martedì 19 giugno 2007

l'Unità 19.6.07
La «Cosa rossa» unita c’è già
I partiti della sinistra «radicale» sono già d’accordo: su pensioni, alta velocità, base Usa di Vicenza
di Eduardo Di Blasi


Sono in sintonia le risposte dei capigruppo dei quattro partiti che si richiamano al comunismo, al socialismo, all’ambientalismo


UN’UNITÀ DI AZIONE ancora non esiste, un partito unico è di là da venire, semmai verrà. Eppure la galassia di quella che viene definita «sinistra radicale» ha iniziato da tempo a muoversi coerentemente: Prc, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica sanno che sul
Dpef si giocano, forse anche più di altri, una parte delle proprie ambizioni politiche. Così come sanno che il legame costruito con elettori e movimenti può e deve essere rinsaldato, attraverso una politica «di sinistra» e anche visibile.
Marcando o meno la propria connotazione ideologica, i capigruppo dei 4 partiti politici spiegano all’Unità come intendano comportarsi su tre questioni concrete che l’esecutivo si troverà a discutere nei prossimi mesi: le pensioni, l’alta velocità ferroviaria Torino-Lione e la base americana di Vicenza. Le risposte, in larga parte, coincidono.
Sul tema delle pensioni, spiega il capogruppo di Rifondazione al Senato Giovanni Russo Spena, il suo partito ha chiesto «l’abbattimento dello scalone, agendo solamente sugli incentivi e non sui disincentivi, l’aumento intorno agli 80-90 euro per le pensioni basse, non solamente le minime». E di affrontate «il problema dei giovani: i buchi contributivi vanno coperti di modo che si possa arrivare a una pensione che superi i 700 euro mensili». Nella difesa delle pensioni di anzianità i quattro gruppi si muovono assieme, o quasi. Se Manuela Palermi, del Pdci, ritiene che «il fondo dei lavoratori dipendenti dell’Inps è in attivo e non si capisce per quale ragione per pagare il fondo dei dirigenti che fa acqua da tutte le parti dobbiamo penalizzare i lavoratori dipendenti», Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi alla Camera, pensa che si debba lavorare sugli ammortizzatori sociali, dando «una risposta a quei giovani precari a cui hanno tolto il futuro». Dove trovare i soldi per la copertura? Cesare Salvi, che tra poco darà alle stampe con il collega Villone un secondo libro sui costi della politica, non ha dubbi: «Tagliando alla politica. Abbiamo presentato un progetto a Padoa Schioppa. Aspettiamo risposte». Tutti d’accordo anche sul nuovo corso inaugurato in Val di Susa. «Il metodo - spiega Bonelli - potrà essere applicato a tutte le grandi opere». Infine Vicenza. Ferma restando l’indignazione per aver appreso dall’ambasciatore Spogli la data di inizio lavori, Prc, Verdi, Pdci e Sd presenteranno a Palazzo Madama un’interrogazione urgente a Prodi e D’Alema. Ma non solo. Russo Spena ricorda come nel programma dell’Unione sia prevista una «conferenza nazionale sulle servitù militari». Senza di questa (che il senatore ritiene si possa organizzare entro l’autunno), a Vicenza «non possono» iniziare i lavori. «Siamo disposti anche a impegnare i gruppi parlamentari in azioni di disobbedienza civile nonviolenta».

Liberazione 19.6.07
L'assembla costituente, domenica, ha varato la nuova associazione politica (S.E.). L'intervento del Presidente Fausto Bertinotti riapre la discussione sulle prospettive. Come si costruisce un nuovo soggetto di sinistra? Quando? In che forme? Con che idee? Con chi?
Sinistra europea affronta il futuro Ora si va oltre Rifondazione?
di Angela Mauro


Sinistra europea in Italia
Il Prc lancia la sua sfida per un futuro di alternativa
Concluso domenica il congresso fondativo al Palafiera con associazioni, reti, movimenti
Attesa per l'intervento di Bertinotti. E il dibattito prosegue su: lavoro, Medio Oriente, femminismo

«Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua». Basta con gli indugi e le reticenze. Fausto Bertinotti arriva all'assemblea che dà alla luce la sezione italiana della Sinistra Europea carico di quanto ha vissuto il giorno prima a Berlino: la nascita della Die Linke, fusione tra la Pds (forte soprattutto a est) e la sinistra socialdemocratica della Wasg (Lafontaine). Il presidente della Sinistra Europea (incarico che lascerà al prossimo congresso a ottobre) la porta ad esempio: è la dimostrazione di come si può «cogliere un'opportunità da una congiuntura politica». E allora: la crisi della politica c'è anche in Italia, la sinistra è «a rischio», si abbia dunque il coraggio di «iniziare» per lavorare ad una «forza nuova senza muri nè sbarramenti». Bertinotti benedice la sezione italiana della Sinistra Europea, «preziosa esperienza dalla quale abbiamo imparato a non giudicare», ma ora deve essere una «porta» che guardi nella prospettiva del «socialismo del XXI secolo» e vada oltre. Anche oltre Rifondazione? Il ragionamento di Bertinotti non mostra timori in questo senso. E la questione diventa argomento di dibattito, nella stessa assemblea della Sinistra Europea e nelle interviste che Liberazione pubblica oggi.
Partiamo dal discorso di Bertinotti. Nel rispetto del suo ruolo istituzionale, il presidente della Camera non parla «nè di governo, nè di partiti». Ma dello stato della sinistra dice molto, comprese le indicazioni sulla prospettiva futura. In Italia e in Europa «è a rischio l'esistenza e il futuro della sinistra», spiega, parlando della «crisi della politica», del «distacco delle masse dalla politica», della «disaffezione, esito dei processi dominanti da un quarto di secolo», vale a dire il capitalismo con la sua pretesa di «cancellare il discrimine tra destra e sinistra per imporre una presunta neutralità dietro la quale c'è il dominio dell'impresa e del mercato». Bertinotti cita Montezemolo («Non è importante sapere di quanti voti è portatore, serve piuttosto cogliere il senso profondo della sua sfida»), parla della crisi della sinistra nel «voto in Francia e in quello del nord Italia», racconta di una sinistra impegnata nella «ricerca di una piccola identità e di una destra forte di una idea di società, cattiva ma forte». Il primo invito: «Interroghiamoci su questo rischio». Si può guardare all'America Latina, con il suo «nuovo patto tra sinistra e popoli». Ma il punto vero è che «per farcela, non bastano i correttivi all'esistente o le logiche identitarie: va delineata una operazione politica grande e alternativa per arginare l'onda della depoliticizzazione».
«Non bastano la criticità, i conflitti, i movimenti perchè c'è il rischio di una americanizzazione della politica in Europa», dice Bertinotti, e a quel punto «i conflitti sono confinati nella marginalità perchè la politica la fanno altri soggetti».
Fine dell'analisi del "dramma", inizio della parte "costruens". Gli elementi di partenza ci sono, continua Bertinotti, primi tra tutti «il rifiuto della guerra e del terrorismo». Adesso più che mai però è «necessario costruire massa critica, cultura politica» perchè «non basta aver ragione: ci vuole una forza in grado di rimotivare una prospettiva, una forza nuova che non si fa solo con la ragione, ma anche con la passione e con i sentimenti». Il presidente della Sinistra Europea cita Leopardi: «Se la ragione diventa passione è possibile la conoscenza» e traccia un ponte immaginario con Gramsci e non solo: «La pensava così anche lui e il pensiero femminista». Insomma, «dovremmo aver imparato la lezione».
Bertinotti ammette che «un processo di costruzione dell'unità non è indolore» e che il tema del rapporto con i movimenti, la questione del governo («Scelta e non obbligo») sono «problemi reali e difficili che si risolvono se vengono affrontati». Ma, avverte, «solo se un soggetto politico a sinistra risulterà forte, ampio, plurale ci sarà la possibilità di riconnettersi ai movimenti e alla società».
Il presidente della Sinistra Europea è chiaro: «Il tema che ci sta di fronte è il socialismo del XXI secolo» e devono lavorarci insieme «comunisti, socialisti, cattolici, le nuove culture in movimento, avendo incontrato il femminismo e l'ecologismo critico». In quanto crogiuolo di realtà diverse, «la Sinistra Europea è una preziosa esperienza» dalla quale, continua Bertinotti, «abbiamo imparato a non giudicare». La Se «può essere una occasione per cambiare: dobbiamo cogliere la sua lezione, non come termine di un cammino, ma come porta da spalancare per la costruzione di una sinistra più ampia». L'affondo: «L'obiettivo di un soggetto plurale e unitario della sinistra in Europa e in Italia non è più rinviabile». C'è una «vasta gamma» di modi per farlo (Bertinotti cita anche il modello Flm, come uno degli esempi possibili), ma l'importante è agire. «La Sinistra Europea - spiega ancora - deve aprirsi al confronto con tutte le sinistre senza muri, nè sbarramenti nè a sinistra, nè nella cultura moderata, per chiedersi insieme se esista un destino comune delle sinistre per quanto diverse in Europa». Bando alle ciance: «Non dobbiamo chiederci prima come andrà a finire, non dobbiamo avere prima un disegno preciso», puntualizza Bertinotti. Il soggetto plurale e unitario della sinistra «sarà quello che ne faranno i partecipanti». L'altro invito, quello centrale: «I tempi non consentono un rinvio, il compito è difficile, ma vi invito a farlo in questa direzione». Perchè ci sono «due esigenze: primo, fare fatti politici nuovi a sinistra che siano visibili e significativi e che incoraggino il popolo di sinistra; secondo, proseguire nella ricerca per la rifondazione della cultura e della prassi per la trasformazione della società capitalistica». La conclusione e il commiato dall'assemblea: «Sapete come farlo, io vi invito soltanto a farlo. Fatelo tutti insieme, uniti. L'ambizione e la difficoltà del compito potranno essere buoni consiglieri per realizzare questa avventura comune». Applausi. Un nugolo di giornalisti, cameramen e compagni lo segue fino all'uscita. I lavori proseguono. Tocca al palestinese Ali Rashid , deputato del Prc, prendere la parola dal palco che, con un manifesto, annuncia la "Sinistra Europea in Italia". L'attenzione si sposta così su uno scenario decisamente più drammatico del nostro: «In Medio Oriente la situazione è triste e senza via d'uscita: 60 anni di conflitto sono tanti», dice Rashid richiamando le «ragioni della non violenza, perchè la violenza danneggia non solo chi la subisce ma anche chi ne fa uso». L'intervento del giornalista palestinese è un accorato appello: «Prego tutti di credere nel dialogo, nel confronto e nel rispetto reciproco anche quando sembrano non esserci le condizioni. Non dobbiamo abbandonare i palestinesi sotto un governo che ha dimostrato di non saper governare e una opposizione che non è democratica». La verità è che «i palestinesi non hanno fatto un passo indietro da quando è morto Arafat», aggiunge ricordando quanto detto prima di lui dalla deputata di Rifondazione Graziella Mascia .
L'assemblea al Palafiera però arriva all'intervento di Bertinotti attraverso le numerose relazioni dei rappresentanti delle realtà della Sinistra Europea in Italia (tra gli altri, Riccardo Petrella del Contratto mondiale per l'acqua, Danielle Mazzonis della Liberassociazione, Domenico Rizzuti della Sinistra Euromediterranea, Jacobo Torres De Leon della Fuerza bolivariana de Trabajadores), nonchè di politici di lungo corso. C'è Achille Occhetto che fa autocritica: «Nell'89 dovevamo uscire dalla crisi del comunismo da sinistra e non da destra, come dice Bertinotti per un socialismo di sinistra e non di destra». Il padre della svolta della Bolognina punta poi il dito contro i suoi ex compagni di partito, accennando al caso Unipol: «Se i partiti invece di stare al di sopra del mercato e dettare le regole fanno corpo con questo o quello in combutta con la destra, andiamo verso un'economia di tipo feudale». Adesso che è padre de "il Cantiere", realtà che tenta un dialogo tra diversi a sinistra, Occhetto invita a «superare gli errori del passato» e a «prendere in mano la bandiera dell'unificazione a sinistra: non si tratta di rifondare il Pci o il Psi, ma di rifondare la sinistra, non una sinistra radicale, ma una sinistra vera nel senso della tradizione del socialismo e democrazia». Più chiaro di così...
Il presidente dell'Ars (Associazione per il Rinnovamento della Sinistra), Aldo Tortorella , scalda gli animi, tanto che la platea protesta quando il moderatore Sergio Bellucci batte sul microfono per segnalargli il tempo (massimo sette minuti per ogni intervento). Reduce storico del gruppo dirigente comunista, Tortorella bacchetta l'ultimo segretario del Pci, ricordando la «frettolosa liquidazione» del patrimonio culturale e storico del partito e ammonendo: «Stavolta non ci basterà ripetere le parole d'ordine della Rivoluzione francese», altra citazione un po'maligna di una delle "svolte" proclamate da Occhetto. Ma, evidentemente, l'intento non è quello di tornare a vecchi duelli, piuttosto di misurarsi con i nuovi orizzonti (diritti e/o mondo del lavoro) e indicare le priorità. Tortorella parte da Marx («Aveva ragione: il capitalismo è una storia incessante di modificazioni») e insiste sull'attenzione agli operai: «Votano Forza Italia e Lega. Non c'è un'adesione automatica degli sfruttati alle idee della sinistra, oggi più che mai». Al termine, è standing ovation. Anche Roberto Musacchio , europarlamentare del Prc-Se, vuole portare con sè, nel cammino a sinistra, quella parte del '900 che è «il lavoro e i movimenti operai». Altra frecciata ai Ds: «Qualcuno pensa che avere una banca amica serva a cambiare la società. Noi non parliamo di banche ma di lavoro». Il riferimento è alla battaglia, in corso al Parlamento Ue, contro la «flexsecurity, idea del lavoro subordinato all'impresa». E Giovanni Alleva , del centro diritti "Pietro Alò", autore di una proposta di legge contro la precarietà, «già firmata da più di cento parlamentari», esorta: «Dobbiamo andare avanti su questa strada. La sinistra si aggrega intorno alla tutela della dignità dei lavoratori».
Ci pensa Lea Melandri , femminista storica, a riportare l'attenzione sulle donne che, nella storia, anche a sinistra, «hanno dovuto adattarsi e spesso sono diventate un duplicato dei maschi». La critica: «Non vedo traccia del pensiero femminista, ho sentito solo dire: "conta molto il femminismo". Le donne non sono disposte ad essere la ciliegina sulla torta della Sinistra Europea». E' anche in questo senso che Elisabetta Piccolotti , coordinatrice nazionale dei Giovani Comunisti, insiste sulla «riforma della politica», condannando quei «meccanismi novecenteschi di chi pensava che un partito dovesse muoversi come un sol uomo, appunto: non una sola donna».
Le note dell'Internazionale accompagnano gli ultimi momenti di una giornata carica di aspettative per il futuro. Appuntamento all'8 luglio per la riunione del "parlamentino" della Sinistra Europea in Italia, ovvero l'assemblea (190 membri) votata dall'assise di domenica insieme al gruppo nazionale di coordinamento (circa 30 persone). Sono entrambi organismi transitori, in vita fino all'anno prossimo, quando si terrà il primo congresso della Sinistra Europea in Italia, assise alla quale parteciperanno anche i rappresentanti delle "reti orizzontali" (territoriali) che via via si formeranno, affiancandosi alle già esistenti reti "verticali" (nazionali).

Liberazione 19.6.07
Walter De Cesaris: il partito unico? Vedremo, lo decide chi ci partecipa
«Nessun funerale, il Prc serve al socialismo del XXI secolo»
di Romina Velchi


«Parlare di socialismo significa porre il problema di come riattualizzare il tema arduo della trasformazione sociale oggi. Con il che l'operazione diventa persino più radicale. E in questo percorso non solo la SE e il Prc non sono un ostacolo, ma anzi sono utili. Opportunistico piegare la prospettiva della SE alle convenienze del dibattito politico interno»

Andare oltre la Sinistra europea? Un'idea da «contestare in breccia». Walter De Cesaris, coordinatore della segreteria del Prc nonché instancabile animatore della SE, con un'espressione bertinottiana nega che questo sia stato il senso del discorso di Bertinotti. «Se piegassimo la prospettiva della SE alle convenienze dell'oggi, al dibattito politico tutto interno alla sinistra italiana, faremmo un'operazione opportunistica».

Che vuoi dire?
Dico che qualcuno pensa che SE sia superata perché adesso c'è la Sinistra democratica, nata nel nome del socialismo europeo. Ma questa è tattica, opportunismo. Come si fa a dare per già morta un'assemblea come quella di sabato e domenica così viva e partecipata? Sarebbe un grosso errore considerare SE come un ostacolo sul cammino verso il soggetto unitario e lo dimostra l'assemblea stessa, alla quale sono intervenuti movimenti, associazioni, singoli.

Ma da più parti il riferimento al socialismo del XXI secolo fatto da Bertinotti viene considerata un'apertura a Mussi.
E' una lettura rozza. Fatta apposta per confondere la scala e la dimensione del problema. Si confondono i piani, si scambiano le parole. Parlare di socialismo significa porre il problema di come riattualizzare il tema arduo della trasformazione sociale, della "rivoluzione" nel XXI secolo. Di come cambiare lo stato di cose presente. In questo senso l'opzione è persino più radicale. Altrimenti, che senso ha citare il socialismo? Anche quello sovietico era detto socialismo e dunque dovremmo dire che Bertinotti vuole l'Urss? Sottolineo che in Germania è Lafontaine che ha lasciato il Pse.

Quindi secondo te c'è ancora posto per il Prc?
Sono gli anni di esperienza maturata che lo dicono. Il processo della rifondazione comunista è utile per scalare il tema dell'alternativa di società nel XXI secolo. Certo non da solo, il Prc in questo non può essere autosufficiente. Non sciogliamo il partito non per orgoglio, ma perché è un processo da sviluppare, da continuare; ripeto: utile alla costruzione del socialismo del XXI secolo. Non lo impedisce, anzi è connesso ad esso. Si vuole fare il funerale al Prc, che invece si dimostra vivo e vegeto, sta con e dentro i movimenti. L'anomalia di Rifondazione non è superabile, è un soggetto politico che rifiuta la scorciatoia del governo opposto ai movimenti o dei movimenti autoreferenziali, identitari. Osservo che il gruppo dirigente del partito è ben determinato sulla strada del soggetto unitario, ma se qualcuno pensa ad altro venga al congresso (ormai siamo vicini) e presenti una sua mozione di superamento del Prc. Vediamo se i compagni sono d'accordo.

Insomma, niente partito unico.
E' come ha detto Bertinotti: le forme possono essere tante e comunque le decidono chi vi partecipa. Magari ci arriveremo domani o fra 5 anni. Non lo so, queste cose non si decidono a tavolino. Siamo d'accordo che dobbiamo muoverci in fretta per la costruzione dell'unità a sinistra, ma non dismettendo o annacquando noi stessi. Per altro nessuno ce lo chiede. Ci confronteremo con gli altri sulle questioni reali, concrete, e sui fondamenti culturali e politici. Bertinotti dice «fatelo». Noi lo stiamo già facendo.

Liberazione 19.6.07
Alfonso Gianni: le europee del 2009 terreno ideale per il partito unico
«Superare Rifondazione, più chiaro di così...»


«La nascita della Linke sarebbe stata impensabile cinque anni fa. Ora ci sono riusciti perché hanno saputo cogliere la marea montante. I tempi sono decisivi, di qui l'appello di Bertinotti: fatelo. Avrei voluto dirgli: già fatto. Invece siamo ancora fermi agli inizi. Non basta più essere d'accordo su questo e su quello. Bisogna saper essere egemoni»

«E' il discorso più chiaro che abbia fatto in vita sua». Non ha dubbi Alfonso Gianni, sottosegretario allo sviluppo economico e uno dei maggiori esponenti del Prc. L'intervento di Bertinotti domenica all'assemblea della Sinistra europea è chiaro nelle premesse, chiaro nell'analisi del momento politico, chiaro nello sbocco cui ambire.

Alfonso Gianni, dunque la SE è appena nata, ma bisogna già andare oltre?
Non c'è dubbio. Certo, Bertinotti ha premesso che, in quanto presidente della Camera, non avrebbe toccato i temi dell'immediatezza politica. Ma ha fatto un'analisi precisa delle condizioni della sinistra europea. E cioè che rischia non solo di non contare nulla ma proprio di sparire senza un vero rinnovamento. E il momento è adesso. La nascita della Linke sarebbe stata impensabile cinque anni fa, eppure adesso ci sono riusciti perché hanno saputo cogliere la marea montante, intercettare la domanda. I tempi, come ha detto Bertinotti, sono decisivi. Di qui l'appello: fatelo. Più chiaro di così. Avrei voluto dirgli: già fatto. Invece siamo ancora fermi agli inizi, anzi all'interpretazione. Eppure siamo ad un punto nel quale occorre dare più forza ai movimenti e contemporaneamente mettere in piedi un soggetto politico unitario, plurale nelle culture che lo animano. Non si può fare solo una delle due cose, non sarebbe sufficiente.

E che fine fa il Prc?
Io credo che il tema non sia più quello della rifondazione comunista, ma quello della rifondazione della sinistra (ovviamente è una mia formula). E' questo il tema del socialismo del XXI secolo. Perciò è ovvio che bisogna superare Rc. Essa è parte del progetto, che però la travalica. Non contro, non senza, ma oltre.

Il che significa partito unico? E quando?
Per me alla prima scadenza politica certa. Cioè le europee del 2009. Quell'appuntamento elettorale è il terreno ideale per sperimentare il partito unico perché si svolge con metodo proporzionale e non c'è il ricatto del voto utile. Nel frattempo ci possono essere passaggi ulteriori. Lo stesso Bertinotti ha detto che le forme organizzative possono essere centomila, «decidete voi come». Ha citato l'esperienza dell'Flm (pur osservando che non ci sono più i consigli di fabbrica), ma ha anche proposto strutture di base sul territorio che si richiamino all'unità. Il tutto rivolgendosi a quelle forze politiche e culturali che non si riconoscono nel Pd. Insomma, non basta la sindacalizzazione delle questioni; non basta dire siamo d'accordo su questo o su quello. Bisogna saper essere egemoni, essere in grado di parlare della società che vogliamo fare. Le assemblee parlamentari vanno bene; l'unità d'azione va bene; va bene dire no alla base di Vicenza e aumentare le pensioni minime. Ma questi sono piccoli passi, da soli non bastano. Dov'è la passione, la capacità di trascinare? Dove sono i grandi temi? Siamo capaci di rielaborare in termini nuovi qual è la discriminante tra destra e sinistra nel XXI secolo?
Ro. Ve.

Liberazione 19.6.07
Graziella Mascia: «Le forme si troveranno strada facendo»
«Un sinistra che deve imparare a reinventarsi»


Graziella Mascia è stata con Bertinotti a Berlino, al congresso della die Linke. L'ha ascoltato anche lì, prima dell'intervento di domenica al Palafiera di Roma.

Il discorso del Presidente della Camera è stato il tentativo di definire un'unità non astratta della sinistra , che sarebbe fine a se stessa, che nascerebbe sconfitta, perdente. Ma delineato la necessità di un'unità che parte da un'analisi severa, impietosa. Che parte dalla necessità della sinistra di reinventarsi, pena la sua scomparsa.

E come ti sono sembrati quei discorsi?
Davvero molto importanti. Un'analisi lucida dei problemi, dei rischi drammatici che abbiamo di fronte. Un'analisi lucida e un'indicazione esplicita: quando ha sollecitato, quando ha messo "fretta" nella costruzione di una nuova soggettività unitaria della sinistra. "Fretta" per superare titubanze, preoccupazioni. Che certo mi sembrano legittime ma possono diventare un rischio. Che potrebbero farci perdere un appuntamento importante.

Scusa la franchezza: ma le titubanze, le perplessità a cui alludi si trovano anche dentro le fila di Rifondazione?
Ti rispondo di no, se lo chiedi a me. Ma ti rispondo lo stesso di no se mi chiedi di "interpretare", diciamo così, le parole di Bertinotti. Credo che lui si rivolgesse a tutti. Con la sua autorevolezza credo che davvero volesse parlare all'intera sinistra.

Tanti osservatori hanno però notato il contrario. Hanno detto, e scritto, che forse i destinatari di quell'invito a "buttarsi in mare aperto" siano proprio dentro Rifondazione.
Mi sembra riduttivo, non è così. A me pare invece che la parte più importante del discorso del Presidente della Camera sia stato il tentativo di definire non un'unità astratta della sinistra. Che sarebbe fine a se stessa, che nascerebbe sconfitta, perdente. Lui, invece, ha delineato la necessità di un'unità che parte da un'analisi severa, impietosa. Che parte dalla necessità della sinistra di reinventarsi, pena la sua scomparsa.

Comunque sia, ha chiesto di acellerare il processo di costruzione di un nuovo soggetto.
Bertinotti non è entrato nel merito del "come" si costruisce questo nuovo rapporto a sinistra. Ha detto che le forme si troveranno strada facendo. Tutti insieme. E non si discuteranno a tavolino, ma nel vivo di un confronto, nel pieno di una nuova stagione di lotte. Lui, ti ripeto, ha insistito sui contenuti, ha compiuto un'analisi lucidissima dei rischi a cui la destra espone l'Europa. Dei rischi a cui va incontro la sinistra. Ha mandato un segnale, ci ha chiesto di mandarne altri. Un segnale perché tutti concorrano a disegnare questa nuova sinistra.

Ma insomma ha chiesto o no di cominciare, fin da ora, a superare la Sinistra europea?
Questo non è vero. Anzi, è un modo sbagliato di interpretare le parole di Bertinotti. Che non a caso le ha pronunciate proprio lì, al Palafiera. All'assemblea costituente della nuova formazione. Certo, lui - come tanti di noi - ha detto che quello cominciato ieri è l'avvio di un percorso che non deve essere "chiuso". E' solo un inizio. Ma è una forzatura - che non giova a nessuno - dire che abbia chiesto il superamento della Sinistra europea. Che è e resta il nostro riferimento internazionale. Ed è con questo bagaglio - politico, culturale, di innovazione - che andremo all'incontro, all'incontro unitario con le altre forze della sinistra. Anche quelle collocate diversamente da noi.
s.b.

Liberazione 19.6.07
M. Smeriglio: «La sinistra ha bisogno di passioni ed emozioni»
«Sì al processo unitario Senza chiedere abiure»
di Stefano Bocconetti


Credo che l'identità di una formazione non sia qualcosa di astratto ma qualcosa che si costruisce quotidianamente. E credo che sia arrivato il momento di smetterla con i luoghi comuni, con le denunce sul peso insopportabile delle identità. Ma insomma ci siamo accorti o no di quel che è avvenuto appena due settimane fa, all'ultima tornata di elezioni amministrative?

Massimiliano Smeriglio è il segretario della federazione romana del Prc. Che è una delle città dove la Sinistra europea è già in piedi da tempo, è un soggetto "politico" vero. Che fa vertenze, che discute, che organizza comunità.

Smeriglio, dal tuo angolo di visuale, come hai preso il discorso di Bertinotti?
Bene, positivamente. Molto positivamente. Anche se penso, scusami la franchezza, che pure altre persone, magari anche chi la pensa diversamente da me, possa dire lo stesso.

Che cosa ti ha convinto di più?
L'idea che un processo unitario vada avviato. E subito. Senza chiedere abiure a nessuno, ma anche senza subire divieti. E io sono convinto che in questo processo occorra portare dentro la cultura, la cultura politica innovativa di Rifondazione. Quella che abbiamo espresso negli ultimi dieci, quindici anni. Non mi pare poco.

Parli, insisti sulla cultura politica di Rifondazione. Molti però hanno detto che se si parte dalle identità, l'unità della sinistra non si farà mai.
E io, invece, la pensa diversamente. Credo che l'identità di una formazione non sia qualcosa di astratto ma qualcosa che si costruisce quotidianamente. E credo che sia arrivato il momento di smetterla con i luoghi comuni, con le denunce sul peso insopportabile delle identità. Ma insomma ci siamo accorti o no di quel che è avvenuto appena due settimane fa, all'ultima tornata di elezioni amministrative? Guardiamo a quello che è accaduto al Nord. Credo, insomma, sia giunto il momento di indagare meglio le ragioni di quella sconfitta. E allora scopriremo che la Lega ha vinto proprio perché è stata capace di dare un'identità al suo elettorato. Alla sua gente. E io credo che a quella della destra occorra controbattere un'altra identità. Una "nostra" densità culturale, io la chiamo così.

Tu sei stato fra i dirigenti che hanno più scritto e detto, anche su questo giornale, contro la tesi del partito della sinistra. Resti di quell'idea?
Sì. E infatti Bertinotti ha parlato di una ricerca da avviare sulle forme dell'unità. E poi ha fatto esplicitamente riferimento all'esperienza della Flm. Una formula che anch'io ho usato.

La cosa che ti è piaciuta di più del discorso del Presidente della Camera al Palafiera?
Sinceramente, l'impianto complessivo. Un discorso davvero importante. Se proprio devo indicare un passaggio, scelgo però quello molto, molto suggestivo, dove disegna una politica capace di organizzare le passioni, le emozioni. Che credo sia la cosa di cui la sinistra, di cui anche noi abbiamo più bisogno.

E la cosa che ti è piaciuta di meno?
Ti sembrerà strano ma mi è dipiaciuto solo un particolare...

Quale?
Che quando ha cominciato a parlare, non si è rivolto alla sala col tradizionale: "Compagne e compagni". Mi è dispiaciuto, mi è mancato.

il manifesto 19.6.07
Partito unico? Per ora meglio di no
Sinistra Dopo la due giorni di Roma emergono le prime indicazioni sul futuro
La segreteria del Prc: «Sì a liste unitarie per le elezioni europee». Ipotesi di federazione con Pdci e Verdi. E l'incognita di Sd
di Al. Bra.


Roma. Va fatto, e alla svelta. Su questo dubbi non ce ne sono. Sul come vada fatto, qualche distinguo invece c'è. La segreteria di Rifondazione comunista si interroga sull'invito di Fausto Bertinotti ad accelerare il processo di unificazione delle forze alla sinistra del Partito democratico. E si trova unanimamente concorde con il suo ex segretario che domenica, nel suo intervento all'assemblea costituente della sezione italiana della Sinistra europea, era stato chiarissimo: «Fatelo, e fatelo subito. Altrimenti si rischia di scomparire».
Ma qualche differenza sul modo in cui farlo emerge. Perché cancellare di colpo il partito potrebbe essere deleterio. All'interno di Rifondazione già non tutti vedono di buon occhio Sinistra europea. Le minoranze interne non hanno partecipato alla kermesse, vista come «una deriva socialdemocratica». La possibilità di uno scioglimento del partito in un soggetto più ampio di «sinistra senza aggettivi», una «cosa rossa» (anche se non si chiamerà così perché «porta sfortuna», assicura il segretario Franco Giordano) potrebbe essere più un freno al processo che uno sprone.
E infatti è il solo Alfonso Gianni, sottosegretario allo sviluppo economico, che apre tout court alla nascita di un nuovo partito unico: »Bertinotti è stato limpidissimo e chiarissimo e non temo smentite neppure da Fausto: il risultato è un nuovo soggetto politico, unico ma plurale nelle culture, un partito con un programma definito, un'immagine unica da sottoporre al voto degli elettori. Da fare entro il 2009».
Una posizione che sembra però isolata, quasi una «fuga in avanti» rispetto alla segreteria, che si attesta invece su posizioni un po' più prudenti rispetto al partito unico. Piuttosto si preferisce parlare di «confederazione e di unità d'azione».
Era chiaro che la nascita di Sinistra europea non era più, come nell'idea originaria, un punto d'arrivo per il Prc. Piuttosto, un «punto di partenza», o meglio un tassello intermedio: qualcosa in più di Rifondazione, molto meno di una sinistra unitaria. Che deve essere l'approdo finale. Gli interlocutori sono ben chiari: i Comunisti italiani, una parte dei Verdi, le associazioni presenti alla due giorni della fiera di Roma. Con l'incognita della Sinistra democratica, che insegue più i socialisti di Boselli che la «cosa rossa».
Ora tocca alla segreteria del Prc sciogliere i nodi sul come. Bertinotti, nel suo intervento, ha preferito «volare alto», indicando più l'orizzonte culturale entro il quale si deve muovere il nuovo soggetto che la fattiva via di realizzazione. E anche la sua chiusa non lascia dubbi sul fatto che l'impegno deve essere di altri e non suo: «Fatelo», non «facciamolo». Un «voi» dettato non solo dal rispetto al ruolo istituzionale che riveste, ma un vero e proprio passaggio del testimone: «Voi sapete meglio di me come farlo: fatelo. Buona fortuna».
Sembra semplice, ma non lo è: il percorso più facile sarebbe la costituzione di un soggetto unitario senza obiettivi di tempo precisi. Lo faremo, quando e come non si sa. Ma il rischio è una disaffezione di chi nel progetto ci crede, e che potrebbe allontanarsi se non dovesse vedere risultati concreti. Meglio darsi un obiettivo, in termini temporali: liste unitarie per le elezioni europee del 2009. Una posizione che sembra maggioritaria nella segreteria del Prc. Ma che ancora potrebbe non essere sufficiente: un obiettivo è un obiettivo, ma si può anche non raggiungere. Ecco perché il capogruppo al Senato Giovanni Russo preferirebbe parlare di impegno. Perché un impegno lo si deve rispettare.

il manifesto 19.6.07
Sinistra. Un laboratorio in comune. Al Crs


Ci saranno Fausto Bertinotti e Alfredo Reichlin, Franco Giordano e Nicola Latorre, Fabio Mussi e Enrico Gasbarra, Pietro Folena e Goffredo Bettini,Gavino Angius e Betty Leone. E' ancora possibile che nomi e percorsi diversi, per non dire divergenti, della complicata galassia della sinistra italiana, radicale e moderata, si incontrino in un laboratorio comune di cultura politica? E' la scommessa su cui punta il Centro studi per la riforma dello stato, nella sua assemblea triennale che si tiene questa mattina, introdotta da una relazione del presidente Mario Tronti, nella biblioteca della Camera di palazzo San Macuto.
A che serve un laboratorio comune di cultura politica, in un momento in cui tutto sembra separare le sorti del costituendo partito democratico da quelle della costituenda forza alla sua sinistra? Più che un generico invito al dialogo e al confronto, la proposta di Tronti è di creare le condizioni perché «le due opzioni della sinistra, quella riformista e quella antagonista, pur nella diversità dei comportamenti politico-pratici, di programma, di gestione, di scelte concrete quotidiane, conservino e coltivino un terreno comune di critica culturale del modello sociale. Questo - continua Tronti - serve all'antagonismo per liberarsi dell'eterno pericolo dell'estremismo, e serve al riformismo per liberarsi dell'eterno pericolo dell'opportunismo». Ma per fare questo c'è bisogno di produrre una cultura politica che a sinistra non c'è più, e di più, «di una rottura dentro i nostri stessi modi di pensare, dell'abbandono di abitudini mentali troppo ripetitive per essere produttive».
All'ordine del giorno, per Tronti, c'è la ridefinizione dei «punti di attacco di una controffensiva culturale» capace di ricollocare la sinistra sul terreno della lotta per quell'egemonia che da tre decenni è saldamente nelle mani del campo avverso, e che ha ridefinito il paesaggio antropologico e mentale, prima che sociale e politico, del presente: «non basta più una critica di società, ci vuole una critica di civiltà». Spoliticizzazione del cittadino democratico, ricostruzione del rapporto fra intellettuali e popolo contro il consumismo culturale televisivo, analisi di che cos'è diventato il lavoro «dopo la classe», declinazione «non antireligiosa» della laicità, centralità della geopolitica: questi i capitoli principali che Tronti proporrà al laboratorio e a chi vorrà crederci. A presiedere i lavori della giornata, il vicepresidente del Crs Mario Dogliani.

lunedì 18 giugno 2007

l'Unità 18.6.07
Bertinotti: «Sinistra, se non ora quando?»
Roma, l’appello del presidente della Camera al battesimo della Sinistra europea in italia
di Natalia Lombardo


CARPE DIEM Tema: «Il Socialismo del XXI secolo». Tempi: ora, subito, senza rinvii. Modi: tutti insieme. Fausto Bertinotti dà il colpo di acceleratore alla costruzione della sinistra «alternativa, una forza plurale e ampia», perché «è a rischio l’esistenza e il futuro
stesso della sinistra». Il presidente della Camera per il suo ruolo istituzionale si tira fuori da un impegno diretto nell’organizzazione di una forza unitaria a sinistra del Pd, ma avverte: «Voi sapete meglio di me cosa fare e come farlo: fatelo. Buona fortuna», augura concludendo il suo intervento alla Fiera di Roma, dove Rifondazione e tanti movimenti battezzano la Sinistra Europea in Italia (un trampolino per andare oltre) in tandem con la nascita della tedesca «Linke».
Bertinotti nomina Rifondazione che nomina solo una volta (e senza maiuscola) per sollecitare, piuttosto, la «rifondazione della cultura e della prassi della trasformazione della società capitalistica». Obiettivo che resta comunque «nel Dna» della sinistra, pur nel passaggio definitivo al termine «Socialismo» e non più comunismo. Via al processo di costruzione di una sinistra aternativa, dunque. I referenti sono il Pdci, i Verdi, la Sinistra Democratica di Mussi, anche lo Sdi se Boselli non avesse già scelto per la via della «Costituente socialista», alla quale guarda anche Angius. Ma Bertinotti non vuole «alzare muri nè a sinistra, nè nei confronti delle componenti moderate».
Da presidente della Camera non detta tempi precisi, ma avverte sull’urgenza di legare a quella «rifondazione» culturale una pratica reale: «Fare fatti politici nuovi che siano di sinistra», dice strappando un applauso. Terreno (per esempio la Finanziaria a ottobre) per il confronto con chi vuole far parte di questo «processo» (bandito il nome «Cosa Rossa» perché «non porta fortuna», dice il segretario del Prc, Franco Giordano). «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua», questo processo è «irrinviabile» (dice Bertinotti inerpicandosi sulle “erre”). E alle minoranze del Prc ormai limitate, manda un messaggio: uscire da quelle «fuorvianti ripicche identitarie». Messaggio che potrebbe valere anche per Diliberto, se non fosse che il giorno prima il leader del Pdci ha sollecitato la nascita della nuova forza di sinistra partendo già dall’autunno.
La platea dei delegati della Sinistra Europea, con i dirigenti del Prc ma anche con tanti movimenti territoriali, applaude ma senza enfasi. Eppure non si parla di partito unico (che non piace a Paolo Ferrero), piuttosto il modello è la «confederazione» modello Flm. E alla fine del discorso di Bertinotti una parte non si alza in piedi. Il suo discorso è tutto politico scaldato citando Leopardi: «Solo se la ragione diventa passione è possibile la conoscenza». E cita Gandhi rinnovando la scelta della Nonviolenza. Applausi in piedi per applaudire Aldo Tortorella, che ha avuto la meglio in un botta e risposta con Achille Occhetto al quale imputa la «frettolosa liquidazione» del patrimonio culturale del Pci. «Nell’89 dovevamo uscire da sinistra dalla crisi del comunismo», è l’autocritica dell’autore della «svolta». Questo è il passato. Sul presente e sul governo Bertinotti si «autocensura», ma drammatizza la situazione di una sinistra «a rischio» per la «dura disaffezione delle masse popolari dalla politica» al Nord o, peggio ancora, quella «frantumazione» che in Francia ha portato alla vittoria la destra di Sarkozy.. E, nel quadro italiano, nota la scesa in campo delle imprese come soggetto politico. Montezemolo in testa, nell’«ambizione del capitalismo di cancellare la distinzione tra destra e sinistra».
Il «processo» unitario è comunque in moto, molto dipenderà dalle scelte della Sinistra Democratica uscita dai Ds. «Mussi in un messaggio ci ha detto: io comincio subito», racconta Danielle Mazzonis sottosegretaria ai Beni Culturali. Ci sono anche le femministe storiche, anche se Lea Melandri lamenta: «Non ho sentito una parola sul pensiero femminista». In Rifondazione Alfonso Gianni è entusiasta «spero che il gruppo dirigente abbia capito»): storce il naso la minoranza di Fosco Giannini (ora direttore de «L’Ernesto»), che esorta i militanti a «alzare la testa» contro la «deriva governista del Prc che al superamento dell'autonomia comunista» sceglie la via «socialdemocratica». Sulle note di una Internazionale versione melò e Bella Ciao dei Modena C.R. la Sinistra Europea si dà appuntamento in autunno. Ma prima di votare il documento finale ognuno pone le proprie parole d’ordine. Il «vecchio» è duro a morire nella sinistra...

Repubblica 18.6.07
Il presidente della Camera dà la scossa al gruppo dirigente: "Un socialismo del XXI secolo"
La svolta di Bertinotti "Andare oltre Rifondazione"
"Una sinistra unita ma che parli al cuore"
di Umberto Rosso


ROMA - Nemmeno la formula di apertura è quella di rito. Fausto Bertinotti sale alla tribuna, tira fuori la scaletta che ha buttato giù nel viaggio di ritorno da Berlino, e attacca: vi parlo nelle vesti di presidente dimissionario della Sinistra Europea... Niente "cari compagni e care compagne", un must nei discorsi del presidente della Camera (dribblato solo, per ovvie ragioni, nel saluto ai deputati appena eletto a Montecitorio), ma appunto la notizia che a fine mandato (ad ottobre) lascerà il suo posto di leader della formazione che in Europa tiene insieme la sinistra radicale. E già a quel punto, nell´insolito incipit, chi lo conosce ha colto tutti i segni di un discorso di svolta nella storia del Prc. Una sola battuta sul governo, «ci siamo dentro per scelta e non per obbligo», e poi via, tutto di un fiato. Bertinotti chiede di fatto di andare oltre Rifondazione. Ma anche oltre la stessa Se, che pure è stata una creatura dell´ex segretario ma che ora gli appare evidentemente datata. Il presidente dunque dà la sveglia. Ai lavori del cantiere aperto, che vanno troppo a rilento: «Per fare una sinistra ampia, plurale e forte bisogna anche saper cogliere l´attimo, i tempi in politica non sono indifferenti». Ma scuote anche lo stato maggiore del suo stesso partito, «bisogna saper suscitare una forte emozione, una forza nuova non la si fa soltanto con la ragione, la si fa anche con la passione e i sentimenti». Lo diceva pure Leopardi, oltre che Gramsci, cita Fausto. E dunque invita i suoi a metterci più cuore, a superare le resistenze, «non è questo il tempo dei correttivi in corsa, non possono bastare, così come i richiami identitari».
I delegati trattengono il respiro. In prima fila c´è anche un pezzo del vecchio Pci, da Occhetto a Tortorella («la svolta doveva andare verso sinistra», si autocritica l´ex segretario della Quercia). L´analisi di Bertinotti per certi aspetti è impietosa. La sinistra in tutta Europa rischia di sparire, «di finire sdradicata». Ultimo esempio: i pessimi risultati elettorali delle amministrative nel nord Italia. Sulla scena, irrompono le esternazioni di Montezemolo, il tentativo di demolire il rapporto destra-sinistra, «e non serve chiedersi di quanti voti è portatore ma cogliere il senso profondo della sua sfida». In questo contesto, appunto, o nasce il cantiere subito o si rischia la fine. «Deve aprirsi un confronto con tutte le sinistre, con tutti coloro che quale che sia il nostro giudizio, si considerano di sinistra. Senza muri, né a sinistra né nei confronti delle componenti moderate». E´ la sfida al Pd. Ma i dubbi degli altri soci del progetto, le frenate di Mussi e di Angius? Bertinotti rilancia e gioca la sua carta: sparito dal lessico e dall´orizzonte il comunismo, la prospettiva si chiama «il socialismo del XXI secolo». Come a dire: non è appunto il grande solco sul quale si muove l´ex correntone ds, come possono ancora chiamarsi fuori dall´operazione? Formule comunque il presidente della Camera non ne fornisce, anzi confessa: mi interessano poco. Cita il modello unitario della Flm ma si capisce che gli piace molto di più lo schema della Linke tedesca, che ha appena visto nascere a Berlino: via le vecchie sigle d´origine dei partiti, si riparte da zero. Ma per il resto, spiega, «io credo che non ci si debba chiedere prima su come andrà a finire, o definire prima come dovrà essere il disegno preciso di questa sinistra di alternativa. Sarà quello che ne faranno democraticamente i partecipanti, la gente coinvolta». Segue esortazione, che fa esplodere l´applauso in sala: «Voi sapete certamente, in questo momento, molto meglio di me cosa fare e come farlo. Io vi invito soltanto a farlo: fatelo». Con un ultimo appello al partito e ai delegati della Se, «attenzione al linguaggio che usiamo». E c´è chi legge un sostegno a Piero Sansonetti e Liberazione, dopo la raffica di lettere contro i reportage anti-Cuba, e chi un rimprovero alle sparate di Nunzio D´Erme contro il presidente della Cei Bagnasco.
Quando la sala riemerge dall´apnea, è già tempo di fare i conti con la frustata dell´ex capo del partito. Franco Giordano, il segretario: «Perfettamente d´accordo. Fausto parla di una sinistra plurale, e Rifondazione ci starà dentro con la sua storia». Ma Alfonso Gianni, che nel partito ha dato battaglia proprio in nome dell´idea di superare il Prc, avverte: «Ora speriamo che tutti finalmente capiscano». A sera, arriva anche una telefonata. Chiama Oliviero Diliberto, ex nemico scissionista del Pdci: «Fausto, sei stato davvero bravo».

Corriere della Sera 18.6.07
Bertinotti e la «cosa rossa» «Fatela o si rischia di sparire»
di Roberto Zuccolini


ROMA — C'è attesa alla vecchia Fiera di Roma. E quando entra ci sono gli applausi, entusiasti, della «sua» gente. Ma, soprattutto, c'è il suo discorso. Che si può riassumere in una parola: «Fatelo». Altrimenti «si rischia di scomparire». Fausto Bertinotti ne è convinto: non c'è più tempo da perdere per il nuovo soggetto della sinistra, a sinistra del Partito Democratico. Chiamatela come volete la «Cosa Rossa » (nome che a Franco Giordano non piace affatto), ma «fatela» il più presto possibile. Con chi ci sta: il Pdci, una parte almeno dei Verdi e, chissà, in futuro forse anche gli ex diessini di Sinistra Democratica.
Il leader di Rifondazione Comunista, appena salito sul palco, chiarisce subito: «Io qui non parlo nè di governo, nè di partiti». Perché, pur essendo il primo intervento davanti al suo popolo da quando è diventato Presidente della Camera, non può tradire il ruolo istituzionale. Ma le cose le dice e come.
Prima lancia l'allarme: «Guardate che l'esistenza della sinistra è a rischio » di fronte a un sistema capitalistico aggressivo che «tenta di cancellare le distinzioni tra destra e sinistra». E cita anche gli ultimi interventi di Luca di Montezemolo: «Non è importante sapere di quanti voti è portatore, serve piuttosto cogliere il senso profondo della sua sfida». Tutto questo «mentre la destra "sfonda" perché cavalca le paure della gente».
E allora, che fare? «L'antidoto al degrado è la costruzione di una sinistra di alternativa capace di mobilitare grandi energie in questo Paese». Certo, «una forza nuova non la si fa solo con la ragione ma anche con la passione e i sentimenti». Ma «l'obiettivo di un soggetto unitario non è rinviabile». E va fatto «con tutti coloro che si considerano di sinistra. Senza muri». Il Presidente della Camera non può e non vuole dire quando e come. Ma l'appello è forte e chiaro: «Voi sapete certamente, in questo momento, molto meglio di me cosa fare e come farlo. Io vi invito soltanto a farlo: fatelo».
Un invito alla fretta che risulta simile a quello che aveva lanciato il giorno prima Oliviero Diliberto intervenendo allo stesso convegno che ha fatto nascere la sezione italiana della Sinistra Europea. Tanto che i due (Bertinotti e il segretario del Pdci) si sono sentiti nel pomeriggio di ieri per farsi i complimenti.
Riassumendo. Rifondazione c'è, con tutti i movimenti che erano presenti alla due giorni della Fiera di Roma (e Achille Occhetto in prima fila). Ci stanno anche i Comunisti Italiani e almeno una parte dei Verdi sembra d'accordo (Paolo Cento e simili). L'incognita per la «sinistra unitaria», che dovrebbe nascere a sinistra del Pd, è rappresentata dagli ex diessini di Mussi e Angius. Ma molto probabilmente verrà sciolta solo quando questi ultimi avranno la certezza che il Partito Democratico si farà davvero. E non tutti ci scommettono a sinistra. Tanto che Franco Giordano si mostra decisamente preoccupato dell'eventuale fallimento dei «cugini» riformisti: «Il Pd ha una grave difficoltà, e questo non mi rallegra: se si apre una breccia nella diga l'acqua travolge tutti».

Repubblica 18.6.07
Giordano: "Confermo la richiesta di dimissioni per il G8, non può diventare un capo dei Servizi"
Rifondazione contro De Gennaro Casini: giù le mani dalla Polizia
Il capo della polizia è candidato al Cesis che, con la riforma, resterà senza direttore
di Alberto Custodero


ROMA - A sette anni e 18 giorni dalla sua nomina, avvenuta nel 2000 durante il governo Amato, il capo della Polizia, Gianni De Gennaro è nuovamente nel mirino di Rifondazione comunista. È stato il segretario del Prc, Franco Giordano (intervenuto ieri a «In mezz´ora» su Rai3), a porre una pregiudiziale sulla eventuale candidatura di De Gennaro alla direzione del Cesis, il comitato di coordinamento dei servizi segreti che, quando passerà la riforma, resterà senza direttore. Il pretesto a parlare del futuro del capo della polizia è stato il dibattito sul G8 di Genova divampato dopo la confessione choc del vicequestore Michelangelo Fournier («alla Diaz una macelleria messicana»). Ebbene, Giordano, dopo aver chiesto «subito» l´istituzione di una commissione d´inchiesta «per le tante vittime di violenze che non sono degne di un Paese civile, per non diventare complici della volontà di coprire la verità, e perché lo dobbiamo ai genitori di Carlo Giuliani», ha ribadito le sue critiche a De Gennaro, ai vertici della polizia, fra il 20 e il 21 luglio del 2001, durante le violenza al G8 di Genova. «Ho chiesto le sue dimissioni allora - ha dichiarato il segretario del Prc - non ho problemi a farlo anche adesso, anche se è al termine della carriera». A proposito dell´eventualità che De Gennaro (al quale mancano 8 anni alla pensione), diventi direttore del Cesis, Giordano s´è detto «convinto che non succederà».
«Un uomo che ha fatto il capo della polizia - ha spiegato - non può continuare a stare in quel sistema». Le affermazioni di Giordano non sono piaciute al leader dell´Udc, Pierferdinando Casini, che le ha definite «inquietanti». «Non so - ha detto Casini - se il segretario di Prc abbia la delega ai servizi. Mi permetto di chiedere alla maggioranza una sola cosa: tenga giù le mani dalla polizia di Stato, che non ha bisogno di tutele, né di polemiche immotivate nel momento in cui è impegnata a fronteggiare il terrorismo e a difendere l´ordine pubblico». Gli ha fatto eco il senatore di An Francesco Storace: «Ora vogliono cacciare pure De Gennaro? Prodi ha il dovere di dire se intende assoggettare anche gli uomini del Viminale al suo dominio dopo quello che ha combinato con la guardia di finanza. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha il dovere di bloccare le manovre di regime».

The Washington Post, Monday, June 18, 2007
Little Relief on Ward 53
At Walter Reed, Care for Soldiers Struggling With War's Mental Trauma Is Undermined by Doctor Shortages and Unfocused Methods
By Anne Hull and Dana Priest
Washington Post Staff Writers

On the military plane that crossed the ocean at night, the wounded lay in stretchers stacked three high. The drone of engines was broken by the occasional sound of moaning. Sedated and sleeping, Pfc. Joshua Calloway was at the top of one stack last September. Unlike the others around him, Calloway was handcuffed to his stretcher.

When the 20-year-old infantry soldier woke up, he was on the locked-down psychiatric ward at Walter Reed Army Medical Center. A nurse handed him pajamas and a robe, but they reminded him of the flowing clothes worn by Iraqi men. He told the nurse, "I don't want to look like a freakin' Haj." He wanted his uniform. Request denied. Shoelaces and belts were prohibited.

Calloway felt naked without his M-4, his constant companion during his tour south of Baghdad with the 101st Airborne Division. The year-long deployment claimed the lives of 50 soldiers in his brigade. Two committed suicide. Calloway, blue-eyed and lantern-jawed, lasted nine months -- until the afternoon he watched his sergeant step on a pressure-plate bomb in the road. The young soldier's knees buckled and he vomited in the reeds before he was ordered to help collect body parts. A few days later he was sent to the combat-stress trailers, where he was given antidepressants and rest, but after a week he was still twitching and sleepless. The Army decided that his war was over.

Every month, 20 to 40 soldiers are evacuated from Iraq because of mental problems, according to the Army. Most are sent to Walter Reed along with other war-wounded. For amputees, the nation's top Army hospital offers state-of-the-art prosthetics and physical rehab programs, and soon, a new $10 million amputee center with a rappelling wall and virtual reality center.

Nothing so gleaming exists for soldiers with diagnoses of post-traumatic stress disorder, who in the Army alone outnumber all of the war's amputees by 43 to 1. The Army has no PTSD center at Walter Reed, and its psychiatric treatment is weak compared with the best PTSD programs the government offers. Instead of receiving focused attention, soldiers with combat-stress disorders are mixed in with psych patients who have issues ranging from schizophrenia to marital strife.

Even though Walter Reed maintains the largest psychiatric department in the Army, it lacks enough psychiatrists and clinicians to properly treat the growing number of soldiers returning with combat stress. Earlier this year, the head of psychiatry sent out an "SOS" memo desperately seeking more clinical help.

Individual therapy with a trained clinician, a key element in recovery from PTSD, is infrequent, and targeted group therapy is offered only twice a week.

Young Pfc. Calloway was put in robes that first night. His dreams were infected by corpses. He tasted blood in his mouth. He was paranoid and jumpy. He couldn't stop the movie inside his head of Sgt. Matthew Vosbein stepping on the bomb. His memory was shot. His insides burned.

Calloway's mother came to Walter Reed from Ohio and told the psychiatrist everything she knew about her son. Sitting in the office for the interview, Calloway jiggled his leg and put his head in his hands as he described his tour in Iraq. His mental history was probed and more notes were taken. The trivia of his life -- a beagle named Zoe, a job during high school at a Meijer superstore, a love of World War II history -- competed with what he had become.

"I can't remember who I was before I went into the Army," he said later. "Put me in a war for a year, my brain becomes a certain way. My brain is a big, black ball of crap with this brick wall in front of it."

After a week in the lockdown unit, Calloway was stabilized. They gave him back his shoelaces and belt. On the 10th day, he was released and turned over to outpatient psychiatry for treatment. And Calloway, a casualty without a scratch, began the longest season of his young life.

Inside Walter Reed

The Washington Post began following Calloway after he was brought to Walter Reed last fall with an initial diagnosis of acute stress disorder. He had all the signs of PTSD, but it would be the hospital's job to treat him and then decide whether he met the Army's strict guidelines for a PTSD diagnosis -- which required a certain level of chronic impairment -- and whether he could ever return to duty.

Calloway's physical metamorphosis was rapid. The burnished soldier turned soft and fat, gaining 20 pounds the first month from tranquilizers and microwaved Chef Boyardee. He lived at Mologne House, a hotel on the grounds of Walter Reed that was overtaken by wounded troops. His roommate was another soldier from Iraq with psych problems who kept the curtains drawn and played Saints Row video games all day until one day he vanished -- poof, AWOL, leaving nothing behind but empty bottles of lithium and Seroquel.

For the first time in almost a year, Calloway had a plush bed and a hot shower, but he was too angry to appreciate the simple comforts. On an early venture outside Walter Reed, he went to downtown Silver Spring and became enraged by young people laughing at Starbucks. "Don't they know there is a war going on?" he said.

Wearing a rock band T-shirt, Calloway looked like any other 20-year-old on the sidewalk, but an unspeakable compulsion tore through him. He said he wanted to hatchet someone in the back of the neck.

"I want to see people that I hate die," he said. "I want to blow their heads off. I wish I didn't, but I do." He made similar statements to his psychiatry team at Walter Reed.

Violence seeped into his life in a thousand ways. When he cut himself shaving, the iron smell of blood on his fingertips gave a slight euphoria. But it was the distinct horror of his sergeant's death that was encoded in his brain. The memory made him physically sick. He would sweat and shake as if having a seizure, and sometimes he felt as if he were back in the heat and sand of Iraq.

The recognized treatment for PTSD is cognitive behavioral therapy, in which patients are encouraged to face their feared memories or situations and to change their negative perceptions. A key technique is known as prolonged exposure therapy. It involves revisiting a traumatic memory in order to process it. The idea is not to erase the memory but to prevent it from being disabling. Highly structured, one-on-one sessions over a limited time period have proved most effective, according to Edna B. Foa, a professor of psychology in psychiatry at the University of Pennsylvania, who has been contracted by the Department of Veterans Affairs to train 250 therapists who treat PTSD.

But Calloway and a dozen other soldiers from Iraq and Afghanistan interviewed by The Post described a vague regimen at Walter Reed's outpatient psychiatric unit, Ward 53. They get a heavy dose of group sessions such as "Reflecting with Music," "Decisions," "Feelings Exploration" and "Art Expressions." Calloway reported to his "Reel Reflections" class one morning for a screening of "The Devil Wears Prada." Only two hours a week are devoted to a post-traumatic recovery group, according to a copy of their schedule.

These soldiers said they are over-medicated and treated with none of the urgency given the physically wounded. One desperate patient, a combat medic who broke down after her third tour in Iraq, said she begged her psychiatrist: "We are handicapped patients, too. Cut off both my legs, but give me my sanity. You can't get a prosthesis for that."

In an interview this month, Col. John C. Bradley, head of psychiatry at Walter Reed, said soldiers with combat-stress disorders receive the accepted psychotherapeutic treatment there. He said they are placed in a specially designed "trauma track" and are given at least an hour of individual therapy a week and a full range of classes to help them cope with their symptoms. Exposure therapy is as effective in group settings as in individual sessions, he maintained -- a belief that runs counter to the latest clinical research.

Bradley acknowledged staff shortages and said vacancies in his department go unfilled for as long as a year because of the Army pay scale and the high cost of living in the Washington area. He recently asked to increase his staff by 20 percent, and last month he brought on a reservist to help doctors with the time-consuming duties of preparing reports for the soldiers' medical evaluation board process. "We are constantly looking for innovative ways to provide service and outreach and support to soldiers," said Bradley, who deployed to Iraq last year with a combat-stress unit.

One of the country's best PTSD programs is located at Walter Reed, but because of a bureaucratic divide it is not accessible to most patients. The Deployment Health Clinical Center, run by the Department of Defense and separate from the Army's services, offers a three-week program of customized treatment. Individual exposure therapy and fewer medications are favored. Deployment Health can see only about 65 patients a year but is the envy of many in the Army. "They need to clone that program," said Col. Charles W. Hoge, chief of psychiatry and behavior services at the Walter Reed Army Institute of Research.

Instead, Deployment Health was forced to give up its newly renovated quarters in March and was placed in temporary space one-third the size to make room for a soldier and family assistance center. The move came after a series of articles in The Post detailed the neglect of wounded outpatients at Walter Reed. Therapy sessions are now being held in Building T-2, a rundown former computer center, until new space becomes available.

Joshua Calloway reported to Ward 53 five mornings a week in his uniform. He was a tough patient from the start, angering easily and impatient with anyone who had not experienced combat. He was irritated that he had to attend groups with soldiers who had bombed out of boot camp or never deployed. He participated in processing exercises using work sheets to help him manage his fears. ("For example, original thought: 'I'm in a crowd, they're looking at me, they're all going to jump me, the enemy looked at me in Iraq and shot me, I leave.' Feelings: Anxious. Behavior: Leave situation.")

With the exception of the post-traumatic stress group run by Joshua Friedlander, a clinical psychologist and former Army captain who had served in Iraq, most of the classes felt like B.S. sessions to Calloway. "Civilians reading from a booklet," he said.

Ultimately, his treatment was in the hands of a civilian psychiatrist. Before taking a contract job at Walter Reed in 2005, the doctor had worked at Washington's St. Elizabeths Hospital and specialized in addictions and pedophilia. On Ward 53, he was responsible for about 30 soldiers, many back from Iraq. Calloway felt little validation from the psychiatrist. Sometimes the doctor typed on his computer while Calloway talked.

There was another, more delicate, problem. The psychiatrist was Indian. Calloway had a gut reaction to anyone he thought looked Iraqi, a paranoia shared by many of Walter Reed's wounded.

"You are seeing a [expletive] Pakistani?" asked Spec. Isaac Serna, a fellow war-wounded soldier in the 101st Airborne. "I'd freak, dude."

Calloway confessed his bias to the doctor. "I want to kill Arabs," he said.

"Does that include me?" the Hindu doctor asked, according to Calloway. "You can say it."

Antidepressants are most commonly used to treat PTSD, and Calloway was on a total of seven medications by Christmas, including lithium, used to treat bipolar disorder. He had now gained 30 pounds and was too lethargic to exercise. Bored one night, he took out the sweat-stained spiral notebook he had carried in Iraq. Grains of sand were still between the pages scribbled with Arabic commands. He repeated the phrases that loosely translated to "don't speak" and "shut up."

"Balla hashee!" he said. "In chep!"

He spent the holidays reading "The PTSD Workbook" and eating Starbursts in a room piled high with goody boxes from his church back home.

"You are in our prayers, Josh," one card read. "We are so proud of your service to your country."

Unabating Anger

In Iraq he was infected with MRSA, a microbe that makes the skin boil, and at Walter Reed he suffered a painful outbreak that landed him in the hospital. Festering sores brought a respite from Ward 53. In the hospital, he got Percocet and "The Daily Show," and late at night he read a memoir by a soldier who served in Iraq called "The Last True Story I'll Ever Tell." A friend in the 101st lent it to him with underlined passages, and Calloway read aloud the one on Page 172 about trying to fit back in after war.

I spent most of my time watching the rooftops and side roads, looking into my rearview mirror to make sure no one was creeping up on my car from behind. . . . Every time I saw someone sitting contently inside a coffee shop or restaurant, I wanted to yell at them, wake them up.

A social worker with a clipboard came to his room the next afternoon. "The surgeon general is concerned about all the soldiers coming home with smoking habits," he said.

Calloway said he never smoked before Iraq but smoked three packs a day in theater.

"Have you ever considered a patch?" the man asked.

By his fourth month as an outpatient on Ward 53, Calloway had learned breathing techniques to ease his panic. He had been asked to recite statements of self-love in group therapy. He had learned to cook in occupational therapy. But his core anger was as high as ever, made worse by the relationship with his psychiatrist. They met once or twice a week, mostly to discuss meds and argue. "Why don't you ever come in here and smile?" the doctor asked, according to Calloway. "Why don't you ever come in here and think today will be a good day?"

Walter Reed officials refused to discuss individual patients for this story, citing privacy concerns.

Calloway wanted to scream. Disillusioned, he stopped faithfully attending the combat-stress group he first found helpful. In the cold of winter he went down to Capitol Tattoo on Georgia Avenue, where the milky skin of his arms became a canvas of colors and death poetry. In honor of Vosbein, he had a silhouette of a soldier drawn on, with the words: "Lay down your armor. And have no fear. I'll be home soon."

Even with his nihilistic markings, Calloway still saw himself as a soldier. On Sunday mornings he attended a VFW brunch in Arlington, feeling at home with the snowy-haired veterans who sipped coffee under an American flag. As an Iraq vet, he was treated as part of the newest generation of warriors. One Sunday, he was accompanied by a girl from Ohio who'd come to visit him at Walter Reed. She wore his dog tags, and his eyes were full of light. "Thank you, ma'am," he told the waitress who brought his biscuits and gravy.

But the girl went back to Ohio and Calloway came to the next brunch alone, secretly terrified that in 30 years he'd be sitting in a support group like the Vietnam guys. With his nightmares and balled-up fists, what woman would want him?

"I'm not getting any better," he told his mother on the phone.

His step-grandfather in Ohio spent a morning making calls, trying unsuccessfully to reach anyone at Walter Reed. "He's meeting with people 15 minutes a day, he's been written off," said Greg Albright. "Josh has not been cooperative, he's been insulting to the doctor. But that's a function of the place he's been." Albright met with an aide from the district office of Rep. John A. Boehner (R) in Ohio. He wanted help bringing Josh home for treatment, and the family was willing to pay for it. But Calloway was still in the Army.

One night in his room, Calloway put in a DVD and watched the opening scene of "Saving Private Ryan," the American G.I.s coming onto Omaha Beach, retching in fear as they unloaded from the boats and faced a rain of German bullets. Limbs severed, necks punctured, foreheads blown open, but the grunts kept charging.

"See why I picked infantry?" Calloway said, his leg furiously twitching. "There's no other place in the world where you can have a job like that. It's a brotherhood that's deeper than your own family."

His romanticized ideals clashed with reality. His anti-nightmare medication made him a zombie in the morning, and he slept through his alarm. After missing morning formation, he was ordered by his platoon sergeant to pick up trash, but in the middle of his work duty he had an anxiety attack; shaking and unable to focus his eyes, he was taken to the ER, where he overheard his sergeant tell the doctor that it seemed to be a big coincidence that Calloway had an attack while doing work.

'I Can't Handle Another Day'

He often wondered why he snapped. Several factors make PTSD more likely -- youth, a history of depression or trauma, multiple deployments, and relentless exposure to violence. Calloway hit most of the criteria. He had been depressed in high school, and four months out of basic training he was in one of the most dangerous sectors of Baghdad.

Alpha Company, 2nd Battalion, 502nd Infantry Regiment got to Baghdad in the fall of 2005. The roads around Yusufiyah, where they patrolled, were littered with bombs. A first sergeant was lost right away, and the casualties never stopped. Living in abandoned Iraqi houses, Calloway went weeks without bathing and days without sleep. He went on raids at night, kicking in doors and searching houses to the sound of gunfire and screams.

Calloway had never felt such excitement or sense of belonging. His best friend was Spec. Denver Rearick, a grizzled 23-year-old on his second tour. In his Kentucky cowboy wisdom, Rearick warned Calloway: "Your entire body is a puzzle before you go to war. You go to war and every little piece of that puzzle gets twisted and turned. And then you are supposed to come back home again."

The pressure and dread and exhaustion began to smother Calloway. He survived several bomb blasts. Some soldiers were sucking on aerosol cans of Dust-Off to get high, and one accidentally died. Sleep deprivation mixed with the random violence scrambled Calloway. He wore it on his face. One of the sergeants asked him, "Are you gonna kill yourself, Calloway?"

Music was his escape. On rare nights on base, Calloway, Rearick and Vosbein would strip off their armor and climb up to the roof to play guitars and harmonica. Vosbein loved Johnny Cash. He was from Louisiana, free and easy with his affections, and at 30 he treated Calloway like a kid brother.

The day Vosbein died was sunny and hot. A convoy patrol in three Humvees pulled over to check a crater in the road. As Calloway was opening his door, Vosbein was already moving toward the crater. The force of the explosion rattled Calloway's teeth and knocked two other soldiers to the ground. Vosbein -- whistling, happy Vos -- was eviscerated. Parts of him were everywhere.

Calloway buckled and puked. Then rage. He wanted to shoot the first Iraqi he saw, but his legs weren't working. He was useless to help clean up the scene. Later that night as the chaplain gathered the platoon to talk, Calloway stood off to the side with two sergeants, crying. They confiscated his weapon. Rearick sat up with him in his room until he fell asleep. His commanders watched him closely. "We want to do what's best for you," the company commander told him with compassion. "You need to tell me what you need."

"I can't handle another day of this place," Calloway answered. He was sent to the combat-stress control trailers, where the decision was made to ship him to Walter Reed.

In his room at Mologne House, Calloway kept photos from Iraq on his computer: Vosbein grilling steaks at their patrol base. Calloway's gang piled on a tank with their guitars. Driving through a blinding orange sandstorm. Rearick, wiry and invincible, smiling in a dirty cowboy hat.

"He was able to handle it," Calloway said.

But Rearick was in bad shape. While Calloway was at Walter Reed, Rearick was home in Waco, Ky., sleeping with a .45 and the furniture pushed in front of the window. He was so anxious in crowds that he no longer went to bars or restaurants, ordering his meals at the drive-through window. To rouse him in the morning, his father tossed a boot from the doorway because he startled so violently when touched.

Rearick had sought help after coming home from his first tour in Iraq. While asleep one night, he knocked his girlfriend to the floor. "I damn near broke her nose," he said. Without telling his commanders at Fort Campbell, he went to the VA hospital in Lexington, where he was prescribed antidepressants. He didn't like the pills, so he drank himself to sleep, while gearing up for his second tour.

"All the banners said 'Welcome Home Heroes,' " Rearick said. "But the moment we start falling apart it's like, 'Never mind.' For us, it was the beginning of the dark ages. It was the dreams. It was going to the store and buying bottles of Tylenol PM and bottles of Jack."

Rearick retired from the Army earlier this year. In the bucolic green of Kentucky, he threw himself into the physical work of breaking horses and moving cattle. The only places he feels safe are the pastures and his barricaded room.

"At least Calloway doesn't try to sugarcoat it," he said. "He's like, 'I'm [expletive] up and I'm pissed off.' "

Rearick knows his outlaw paradise of guitars, guns and Willie Nelson is just a cover.

"Everyone thinks you are a badass," he said. "But you are scared of the dark."

Going Home, Far From Cured

Calloway put a Johnny Cash song on his cellphone to describe his sixth month on Ward 53.

I'm stuck at Folsom Prison

And time keeps dragging on

One night he mixed Monster energy drink and Crown Royal and got so drunk he was taken to the ER at Walter Reed, which landed him in the Army's alcohol counseling program. He had to submit to a breathalyzer test at 7 each morning. "I am losing my mind more and more while I'm here," he said.

His psychiatrist had referred him to the Deployment Health Clinical Center, but Calloway blew his chance at getting into the coveted program when he missed appointments. He blamed his meds and memory problems. He had been exposed to multiple bomb blasts in Iraq, but after seven months at Walter Reed he had not been tested for traumatic brain injury, which affects memory. Instead he was given a Dell PDA to help him remember appointments.

The relationship with his psychiatrist was barely tolerable. The frustration seemed mutual. "He complained about his problems but did not seem eager to listen to any suggestions I provided him," the doctor noted in Calloway's records. He added that Calloway showed up to Ward 53 not in uniform but in cutoff shorts with his tattoos showing.

Even on high doses of sedating drugs, Calloway's rage crackled, and one night he started breaking things outside Mologne House. He was again taken to the ER, where he screamed that he wanted to kill his psychiatrist.

Finally, Calloway got what he wanted -- a new doctor. Lt. Col. Robert Forsten had served in Iraq and had published studies on combat stress. Right away, Calloway noticed Forsten's combat badge and his listening skills. Forsten agreed that the violence of Iraq was transforming and harrowing but said it should not define the rest of Calloway's life. The doctor also tried to reframe the experience. "You're a soldier," he said, according to Calloway. "You went to Iraq. You did your job.' "

Something clicked for Calloway. But it was so late in the game. His physical evaluation board process was nearly complete, and he would be going home soon. His worries turned to what diagnosis the Army would give him and how he would be rated for disability pay. His case worker had told him that she could not locate anyone at Fort Campbell to provide written proof that he had witnessed a traumatic event in combat. Forsten picked up the phone and within days had an official statement:

"During a routine route clearance in August 2006, PFC Calloway's team leader (SGT Vosbein) was clearing a suspected IED crater while PFC Calloway was inside his M1114. SGT Vosbein stepped on a crush wire that detonated 2X155 mm artillery shells. The detonation killed SGT Vosbein and knocked the remaining soldiers to the ground. PFC Calloway came to the site and saw his team leader blown apart into several pieces."

Forsten would soon get another assignment and leave Walter Reed.

The evaluation board diagnosed depression and chronic PTSD in Calloway, and ruled that his conditions had a "definite impact" on his work and social capabilities. He was given a temporary disability rating of 30 percent, which meant he would get $815 a month. He would be reevaluated in 2008. He would report to the VA hospital in Cincinnati for treatment when he got home.

After eight months at Walter Reed, Calloway showed "some improvement of his symptoms," according to his medical records. But his step-grandfather, Greg Albright, who came from Ohio to help him pack, was astounded at his volatility. "He's a grenade with the pin half-out," Albright said.

Even on his last night, Calloway avoided the open grassy spaces in front of Mologne House. He chain-smoked under the awning. He wondered what home would be like.

At dawn the next morning, he set out for Ohio, a combat infantry sticker on the bumper of his car.

Staff researcher Julie Tate contributed to this article.

domenica 17 giugno 2007

l’Unità 17.6.07
Bertinotti a Berlino lancia la «Linke» all’italiana. Ma a Roma Diliberto...
Il presidente della Camera parla della necessità di una sinistra antagonista davvero unita, e oggi sarà in Italia per il lancio di «Sinistra Europea»


Il segretario del Pdci non è d’accordo con l’idea di rinviare all’autunno la nascita della «cosa rossa»
Titti Di Salvo (Sd) è critica: «Non amo la “cosa rossa” preferisco parlare di Ulivo di sinistra...»

DIE LINKE Parla a Berlino, ma guarda all’Italia, Fausto Bertinotti. Solo una sinistra antagonista veramente unita può «evitare la catastrofe» contrastando la minac-
cia del capitalismo che «ruba» il futuro dei lavoratori: è il messaggio che il presidente della Camera Fausto Bertinotti lancia all’assemblea costituente della «Linke», la formazione politica che nasce dall’unificazione del Pds (il partito comunista erede del Sed della Germania est guidato da Gregor Gysi) con la Wasg (la formazione socialdemocratica con al vertice Oskar Lafontaine che ha abbandonato la Spd). Ma Bertinotti parla a Berlino perché a Roma intendano. Domani sarà fondata la sezione italiana della Sinistra europea: ancora nulla di storico come la nascita della Linke, come ammette lo stesso presidente della Camera, ma comunque un passo verso quell’unità della sinistra antagonista che per lui rappresenta l’unica via per essere «protagonista del nostro tempo». Davanti agli 800 delegati della «Linke» Bertinotti si rivolge con un duro attacco al capitalismo che, accusa, «ci ruba il futuro. Solo una sinistra forte può aiutarci a riconquistarlo, e abbiamo bisogno di una sinistra forte anche per riprenderci la vita». Secondo Bertinotti, dunque, «Die Linke» rappresenta «un incoraggiamento molto forte» anche per la sinistra italiana.
Bertinotti ne parlerà anche oggi a Roma, intervenendo all’assemblea che darà vita alla sezione italiana della Sinistra Europea. Ieri il leader del Pdci Oliviero Diliberto, ospite dell’assemblea, ha spronato: «Entro l’autunno proviamo a fare una cosa tutti insieme. Passiamo dalle parole ai fatti perchè i tempi in politica non sono una variabile indipendente, ma sono la politica». Diliberto ha confessato di essere «stufo di assemblee o cantieri che rimangono aperti per anni» dove «puntualmente si invoca l’unità della sinistra». E ha avvertito: «Se si aspetta chi dice ”dateci tempo per maturare una decisione”, il rischio è di marcire».
Un invito chiaro e netto a partire «con chi ci sta» che non riceve, per ora, quel consenso sperato sui tempi ravvicinati. L’indicazione dell’autunno come data per partire viene accolta solo da Paolo Cento che, intervenuto dopo Diliberto, parla di un «orizzonte compatibile» ma avverte che «l’accelerazione deve nascere anche dal basso». Per la Sinistra democratica, è intervenuta Titti Di Salvo che ha detto di essere favorevole a «tempi veloci ma non a far finta che non ci siano problemi da risolvere». «Non amo la Cosa rossa perché chiude e non parla a tanti. Preferisco l’Ulivo di sinistra», ha precisato Di Salvo. Franco Giordano, nel suo intervento, ha glissato sulla data dell’autunno proposta da Diliberto e ha ribadito che il Prc sarà «motore del processo di unificazione».
Il dialogo dei mussiani con la sinistra radicale non piace al leader dello Sdi Enrico Boselli. «Sinistra democratica ha puntato con decisione all’unità dei partiti dell’estrema sinistra che esplicitamente e con forti argomentazioni ideologiche rifiutano la socialdemocrazia europea- spiega boselli-. Ma non può nascere una forza che si ispiri alla socialdemocrazia europea con la piattaforma di Rifondazione». Dunque, dice Boselli, «meglio che con Mussi ci si veda presto per parlarsi con franchezza, da compagno a compagno».

l’Unità 17.6.07
In Germania nasce Die Linke, il partito della sinistra radicale
La nuova forza politica guidata da Lafontaine e Bisky mette in crisi Spd, Cdu e Verdi
di Cinzia Zambrano


LE SINISTRE DEGLI ALTRI In Italia si chiama -o dovrebbe- «Cosa rossa». In Germania al politichese italiano tanto evocativo quanto fumoso, si preferisce la chiarezza. Così alla nuova creatura di sinistra della sinistra nata ieri dalla fusione di Wasg (acronimo di
una sequela di parole che in italiano suonano più o meno come Alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale) e la Linkspartei (erede della Pds, a sua volta erede della Sed, i comunisti dell’ex Rdt) si è dato il nome di Die Linke, la Sinistra appunto. Quella che gli altri, nonostante le apparenze non rappresentano. E per la quale i due padri della nuova forza politica tedesca, l’intramontabile Oskar Lafontaine e il carismatico Lothar Bisky, intendono invece battersi. Ergendosi come minaccia per la Spd, quelli che un tempo erano «compagni», e il loro alleato al governo, i cristiano-democratici di Angela Merkel.
Ci sono voluti due anni, tante discussioni, gestazione non facile, ma alla fine la creatura è nata. Non solo. Ha anche unito sul piano geografico due correnti che si muovevano su territori opposti. Letteralmente. La Linkspartei infatti ha accumulato il suo consenso sulle ceneri del Pc della vecchia Germania dell’est comunista, mentre la Wasg è cresciuta all’ovest, attorno all’enfant terrible Lafontaine, ai dissidenti della Spd e ai sindacalisti insofferenti per i tagli allo stato sociale decisi dal governo di Schröder. A cui, Oskar il Rosso, dopo anni di cammino politico insieme, sbattè la porta in faccia dimettendosi da ministro delle Finanze. «Noi siamo il solo partito che rimette in questione il sistema capitalista», ha tuonato Lafontaine, che -come da copione- ha attaccato duramente la politica della Grosse Koalition. «La maggioranza del parlamento decide sempre contro la maggioranza della popolazione. Noi vogliamo reintrodurre lo stato sociale», e giù applausi.
La fusione dei due movimenti ha fatto dire a Gregor Gysi, eminenza grigia dei postcomunisti, che «Die Linke completa la riunificazione tedesca» 17 anni dopo la caduta del Muro. Alla sua guida, i circa 800 delegati convenuti a Berlino hanno eletto a larghissima maggioranza Lafontaine e Bisky. Che dunque resteranno punto di riferimento, il primo per l’ovest, il secondo per i postcomunisti concentrati in massima parte nei Länder orientali. Alla cerimonia è intervenuto anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti che ha definito Die Linke un «esempio per tutta la sinistra europea».
Sono bastati i primi vagiti del partito della sinistra radicale per far saltare i nervi a tutto lo schieramento politico tedesco. Dalla Spd alla Cdu è stato un rincorrersi frenetico di condanne. Il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd) ha definito il programma di Die Linke «una via sicura verso la povertà». Critiche anche dalla Cdu, l’Unione cristiano democratica alleata della Spd. «Con i comunisti non si può fare alcuna politica», ha detto il premier della Turingia Dieter Althaus. Per il leader liberale Fdp Guido Westerwelle il nuovo partito della sinistra costituisce «una minaccia per la Germania». Claudia Roth dei Verdi ha rinfacciato a Die Linke di non avere un programma credibile: «Non basta chiedere il ritiro delle truppe tedesche dall’Afghanistan».
Reazioni comprensibili, basta guardare i dati di un sondaggio che appare oggi sulla Bild: Die Linke avrebbe un potenziale elettorale in tutto il paese del 24%. Nei Laender orientali ex comunisti arriverebbe addirittura al 44%, all’ovest del paese al 19%.

Corriere della Sera 17.6.07
«Lo avevamo detto» Dalla sinistra radicale torna la critica ai Ds
Giordano: scelte sbagliate dietro quelle manovre


ROMA — Nel maxi-tendone della vecchia Fiera di Roma, dove si svolge il convegno della Sinistra Europa, aleggia un ritornello: «L'avevamo detto due estati fa». Perché ai tempi dei «furbetti del quartierino» gli esponenti di Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi, ma anche dell'allora sinistra diessina, ora Sinistra Democratica, avevano preso le distanze talvolta in modo netto da quella commistione tra politica ed economia. Ma ora, dopo aver letto i verbali delle intercettazioni e ciò che ha detto Stefano Ricucci ai magistrati sulle scalate a Bnl e Antonveneta, quell' «avevamo detto» diventa «lo ridiciamo con forza». Il verde Paolo Cento fa un commento amaro: «Una parte del centrosinistra ha puntato sul mondo della finanza pensando di riuscire a governarlo e invece non ci è riuscito: sono tutti rimasti schiacciati da una macchina ben più esperta di loro in traffici di proprietà e controproprietà. Detto questo, bisogna arrivare presto in Parlamento ad un legge che tuteli ogni cittadino, non solo i politici, di fronte ad intercettazioni di quel tipo ».
Titti Di Salvo, ora nella Sinistra Democratica, viene dai Ds, ma fu tra quelli che già due anni fa criticarono la dirigenza del partito per la «disinvoltura » con cui trattò la faccenda Unipol. Ed oggi è sempre più convinta che «la politica deve svolgere il suo ruolo e l'economia fare la sua parte in modo distinto». Insomma, ad ognuno il suo ruolo «evitando intrecci non trasparenti che indeboliscono la sinistra». Giovanni Russo Spena (Rifondazione Comunista) riflette sul fatto che «si è rovesciata tutta la logica del rapporto tra politica ed economia tanto cara alla sinistra ». Perché «invece di pensare a come redistribuire il reddito si cerca di giungere ai posti di comando».
«Sì — concorda il segretario dello stesso partito, Franco Giordano — due anni fa criticammo con forza l'impianto politico che stava dietro a quelle manovre. E avevamo ragione ». Ci fu «una dura critica», che resta anche oggi. Anche se, fa notare il leader del Prc, «c'è una strana tempistica nella pubblicazione di queste ultime intercettazioni».
Per l'ex diessino Pietro Folena (ora nelle file di Rifondazione) è quasi una confessione: «Allora, due estati fa, ero appena uscito dal partito, ma quando scoppiò il caso Unipol mi convinsi che era necessario pronunciare un giudizio severo per scongiurare quello che a mio avviso era un pericolo». La paura cioè che si snaturasse un pezzo importante della sinistra: «Sotto il profilo del movimento cooperativo che incarnano le coop, si trattava di un'alleanza decisamente spregiudicata. Io credo nel mutualismo e continuerò a crederci». E ancora: «È assolutamente improprio che un partito della sinistra sostenga una scalata finanziaria. So bene che non c'è rilevanza penale nelle intercettazioni che riguardano i miei ex compagni di partito e sono solidale con loro di fronte agli attacchi che hanno subìto. Però, diciamo la verità: le espressioni che hanno usato e che sono state rese note danno la cifra di un cambiamento radicale dei Ds e di tutta una certa sinistra».

Corriere della Sera 17.6.07
La «Cosa rossa»: protagonisti solo se uniti
di R.Zuc.


ROMA — Da Berlino Fausto Bertinotti lancia l'appello: «Saremo protagonisti solo se uniti». E alla Fiera di Roma Rifondazione comunista cerca di raccoglierlo avviandosi a cambiare nome per accogliere tutte quelle realtà che gravitano attorno al partito. Nasce così la sezione italiana della Sinistra Europea. E, nel primo giorno del convegno costitutivo, accorrono le forze politiche più vicine.
Oliviero Diliberto si dichiara stanco di «parole, cantieri e laboratori». E invita i compagni di Prc e Verdi ad «unire la sinistra» una volta per tutte. Sullo sfondo, confessa, c'è lo spauracchio del governo Dini, governo delle «larghe intese» che il segretario del Pdci vede come il fumo negli occhi.
Ci sono però diversi punti di vista.
Interviene dal palco anche Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra Democratica alla Camera, che, pur convinta di percorrere la strada dell'unità, fa presente che per lei, come per tutti i diessini che hanno abbandonato il partito al congresso di Firenze, il socialismo europeo resta il punto di riferimento. Vale a dire a livello internazionale, l'appartenenza al Pse.
Franco Giordano ascolta tutti e alla fine l'obiettivo dell'assemblea: «Vogliamo creare un soggetto pacifista, antiliberista e laico». Poi, entrando nelle scelte politiche di questi giorni, annuncia che il Prc «non accetterà» che venga rinviato l'abbattimento dello scalone delle pensioni e che lotterà con tutte le sue forze per impedire l'ampliamento della base americana di Vicenza: «È alla nostra portata».

Repubblica 17.6.07
"In Turchia le origini degli Etruschi"
Il mistero svelato dal test del Dna. I ricercatori: aveva ragione Erodoto
di Elena Dusi


Analizzata la mappa genetica di centinaia di cittadini della Toscana
Il confronto con gli abitanti dell'antica Lidia ha dato risultati positivi
Mediorientali anche gli antenati della mucca chianina

ROMA - La genetica dà ragione a Erodoto. Gli Etruschi approdarono nella penisola al termine di un viaggio iniziato in Turchia 3mila anni fa. Il punto di partenza è stato fissato nella regione anatolica della Lidia, che si affaccia sull´Egeo. Una tappa probabile è stata l´isola di Lemnos, al largo delle coste greche.
Le analisi del Dna condotte negli ultimi anni lasciano pochi dubbi sul percorso degli Etruschi. L´ultima conferma arriva da uno studio dell´università di Torino su un gruppo di discendenti del popolo che visse tra l´Arno e il Tevere. Alberto Piazza ha raccontato i dettagli del suo studio ieri a Nizza, nel congresso della Società europea di genetica umana. I ricercatori torinesi sono partiti dal Dna di alcuni individui maschi delle città di Volterra (116 persone sottoposte all´analisi), Murlo (86 persone) e della valle del Casentino (61 persone). Tutti i volontari vivevano da almeno tre generazioni nel proprio paese e avevano un cognome tipico della zona. Per quanto possibile, questi criteri servivano ad arruolare solo i discendenti Doc degli Etruschi, escludendo l´influsso delle migrazioni.
Il codice genetico degli "etruschi contemporanei" è stato messo a confronto con quello di 1264 uomini provenienti dalla stessa Toscana, dal Nord Italia, dai Balcani del sud, da Sicilia e Sardegna, da Lemnos e dall´Anatolia. Fra la manciata di geni presi in considerazione per effettuare il confronto, 5 ricorrevano in maniera identica in Turchia e a Lemnos. E 1 tipico degli abitanti di Murlo combaciava perfettamente solo con quello degli anatolici. Molto deboli erano invece le corrispondenze genetiche fra i discendenti dei tirreni e gli altri italiani.
«I campioni di Dna provenienti da Murlo e Volterra - spiega Piazza - sono correlati molto più a quelli dei popoli orientali che non a quelli degli altri abitanti della penisola. La nostra ricerca conferma che Erodoto aveva ragione, e gli Etruschi arrivarono in Italia dall´antica Lidia. Ma per esserne certi al 100 per cento estenderemo le analisi ad altri villaggi della Toscana. Proveremo anche a estrarre del materiale genetico dalle sepolture».
Con i frammenti di Dna provenienti da 30 tombe etrusche si era cimentato tre anni fa Guido Barbujani dell´università di Ferrara. Anche lui concluse che gli Etruschi provenivano dall´Anatolia, o comunque dalle coste orientali del Mediterraneo. Alberto Piazza e i suoi colleghi ad aprile avevano pubblicato sull´American Journal of human genetics un primo studio molto simile all´attuale, arrivando alle stesse conclusioni di oggi. Ma mentre ora i genetisti hanno analizzato frammenti del cromosoma Y (che si trasmette per via maschile), allora utilizzarono 322 volontarie donne, andando a studiare alcune sezioni del Dna mitocondriale (ereditabile solo tra madre e figlia) e confrontandole con quelle di 15mila donne di 55 popolazioni diverse in Europa e Medio Oriente. Sempre all´inizio del 2007 l´università Cattolica di Piacenza aveva esteso il metodo del Dna anche a quattro razze di bovini toscani. Del tutto estranee agli altri esemplari italiani, chianine e compagne mostrarono affinità con le mucche balcaniche, anatoliche e mediorientali. Segno che sulle navi, nonostante la fame imperante, i Tirreni fecero salire anche le loro mandrie.

Corriere della Sera Salute 17.6.07
Il controllo degli psicofarmaci ai bambini
Una nuova proposta di legge: ma forse basterebbe applicare le norme che ci sono
di Riccardo Renzi


Ho letto che è stata presentata una proposta di legge che vieta l'adozione nelle scuole di test psichiatrici, senza il consenso dei genitori. Io faccio l'insegnante in una scuola elementare e sono rimasta sorpresa. Pensavo che questo obbligo ci fosse già...
F.L.( Roma)

Sono d'accordo con lei. Mi sembra infatti che questa proposta di legge (condivisibile nei contenuti) rientri nel costume molto italiano, popolo dalle centomila leggi, di riproporre norme che già ci sono e che (questo casomai è il problema) non vengono rispettate. Ricordiamo che la legge si propone di regolamentare l'uso degli psicofarmaci nei bambini: in Italia sono soltanto tre le specialità indicate. Due di essi (il metilfenidato, cioè il Ritalin, e l'atomoxetina) servono per curare la controversa Adhd (sindrome da iperattività e deficit di attenzione), il terzo, la fluoxetina (il Prozac, per intenderci) è uno dei più diffusi antidepressivi. La proposta di legge raccomanda in questo campo la massima attenzione e controllo da parte delle Regioni, il che ci sembra un semplice richiamo a un dovere. Per quel che riguarda i tre farmaci c'è già una normativa giustamente molto restrittiva: prescrizione soltanto da parte di un neuropsichiatra infantile, la costituzione di un registro Nazionale e il monitoraggio obbligatorio dei piccoli pazienti per l'Adhd, limite sopra gli otto anni e con precise indicazioni di gravità della malattia e sempre in associazione a una psicoterapia per la fluoxetina. La legge infine prevede anche, come lei ricorda, il divieto di sottoporre i bambini nelle scuole a test psichiatrici e a qualsiasi provvedimento terapeutico senza il consenso dei genitori. Sacrosanto: ma sembra anche a me che questo obbligo ci sia già e si chiami «consenso informato». La mia impressione è che questa legge voglia soltanto cavalcare un atteggiamento diffuso dell'opinione pubblica, che considera lo psichiatra una specie di «uomo nero» da tenere lontano dai bambini, con il suo armamentario di pericolosi farmaci. Questo atteggiamento mi sembra comporti un rischio: quello di sottovalutare la malattia psichiatrica, soprattutto la depressione (2 per cento dei bambini e 7 per cento degli adolescenti). Giusto non fidarsi troppo dei farmaci, limitandoli il più possibile e subordinandoli alla psicoterapia, ma attenzione a non «mettere fuori legge» la prevenzione di una malattia grave e diffusa.

Corriere della Sera Roma 17.6.07
Villa Medici In mostra le opere che misero a nudo la Germania di Hitler, ma anche i lavori visionari rifiutati dalla critica americana
Grosz, contro il Reich e il capitalismo
Da Berlino a New York, l'odissea dell'artista che rifiutò nazismo e leggi di mercato
di Giuseppe Di Stefano


Fuggito negli Usa si trovò a fare i conti col potere delle leggi di mercato: il fiasco finanziario della sua arte lo costrinse a diventare insegnante Sofferenze visionarie. Sono tratti duri, angosciosi, sofferti, quelli che caratterizzano molte opere di George Grosz, come l'«Autoritratto con uccello e ratto» del 1940 e la drammatica «Danza dell'uomo grigio» (1949). Ma ci sono anche immagini in apparenza più miti, qual è il «Monte dei pegni», acquerello del '23

«La città era scura, fredda e piena di voci. Le loro strade sono diventate gole selvagge piene di omicidi dolosi e traffico di cocaina, i loro nuovi simboli sono la verga di acciaio e la gamba di una sedia sanguinosa e rotta... Fuori marciava un gruppo di uomini con la camicia bianca, che cantavano ininterrottamente: "Svegliati Germania! Crepate giudei"». Grosz è allibito, attraversato da oscuri presagi alla vista delle «colonne di croci uncinate» che, negli anni precedenti la presa di potere da parte di Hitler, scorrazzano per le strade di Berlino, aggredendo e ferendo. Li detesta, li sfugge. È il 1930. Scrive ancora nel suo diario: «Questa Berlino non mi piace». La osserva, la scruta e fa ricorso a una satira implacabile per denunciarne i vizi, le assurdità, le distorsioni. Nei quadri ad olio, negli acquerelli e nei disegni entrano prepotentemente personaggi nuovi, grassi capitalisti, burocrati dai volti disfatti, militari boriosi. È la Germania che si avvia, cantando e gozzovigliando, verso la guerra, animata da un sogno di potenza che si lascerà dietro, con la fine di Hitler, un numero incredibile di morti e di tragedie. E che offrirà materia dolorosa per le prime opere di un altro tedesco, il futuro Nobel della letteratura, Heinrich Böll.
Grosz mette a nudo, in ridicolo, la Germania del Terzo Reich che, di fatto, privandolo della cittadinanza tedesca, lo costringe nel 1933 ad autoesiliarsi. Se ne va a New York con la famiglia, come tanti intellettuali da Max Beckmann ad Hannah Arendt, ma presto deve fare i conti con una realtà tutt'altro che facile. Scopre il potere che risiede nelle leggi di mercato. «La sua libertà d'espressione - nota Philippe Dagen - non è limitata da alcuna censura politica, ma la sua capacità d'espressione è determinata dal successo o dal fiasco finanziario delle sue opere». E un fiasco è per Grosz è la serie di litografie Interregnum, che viene ignorato dai critici. Il guaio è che gli americani non vogliono saperne di «scheletri e immagini di morte» che attribuiscono alla sua eredità «teutonica». La minaccia, nell'America liberista, è l'indifferenza e la povertà.
Così l'antinazista diventa anche anticapitalista. «La sola legge che regge quello che è il mondo - scrive - è l'ispirazione, l'umore del momento ». Niente commerci, niente affari. Non gli resta che darsi all'insegnamento.
Entro questi due poli contrapposti, ma per certi versi contigui, si pone la mostra «Gorge Grosz. Berlino-New York tra visioni e realtà », curata da Ralph Jentsch, che resterà aperta fino al 15 luglio. Jentsch, direttore della Fondazione che porta il nome dell'artista tedesco, propone un affascinante itinerario con opere per la maggior parte inedite, in particolare quelle realizzate prima del 1920. Compresi i bozzetti di scenografie e costumi eseguiti tra il 1919 e il 1954 per le opere teatrali di Bernard Shaw, Iwan Goll, Georg Kaiser, Paul Zech e altri. In mostra anche i numerosi collages realizzati nel 1959 nello stile della pop-art. Pamphlet tesi alla satira e alla critica sociale da una parte, e opere dedicate al teatro e ai personaggi tragici dei quali propone una lettura d'avanguardia.
Di grande impatto emotivo la «Danza dell'uomo grigio», un uomo-stecchino che, impazzito, esegue la danza dei folli in un mondo sull'orlo della catastrofe. Pennino di bambù, penna, matita e biacca servono all'artista per illustrare la Divina Commedia. E ancora prostitute, ubriachi, maniaci, assassini. Il mondo ricorda un macello, dove si commercia carne umana, gli uomini- maiali di un'incisione del 1926. E poi il nazismo ricorrente: come in una nemesi storica, che fa giustizia dell'Olocausto, ecco un preveggente acquerello del 1940: «Soluzione finale». Hitler, disteso in poltrona, suicida con un colpo di pistola alla tempia. Alle sue spalle una cartina geografica, imbrattata di rosso, dell'Unione Sovietica. Contro i totalitarismi, contro la società degli affari, contro la guerra. Un disegno del 1927 mostra un ammasso di scheletri, teschi di uomini uccisi con un colpo di pistola. Il titolo di questa carneficina si riduce a una domanda inquietante: «Per che cosa?».

«GEORGE GROSZ. BERLIN-NEW YORK TRA VISIONI E REALTÀ», Accademia di Francia, Villa Medici, viale Trinità dei Monti 1

Liberazione 17.6.07
Berlino, Bertinotti saluta la Linke: «Sinistra, l'unità o la scomparsa»
Unità, radicalità: non si tratta stavolta della bussola d'una alleanza, d'una coalizione, d'una politica nei confronti di altre forze democratiche
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Il presidente della Camera dei deputati parla per la Sinistra europea al congresso tedesco
«E' un gran giorno, tutte le sinistre europee né avevano bisogno». Poi: «Lo sento anche in Italia»

Unità, radicalità: non si tratta stavolta della bussola d'una alleanza, d'una coalizione, d'una politica nei confronti di altre forze democratiche. Si tratta della costituzione stessa della sinistra: quella di ora, XXI secolo tra guerra e convivenza, e di qui, Europa tra globalizzazione e alternativa. Sono l'unità e la radicalità che promanano da un evento politico importante, davvero non ordinario, che ieri ha preso forma a Berlino: la costituzione di Die Linke, La Sinistra. E' avvenuto con il congresso di fondazione, che è anche stato quello di fusione tra le due formazioni che alla Linke danno vita: la Pds (partito del socialismo democratico) figlia del travaglio dei comunisti dell'Est dopo la caduta del Muro e del "socialismo reale", e la Wasg, costituita dopo l'uscita di dirigenti socialdemocratici dei Lander occidentali dal corpaccione della Spd. Un evento, appunto: nella politica tedesca anzitutto, dove rappresenta in termini soggettivi la prima vera unificazione Est-Ovest, oltre alla novità della dislocazione d'una forza considerevole a sinistra del post-riformismo segnato dall'era Schroeder e finito in Grande Coalizione con i democristiani della cancelliera Angela Merkel. Ma è un evento anche nel panorama della sinistra europea, in un frangente che generalmente non si direbbe propizio e felice: e lo è anche per quell'esperimento di formazione, rete continentale che "sinistra europea" ha scelto di chiamarsi. Lo è in avanti, oltre.
E' quest'evento che incrocia Fausto Bertinotti, presidente della Camera dei deputati italiana ma anche del partito di Sinistra europea. E che parla nel cuore della sessione d'apertura del congresso costitutivo di Die Linke. Alla vigilia dell'intervento che pronuncerà oggi, a Roma, in quello di Sinistra europea italiana. Il messaggio berlinese di Bertinotti si rivolge, è chiaro, anche all'Italia: proprio perché è rivolto all'intero contesto europeo delle sfide per la sinistra, per i movimenti e per le forze d'alternativa al neoliberismo. All'urgenza dell'unità. Ma è, sopra ogni cosa, la registrazione e l'amplificazione del messaggio che viene dall'evento stesso, dalle voci e dai volti di questa Linke che irrompe come un soffio di speranza nel cuore europeo, in Germania. Un soffio fatto di quelle cose: appunto, la radicalità dei bisogni rivendicati e delle idee propugnate e il fatto politico, concreto e decisivo, dell'unità.
Parla, Bertinotti, subito dopo la trascinante orazione di Oskar Lafontaine, l'uomo e il politico ex-socialdemocratico al cui coraggio politico si deve in molta parte la nascita della Linke, che presiede insieme a Lothar Bisky, intervenuto in apertura. In mezzo, solo una breve pausa di ordinamento dei lavori da parte d'una presidenza formata da giovani e condotta da una ragazza. Bertinotti, che è stato accolto al suo arrivo dall'applauso dei delegati, parla così in anticipo sulla scaletta originariamente prevista: scandisce lentamente il suo saluto e la platea, dispersa dopo le relazioni dei leader, minuto dopo minuto si ricompone e ascolta attenta l'eco europea di questa storia tedesca, che le sue parole testimoniano.
Il Bertinotti che ha parlato ieri a Berlino lo ha fatto, in primo luogo, per raccogliere la novità della costituzione della Linke. «Questo è un grande giorno - dice subito - per tutte le sinistre europee». Un giorno di cui «avevamo un gran bisogno perché quello che attraversiamo è un momento difficile e dobbiamo guardare in faccia a questa difficoltà». E', dopo la dose d'entusiasmo e determinazione offerta da Lafontaine, il richiamo alla coscienza comune d'un rischio incombente, come s'è visto «dalle elezioni politiche in Francia e da quelle in Italia». Quale? «Il rischio è che la sinistra di alternativa sia condannata a una posizione marginale nella politica». Mentre «oggi c'è un grande bisogno di sinistra» anche per un altro e superiore motivo: «Perché senza una sinistra forte il mondo», stretto nella tenaglia «di terrorismo e guerra» e in quella del neoliberismo, «rischia la catastrofe».
Per Bertinotti con la nascita della Linke «si dice all'Europa che la sinistra deve e può diventare protagonista della politica nel nostro tempo attraverso l'unità». E ancora, ai delegati: «Voi rappresentate un esempio per tutta la sinistra europea in quanto preparate le condizioni per un nuovo rapporto tra la politica ed il popolo, tra la sinistra e i movimenti».
Echeggiano le suggestioni venute dall'eloquio di Lafontaine. Bertinotti riprende quella del «laboratario dell'America Latina» evocato dal leader tedesco parlando della «leadership» di Hugo Chavez ma anche, aveva sottolineato, di Evo Morales: «il presidente indio» boliviano importante non solo per la rivendicazione «delle risorse espropriate», ma ancor più «perché insediandosi ha parlato nella sua lingua indigena». Il ragionamento bertinottiano, a sua volta, è che il «socialismo del XXI secolo» appunto «non può prevedere solo la pur necessaria emancipazione economica, ma dev'essere un processo di liberazione complessiva delle donne e degli uomini da ogni sfruttamento e alienazione».
Un omaggio ai segni sparsi nel suo discorso da Lafontaine, con le sue sei citazioni di Rosa Luxembourg accanto non solo a Karl Liebnecht ma anche a Willi Brandt, è pure il singolo riferimento bertinottiano a "Rosa la rossa": «Serve la sinistra per combattere la guerra. Infatti il movimento per la pace ha avuto ragione su tutta la linea, quello della guerra torto su ogni cosa». Più in generale, «il capitalismo ci ruba il futuro» e «solo una sinistra forte ci può aiutare a riconquistarlo». E «abbiamo bisogno di una sinistra forte anche per riprenderci la vita», giacché questo capitalismo non solo «vuole cancellare la storia del movimento operaio» ma, soprattutto, «produce una crisi della coesione sociale, l'impoverimento di strati importanti della popolazione e del potere di acquisto di pensioni e salari, rischiando di condannare la nostra società al precariato, in base ad una precisa scelta politica e sociale volta a costruire un nuovo comando sui lavoratori». E' un capitalismo che «riduce le persone a numeri, colonizza corpi e menti delle persone facendone dei meri mezzi di produzione». Perciò «una nuova sinistra» oggi «deve recuperare la sua grande idea originaria di liberazione».
Per capire quanto poco siano di circostanza queste frasi, quanto invece siano in sintonia con l'uditorio, bastava vederla, la Linke, la Sinistra tedesca a congresso: una platea di ottocento delegate e delegati, in quest'ordine perché moltissime per una volta sono le donne; un corpo plurale di generazioni, ìtanti quarantenni e altrettanti giovani quando non giovanissimi. C'è l'anziano Hans Modrow, c'è Bisky che arringa ricordando «le pratiche di resistenza pacifica sono una nostra tradizione, siamo nati nella giornata del 4 novembre 1989 a Berlino Est», c'è Gregor Gysi che ha concluso il giorno prima l'ultimo congresso della Pds, già Linke-Pds. Ma ci sono anche persone come la delegata della Wasg che dalla tribuna rivendica d'essere, pur se negli "anta", alla prima esperienza di partito. Società civile, sindacalisti, attiviste e attivisti di Attac come delle reti che hanno contestato e assediato in forme democraticamente varie il recentissimo G8 di Heiligendamm. Il disabile che arriva in sedia a rotelle al microfono a gridare la rottura del senso di minorità, elencando tutte le «minoranze» che, in fin dei conti, «insieme sono nient'altro che la società». Ecologisti come lo stesso responsabile per la pace dei Verdi, che siede nei posti d'onore in polemica con l'onda lunga delle scelte di Joska Fischer. Deputati socialdemocratici che seguono ora l'esodo attivo della Wasg proprio nel salto all'unità d'un nuovo soggetto. E poi, Lafontaine: che mostra come tutto questo possa vibrare e far vibrare nelle parole di un signore di 64 anni, capace d'ascoltare e di dar voce.
Bertinotti, incalzato all'uscita dagli inviati dei media italiani, non elude il tema della lezione che viene per casa nostra: «Ogni paese ha la sua storia ma l'esigenza di una sinistra di alternativa e di fare presto anche in Italia, è una esigenza che sento molto forte». Quanto a riferirsi ad una formula-guida, una risposta che vale per molto altro: «Per fortuna, anche attraverso una storia tanto travagliata, ci siamo liberati dei modelli. E sarà bene non ripercorrere più questa strada». Ma, in Italia, se «il coraggio non credo difetti ai gruppi dirigenti interessati», pure «quello che davvero conta più di tutto è la consapevolezza della sfida: se pensi che se non raggiungi l'obiettivo scompari dalla scena, alla fine trovi la forza».

Liberazione 17.6.07
Al Palafiera a Roma è iniziata la prima assemblea nazionale
Nasce Sinistra europea, è unitaria e radicale
di Stefano Bocconetti


A Roma prende il via la fase costituente. Oggi parla Fausto Bertinotti
Un confronto a più voci sul futuro di tutta la sinistra: «L'unità un obbiettivo irreversibile»

Nasce. Nasce molto radicale. Con un linguaggio immediato, diretto. Che da molto tempo era sconosciuto alle cronache politiche. Nasce anche con le parole di Franco Giordano. Che annuncia la "disobbedienza civile" alla costruzione del cantiere del Dal Molin. Lui, e tanti altri con lui andranno a Vicenza, si siederanno a terra proprio davanti a quel terreno spianato e cercheranno di impedire la costruzione della nuova base Nato. Quella voluta da Berlusconi e avallata da Prodi. Nasce radicale, ma nasce anche unitaria. Se don Tonino Dall'Olio dice, citado Giovanni XXIII: «Non mi interessa tanto sapere se le nostre storie passate possono avere punti di contatto. Mi interessa sapere che siamo in grado di progettare insieme una strada comune». Nasce radicale, unitaria e plurale. Se Bianca Pomeranzi, storica femminista, o Andrea Maccarone, del comitato promotore del Gay Pride - quello che sta per cominciare a due passi da qui - chiedono di fare i conti una volta per tutte con il "secolo breve". Col '900. Per affermare che non esiste una "scala" di priorità, una graduatoria nelle contraddizioni: prima vengono le questioni sociali, poi il tema dei diritti. Dei diritti collettivi ed individuali. Che è stata la cultura, la vecchia cultura che ha portato alla sconfitta il movimento operaio nel secolo scorso. Nasce radicale, unitario, plurale. Nasce europea: «L'unica dimensione che possa dare un senso alle battaglie, a cominciare da quella per la pace», per usare ancora le parole di Giordano. E nasce oggi. Davanti a contrasti che la sinistra, una sinistra più interessata al proprio orticello, ai "propri simboli", non è stata fino ad ora in grado di capire. Conntrasti, come quelli di cui parla Arturo Di Corinto, esponente di Net Left, che racconta come l'esproprio del liberismo, in un modo occidentale dove la ciminiera è stata sostituita dalla produzione dei beni immateriali, cominci con l'esproprio della conoscenza. Con la riduzione dei saperi collettivi dentro la prigione dei copyright.
La Sinistra Europea, la Sinistra Europea in Italia nasce così. Con l'assemblea al Palafiera di Roma, che ha dato "ufficialmente" il via alla fase costituente del nuovo soggetto della sinistra d'alternativa. Nasce con una due giorni di dibattito che si concluderà stamane, quando prenderà la parola, fra gli altri, anche Fausto Bertinotti. Reduce dal congresso di Berlino della "die Linke", la "sezione tedesca" della Sinistra europea.
Nasce così, con decine di interventi. Con un confronto che ha riguardato l'intera sinistra: da quella "politica" - c'erano e hanno parlato Diliberto, Paolo Cento e Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra democratica alla Camera - a quella "sociale", con le parole - le importanti parole - di Gianni Rinaldini, segretario Fiom, o con quelle di Paolo Beni, Presidente dell'Arci. Ma l'atto di nascita di un "soggetto politico" - non si possono usare sinonimi, non si può parlare di partito perché Sinistra Europea avrà una struttura confederale, un po' come quella della Cgil per capire -, l'atto di nascita, si diceva, non può essere fatto solo di discorsi. Di progetti. E' fatto di tante altre cose.
Una, in particolare. Perché mai come in questo periodo, tanti convegni sono pieni di frasi sul "rinnovamento della politica". Sui nuovi modi di fare politica che, naturalmente, sono l'antidoto all'"antipolitica". Discorsi riecheggiati anche qui. Solo che in questa sala, quel nuovo "modo", hanno cominciato a sperimentarlo. Ed è una novità percepibile immediatamente, quasi visivamente. Al Palafiera si sono parlati politica e movimenti, partiti e sociale. Tutti sullo stesso piano. I leader delle formazioni politiche, i dirigenti e i deputati di Rifondazione, così come le associazioni di base, i delegati dei movimenti. Da quelli che si battono contro gli inceneritori a quelli che occupano le case. Al movimento per la pace. Tutti hanno avuto a disposizione sette minuti e mezzo. Non un secondo di più. Non una deroga, per nessuno.
Su nessun argomento. Nè quando Massimiliano Smeriglio introduce i lavori, parlando di "filosofia". E raccontando che nella sua città, Roma, si è già messo in piedi un laboratorio che prova a disegnare un'altra cultura della sinistra. Dove ci sia il «noi e il voi, ma anche il tu e l'io». Che consideri inscindidibili insomma le battaglie sociali con quelle per rispondere ai nuovi bisogni. Individuali. Nessuna deroga neanche per Titti De Simone che annuncia da domani la battaglia parlamentare per una nuova stagione dei diritti civili, o per Walter De Cesaris. Sette minuti anche per lui, che pure - gliel'hanno riconosciuto tutti, a cominciare da Alessandro Cardulli che ha fatto gli onori di casa - è stato il "pacato ma tenace" organizzatore di questa assemblea. E così anche De Cesaris deve sintetizzare: raccontando che Sinistra europea è nata per «connettere culture politiche differenti», che vogliono «rimanere differenti». E sette minuti anche per Giordano. Il cui intervento - lo dicono un po' tutti gli osservatori - è sembrato un punto di svolta nel rapporto con la maggioranza: «Non tollereremo nulla di meno che l'abolizione dello scalone, non accetteremo la costruzione della base a Vicenza, non restereno a guardare se il governo continuerà ad ignorare le esigenze delle comunità locali».
Gli stessi minuti, per dirne una, che spetteranno a quella ragazza di Piacenza. Che dal palco fa semplicemente un racconto. Il racconto del perché è qui. Una brevissima storia che comincia due mesi fa, quando nel suo paese il Comune decise di costruire un inceneritore. Le persone, la sua comunità, si mobilitano. E in quella battaglia - vittoriosa, perché l'inceneritore è stato bloccato - incontra il "nodo" ambientalista della Sinistra europea. O per dirna un'altra, lo stesso tempo che tocca a Nunzio D'Erme, di Action. Che in perfetta lingua romana urla: « Datece li sordi ». Che forse è la traduzione della parola d'ordine - "redistribuzione" delle ricchezze - che accumuna tutta l'assemblea.
Si potrebbe proseguire così a lungo. Perché l'incontro al Palafiera è stato uno scambio, un incontro di esperienze. E' stato "anche" uno scambio di esperienze. Ma c'è stato qualcos'altro. Sotteso ad un'unica domanda: ma la Sinistra europea in Italia sarà d'aiuto o no all'unità della sinistra? Servirà a costruire il nuovo soggetto che comprenda tutta intera la sinistra? Le risposte. Netta quella di Giordano: l'unità delle sinistre è un processo irreversibile, e Sinistra europea ne vuole essere «il motore». Netta anche quella di De Cesaris: Sinistra europea «è un punto di partenza». Che magari sembra un po' diversa da quella di Smeriglio che dalla tribuna scandisce che «Sinistra europea non è a tempo». Che a sua volta sembra ancora un po' diversa da quella di Titti De Simone. Convinta, con una punta di orgoglio, che se si è arrivati fin qui «molto lo si deve all'esperienza, al coraggio innovatore di Rifondazione». Un patrimonio che non può essere disperso.
Al Palafiera si discute così. Ma che quella sia la strada, quella che porta all'unità della sinistra, nessuno lo mette in dubbio. Unità che non può nascere da un patto fra stati maggiori, che deve essere imposta dal basso. E qui è riecheggiata, sia nel discorso di Giordano che in quello di Paolo Cento, l'idea di dieci assemblee da fare in città diverse. In autunno. Dove il «popolo della sinistra» faccia sentire la sua voce. Ma comunque verso quell'obiettivo si va.
La riprova, anche nella giornata di ieri. Quando Diliberto - concedendo qualcosa alla platea, con un pizzico di demagogia, insomma - ha detto che «non ne può più di cantieri» e formule varie ma che quell'unità bisogna farla. Subito. O come quando Titti Di Salvo ha spiegato che Sinistra democratica nasce proprio per questo: per riorganizzare la sinistra. Anche se non si nasconde le difficoltà. Ma forse, l'intervento più importante di tutti l'ha fatto Gianni Rinaldini. Non s'è nascosto nulla: «Siamo messi proprio male», ha esordito. Per raccontare che c'è il rischio che la sinistra - meglio: il tema del lavoro che la sinistra incarna - sia semplicemente tagliato fuori dalla politica. In Italia e in Europa. E se questa è la dimensione del problema, non basta l'«unità di azione» fra i gruppi parlamentari che pure è importante. Ci vuole di più. Lui chiede di più: chiede che si cominci a ridiscutere, tutti insieme, i tratti di una sinistra del terzo millennio. Di una sinistra. Una sola, senza altri aggettivi. Lui lancia il sasso. Paolo Beni, dell'Arci, magari sarà un po' più cauto: dirà che lui guarda a tutti gli spazi comuni che si offrono alla sinistra. Qualcuno si spinge più in là, altri meno. Ma comunque, la strada è tracciata.

Liberazione 17.6.07
Unità a sinistra, Giordano:: «Processo irreversibile»
All'assemblea della SE, leader politici, esponenti di associazioni e movimenti discutono del futuro della sinistra: «Fare presto, ricostruire il rapporto con la società». Rinaldini: diamoci «valori universali»
di Romina Velchi


La situazione è «terribile», dice Emilio Molinari (Contratto mondiale dell'acqua); addirittura «catastrofica», rincara Nunzio D'Erme (Network dei movimenti); di sicuro «siamo messi male» concorda Gianni Rinaldini (segretario della Fiom). Ma la via d'uscita c'è ed è a portata di mano. Non è la Sinistra europea - che muove adesso i primi passi - ma passa per la Sinistra europea, pensata come strumento per ricostruire «una soggettività unitaria», da mettere a «disposizione di tutte le sinistre» (Giordano). Sennò perché tenere, all'assemblea costitutiva della SE, una tavola rotonda su "Il futuro della sinistra"? Ancora una volta in "avanscoperta", la SE prova a battere una strada inedita, mettendo a confronto culture e soggettività diverse, qualche volta persino contrastanti. Solo che questa volta l'obiettivo sembra più chiaro e condiviso: andare verso una nuova sinistra unita. Non come una «scorciatoia dalle nostre difficoltà» (dirà poi il segretario del Prc), ma perché alla crisi della rappresentanza (che poi è anche della democrazia, lo ripeteranno un po' tutti gli interventi) «si deve dare una risposta o saremo spazzati via».
L'urgenza, dunque, è questa: andare avanti, subito; magari procedendo per tentativi ed errori, ma andare avanti. Lo dice esplicitamente Oliviero Diliberto: «Chiudiamo la fase convegnistica e passiamo dalle parole ai fatti». E propone che «entro l'autunno» si faccia «qualcosa tutti insieme, chi ci sta ci sta». E poiché anche la forma è sostanza, il segretario del Pdci propone novità nelle «forme» della politica, per esempio introducendo nel nuovo soggetto unitario «criteri di temporaneità e rotazione delle cariche, istituzionali e di partito. A cominciare da me».
Eccolo il tema del rapporto con la società, del legame sempre più fievole tra il Palazzo e i cittadini, della burocrazia politica, delle stesse facce di sempre però non più credibili. E' vero che il dibattito sulla crisi della politica è diventato «stucchevole», come osserva Paolo Beni. Ma è anche vero che la crisi c'è e nasce dalla «precarietà, dall'insicurezza, dalla sfiducia». Chi lo sa meglio dei movimenti? «Hanno prodotto saperi, sono un patrimonio prezioso per la politica». «Noi ci siamo», tende la mano il presidente dell'Arci; ma dateci degli «spazi per il confronto», dove si possa dare un «contributo autonomo». Che poi è quello che chiede - sebbene con accenti assai diversi - D'Erme: «Il vero cantiere sono i movimenti»; voi decidete «qual è il punto di non ritorno» ed evitate una «sommatoria di ceti politici». «Dove sta la gente? - chiede polemicamente - Se la casa della sinistra è quella di Piazza del Popolo stiamo freschi».
La gente la trovi se affronti le questioni concrete («A tutti i D'Alema italiani chiediamo: dì qualcosa di concreto», esorta Tonio Dell'Olio di "Libera"). Per esempio, se vai a Vicenza, una città «in lutto» dice Paola Lovison (Comitati No Dal Molin). Quel movimento, dice, ci parla di questioni non da poco: partecipazione e democrazia, pace e guerra. «Chi comanda in Italia? Siamo una colonia? E la sinistra dov'è? Che fa? - scuote la platea - Sta a voi fare della nostra battaglia la vostra battaglia». «Su Vicenza la frattura non è sanata» e non «vale il richiamo alla responsabilità di governo», raccoglie il testimone Paolo Cento (Verdi), il quale pensa ad una sinistra «arcobaleno», che abbia «capacità di incidere sulle scelte», che sappia «valorizzare il conflitto» e costruire rapporti «non gerarchici» tra la politica e la società. Concetti sui quali insiste anche Vittorio Agnoletto («L'unità della sinistra la sperimenteremo a Vicenza o sulla legge 30»), il quale mette anche l'accento su quell'aggettivo, "europea": «Non è casuale, vogliamo fare dell'Europa uno spazio di libertà» e di relazioni paritarie nel mondo. Mentre Pietro Folena (che invita a «fare presto») propone le case della sinistra come «luoghi nuovi», veicolo per una «sinistra popolare, semplice, che affronta le questioni elementari». A patto che tutti facciano un «atto di umiltà, di generosità» e nessuno sventoli «bandiere identitarie».
E se Titti Di Salvo, capogruppo di Sd alla Camera, invita a non sottovalutare il fatto che al confronto sulle pensioni «ci siamo arrivati con una posizione comune e non era scontato», Gianni Rinaldini avverte che dal confronto con il governo non può uscire un «peggioramento nelle condizioni dei lavoratori», pena una frattura «insanabile». Perciò alla sinistra "unita" chiede qualcosa di più di una «posizione comune». Chiede «idee» nuove, valori che siano «universali» (anche se Ersilia Salvato, pur invitando a «ragionare sul socialismo del XXI secolo», propone di non sottovalutare le conquiste del 900), perché «se c'è un futuro è per una sinistra con radici di massa». Perciò subito un «patto di unità di azione», ma anche via ad un «laboratorio» per la «rielaborazione di che cosa significa essere sinistra oggi». Che poi è l'interrogativo posto in apertura del dibattito da Piero Sansonetti: «Ci può essere una Sinistra europea che non sia capace di trovare la connessione tra le tre grandi esperienze del movimento operaio, del femminismo e della nonviolenza?». La risposta è già contenuta nel modo stesso in cui nasce la SE: con un dibattito in cui i primi a prendere la parola sono esponenti delle associazioni e dei movimenti e la cui assemblea fondativa ha la parità assoluta tra delegati e delegate. Il che certo non basta, sottolineano Bianca Pomeranzi (Rete femminista) e Angela Azzaro ( Liberazione ) se la politica non trasforma le proprie categorie e non fa vivere le differenze: «Non siamo un fiore all'occhiello da esibire».
Pur con tutti i distinguo e le incertezze, avverte in conclusione Giordano, «il processo unitario è irreversibile e decisivo». Decisivo per l'oggi perché dobbiamo essere efficaci nell'azione politica (ed essere uniti aiuta): il governo è «un mezzo» e «non rinunceremo all'abolizione dello scalone, sulla Tav non potrà esserci alcun accordo che non sia condiviso dalla popolazione, il Dal Molin possiamo impedirlo». Decisivo per il futuro: l'Europa deve «battere un colpo» e noi dobbiamo saper proporre una «alternativa di società». Ma non ce la faremo se saremo percepiti come «tecnocratici e elitari». Per questo siamo pronti a «innovare la nostra pratica politica» (mettendo per esempio al centro la democrazia di genere), senza però rinnegare nulla del bagaglio culturale del Prc. «Si parla tanto della crisi di Rifondazione. Ebbene, voglio dirlo: senza di noi questo processo non sarebbe stato possibile».

Liberazione 17.6.07
Non è come nel '98: ora siamo noi la maggioranza dell'Unione
di Francesco Ferrara


Alcune parole chiare sulla attualità stringente.
La necessità di una sinistra unita subito, si deve alimentare da un dibattito vero sui fondamenti di quello che chiamiamo socialismo del XXI secolo. Al tempo stesso, occorre trovare anche le forme unitarie in cui tale rapporto si concretizza e trova espressione fin dentro le rappresentanze istituzionali. Questo processo è fondamentale. Noi, non siamo a rimorchio: ne siamo stati i promotori. Non è un vanto, è un fatto. La prima riunione dei segretari dei partiti che ha dato il via a questo percorso è stata promossa da Franco Giordano.
Allo stesso tempo, dobbiamo avere la consapevolezza precisa che, se non si passa su alcune questioni di fondo che riguardano il crocevia difficile dello scontro sociale e politico, tutto il processo unitario diviene vuota tattica, politicismo allo stato puro, il tentativo di sopperire alla sconfitta sociale con la chiusura nella cittadella della politica.
Questo è il punto. Per dirla con una immagine: la sinistra unita deve affrontare i tornanti pericolosi di questa strettoia. Se li supera e li supera assieme può sperare di accumulare forza per il rettilineo della volata, altrimenti va fuori pista.
Le cose vanno, quindi dette per quelle che sono.
Il Ministro Damiano ha detto che ci sono 2 miliardi e mezzo di euro per interventi di redistribuzione sociale. Chi e quando lo ha deciso ? Questa posizione è la replica di quella del Ministro Padoa Schioppa ma non è la nostra posizione, quella di una parte decisiva della maggioranza e del governo e non era, neanche, la posizione che Prodi aveva espresso.
Allora, prima ancora di vedere cosa si fa con quei soldi, va detto che non accettiamo che al risarcimento sociale rimanga il residuo dopo aver accontentato i tecnocrati di Bruxelles e la Confindustria. Quando nella finanziaria, si è trattato del cuneo fiscale, 6 miliardi di euro, il tema del risanamento del debito non c'era. Oggi c'è perché tocca ai lavoratori. Non possiamo accettarlo.
Il governo ha detto che non vi sono le risorse per abolire lo scalone e ha avanzato una proposta per reperire i fondi, fatta apposta per essere rifiutata dai sindacati. Sembra assomigliare al gioco delle tre carte. Alla fine, ci si prepara a sostituire lo scalone con gli scalini ? Va detto chiaro e tondo che non ci va bene. Né ora, né domani.
Ugualmente, si tratta di intervenire con decisione su alcune questioni di fondo e che chiamano in causa le ragioni dei più grandi movimenti di lotta che hanno attraversato il nostro Paese in questi anni.
La moratoria sulle privatizzazioni dell'acqua varata alla Camera, è un impegno collettivo della maggioranza. Non la si può toccare perché non piace alla Confindustria e a qualcuno del governo.
Sulla base di Vicenza, la decisione di Prodi non ci impegna perché non l'abbiamo né mai condivisa, né mai concordata. Il governo non parla in nostro nome e, quindi, su questo tema noi ci riteniamo liberi di contestare fino in fondo, fino alle conseguenze necessarie, questa scelta. Per noi, vale il metodo del dialogo e della trattativa con le popolazioni. Vale per la Tav e vale per Vicenza.
Non voglio eludere un punto. Si dirà: state tornando a "svolta o rottura" del 1998?
La questione è tutta differente. E' il Partito democratico che sta destabilizzando l'Unione e sta rompendo il patto del programma, proponendone una versione tutta moderata e appiattita sui poteri forti.
Per questo, dobbiamo oggi aprire un vero conflitto che rompa il logoramento che stiamo vivendo e ponga il tema di un rilancio del profilo riformatore.
Tutta un'altra storia rispetto al 1998. Non è lo scontro tra Rifondazione Comunista e l'Ulivo. E' in gioco il rapporto tra l'Unione e il suo popolo. Noi pensiamo di essere la maggioranza: l'Unione materiale, ovvero il complesso delle forze sociali e democratiche del Paese, condivide l'esigenza al cambiamento che noi poniamo. Il popolo dell'Unione vuole questo cambiamento.
E, alla fine ? Alla fine, trarremo le conseguenze sulla base dell'esito di questo scontro. L'espressione "tirare la corda ma non spezzarla mai" l'abbiamo sconfitta già da oltre dieci anni. Non la riproponiamo oggi. Quando fai un conflitto, lo fai fino in fondo. E' come in una grande vertenza: scioperi, fai manifestazioni, tratti.. Alla fine trai il bilancio. Il bilancio lo si fa tutti assieme e non nel chiuso dei gruppi dirigenti. Neanche quelli legittimi degli organismi di partito. Qui sta l'idea di una grande consultazione di massa.
Su Rifondazione, volano corvi e becchini che ci vorrebbero seppelliti senza neanche farci il funerale.
Revelli parla del suicidio di Rifondazione e lo mette in relazione con la deriva dei Ds. No. Non ci siamo proprio. Noi, lo abbiamo riconosciuto, il 9 giugno abbiamo fatto un errore di valutazione. Non si tratta di un errore che deriva da una scelta strategica. Noi abbiamo cercato fino alla fine di svolgere una manifestazione unitaria. Forse dovevamo decidere di parteciparvi unilateralmente. Anzi, sicuramente. Ma non si possono scambiare lucciole per lanterne e confondere un episodio con una strategia. Siamo stati a Vicenza e vi torneremo. Siamo con il movimento per l'acqua. Siamo con i popoli della Val Susa. Siamo con i lavoratori.
Il fatto è che questi nostri "amici" in realtà hanno in odio l'anomalia di Rifondazione Comunista. Sono l'omologo speculare di D'Alema. Questo ultimo ci dice che dobbiamo stare al governo contro i movimenti. L'altro ci dice che, in quanto stiamo al governo, non possiamo stare con i movimenti. In realtà, staremo con i movimenti, oggi e domani. Al governo ci siamo oggi per far incidere i movimenti nelle scelte. Domani, vedremo. Il governo non è il fine della nostra politica. Il fine della nostra politica è la trasformazione della società
Con buona pace di corvi e becchini, dimostreremo che l'anomalia di Rifondazione Comunista non è in vendita e non è merce disponibile nel mercato della politica.
Abbiamo sempre riconoscituto che Rifondazione da sola non basta. Per questo facciamo la sinistra europea, come spazio comune di appartenenza. Per questo, ci apriamo al rapporto a sinistra per costruire la forza d'urto necessaria in questa fase.
Insomma, il futuro è ancora nelle nostre mani.

Liberazione 17.6.07
Germania, una nazione che ritrova l'unità socialista
di Paola Giaculli


Con la sinistra della Linke si fondono le due anime del paese a 17 anni dalla
riunificazione tedesca seguita al crollo del regime della Germania dell'Est, la Ddr

Cade il muro. La Germania vive la sua prima vera riunificazione. Con la sinistra della Linke si fondono le due anime del paese a 17 anni dalla riunificazione tedesca seguita al crollo del regime della Germania dell'Est, la Ddr. Sono le anime rappresentate dal partito della ex Pds e della ex Wasg, che hanno compiuto un atto di valore culturale e politico fondamentale. Dopo la riunificazione, la Germania non ha cessato di essere divisa: da un lato i "vincenti", i tedeschi occidentali, dall'altra i "perdenti", i cittadini di serie B, i tedeschi orientali, prima vittime della dittatura del socialismo reale con l'annientamento dei diritti civili e poi della distruzione totale della struttura pubblica, delle privatizzazioni, della cancellazione dei diritti sociali. E' la Pds a farsi carico, con grande coraggio e determinazione, della ricostruzione e del rinnovamento democratico del partito: perché d'ora in poi il socialismo o è democratico o non è. "Veterocomunisti", "ex partito di regime", i "rossi": il disprezzo usato nei confronti dei "perdenti" alimenta il complesso di inferiorità di chi ha la sorte di essere nato "di là", di chi si ostina, a partire dagli errori del passato, a dare una prospettiva alla solidarietà sociale nella democrazia.
C'è come una macchia originale, che sembra onnipresente nella storia tedesca: prima con il nazismo, e quindi la riconferma a ovest, sotto i governi del democristiano Adenauer, di ex quadri nazisti alle leve della giustizia e dell'istruzione pubblica o addirittura nella politica, con la rimozione della memoria durata circa 40 anni. La macchia, anche se sembra indelebile, comincia a sbiadirsi da una parte con la ribellione dei giovani del '68 contro l'autoritarismo, il silenzio colpevole dei genitori sul nazismo, e dall'altra, con lo scatto autonomo l'Ost-Politik, la politica dell'avvicinamento all'est, perseguita dal socialdemocratico Willy Brandt, meritato premio Nobel per la pace, che apre piccoli varchi nel muro. Chi lo vuole scavalcare da est rischia e, tante volte perde la vita: tragica esemplificazione del fallimento del socialismo reale con le carceri politiche, la Stasi, la sicurezza di stato. Eppure il popolo della Ddr ha provato ad emanciparsi dai soprusi.Era quello che sosteneva il grande movimento degli anni 80, che invade Alexanderplatz, con il milione del 4 novembre 1989. Cinque giorni dopo il muro sarebbe crollato sotto il peso della protesta.
Dalle macerie del socialismo reale rinasce la speranza con la Pds che cerca affannosamente di affermarsi a ovest, ma il cancelliere democristiano Helmut Kohl, con la riunificazione-annesione dell'est compiuta a tappe forzate nel 1990, irride il partito dei "rote Socken", dei calzini rossi, e con esso una parte consistente di popolo. Stavolta sì che la Germania dell'ovest indaga, "epura" i tribunali, le scuole, le università, licenziando insegnanti, ricercatori. Aver lavorato a est non conta: anche le pensioni valgono tuttora meno che a ovest. Ancor oggi a est si guadagna, a parità di occupazione, dal 20 al 40% in meno che a ovest. Puniti per aver vissuto nel regime, o per essere nati da genitori che vi hanno vissuto. Dice giustamente Gysi: «Si è parlato delle élites, dei funzionari di regime, ma chi ha pensato ai milioni di persone che erano il popolo della Ddr?» E se il regime era illiberale, che dire delle conquiste sociali, dell'istruzione e della sanità garantite a vita, degli asili nido per tutti i bambini, dell'emancipazione delle donne? E come puntare il dito anche contro la cultura in toto di quel paese, se nella Ddr, decideva di rimanere una grande intellettuale e scrittrice critica come Christa Wolf? E lei non è che un autorevole esempio. Ma si era agli anni 90, quelli delle magnifiche e progressive sorti della globalizzazione capitalistica. E allora l'annessione del cancelliere Kohl azzera tutto, svende tutto ed esporta tutto. Anche i partiti si impiantano a est. Una colonizzazione generalizzata dell'ovest sull'est. Solo la Pds ha qui vita e radici proprie.
Ora la vita degli "altri", cessa di essere confinata a est e irrompe nella politica nazionale, con uno scatto di maturità: nel momento in cui nasce la sinistra unita della Linke, il popolo della Pds si emancipa dal complesso di inferiorità indotto da ovest. Può ben farlo, il travaglio per il socialismo democratico è durato ben 17 anni e la Pds ha superato ampiamente la prova. Altrimenti a che sarebbe servito riflettere sugli errori del passato e ripudiare lo stalinismo, se non per guardare ad una società pacifica di eguali, di solidarietà e di giustizia sociale? Questo è il pesante bagaglio e dote che la Pds porta con sé in questa unione con la Wasg, il partito dell'ovest, di sindacalisti e ex socialdemocratici che hanno rotto con la Spd, perché questa, con la guerra e la spietatezza sociale del neoliberismo, ha rotto con il suo popolo. Dalle speranze deluse dalla Spd a ovest, dal socialismo reale prima e dalla riunificazione poi, a est, riprende il cammino di una sinistra che guarda a Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Willi Brandt, come dice il neo co-presidente della Linke Oskar Lafontaine, ex presidente della Spd. Si riprendono le grandi tradizioni della sinistra tedesca in un'operazione culturale che contamina e unisce, finalmente, la politica, la cultura e il paese stesso. Da una parte la cultura socialdemocratica, pacifista ed ecologista tradita da Spd e Verdi, dall'altra il socialismo democratico: entrambe vengono sussunte nel grande soggetto unitario.
Ma l'evento storico c'è tutto: ora si riunisce e si riconcilia con se stesso e la propria storia un popolo intero. Lothar Bisky, l'autorevole intellettuale, prima leader della Pds, da ieri da co-presidente della Linke, che ha voluto con tutte le sua forze, cita Rosa Luxemburg, con la sua «dannata voglia di essere felice: sono pronta giorno dopo giorno a lottare con testardaggine per la mia piccola porzione di felicità».

Liberazione 17.6.07
Cuba, Venezuela, "Liberazione" e la verità
Criticare quegli articoli non è un attacco alla libertà di espressione
di Mercedes Frias *


Caro direttore,
cosa volete dimostrare? Dove volete arrivare?
Avete deciso di raccontarci la verità su Cuba, sul Venezuela e poi chissà quale sarà il prossimo bersaglio. La verità, quale verità? Verità di chi? Qualcuno ci ha spiegato come davanti ad un muro rosa con un minuscolo punto grigio si può decidere di vedere il punto grigio. E questo presunto punto grigio per te, e per quella che hai chiamato «una delle giornaliste più brave della nostra redazione, e anche una delle più acute e informate osservatrici dell'America latina», è la verità.
Angela Nocioni, ridicolizzando Chavez e Venezuela, con tono offensivo, ci descrive una sorta di tiranno pittoresco, ma io mi domando, dov'era l'acuta osservatrice quando Azione Democratica e Copei giocavano a ping pong con il potere in una perfetta alternanza? C'era la democrazia? Sì, perché per questi acuti osservatori la democrazia si sostanzia nelle elezioni, non importa di chi, non importa come, non importa cosa si faccia. Rafael Calderas, Carlos Andrés Perez, Luis Herrera Campins, e compagnia, in quel balletto ineffabile delle democrazie di vetrina caratteristiche dell'America Latina, loro sì, formavano delle squadre, partecipatissime, che arrivavano sempre a fine mandato, fino al turno seguente. Peccato che questi giganti della democrazia tenessero di più alla riproduzione del potere delle oligarchie locali, alla difesa dei grandi interessi transnazionali, che all'alimentazione, alla salute, all'istruzione del popolo venezuelano.
L'analisi della brava giornalista raggiunge l'inverosimile quando fa riferimento al mancato rinnovo per altri venti anni della concessione televisiva alla famiglia che da cinquant'anni l'occupava. E mi fermo qua per quanto riguarda il merito.
Mi sfugge il senso di un attacco così sistematico all'unico paese che ha saputo tenere la testa alta sfidando fino allo sfinimento il potere imperiale Usa.
Mi sfugge il senso di questo accanimento nei confronti dei paesi che finalmente cominciano ad alzarsi, tenuti per mano. Certo, tenuti per mano. Forse la nostra esperta non sa come sono entrati nella storia ufficiale questi paesi, forse non sa che sono nati in catene, che il loro ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale era quello di fornitori di prodotti, spesso da dessert, per soddisfare bisogni altrui. Forse non sa che le indipendenze conquistate nell'800 non hanno significato autonomia per nessuno di questi paesi e che semplicemente cambiavano padrone, attraverso l'asservimento delle classi politiche nazionali. Non sa che tutte le ricette per lo "sviluppo", a partire della seconda metà del '900, altro non erano che delle strategie per il controllo delle risorse e la perpetuazione della dipendenza: riforma agraria, rivoluzione verde, zone franche industriali, ecc. L'esperta ignora che ogni tipo di scambio commerciale avveniva (… grazie anche a Chavez si può cominciare a parlare al passato), esclusivamente o al limite prioritariamente, con gli Stati Uniti, e che i rapporti fra paesi dell'area erano pressoché nulli. Quel cucciolo di dittatore che lei dal suo piedistallo ha descritto, non soltanto ha avviato una politica di redistribuzione delle risorse, di nazionalizzazione delle ricchezze del paese, ma sta eseguendo azioni concrete di interscambio fra i paesi della regione, e per la prima volta si apre una crepa nel consolidato monopolio statunitense di relazione con ogni paese del "cortile posteriore di casa". Sarà roba di poco conto, per chi, come Angela Nocioni, di democrazia se ne intende, ma Chavez è stato il propulsore di questa esperienza inedita di rafforzamento politico collettivo, che rende meno vulnerabili i singoli paesi nei confronti del gigante del nord, imponendo di fatto una ridefinizione dei rapporti. Non so se lei capisce cosa significa la prospettiva di abbandonare la posizione genuflessa.
Questa enfasi sulla democrazia nominale mi ricorda una canzone dei Los Guaraguaos (gruppo venezuelano di musica di protesta degli anni '70): «non ti far ingannare quando ti parlano di progresso, perché tu rimani magro e loro aumentano di peso». Il progresso era la parola d'ordine degli anni '60-'70, tanto che Kennedy fondò la "alianza para el progresso". Il progresso ieri, come la democrazia di oggi alla Bush.
Ne sappiamo di democrazia di facciata da quelle parti. Infatti, nel 1983 è stato "derrocado" Maurice Bishop in Granada, perché non era abbastanza digeribile, e nel 1990, in nome dei nobili principi come quelli che ispirano le critiche dell'esperta, i sandinisti hanno dovuto cedere il passo alla democraticissima Violeta Chamorro. Il resto della storia lo conosciamo tutte e tutti, o no?
Così, per caso, questi paladini dei valori universali e universalizzabili potrebbero far cadere un occhio su Haiti, tanto per aiutarsi ad inserire Cuba nel suo contesto.
Da donna ignorante del terzo mondo, mi indigna la supponenza. Mi stupisce l'eurocentrismo primitivo, incapace di elaborare, con uno strumento di lettura completamente cristallizzato, incapace di fare un minimo di operazione di decentramento, di spostamento del proprio punto di vista. Di ricollocarlo, nella consapevolezza che la propria visione parte da un'angolatura specifica, parziale, collocabile in uno spazio culturale.
Capisco che sia più chic solidarizzare per los desaparecidos, manifestare contro un golpe, commuoverci per i bambini e le bambine di strada, fare un giretto con la macchina fotografica per las favelas; paga molto meno supportare chi, con tutti i difetti, con tutte le debolezze e contraddizioni al mondo, lotta per la dignità e la libertà.
Che si tratti soltanto di una questione di priorità? Meno male che non le stabilisce l'acuta osservatrice di cui sopra.
Forse questa fase politica dell'America Latina è una fragile parentesi destinata ad esaurirsi a breve; ma forse gli intellettuali del nord, quelli che sanno veramente come va il mondo, dovrebbero attingere ad altre chiavi di analisi, non basta Weber, Freud e neanche il vecchio Marx, bisogna essere in grado di guardare oltre. Ricordo che l'America Latina ha prodotto le sue analisi economiche, come la teoria della dipendenza, che contestualizza l'analisi marxista; ha sviluppato le sue pratiche socio-religiose, come la teologia della liberazione, per farne due esempi, e potrà trovare la via di una società diversa a partire dal suo contesto, della sua storia, delle sue donne e dei suoi uomini.
C'è un altro acuto osservatore che scrive sull'America Latina. Scrive su Repubblica e riesce a concludere che Chavez è un assistenzialista, raccontando dell'equipaggiamento delle scuole. Che questa operazione la facciano i giornali "amarillos" si può anche capire; che la faccia l'organo del Partito Comunista rifondato è molto meno comprensibile.
Direttore, ho letto i tuoi articoli di pieno supporto e grandi lodi alla tua giornalista. Dallo spazio dato a questi reportage, si evince che questa è proprio una linea del giornale. Vorrei che non faceste le vittime appellandovi all'attacco alla libertà di espressione, ma penso sia necessario, visto che, se non erro, si tratta del giornale del Partito, che a questo punto il Partito debba chiarire se linea del giornale equivale alla linea del Partito, oppure a che cosa? Anche per chiarezza nel rapporto con i paesi vituperati.
deputata Prc-Se

il manifesto 17.6.07
Crisi e mutazione Prc non è al requiem
di Alfonso Gianni
*

La lettura del pezzo di Marco Revelli pubblicato ieri è di quelle che lasciano l'amaro in bocca. Non tanto perché si presenta come un attacco frontale a Rifondazione (per la verità, più nel titolo che non nel testo), quanto perché a tanta spietata critica distruttiva, nei confronti delle sinistre, ma anche dei movimenti, non corrisponde un'indicazione di via d'uscita.
L'idea di proporre il sit-in in alternativa al corteo no war, è stato senza dubbio un errore, e anche grossolano. Per quanto anche il palco di Piazza del Popolo abbia dato vita ad un'iniziativa multicolore e polifonica, erano in pochi a poterla apprezzare. I motivi di questo errore non sono casuali, ma da qui a trarne la conclusione della rappresentazione plastica del fallimento della politica di Rifondazione degli ultimi anni, come dice Revelli, ce ne corre. A Vicenza e altrove non è stato così, eppure al governo ci eravamo e infatti più d'uno al Senato ne approfittò per dargli uno scrollone ( e non mi riferisco a Turigliatto, ma alla triade Chiesa-Confindustria-Usa incarnate da alcuni noti senatori a vita).
Invece Revelli, dal flop del 9 giugno e dal degrado morale della sinistra tifosa di scalate bancarie (fatti peraltro non comparabili), trae la conclusione che le due sinistre, quella moderata e quella radicale, cadono insieme, mentre la salute degli stessi movimenti sarebbe assai malferma. Ac simul stabunt ac simul cadent, egli dice, perché verrebbe meno il principio di rappresentanza, cioè la possibilità di tradurre in forma politica la domanda sociale. C'è chi risolve il problema con la teoria dell'esodo (Negri). Non così sembra fare Revelli, che afferma la necessità di dare vita a un pensiero capace di reinterpretare il presente. Giusto, ma bisognerebbe almeno convenire su alcune cose.
Pur essendo vero che la crisi della sinistra è parte della crisi di rappresentanza, quest'ultima non è giunta al suo requiem. Da questa crisi è necessario e possibile uscire per strade diverse da quelle del lobbismo o della semplice rappresentazione.
La parte moderata ha scelto di fuoriuscire dai confini della sinistra con la costruzione del partito democratico, che rivela un'astrazione da ceti e blocchi sociali da rappresentare. La corsa al centro ne è la conseguenza, ma, come dimostrano i sociologi, il «centro sociale» non esiste se non come illusione ottico-politica.
La parte radicale ha di fronte a sé il compito e l'opportunità di rifondare tutta la sinistra. E' dunque in crisi, ma in un processo di trasformazione. Ed è questa una situazione nuova. Per questo le politiche passate non bastano più. Deve cambiare la natura, oltre che la dimensione, del soggetto di questa sinistra, unitario sul piano politico e plurale su quello delle culture. Muta il suo rapporto con il quadro politico e con il governo, la cui transitorietà è implicita. Si arricchiscono le relazioni con i movimenti, cui non si chiede di lasciarsi rappresentare o interpretare, ma di essere a loro modo protagonisti di un processo costituente.
Non solo la critica del presente, ma l'individuazione di un sistema di valori è essenziale. La sinistra del XXI secolo va ridisegnata e la dimensione nazionale non basta. Nell'assemblea a Roma di Sinistra europea, i termini più usati sono eguaglianza e differenza. Vengono accostati, ma sono un'endiadi di opposti. Il primo aveva innervato la cultura del movimento rivoluzionario lungo due secoli, il secondo quella del liberalesimo. Per noi oggi sono un valore solo se stanno insieme. E' una novità che apprezziamo ancora poco ed è solo un esempio del cammino che dobbiamo compiere.

il manifesto 17.6.07
Rifondazione accende la Sinistra europea
«Un soggetto a rete, pacifista e antiliberista a disposizione di tutti, irreversibile l'unità a sinistra» dice Franco Giordano. Diliberto gli chiede di passare ai fatti entro l'autunno


La «Sinistra europea» (Se) che nasce ufficialmente oggi a Roma è un parto che Rifondazione aspetta quasi dal 2001: un evento atteso da ben sei anni. «Un nuovo soggetto politico continentale, pacifista, antiliberista e laico che mettiamo a disposizione di tutta la sinistra italiana», spiega il segretario del Prc Franco Giordano nel suo intervento introduttivo. Il problema è che il «punto di arrivo» della Se nel frattempo è diventato un «punto di partenza» verso l'unità a sinistra, un «processo», questo, che lo stesso Giordano definisce senza mezzi termini «irreversibile, decisivo per l'oggi e strategico per il futuro».
E' una platea un po' «anomala» quella che accoglie il nuovo organismo al Palafiera di Roma: metà delegati del Prc, metà di oltre 60 associazioni e 4 «nodi tematici». Perché in effetti oggi non nasce un nuovo partito ma addirittura il primo tentativo di superare la «forma-partito». Una struttura a rete che accantona la vecchia appartenenza totale in favore di una militanza diversa. Quasi duemila persone, tantissimi i giovani, molta curiosità ma soprattutto molta preoccupazione sul governo e le sorti di una sinistra in crisi profonda.
La Se appare come qualcosa di più di Rifondazione ma molto di meno della sinistra unitaria. Ha più sostanza di una tappa intermedia e meno del soggetto che verrà. A ben vedere il vero leitmotiv di tutti gli interventi è stata infatti la frattura tra rappresentanza politica e società, la «separazione tra la politica e la vita» azzarderà nel suo intervento Pietro Folena.
Dal palco si avvicendano in tanti, «un dibattito molto aperto e non gerarchico», sintetizza Gennaro Migliore, oggi capogruppo Prc alla camera ma giovane skipper della formazione che in Europa è nata due anni fa con il congresso di Atene. In Italia invece Rifondazione, Sinistra europea e «cantiere della sinistra» andranno avanti di pari passo. Come e per quanto tempo nessuno lo sa. La prudenza dei dirigenti è massima, proprio nel giorno in cui a Berlino le forze a sinistra dell'Spd compiono un'unificazione storica.
«Dobbiamo soprattutto essere utili, se ci rinchiudiamo dentro una discussione identitaria è finita», avverte Giordano. Mentre il segretario della Fiom Gianni Rinaldini ribadisce «l'interesse per qualsiasi tentativo di creare un nuovo soggetto politico della sinistra» ma si rammarica della mancanza di una cultura comune: «Su questo il biennio 2001-2003 è stato davvero un'occasione persa», recrimina.
Interviene Oliviero Diliberto, gesto impensabile fino a poco fa, e non usa giri di parole: «Dobbiamo passare dalle parole ai fatti. Basta con convegni e cantieri che durano troppo a lungo». Avanti tutta e chi ci sta ci sta. Ogni riferimento ai socialisti e a una parte della Sinistra democratica è voluto. «Entro l'autunno facciamo una cosa tutti assieme», chiede il segretario del Pdci incassando applausi. Una scadenza temporale su cui Giordano, nella sua replica, glisserà. Come sulle forme che il processo unitario dovrà e potrà assumere.
Paolo Cento propone dieci assemblee unitarie in dieci città e dice no a una «cosa rossa» che metterebbe in difficoltà il Sole che ride. Proposta accolta. Qualche difficoltà in più invece per Titti Di Salvo, capogruppo alla camera di Sinistra democratica. «Andiamo avanti un passo alla volta, è necessario unire la sinistra e farlo presto - dice dal palco - ma senza ignorare le differenze e nel solco, a nostro avviso, del socialismo europeo». E' una sorta di «Ulivo di sinistra» o Ulivo «stile '96» che piace molto ai Verdi e per ora convince poco Prc e Pdci: «La 'cosa rossa' chiude e non convince tanti», avverte Di Salvo.
Nominalismi che non nascondono le difficoltà. Anzi. I partiti a sinistra aumentano di numero ma non in consensi o efficacia. Le iniziative unitarie si susseguono settimanalmente più o meno con gli stessi protagonisti e le stesse parole d'ordine. Oggi parlerà Fausto Bertinotti, al suo primo intervento di partito dopo l'elezione al vertice di Montecitorio. Da Berlino ha lanciato l'allarme: «La sinistra sia unita o sarà la catastrofe». Come dire, socialismo (del XXI secolo) o morte. M. Ba.

il manifesto 17.6.07
A Berlino fusione a sinistra tra Pds e Linkspartei
Linke, una sola casa per Gysi e Lafontaine
Per il programma otto punti chiari su lavoro e salute e il no senza e senza ma alla guerra. Bertinotti: «Una unione che incoraggia la sinistra italiana»
di Guido Ambrosino


Un ritmo di marcia rock irrompe dagli altoparlanti. Un mare di grossi palloni rossi inonda la sala, ondeggia sulla folla che lo fa lentamente rimbalzare fino al soffitto. I delegati si abbracciano. Alle 16.35 è nato un nuovo partito, «Die Linke»: la sinistra. Nome geniale nella sua brevità. E astuto, perché, aggirando l'annosa querelle sulla via giusta tra comunismo, socialismo, socialismo democratico, socialdemocrazia e quant'altro, trova, per il momento, tutti d'accordo. Solo un voto contrario e due astenuti alla conta decisiva sulla fusione tra Linkspartei-Pds, il partito nato diciassette anni fa dall'impietosa autocritica dei realsocialisti orfani della Repubblica democratica tedesca, e l'Alternativa per la giustizia sociale, raggruppamento messo in piedi nel 2005 da ex socialdemocratici e sindacalisti.
I nodi verranno al pettine quando si tratterà di scrivere un nuovo programma. Per il momento ci si è accontentati di uno statuto e di «elementi programmatici» ridotti all'osso: difesa dello stato sociale, lotta alle privatizzazioni e alla precarizzazione del lavoro, rifiuto di ogni intervento militare all'estero. Al congresso ci si è accordati su sei punti su cui intervenire nel prossimo futuro: salario minimo di otto euro l'ora; un assegno sociale che copra i bisogni dei disoccupati, senza ricatti per chi rifiuti lavori al di sotto della sua qualificazione; diritto a un posto gratuito all'asilo per ogni bambino; rifiuto della riforma che sposta gradualmente fino a 67 anni l'età della pensione; rifiuto della privatizzazione delle ferrovie; ritiro immediato dall'Afghanistan.
Un programma tutto d'opposizione perché, a parte l'eccezione della partecipazione al governo nella regione di Berlino (eccezione infelice, che è costata ai socialisti la metà dei voti alle ultime elezioni), e a dispetto di un forte radicamento nelle amministrazioni comunali dell'est, contro i socialisti della Linke vige ancora un patto di esclusione. Finché la Spd continuerà a ripetere: «Con quelli noi non parliamo nemmeno», la Linke non si vedrà indotta in tentazioni opportunistiche.
Fausto Bertinotti, che viene spesso a Berlino da quando è presidente della Sinistra europea ha strappato applausi con una tirata contro il capitalismo, che minaccia di portare il pianeta alla «catastrofe» e «ci ruba il futuro». «Abbiamo bisogno di una sinistra forte - ha continuato - per riprenderci la vita». Una sinistra che non si potrà accontentare della pur fondamentale emancipazione economica, ma che si batta «per un socialismo come processo di liberazione di uomini e donne da ogni forma di sfruttamento e di alienazione». Ma Bertinotti si è ben guardato dall'addentrarsi nelle pieghe della politica internazionale. Se avesse cercato di difendere il voto di Rifondazione sul prolungamento della missione italiana in Afghanistan, la platea berlinese lo avrebbe cacciato a male parole.
Il suo amico Oskar Lafontaine parla tutta un'altra lingua. Qualifica di terrorismo la crociata occidentale in Iraq e in Afghanistan: «Il Bundestag definisce il terrorismo come ricorso illegale alla violenza per il perseguimento di fini politici. Non c'è dubbio che sia quindi terroristica la guerra condotta in Iraq contro il diritto internazionale. Così come è terroristico l'indiscriminato ricorso alla violenza anche contro civili in Aghanistan, nel quadro dell'operazione Enduring Freedom». Operazione ormai non più distinguibile dalla missione Isaf (quella cui partecipano anche contingenti tedeschi e italiani).
Ieri a Berlino non c'era né tempo né voglia per polemiche tra partiti fratelli. Era una festa di matrimonio. E i fotografi si sono gettati sulla coppia di fatto del giorno, Gregor Gysi e Oskar Lafontaine, le due star della Linke.
A Gysi è riuscito il miracolo di portare ironia e un pizzico di scetticismo nel serioso patrimonio genetico dei socialisti dell'est. A Lafontaine, negli anni '80, riuscì un prodigio non meno sensazionale: aprire la Spd «produttivista» e «economicista» all'alleanza con i verdi e alle radicali istanze che portavano con sé, anche sul terreno dei diritti civili. La combinazione di questi due talenti fa ben sperare.
Già guidano in tandem il gruppo parlamentare, e continueranno a farlo. Gysi, che ha avuto seri problemi col cuore, non se l'è sentita di assumersi un secondo incarico alla guida del partito. Nel secondo tandem, eletto ieri alla presidenza del partito unificato, entra quindi solo Lafontaine, affiancato da Lothar Bisky, già presidente della Linkspartei. Lafontaine, il nuovo arrivato, ha perfino scavalcato Bisky nelle preferenze, con 622 voti contro 580 (su 715 voti espressi).
Le donne hanno protestato per questo doppio maschile. Sono state compensate con tre delle quattro vicepresidenze. Nessuna sorpresa per la direzione: sono stati confermati i 22 candidati proposti dalla Linkspartei (metà donne, metà uomini) e i 22 nominati dalla Wasg. La torta è stata divisa in due parti uguali, sebbene i socialisti dell'ovest abbiano solo 12.000 iscritti, contro i 72.000 della Linkspartei.