza fronzoli: non si tratta certo di vincere, ma di decidere «se Sarkozy potrà fare tutto quello che vorrà», oppure se «dovrà fare attenzione» alle sue scelte di governo. Per il partito socialista si aprirà poi il tanto atteso chiarimento interno, che molti temono sanguinoso. Ognuno si prepara a modo suo. Ségolène puntando in alto, Strauss Kahn verso il centro, Hollande inarcando la schiena per non essere disarcionato, Fabius continuando a guardare a sinistra, per quanto più distrattamente, Jean Luc Melenchon andando ad abbeverarsi oltre Reno, al congresso di Die Linke, il nuovo partito della sinistra tedesca che considera «un esempio». E ammette: «La questione del divorzio dal Ps comincia ad essere posta».

Corriere della Sera 16.6.07
Prodi e la strada in salita per il Pd
Se il partito nasce vecchio
di Giovanni Sartori


Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo?
Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare.
La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti », con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone.
La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani. Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista.
Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita.

Corriere della Sera 16.6.07
Arte & Politica. Il critico francese lancia una provocazione. Paola Dècina Lombardi raccoglie le tesi contrarie
Surrealisti e terroristi
Jean Clair: «Breton e Aragon padri teorici dell'11 settembre Volevano cancellare gli Usa»
di Pierluigi Panza


Tra i mandanti che l'11 settembre 2001 avrebbero armato la mente (non la mano) di Mohamed Atta ci sarebbero André Breton, Louis Aragon e i surrealisti. Naturalmente erano morti anni prima dell'attentato alle Torri gemelle, ma sarebbero stati anche loro, secondo il critico d'arte Jean Clair, i «cattivi maestri » degli autori della strage.
Questa tesi, espressa in Francia dall'ex direttore del Musée Picasso, Jean Clair, rimbalza ora in Italia con la pubblicazione di due libri: Processo al Surrealismo (Fazi, pp.220, e 19.5 composto da due saggi, Del Surrealismo considerato in rapporto al totalitarismo e allo spiritismo di Clair e L'onore dei funamboli di Régis Debray che ne è la risposta) e la nuova edizione (con un capitolo aggiuntivo di risposta alla tesi di Clair) di Surrealismo 1919-1969 di Paola Dècina Lombardi (Mondadori).
Il caso è aperto e il dibattimento è così articolato: Jean Clair processa i surrealisti e Paola Dècina Lombardi processa Clair, elencando la lunga scia di biasimo che la sua tesi ha raccolto in Francia per mano di Debray, Michel Butor, François Furet e Yves Bonnefoy...
La vicenda prende avvio il 22 novembre del 2002 quando, su Le Monde, Clair pubblica un articolo intitolato Le surréalisme et la démoralisation de l'Occident. La sua accusa è che «l'ideologia surrealista aveva seguitato a desiderare la morte di un'America considerata materialista e sterile e il trionfo di un Oriente depositario dei valori dello spirito» e che l'intellighenzia francese «si è spinta molto presto e molto lontano nel prefigurare ciò che è avvenuto l'11 settembre». Il Surrealismo, ed estensivamente le Avanguardie artistiche, avrebbero contribuito ad abbassare la fiducia in se stesso dell'Occidente.
Queste considerazioni muovono da alcune fonti. Intanto dalla interpretazione della «Mappa surrealista del mondo» pubblicata da discepoli di Breton nel 1929 in cui gli Stati Uniti non figurano di fronte a un Afghanistan (Paese dell'oppio e dell'hashish di cui i surrealisti facevano uso) grande quanto l'India. Minuscola anche l'Europa, assenti Francia e Italia; gigantesche Russia, Cina, Messico e le isole del Pacifico. Quindi da un discorso tenuto nel 1925 a Madrid, in cui Aragon afferma: «Avremo ragione di tutto. E come prima cosa distruggeremo questa civiltà a voi cara e in cui siete come i fossili nello scisto. Mondo occidentale sei condannato a morte. Siamo i disfattisti dell'Europa… Risplenda infine l'Oriente, oggetto del vostro terrore». E ancora: «E che i trafficanti di droga si gettino sui nostri Paesi terrorizzati. Che l'America in lontananza crolli dai suoi bianchi grattacieli…». Temi che si ritrovano anche nelle Lettres aux écoles du Bouddha di Antonin Artaud: «La logica dell'Europa schiaccia continuamente l'intelletto… Come voi, noi rifiutiamo il progresso: venite, buttate giù le nostre case». Per non accennare, infine, alle illustrazioni in vesti orientali della veggente Madame Sacco in Nadja, ove si raccontano le giornate di rivolta a Parigi contro la condanna degli Stati Uniti a Sacco e Vanzetti.
Anche il modello di organizzazione dei gruppi surrealisti ricorderebbe, per Clair, quello del terrorismo radicale. Avevano le «caratteristiche di una società occulta che, come l'ha definita Hannah Arendt, regola la vita dei suoi membri «in base a una concezione segreta» dove si «esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo… attorniato da un gruppetto di iniziati… contro il mondo ostile». Crepuscolo della Ragione, antisemitismo André Breton Veggente di «Nadja» e spiritualismo completerebbero l'avvio del «debosciamento» occidentale di marca surrealista.
Queste tesi sono state raccolte da Clair in Le surréalisme entre tables tournantes et totalitarisme dove si spinge a delineare una «genealogia della violenza» fondata sulla matrice surrealismo-totalitarismo nella quale entrano, come anelli di trasmissione, i maître-à-penser situazionisti e del '68 e dintorni: Gilles Deleuze, Félix Guattari, Guy Debord, Michel Foucault e Jean Baudrillard. Sono coloro, secondo questa interpretazione, che hanno continuato l'opera di «debosciamento» dell'Occidente preparando l'avvento del sogno surrealista concretizzatosi anche nell'11 settembre. Per la Dècina Lombardi si tratta «di accostamenti mistificatori, arbitrari, e insomma ignoranza e malafede, di logica istrionica» come mostrato anche da Régis Debray in L'honneur des funamboles. E per questo aggiunge un capitolo alla ristampa del suo libro dove sono raccolte le valutazioni contrarie all'interpretazione di Clair.
Intanto la Dècina Lombardi ricorda che molti surrealisti furono ebrei (tra i quali la moglie di Breton, Simone Kahn), che proprio i surrealisti «denunciarono i pogrom e il terrore in Germania» nel 1933 e i processi a Mosca nel '36. Quindi raccoglie valutazioni anti Clair. «Mettere in relazione l'11 settembre con lo spirito di rivolta di Breton e del surrealismo è stupido — afferma Michel Butor —, non ha niente a che vedere» specie associandolo arbitrariamente ai costumi licenziosi, a una cultura giovanile degradata e al terrorismo. Per Yves Bonnefoy «accostare il surrealismo al totalitarismo o all'11 settembre è un'assurdità ». Debray ironizza parlando di «stregonerie logiche» sottolineando che quelli dei surrealisti erano paradigmi teorici e la loro violenza più mediatica che effettiva. Anziché di una compromissione con i totalitarismi, per François Furet il surrealismo si pone in una dimensione opposta: è stato «l'anatema antiborghese più violento che mai, libero però da ogni utilizzazione politica, emancipato persino dalle forme canoniche» e Breton ha esercitato un «magistero morale». Peraltro, aggiunge la Dècina Lombardi, il rapporto dei surrealisti con l'azione politica militante è sempre restato subordinato all'esperienza artistica. Anche in Breton, nonostante le sue passioni rivoluzionarie per il Fronte popolare e per Trotzkij, la politica «resta un amore infelice».
L'autorità degli oppositori sembrerebbe far pendere il verdetto contro Jean Clair e salvare dei surrealisti la «volontà di rottura» e l'idea che l'automatismo psichico — come ha scritto Giovanni Raboni— «sia sempre stato e sempre sarà una delle principali fonti e modalità della creazione artistica». Ma a suggello delle tesi di Clair vale la pena ricordare lo spiazzante commento del compositore Karlheinz Stockhausen dopo gli attentati dell'11 settembre: «Questa è l'opera d'arte più grande mai esistita».

«Processo al Surrealismo» (Fazi, pp.220, e 19.5) raccoglie: «Del Surrealismo» di Jean Clair e «L'onore dei funamboli» di Régis Débray
La nuova edizione di «Surrealismo 1919-1969» di Paola Dècina Lombardi (Mondadori, pp. 652 e 19) ha un capitolo aggiuntivo contro la tesi di Clair


Liberazione 16.6.07
Oggi al Palfiera di Roma nasce la Se. Intervista a Danielle Mazzonis
«La sinistra europea? Sogno e scommessa»
di Frida Nacinovich


In viaggio hanno incontrato movimenti, associazioni, reti, politici, intellettuali, professionisti, studenti. Donne e uomini di una sinistra in movimento che guarda all’Europa e oggi si ritrova a Roma. Danielle Mazzonis, sottosegretaria alla cultura, ha percorso metro per metro il tragitto che porta alla Sinistra europea. Lei e la Libera associazione sono una delle mille famiglie di una grande comunità.
Partiamo dall’inizio. Quando è nata la Libera associazione?
Quando Fausto Bertinotti ha lanciato l’idea della Sinistra Europea, mi sono appassionata, ci ho creduto. La nostra rete è nata subito, appena la Se si è aperta anche ai non iscritti ai partiti. Singoli individui (professori, professionisti, simpatizzanti) si sono ritrovati in piccoli gruppi che poi hanno iniziato a moltiplicarsi. Alla riunione di oggi eravamo in 160, arrivati da quindici territori diversi.
Allora il cantiere della sinistra italiana ancora non c’era. Esistevano invece i Ds che oggi non ci sono più. Ha ancora senso la Sinistra europea?
In tutti questi mesi abbiamo lavorato con persone di Aprile, dell’Arci, Legambiente, anche iscritti Ds. La nostra associazione è sempre stata un cantiere aperto.
Oggi si discute di soggetto unitario e di partito unico della sinistra.
Servirà uno sforzo da parte di tutti per non snaturare questa struttura complessa e multiforme, per lasciare ad ogni gruppo la possibilità di continuare a lavorare nei territori come già sta facendo. Oggi si parla anche di fusione o di unità di azione della sinistra. Penso che ci sia bisogno di unità di azione. Certo, occorrono forme di organizzazione per riuscire a collaborare, ma ognuno deve continuare ad elaborare proposte, portare idee. Dobbiamo rispondere a un sogno, rifondare, ripensare la sinistra. Bisogna colmare il vuoto che si è creato fra cittadini e istituzioni. La sinistra europea nasce dal basso, nei territori. Abbiamo fatto le case della sinistra con Rifondazione, adesso anche con i Ds e gli ex Ds della Sinistra democratica. Luoghi di incontro che aiutano la politica a confrontarsi con le persone. Sempre oggi, anzi ieri, è nato il Partito democratico.
La Sinistra europea e il Partito democratico in comune non hanno niente. Qui non ci sono leader, non esistono capi. Un modi di fare politica che è anche un invito alla partecipazione, al confronto.
C’è chi dice che la Sinistra europea rappresenta il punto di arrivo e il superamento di Rifondazione...
Io non credo che sia un superamento naturale di Rifondazione. Casomai sarà Rifondazione a decidere come vuol far crescere questa sua “costola”. Penso che il Prc e la Sinistra europea lavoreranno insieme per un processo comune.