giovedì 21 giugno 2007

Repubblica 21.6.07
Il mondo di WonderWalter
Dopo un decennio di attesa messianica, per Wonder-Walter è arrivato il momento della prova dei fatti
Musica, rituali e gente comune il veltronismo diventa post-politica
di Filippo Ceccarelli


Nell'universo del sindaco i militanti sono volontari, l'ideologia si trasforma in "vision", le tessere sono sostituite dagli slogan
Per istinto e per calcolo, nessuno più di lui evita lo scontro diretto, ostentando sempre prudenza
Una costante ascesa basata sul "personaggio" e non sul partito, e la parola d'ordine del "buonismo"

Dunque, Veltroni. E fra veltronismo, veltronerie, veltronate occasionali e fatidica veltronicità è da un decennio almeno che si alimenta l´attesa messianica. E perciò anche mediatica, come si conviene a questo tempo. Singolare il politico, viene da pensare, che decide di farsi leader proprio nel giorno in cui, da sindaco, si trova a inaugurare il «Parco della Lirica e della Danza».
Un «parco» al chiuso, oltretutto, collocato in un ex cinema: e già pare di scorgere un bel pezzetto di Veltroni, in questa beata coincidenza di tempi e luoghi rimestati ad arte, e ancor più del fenomeno politico-giornalistico che prende il suo nome.
Veltronismo, beninteso, come l´espressione di un personaggio e non di un partito. Di una cultura, di una sensibilità, di un giro di relazioni, di un´immagine, al limite di una moda, giammai di una tribù o di un clan. Perché Veltroni non ha mai avuto un Latorre, né un Rovati, tanto meno un palazzo di riferimento - a parte il Campidoglio e quella splendida finestra sui fori dove il più amabile sindaco fa affacciare chiunque. C´è solo lui, Wonder-Walter, e ben sotto di lui una nutrita squadra di anonimi ed evoluti specialisti della comunicazione. O meglio, qualche mese fa sono spuntati fuori dei militanti, pardòn, dei volontari veltronisti: scopa, rastrello e sacchi dell´immondizia, hanno fatto il loro esordio spazzando la spiaggia di Ostia.
Anche questo è un dettaglio che a suo modo dischiude l´orizzonte del veltronismo, nel senso della sua reclamizzatissima estraneità al gioco della politica, almeno com´è intesa dai suoi futuri e davvero poco entusiasti grandi elettori. Da questo punto di vista vale la pena di rileggere le fredde ordinanze comunali sull´affissione dei manifesti dei partiti, o analizzare in controluce alcuni interventi contro la piaga dei parcheggi delle auto blu intorno alla Camera e al Senato. Se tenersi fuori e marcare la distanza dai perenni stranguglioni del centrosinistra è stata negli ultimi anni una costante del personaggio, colpisce la sprezzante risolutezza con cui mesi orsono ha liquidato una certa questione su cui di dilaniavano i ds: «Cose di partito». E poco mancava che aggiungesse puah! - prima di recuperare un contegno e andarsene in giro per l´Italia a parlare di Chaplin e di Gandhi.
Il potere, certo, è importante, ma decide lui quanto, e come, e perché. Fedele in questo a un certo riflesso vetero-comunista, per istinto e per calcolo nessuno più di Veltroni evita lo scontro, ostenta prudenza e si risparmia la fatica dell´ambizione. La sola idea di scendere in campo, sosteneva non molto tempo fa, gli faceva venire «il mammatrone», che a Roma sarebbe la più invincibile paura.
Com´è ovvio per ogni politico, c´è da scontare una normale quota d´insincerità, o di astuto e scettico disincanto. Eppure la differenza fra Veltroni e l´oligarchia che da anni si ritrova mesta attorno ai tavoli della Gad, della Fed o dell´Unione finisce per apparire, più che evidente, clamorosa. Una specie di sfida.
A occhio si direbbe che il veltronismo abbia scelto di dispiegarsi, non di rado anche in prima persona, su un altro e più vasto campo d´azione che attraversa e regola le passioni culturali diffuse e produttive dell´oggi. Le sole che appaiono in grado di ripristinare i vincoli sociali: letteratura, arte, archeologia, musica, cinema, tv, media, sport, tempo libero. Fino a sconfinare, tra notti bianche e partite del cuore, toponomastica mirata e necrologi smaglianti, feste del vicinato e battesimi di lupi al Bioparco, nel mondo immateriale dei ricordi, dei simboli, dei rituali, delle emozioni, dei sentimenti.
O per meglio dire: dei buoni sentimenti. La definizione di «buonismo», copyright di Ernesto Galli della Loggia, risale ormai al 1995 e da allora Veltroni non solo l´ha assecondata senza troppo preoccuparsene - si pensi all´Africa o alle visite con i liceali negli ex campi di concentramento - ma ne ha anche fatto un indispensabile strumento di governo, per non dire di egemonia e di potere, in una metropoli come Roma. Dove per volontà dell´amministrazione, e con i dovuti sponsor, contro la pena di morte s´illumina addirittura il Colosseo.
E comunque. Invece di buttarsi nell´asfittico, affannoso ed egoistico tran tran del Palazzo, il veltronismo ha trovato la sua vision e la sua mission nella più conclamata vicinanza ai soggetti deboli e ai temi che l´odierna vita pubblica sembra aver inesorabilmente smarrito: la solidarietà, un certo ottimismo sul futuro, una indubbia disponibilità al dialogo con le altre culture (compresa quella della destra), l´attenzione a prigionieri, esuli, piccoli grandi eroi della cronaca, gente semplice, vecchi, bambini, ammalati. Esiste a questo proposito una vasta iconografia che per certi versi modella, più che una politica, una specie di religione secolarizzata di cui Walter (a Roma «Warter») sembra il sollecito, assiduo, garbato e benedicente pontefice.
E però, anche senza andarsi a rileggere la prefazione che Veltroni ha scritto al libro che raccoglie i discorsi di Giorgio La Pira, il «sindaco santo» di Firenze, colpisce l´efficace naturalezza con cui il personaggio salta le vecchie mediazioni istituzionali, diffonde calore e mette in gioco il suo stesso corpo: dalle danze in Malawi, con tanto di gallo votivo, alle turbolente demolizioni dell´abusivismo, dal compleanno della nonnetta all´incontro di beneficenza con Totti, dal concerto fino al letto d´ospedale dove è comparso in un video: dopo un´operazione, ma prima del voto.
Sembra passato un secolo dalle prime notazioni dell´immaginario veltroniano: le camicie con i bottoncini, la Nutella, Kennedy, le figurine Panini e De Gregori. Nell´era della post-politica nessun codice sembra al tempo stesso più moderno e più antico di quello che può offrire l´imminente leader del centrosinistra. Una specie di berlusconismo alla rovescia, ma con vent´anni di meno: decisamente il peggior guaio che poteva capitare al Cavaliere.

Repubblica 21.6.07
1977. La favola di una generazione
Un anno cruciale fra memoria e racconto
di Alberto Asor Rosa


In un libro di Enrico Franceschini un gruppo di ex studenti bolognesi è chiamato a rievocare quegli avvenimenti
Una stagione politica che prima di chiudersi nella violenza mette al centro le emozioni e la dimensione collettiva
L'autore ha proposto ai suoi interlocutori di misurarsi con due questioni: l'Amore e la Felicità
Le risposte sono moderatamente ottimistiche e dei sogni non realizzati resta la nostalgia

Dopo Lucia Annunziata un altro giornalista di fama, Enrico Franceschini, si cimenta con il fatidico "1977": ma perseguendo un percorso tutto diverso, anzi, pressoché opposto a quello precedente. Annunziata era partita dalla sua esperienza personale per tentare di risalire ad una lettura politica generale di quella imprescindibile tappa storica e politica. Franceschini, in Avevo vent´anni (Feltrinelli, pagg.155, euro 8,50) lascia la lettura politica generale come sottintesa e da lì prende le mosse per raccontare quell´anno sotto forma di esperienza personale, anzi, più esattamente, di «esperienze personali».
Il libro, infatti, porta come sottotitolo: «Storia di un collettivo studentesco. 1977-2007». Sarebbe stato più corretto scrivere: «Autobiografia». Da un fortuito incontro con un compagno di quei tempi, nasce in Franceschini l´idea di tornare a cercare un certo numero di componenti del Collettivo di Giurisprudenza dell´Università di Bologna, di cui lui stesso aveva fatto parte, e di farli parlare, nella forma di un´intervista implicita, di quegli anni lontani, e poi di quel che per ognuno di loro ne è seguito. La presenza dell´autore è ovunque aleggiante, - tornerò su questo punto, - ma intanto, da bravo giornalista, ha ceduto la parola ai suoi interlocutori: sono loro che raccontano la storia in prima persona, non lui.
La storia? Le storie: fra i quaranta soggetti chiamati in causa, uomini e donne (rispettivamente ventisette e tredici), ce ne sono pochi, pochissimi, che raccontano la stessa. Ciò, del resto, tenendo conto per l´appunto della natura di tali storie, è anche abbastanza ovvio. I loro racconti, infatti, si sviluppano lungo un duplice diagramma: quello del tempo e quello dello spazio, e ognuno dei due contribuisce a modificare, stemperare, allontanare, appannare, ma anche, al contrario, a rendere ancora più lucida e presente la comune esperienza originaria.
Il tempo: sono passati trent´anni; chi ne aveva venti nel ´77, oggi ne ha cinquanta. L´età li ha inesorabilmente cambiati. Matrimoni, separazioni, secondi matrimoni, figli, lavoro, spostamenti non impediscono però alla maggioranza di loro di proclamarsi ancora giovani, o per lo meno vivi, curiosi, attenti. Alcune frasi mi hanno colpito: «Ecco, noi ci sentivamo immortali, destinati a un´eterna giovinezza, non tanto fisica quando dell´animo (...) Anche adesso non lo so se ci sentiamo veramente vecchi... C´è questa strana sensazione di gioventù che in qualche modo permane» (Laura).
Dal modo di ricordarlo si risale al modo di viverlo: l´accento, per questi protagonisti, batte sul dato vitale ed esistenziale; la politica, senza dubbio presente, anzi presentissima, è però inesorabilmente filtrata attraverso l´esperienza collettiva della vita comunitaria, della passeggiata notturna, dell´avventura, della scoperta sentimentale, del rischio. Rischio, sì, ma ragionato: ragionato, direi, persino con un certo istintivo buonsenso giovanile. Sarà un caso: ma il rifiuto della violenza da parte di questo gruppo è pressoché unanime e uno solo di loro, ed esclusivamente per generosità, è stato lambito dal vento gelido del terrore e della repressione. Forse è per questo che le narrazioni generalmente s´interrompono al marzo 1977, alla morte dello studente Francesco Lorusso, con lo strascico di violenze che ne seguì da una parte (Autonomia operaia, da quasi tutti considerata ostilmente) e dall´altra (le forze dell´ordine scatenate anche senza motivo contro gli studenti); o al massimo arrivano fino al Convegno sulla repressione del settembre successivo, amara chiusura per molti di quella entusiasmante stagione.
Dopo il buco nero del 1978-80, sul quale quasi nessuno posa lo sguardo, le narrazioni riprendono sul filo della memoria quotidiana, per arrivare fino ai nostri giorni, per così dire, più pacatamente.
Lo spazio: il concentrato di memoria s´allarga da Bologna a ventaglio sull´intero territorio nazionale, perché una caratteristica fondamentale del Collettivo di Giurisprudenza (e, ovviamente, dello studentato bolognese in quella fase) è di essere riccamente interregionale. Qui, infatti, oltre ai bolognesi, fra i quali va annoverato lo stesso Franceschini, parlano sardi, leccesi, veronesi (parecchi), trentini, catanzaresi, piceni, udinesi, bolzanini, romagnoli, abruzzesi, lucani, umbri, siciliani, molisani, baresi, foggiani, veneti. Impressionante. E´ come se molti pezzi d´Italia fossero stati centrifugati e omogeneizzati in quel collettivo, in quella Università e in quella città; e poi fossero stati rispediti di qua e di là, a fare gli avvocati e gli insegnanti di diritto (ovviamente), ma anche i segretari comunali, gli uomini d´affari, i dirigenti d´azienda, le donne di casa, le professoresse universitarie, ecc. Diversi, senza dubbio; ma pure, - torno a insistere su questo punto, - con qualche perdurante tratto comune.
Il più rilevante mi pare è che essi continuano ad aspettare che qualcosa di nuovo accada: qualcosa d´immaginato e di sfiorato a vent´anni; poi smarrito, talvolta perduto. Mai però del tutto rimosso: «Sono più vecchio, ma mi diverto a rimettere in discussione molte cose. Non mi stanco ancora a ricominciare, anzi...» (Bambù); «Ma non c´è niente da fare, non mi sento vecchio dentro. La curiosità che avevo a vent´anni ce l´ho ancora» (Marco); «Come se per noi, e non so se sia un dono o una condanna, si fosse fermato il tempo. Come se avessimo per sempre vent´anni» (Enrico).
Bene, onestamente mi pare che questo sia il quadro (anche se non è facile riassumere il senso di quaranta voci diverse, ognuna delle quali ha un tono e vibrazioni propri). Resta da dire qualcosa sull´autore; no, autore no, Franceschini (pagg. 155) rifiuta la qualifica, ma certo deus ex machina, e abilissimo deus ex machina. Innanzi tutto, l´omogeneità dello stile: Franceschini è, in tutte le sue incarnazioni, uno scrittore lucido, limpido, conciso: le molte voci ritrovano la loro profonda parentela interiore, perché quella voce lì, quella che le veicola e le trasmette, ha la semplice forza di un´oralità comune non ancora, a distanza di tanti anni, sprofondata nel nulla.
Poi c´è un´affinità di fondo, anch´essa esistenziale ed umana. E´ evidentissimo che Franceschini ha proposto ai suoi interlocutori una griglia con cui misurarsi. Su questa griglia spiccano due interrogativi: l´Amore e la Felicità. Come te la cavi con l´Amore? E: sei felice? E come? E dei tuoi sogni, che ne è? Anche qui le risposte sono le più diverse, anche se, in maggioranza, moderatamente ottimistiche: me la cavo abbastanza bene; sono felice, abbastanza felice. No, non tutti i sogni si sono realizzati: ma ne resta la nostalgia, non ci siamo fermati, continuo a farne (come ho più volte osservato). E Franceschini? Beh, questo è troppo chiedere, tiriamo a indovinare da questo libro (e da quanto abbiamo già letto di lui, un solo romanzo, e me ne dispiace, e ovviamente le tante corrispondenze giornalistiche). Questo libro nasce esso stesso, assai più che da un intento documentario, da un atto d´amore. Se Franceschini non amasse il suo ´77 alla maniera di Laura, Bambù, Gianfranco, Enrico, Marco, Nena (che dev´essere un tipo tosto, si capisce proprio), e di tanti altri suoi compagni, non avrebbe neanche posto mano al lavoro da cui è nato. Per deduzione, possiamo dunque ricavare che per lui (noi non lo conosciamo affatto) l´amore conta parecchio, se per amore ha fatto questo libro.
Ed è felice? Questo proprio non possiamo saperlo. In attesa che Marco o Valentino o Anna glielo vada a chiedere e poi ce lo faccia sapere, limitiamoci a constatare che lui condivide la morale della favola che molti della sua generazione, - e lui ha fatto in modo che potessero testimoniarcelo, - hanno tratto da quelle esperienze. Forse non è molto, forse non è la «felicità estremistica» cercata e forse provata a vent´anni, ma è quanto la morale stoica indotta da questi tempi calamitosi ci consenta oggi di concepire: «Quanto tempo abbiamo trascorso insieme, ragazzi e ragazze del Settantasette, e quante, quante ne abbiamo passate: girata questa pagina finisce un libro; ma la nostra avventura continua».

P. S. Io avevo vent´anni nel 1953, ai tempi della battaglia contro la «legge truffa»: vi partecipai intensamente (e per giunta fu vinta) ma, inquadrato com´ero nei ranghi del Grande Partito, non posso dire di averne ricavato l´entusiasmante senso di liberazione e di leggerezza a quanto sembra provato dai ventenni del 1977. Nel 1977, invece, avevo ovviamente quarantatré anni e devo dire di aver vissuto quel periodo in modo totalmente diverso da quello dei giovani del Collettivo bolognese di Giurisprudenza, cui Franceschini ha ridato oggi così felicemente la parola. Del tutto ininfluente ai fini dell´osservazione da dedicare a un bel libro come questo, di quel diverso punto di vista metterà forse conto un giorno o l´altro di parlare.

Corriere della Sera 21.6.07
Rapporto sulla sicurezza 2006 del Viminale
Quasi sette milioni di donne che hanno subito violenza fisica e sessuale almeno una volta nella vita
Un milione e 150 mila solo nel 2006.


Gli omicidi in ambito familiare o "passionali" sono più numerosi di quelli di mafia o per rapina; dove più di un terzo delle donne hanno subito maltrattamenti o violenze - in genere dal partner
L'anno scorso, i morti erano 621, 192 dei quali, quasi un terzo, all'interno delle famiglie o per motivi di «passioni amorose», indica il rapporto
quel che conta è la tendenza. Per quanto riguarda questo tipo di omicidi, commessi dal 2001 al 2006, «nella maggioranza dei casi è il coniuge, il convivente o il fidanzato maschio ad uccidere la propria compagna». Oppure quando è il maschio a essere vittima, l'autore dell'omicidio è più spesso il padre.
Se la famiglia sembra essere oggi uno degli ambiti in cui si esercita maggiormente la violenza, sono soprattutto le donne a essere vittime, come dimostrano abbondantemente, e impietosamente, i dati del Viminale. Lo stesso Amato ammette di essere «rimasto assolutamente sconvolto sul capitolo sulla violenza contro le donne» «E' impressionante. Sono 6 milioni 743mila, pari al 31,9% della classe d'età considerata, le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita», dice il rapporto. Quasi 4 milioni quelle che hanno subito violenze fisiche, un milione in più quelle che hanno denunciato violenze sessuali, e tra loro un milione di donne stuprate. Nel 62,4% dei casi a commettere violenze fisiche è il partner. E la percentuale sale se si tratta di stupri o violenze sessuali. I dati sulla violenza in famiglia e contro le donne fanno dire al ministro: «mi trovo in difficoltà quando sostengo l'estraneità alla nostra civiltà della supremazia dell'uomo sulla donna, teorizzata in nome dell'Islam, sbagliando, da alcuni». È difficile, sembra dire il ministro, fare la morale sui diritti delle donne agli immigrati quando poi in Italia contro le donne si esercita tale violenza.
In Italia quasi un cittadino su tre (il 29,2%) si sente insicuro soprattutto se è di sesso femminile
«Sono sconvolto dal capitolo dedicato alla violenza sulle donne: è impressionante, non si tratta solo di violenze sessuali ma di tutta una serie di reati che non vengono commessi ai danni degli uomini. Una unilateralità maschio-femmina inconcepibile». Questo giudizio di Amato si basa su dati allarmanti: si va da un tasso di 1,7 denunce per 100.000 abitanti nel 1995 ad uno di 7,7 nel 2006 e questo significa che l'anno scorso un milione e 150 mila donne sono state coinvolte in episodi di violenza. Il Rapporto poi evidenzia che in Italia, il 31,9% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni e 743 mila) ha subito almeno una violenza fisica o sessuale.

Corriere della Sera 21.6.07
Il futuro di Rifondazione
Lite Prc-Liberazione «Titolo scorretto» Sansonetti: sfiduciatemi


ROMA — È scontro tra Rifondazione comunista e il suo giornale Liberazione. Il casus belli?
Il titolo di lunedì: «Ora si va oltre Rifondazione?», si chiede il quotidiano a proposito delle decisioni dell'assemblea della Sinistra europea. Una scelta che ha «disorientato» il segretario del partito Franco Giordano e anche gli alti dirigenti. Dal partito è arrivata un'accusa precisa indirizzata al direttore Piero Sansonetti, ritenuto «colpevole» di dare messaggi fuorvianti per i lettori e gli iscritti. Lui ha subito replicato: «Se non vi va bene, potete sfiduciarmi».
E il responsabile organizzativo di Rifondazione comunista, Francesco Ferrara, è intervenuto per precisare che «quel titolo è sbagliato» anche se la libertà del giornale non è certo messa in dubbio. Per tutta risposta Sansonetti ha deciso di pubblicare ieri l'intervento di Ferrara a fianco del discorso di Fausto Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea, il testo che aveva ispirato il titolo contestato: «Un soggetto plurale e unitario della sinistra è irrinviabile», si legge. La polemica non è finita.

Repubblica 21.6.07
Il Prc critica "Liberazione": fa confusione


ROMA - «Il giornale non deve orientare, ma in questo caso ha disorientato». Scontro in famiglia fra il quotidiano di Rifondazione comunista e il partito che ne è proprietario. Francesco Ferrara, membro della segreteria del Prc, ha inviato una lettera di protesta a Liberazione. Il casus belli è un titolo comparso sulla prima pagina di martedì, riferito all´assemblea costituente di Sinistra Europea svoltasi sabato e domenica. «Ora si va oltre Rifondazione?» recitava il titolo dell´articolo firmato da Angela Mauro. No, per Ferrara non si va oltre il partito, che non si tocca, e Liberazione avrebbe dunque dato un´informazione «disorientante». Ai delegati di Sinistra Europea Fausto Bertinotti aveva detto che occorre «costruire un nuovo pensiero», concetto che - sostiene Ferrara - non avrebbe nulla a che vedere con un eventuale scioglimento del Prc. Il dirigente del Prc nega che il partito sia «confuso, smarrito e a testa china», e riafferma comunque il «rispetto delle opinioni del giornale».

Repubblica 21.6.07
La Rosa nel pugno invita l'accusatore di Ratzinger e la Cdl protesta. Bertinotti: non posso negare l'uso della sala
Preti pedofili, polemica per un convegno alla Camera


ROMA - A pochi giorni dalle polemiche sollevate da AnnoZero di Michele Santoro sulla pedofilia clericale, è ora un convegno organizzato dalla Rnp in una sala della Camera a provocare una bufera politica sul tema dei preti pedofili. Venerdì prossimo, infatti, nella Sala Colonne di Palazzo Marino (che fa parte della Camera), si terrà un seminario sulla «repressione sessuale, una politica che genera violenza», organizzato dal deputato radicale Maurizio Turco, al quale prenderanno parte alcune vittime di abusi da parte di preti e Daniel Shea, l´avvocato statunitense che ha denunciato il papa Ratzinger di aver confermato, quando era presidente della congregazione della fede, la linea di trattare la pedofilia con discrezione. Sarà trasmesso, inoltre, in anteprima per l´Italia, il film the hand of god di Joe Cuntrera, italoamericano e fratello di una vittima. Il fatto, però, che questo argomento sia affrontato in un locale del parlamento ha scatenato una polemica all´interno della maggioranza e le proteste dell´opposizione. I teodem della Margherita, con i deputati di Fi e dell´Udc, hanno chiesto infatti a gran voce al presidente della Camera di non autorizzare lo svolgimento del simposio. Bertinotti ha risposto di non poterlo fare, non potendo «censurare» l´attività dei gruppi parlamentari.

Corriere della Sera 21.6.07
Anteprima. Riapre il museo Granet di Aix-en-Provence dove è custodito il capolavoro misconosciuto di Ingres
Il dipinto che svela i limiti del divino
Lo scandaloso «Giove e Teti» non fu mai esposto dai contemporanei
di Roberto Calasso


«Un quadro che sa di ambrosia» racconta un'attrazione impossibile
Lo Stato francese acquistò l'opera e poi la restituì all'autore

Il giorno di Natale del 1806 la testa di Ingres era piena di pensieri pagani. Da Roma scriveva agli amici Forestier: «Ho dunque pensato che quando Teti sale da Giove, gli abbraccia le ginocchia e il mento per suo figlio Achille... sarebbe un bel tema e degno in tutto e per tutto dei miei progetti. Non mi addentro ancora con voi nei dettagli di questo quadro divino, che dovrebbe far sentire l'ambrosia a una lega di distanza, e di tutte le bellezze dei personaggi, delle loro espressioni e forme divine. Ve lo lascio da pensare. Oltre a questo, vi sarebbe una tale fisionomia di bellezza che tutti, anche i cani arrabbiati che vogliono azzannarmi, dovrebbero esserne commossi. L'ho quasi composto nella mia testa e lo vedo».
Giovane pensionante a Villa Medici, Ingres voleva dunque dipingere un quadro che facesse «sentire l'ambrosia a una lega di distanza». Ma come riuscire? L'antichità allora significava David. Pose eloquenti, gesti raggelati. Ingres ne sapeva qualcosa: l'aveva praticata. Ma l'ambrosia? Assente per principio. C'era incompatibilità fra l'ambrosia e l'antichità di David. A quel tempo Ingres annotava in un quaderno eventuali soggetti mitologici: Ercole e Acheloo, Ebe e Ercole, Pandora e Vulcano, anche vari episodi della vita di Achille. Nessuno lo soddisfaceva. La sua attenzione si fissò su quel gesto descritto da Omero: Teti implora Zeus in favore del figlio Achille «cingendogli con una mano le ginocchia e sfiorando con l'altra il suo mento». Hera intanto — sempre secondo Omero — spia la scena. Ingres aveva fatto un segno a matita accanto al passo, nel suo Omero tradotto da Bitaubé. Nessun pittore, nei secoli, aveva osato rappresentare quel gesto attenendosi alla lettera del testo omerico. Flaxman si era appena cimentato col tema, però con timidezza. La mano di Teti rimaneva a mezz'aria — e Zeus portava la propria mano al mento, come un patriarca perplesso. Ingres, al contrario, fa giungere un dito di Teti quasi alle labbra di Zeus. Il suo seno candido si adagia sulla coscia del sovrano degli dèi, con una familiarità fra vecchi amanti. E il suo alluce destro sfiora quello di Zeus. L'eros neoclassico non si era mai spinto così in là. Ciò che Ingres aveva composto in ogni dettaglio nella sua testa doveva essere una epifania espansa su una dimensione imponente (più di tre metri per più di due e mezzo). È come se, perfettamente definito nei suoi particolari, il quadro intero si fosse distaccato dalla mente di Ingres per depositarsi sulla tela, senza passare dalla mediazione della mano che dipinge. Caso unico nella sua opera, non rimangono disegni e studi preparatori. Tutto era fantasma mentale.
Ma il quadro fu accolto male, a Parigi, nel 1811. Suscitava un sentimento oscillante fra il timore e l'imbarazzo. Inoltre, leggendo i commenti del rapporto dell'Académie des Beaux-Arts, viene il dubbio — come molte altre volte per gli anni successivi — che i contemporanei fossero colpiti da scotoma davanti ai quadri di Ingres. E soprattutto non ne percepissero il colore, come se fosse troppo oltraggioso per essere registrato. Baudelaire una volta si infuriò davanti a quella cecità — e scrisse: «È cosa acquisita e riconosciuta che la pittura di M. Ingres è grigia. — Aprite gli occhi, o sciocca nazione, e dite se mai avete visto una pittura più sfolgorante e più sgargiante, e anche una più grande ricerca di toni». Eppure Théodore Silvestre parlava in questi termini di Giove e Teti: «Manca di risalto e di profondità; non ha massa: il tono del colore è fiacco e uguale. Il cielo azzurro ha una tinta uniforme e dura». «Fiacco e uguale» quel colore? Se mai urtante, nell'ostentazione del suo eccesso. Lo Stato francese, che possedeva già il quadro, lo restituì a Ingres. Non sapeva che farsene. Ma ventitré anni dopo lo ricomprò e, dopo un laborioso scambio, il quadro finì al museo di Aix-en-Provence, grazie a una macchinazione del vecchio amico Granet, a cui Ingres aveva dedicato il primo dei suoi grandi ritratti maschili. Sarebbero passati vari decenni prima che Louis Gillet osasse esplicitare che cosa in quel quadro lasciava sconcertati: «Quella scena più che umana, quelle dimensioni gigantesche e vagamente terrificanti, quell'aquila selvaggia, quell'Empireo di un oltremare feroce e quasi nero al di sopra della regione delle tempeste e dei vapori ». Il pittore che predicava la devozione inconcussa alla classicità e all'equilibrio offriva una visione dove «tutto è insolito, tutto è fatto apposta per far stridere i denti: quel colore provocante, quell'ozono, quell'etere crudele, quell'accordo dell'indaco e dell'oro». Ancor più che — un giorno — nel Déjeuner sur l'herbe di Manet, in quel quadro si sarebbe potuto trovare occasione di scandalo. Se ciò non avvenne, fu perché lo Stato lo chiuse nelle sue segrete e perché nessuno osava associare al nome di Ingres quel tipo di scandalo — erotico, cromatico, teologico. Lo scandalo dell'«etere crudele ». Ma il quadro presenta anche un'altra anomalia: la sua totale sconnessione dalla storia antecedente e conseguente della pittura. Se
Giove e Teti anticipa qualcosa o qualcuno, è soltanto un illustratore americano che gli storici dell'arte non sono abituati a trattare: Maxfield Parrish. A parte questo, il quadro potrebbe anche essere una scheggia meteoritica. Oggi chi giunga davanti a Giove e Teti ha l'impressione di trovarsi non davanti a un quadro ma a un'enorme decalcomania. Qualcosa distacca quel rettangolo alto più di tre metri da tutto il resto, nello spazio e nel tempo. Il cielo che si espande dietro il sovrano degli dèi nulla ha a che fare con quello che si vede dalla finestra del museo. Quel cielo è uno smalto inscalfibile e immutabile, forse disceso — come dice Omero — dal «più alto dei numerosi picchi dell'Olimpo». Quanto a Zeus e Teti, non sono più quei personaggi di David che anche Ingres usava dipingere ai suoi inizi, pronti a emettere parole solenni. Al contrario, spicca la loro mutezza, come appartenessero a un'era geologica in cui la parola non è ancora nata e sembrerebbe superflua. Hanno una carnosità minerale. Zeus appoggia il suo braccio sinistro su nuvole grasse, che però lo sostengono come rocce. Se il mignolo di un suo piede appare mostruoso, perché troppo piccolo in rapporto alle altre dita, è perché allora nascevano così. Lo sguardo dell'aquila di Zeus e quello di Hera, che spunta da un bordo del cielo come un obice sospeso a mezz'aria, assorta e calma nei suoi pensieri di vendetta, convergono sul braccio di Teti, privo di ossa, dispiegato nel suo biancore fino a inoltrarsi nella barba di Zeus. Sono lievemente obliqui, come l'eclittica rispetto all'asse del mondo, che è la folgore fiorita di Zeus, stretta nella sua mano destra. Ciò che sùbito si fa notare è appunto quel che gli accademici ritenevano assente: il risalto, la profondità, la massa, la vibrazione. Si può solo concordare con loro in questo: che il cielo ha una «tinta uniforme e dura». Una durezza che sa di ambrosia.
Ingres scelse il tema di Zeus e Teti perché il suo occhio aveva isolato un gesto in Omero. E a quello si attenne, senza flettere. Non era incline a ulteriori considerazioni mitologiche e teologiche, ma con la temeraria incoscienza dei grandi era subito inciampato in un punto di alto azzardo.
Zeus e Teti sono l'unica coppia erotica che mai avrebbe dipinto. Altrimenti le sue figure femminili sono solitarie o circondate da altre donne — con l'eccezione di Afrodite ferita da Diomede e di Angelica in attesa di essere liberata da Ruggero. In tutti e due i casi, il presupposto è una qualche violenza. Mentre Zeus e Teti sono colti in una situazione di intimità amorosa. Ma Zeus e Teti sono anche la prima e suprema fra le coppie impossibili. Zeus desiderava Teti, però dovette rinunciare a lei perché, secondo la profezia di Themis (e di Prometeo), Teti avrebbe generato «un figlio più forte del padre» e destinato a soppiantarlo. Zeus fu costretto a vedere in Teti la fine del suo regno. In quell'unico caso dovette rinunciare al suo desiderio.
Se osserviamo il quadro di Ingres, ci rendiamo conto che Zeus, pur emanando una prodigiosa energia, appare inerme. La vastità del suo torso è esposta, passiva, immobile. L'unico — e minimo — movimento è in Teti. Le dita di una mano che si addentrano come un morbido polpo nella barba di Zeus, l'altro polso appoggiato sulla sua coscia, un alluce che sfiora l'alluce del dio. Zeus, in questo unico caso, non può agire. Se cedesse fino in fondo alle seduzioni di Teti, sarebbe la sua fine. Al tempo stesso è evidente che Zeus desidera Teti. Il suo sguardo è fisso in avanti e nulla vede del corpo di lei. Non emana soltanto forza, ma un'abissale melanconia. Lo vide già Charles Blanc, che pur ne ignorava il motivo mitico, quando parlò di quel «volto al tempo stesso formidabile e di una tristezza infinita». Ma il dio approva il piacere sottile di quel minimo contatto: le dita che giocano nella barba, il braccio appoggiato sulla coscia, l'alluce che lo sfiora. Ora comincia a svelarsi perché dal quadro promana una estrema, quasi dolorosa tensione erotica. Ciò che si mostra è un desiderio carico di intensità e gravità. Perché la visione è altamente paradossale. La scena rappresenta qualcosa di proibito o comunque segreto: il desiderio inappagato del dio sovrano. Colui che aveva spiato, insidiato, posseduto Ninfe e principesse, l'unico seduttore invincibile, che doveva soltanto preoccuparsi di sfuggire all'occhio di Hera, evidentemente poteva incontrare anche lui un ostacolo. E lì si toccava il limite del politeismo, la sua dipendenza dai cicli cosmici, che sottomette ogni sovranità a una potenza superiore: Tempo. Che Ingres fosse consapevole del legame nascosto fra Zeus e Teti non è affatto sicuro. Anzi è altamente plausibile che lo ignorasse. Ma le immagini mitiche vivono di una forza propria — e possono guidare il pennello di un pittore così come il delirio di uno schizofrenico.
Nella sua tela immane, che invade il campo visivo dello spettatore e lo calamita, Ingres aveva mostrato il nefas del desiderio. Con ciò valicando il confine di ciò che è ammesso. Durante tutta la vita del pittore, il quadro non fu esposto al pubblico e non trovò mai un acquirente. Molti critici lo ignorarono. Delaborde, autore della prima monografia improntata a una totale devozione a Ingres, a mala pena lo nomina. E ancora oggi, nella voluminosa Oxford Guide to Classical Mythology in the Arts sono registrati tutti i quadri mitologici di Ingres ma non questo, che è il più grandioso. La profezia di Themis e di Prometeo non colpisce soltanto il dio, ma il suo simulacro.

il manifesto 21.6.07
Inferno di famiglia
di Marco d'Eramo


Meglio sola che male accompagnata, è la morale che si trae dall'ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza in Italia. Perché le cifre che fanno più impressione riguardano le donne: nel 2006 hanno subito violenza ben un milione 150.000 donne. E le donne che nel corso della loro vita hanno subito violenze sono 6 milioni 743.000 (una su tre italiane), di cui 5 milioni di violenze sessuali. Il numero più sconvolgente è che il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal loro partner, e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. È il marito l'aggressore più frequente ed è l'ambito familiare quello in cui si annida il pericolo maggiore. Altro che famiglia culla dei valori civili! La famiglia genera lividi, ematomi, lacerazioni, quando non decessi.
Eppure non è stata lanciata nessuna campagna di «pubblicità-progresso», nessuna serie di spot per mettere in guardia le mogli dai loro mariti, le donne dai loro conviventi. Mentre al contrario ci iniettano fleboclisi d'insicurezza: ogni istante ci ripetono che la città è pericolosa (ma anche le ville isolate del nord non sono poi così tranquille), ci spiegano che la criminalità è in aumento. Tutti siamo certi al 100% di vivere in una società molto più minacciosa e violenta di venti anni fa. Ebbene, ci sbagliamo: l'indicatore principale della violenza è il tasso di omicidi. Nel 1991 furono uccisi 1.901 italiani con un tasso di 3 omicidi ogni 100.000 abitanti. L'anno scorso gli omicidi sono stati solo 621, uno ogni 100.000 abitanti, un terzo di 16 anni fa! Ma la cosa più stupefacente, è che se si guardano le statistiche di un secolo fa, ebbene allora il tasso di omicidi era 10 volte tanto! Uscire di casa era infinitamente più pericoloso.
Allora come succede che la violenza reale sia diminuita, mentre la percezione della violenza è cresciuta? In gran parte è dovuto alla diffusione di radio e tv: nel 1910 un omicidio in un paesetto lucano o una strage negli Stati uniti venivano riferiti solo da una notizia di giornale e con ritardo. Ora l'eccidio più remoto ci arriva in diretta, entra nella nostra casa: ceniamo con i cadaveri sul piccolo schermo, ci svegliamo con corpi inceneriti, teste mozzate. Viviamo in un film dell'orrore e la società ci pare un horror essa stessa.
Ma la deriva sanguinosa dei media non è innocente, né ineluttabile: la demagogia fa di tutto per attizzare l'ansia «securitaria». Ovunque al mondo la politica di destra (a volte il fascismo) sobilla le peggiori paure dei propri elettori, come hanno fatto Bush negli Usa, Sarkozy in Francia e i leghisti in Padania, ovunque invocando ricette di «legge e ordine»: più repressione, più controlli sugli immigrati, più discriminazioni, «tolleranza zero» (cioè intolleranza infinita), che di fatto alimentano la violenza in una spirale di barbarie. Nessuno di questi accorati paladini della nostra incolumità si sogna però di porre un freno allo scempio che avviene al riparo delle mura domestiche, da cui la donna esce dicendo ai vicini che è «scivolata per le scale».

il manifesto 21.6.07
Violenze su un milione di donne


Roma. La paura abita dentro casa e convive con le donne. Ogni giorno in Italia 3.150 mogli, figlie, madri o conviventi subiscono una violenza, 131 ogni ora del giorno e della notte. Quando va bene, si fa per dire, la violenza consiste in un braccio piegato, uno schiaffone o un calcio. Quando va male si tratta invece di uno stupro o, peggio, di un omicidio. E gli autori di questi atti nella maggior parte dei casi sono proprio le persone più vicine, i partner, gli uomini con i quali si pensa di voler dividere una vita e con i quali ci si ritrova invece a dover subire l'inferno. Nel 2006 le donne che hanno subito una atto violento sono state 1 milione 150 mila, il 5,4% di quelle tra i 16 e i 70 anni, il 3,5% delle quali ha subito violenza sessuale. Un esercito. «Leggendo queste cifre sono rimasto assolutamente sconvolto», ha detto ieri il ministro degli Interni Giuliano Amato presentando il rapporto sulla sicurezza in Italia. Il titolare del Viminale si è detto colpito anche dal fatto che i protagonisti delle violenze nel 62% dei casi sono i partner: «Mi trovo in contropiede rispetto a questo». «Sono dati drammatici - è stato invece il commento del ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini - per questo mi rivolgo ancora una volta la parlamento perché venga approvata nel più breve tempo possibile il disegno di legge contro le molestie e la violenza sulle donne o per orientamento sessuale in discussione».
Da tempo si sa come le mura domestiche siano tutto tranne che quel luogo sicuro che si vorrebbe far credere, e come è proprio all'interno della famiglia che si verifica il maggior numero di atti violenti non solo contro le donne ma anche contro i bambini. Fa una certa impressione, però, vedere le cifre di questa guerra quotidiana messe in fila una dietro l'altra come ha fatto ieri il Viminale.
Negli ultimi dodici mesi - spiega il rapporto del ministero degli Interni - sono state 1 milione 150 mila le donne che hanno subito violenza, il 5,4% delle donne dai 16 ai 70 anni: il 2,7% ha subito violenza fisica, il 3,5% violenza sessuale e lo 0,3% stupri o tentati stupri. Spingere, strattonare, afferrare, storcere un braccio o tirare i capelli sono i comportamenti subiti dalla maggioranza delle vittime di violenza fisica (dal 56,7%); una quota quasi altrettanto elevata, il 52%, ha subito minacce, il 36,1% è stata schiaffeggiata, presa a calci, pugni o morsi, il 24,6% è stata colpita con oggetti.
Appaiono, invece, meno diffuse alcune forme più gravi, comunque presenti, come l'uso o la minaccia di usare una pistola o il coltello (8,1%) o il tentativo di strangolamento, soffocamento o ustione (5,3%).
Tra le violenze sessuali, sono invece le molestie fisiche sessuali a rappresentare la forma decisamente più frequente (per il 79,5% delle vittime), seguite dai rapporti sessuali non desiderati (19,0%), dai tentati stupri (14,0%), dagli stupri (9,6%) e dai rapporti sessuali vissuti dalla donna come degradanti ed umilianti (6,1%). Le violenze fisiche sono state commesse dal partner nel 62,4% dei casi, le violenze sessuali, senza considerare la molestia, nel 68,3% dei casi e gli stupri nel 69,7% dei casi.
Le donne tra i 16 e i 70 anni che inoltre hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita sono 6 milioni 743 mila, pari al 31,9% della classe di età considerata. Tre milioni 961 mila donne, pari al 18,8%, sono state vittime di violenze fisiche, 5 milioni (il 23,7%) hanno subito violenze sessuali. Più in particolare, nell'ambito delle violenze sessuali, 482 mila donne sono state vittime di stupro e 703 mila di tentato stupro nel corso della loro vita. Complessivamente, circa 1 milione di donne (il 4,8%), quindi, ha subito stupri o tentati stupri. Due milioni 77 mila donne, infine, il 18,8% delle donne che hanno avuto un partner e che si sono separate da lui, al momento della separazione o dopo di essa hanno subito forme di stalking, cioè di persecuzione che le hanno particolarmente spaventate.

Liberazione 21.4.07
Il capogruppo alla Camera del Prc: «Inutile dividirsi sulle forme»
Migliore: «Mille luoghi per far decidere alla gente il futuro della sinistra»
di Stefano Bocconetti


Non usa questa formula ma il senso è quello: lui dice che è sul "percorso" che si gioca il carattere democratico della sinistra che verrà. Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, è in Transatlantico, in una pausa delle votazioni. L'occasione giusta per scambiare due parole.

Allora, Migliore, come ti immagini la sinistra prossima ventura?
La immagineremo tutti insieme. Io penso soprattutto ad un itinerario: nel quale gli attuali gruppi della sinistra mettano a disposizione la loro organizzazioni - e scusa l'inciso: mettano a disposizione, non decidano il loro superamento - per costruire uno "spazio comune". Un luogo, mille luoghi dove la gente, il nostro popolo decida come strutturarsi. Decida che forma dare al nuovo soggetto della sinistra.

E per te che forma deve avere?
Non quella del partito.

Perché no?
Perché è una formula vecchia, inadeguata. Ma poi davvero se ne possono inventare mille e una. Perché non pensare a qualcosa, dove possa esistere anche una doppia appartenenza? Un po' come faceva la Flm. I lavoratori, i delegati si iscrivevano alla propria organizzazione ma anche alla federazione unitaria. Ecco, l'idea di cui tanti abbiamo parlato, potrebbe essere proprio quella di uno spazio comune a cui si ceda sovranità, scelte, competenze. Ma ti ripeto è un discorso che non può appartenere a questa fase del dibattito. A me interessa soprattutto altro...

Che cosa?
Che il nuovo soggetto ristabilisca il principio che la società interviene nella politica, non viceversa. E allora, il tuo compito oggi è quello di creare le condizioni, gli spazi appunto dove le persone possano decidere. In completa autonomia.

Delegare tutto alle decisioni popolari non è un modo per "frenare" il processo?
Ma via... La differenziazione fra "frenatori" ed "acceleratori" è un giochino che, tranne forse a qualche giornale, non appassiona nessuno.

Ma, insomma, è vero o no che la sinistra, tutti i parlamentari che oggi si collocano alla sinistra del piddì, da anni votano tutti allo stesso modo, votano gli stessi documenti? Avrà pure un significato?
Ma limitarsi a questo vorrebbe dire sollecitare un'unità a sinistra molto, troppo istituzionale. Se vuoi, la tua osservazione, al contrario vale per i democratici. Anche se hanno pochissimo in comune, hanno dato vita ad un partito. Questo per dirti che, insomma, se ci si limita alla sfera della "politica" non hai alcuna garanzia di successo nell'impresa.

Prendiamola da un'altra angolazione. Il Presidente della Camera al Palafiera ha chiesto al suo partito di avere "fretta". I tempi del percorso che tu disegni non significano però procedere troppo lentamente?
Niente affatto. Anch'io ho fretta, e quello che indico credo sia l'unica strada percorribile. Insomma, tu devi spingere affinché la volontà dei gruppi dirigenti della sinistra arrivi a definire uno spazio comune e contemporaneamente devi far vivere la "pratica unitaria" ovunque. Chiamando a partecipare centinaia di migliaia di persone.

Parli di un processo partecipato, insomma. Scusa la franchezza, però: usi quasi le stesse parole che usano i dirigenti del nascente partito democratico.
Loro faranno le primarie ad ottobre per stabilire che quota di fassiniani, veltroniani, rutelliani, annafinocchiariani saranno presenti nel consiglio direttivo. Noi, faremo una cosa diversa. Molto, molto concreta.

Cosa?
Promuoveremo una campagna vastissima - basata sulle feste di Liberazione ma non solo - rivolgendoci ad una platea molto più ampia di quella degli iscritti a Rifondazione. Una campagna di ascolto chiamando tutti ad esprimersi sul ruolo del governo, sull'esperienza di quest'anno. Sarà importante anche perché credo che questo governo avrà un futuro solo se sarà incalzato dalla sua base sociale, da quello che abbiamo chiamato "il popolo dell'Unione". Ma per noi questa consultazione sarà ancora più importante: perché chiederemo alle persone di esprimersi anche "sul come" si costruisce la sinistra d'alternativa. E bada bene: noi saremo vincolati a questa consultazione. Ciò che sarà deciso in quelle assemblee per noi sarà vincolante. Ecco perché credo che sia necessario che a queste consultazioni partecipi tutta la sinistra. A cominciare, naturalmente, da Sinistra democratica. Sarà insomma l'occasione in cui le persone cominceranno a parlare, e a pronunciarsi, su quale dovrà essere la struttura della sinistra futura. Mi pare di poter tranquillamente dire, insomma, che anche noi abbiamo fretta. Per cui ti ripeto: dividerci fra chi è innovatore e chi è appassionato all'identità, è un gioco stupido.

Però l'insistere sull'identità può diventare un ostacolo ai processi unitari. O neanche questo è vero?
Ma di cosa parliamo? L'identità di Rifondazione è esattamente un processo. E' qualcosa che si è andata costruendo un pezzo alla volta. Con una nuova analisi del potere, da cui è discesa la nostra idea di nonviolenza. Abbiamo innovato la teoria e la prassi politica...

Un'interruzione d'obbligo. A qualche osservatore esterno non è apparsa proprio rinnovata una cultura politica che si attarda a giustificare le limitazioni alle libertà individuali a Cuba...
Una volta per tutte. Disprezzo, come voi, gli eccessi stalinisti che si sono manifestati nella discussione aperta da Liberazione . La libertà di espressione delle persone non può essere in discussione. Nel merito: anche noi, quando c'è stato da dire qualcosa a Cuba, lo abbiamo detto. Pensa alle proteste quando s'è trattato di contestare la pena di morte. Ma una cosa è una critica, un'altra cosa è la delegittimazione. Comunque, stavo parlando della nostra identità. E ti dicevo che questo è il contributo che vogliamo portare al nuovo soggetto della sinistra. Altra cosa è la conservazione delle bandiere...

Ma perché bandiere, simboli ed identità non sono sinonimi?
Io per bandiere intendo le parole d'ordine che sintetizzano un partito, una formazione, una cultura politica. Pensa alla socialdemocrazia: sosteneva la pace, la libertà, la giustizia sociale. La pace ora è diventata guerra preventiva, la libertà indifferenza, la giustizia s'è ridotta al risanamento dei bilanci. E questo perché la socialdemocrazia s'è separata dai soggetti sociali che esprimevano le domande iniziali. Ecco, quando parlo di "bandiere" parlo proprio di questo: voglio che comunque la sinistra del futuro resti ancorata al proprio blocco sociale. Ai propri collegamenti.

L'ultima cosa. Domanda secca: ma il limitarsi ad indicare gli "spazi" dove le persone si eserciteranno a progettare la sinistra unitaria, non è un po' poco per definire un gruppo dirigente? Compito di questa "categoria" non dovrebbe essere invece quello di indicare soluzioni, prospettive? Di uscire dal contingente per guardare un po' più in là?
Permettimi, con uguale franchezza: è una domanda davvero figlia di una cultura novecentesca. Aggettivo in questo caso usato non in senso positivo. Perché nella crisi della politica, c'è anche - è ovvio- la crisi dei gruppi dirigenti. Ma non se ne esce inventandosi traguardi. Se ne esce solo con la democrazia. Solo favorendo le condizioni per cui siano le persone a decidere.

Liberazione 21.6.07
Il dovere di guardare "oltre" per la sinistra, per Rifondazione
La Sinistra europea è un grande patrimonio da non disperdere
Prendiamo esempio dal percorso tedesco e cominciamo
di Pietro Folena
*

Caro direttore,
possibile che un "oltre" abbia scatenato sul tuo giornale un vero e proprio putiferio? Ho letto la lettera di Francesco Ferrara - un compagno di valore che ho imparato ad apprezzare in questi mesi - e voglio dire che c'è qualcosa che non mi convince.
Ti prego di perdonare a un oltrista incallito - uno che vedeva in Berlinguer e nell'eurocomunismo un "oltre", che negli anni '80 con la Fgci chiedeva di andare "oltre" il muro di Berlino, che alla svolta di Occhetto ha partecipato appassionato per andare "oltre" a sinistra, dopo la crisi del comunismo, che ha cercato di portare questa ricerca nel primo Ulivo e poi nel correntone e che infine si è avvicinato a Bertinotti e al Prc quando sono andati "oltre", con la nonviolenza - quello che può essere scambiato per un atto di fedeltà a una propensione eretica. Ma non è solo così. Lo spirito della due giorni della Sinistra Europea è lo spirito dell'innovazione e dell'oltrepassamento.
Oggi è la sinistra, questa sinistra in Europa, noi tutti, Rifondazione compresa, che così non ce la facciamo. Non era questo il senso dello stare nei movimenti, di una ricerca aperta, della consapevolezza della nostra insufficienza? Insufficienza di forza e insufficienza di cultura. Non reggiamo in Europa e nel mondo, dove le parole liberali della sinistra moderata e quelle antagoniste di chi protesta non muovono la pancia, le paure, le alienazioni. Non reggiamo in Italia, dove la frantumazione politica della sinistra la rende ininfluente.
Dire che il processo unitario a sinistra deve partire dal basso significa proporre il tema di una rifondazione della politica nella vita concreta delle donne e degli uomini. E perciò abbiamo voluto qualcosa di più di semplici accordi di vertice, che mantengono intatti i soggetti e i loro gruppi dirigenti, prefigurando non l'unità della sinistra ma una sorta di "babele" in cui ognuno rimane se stesso senza mettersi in discussione, e mettere in discussione i propri simboli, le proprie liste, i propri apparati.
Sia chiaro: faccio politica da troppo tempo per non sapere che qualsiasi processo unitario passa dall'accordo tra i gruppi dirigenti. Ma, al contempo, i gruppi dirigenti devono sapersi mettere in discussione per un obiettivo più grande.
I partiti, i movimenti, devono avere la capacità di intercettare il sentimento dei propri elettori che oggi non si accontentano di parole e di vaghe promesse sul fatto che un giorno ci sarà la sinistra unita. No, i nostri elettori chiedono l'unità in tempi rapidi perché sanno - e lo sappiamo anche noi - che il tempo a disposizione è poco per risalire la china. Se non saremo capaci di fare massa critica non otterremo molto negli equilibri della coalizione e quindi sulle politiche che stanno a cuore alla nostra gente. Faccio un esempio: dopo un anno e mezzo di governo scopriamo che la Legge 30 non verrà abolita e neppure radicalmente modificata. Al limite, secondo il ministro del Lavoro, verranno cancellati istituti che tanto le imprese non usano. Insomma, niente.
Come rispondiamo in modo efficace a questa involuzione?
Per questo non possiamo rispondere all'appello di Bertinotti dicendo che non cambierà nulla. Dobbiamo ringraziare Bertinotti, e anche Liberazione , per averci aiutato a disegnare un orizzonte più largo. Nel momento in cui - giustamente - abbiamo chiesto ad altri pezzi della sinistra di essere chiari rispetto alle prospettive di un percorso unitario e questa chiarezza alla fine è arrivata, nel momento in cui la prospettiva di un soggetto unitario della sinistra è un obiettivo realistico, occorre lanciare il cuore oltre l'ostacolo e dire che le proprie forze sono completamente a disposizione di qualcos'altro.
Dice giustamente Fabio Mussi che occorre uscire dalle trincee. Tutti noi. Preferisco dire: andare oltre. La Sinistra democratica oltre quella del socialismo europeo (che non è un monolite depositario della Verità, ma un aggregato di tanti socialismi), Rifondazione, i Verdi e il Pdci oltre la tentazione di mantenere i propri (legittimi, ci mancherebbe) confini. Il Prc ha già compiuto un primo parziale passo significativo e non scontato in tale direzione con la proposta della Sinistra europea. Io vi partecipo come tappa per costruire una sinistra senza aggettivi. Nessuno intima al Prc di sciogliersi. Ma avevo capito che il Prc stava dentro questo processo proprio con la consapevolezza che si è esaurita una fase, fondata sulla propria autosufficienza e, da Genova in poi, se ne è aperta un'altra. Ricollocare l'esperienza storica del Prc in un alveo più grande, cominciando dall'esperienza di Sinistra Europea non vuol dire sciogliersi, ma piuttosto evitare che si disperda un grande patrimonio.
Si deve avere allora il coraggio di fare quel passo in più e di dire che alle prossime elezioni amministrative ci sarà un solo simbolo e una sola lista di tutta la sinistra e poco dopo un solo soggetto, così come hanno fatto i nostri compagni in Germania.
So che su questo percorso vi sono ostacoli non semplici da superare. Ma proprio per questo è venuto il momento di indicare chiaramente la meta e i tempi per raggiungerla.
Deputato Prc-Se,
Portavoce "Uniti a Sinistra"


il Riformista 21.6.07
Mentalità. Per Christopher Hitchens c'è un avvelenamento psico-sociale
Non possiamo non dubitare dello spirito religioso
di David Bidussa


In «Dio non è grande» lo scrittore inglese rivendica il pensiero scettico e capovolge l'immaginario collettivo dei credenti per cui la morale e l'etica hanno a che fare con la fede. un invito di segno opposto a quello di Benedetto Croce per cui non ci si poteva non dire cristiani

Come allontanarsi da Damasco e non tornarvi mai più. Il programma non riguarda una linea di politica internazionale. Non si tratta della Siria in quanto paese sovrano, bensì della questione della fede e del suo posto in quota nella hit parade del sentimento di questo tempo. In un contesto in cui la via di Damasco sembra bloccata dal traffico e dagli ingorghi che l'affollano, il testo di Christopher Hitchens (Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi Stile libero 272 pp., 14,50 euro) propone di invertire la marcia.
In generale il testo di Hitchens riprende alcuni temi cari allo scetticismo. Per esempio: attendibilità storiche del testo biblico, credibilità dei commenti tradizionali delle fonti (da Tommaso d'Aquino a Maimonide). Tuttavia il nucleo essenziale del libro di Hitchens è costituito dalla forza del religioso e non dalla sua attendibilità logico-formale. È l'incapacità di rispondere alla violenza e alle minacce di chi non sopporta vignette perché considerate blasfeme; le pratiche riguardanti il corpo, il sesso, la circoncisione; la carica di violenza, di autoritarismo, di violazione del corpo degli altri predicata e praticata lungo il corpo complessivo dei testi sacri di tutte e tre le grandi fedi monoteistiche; è la convinzione che la morale e l'etica abbiano a che fare con la fede.
È dunque la mentalità religiosa, del vissuto religioso ciò di cui tratta Hitchens in questo suo libro. Una mentalità che non riguarda solo chi religioso è, ma anche il senso comune che al religioso è riconosciuto da chi credente non è. Una replica che è fondata sul rovesciamento del senso comune. È ciò che Hitchens fa, per esempio, riportando la risposta data a Dennis Prager (che gli chiede una risposta secca del tipo sì/no), un conduttore televisivo di programmi religiosi, alla domanda se trovandosi in una città sconosciuta, e vedendo un folto gruppo di uomini che si avvicinava verso di lui, si sarebbe sentito più sicuro, sapendo che avevano appena terminato un incontro di preghiera. La sua risposta è pertinente, ma soprattutto, rovescia il senso della logica con cui l'attuale senso comune intorno al religioso. E infatti risponde: «Per restare alla lettera "B" ho effettivamente fatto questa esperienza a Belfast, Beirut, Bombay, Belgrado, Betlemme e Baghdad. In ciascun caso posso dire senza titubanze e posso fornire le mie ragioni che mi sarei sentito immediatamente minacciato se avessi pensato che il gruppo che mi si avvicinava nel crepuscolo veniva da una cerimonia religiosa».
In un saggio della tarda maturità, (per la precisione il 20 novembre 1942, ne La critica) Croce pubblica «Perché non possiamo non dirci "cristiani"». In quella sede l'uomo Croce rivendica con passione l'efficacia insostituibile del sentimento cristiano per essere appunto uomini, nudi uomini legati da un patto di fratellanza ch'è la ragione stessa della loro individuale sopravvivenza e, insieme, della società in cui vivono non derelitti, ma felici come Dio ha voluto. In quel testo Croce avvertiva il «bisogno di dare risalto a ciò che più spicca nel cristianesimo e forma la sua prima e più diretta contribuzione alla storia del pensiero: l'etica non soltanto purificata da ogni utilitarismo, ma incentrata in una concezione divino-umana, che fa discendere Dio nell'uomo e l'uomo solleva fino a Dio».
È un sentimento che ha popolato a lungo l'immaginario e il pensiero di molti laici combattuti tra fede e ragione. L'invito di Hitchens è in qualche modo diverso se non opposto. Ed è quello di rivendicare un pensiero, quello scettico, più che quello ateo, il senso del limite e della propria passione al sapere di fronte talora alla propria inadeguatezza, in ogni caso a non demordere, né a deflettere dalla propria condizione. Un invito, più di sessant'anni dopo Croce, a rivendicare il diritto di dirsi scozzesi (anzi ad affermare che essere moderni significa «non potere non dirsi scozzesi»), e a ritrovare quella logica che fu di Ferguson, di Berkeley, di Adam Smith e soprattutto di David Hume.




Il Tempo sabato 23 giugno 2007
QUADRI, MUSICA E VIDEOARTE: E’ LA MOSTRA DI ANCILLAI
di Francesca Balestrieri


Sermoneta – Proprio in concomitanza del Campus Internazionale di Musica a Sermoneta quest'anno si svolgerà la mostra personale dell'artista romano Alessio Ancillai. L’esposizione, che sarà inaugurata oggi alle 18.30 e sarà visitabile fino al 28 luglio, si svilupperà nelle tre sale superiori del Palazzo Caetani, con un'articolazione nella sala del Cardinale del castello Caetani. La mostra, che non comprenderà solo la pittura, ma anche la musica, la poesia e la videoarte, si chiamerà «Suoni e Silenzi - tempo interno». Sarà un progetto dedicato all'immagine più profonda del suono e del silenzio passando per una dimensione temporale. Alla domanda sul perché un artista di arti visive si interessi a temi musicali, Ancillai risponde: « Da qualche anno sento un forte interesse verso questo tema, precisamente da quando nel 1996 ho ascoltato le affascinanti proposizioni al convegno di Firenze, “Immagine della linea”, promosso dal gruppo di architetti del Coraggio delle Immagini. Ho cominciato a pensare alla linea non più come immagine della natura, ma come immagine creata dall’essere umano.». Alessio Ancillai, desidera raggiungere l'estremo linguistico, luogo di coincidenza tra linea, suono, colore, ricercando quel procedimento di collimazione tra gli elementi, di passaggio naturale e corrispondenza tra quantità cromatica e sonora, origine di armonie a differenti livelli. Il momento di sublimazione sonora è nell'estremo della linea bianca, avvolgente lungo spazi minimi, teatro degli interstizi cromatici. Il suono che l'artista cerca sgorga dal profondo del mondo, degli oggetti, dei paesaggi naturali e dai rapporti interumani. Orari: venerdì 16.00 - 20.00 - sabato e domani 10.00 - 13.00 / 16.00 - 20.00, l’ingresso è libero.

Latina Oggi 21 giugno 2007
Una mostra, un progetto ambizioso nelle sale del maestoso Castello di Sermoneta Suoni e Silenzi
Alessio Ancillai: l’arte incontra la musica e ne capta i segreti
di Francesca Del Grande

LA MUSICA e le sue suggestioni si riflettono nell'arte, si incontrano, l'una ad ispirare l'altra che ne coglie tutta l’intensità. Accadrà in uno scenario maestoso, quello del Castello di Sermoneta, l'antico maniero, lì dove le note del Festival pontino risuoneranno in momenti di eccezionale classe; lì dove un artista, Alessio Ancillai, presenterà al pubblico il suo ambizioso progetto. Sì, musica ed arte si fonderanno in un contesto di massima raffinatezza: le serate del Campus, occasione ideale per ascoltare esecuzioni di alta qualità ed una mostra che alla musica guarda e attraverso un percorso della mente e del cuore approfondisce la magia del suono e dei silenzi per poi esprimerla con la poesia e la pittura grazie al genio creativo dell’uomo. Alessio Ancillai riesce ad immergersi nel suono e nel silenzio e a dirne nei modi più espressivi. «Suoni e Silenzi -tempo interno», questo il titolo dell’evento che sarà ospitato nelle tre sale superiori del maniero. Uno studio accurato condotto su vari fronti, un far collimare armonie cromatiche e musicali per rubarne le «emozioni», le impressioni, i raffronti ed esternarli in un discorso che raffigura il senso della loro esistenza, dei loro segreti captati e interpretati dall’artista. Sin dall’esaltazione degli elementi primari della figura, dalle linee, il rapporto con il suono si fa sentire e le immagini ne rendono l’idea in una significativa visione poetica. La mostra propone una raccolta di opere tra quadri, poesia e videoarte. Nitida si avverte la tensione della ricerca, chiaro emerge il coraggio di affrontare un tema tutt’altro che facile,con un impegno totale di autentica originalità. E’ una nuova importante tappa del percorso artistico di Ancillai che nel passato affrontò, ancora una volta con abile intuizione, i
temi del colore e della linea. Maurizio Maturi, docente di disegno del corso di grafica e progettazione multimediale della Facoltà di Architettura di Roma «Valle Giulia», coglie a pieno l’esito affascinante cui è arrivato Alessio: «Questo passaggio che vede l’artista impegnato nella ricerca della profondità dell’immagine – scrive Maturi -, tra espressione bidimensionale e tridimensionale, lo espone al confronto con la ricreazione della realtà del primo anno di vita, ove affetti e la visione incerta e nebulosa fondono il colore, la linea e le figure astratto geometriche in una sintesi creativa dell’ oggetto percepito ».La mostra «Suoni e Silenzi» sarà inaugurata sabato prossimo, 23 giugno, alle 18.30 e sarà aperta ai visitatori dal giorno successivo sino al 28 luglio. Venerdì 13 luglio verrà presentato anche il raffinato catalogo che l’accompagna. L’evento gode dei patrocini del Comune di Sermoneta, del Campus Internazionale di Musica e della XII Comunità Montana.

mercoledì 20 giugno 2007

Corriere della Sera 20.6.07
La fine dell'Occidente «Credere al divenire è la sua follia» di Emanuele Severino


Dal volume L'identità della follia, diamo in anteprima un estratto di un brano del secondo capitolo intitolato Precipitare nell'esser-altro. In esso è riportata la lezione tenuta da Severino a Ca' Foscari il 10 ottobre 2000
D opo il mito compare l'esigenza di porre la verità come condizione della felicità. Dopo i millenni del mito compare ciò che chiamiamo Occidente. Con la parola «Occidente » intendiamo qualcosa di pregnante, di determinato, non il significato corrente nella pubblicistica o nella stessa cultura contemporanea. Intendiamo ciò che cresce all'interno di un fondamentale atteggiamento di pensiero e quindi di azione; ciò che cresce all'interno di un fondamentale modo di pensare. Tale «fondamentalità» può essere indicata da due espressioni: l'identità (l'Occidente è volontà di identità) e il divenir-altro delle cose — quel divenire altro che abbiamo incontrato in Eraclito, dove, si dice che «son lo stesso le cose che hanno nomi opposti (giovane-vecchio, morto-vivo...) perché le une precipitando (così avevamo tradotto), sono le altre». Questo precipitare nelle altre è ciò che per la nostra cultura è diventato l'evidenza somma, ma con una accentuazione del senso iniziale del divenir-altro della quale dovremo parlare. Il mito è un percorso millenario che a un certo punto si «increspa ». Questa increspatura, in cui si dispiegano i millenni, è ciò che chiamiamo «Occidente». L'avvento dell'Occidente è costituito dalla crescita all'interno di due tratti essenziali: tautótes
(volontà di identità, abbiamo detto: ci ritorneremo) e il divenir-altro. Ma perché chiamare "volontà di identità" — ci si potrebbe chiedere — ciò che tutti noi riteniamo inevitabile, ossia che le cose siano se stesse? Certo, non ci siamo ancora intesi sul significato della parola «identità», e tuttavia una qualche cognizione su ciò che significhi «esser se stesso» l'abbiamo tutti. Perché dunque parlare di «volontà di identità »? Invito a tenere in sospeso questa domanda, che pone come oggetto di volontà ciò che dal punto di vista comune dell'Occidente invece è un'ovvietà, perché la risposta ci farà entrare al centro del discorso che proponiamo di sviluppare. Occidente — stiamo dicendo — è ciò che cresce all'interno di questa sintesi: le cose variano. Può variare una cosa se non diventa altro da ciò che essa è?... L'Occidente nasce all'interno della sintesi di ciò che abbiamo chiamato «volontà di identità» e di ciò che ora, in questa sintesi, chiamiamo «volontà di diventar altro», volontà che il divenire sia un divenir-altro. Ma di nuovo: perché «volontà»? L'identità è lì, le cose sono identiche; il divenir altro delle cose è lì — stiamo parlando di categorie la cui esemplificazione è totale. Loro alzano lo sguardo per guardarmi: è un divenir altro. Un piede che si muove, le galassie, il Big Bang originario...: divenir-altro. Non c'è variazione, produzione, trasformazione, metamorfosi che non sia un divenir altro. Già nel mito è presente il divenir altro. La parola «metamorfosi», che è piuttosto recente nella lingua greca, significa cambiar la forma ( metá-morphé):
l'umano che diventa animale o l'animale che diventa umano, come in molti racconti; o, per chi è cristiano, il vino che diventa sangue, il pane che diventa corpo di Cristo; ma, più semplicemente, è una metamorfosi anche il fatto che io prima tenessi in mano il pennarello e adesso l'abbia posato sulla cattedra. Stiamo procedendo in una direzione in cui dovrà apparire che quella che per i non credenti è un'evidente follia — il pane che diventa corpo di Cristo — è invece l'atteggiamento normale, l'attitudine fondamentale tanto per il senso comune che per la cultura e per la scienza. Ci avvicineremo al luogo in cui dovrà apparire che la follia di ciò che il linguaggio religioso chiama transustanziazione (ossia cambiamento della sostanza) è la stessa follia di ogni divenir altro: ogni divenire altro è l'impossibile. Ma per ora chiudiamo queste parentesi che servono a mostrare molto da lontano la strada che dobbiamo percorrere.

Severino. Quell'ossessione dell'identità di Armando Torno

Ad oggi le lezioni universitarie di Emanuele Severino non si conoscevano al di fuori delle aule. Quelle tenute alla Cattolica di Milano, sino al 1970, non sono mai state raccolte, ad eccezione di qualche introvabile dispensa degli anni '60. Quelle recenti, svolte all'Università Vita-Salute San Raffaele, non sono state pubblicate e nemmeno si aveva notizia delle altre, a Ca' Foscari di Venezia, sino al 2001. Questo dipende anche da come Severino tiene i corsi: fa riferimento ai suoi libri ma parla a braccio, lasciando poi libertà agli argomenti e spazio a eventuali repliche. Addirittura alla Cattolica ritirava dei fogli alla fine delle lezioni, rispondendo la volta successiva. E questo sia detto per un filosofo che ha diviso chiaramente la sua produzione: i testi teoretici sono pubblicati da Adelphi (qui, a settembre, uscirà Oltrepassare, che Severino considera il suo libro più importante), mentre quelli divulgativi escono da Rizzoli.
Ora ecco venire alla luce le registrazioni di una decina di corsi con le lezioni veneziane (merito è di Gianni Zennaro e Roberto Iannantuono). Quest'ultimo le ha sbobinate e trascritte. Sono testi a metà strada tra quelli divulgativi e quelli scientifici: con essi un pubblico di addetti ai lavori, ma anche di lettori interessati, ha a disposizione pagine con riflessioni sulla tematica cara a Severino, arricchita di approfondimenti ma anche di ulteriori spiegazioni. Giorgio Brianese, Giulio Goggi e Ines Testoni hanno curato con affetto e acume tali lezioni, completandole con riferimenti bibliografici e con rinvii alle opere dello stesso Severino. I termini greci sono stati traslitterati, in modo che anche un lettore non specialista possa entrare nel vivo del discorso. Il volume che esce oggi da Rizzoli si intitola L'identità della follia (pp. 378, e 19,50) e avvia la pubblicazione dei corsi veneziani, a cominciare dall'ultimo anno, il 2000-2001. Sono le prime 16 lezioni (altrettante sono previste il prossimo anno) e ognuna di esse si è svolta in due ore accademiche. Il titolo era greco: Tautótes, parola usata da Aristotele e che significa «identità». Questa parte si proponeva di «portare allo scoperto» una questione basilare: la critica appunto dell'identità, così come è intesa nel pensiero e nell'agire occidentale. Tali lezioni rappresentano un contributo alla individuazione della «essenziale follia» del senso che l'Occidente ha dell'identità (è più radicale di quella di Marx, che la vede nel capitalismo). Se volessimo tentarne un paragone, diremmo che è il significato autentico di ciò che in sede religiosa si chiama peccato originale.
La radicalità della follia, per Severino, è pensare che le cose possano diventare niente. La nostra follia è la convinzione nascosta, o «inconscia», che gli essenti — case, alberi, affetti, pensieri, situazioni, eventi — siano niente. Ma, contrariamente a quel che crediamo, sono eterni.

il Riformista 20.6.07
Quando si discute seriamente Sinistra, un «laboratorio» di idee


Per fortuna, a sinistra (sia dentro che fuori dal Pd), non si è perso il vizio di discutere. Lo hanno fatto - anche se per decretare, “da destra” (Veltroni) come “da sinistra” (Bertinotti) la sostanziale «morte» dell'utopia socialdemocratica - il sindaco di Roma e il presidente della Camera lo scorso lunedì mattina, al Campidoglio, stimolati dalla presentazione di una biografia sul leader socialdemocratico svedese Olof Palme. Biografia scritta da Aldo Garzia, ex giornalista del manifesto che oggi dirige la nuova rivista - voluta proprio dall'ex leader di Rifondazione - alternative per il socialismo.
Hanno discusso, e in modo approfondito, ieri mattina, alla sala refettorio della biblioteca della Camera dei deputati, chiamati a raccolta dal Centro per la riforma dello stato (Crs), di cultura politica della sinistra (o, meglio, «delle sinistre»), i leader dei Ds (Fassino), di Sinistra democratica (Mussi) e del Prc (Giordano), oltre a molti intellettuali e opinionisti d'area. Richiamati dall'autorevolezza e dalla lucidità di un pensatore tagliente (e provocatorio) come Mario Tronti. Il quale ha proposto - a «tutta» la sinistra - di costituire un vero e proprio «laboratorio di cultura politica». E ha molto fatto discutere i convenuti con un affondo critico sulla (a suo dire «malintesa») «idea di laicità» che oggi attraversa la sinistra medesima.
Naturalmente, le risposte alle provocazioni di Tronti dei suoi interlocutori politici, che hanno passato un'intera mattinata ad ascoltare e prendere, diligentemente, appunti, sono state molto diverse. Mussi ha insistito sulla necessità della ripresa di «un pensiero forte». Giordano sulla «dimensione della precarietà che oggi è, anche dal punto di vista antropologico, la forma del capitalismo». Fassino ha cercato di persuadere l'uditorio che «il rapporto tra riformismo e radicalità è quello di due dimensioni complementari, non antagoniste e che non si escludono». Al di là delle opinioni di ognuno, resta il punto: una volta tanto, la sinistra prova a discutere, non solo a litigare.

il Riformista 20.6.07
Cosa rossa. Parla il segretario del Prc
Giordano accelera e invita Mussi Intanto attacca le socialdemocrazie di Alessandro De Angelis


«L'idea che ci deve guidare è quella di una alternativa di società: io continuo a vedere l'orizzonte, per dirla col vecchio Marx, di una società di liberi e uguali». E ancora: «Non si può dire: o governi o stai con i movimenti. È lo schema americano per cui il governo è elitario e i movimenti non cambiano la politica». Il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano in una conversazione col Riformista è perentorio: «Io voglio trasformare la società». A pochi giorni dall'assemblea costituente della “sezione italiana” di Sinistra europea, il nuovo soggetto tenuto a battesimo da Fausto Bertinotti, ribadisce le sue parole d'ordine: «alternativa di società» e «socialismo del XXI secolo». E lancia a Mussi un appello a costruire la “Cosa rossa”: «Uniamoci senza scioglierci».
Ma partiamo dall'inizio. Il Prc ha scelto di andare “oltre” i suoi «muri» e i suoi tradizionali steccati e Giordano chiarisce qual è il nuovo obiettivo: «La costruzione di un soggetto politico con tutti quei partiti, movimenti, associazioni che sono critici rispetto al tempo presente e condividono un'impostazione politica basata sull'antiliberismo, sul pacifismo e sulla laicità». E precisa: «Non c'è sinistra senza un nuovo orizzonte di trasformazione della società italiana».
La mette in termini epocali Giordano, che analizza le difficoltà della politica e del governo Prodi in uno scenario più ampio: a fronte di una crisi del capitalismo e della politica su scala non solo italiana, la risposta non possono essere le socialdemocrazie, che boccia senza mezzi termini, da quella di Blair a quella di Zapatero: «Il modello socialdemocratico è in crisi. Le forme attuali della socialdemocrazia emendano il liberalismo e ne vengono travolte». Se l'opposizione alla destra la facessero solo i partiti socialisti per Giordano «ci sarebbe il rischio di estinzione della sinistra». Per non parlare dell'Italia, dove nel Pd il segretario di Rifondazione non solo non vede la gamba riformista dell'Unione, ma nemmeno «un oggetto con cui confrontarsi». Quindi non solo il riformismo europeo è in crisi e non solo in Italia non c'è neppure quello; ma per Giordano c'è dell'altro: con una punta di malizia rispetto alle cronache (vai alla voce: intercettazioni o scalate bancarie) bolla la sinistra come «priva di relazioni sociali» e legata a «un'idea di sostituzione rispetto al vecchio sistema di potere: banche, finanza, economia». E se le socialdemocrazie e tutti quelli che ad esse fanno riferimento si limitano ad addolcire l'esistente senza cambiarlo un gran che, il luogo dell'alternativa per il segretario di Rifondazione non può essere il Pse: «Non è un cantiere perché nei fatti avalla il neoliberismo e non affronta la crisi del riformismo». Suscitano interesse all'interno del Pse (vai alla voce: Mussi) solo «coloro che provano ad analizzare la crisi del riformismo».
Conclusione: il dialogo con Mussi può sfociare in «una soggettività nuova in Italia», con Boselli no. Il nodo si chiama sempre capitalismo, e il dibattito è sempre lo stesso: c'è chi lo critica in nome di un diverso ordine sociale e chi lo governa. Giordano lo critica e, rivolgendosi a Formica, spiega: «La sua idea di governo sta dentro il processo di modernizzazione che non è oggettiva ma è capitalistica, come quella di Craxi negli anni Ottanta». Al contrario, Rifondazione oggi e la “Cosa rossa” di domani «devono battersi per un'alternativa a quel modello». E a Boselli, secondo il quale «è meglio applicare le ricette di Rasmussen rispetto a quelle di Bertinotti», Giordano risponde. «è esattamente il contrario». In particolare la flexsecurity non è un modo per temperare la flessibilità, ma una sorta di sfruttamento doppio, «la presa d'atto che non c'è alternativa alla centralità dell'impresa: è la forza lavoro che deve adeguarsi e se non ce la fa interviene lo Stato a sottrarre gli oneri della tutela». E aggiunge: «Ne deriva che nessun diritto è per sempre e la precarietà non è una patologia ma la forma del processo produttivo». Praticamente, per il segretario di Rifondazione, una cura peggiore della malattia.
Ma se tra Giordano e Boselli le distanze sono incolmabili, con Mussi c'è un ponte, o forse già qualcosa di più: «C'è una totale convergenza nell'azione dei gruppi parlamentari sui temi economico-sociali, su quelli della previdenza, sulla visione dei diritti dei lavoratori». Giordano è più che ottimista sul lavoro comune con Sd e, viste le premesse, lancia un appello a Mussi: «Caro Fabio, usciamo dalle trincee e costruiamo insieme questo nuovo soggetto politico unitario, senza negare o sciogliere le identità di nessuno. Noi dalle nostre trincee siamo usciti».

Liberazione 20.6.07
L'intervento integrale di Bertinotti all'assemblea della SE
«Un soggetto plurale e unitario della sinistra è irrinviabile»
di Fausto Bertinotti


Vi parlo in una veste che sto per dismettere, quella di presidente del Partito della Sinistra Europea, e lo farò con rispetto per le istituzioni e per il mio ruolo istituzionale. Per questa ragione non parlerò del governo, delle sue azioni e di come dovrebbe rispondere alle grandi questioni sociali aperte né formulerò giudizi sulle forze politiche. Malgrado questi limiti di autocensura credo di potervi parlare di ciò che considero essenziale in questa fase politica in Europa. Vorrei trasmettere il senso drammatico del momento che stiamo vivendo e contemporaneamente di una necessità storica che credo sia una reale possibilità.
Siamo a un passaggio cruciale, acuto. Non c'è in questo nessuna drammatizzazione artificiale e anzi credo dobbiamo andare a fondo in questa percezione. Passaggio drammatico e acuto per chi? Per l'Europa in primo luogo. Il suo futuro come possibile potenza di pace e produttrice di un modello diverso di organizzazione dell'economia è a rischio, ma con essa è a rischio la civilizzazione che in Europa si è costruita con la grande irruzione delle masse popolari dopo la liberazione contro il nazifascismo. Ma all'interno di questo passaggio acuto per l'Europa c'è un passaggio ancor più acuto per la sinistra in Europa. Credo dobbiamo avere chiara la percezione che è a rischio la sua esistenza, il suo futuro.
Di quale sinistra stiamo parlando? Credo che si possa dire che oggi con l'eredità della storia, con la sinistra storica, la sinistra del movimento operaio, è a rischio una sinistra politica che voglia costruire "la politica" sui rapporti sociali, sulle condizioni sociali di vita, che voglia andare oltre la riduzione astratta e mistificante di tutte e tutti "al cittadino votante", per scoprire dentro questo esercizio in democrazia, la natura sociale delle persone, delle coalizioni sociali. La domanda all'ordine del giorno che non possiamo sfuggire è se esisterà un futuro per questa politica in Europa. Per una politica, cioè, che sia costruita sulla critica al capitalismo del nostro tempo e al patriarcato cioé alle strutture e alle culture che determinano l'oppressione dell'uomo e della donna contemporanee. Se casca questa possibilità casca con essa un'idea dell'Europa. L'Europa nel mondo e nelle organizzazioni sociali come portatrice di un autonomo progetto anche rispetto alla globalizzazione capitalistica. Un'idea di civiltà.
Ora perché corriamo questo rischio? Cosa è accaduto e cosa sta accadendo per cui questa sinistra, "la sinistra" è a rischio? Noi viviamo una crisi profonda della politica che segna profondi elementi di distacco di parti importanti delle masse popolari dalla politica. Una sorta di dura disaffezione. Un'impossibilità di investire le proprie emozioni, i propri convincimenti nella politica. E' l'esito di un quarto di secolo e dei processi dominanti in questo ultimo quarto di secolo.
In questa crisi della politica si è affacciato un nuovo soggetto politico, non solo economico-sociale come è sempre stato: l'impresa. L'impresa che nel mercato ha l'ambizione non solo di costituire il punto forte dell'organizzazione sociale, ma il paradigma della politica. Sta qui l'ambizione, di questo nuovo capitalismo, di cancellare il discrimine tra destra e sinistra pretendendo di imporre, invece, una presunta neutralità dietro la quale non c'è altro che l'egemonia dell'impresa e del mercato. Se Montezemolo muove la critica e la contestazione per ottenere la demolizione del rapporto del conflitto tra destra e sinistra non serve chiedere di quanti voti e portatori. Serve piuttosto cogliere il senso profondo della sfida.
E dentro questa crisi della politica c'è la crisi della sinistra: la crisi nella crisi. La sinistra era più esposta a questi processi, dopo vicende assai complesse che l'hanno caratterizzata per lunghi decenni, trasformazioni passive che ha subito. E proprio nella modernizzazione che si rivela la difficoltà. Il voto in Francia, ma anche in quello del Nord Italia ci dicono qual è il rischio e qual è l'esito che può intervenire nei processi politici se non combattiamo questo rischio: una sinistra maggioritaria nel voto, ma che dimentica non solo la tradizione comunista e socialista, ma anche quella socialdemocratica per un approdo liberal-sociale, dall'altra parte una sinistra d'alternativa frantumata, chiusa nella ricerca di piccole identità è ininfluente sulla politica e sulla società.
La destra vince perché è portatrice di un'idea forte di società. Una cattiva idea, ma un'idea. E per questo sfonda in un mondo caratterizzato dalle paure, dalle incertezze, dal rischio rispetto al futuro. Dà una risposta forte: cattiva, ma forte. La Francia vede nel voto confermare l'esistenza del discrimine fra destra e sinistra. Anche perché c'è una mobilitazione contro il pericolo Sarkozy e una parte importante della popolazione operaia che persino aveva votato anche Le Pen, ritorna a votare a sinistra per arginare questo pericolo. Ma siccome questa distinzione non affonda le sue radici nella società, cioè la sinistra non organizza la cultura della sinistra, la destra sfonda e vince.
Risulta così un panorama disperante, una sinistra senza classe che primeggia nel voto e nell'opinione e una sinistra di classe che non guadagna un consenso di massa, consegnando così tanta parte della popolazione alla sfiducia. E' il rischio che si aggira per l'Europa.
E io chiedo davvero che ci interroghiamo su questo rischio. Sulla impossibilità che finiamo così mentre tante domande si affacciano nella società, tante soggettività, tante criticità, tante esperienze nei movimenti. Eppure, questa criticità, questi conflitti, questi movimenti non bastano. Davanti a noi c'è il rischio di una americanizzazione della vita politica in Europa, dove anche i conflitti sono confinati nella marginalità perché la politica la fanno altri soggetti. Noi dobbiamo contrastare a fondo questo rischio.
La sinistra ce la può fare, come testimonia l'esperienza complessiva dell'America Latina, dove si assiste a una rinascita sulla base di un nuovo patto tra le politiche della sinistra e i popoli o con l'esperienza in Germania dove nasce un nuovo soggetto della sinistra che sarà protagonista del futuro del paese e dell'Europa. Possiamo farcela, ma non bastano i correttivi all'esistente, mentre addirittura risulterebbero fuorvianti le repliche identitarie. La possibilità di difenderti da questa onda alzando la bandiera e alzando la capacità di denuncia.
Bisogna delineare, io credo, con tutti coloro che vedono questo rischio, un'operazione politica grande e impegnativa. Si tratta di arginare l'onda della depoliticizzazione e riprendere il cammino dalla trasformazione della società e dell'Europa. Io credo questo sia il compito della Sinistra Europea e delle sinistre in tutti i paesi europei. Rendere ciò un obiettivo credibile oltre che giusto. E' una necessità e penso in Italia, per voi, anche un'occasione. Quando una parte delle forze riformiste fanno una scelta di ricollocazione nella società e costituiscono così una novità politica, tanto da configurare la possibilità di un nuovo rapporto fra tutte le forze della sinistra di alternativa.
Le sinistre non possono sfuggire a ciò che è all'ordine del giorno, come antidoto al rischio indicato, cioè la costruzione di una sinistra di alternativa capace di mobilitare grandi energie in questo paese. Gli elementi di partenza ci sono. Si sentono largamente condivisi in un vasto campo di popolo. Sono il rifiuto della guerra e del terrorismo, in primo luogo. E come avessero ragione i movimenti, il partito della pace, ce lo dicono le vicende di questi giorni. Quando la politica viene messa sotto scacco ormai c'è la tragedia. Guardiamo la vicenda palestinese che non è solo confinata alla tragedia di un popolo in un territorio. E ci dice che se viene meno la prospettiva politica, quella spirale guerra-terrorismo si abbatte su tutti in termini devastanti. E l'altro discrimine è quellocresciuto in tutti questi anni dal rifiuto delle politiche neoliberiste per costruire altri elementi di politica. Un processo dunque per costruire una risposta a grandi temi come quello della precarietà che corrodono il tessuto sociale. La costruzione di una politica di alternativa.
Ma per farlo è necessario costruire una massa critica capace di dare efficacia alle cose giuste, non basta aver ragione bisogna potersela prendere la ragione per poter cambiare il paese. E per prenderla ci vuole una forza che sia in grado di rimotivare una nuova prospettiva. E per costruirla ci vuole la necessità di cogliere il momento, l'attesa che si produce. Non tutti i momenti sono uguali, lo sappiamo bene. Se si suscita un'attesa come si sta suscitando in questo momento, allora si può organizzare un'emozione collettiva. Una forza nuova non la si fa soltanto con la ragione, la si fa anche con la passione, le emozioni e i sentimenti. Un grande poeta italiano, Giacomo Leopardi, scrisse: «Se la ragione, e solo se, la ragione diventa passione è possibile la conoscenza». Pensava così anche Gramsci. Ci ha insegnato così anche il movimento delle donne e il femminismo. Dovremmo averlo imparato.
Gli scogli ci sono, è evidente: un processo di costruzione dell'unità non è indolore. Il tema del rapporto con i movimenti, la questione del governo, devono essere affrontati, sono problemi reali, anche difficili. Ma voi avete accumulato saperi, esperienze per poterli affrontare. Per avere assunto - e io credo sia forse l'esperienza più importante di questa comunità - il rapporto con i movimenti come il terreno fondamentale del lavoro politico e della rifondazione. Cambiano i corsi dei movimenti e cambiano i corsi della politica, ma questo è un paradigma della politica del futuro.
Questa comunità ha costruito un rapporto anche con l'esperienza di governo come possibilità, come scelta, non come obbligo, ma come operazione politica da sperimentare e da verificare. Ora lo vediamo che questi sono grandi problemi, sono problemi non risolvibili una volta per tutte, ma credo che si risolvano meglio tanto e quanto più si è forti.Solo se un soggetto politico a sinistra risulterà forte, ampio, plurale, ci sarà la possibilità di connettere ai movimenti e ai conflitti la rappresentanza politica. E solo se rinasce nella politica, se risorge il tema della trasformazione della società questa connessione potrà diventare di lungo periodo.
Il tema che sta di fronte alle sinistre è nientemeno che il socialismo del XXI secolo. Tema difficile, impegnativo, ma a cui possono lavorare per la situazione in cui siamo, per la natura della globalizzazione e per le domande che crescono nella società, forze che vengono da storia comunista, socialista, democratico-radicale, di cattolicesimo sociale, nuove culture di movimento, avendo già incontrato tutte queste, le grandi culture del femminismo e dell'ecologismo critico.
Una nuova forza politica si costruisce, plurale, unitaria, grande se alla base c'è una cultura politica forte e una pratica politica riformata. La Sinistra Europea è una preziosa esperienza. Ci ha fatto incontrare forze politiche diverse in diversi paesi europei. Abbiamo imparato a non giudicare. Abbiamo imparato a poterci aspettare delle sorprese anche laddove non era prevedibile secondo la logica di un processo lineare. Chi, cinque anni fa, avrebbe pensato alla possibilità di una unificazione nella Die Linke in Germania, tra i comunisti della Pds che venivano dall'esperienza storica della Germania dell'Est, un sindacalismo radicale come quello della Wasg e uno dei leader più importanti della socialdemocrazia tedesca come Oskar Lafontaine. Come può accadere un fatto così? Accade perché si coglie l'opportunità di una congiuntura politica e in quel momento la pratichi e la realizzi.
Ora, questa cultura politica è alla portata dell'esperienza che voi state compiendo. E una pratica politica riformata è quella che può consentire di combattere l'imbarbarimento che avviene anche nella società. Preziosa esperienza quella della Sinistra Europea che ci ha insegnato che l'Europa non è politica estera. L'Europa è la politica, l'Europa è il campo in cui la Sinistra Europea cresce e vive oppure muore. L'Europa è ormai il terreno quotidiano dell'azione politica. Ed è il terreno su cui stiamo imparando che oggi Germania, Francia, Italia, il grande cuore dell'Europa continentale, hanno di fronte a sé gli stessi problemi.
Credo che noi possiamo affrontare questi temi investendo tutto il patrimonio accumulato e mettendolo in un campo aperto. L'obiettivo di un soggetto plurale e unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile. I modi per l'unità sono conosciuti. Una vasta gamma di opportunità si aprono sempre nel processo unitario. E' inutile pensare di mettere il carro davanti ai buoi, bisogna cominciare. Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua, bisogna promuovere cioè un processo. Gli strumenti, le modalità sono conosciuti. Pensate al sindacato che li ha sperimentati: l'unità d'azione, la discussione sull'unità organica, grandi processi federativi come quello che ha reso grande l'Flm in un rapporto in cui si scombinavano l'unità di organizzazioni in cambiamento e la nascita di nuovi soggetti come i delegati. E non si dica che i delegati non ci sono: si possono costruire nel territorio forme partecipate autonome di vita democratica della nuova sinistra.
I tempi e i modi in certi periodi sono decisivi. Insisto sulla natura della sfida, quella di ridare una prospettiva al cambiamento, all'efficacia dell'azione collettiva e politica. Abbiamo tante domande, tante sollecitazioni critiche e tanta difficoltà a raccoglierle. La costruzione di una cultura politica per incidere nel senso comune delle popolazioni è un terreno importante quanto il movimento e il conflitto. Non meno.
Si riaffaccia di fronte alle sinistre in Europa, come tema ineludibile, il tema dell'egemonia, cioè della possibilità di cambiare in corsa le culture dominanti. Lo sappiamo, al fine la contesa sarà decisa dai rapporti sociali e in essa il lavoro torna già oggi ad acquisire un peso forte, un segno. Ma c'è il problema di come aprire uno spazio politico affinché queste domande, questi bisogni diventino organizzazione del cambiamento della società. Si tratta di aprire uno spazio politico perché possano riprendere fiducia per affermarsi. Non ce la farebbe la sinistra, neppure se facesse un buon sindacalismo di sinistra. Non ce la può fare la sinistra soltanto picchettando, come necessario e giusto, le rivendicazioni dei lavoratori e del sindacato. Non c'è nessun economicismo che possa fronteggiare la bisogna. Senza una cultura politica che incida sul senso comune le buone ragioni diventano impraticabili. E questo non te lo puoi permettere perché questo riapre un circuito di crisi della politica e di distacco dei lavoratori. Vincono i fontamentalismi a quel punto. Al rapporto destra-sinistra si sostituisce quello tra amico e nemico, e il nemico può essere chiunque, anche quello di cui avresti bisogno per cambiare la società. Il populismo divorerebbe le carni delle grandi popolazioni, come in parte sta già avvenendo, e la minaccia si farebbe in termini di un conflitto tra coloro che invece dovrebbero essere alleati.
La Sinistra Europea può essere l'occasione per cambiare tutto ciò. Un passo cifrato lo state facendo, altri e più decisi passi vanno fatti. Credo che dobbiamo anche cogliere la lezione della Sinistra Europea non come il termine di un cammino da consolidare, ma come l'apertura di una porta da spalancare verso la costruzione di una sinistra più ampia, plurale, forte in Europa e in Italia. Voi venite da un'esperienza che credo ci proponga una lezione buona che possiamo avere imparato insieme. Questa comunità si è aperta e ascoltata, anche nei momenti difficili, e ha ascoltato anche storie lontane che a qualcuno sembravano elementi folcloristici e invece abbiamo ascoltato e abbiamo imparato che nello zapatismo viveva un annuncio che poi sarebbe diventato forte nei grandi movimenti del mondo, nel movimento dei movimenti.
E abbiamo ascoltato con umiltà, quando l'esperienza e il movimento ce lo ponevano, padri di culture diverse come quelle della nonviolenza, che io continuo a pensare essere una delle chiavi di volta delle nuove sinistre in Europa. Come un'idea di critica del potere, di partecipazione, di rifiuto della delega e anche di correzione dei nostri linguaggi e delle nostre culture da cui andrebbero espunte in partenza gli elementi di offesa e di violenza.
La sinistra in Europa è a un passaggio stretto, anche drammatico, ma proprio l'ostacolo gli consente il salto perché glielo propone come un aut-aut. Penso che la Sinistra Europea debba aprirsi a un confronto con tutte le sinistre, con tutte, con tutti coloro che quale che sia il nostro giudizio si considerano di sinistra, senza muri, senza sbarramenti né a sinistra né nei confronti delle componenti moderate che stanno in questo campo perché anche nei confronti del partito della Sinistra Europa invece di avere un atteggiamento separato va condotto un atteggiamento di confronto ravvicinato e di sfida per chiederci insieme se esiste un destino comune delle sinistre per quanto tra loro diverse in Europa. E dentro questo confronto far crescere un processo unitario della sinistra di alternativa.
Nel cuore dell'Europa continentale Germania, Francia e Italia - lo ripeto - stanno allo stesso punto, uguale è il rischio di sradicamento della sinistra. Guardiamo il voto nel Nord Italia e non è il voto, come si dice, in una zona particolarmente ricca o nella locomotiva del paese, è il voto di un luogo strategico, come in altri luoghi strategici in Europa, dove la sinistra rischia di essere cancellata. E allora bisogna avere il coraggio di intraprendere l'impresa. Credo che non ci si debba chiedere prima come andrà a finire e neanche ci si debba chiedere prima come dovrà essere il disegno preciso di questa sinistra di alternativa. Sarà quello che ne faranno i partecipanti, la gente che deve essere messa democraticamente nella condizione di organizzare il suo futuro politico. I tempi non consentono rinvio. Il compito è difficile, molto difficile. Ma se vi posso fare un invito credo che le necessità siano due. E voi sapete benissimo quanto siano difficili da tenere insieme, ma penso che se si scegliesse tra le due ci si condannerebbe alla sconfitta. Le esigenze sono: primo, fare fatti politici nuovi a sinistra, visibili e significativi che incoraggino i popoli dispersi delle sinistre a dire riprendiamo insieme il cammino; secondo, proseguire insieme la ricerca per la rifondazione della cultura e della prassi per la trasformazione della società capitalista. Queste due esigenze possono essere tenute insieme. Voi che siete impegnati nel lavoro politico di ogni giorno, che è la vera fonte di insegnamento della politica, sapete certamente molto meglio di me cosa fare e come farlo. Vi invito soltanto a farlo, fatelo tutti insieme, uniti. Resi solidali nei gruppi dirigenti nel partito anche dalla difficoltà e dall'ambizione del compito che possono essere buoni consiglieri per realizzare nella fraternità e nella solidarietà quest'avventura comune.
Buona fortuna.

Liberazione 20.6.07
L'esponente di Sinistra democratica: «Ha fatto bene Bertinotti a mettere l'accento sul dramma che abbiamo di fronte. Solo insieme possiamo reggere l'urto»
Grandi: «Sfida epocale, essenziale l'unità a sinistra»
di Romina Velchi


«Mi ha convinto soprattutto la sequenza logica». Alfiero Grandi, esponente di Sinistra democratica e sottosegretario all'Economia, è stato tra i primi a commentare le parole di Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea. E se gli chiedi cosa lo ha convinto di più di quel discorso, ti risponde, appunto, così: «La sequenza logica».

Cioè?
Intanto Bertinotti è stato esplicito descrivendo la Se non come un punto di arrivo (nemmeno di partenza, sarebbe un'inutile scortesia), ma di passaggio verso qualcosa di più e di meglio. Di veramente nuovo. E questo qualcosa non deriva da un atteggiamento difensivo. Bensì dalla convinzione che la sinistra deve continuare ad esistere e deve avere un ruolo, ma non in termini conservativi. Ciò che Bertinotti ha descritto, con un'immagine suggestiva, come la sinistra e il socialismo del XXI (tra i quali vi è un legame molto stretto). Mi sembra un ragionamento che merita di essere valorizzato.

Fare qualcosa di nuovo e non qualcosa di vecchio. Vecchio è ciò che stanno facendo con il Pd?
Io provengo dai Ds, ho vissuto tutti i tormenti e la fatica del passaggio al Pd. Ormai ho l'impressione che ci sia poco da fare. La maggioranza diessina ha scelto quella strada, la linea non cambierà. Mi sarei aspettato che le ambiguità, le difficoltà, le incongruenze evidenti stoppassero il processo, facessero tornare i dirigenti sui loro passi. Invece, forse perché sentono il rombo della valanga che arriva, addirittura hanno accelerato, vanno più veloci verso la confluenza moderata in un indistinto che non so cosa sarà. Vi hanno legato i loro stessi destini: per questo faranno le primarie il 14 ottobre, a prescindere da ogni ragionevolezza. Perciò il vuoto è già cominciato ed è un vuoto più grande di quello che noi possiamo metterci dentro per riempirlo. Sd non può farvi fronte da sola e lo stesso vale per le altre forze: per quanto importanti sono inadeguate ad affrontare la sfida epocale che abbiamo di fronte. Siamo di fronte ad un dramma: il baratro tra quello che c'è da fare e quello che siamo in grado di fare noi. E' un merito di Bertinotti aver messo l'accento su questo, persino in termini brutali. A questo aggiungo una mia chiave di lettura, che è quella dell'urgenza dei tempi.

Fare in fretta a fare il partito unico?
Diciamo fare in fretta verso un'identità che tenga insieme tutte le forze della sinistra, che così sarebbero in grado di reggere l'urto, di respingere l'onda. Fare presto e bene, naturalmente. Cioè pensare ad un percorso diverso, in cui sia al centro il merito delle questioni, la ragione per la quale si fa questa operazione, i pilastri fondamentali, che ora stanno crollando: lo sfruttamento e l'alienazione sul lavoro, i rapporti di forza tra mondo ricco e mondo povero, un "governo mondiale" affinché la guerra non sia più la risposta alle controversie, la possibilità di allargare davvero la partecipazione e non cercando scorciatoie con meccanismi istituzionali, come il referendum elettorale.

E quali sono questi valori fondanti?
Sono sia sul piano del metodo che su quello del merito. Nel primo caso penso al rapporto tra le cose che dici e quelle che fai (cioè la questione della credibilità, che poi ha a che fare con la disaffezione della gente nei confronti della politica); al rapporto tra fini e mezzi (superando anche le ambiguità di Gramsci); alla partecipazione (il cui allargamento non può che essere un bene, non solo per la sinistra); alla questione della rappresentanza (cioè del rapporto tra rappresentanti e rappresentati) e alla deriva della personalizzazione, che non siamo stati capaci di contrastare. Sul piano del merito penso alle questioni dell'ambiente e quindi alla qualità dello sviluppo, alla cultura del risparmio delle risorse; penso alle questioni del lavoro e di come dare una prospettiva a chi lavora che non sia solo alienazione; penso, infine, ai rapporti tra economia e società: dico no alla privatizzazione sociale, ma serve un nuovo patto, in cui ognuno dà il suo contributo (in termini fiscali) e riceve il riconoscimento ai diritti fondamentali (scuola, sanità ecc). Se la politica è in crisi come fa a dare le risposte a queste domande? E così ritorniamo al punto di partenza.

il manifesto 20.6.07
Sinistra, sostantivo singolare
Un laboratorio di cultura politica al Centro per la riforma dello Stato, per un codice comune fra riformisti e radicali contro la religione della quantità. La proposta di MarioTronti, le risposte di Fabio Mussi, Franco Giordano, Piero Fassino
di Ida Dominijanni


«La mia idea è che le due opzioni della sinistra, quella riformista e quella antagonista, pur nella diversità di programma, di comportamenti, di gestione, conservino e coltivino un terreno comune di critica culturale del modello sociale. Questo serve all'antagonismo per liberarsi dell'eterno pericolo dell'estremismo, serve al riformismo per liberarsi dell'eterno pericolo dell'opportunismo». Mario Tronti, presidente del Centro studi per la riforma dello Stato, sintetizza così la sua proposta di un laboratorio di cultura politica della sinistra che l'assemblea triennale del Centro è chiamata a discutere. Un laboratorio per «la» sinistra, al singolare, proprio quando la divisione fra sinistra radicale e sinistra moderata è ormai definitivamente sancita dalla decisione di dar vita al Pd e da una nuova aggregazione alla sua sinistra? Può sembrare bizzarro o quantomeno inattuale. Ma Tronti la spiega così: in un momento in cui «destra e sinistra hanno in comune gli aggettivi (destra liberale e sinistra liberale, destra democratica e sinistra democratica)», è il caso di «tornare ai sostantivi». A ricostruire il senso del termine sinistra, e di una «distinzione forte» fra sinistra e destra che si va appannando nel senso comune. Ricostruire non significa solo far dialogare quello che a sinistra c'è già. Significa «rimettere in gioco il modo di pensare», per invertire il «cambio di egemonia» che dalla fine dei 70 ha consegnato l'ordine del discorso «a uno spirito del capitalismo che si fa massa e si fa mondo».
Occorre dunque una «controffensiva culturale». Non facile: il compito di una «critica di civiltà» si scontra col fatto che di quest'ultima non si vedono segnali di crisi. Del contrattacco Tronti individua tuttavia cinque punti, che sono altrettante proposte per il laboratorio. Primo, l'analisi dell'antropologia politica delle società democratiche: l'individuo-massa spoliticizzato, homo oeconomicus e homo democraticus ancorato a una dimensione quantitativa (soldi, consumi, nonché voti) della vita. Secondo, la ricostruzione del rapporto fra «cultura degli intellettuali e cultura di popolo», contro il consumismo culturale che crea un'opinione pubblica manipolabile. Terzo, riscoprire la centralità del lavoro «dopo la classe». Quarto, reimpostare il rapporto fra il politico e il sacro, evitando di interpretare la laicità in termini antireligiosi.
E' tutt'altro che un programma estremista, o utopico: il punto, del resto, non è disegnare improbabili città future, ma - riformisticamente - riconquistare a una o più politiche di sinistra la capacità di condizionare il rapporto di forza fra economia e politica. Eppure è un programma che fa attrito col senso comune delle sinistre di oggi . Con la visione corrente della democrazia («'Tutto il potere ai Soviet' è stata un'utopia. Non vorrei che diventasse realtà 'tutto il potere ai gazebo'». Con l'illusione di un uso disinvolto del mercato («Il problema non è di mettersi con un pezzo di capitalismo o di finanza contro un altro. Questo era il potere dc»). Con il chiacchiericcio su politica e antipolitica («Se vogliamo riabilitare la politica, sciogliere il nodo fra l'economico e l'antipolitico, bisogna ridare autorevolezza alla politica, mentre rischiamo personalità autoritarie senza autorevolezza»). Punti di attrito effettivamente, sanamente «inattuali».
Ma forse è proprio per questa sua inattualità che la proposta del laboratorio Crs incontra, almeno a parole, solo favori e minime obiezioni. Fabio Mussi è convinto che per una qualche ricomposizione della sinistra il tempo stringe, ma che «senza risalita alle idee sarà una ricomposizione effimera», e le idee bisogna sottrarle alle agenzie politiche, economiche e massmediali che le producono «organizzandole in cattive ideologia di breve durata» a uso della manipolazione delle masse («di cui il gazebo è l'ultima forma manieristica»). Franco Giordano concorda sull'impianto e le intenzioni, ma non vuole che il lavoro di ricostruzione di una cultura politica «si sovrapponga» al confronto fra «le soggettività esistenti» nella galassia della sinistra. Piero Fassino ribadisce che riformismo e radicalità sono djue dimensioni che non si escludono, la prima essendo «capacità di coniugare l'utopia alla quotidianità del governo», accoglie «la miniera di suggestioni e provocazioni» di Tronti ma mette in guardia dalla nostalgia per una politica novecentesca che non può tornare. Alfredo Reichlin ascolta ma non parla, Nicola Tranfaglia si muove fra crisi della politica e crisi del sistema politico, Silvano Andriani raccoglie la palla della centralità del lavoro, Maria Luisa Boccia mette in guardia dal rischio, presente nella relazione di Tronti, che fra lavoro e diritti civili si ripresentino antiche gerarchie. Resta il problema segnalato da Carlo Freccero: che laddove il lavoro un tempo divideva per classi e appartenenze, oggi il consumo unifica ed è interclassista. E quello segnalato da Mario Dogliani, vicepresidente del Crs, della crisi di razionalità di cui la sinistra partecipa a fronte del fascino sui bisogni esercitato oggi da irrazionalismi e fondamentalismi.

il manifesto 20.6.07
«Liberazione vuole sciogliere Rifondazione?»
E' scontro tra i vertici del Prc e la direzione del giornale. Dalla segreteria critiche a Sansonetti («Disorienti i lettori»), che risponde: «Se non vi sta bene sfiduciatemi»
di Matteo Bartocci


«Se si scioglie Rifondazione mi piacerebbe discuterlo nel partito, non leggerlo sulla prima pagina del nostro giornale». E' più o meno questo quello che deve aver detto Franco Giordano ieri mattina alla lettura della prima pagina di Liberazione. Visto che il quotidiano di via del Policlinico, ancorché con il punto interrogativo, titolava a caratteri cubitali: «La Sinistra europea affronta il futuro. Ora si va oltre Rifondazione?».
Uno «scioglimento» che però non è nemmeno all'orizzonte e che dimostra una differenza «di linea» tra il partito e il suo quotidiano che per la segreteria supera il «diritto al dissenso» e va al di là della normale dialettica politica ed editoriale. Dopo due reportage su Cuba e il Venezuela ferocemente contestati da dirigenti, lettori e militanti, tra vertici e direzione i rapporti sono ormai al minimo.
Il direttore del giornale, Piero Sansonetti, ha ovviamente difeso la legittimità della sua linea editoriale e ai dirigenti perplessi avrebbe risposto di «sfiduciarlo» qualora giudicassero interrotto il rapporto di stima e di condivisione iniziato, dopo la sua lunga esperienza all'Unità, solo nel 2004.
Liberazione, circa 10mila copie in edicola, è finanziata dal partito con 2 milioni di euro all'anno oltre ai 3,7 erogati dallo stato a sostegno dei giornali politici.
In una lunga lettera inviata ieri al quotidiano, il responsabile organizzazione Francesco Ferrara mette i puntini sulle i e chiede al giornale se non di dare «l'orientamento» sulla linea del partito almeno di non «disorientare» iscritti, lettori e simpatizzanti. Nel suo intervento Ferrara esclude condizionamenti sul quotidiano ma ritiene «sbagliato quel titolo» perché può dare l'immagine di «un partito indeciso e che non sa cosa sarà del suo futuro». «Questo gruppo dirigente - continua invece Ferrara - ha una sua linea molto precisa (...), non abbiamo alcuna intenzione di sciogliere, superare o diluire Rifondazione comunista». L'esistenza del partito, secondo la segreteria, non preclude né il progetto della Sinistra europea appena lanciato né, tanto meno, l'unità a sinistra giudicata «irreversibile» dallo stesso Giordano nella sua relazione di sabato scorso.
La «fuga in avanti» del giornale è piovuta ai piani alti come un fulmine a ciel sereno. Anche perché soltanto otto giorni fa lo stesso Giordano aveva partecipato a un forum a tutto campo con i giornalisti pubblicato nell'edizione del 12 giugno ed escluso a chiare lettere lo scioglimento del partito nella sinistra unitaria che verrà. «Questa segreteria ha sempre difeso il giornale - si sfoga un dirigente di via del Policlinico - ma ormai sembra di assistere a una vera campagna di delegittimazione su ogni scelta che viene fatta».
Nessuno lo evoca anche per il rispetto dovuto alla sua carica, ma il convitato di pietra del dibattito che anima il gruppo dirigente di Rifondazione non può non essere Fausto Bertinotti. In una telefonata personale a Sansonetti, l'ex segretario avrebbe apprezzato gli interventi sull'America Latina tanto contestati ma non ha mai dichiarato, almeno in pubblico, che il futuro di Rifondazione è sciogliersi in un partito della sinistra senza aggettivi.
Una strada, questa, che però nel partito si fa strada anche tra dirigenti di peso come Alfonso Gianni, che fin dall'inizio è stato uno dei più convinti alfieri del «superamento» di Rifondazione in un «contenitore» più grande.
Dietro le quinte, e con tutte le difficoltà della prima partecipazione al governo di centrosinistra, iniziano le manovre sulla segreteria, con un partito post-bertinottiano polverizzato in miriadi di correnti tanto nelle minoranze storiche (Ernesto, Essere comunisti, Sinistra critica, etc.) quanto nel magma della maggioranza (da un lato gli storici «ex Dp» Ferrero e Russo Spena, dall'altro i «giovani» capitanati da Gennaro Migliore)

il manifesto 20.6.07
Emozioni. Come tenere insieme le ragioni e le passioni
La psicologia evoluzionistica impone oggi un ribaltamento prospettico allo studio della mente.
L'opinione prevalente è che al di là delle diversità culturali gli stati emotivi di base siano riconducibili a un piccolo numero di emozioni fondamentali inscritte nel nostro patrimonio genetico Il tentativo di espellere le emozioni dallo studio della mente ha dato l'illusione di potere studiare la ragione umana autonomamente da tutto il resto.

di Francesco Ferretti


A parte le orecchie a punta e le sopracciglia arcuate, a un primo sguardo un vulcaniano è davvero molto simile a noi. In effetti, la differenza tra umani e vulcaniani non sta nella morfologia corporea. A rendere Spock (l'ufficiale che, nella serie televisiva Star Treck, siede a fianco del capitano James T. Kirk alla guida dell'Enterprise) molto diverso dagli esseri umani è la natura dei suoi stati interni: la sua vita mentale è priva di emozioni. Come è noto agli appassionati del genere, i vulcaniani garantiscono la purezza logica dei propri pensieri dedicandosi alla soppressione delle emozioni. Un atteggiamento del genere non è soltanto il prodotto della fantascienza: il mito della purezza logica è antico e ancora molto radicato nella visione che il senso comune ha di cosa debba intendersi per razionalità. Una concezione del genere, tuttavia, non tiene alla prova dei fatti. Per quanto Spock si adoperi a preservare le sue capacità intellettive dal contagio con gli stati emotivi, la scienza della mente contemporanea evidenzia un fatto di segno opposto: Spock è un individuo che l'evoluzione non avrebbe mai potuto selezionare positivamente.
Nella prospettiva darwiniana
Nel libro Emozioni (Laterza, 2004) Dylan Evans sostiene che il mito della razionalità pura perpetua una visione antica (e negativa) della cultura occidentale: se a questa visione contrapponiamo una concezione positiva degli stati emotivi, appare evidente che «una creatura come Spock, priva di emozioni, sarebbe in realtà meno e non più intelligente di noi». Analizzare le emozioni nel quadro più generale della prospettiva darwiniana comporta un approccio radicalmente diverso allo studio del mentale. I tempi sembrano maturi per farlo: il crescente interesse della scienza cognitiva per i fondamenti evoluzionistici porta di nuovo alla ribalta il ruolo delle emozioni nella riflessione sulla mente.
La scienza cognitiva nascente (negli anni Cinquanta del secolo scorso) facendo propri alcuni assunti del razionalismo classico aveva concentrato la riflessione sui processi alti di pensiero: linguaggio e ragionamento, in primo luogo. Agli studiosi del tempo, ovviamente, non sfuggiva l'importanza delle emozioni nella vita mentale degli individui. La loro idea era però che lo studio delle pulsioni e degli stati d'animo dovesse riguardare un campo autonomo d'indagine: principalmente perché credevano che le capacità intellettuali fossero del tutto indipendenti dalle emozioni.
La mente nel freezer
Forte della metafora del calcolatore (molto in voga in quel periodo) il risultato dell'ortodossia cognitivista è stato quello di «mettere la mente nel freezer», per mutuare una felice espressione usata da Joseph LeDoux nel libro Il cervello emotivo (Baldini e Castoldi, 1999).
Il tentativo di espellere le emozioni dallo studio della mente ha dato l'illusione di potere studiare la ragione umana in autonomia da tutto il resto. Un errore fatale, se è vero, come sottolinea LeDoux, che «una mente senza emozioni non è affatto una mente, è solo un'anima di ghiaccio: una creatura fredda, inerte, priva di desideri, di paure, di affanni, di dolori e di piaceri».
Come tenere insieme ragioni e passioni? Con L'errore di Cartesio (Adelphi, 1995), Antonio Damasio ha aperto una vera e propria breccia intellettuale su questo argomento. A mostrare come il ragionamento non sia interpretabile soltanto nei termini di un processo di calcolo formale e astratto è il fatto che la soluzione dei problemi in cui si imbattono gli umani è sempre collocata nel quadro più ampio della presa di decisioni. Come sottolinea Damasio, in effetti, si può «affermare che lo scopo del ragionare è decidere, e che l'essenza del decidere è scegliere una possibile risposta, cioè un'azione non verbale, una parola, una frase ... tra le molte disponibili al momento e in rapporto con una situazione data».
Quando si guarda alle capacità intellettive degli umani nel contesto più generale della prese di decisioni, la neuroscienza ci offre risultati estremamente interessanti su cui riflettere. Damasio racconta il caso di Elliot, un uomo colpito da un meningioma che, dopo l'asportazione del tumore, presentava danni alle cortecce prefrontali (in particolare il settore centromediano). Due deficit cognitivi caratterizzavano il comportamento di Elliot: di fronte a immagini visive di disastri o episodi cruenti, era in grado di interpretare la scena raffigurata ma non provava alcuna reazione emotiva; di fronte a scelte alternative, non era in grado di prendere una decisione. Nell'interpretare tali deficit, Damasio ipotizzò che le incapacità di Elliot di prendere decisioni dipendessero da una carenza di esperienze emotive. Per verificare questa ipotesi i comportamenti di Elliot vennero passati al vaglio sperimentale. I risultati confermarono l'ipotesi di Damasio. Di fronte alla necessità di scegliere, Elliot rimaneva paralizzato: se gli si chiedeva di fissare un appuntamento tra due giorni alternativi, egli dava inizio a un processo infinito di calcolo dei pro e dei contro delle opzioni possibili, senza riuscire a risolvere il problema. Risultati come questo mettono in discussione la concezione del ragionamento come un calcolo formale, ovvero l'idea di una ragione «alta» intesa come un sistema di inferenze che opera al riparo da qualsiasi tipo di contaminazione emotiva.
Per quanto possa apparire controintuitivo, il caso di Elliot rappresenta una prova empirica del fatto che una mente razionale pura possa essere realmente efficace: paradossalmente, in effetti, la prospettiva che interpreta il ragionamento nei termini di una logica astratta descrive il modo in cui ragionano i pazienti colpiti da lesioni prefrontali, non il modo in cui operano i soggetti normali. Dire questo, ovviamente, non significa sostenere che il ragionamento astratto sia del tutto incompatibile con la scelta razionale: si può pensare a tale scelta come all'esito di un calcolo in cui sono prese in considerazione tutte le conseguenze di ogni possibile mossa; in tal caso però, come sostiene Damasio, «procuratevi un bel po' di carta e un temperamatite robusto e non aspettatevi che gli altri abbiano la pazienza di seguirvi fino a che sarete giunti alla fine».
Quando non si ha carta, matita e un buon temperamatite (e, cosa più importante, un sacco di tempo a disposizione) è a sistemi di altro tipo che dobbiamo affidarci per scegliere la risposta più appropriata a una determinata situazione. Quello dell'appropriatezza al contesto è il punto veramente decisivo della questione: è a questo proposito che le scelte razionali chiamano in causa i processi di valutazione in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Gli aspetti valutativi sono stati ampiamente analizzati dalla scienza cognitiva. In almeno due modi (fortemente contrastanti). Il primo, tipico dell'ortodossia cognitivista, è quello che fa riferimento a una concezione top-down delle emozioni. Secondo tale concezione, gli stati emotivi devono essere analizzati in riferimento a ciò che li accomuna al pensare in generale. Orientamenti del genere, tuttavia - come sottolinea Joseph LeDoux - «hanno dato troppo peso al contributo dei processi cognitivi, cancellando così la differenza tra emozione e cognizione». Esaltando gli aspetti coscienti (e in larga parte linguistici) alla base dell'interpretazione del ruolo valutativo delle emozioni, le concezioni top-down hanno perso di vista le proprietà che caratterizzano l'esperienza emotiva in senso proprio. Considerate in questo modo, in effetti, le emozioni vengono «fagocitate dal mostro cognitivo»: diluite nel pensiero perdono le proprietà e le funzioni che le caratterizzano nello specifico.
La psicologia evoluzionistica impone oggi un capovolgimento di prospettiva allo studio del mentale: di contro agli approcci top-down si apre la strada a una costruzione dal basso (bottom-up) dei processi cognitivi. In tale capovolgimento di prospettiva le emozioni vengono ad assumere un ruolo centrale. Più precisamente, in una prospettiva di questo tipo è il ruolo valutativo delle emozioni ad assumere un nuovo rilievo: inserite nel quadro della relazione di base tra organismo e ambiente, le emozioni rappresentano il meccanismo di classificazione di cose ed eventi come «buoni» o «cattivi» ai fini della sopravvivenza. Gli aspetti valutativi delle emozioni vengono così ad essere ripensati nel quadro più generale della teoria dell'adattamento. In una prospettiva di questo tipo la pretesa distinzione tra una ragione alta e i livelli bassi del piano pulsionale non ha più alcuna ragione di esistere: la prospettiva bottom-up, imposta dalla visione evoluzionistica allo studio delle emozioni, elimina ogni residuo dualistico di una mente distinta dal cervello e, più precisamente, distinta dalla corporeità. Con un ulteriore risultato importante da sottolineare.
Il cambiamento di prospettiva imposto dalla psicologia evoluzionistica allo studio delle emozioni comporta la messa al bando di una concezione - fortemente radicata anche nel senso comune - fondata su una interpretazione dualistica dei fenomeni mentali. Si tratta del «costruttivismo sociale»: un'idea che considera gli stati emotivi legati esclusivamente al contesto sociale e culturale in cui gli individui sono immersi. Questa ipotesi interpretativa, che trova in Margaret Mead un punto di riferimento, deve essere oggi sostanzialmente riveduta. Non per negare che esistano aspetti delle emozioni dovuti al contesto sociale e culturale, ovviamente: casi del genere esistono e devono essere considerati parte integrante di una teoria generale delle emozioni. Ciò che oggi, invece, non è più sostenibile è l'idea delle emozioni come entità esclusivamente istituzionali e non anche come fenomeni fortemente legati alle determinanti biologiche degli individui. Per quanto i costruttivisti sociali possano portare lunghi elenchi di casi in cui le emozioni variano al variare delle culture, l'opinione oggi prevalente è che al di là delle differenze culturali gli stati emotivi di base siano riconducibili a un piccolo numero di emozioni fondamentali inscritte nel patrimonio genetico degli umani.
La diversità sta nell'espressione Gli esperimenti sulle espressioni facciali di americani e giapponesi fatti da Paul Ekman negli anni Sessanta del secolo scorso rappresentano una pietra miliare della psicologia delle emozioni. Nella situazione sperimentale i soggetti erano ripresi - a loro insaputa - mentre guardavano un film da soli o in compagnia di uno sperimentatore con camice bianco e aria autorevole. I risultati furono sorprendenti: quando il soggetto guardava il film senza la presenza dello sperimentatore, le emozioni espresse durante il film erano molto somiglianti tra i due gruppi. Alla presenza del ricercatore in camice bianco, tuttavia, la situazione cambiava notevolmente: i giapponesi sembravano molto più contenuti e meno sorridenti di quanto non apparissero gli americani. Il fatto decisivo dell'esperimento è che l'analisi al rallentatore rivelò che le espressioni più contenute dei giapponesi si sovrapponevano a brevi movimenti facciali in cui trapelavano quelle che, secondo Ekman, erano le emozioni di base presenti in tutti gli individui (gioia, sofferenza, rabbia, paura, sorpresa, disgusto sono emozioni universali e innate).
In altre parole, anche i giapponesi provavano le stesse emozioni fondamentali degli americani: la diversità era nel controllo della loro espressione. La morale da trarre da questo esperimento è che le diversità culturali possono (devono) essere comprese all'interno di uno sfondo più ampio di comunanze.
Non siamo angeli disincarnati
Le emozioni rappresentano un proficuo terreno di analisi per lo studio delle capacità universali degli esseri umani. Dal punto di vista degli stati emotivi, in effetti, gli umani sono tra loro molto più simili di quanto non lo siano per le credenze e gli stati cognitivi. Il carattere universale delle pulsioni primarie dipende dallo straordinario ruolo adattativo giocato dalle emozioni nella storia evolutiva della nostra specie. L'atteggiamento evoluzionistico che caratterizza la parte più avanzata della scienza cognitiva contemporanea ci aiuta a comprendere il primato logico oltre che temporale dell'emozione sulla cognizione. Questo risultato dovrebbe metterci al sicuro da ogni pretesa di considerare la razionalità pura di Spock un buon modello per l'indagine della storia filogenetica della nostra specie. La ragione senza emozioni è affare degli angeli disincarnati non delle donne e degli uomini in carne e ossa: un risultato di notevole interesse per la riflessione sul posto da assegnare agli umani nella natura.

Per un sentiero di lettura
Da Darwin a Paul Griffiths
Il punto da cui partire per saperne di più è il testo di Charles Darwin, «L'espressione delle emozioni» (Bollati-Boringhieri, 1999) corredato dalla corposa introduzione di Paul Ekman. Sempre di Ekman si veda «Darwin and Facial Expression: A Century of Research in Review» (Malor Books, 2006). Sulla psicologia evoluzionistica: Adenzato e Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica», Bollati, 2006; Tartabini, «Psicologia evoluzionistica», McGraw-Hill, 2003. Per la storia delle emozioni, molto utile è il libro di K. Oatley, «Breve storia delle emozioni», Il Mulino, 2007. Sugli aspetti cognitivi delle emozioni, si veda «Psicologia ed emozioni», di K. Oatley, (Il Mulino, 1997).Di Antonio Damasio oltre al libro citato consigliamo (entrambi di Adelphi), «Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello» (2003) ed «Emozione e coscienza» (2000). Per lo studio del ruolo delle emozioni nell'argomentazione retorica si veda Francesca Piazza, «Linguaggio, persuasione e verità» (Carocci, 2004). Probabilmente il libro più bello sui fondamenti filosofici delle emozioni è il testo di Paul Griffiths, «What Emotions Really Are» (University of Chicago Press, 1997).

il manifesto 20.6.07
Il monoteismo, l'invenzione di un mito
«Il profeta Giuseppe. Monoteismo e storia nel Corano», un saggio dello studioso di Islam Massimo Campanini per la casa editrice Morcelliana
di Augusto Illuminati


Un criterio empirico approssimativo per valutare uno studioso di Islam è vedere cosa ne pensa Magdi Allam. Se lo loda possiamo tranquillamente ignorarlo; se lo critica possiamo prenderlo attentamente in esame per una valutazione più ravvicinata. E' questo sicuramente il caso di Massimo Campanini, coinvolto nelle solite esternazioni dell'esimio vice-direttore del «Corriere della Sera», ma che è ben noto per i suoi studi approfonditi sulla storia della filosofia politica islamica classica e moderna. In questo agile volumetto (Il profeta Giuseppe. Monoteismo e storia nel Corano, Morcelliana, pp. 122, euro 12) affronta un tema piuttosto particolare, la sûra coranica dedicata al profeta Giuseppe, una delle figure bibliche che più hanno impressionato Maometto e che sono state oggetto assai precoce di interpretazione allegorica.
Nella prima parte del saggio Campanini illustra come la storia biblica di Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli e poi salito grazie alle sue doti di interprete dei sogni a massimo dignitario in Egitto, abbia il fine di magnificare il destino storico di Israele e la sua vocazione a dominare le terre fra il Nilo e l'Eufrate; in questo processo Dio prende consapevolezza di se stesso, Yhwh si fidanza con Israele così che questo diventa il popolo eletto e Dio si afferma come unico. Si tratta probabilmente di un mito costruito a posteriori, sulla base del folklore popolare mediorientale, per conferire continuità alla tormentata storia dello Yahwismo, cioè della lenta affermazione del monoteismo a partire dalla contrapposizione fra un dio tribale di Israele e una pluralità di dei del contesto circostante, processo che si conclude solo con il ritorno dall'esilio babilonese (VI secolo a.C.), che aveva rafforzato l'identità nazional-religiosa del popolo ebraico.
Sull'adozione del monoteismo influì certamente l'esperimento del faraone Akhenaton, che nel XIV secolo a.C. aveva imposto, per ragioni teologico-politiche, un culto solare unico del dio Aton, radicalizzando e spiritualizzando tendenze precedenti. Il Faraone diede in moglie a Giuseppe proprio la figlia di un sacerdote del dio solare Ra, precedente immediato di Aton! Sembra che le difficoltà incontrate dagli ebrei in Egitto (vi erano pervenuti probabilmente mescolati agli Hyksos) siano connesse alla persecuzione che agli «eretici» monoteisti furono inflitte dai Ramessidi, successori di Akhenaton. Segue l'interpretazione della sûra 12, Yûsuf, del Corano, che viene tradotta integralmente con i principali commenti di al-Tabarî, al-Zamakhsarî e dei due Jalâl, nonché le annotazioni dello stesso Campanini. Qui la storia di Giuseppe è ovviamente scissa completamente dal destino del popolo ebraico e viene intesa come magnificazione dell'onnipotenza e unicità di Dio. L'unità tematica e linguistica del testo, che instaura un fecondo circolo ermeneutico con l'interprete (secondo l'approccio antidogmatico di Hasan Hanafi), pone in luce alcuni tratti originali della figura di Giuseppe: innanzi tutto, a differenza del testo biblico, egli ha qualità e poteri profetici, è disvelatore e propagandista della Verità, infine è simbolo della virtù che si oppone alle tentazioni.
La lettura della mancata seduzione e successiva calunnia di Zulaykhâ, moglie del dignitario Potifar, va molto al di là di un episodio familiare all'iconografia barocca, anche per l'aggiunta di una scena in cui le amiche di Zulaykhâ si feriscono le mani al vedere la bellezza dell'uomo di cui sanno perfettamente l'innocenza. Il mistico persiano Jâmî, nel suo poema Yûsuf e Zulaykhâ interpreta tale scena come effetto della contemplazione della bellezza divina e le donne come mistici teopatici che si perdono nell'estasi sacra.
A sorprendente conclusione del poema la tenacia seduttiva di Zulaykhâ, purificata dall'amore divino, e la castità di Yûsuf, cara a Dio ma non obbligatoria, trionfano in un tardivo matrimonio. In complesso, mentre nel Giudaismo Dio cresce nella storia e prende coscienza di sé attraverso l'Israele storico, nell'Islam Dio è Egli stesso storia e la vicenda di Giuseppe non suggella ma taglia in due la storia, la apre al futuro.