Il mondo di WonderWalter
Dopo un decennio di attesa messianica, per Wonder-Walter è arrivato il momento della prova dei fatti
Musica, rituali e gente comune il veltronismo diventa post-politica
di Filippo Ceccarelli
Nell'universo del sindaco i militanti sono volontari, l'ideologia si trasforma in "vision", le tessere sono sostituite dagli slogan
Per istinto e per calcolo, nessuno più di lui evita lo scontro diretto, ostentando sempre prudenza
Una costante ascesa basata sul "personaggio" e non sul partito, e la parola d'ordine del "buonismo"
Dunque, Veltroni. E fra veltronismo, veltronerie, veltronate occasionali e fatidica veltronicità è da un decennio almeno che si alimenta l´attesa messianica. E perciò anche mediatica, come si conviene a questo tempo. Singolare il politico, viene da pensare, che decide di farsi leader proprio nel giorno in cui, da sindaco, si trova a inaugurare il «Parco della Lirica e della Danza».
Un «parco» al chiuso, oltretutto, collocato in un ex cinema: e già pare di scorgere un bel pezzetto di Veltroni, in questa beata coincidenza di tempi e luoghi rimestati ad arte, e ancor più del fenomeno politico-giornalistico che prende il suo nome.
Veltronismo, beninteso, come l´espressione di un personaggio e non di un partito. Di una cultura, di una sensibilità, di un giro di relazioni, di un´immagine, al limite di una moda, giammai di una tribù o di un clan. Perché Veltroni non ha mai avuto un Latorre, né un Rovati, tanto meno un palazzo di riferimento - a parte il Campidoglio e quella splendida finestra sui fori dove il più amabile sindaco fa affacciare chiunque. C´è solo lui, Wonder-Walter, e ben sotto di lui una nutrita squadra di anonimi ed evoluti specialisti della comunicazione. O meglio, qualche mese fa sono spuntati fuori dei militanti, pardòn, dei volontari veltronisti: scopa, rastrello e sacchi dell´immondizia, hanno fatto il loro esordio spazzando la spiaggia di Ostia.
Anche questo è un dettaglio che a suo modo dischiude l´orizzonte del veltronismo, nel senso della sua reclamizzatissima estraneità al gioco della politica, almeno com´è intesa dai suoi futuri e davvero poco entusiasti grandi elettori. Da questo punto di vista vale la pena di rileggere le fredde ordinanze comunali sull´affissione dei manifesti dei partiti, o analizzare in controluce alcuni interventi contro la piaga dei parcheggi delle auto blu intorno alla Camera e al Senato. Se tenersi fuori e marcare la distanza dai perenni stranguglioni del centrosinistra è stata negli ultimi anni una costante del personaggio, colpisce la sprezzante risolutezza con cui mesi orsono ha liquidato una certa questione su cui di dilaniavano i ds: «Cose di partito». E poco mancava che aggiungesse puah! - prima di recuperare un contegno e andarsene in giro per l´Italia a parlare di Chaplin e di Gandhi.
Il potere, certo, è importante, ma decide lui quanto, e come, e perché. Fedele in questo a un certo riflesso vetero-comunista, per istinto e per calcolo nessuno più di Veltroni evita lo scontro, ostenta prudenza e si risparmia la fatica dell´ambizione. La sola idea di scendere in campo, sosteneva non molto tempo fa, gli faceva venire «il mammatrone», che a Roma sarebbe la più invincibile paura.
Com´è ovvio per ogni politico, c´è da scontare una normale quota d´insincerità, o di astuto e scettico disincanto. Eppure la differenza fra Veltroni e l´oligarchia che da anni si ritrova mesta attorno ai tavoli della Gad, della Fed o dell´Unione finisce per apparire, più che evidente, clamorosa. Una specie di sfida.
A occhio si direbbe che il veltronismo abbia scelto di dispiegarsi, non di rado anche in prima persona, su un altro e più vasto campo d´azione che attraversa e regola le passioni culturali diffuse e produttive dell´oggi. Le sole che appaiono in grado di ripristinare i vincoli sociali: letteratura, arte, archeologia, musica, cinema, tv, media, sport, tempo libero. Fino a sconfinare, tra notti bianche e partite del cuore, toponomastica mirata e necrologi smaglianti, feste del vicinato e battesimi di lupi al Bioparco, nel mondo immateriale dei ricordi, dei simboli, dei rituali, delle emozioni, dei sentimenti.
O per meglio dire: dei buoni sentimenti. La definizione di «buonismo», copyright di Ernesto Galli della Loggia, risale ormai al 1995 e da allora Veltroni non solo l´ha assecondata senza troppo preoccuparsene - si pensi all´Africa o alle visite con i liceali negli ex campi di concentramento - ma ne ha anche fatto un indispensabile strumento di governo, per non dire di egemonia e di potere, in una metropoli come Roma. Dove per volontà dell´amministrazione, e con i dovuti sponsor, contro la pena di morte s´illumina addirittura il Colosseo.
E comunque. Invece di buttarsi nell´asfittico, affannoso ed egoistico tran tran del Palazzo, il veltronismo ha trovato la sua vision e la sua mission nella più conclamata vicinanza ai soggetti deboli e ai temi che l´odierna vita pubblica sembra aver inesorabilmente smarrito: la solidarietà, un certo ottimismo sul futuro, una indubbia disponibilità al dialogo con le altre culture (compresa quella della destra), l´attenzione a prigionieri, esuli, piccoli grandi eroi della cronaca, gente semplice, vecchi, bambini, ammalati. Esiste a questo proposito una vasta iconografia che per certi versi modella, più che una politica, una specie di religione secolarizzata di cui Walter (a Roma «Warter») sembra il sollecito, assiduo, garbato e benedicente pontefice.
E però, anche senza andarsi a rileggere la prefazione che Veltroni ha scritto al libro che raccoglie i discorsi di Giorgio La Pira, il «sindaco santo» di Firenze, colpisce l´efficace naturalezza con cui il personaggio salta le vecchie mediazioni istituzionali, diffonde calore e mette in gioco il suo stesso corpo: dalle danze in Malawi, con tanto di gallo votivo, alle turbolente demolizioni dell´abusivismo, dal compleanno della nonnetta all´incontro di beneficenza con Totti, dal concerto fino al letto d´ospedale dove è comparso in un video: dopo un´operazione, ma prima del voto.
Sembra passato un secolo dalle prime notazioni dell´immaginario veltroniano: le camicie con i bottoncini, la Nutella, Kennedy, le figurine Panini e De Gregori. Nell´era della post-politica nessun codice sembra al tempo stesso più moderno e più antico di quello che può offrire l´imminente leader del centrosinistra. Una specie di berlusconismo alla rovescia, ma con vent´anni di meno: decisamente il peggior guaio che poteva capitare al Cavaliere.
Repubblica 21.6.07
1977. La favola di una generazione
Un anno cruciale fra memoria e racconto
di Alberto Asor Rosa
In un libro di Enrico Franceschini un gruppo di ex studenti bolognesi è chiamato a rievocare quegli avvenimenti
Una stagione politica che prima di chiudersi nella violenza mette al centro le emozioni e la dimensione collettiva
L'autore ha proposto ai suoi interlocutori di misurarsi con due questioni: l'Amore e la Felicità
Le risposte sono moderatamente ottimistiche e dei sogni non realizzati resta la nostalgia
Dopo Lucia Annunziata un altro giornalista di fama, Enrico Franceschini, si cimenta con il fatidico "1977": ma perseguendo un percorso tutto diverso, anzi, pressoché opposto a quello precedente. Annunziata era partita dalla sua esperienza personale per tentare di risalire ad una lettura politica generale di quella imprescindibile tappa storica e politica. Franceschini, in Avevo vent´anni (Feltrinelli, pagg.155, euro 8,50) lascia la lettura politica generale come sottintesa e da lì prende le mosse per raccontare quell´anno sotto forma di esperienza personale, anzi, più esattamente, di «esperienze personali».
Il libro, infatti, porta come sottotitolo: «Storia di un collettivo studentesco. 1977-2007». Sarebbe stato più corretto scrivere: «Autobiografia». Da un fortuito incontro con un compagno di quei tempi, nasce in Franceschini l´idea di tornare a cercare un certo numero di componenti del Collettivo di Giurisprudenza dell´Università di Bologna, di cui lui stesso aveva fatto parte, e di farli parlare, nella forma di un´intervista implicita, di quegli anni lontani, e poi di quel che per ognuno di loro ne è seguito. La presenza dell´autore è ovunque aleggiante, - tornerò su questo punto, - ma intanto, da bravo giornalista, ha ceduto la parola ai suoi interlocutori: sono loro che raccontano la storia in prima persona, non lui.
La storia? Le storie: fra i quaranta soggetti chiamati in causa, uomini e donne (rispettivamente ventisette e tredici), ce ne sono pochi, pochissimi, che raccontano la stessa. Ciò, del resto, tenendo conto per l´appunto della natura di tali storie, è anche abbastanza ovvio. I loro racconti, infatti, si sviluppano lungo un duplice diagramma: quello del tempo e quello dello spazio, e ognuno dei due contribuisce a modificare, stemperare, allontanare, appannare, ma anche, al contrario, a rendere ancora più lucida e presente la comune esperienza originaria.
Il tempo: sono passati trent´anni; chi ne aveva venti nel ´77, oggi ne ha cinquanta. L´età li ha inesorabilmente cambiati. Matrimoni, separazioni, secondi matrimoni, figli, lavoro, spostamenti non impediscono però alla maggioranza di loro di proclamarsi ancora giovani, o per lo meno vivi, curiosi, attenti. Alcune frasi mi hanno colpito: «Ecco, noi ci sentivamo immortali, destinati a un´eterna giovinezza, non tanto fisica quando dell´animo (...) Anche adesso non lo so se ci sentiamo veramente vecchi... C´è questa strana sensazione di gioventù che in qualche modo permane» (Laura).
Dal modo di ricordarlo si risale al modo di viverlo: l´accento, per questi protagonisti, batte sul dato vitale ed esistenziale; la politica, senza dubbio presente, anzi presentissima, è però inesorabilmente filtrata attraverso l´esperienza collettiva della vita comunitaria, della passeggiata notturna, dell´avventura, della scoperta sentimentale, del rischio. Rischio, sì, ma ragionato: ragionato, direi, persino con un certo istintivo buonsenso giovanile. Sarà un caso: ma il rifiuto della violenza da parte di questo gruppo è pressoché unanime e uno solo di loro, ed esclusivamente per generosità, è stato lambito dal vento gelido del terrore e della repressione. Forse è per questo che le narrazioni generalmente s´interrompono al marzo 1977, alla morte dello studente Francesco Lorusso, con lo strascico di violenze che ne seguì da una parte (Autonomia operaia, da quasi tutti considerata ostilmente) e dall´altra (le forze dell´ordine scatenate anche senza motivo contro gli studenti); o al massimo arrivano fino al Convegno sulla repressione del settembre successivo, amara chiusura per molti di quella entusiasmante stagione.
Dopo il buco nero del 1978-80, sul quale quasi nessuno posa lo sguardo, le narrazioni riprendono sul filo della memoria quotidiana, per arrivare fino ai nostri giorni, per così dire, più pacatamente.
Lo spazio: il concentrato di memoria s´allarga da Bologna a ventaglio sull´intero territorio nazionale, perché una caratteristica fondamentale del Collettivo di Giurisprudenza (e, ovviamente, dello studentato bolognese in quella fase) è di essere riccamente interregionale. Qui, infatti, oltre ai bolognesi, fra i quali va annoverato lo stesso Franceschini, parlano sardi, leccesi, veronesi (parecchi), trentini, catanzaresi, piceni, udinesi, bolzanini, romagnoli, abruzzesi, lucani, umbri, siciliani, molisani, baresi, foggiani, veneti. Impressionante. E´ come se molti pezzi d´Italia fossero stati centrifugati e omogeneizzati in quel collettivo, in quella Università e in quella città; e poi fossero stati rispediti di qua e di là, a fare gli avvocati e gli insegnanti di diritto (ovviamente), ma anche i segretari comunali, gli uomini d´affari, i dirigenti d´azienda, le donne di casa, le professoresse universitarie, ecc. Diversi, senza dubbio; ma pure, - torno a insistere su questo punto, - con qualche perdurante tratto comune.
Il più rilevante mi pare è che essi continuano ad aspettare che qualcosa di nuovo accada: qualcosa d´immaginato e di sfiorato a vent´anni; poi smarrito, talvolta perduto. Mai però del tutto rimosso: «Sono più vecchio, ma mi diverto a rimettere in discussione molte cose. Non mi stanco ancora a ricominciare, anzi...» (Bambù); «Ma non c´è niente da fare, non mi sento vecchio dentro. La curiosità che avevo a vent´anni ce l´ho ancora» (Marco); «Come se per noi, e non so se sia un dono o una condanna, si fosse fermato il tempo. Come se avessimo per sempre vent´anni» (Enrico).
Bene, onestamente mi pare che questo sia il quadro (anche se non è facile riassumere il senso di quaranta voci diverse, ognuna delle quali ha un tono e vibrazioni propri). Resta da dire qualcosa sull´autore; no, autore no, Franceschini (pagg. 155) rifiuta la qualifica, ma certo deus ex machina, e abilissimo deus ex machina. Innanzi tutto, l´omogeneità dello stile: Franceschini è, in tutte le sue incarnazioni, uno scrittore lucido, limpido, conciso: le molte voci ritrovano la loro profonda parentela interiore, perché quella voce lì, quella che le veicola e le trasmette, ha la semplice forza di un´oralità comune non ancora, a distanza di tanti anni, sprofondata nel nulla.
Poi c´è un´affinità di fondo, anch´essa esistenziale ed umana. E´ evidentissimo che Franceschini ha proposto ai suoi interlocutori una griglia con cui misurarsi. Su questa griglia spiccano due interrogativi: l´Amore e la Felicità. Come te la cavi con l´Amore? E: sei felice? E come? E dei tuoi sogni, che ne è? Anche qui le risposte sono le più diverse, anche se, in maggioranza, moderatamente ottimistiche: me la cavo abbastanza bene; sono felice, abbastanza felice. No, non tutti i sogni si sono realizzati: ma ne resta la nostalgia, non ci siamo fermati, continuo a farne (come ho più volte osservato). E Franceschini? Beh, questo è troppo chiedere, tiriamo a indovinare da questo libro (e da quanto abbiamo già letto di lui, un solo romanzo, e me ne dispiace, e ovviamente le tante corrispondenze giornalistiche). Questo libro nasce esso stesso, assai più che da un intento documentario, da un atto d´amore. Se Franceschini non amasse il suo ´77 alla maniera di Laura, Bambù, Gianfranco, Enrico, Marco, Nena (che dev´essere un tipo tosto, si capisce proprio), e di tanti altri suoi compagni, non avrebbe neanche posto mano al lavoro da cui è nato. Per deduzione, possiamo dunque ricavare che per lui (noi non lo conosciamo affatto) l´amore conta parecchio, se per amore ha fatto questo libro.
Ed è felice? Questo proprio non possiamo saperlo. In attesa che Marco o Valentino o Anna glielo vada a chiedere e poi ce lo faccia sapere, limitiamoci a constatare che lui condivide la morale della favola che molti della sua generazione, - e lui ha fatto in modo che potessero testimoniarcelo, - hanno tratto da quelle esperienze. Forse non è molto, forse non è la «felicità estremistica» cercata e forse provata a vent´anni, ma è quanto la morale stoica indotta da questi tempi calamitosi ci consenta oggi di concepire: «Quanto tempo abbiamo trascorso insieme, ragazzi e ragazze del Settantasette, e quante, quante ne abbiamo passate: girata questa pagina finisce un libro; ma la nostra avventura continua».
P. S. Io avevo vent´anni nel 1953, ai tempi della battaglia contro la «legge truffa»: vi partecipai intensamente (e per giunta fu vinta) ma, inquadrato com´ero nei ranghi del Grande Partito, non posso dire di averne ricavato l´entusiasmante senso di liberazione e di leggerezza a quanto sembra provato dai ventenni del 1977. Nel 1977, invece, avevo ovviamente quarantatré anni e devo dire di aver vissuto quel periodo in modo totalmente diverso da quello dei giovani del Collettivo bolognese di Giurisprudenza, cui Franceschini ha ridato oggi così felicemente la parola. Del tutto ininfluente ai fini dell´osservazione da dedicare a un bel libro come questo, di quel diverso punto di vista metterà forse conto un giorno o l´altro di parlare.
Corriere della Sera 21.6.07
Rapporto sulla sicurezza 2006 del Viminale
Quasi sette milioni di donne che hanno subito violenza fisica e sessuale almeno una volta nella vita
Un milione e 150 mila solo nel 2006.
Gli omicidi in ambito familiare o "passionali" sono più numerosi di quelli di mafia o per rapina; dove più di un terzo delle donne hanno subito maltrattamenti o violenze - in genere dal partner
L'anno scorso, i morti erano 621, 192 dei quali, quasi un terzo, all'interno delle famiglie o per motivi di «passioni amorose», indica il rapporto
quel che conta è la tendenza. Per quanto riguarda questo tipo di omicidi, commessi dal 2001 al 2006, «nella maggioranza dei casi è il coniuge, il convivente o il fidanzato maschio ad uccidere la propria compagna». Oppure quando è il maschio a essere vittima, l'autore dell'omicidio è più spesso il padre.
Se la famiglia sembra essere oggi uno degli ambiti in cui si esercita maggiormente la violenza, sono soprattutto le donne a essere vittime, come dimostrano abbondantemente, e impietosamente, i dati del Viminale. Lo stesso Amato ammette di essere «rimasto assolutamente sconvolto sul capitolo sulla violenza contro le donne» «E' impressionante. Sono 6 milioni 743mila, pari al 31,9% della classe d'età considerata, le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita», dice il rapporto. Quasi 4 milioni quelle che hanno subito violenze fisiche, un milione in più quelle che hanno denunciato violenze sessuali, e tra loro un milione di donne stuprate. Nel 62,4% dei casi a commettere violenze fisiche è il partner. E la percentuale sale se si tratta di stupri o violenze sessuali. I dati sulla violenza in famiglia e contro le donne fanno dire al ministro: «mi trovo in difficoltà quando sostengo l'estraneità alla nostra civiltà della supremazia dell'uomo sulla donna, teorizzata in nome dell'Islam, sbagliando, da alcuni». È difficile, sembra dire il ministro, fare la morale sui diritti delle donne agli immigrati quando poi in Italia contro le donne si esercita tale violenza.
In Italia quasi un cittadino su tre (il 29,2%) si sente insicuro soprattutto se è di sesso femminile
«Sono sconvolto dal capitolo dedicato alla violenza sulle donne: è impressionante, non si tratta solo di violenze sessuali ma di tutta una serie di reati che non vengono commessi ai danni degli uomini. Una unilateralità maschio-femmina inconcepibile». Questo giudizio di Amato si basa su dati allarmanti: si va da un tasso di 1,7 denunce per 100.000 abitanti nel 1995 ad uno di 7,7 nel 2006 e questo significa che l'anno scorso un milione e 150 mila donne sono state coinvolte in episodi di violenza. Il Rapporto poi evidenzia che in Italia, il 31,9% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni e 743 mila) ha subito almeno una violenza fisica o sessuale.
Corriere della Sera 21.6.07
Il futuro di Rifondazione
Lite Prc-Liberazione «Titolo scorretto» Sansonetti: sfiduciatemi
ROMA — È scontro tra Rifondazione comunista e il suo giornale Liberazione. Il casus belli?
Il titolo di lunedì: «Ora si va oltre Rifondazione?», si chiede il quotidiano a proposito delle decisioni dell'assemblea della Sinistra europea. Una scelta che ha «disorientato» il segretario del partito Franco Giordano e anche gli alti dirigenti. Dal partito è arrivata un'accusa precisa indirizzata al direttore Piero Sansonetti, ritenuto «colpevole» di dare messaggi fuorvianti per i lettori e gli iscritti. Lui ha subito replicato: «Se non vi va bene, potete sfiduciarmi».
E il responsabile organizzativo di Rifondazione comunista, Francesco Ferrara, è intervenuto per precisare che «quel titolo è sbagliato» anche se la libertà del giornale non è certo messa in dubbio. Per tutta risposta Sansonetti ha deciso di pubblicare ieri l'intervento di Ferrara a fianco del discorso di Fausto Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea, il testo che aveva ispirato il titolo contestato: «Un soggetto plurale e unitario della sinistra è irrinviabile», si legge. La polemica non è finita.
Repubblica 21.6.07
Il Prc critica "Liberazione": fa confusione
ROMA - «Il giornale non deve orientare, ma in questo caso ha disorientato». Scontro in famiglia fra il quotidiano di Rifondazione comunista e il partito che ne è proprietario. Francesco Ferrara, membro della segreteria del Prc, ha inviato una lettera di protesta a Liberazione. Il casus belli è un titolo comparso sulla prima pagina di martedì, riferito all´assemblea costituente di Sinistra Europea svoltasi sabato e domenica. «Ora si va oltre Rifondazione?» recitava il titolo dell´articolo firmato da Angela Mauro. No, per Ferrara non si va oltre il partito, che non si tocca, e Liberazione avrebbe dunque dato un´informazione «disorientante». Ai delegati di Sinistra Europea Fausto Bertinotti aveva detto che occorre «costruire un nuovo pensiero», concetto che - sostiene Ferrara - non avrebbe nulla a che vedere con un eventuale scioglimento del Prc. Il dirigente del Prc nega che il partito sia «confuso, smarrito e a testa china», e riafferma comunque il «rispetto delle opinioni del giornale».
Repubblica 21.6.07
La Rosa nel pugno invita l'accusatore di Ratzinger e la Cdl protesta. Bertinotti: non posso negare l'uso della sala
Preti pedofili, polemica per un convegno alla Camera
ROMA - A pochi giorni dalle polemiche sollevate da AnnoZero di Michele Santoro sulla pedofilia clericale, è ora un convegno organizzato dalla Rnp in una sala della Camera a provocare una bufera politica sul tema dei preti pedofili. Venerdì prossimo, infatti, nella Sala Colonne di Palazzo Marino (che fa parte della Camera), si terrà un seminario sulla «repressione sessuale, una politica che genera violenza», organizzato dal deputato radicale Maurizio Turco, al quale prenderanno parte alcune vittime di abusi da parte di preti e Daniel Shea, l´avvocato statunitense che ha denunciato il papa Ratzinger di aver confermato, quando era presidente della congregazione della fede, la linea di trattare la pedofilia con discrezione. Sarà trasmesso, inoltre, in anteprima per l´Italia, il film the hand of god di Joe Cuntrera, italoamericano e fratello di una vittima. Il fatto, però, che questo argomento sia affrontato in un locale del parlamento ha scatenato una polemica all´interno della maggioranza e le proteste dell´opposizione. I teodem della Margherita, con i deputati di Fi e dell´Udc, hanno chiesto infatti a gran voce al presidente della Camera di non autorizzare lo svolgimento del simposio. Bertinotti ha risposto di non poterlo fare, non potendo «censurare» l´attività dei gruppi parlamentari.
Corriere della Sera 21.6.07
Anteprima. Riapre il museo Granet di Aix-en-Provence dove è custodito il capolavoro misconosciuto di Ingres
Il dipinto che svela i limiti del divino
Lo scandaloso «Giove e Teti» non fu mai esposto dai contemporanei
di Roberto Calasso
«Un quadro che sa di ambrosia» racconta un'attrazione impossibile
Lo Stato francese acquistò l'opera e poi la restituì all'autore
Il giorno di Natale del 1806 la testa di Ingres era piena di pensieri pagani. Da Roma scriveva agli amici Forestier: «Ho dunque pensato che quando Teti sale da Giove, gli abbraccia le ginocchia e il mento per suo figlio Achille... sarebbe un bel tema e degno in tutto e per tutto dei miei progetti. Non mi addentro ancora con voi nei dettagli di questo quadro divino, che dovrebbe far sentire l'ambrosia a una lega di distanza, e di tutte le bellezze dei personaggi, delle loro espressioni e forme divine. Ve lo lascio da pensare. Oltre a questo, vi sarebbe una tale fisionomia di bellezza che tutti, anche i cani arrabbiati che vogliono azzannarmi, dovrebbero esserne commossi. L'ho quasi composto nella mia testa e lo vedo».
Giovane pensionante a Villa Medici, Ingres voleva dunque dipingere un quadro che facesse «sentire l'ambrosia a una lega di distanza». Ma come riuscire? L'antichità allora significava David. Pose eloquenti, gesti raggelati. Ingres ne sapeva qualcosa: l'aveva praticata. Ma l'ambrosia? Assente per principio. C'era incompatibilità fra l'ambrosia e l'antichità di David. A quel tempo Ingres annotava in un quaderno eventuali soggetti mitologici: Ercole e Acheloo, Ebe e Ercole, Pandora e Vulcano, anche vari episodi della vita di Achille. Nessuno lo soddisfaceva. La sua attenzione si fissò su quel gesto descritto da Omero: Teti implora Zeus in favore del figlio Achille «cingendogli con una mano le ginocchia e sfiorando con l'altra il suo mento». Hera intanto — sempre secondo Omero — spia la scena. Ingres aveva fatto un segno a matita accanto al passo, nel suo Omero tradotto da Bitaubé. Nessun pittore, nei secoli, aveva osato rappresentare quel gesto attenendosi alla lettera del testo omerico. Flaxman si era appena cimentato col tema, però con timidezza. La mano di Teti rimaneva a mezz'aria — e Zeus portava la propria mano al mento, come un patriarca perplesso. Ingres, al contrario, fa giungere un dito di Teti quasi alle labbra di Zeus. Il suo seno candido si adagia sulla coscia del sovrano degli dèi, con una familiarità fra vecchi amanti. E il suo alluce destro sfiora quello di Zeus. L'eros neoclassico non si era mai spinto così in là. Ciò che Ingres aveva composto in ogni dettaglio nella sua testa doveva essere una epifania espansa su una dimensione imponente (più di tre metri per più di due e mezzo). È come se, perfettamente definito nei suoi particolari, il quadro intero si fosse distaccato dalla mente di Ingres per depositarsi sulla tela, senza passare dalla mediazione della mano che dipinge. Caso unico nella sua opera, non rimangono disegni e studi preparatori. Tutto era fantasma mentale.
Ma il quadro fu accolto male, a Parigi, nel 1811. Suscitava un sentimento oscillante fra il timore e l'imbarazzo. Inoltre, leggendo i commenti del rapporto dell'Académie des Beaux-Arts, viene il dubbio — come molte altre volte per gli anni successivi — che i contemporanei fossero colpiti da scotoma davanti ai quadri di Ingres. E soprattutto non ne percepissero il colore, come se fosse troppo oltraggioso per essere registrato. Baudelaire una volta si infuriò davanti a quella cecità — e scrisse: «È cosa acquisita e riconosciuta che la pittura di M. Ingres è grigia. — Aprite gli occhi, o sciocca nazione, e dite se mai avete visto una pittura più sfolgorante e più sgargiante, e anche una più grande ricerca di toni». Eppure Théodore Silvestre parlava in questi termini di Giove e Teti: «Manca di risalto e di profondità; non ha massa: il tono del colore è fiacco e uguale. Il cielo azzurro ha una tinta uniforme e dura». «Fiacco e uguale» quel colore? Se mai urtante, nell'ostentazione del suo eccesso. Lo Stato francese, che possedeva già il quadro, lo restituì a Ingres. Non sapeva che farsene. Ma ventitré anni dopo lo ricomprò e, dopo un laborioso scambio, il quadro finì al museo di Aix-en-Provence, grazie a una macchinazione del vecchio amico Granet, a cui Ingres aveva dedicato il primo dei suoi grandi ritratti maschili. Sarebbero passati vari decenni prima che Louis Gillet osasse esplicitare che cosa in quel quadro lasciava sconcertati: «Quella scena più che umana, quelle dimensioni gigantesche e vagamente terrificanti, quell'aquila selvaggia, quell'Empireo di un oltremare feroce e quasi nero al di sopra della regione delle tempeste e dei vapori ». Il pittore che predicava la devozione inconcussa alla classicità e all'equilibrio offriva una visione dove «tutto è insolito, tutto è fatto apposta per far stridere i denti: quel colore provocante, quell'ozono, quell'etere crudele, quell'accordo dell'indaco e dell'oro». Ancor più che — un giorno — nel Déjeuner sur l'herbe di Manet, in quel quadro si sarebbe potuto trovare occasione di scandalo. Se ciò non avvenne, fu perché lo Stato lo chiuse nelle sue segrete e perché nessuno osava associare al nome di Ingres quel tipo di scandalo — erotico, cromatico, teologico. Lo scandalo dell'«etere crudele ». Ma il quadro presenta anche un'altra anomalia: la sua totale sconnessione dalla storia antecedente e conseguente della pittura. Se
Giove e Teti anticipa qualcosa o qualcuno, è soltanto un illustratore americano che gli storici dell'arte non sono abituati a trattare: Maxfield Parrish. A parte questo, il quadro potrebbe anche essere una scheggia meteoritica. Oggi chi giunga davanti a Giove e Teti ha l'impressione di trovarsi non davanti a un quadro ma a un'enorme decalcomania. Qualcosa distacca quel rettangolo alto più di tre metri da tutto il resto, nello spazio e nel tempo. Il cielo che si espande dietro il sovrano degli dèi nulla ha a che fare con quello che si vede dalla finestra del museo. Quel cielo è uno smalto inscalfibile e immutabile, forse disceso — come dice Omero — dal «più alto dei numerosi picchi dell'Olimpo». Quanto a Zeus e Teti, non sono più quei personaggi di David che anche Ingres usava dipingere ai suoi inizi, pronti a emettere parole solenni. Al contrario, spicca la loro mutezza, come appartenessero a un'era geologica in cui la parola non è ancora nata e sembrerebbe superflua. Hanno una carnosità minerale. Zeus appoggia il suo braccio sinistro su nuvole grasse, che però lo sostengono come rocce. Se il mignolo di un suo piede appare mostruoso, perché troppo piccolo in rapporto alle altre dita, è perché allora nascevano così. Lo sguardo dell'aquila di Zeus e quello di Hera, che spunta da un bordo del cielo come un obice sospeso a mezz'aria, assorta e calma nei suoi pensieri di vendetta, convergono sul braccio di Teti, privo di ossa, dispiegato nel suo biancore fino a inoltrarsi nella barba di Zeus. Sono lievemente obliqui, come l'eclittica rispetto all'asse del mondo, che è la folgore fiorita di Zeus, stretta nella sua mano destra. Ciò che sùbito si fa notare è appunto quel che gli accademici ritenevano assente: il risalto, la profondità, la massa, la vibrazione. Si può solo concordare con loro in questo: che il cielo ha una «tinta uniforme e dura». Una durezza che sa di ambrosia.
Ingres scelse il tema di Zeus e Teti perché il suo occhio aveva isolato un gesto in Omero. E a quello si attenne, senza flettere. Non era incline a ulteriori considerazioni mitologiche e teologiche, ma con la temeraria incoscienza dei grandi era subito inciampato in un punto di alto azzardo.
Zeus e Teti sono l'unica coppia erotica che mai avrebbe dipinto. Altrimenti le sue figure femminili sono solitarie o circondate da altre donne — con l'eccezione di Afrodite ferita da Diomede e di Angelica in attesa di essere liberata da Ruggero. In tutti e due i casi, il presupposto è una qualche violenza. Mentre Zeus e Teti sono colti in una situazione di intimità amorosa. Ma Zeus e Teti sono anche la prima e suprema fra le coppie impossibili. Zeus desiderava Teti, però dovette rinunciare a lei perché, secondo la profezia di Themis (e di Prometeo), Teti avrebbe generato «un figlio più forte del padre» e destinato a soppiantarlo. Zeus fu costretto a vedere in Teti la fine del suo regno. In quell'unico caso dovette rinunciare al suo desiderio.
Se osserviamo il quadro di Ingres, ci rendiamo conto che Zeus, pur emanando una prodigiosa energia, appare inerme. La vastità del suo torso è esposta, passiva, immobile. L'unico — e minimo — movimento è in Teti. Le dita di una mano che si addentrano come un morbido polpo nella barba di Zeus, l'altro polso appoggiato sulla sua coscia, un alluce che sfiora l'alluce del dio. Zeus, in questo unico caso, non può agire. Se cedesse fino in fondo alle seduzioni di Teti, sarebbe la sua fine. Al tempo stesso è evidente che Zeus desidera Teti. Il suo sguardo è fisso in avanti e nulla vede del corpo di lei. Non emana soltanto forza, ma un'abissale melanconia. Lo vide già Charles Blanc, che pur ne ignorava il motivo mitico, quando parlò di quel «volto al tempo stesso formidabile e di una tristezza infinita». Ma il dio approva il piacere sottile di quel minimo contatto: le dita che giocano nella barba, il braccio appoggiato sulla coscia, l'alluce che lo sfiora. Ora comincia a svelarsi perché dal quadro promana una estrema, quasi dolorosa tensione erotica. Ciò che si mostra è un desiderio carico di intensità e gravità. Perché la visione è altamente paradossale. La scena rappresenta qualcosa di proibito o comunque segreto: il desiderio inappagato del dio sovrano. Colui che aveva spiato, insidiato, posseduto Ninfe e principesse, l'unico seduttore invincibile, che doveva soltanto preoccuparsi di sfuggire all'occhio di Hera, evidentemente poteva incontrare anche lui un ostacolo. E lì si toccava il limite del politeismo, la sua dipendenza dai cicli cosmici, che sottomette ogni sovranità a una potenza superiore: Tempo. Che Ingres fosse consapevole del legame nascosto fra Zeus e Teti non è affatto sicuro. Anzi è altamente plausibile che lo ignorasse. Ma le immagini mitiche vivono di una forza propria — e possono guidare il pennello di un pittore così come il delirio di uno schizofrenico.
Nella sua tela immane, che invade il campo visivo dello spettatore e lo calamita, Ingres aveva mostrato il nefas del desiderio. Con ciò valicando il confine di ciò che è ammesso. Durante tutta la vita del pittore, il quadro non fu esposto al pubblico e non trovò mai un acquirente. Molti critici lo ignorarono. Delaborde, autore della prima monografia improntata a una totale devozione a Ingres, a mala pena lo nomina. E ancora oggi, nella voluminosa Oxford Guide to Classical Mythology in the Arts sono registrati tutti i quadri mitologici di Ingres ma non questo, che è il più grandioso. La profezia di Themis e di Prometeo non colpisce soltanto il dio, ma il suo simulacro.
il manifesto 21.6.07
Inferno di famiglia
di Marco d'Eramo
Meglio sola che male accompagnata, è la morale che si trae dall'ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza in Italia. Perché le cifre che fanno più impressione riguardano le donne: nel 2006 hanno subito violenza ben un milione 150.000 donne. E le donne che nel corso della loro vita hanno subito violenze sono 6 milioni 743.000 (una su tre italiane), di cui 5 milioni di violenze sessuali. Il numero più sconvolgente è che il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal loro partner, e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. È il marito l'aggressore più frequente ed è l'ambito familiare quello in cui si annida il pericolo maggiore. Altro che famiglia culla dei valori civili! La famiglia genera lividi, ematomi, lacerazioni, quando non decessi.
Eppure non è stata lanciata nessuna campagna di «pubblicità-progresso», nessuna serie di spot per mettere in guardia le mogli dai loro mariti, le donne dai loro conviventi. Mentre al contrario ci iniettano fleboclisi d'insicurezza: ogni istante ci ripetono che la città è pericolosa (ma anche le ville isolate del nord non sono poi così tranquille), ci spiegano che la criminalità è in aumento. Tutti siamo certi al 100% di vivere in una società molto più minacciosa e violenta di venti anni fa. Ebbene, ci sbagliamo: l'indicatore principale della violenza è il tasso di omicidi. Nel 1991 furono uccisi 1.901 italiani con un tasso di 3 omicidi ogni 100.000 abitanti. L'anno scorso gli omicidi sono stati solo 621, uno ogni 100.000 abitanti, un terzo di 16 anni fa! Ma la cosa più stupefacente, è che se si guardano le statistiche di un secolo fa, ebbene allora il tasso di omicidi era 10 volte tanto! Uscire di casa era infinitamente più pericoloso.
Allora come succede che la violenza reale sia diminuita, mentre la percezione della violenza è cresciuta? In gran parte è dovuto alla diffusione di radio e tv: nel 1910 un omicidio in un paesetto lucano o una strage negli Stati uniti venivano riferiti solo da una notizia di giornale e con ritardo. Ora l'eccidio più remoto ci arriva in diretta, entra nella nostra casa: ceniamo con i cadaveri sul piccolo schermo, ci svegliamo con corpi inceneriti, teste mozzate. Viviamo in un film dell'orrore e la società ci pare un horror essa stessa.
Ma la deriva sanguinosa dei media non è innocente, né ineluttabile: la demagogia fa di tutto per attizzare l'ansia «securitaria». Ovunque al mondo la politica di destra (a volte il fascismo) sobilla le peggiori paure dei propri elettori, come hanno fatto Bush negli Usa, Sarkozy in Francia e i leghisti in Padania, ovunque invocando ricette di «legge e ordine»: più repressione, più controlli sugli immigrati, più discriminazioni, «tolleranza zero» (cioè intolleranza infinita), che di fatto alimentano la violenza in una spirale di barbarie. Nessuno di questi accorati paladini della nostra incolumità si sogna però di porre un freno allo scempio che avviene al riparo delle mura domestiche, da cui la donna esce dicendo ai vicini che è «scivolata per le scale».
il manifesto 21.6.07
Violenze su un milione di donne
Roma. La paura abita dentro casa e convive con le donne. Ogni giorno in Italia 3.150 mogli, figlie, madri o conviventi subiscono una violenza, 131 ogni ora del giorno e della notte. Quando va bene, si fa per dire, la violenza consiste in un braccio piegato, uno schiaffone o un calcio. Quando va male si tratta invece di uno stupro o, peggio, di un omicidio. E gli autori di questi atti nella maggior parte dei casi sono proprio le persone più vicine, i partner, gli uomini con i quali si pensa di voler dividere una vita e con i quali ci si ritrova invece a dover subire l'inferno. Nel 2006 le donne che hanno subito una atto violento sono state 1 milione 150 mila, il 5,4% di quelle tra i 16 e i 70 anni, il 3,5% delle quali ha subito violenza sessuale. Un esercito. «Leggendo queste cifre sono rimasto assolutamente sconvolto», ha detto ieri il ministro degli Interni Giuliano Amato presentando il rapporto sulla sicurezza in Italia. Il titolare del Viminale si è detto colpito anche dal fatto che i protagonisti delle violenze nel 62% dei casi sono i partner: «Mi trovo in contropiede rispetto a questo». «Sono dati drammatici - è stato invece il commento del ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini - per questo mi rivolgo ancora una volta la parlamento perché venga approvata nel più breve tempo possibile il disegno di legge contro le molestie e la violenza sulle donne o per orientamento sessuale in discussione».
Da tempo si sa come le mura domestiche siano tutto tranne che quel luogo sicuro che si vorrebbe far credere, e come è proprio all'interno della famiglia che si verifica il maggior numero di atti violenti non solo contro le donne ma anche contro i bambini. Fa una certa impressione, però, vedere le cifre di questa guerra quotidiana messe in fila una dietro l'altra come ha fatto ieri il Viminale.
Negli ultimi dodici mesi - spiega il rapporto del ministero degli Interni - sono state 1 milione 150 mila le donne che hanno subito violenza, il 5,4% delle donne dai 16 ai 70 anni: il 2,7% ha subito violenza fisica, il 3,5% violenza sessuale e lo 0,3% stupri o tentati stupri. Spingere, strattonare, afferrare, storcere un braccio o tirare i capelli sono i comportamenti subiti dalla maggioranza delle vittime di violenza fisica (dal 56,7%); una quota quasi altrettanto elevata, il 52%, ha subito minacce, il 36,1% è stata schiaffeggiata, presa a calci, pugni o morsi, il 24,6% è stata colpita con oggetti.
Appaiono, invece, meno diffuse alcune forme più gravi, comunque presenti, come l'uso o la minaccia di usare una pistola o il coltello (8,1%) o il tentativo di strangolamento, soffocamento o ustione (5,3%).
Tra le violenze sessuali, sono invece le molestie fisiche sessuali a rappresentare la forma decisamente più frequente (per il 79,5% delle vittime), seguite dai rapporti sessuali non desiderati (19,0%), dai tentati stupri (14,0%), dagli stupri (9,6%) e dai rapporti sessuali vissuti dalla donna come degradanti ed umilianti (6,1%). Le violenze fisiche sono state commesse dal partner nel 62,4% dei casi, le violenze sessuali, senza considerare la molestia, nel 68,3% dei casi e gli stupri nel 69,7% dei casi.
Le donne tra i 16 e i 70 anni che inoltre hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita sono 6 milioni 743 mila, pari al 31,9% della classe di età considerata. Tre milioni 961 mila donne, pari al 18,8%, sono state vittime di violenze fisiche, 5 milioni (il 23,7%) hanno subito violenze sessuali. Più in particolare, nell'ambito delle violenze sessuali, 482 mila donne sono state vittime di stupro e 703 mila di tentato stupro nel corso della loro vita. Complessivamente, circa 1 milione di donne (il 4,8%), quindi, ha subito stupri o tentati stupri. Due milioni 77 mila donne, infine, il 18,8% delle donne che hanno avuto un partner e che si sono separate da lui, al momento della separazione o dopo di essa hanno subito forme di stalking, cioè di persecuzione che le hanno particolarmente spaventate.
Liberazione 21.4.07
Il capogruppo alla Camera del Prc: «Inutile dividirsi sulle forme»
Migliore: «Mille luoghi per far decidere alla gente il futuro della sinistra»
di Stefano Bocconetti
Non usa questa formula ma il senso è quello: lui dice che è sul "percorso" che si gioca il carattere democratico della sinistra che verrà. Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, è in Transatlantico, in una pausa delle votazioni. L'occasione giusta per scambiare due parole.
Allora, Migliore, come ti immagini la sinistra prossima ventura?
La immagineremo tutti insieme. Io penso soprattutto ad un itinerario: nel quale gli attuali gruppi della sinistra mettano a disposizione la loro organizzazioni - e scusa l'inciso: mettano a disposizione, non decidano il loro superamento - per costruire uno "spazio comune". Un luogo, mille luoghi dove la gente, il nostro popolo decida come strutturarsi. Decida che forma dare al nuovo soggetto della sinistra.
E per te che forma deve avere?
Non quella del partito.
Perché no?
Perché è una formula vecchia, inadeguata. Ma poi davvero se ne possono inventare mille e una. Perché non pensare a qualcosa, dove possa esistere anche una doppia appartenenza? Un po' come faceva la Flm. I lavoratori, i delegati si iscrivevano alla propria organizzazione ma anche alla federazione unitaria. Ecco, l'idea di cui tanti abbiamo parlato, potrebbe essere proprio quella di uno spazio comune a cui si ceda sovranità, scelte, competenze. Ma ti ripeto è un discorso che non può appartenere a questa fase del dibattito. A me interessa soprattutto altro...
Che cosa?
Che il nuovo soggetto ristabilisca il principio che la società interviene nella politica, non viceversa. E allora, il tuo compito oggi è quello di creare le condizioni, gli spazi appunto dove le persone possano decidere. In completa autonomia.
Delegare tutto alle decisioni popolari non è un modo per "frenare" il processo?
Ma via... La differenziazione fra "frenatori" ed "acceleratori" è un giochino che, tranne forse a qualche giornale, non appassiona nessuno.
Ma, insomma, è vero o no che la sinistra, tutti i parlamentari che oggi si collocano alla sinistra del piddì, da anni votano tutti allo stesso modo, votano gli stessi documenti? Avrà pure un significato?
Ma limitarsi a questo vorrebbe dire sollecitare un'unità a sinistra molto, troppo istituzionale. Se vuoi, la tua osservazione, al contrario vale per i democratici. Anche se hanno pochissimo in comune, hanno dato vita ad un partito. Questo per dirti che, insomma, se ci si limita alla sfera della "politica" non hai alcuna garanzia di successo nell'impresa.
Prendiamola da un'altra angolazione. Il Presidente della Camera al Palafiera ha chiesto al suo partito di avere "fretta". I tempi del percorso che tu disegni non significano però procedere troppo lentamente?
Niente affatto. Anch'io ho fretta, e quello che indico credo sia l'unica strada percorribile. Insomma, tu devi spingere affinché la volontà dei gruppi dirigenti della sinistra arrivi a definire uno spazio comune e contemporaneamente devi far vivere la "pratica unitaria" ovunque. Chiamando a partecipare centinaia di migliaia di persone.
Parli di un processo partecipato, insomma. Scusa la franchezza, però: usi quasi le stesse parole che usano i dirigenti del nascente partito democratico.
Loro faranno le primarie ad ottobre per stabilire che quota di fassiniani, veltroniani, rutelliani, annafinocchiariani saranno presenti nel consiglio direttivo. Noi, faremo una cosa diversa. Molto, molto concreta.
Cosa?
Promuoveremo una campagna vastissima - basata sulle feste di Liberazione ma non solo - rivolgendoci ad una platea molto più ampia di quella degli iscritti a Rifondazione. Una campagna di ascolto chiamando tutti ad esprimersi sul ruolo del governo, sull'esperienza di quest'anno. Sarà importante anche perché credo che questo governo avrà un futuro solo se sarà incalzato dalla sua base sociale, da quello che abbiamo chiamato "il popolo dell'Unione". Ma per noi questa consultazione sarà ancora più importante: perché chiederemo alle persone di esprimersi anche "sul come" si costruisce la sinistra d'alternativa. E bada bene: noi saremo vincolati a questa consultazione. Ciò che sarà deciso in quelle assemblee per noi sarà vincolante. Ecco perché credo che sia necessario che a queste consultazioni partecipi tutta la sinistra. A cominciare, naturalmente, da Sinistra democratica. Sarà insomma l'occasione in cui le persone cominceranno a parlare, e a pronunciarsi, su quale dovrà essere la struttura della sinistra futura. Mi pare di poter tranquillamente dire, insomma, che anche noi abbiamo fretta. Per cui ti ripeto: dividerci fra chi è innovatore e chi è appassionato all'identità, è un gioco stupido.
Però l'insistere sull'identità può diventare un ostacolo ai processi unitari. O neanche questo è vero?
Ma di cosa parliamo? L'identità di Rifondazione è esattamente un processo. E' qualcosa che si è andata costruendo un pezzo alla volta. Con una nuova analisi del potere, da cui è discesa la nostra idea di nonviolenza. Abbiamo innovato la teoria e la prassi politica...
Un'interruzione d'obbligo. A qualche osservatore esterno non è apparsa proprio rinnovata una cultura politica che si attarda a giustificare le limitazioni alle libertà individuali a Cuba...
Una volta per tutte. Disprezzo, come voi, gli eccessi stalinisti che si sono manifestati nella discussione aperta da Liberazione . La libertà di espressione delle persone non può essere in discussione. Nel merito: anche noi, quando c'è stato da dire qualcosa a Cuba, lo abbiamo detto. Pensa alle proteste quando s'è trattato di contestare la pena di morte. Ma una cosa è una critica, un'altra cosa è la delegittimazione. Comunque, stavo parlando della nostra identità. E ti dicevo che questo è il contributo che vogliamo portare al nuovo soggetto della sinistra. Altra cosa è la conservazione delle bandiere...
Ma perché bandiere, simboli ed identità non sono sinonimi?
Io per bandiere intendo le parole d'ordine che sintetizzano un partito, una formazione, una cultura politica. Pensa alla socialdemocrazia: sosteneva la pace, la libertà, la giustizia sociale. La pace ora è diventata guerra preventiva, la libertà indifferenza, la giustizia s'è ridotta al risanamento dei bilanci. E questo perché la socialdemocrazia s'è separata dai soggetti sociali che esprimevano le domande iniziali. Ecco, quando parlo di "bandiere" parlo proprio di questo: voglio che comunque la sinistra del futuro resti ancorata al proprio blocco sociale. Ai propri collegamenti.
L'ultima cosa. Domanda secca: ma il limitarsi ad indicare gli "spazi" dove le persone si eserciteranno a progettare la sinistra unitaria, non è un po' poco per definire un gruppo dirigente? Compito di questa "categoria" non dovrebbe essere invece quello di indicare soluzioni, prospettive? Di uscire dal contingente per guardare un po' più in là?
Permettimi, con uguale franchezza: è una domanda davvero figlia di una cultura novecentesca. Aggettivo in questo caso usato non in senso positivo. Perché nella crisi della politica, c'è anche - è ovvio- la crisi dei gruppi dirigenti. Ma non se ne esce inventandosi traguardi. Se ne esce solo con la democrazia. Solo favorendo le condizioni per cui siano le persone a decidere.
Liberazione 21.6.07
Il dovere di guardare "oltre" per la sinistra, per Rifondazione
La Sinistra europea è un grande patrimonio da non disperdere
Prendiamo esempio dal percorso tedesco e cominciamo
di Pietro Folena*
Caro direttore,
possibile che un "oltre" abbia scatenato sul tuo giornale un vero e proprio putiferio? Ho letto la lettera di Francesco Ferrara - un compagno di valore che ho imparato ad apprezzare in questi mesi - e voglio dire che c'è qualcosa che non mi convince.
Ti prego di perdonare a un oltrista incallito - uno che vedeva in Berlinguer e nell'eurocomunismo un "oltre", che negli anni '80 con la Fgci chiedeva di andare "oltre" il muro di Berlino, che alla svolta di Occhetto ha partecipato appassionato per andare "oltre" a sinistra, dopo la crisi del comunismo, che ha cercato di portare questa ricerca nel primo Ulivo e poi nel correntone e che infine si è avvicinato a Bertinotti e al Prc quando sono andati "oltre", con la nonviolenza - quello che può essere scambiato per un atto di fedeltà a una propensione eretica. Ma non è solo così. Lo spirito della due giorni della Sinistra Europea è lo spirito dell'innovazione e dell'oltrepassamento.
Oggi è la sinistra, questa sinistra in Europa, noi tutti, Rifondazione compresa, che così non ce la facciamo. Non era questo il senso dello stare nei movimenti, di una ricerca aperta, della consapevolezza della nostra insufficienza? Insufficienza di forza e insufficienza di cultura. Non reggiamo in Europa e nel mondo, dove le parole liberali della sinistra moderata e quelle antagoniste di chi protesta non muovono la pancia, le paure, le alienazioni. Non reggiamo in Italia, dove la frantumazione politica della sinistra la rende ininfluente.
Dire che il processo unitario a sinistra deve partire dal basso significa proporre il tema di una rifondazione della politica nella vita concreta delle donne e degli uomini. E perciò abbiamo voluto qualcosa di più di semplici accordi di vertice, che mantengono intatti i soggetti e i loro gruppi dirigenti, prefigurando non l'unità della sinistra ma una sorta di "babele" in cui ognuno rimane se stesso senza mettersi in discussione, e mettere in discussione i propri simboli, le proprie liste, i propri apparati.
Sia chiaro: faccio politica da troppo tempo per non sapere che qualsiasi processo unitario passa dall'accordo tra i gruppi dirigenti. Ma, al contempo, i gruppi dirigenti devono sapersi mettere in discussione per un obiettivo più grande.
I partiti, i movimenti, devono avere la capacità di intercettare il sentimento dei propri elettori che oggi non si accontentano di parole e di vaghe promesse sul fatto che un giorno ci sarà la sinistra unita. No, i nostri elettori chiedono l'unità in tempi rapidi perché sanno - e lo sappiamo anche noi - che il tempo a disposizione è poco per risalire la china. Se non saremo capaci di fare massa critica non otterremo molto negli equilibri della coalizione e quindi sulle politiche che stanno a cuore alla nostra gente. Faccio un esempio: dopo un anno e mezzo di governo scopriamo che la Legge 30 non verrà abolita e neppure radicalmente modificata. Al limite, secondo il ministro del Lavoro, verranno cancellati istituti che tanto le imprese non usano. Insomma, niente.
Come rispondiamo in modo efficace a questa involuzione?
Per questo non possiamo rispondere all'appello di Bertinotti dicendo che non cambierà nulla. Dobbiamo ringraziare Bertinotti, e anche Liberazione , per averci aiutato a disegnare un orizzonte più largo. Nel momento in cui - giustamente - abbiamo chiesto ad altri pezzi della sinistra di essere chiari rispetto alle prospettive di un percorso unitario e questa chiarezza alla fine è arrivata, nel momento in cui la prospettiva di un soggetto unitario della sinistra è un obiettivo realistico, occorre lanciare il cuore oltre l'ostacolo e dire che le proprie forze sono completamente a disposizione di qualcos'altro.
Dice giustamente Fabio Mussi che occorre uscire dalle trincee. Tutti noi. Preferisco dire: andare oltre. La Sinistra democratica oltre quella del socialismo europeo (che non è un monolite depositario della Verità, ma un aggregato di tanti socialismi), Rifondazione, i Verdi e il Pdci oltre la tentazione di mantenere i propri (legittimi, ci mancherebbe) confini. Il Prc ha già compiuto un primo parziale passo significativo e non scontato in tale direzione con la proposta della Sinistra europea. Io vi partecipo come tappa per costruire una sinistra senza aggettivi. Nessuno intima al Prc di sciogliersi. Ma avevo capito che il Prc stava dentro questo processo proprio con la consapevolezza che si è esaurita una fase, fondata sulla propria autosufficienza e, da Genova in poi, se ne è aperta un'altra. Ricollocare l'esperienza storica del Prc in un alveo più grande, cominciando dall'esperienza di Sinistra Europea non vuol dire sciogliersi, ma piuttosto evitare che si disperda un grande patrimonio.
Si deve avere allora il coraggio di fare quel passo in più e di dire che alle prossime elezioni amministrative ci sarà un solo simbolo e una sola lista di tutta la sinistra e poco dopo un solo soggetto, così come hanno fatto i nostri compagni in Germania.
So che su questo percorso vi sono ostacoli non semplici da superare. Ma proprio per questo è venuto il momento di indicare chiaramente la meta e i tempi per raggiungerla.
Deputato Prc-Se,
Portavoce "Uniti a Sinistra"
Portavoce "Uniti a Sinistra"
il Riformista 21.6.07
Mentalità. Per Christopher Hitchens c'è un avvelenamento psico-sociale
Non possiamo non dubitare dello spirito religioso
di David Bidussa
In «Dio non è grande» lo scrittore inglese rivendica il pensiero scettico e capovolge l'immaginario collettivo dei credenti per cui la morale e l'etica hanno a che fare con la fede. un invito di segno opposto a quello di Benedetto Croce per cui non ci si poteva non dire cristiani
Come allontanarsi da Damasco e non tornarvi mai più. Il programma non riguarda una linea di politica internazionale. Non si tratta della Siria in quanto paese sovrano, bensì della questione della fede e del suo posto in quota nella hit parade del sentimento di questo tempo. In un contesto in cui la via di Damasco sembra bloccata dal traffico e dagli ingorghi che l'affollano, il testo di Christopher Hitchens (Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi Stile libero 272 pp., 14,50 euro) propone di invertire la marcia.
In generale il testo di Hitchens riprende alcuni temi cari allo scetticismo. Per esempio: attendibilità storiche del testo biblico, credibilità dei commenti tradizionali delle fonti (da Tommaso d'Aquino a Maimonide). Tuttavia il nucleo essenziale del libro di Hitchens è costituito dalla forza del religioso e non dalla sua attendibilità logico-formale. È l'incapacità di rispondere alla violenza e alle minacce di chi non sopporta vignette perché considerate blasfeme; le pratiche riguardanti il corpo, il sesso, la circoncisione; la carica di violenza, di autoritarismo, di violazione del corpo degli altri predicata e praticata lungo il corpo complessivo dei testi sacri di tutte e tre le grandi fedi monoteistiche; è la convinzione che la morale e l'etica abbiano a che fare con la fede.
È dunque la mentalità religiosa, del vissuto religioso ciò di cui tratta Hitchens in questo suo libro. Una mentalità che non riguarda solo chi religioso è, ma anche il senso comune che al religioso è riconosciuto da chi credente non è. Una replica che è fondata sul rovesciamento del senso comune. È ciò che Hitchens fa, per esempio, riportando la risposta data a Dennis Prager (che gli chiede una risposta secca del tipo sì/no), un conduttore televisivo di programmi religiosi, alla domanda se trovandosi in una città sconosciuta, e vedendo un folto gruppo di uomini che si avvicinava verso di lui, si sarebbe sentito più sicuro, sapendo che avevano appena terminato un incontro di preghiera. La sua risposta è pertinente, ma soprattutto, rovescia il senso della logica con cui l'attuale senso comune intorno al religioso. E infatti risponde: «Per restare alla lettera "B" ho effettivamente fatto questa esperienza a Belfast, Beirut, Bombay, Belgrado, Betlemme e Baghdad. In ciascun caso posso dire senza titubanze e posso fornire le mie ragioni che mi sarei sentito immediatamente minacciato se avessi pensato che il gruppo che mi si avvicinava nel crepuscolo veniva da una cerimonia religiosa».
In un saggio della tarda maturità, (per la precisione il 20 novembre 1942, ne La critica) Croce pubblica «Perché non possiamo non dirci "cristiani"». In quella sede l'uomo Croce rivendica con passione l'efficacia insostituibile del sentimento cristiano per essere appunto uomini, nudi uomini legati da un patto di fratellanza ch'è la ragione stessa della loro individuale sopravvivenza e, insieme, della società in cui vivono non derelitti, ma felici come Dio ha voluto. In quel testo Croce avvertiva il «bisogno di dare risalto a ciò che più spicca nel cristianesimo e forma la sua prima e più diretta contribuzione alla storia del pensiero: l'etica non soltanto purificata da ogni utilitarismo, ma incentrata in una concezione divino-umana, che fa discendere Dio nell'uomo e l'uomo solleva fino a Dio».
È un sentimento che ha popolato a lungo l'immaginario e il pensiero di molti laici combattuti tra fede e ragione. L'invito di Hitchens è in qualche modo diverso se non opposto. Ed è quello di rivendicare un pensiero, quello scettico, più che quello ateo, il senso del limite e della propria passione al sapere di fronte talora alla propria inadeguatezza, in ogni caso a non demordere, né a deflettere dalla propria condizione. Un invito, più di sessant'anni dopo Croce, a rivendicare il diritto di dirsi scozzesi (anzi ad affermare che essere moderni significa «non potere non dirsi scozzesi»), e a ritrovare quella logica che fu di Ferguson, di Berkeley, di Adam Smith e soprattutto di David Hume.
Il Tempo sabato 23 giugno 2007
QUADRI, MUSICA E VIDEOARTE: E’ LA MOSTRA DI ANCILLAI
di Francesca Balestrieri
Sermoneta – Proprio in concomitanza del Campus Internazionale di Musica a Sermoneta quest'anno si svolgerà la mostra personale dell'artista romano Alessio Ancillai. L’esposizione, che sarà inaugurata oggi alle 18.30 e sarà visitabile fino al 28 luglio, si svilupperà nelle tre sale superiori del Palazzo Caetani, con un'articolazione nella sala del Cardinale del castello Caetani. La mostra, che non comprenderà solo la pittura, ma anche la musica, la poesia e la videoarte, si chiamerà «Suoni e Silenzi - tempo interno». Sarà un progetto dedicato all'immagine più profonda del suono e del silenzio passando per una dimensione temporale. Alla domanda sul perché un artista di arti visive si interessi a temi musicali, Ancillai risponde: « Da qualche anno sento un forte interesse verso questo tema, precisamente da quando nel 1996 ho ascoltato le affascinanti proposizioni al convegno di Firenze, “Immagine della linea”, promosso dal gruppo di architetti del Coraggio delle Immagini. Ho cominciato a pensare alla linea non più come immagine della natura, ma come immagine creata dall’essere umano.». Alessio Ancillai, desidera raggiungere l'estremo linguistico, luogo di coincidenza tra linea, suono, colore, ricercando quel procedimento di collimazione tra gli elementi, di passaggio naturale e corrispondenza tra quantità cromatica e sonora, origine di armonie a differenti livelli. Il momento di sublimazione sonora è nell'estremo della linea bianca, avvolgente lungo spazi minimi, teatro degli interstizi cromatici. Il suono che l'artista cerca sgorga dal profondo del mondo, degli oggetti, dei paesaggi naturali e dai rapporti interumani. Orari: venerdì 16.00 - 20.00 - sabato e domani 10.00 - 13.00 / 16.00 - 20.00, l’ingresso è libero.
Latina Oggi 21 giugno 2007
Una mostra, un progetto ambizioso nelle sale del maestoso Castello di Sermoneta Suoni e Silenzi
Alessio Ancillai: l’arte incontra la musica e ne capta i segreti
di Francesca Del Grande
LA MUSICA e le sue suggestioni si riflettono nell'arte, si incontrano, l'una ad ispirare l'altra che ne coglie tutta l’intensità. Accadrà in uno scenario maestoso, quello del Castello di Sermoneta, l'antico maniero, lì dove le note del Festival pontino risuoneranno in momenti di eccezionale classe; lì dove un artista, Alessio Ancillai, presenterà al pubblico il suo ambizioso progetto. Sì, musica ed arte si fonderanno in un contesto di massima raffinatezza: le serate del Campus, occasione ideale per ascoltare esecuzioni di alta qualità ed una mostra che alla musica guarda e attraverso un percorso della mente e del cuore approfondisce la magia del suono e dei silenzi per poi esprimerla con la poesia e la pittura grazie al genio creativo dell’uomo. Alessio Ancillai riesce ad immergersi nel suono e nel silenzio e a dirne nei modi più espressivi. «Suoni e Silenzi -tempo interno», questo il titolo dell’evento che sarà ospitato nelle tre sale superiori del maniero. Uno studio accurato condotto su vari fronti, un far collimare armonie cromatiche e musicali per rubarne le «emozioni», le impressioni, i raffronti ed esternarli in un discorso che raffigura il senso della loro esistenza, dei loro segreti captati e interpretati dall’artista. Sin dall’esaltazione degli elementi primari della figura, dalle linee, il rapporto con il suono si fa sentire e le immagini ne rendono l’idea in una significativa visione poetica. La mostra propone una raccolta di opere tra quadri, poesia e videoarte. Nitida si avverte la tensione della ricerca, chiaro emerge il coraggio di affrontare un tema tutt’altro che facile,con un impegno totale di autentica originalità. E’ una nuova importante tappa del percorso artistico di Ancillai che nel passato affrontò, ancora una volta con abile intuizione, i
temi del colore e della linea. Maurizio Maturi, docente di disegno del corso di grafica e progettazione multimediale della Facoltà di Architettura di Roma «Valle Giulia», coglie a pieno l’esito affascinante cui è arrivato Alessio: «Questo passaggio che vede l’artista impegnato nella ricerca della profondità dell’immagine – scrive Maturi -, tra espressione bidimensionale e tridimensionale, lo espone al confronto con la ricreazione della realtà del primo anno di vita, ove affetti e la visione incerta e nebulosa fondono il colore, la linea e le figure astratto geometriche in una sintesi creativa dell’ oggetto percepito ».La mostra «Suoni e Silenzi» sarà inaugurata sabato prossimo, 23 giugno, alle 18.30 e sarà aperta ai visitatori dal giorno successivo sino al 28 luglio. Venerdì 13 luglio verrà presentato anche il raffinato catalogo che l’accompagna. L’evento gode dei patrocini del Comune di Sermoneta, del Campus Internazionale di Musica e della XII Comunità Montana.