lunedì 25 giugno 2007

Repubblica 25.6.07
L'ex segretario Occhetto: lo cercano perché hanno l´acqua alla gola, lui stia attento a non fare come Celestino V
"L´ho allevato io, ora impari a lottare"
di Antonello Caporale


Occhetto, non dica anche lei che Veltroni è perfetto.
«L´ho allevato io, e adesso dovrei pure privarmi del piacere di rallegrarmi di questa sua candidatura?».
Volessimo dispiacergli solo un pochino.
«Un lato debole del suo carattere è quello di aver atteso, nella sua pur brillante carriera, di essere chiamato agli incarichi piuttosto che assumere il rischio personale della lotta aperta».
Un surfista delle idee.
«La sua scelta è legata alla capacità ecumenica di sviluppare i consensi unicamente attorno ai valori. Non basta più».
L´hanno chiamato anche questa volta. Tutti felici.
«Walter, attento! Intanto gli ricordo (ma lui lo sa) che l´amicizia in politica non esiste. Secondo: erano con l´acqua alla gola».
D´Alema e Fassino...
«Il male che hanno fatto a me è assolutamente niente di fronte al male che si sono procurati, illustrato da quelle intercettazioni telefoniche».
Straordinarie.
«Terribili da un punto di vista strategico. Lì dentro c´è la prova della esaltazione del capitale finanziario peggiore, che è invece la cancrena delle società moderne. Quel tifo... Fassino che dichiara che tutto ciò che sta sul mercato va bene».
Con l´acqua alla gola anche Rutelli.
«Ha avuto paura che il morto, in questo caso i Ds trafitti da quelle cose, si impossessasse del vivo, il Partito democratico. Ha pensato che per salvarsi dovesse anch´egli buttarsi di qua».
Ecco Veltroni.
«Abbia in mente cosa accadde a Celestino V voluto Papa dai potentati locali e poi rimasto loro prigioniero».
Non ho capito se è finito in trappola lui o quegli altri.
«Da solo non basterà a se stesso. Ma ha le qualità per resistere e far contare le sue idee. Combatta anzitutto per difendere la prospettiva di una riforma elettorale che lanci il bipartitismo. Perché con un´altra legge chi oggi lo candida è perfettamente in grado domani, quando riterrà che la buriana sarà passata, di toglierlo di mezzo».
Veltroni sa tutto, è bravissimo e furbo.
«Era mio vice al dipartimento Stampa e propaganda. Aveva idee innovative».
Andaste insieme a incontrare Berlusconi.
«Ci fece una proposta diciamo allettante. Un pacchetto di giornalisti a noi graditi, eccetera».
Eccetera.
«Rifiutata».
Berlusconi, sempre lui.
«Credo che il centrodestra avrà una chance in meno se vivrà nella guida eterna del suo capo. Non sono dentro le loro cose e non so se però hanno un nome forte da spendere».
Prodi.
«Prodi che?».
Anch´egli ha deciso e sostenuto Walter.
«Il governo è chiaramente a fine corsa».
Poi?
«Ricominceranno le trame».

Repubblica 25.6.07
Sconti alla Chiesa sull'Ici la Ue ora processa l'Italia
Sotto tiro negozi e alberghi "collegati" a luoghi sacri
Sarà aperta una pratica d´infrazione per violazione delle norme sulla concorrenza
di Curzio Maltese


C´è chi in Italia è abituato a ottenere privilegi da qualsiasi governo e autorizzato a non pagare il fisco, ma sul quale nessuno osa moraleggiare. Pena l´accusa di anticlericalismo. L´anomalo rapporto fra Stato italiano e clero è invece finito da tempo sul tavolo dell´Unione europea, che si prepara a mettere sotto processo il nostro Paese per i vantaggi fiscali concessi alla Chiesa cattolica, contrari alle norme comunitarie sulla concorrenza. Oltre che alla Costituzione, meno di moda. Al centro del caso è l´esenzione del pagamento dell´Ici per le attività commerciali della Chiesa. La storia è vecchia ed è tipicamente italiana.
Varato nel ´92, bocciato da una sentenza della Consulta nel 2004, resuscitato da un miracolo di Berlusconi con decreto del 2005, quindi decaduto e ancora recuperato dalla Finanziaria 2006 come omaggio elettorale, il regalo dell´Ici alla Chiesa è stato in teoria abolito dai decreti Bersani dell´anno scorso.
Molto in teoria, però. Di fatto gli enti ecclesiastici (e le onlus) continuano a non pagare l´Ici sugli immobili commerciali, grazie a un gesuitico cavillo introdotto nel decreto governativo e votato da una larghissima maggioranza, contro la resistenza laica di un drappello di mazziniani radicali guidati dall´onorevole Maurizio Turco.
I resistenti laici avevano proposto di limitare l´esenzione dell´Ici ai soli luoghi senza fini commerciali come chiese, santuari, sedi di diocesi e parrocchie, biblioteche e centri di accoglienza. Il cavillo bipartisan ha invece esteso il privilegio a tutte le attività "non esclusivamente commerciali".
Basta insomma trovare una cappella votiva nei paraggi di un cinema, un centro vacanze, un negozio, un ristorante, un albergo, e l´Ici non si paga più. In questo modo la Chiesa cattolica versa soltanto il 5 o 10 per cento del dovuto allo Stato italiano con una perdita per l´erario di almeno 400 milioni di euro ogni anno, senza contare gli arretrati.
Il trucco o se vogliamo la furbata degli italiani non è piaciuta a Bruxelles, da dove è partita una nuova richiesta di spiegazioni al governo. Il ministero dell´Economia ha rassicurato l´Ue circa l´inequivocabilità delle norme approvate, ma subito dopo ha varato una commissione interna di studio per chiarirsi le idee.
L´affannosa contraddizione è stata segnalata all´autorità europea dall´avvocato Alessandro Nucara, esperto in diritto comunitario, e dal commercialista Carlo Pontesilli, due professionisti di simpatie radicali che affiancano e assistono il drappello dell´orgoglio laico.
A questo punto la commissione per la concorrenza europea avrebbe deciso di riesumare la pratica d´infrazione già aperta ai tempi del governo Berlusconi e poi archiviata dopo l´approvazione dei decreti Bersani. In più, la commissione ha chiesto al governo Prodi di fornire un quadro generale dei favori fiscali che l´Italia concede alla Chiesa cattolica, oltre all´esenzione Ici.
Che cosa potrà succedere ora? Un´infrazione in più o in meno probabilmente non cambia molto. L´Italia dei monopoli, dei privilegi e delle caste è già buona ultima in Europa per l´applicazione delle norme sulla concorrenza e naviga in un gruppo di nazioni africane per quanto riguarda la trasparenza fiscale. Quale che sia la decisione dell´Ue, i governi italiani, di destra e di sinistra, troveranno sempre modi di garantire un paradiso fiscale assai poco mistico alla Chiesa cattolica all´interno dei nostri confini. Magari tagliando ancora sulla ricerca e sulla scuola pubblica.
E´ triste constatare però che senza le pressioni di Bruxelles e la lotta di una minoranza laicista indigena, l´opinione pubblica non avrebbe neppure saputo che gli enti religiosi continuano a non pagare l´Ici almeno al 90 per cento. Nonostante l´Europa, la Costituzione, le mille promesse di un ceto politico senza neppure il coraggio di difendere le proprie scelte.
Nonostante le solenni dichiarazioni di Benedetto XVI e dei vescovi all´epoca dei decreti Bersani: «Non ci interessano i privilegi fiscali».
Nonostante infine siano passati duecento anni da Thomas Jefferson («nessuno può essere costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso») e duemila dalla definitiva sentenza del Vangelo: «Date a Cesare quel che è di Cesare».

Repubblica 25.6.07
Percorsi dell'occhio
Il cervello come un lettore Mp3 scoperto il segreto della vista
I neuroni riescono a tenere l´attenzione sugli oggetti messi a fuoco
di Elena Dusi


ROMA - Non è così facile mantenere fermo il mondo davanti ai nostri occhi. Per osservare un oggetto abbiamo bisogno di avvolgerlo con un gran numero di occhiate, spostando le pupille fino a 4-5 volte ogni secondo. I movimenti rapidi degli occhi inviano al cervello un fotogramma ogni due o tre decimi di secondo, e come riesca il nostro organo del pensiero a trasformare questo balletto di immagini in una sequenza fluida di eventi è un altro di quei fenomeni che più si indagano e più rimangono misteriosi.
David Melcher, un neuroscienziato del Centro Interdipartimentale Mente-Cervello dell´università di Trento e Rovereto e dell´università di Oxford, si è accorto di un particolare importante: i neuroni incaricati di concentrarsi su un oggetto riescono a mantenersi fissi su di esso incuranti dello spostamento continuo della retina. E non solo sono capaci di mantenere il mirino puntato sul loro obiettivo, ma riescono anche a prevedere la posizione che assumeranno sulla retina qualche decimo di secondo dopo, quando l´occhio avrà completato il suo spostamento. «L´adattamento comincia ad avvenire già prima dello spostamento dell´occhio - scrive Melcher in un articolo che appare oggi su "Nature Neuroscience" - e questa capacità di prevedere in anticipo i cambiamenti spiega come mai tutte le diverse occhiate ci appaiano come un flusso ininterrotto».
Lo scienziato ha usato un computer che proiettava sullo schermo dei punti luminosi in continuo spostamento e uno strumento per seguire i movimenti delle pupille. Poi ha concluso che in fondo il nostro cervello non funziona in modo troppo diverso da un lettore di Mp3. «I file musicali - spiega - sono compressi nel lettore. Non contengono l´intera canzone, ma solo pacchetti discreti di informazione separati da brevi intervalli. Il riproduttore di canzoni riesce a ricomporre i brani perché è capace di leggere il pacchetto di informazione attuale e di anticipare anche quello successivo, riempiendo lo spazio tra i due intervalli».
Anche se l´immagine di un oggetto si sposta continuamente all´interno della retina, i neuroni che si trovano nell´area del cervello incaricata di decodificare i messaggi visivi riescono a mantenere puntata l´attenzione sull´oggetto che abbiamo messo a fuoco. Il cervello non deve spendere tempo ed energie ad "accendere" nuovi neuroni per ognuno dei circa 150mila spostamenti della pupilla che avvengono ogni giorno. E questo trucco, unito alla capacità di prevedere in quale direzione la pupilla effettuerà il movimento successivo con una velocità di circa un decimo di secondo, permette alla realtà di scorrere davanti ai nostri occhi in maniera fluida. E lo stesso meccanismo ci consente di distinguere quando è l´oggetto a spostarsi rispetto a noi o quando a muoversi è il nostro occhio

Corriere della Sera 25.6.07
«Walter è un amico, ma noi avanti con l'unità a sinistra»
Diliberto, leader del Pdci: Mussi acceleri, questo è il momento di decidere
di Roberto Zuccolini


Il leader del Pdci Oliviero Diliberto ribadisce che il suo partito «continua ad andare per la strada che porta all'unità della sinistra»

ROMA — E ora che è sceso in campo Walter Veltroni?
Oliviero Diliberto, ci pensa su un attimo. Poi risponde. Prima di tutto con cortesia: «Sono suo amico, l'ho anche chiamato per fargli gli auguri, per dirgli "in bocca al lupo"». Poi però con un certo distacco: «Mi sono comportato con lui come con qualsiasi altro candidato di un partito diverso dal mio. Anche perché, sinceramente, con il governo abbiamo problemi più urgenti da risolvere rispetto al 14 ottobre ». Cioè il giorno in cui andrà in scena la Costituente del Pd. Insomma, il segretario dei Comunisti italiani, non si scalda neanche un po' di fronte all'annuncio della nuova era veltroniana: «Sono vicende interne al Partito democratico ».
Davvero, quella scelta di gareggiare per la leadership della maggiore formazione dell'Unione non cambia nulla anche per voi della sinistra radicale?
«I miei auguri sono sinceri, ma il Pd non è il mio partito. Posso solo dire che sarò contento se si rafforzerà, se prenderà più voti. Il nostro obiettivo è vincere le elezioni. Quindi, se salgono i nostri alleati cresce anche la coalizione ».
E voi del Pdci?
«Noi continueremo ad andare per la nostra strada, quella che porta all'unità della sinistra».
La vede vicina?
«Sì, oggi la vedo a portata di mano. Per quanto riguarda Rifondazione comunista, non lo nascondo, oggi sono decisamente ottimista: ormai parliamo la stessa lingua. Del resto, se vogliamo reagire al momento di difficoltà che attraversa il governo dobbiamo accelerare questo processo».
Che comprende anche gli ex diessini, cioè la Sinistra Democratica di Fabio Mussi, negli ultimi giorni molto prudente sul progetto unitario?
«A Mussi chiedo di riflettere su una considerazione politica: i tempi non sono una variabile indipendente. Spesso coincidono con la stessa politica. In altre parole: se non si sceglie el momento giusto, che a mio giudizio è l'attuale, si rischia di non scegliere più. Si convinca: insieme saremo tutti più forti. Lo stesso invito vale anche per i Verdi. L'unità sarebbe il coronamento dell'impresa alla quale ho dedicato tutte le mie energie negli ultimi anni».
Almeno una parte di queste energie sembrano però concentrate ora nella protesta contro il Dpef sponsorizzato da Tommaso Padoa- Schioppa.
«Se si voleva aumentare l'età pensionabi-le, bisognava dirlo prima ai nostri elettori. Invece, di questo argomento non vi è cenno nel programma dell'Unione».
Molti, nel centrosinistra, pensano che sia indispensabile.
«Stiamo attenti a non commettere nuovi errori. Il governo negli ultimi mesi ha scontentato tutte le categorie: gli imprenditori come gli operai, il ceto medio come i pensionati, i salariati, gli autonomi, gli avvocati e i magistrati...».
Ma anche voi fate parte del governo.
«E infatti siamo preoccupatissimi.
Vogliamo invertire la tendenza o peggiorare?».
Padoa-Schioppa sembra avere il sostegno dei riformisti dell'Unione.
«Il ministro dell'Economia non ha alcun mandato elettorale, non si è presentato alle politiche e non risponde a nessuno salvo a qualche personaggio che ha tutto l'interesse a far cadere il governo Prodi».
C'è chi dice il contrario. E cioè che siete voi della sinistra radicale ad avere indebolito il governo con pretese eccessive e le scelte «di lotta e di governo», da quella contro la Tav alla manifestazione contro la base americana di Vicenza.
«Chi ci critica per questi motivi provi ad andare davanti ai cancelli della Fiat o nelle case di chi non riesce ad arrivare a fine mese. Ciò che occorre per recuperare consenso è lottare contro i privilegi e compiere una vasta opera di redistribuzione sociale, a partire da un aumento delle pensioni minime e dei salari più bassi. Insieme ad un impegno più consistente per la scuola, l'università e la ricerca. È in questo modo che va utilizzato l'extragettito. O, almeno, è quello che dovrebbe fare un governo di centrosinistra».
Clemente Mastella promette che se non verranno ascoltate le sue richieste in tema di Ici e di famiglia uscirà dal Consiglio dei ministri.
«Con gli ultimatum non si risolve nulla. Se si parla di abbassare la tassa sulla casa per i non abbienti, sono perfettamente d'accordo. Ma non si può proporre questa misura per tutti. Io, ad esempio, posso permettermi benissimo di pagare l'Ici. E continuerò a pagarla».

l'Unità 25.6.07
«Civiltà dell’Europa? La radice è nei Lumi»
di Roberto Carnero


TZVETAN TODOROV ha scritto un saggio dedicato all’Illuminismo e ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per il suo impegno a favore dell’incontro fra le culture. In questa intervista ci spiega il senso del suo «cosmopolitismo»

Autonomia, laicità, verità, umanità e universalità: questi secondo Tzvetan Todorov i cinque valori chiave dell’Illuminismo, un movimento di idee di cui oggi egli ci aiuta a riscoprire l’attualità. Morto Dio e crollate le ideologie, è proprio nello «spirito dell’illuminismo» che dobbiamo ripartire secondo il grande pensatore di origini bulgare naturalizzato francese. Lo spirito dell’illuminismo è anche il titolo di un libro da poco pubblicato da Garzanti (traduzione di Emanuele Lana, pagine 128, Euro 11,00). Ultima opera della foltissima bibliografia di Tzvetan Todorov, che per il lavoro di una vita intera di studi e ricerche, oltre che per l’impegno di intellettuale militante, è stato insignito sabato del prestigioso premio Grinzane Cavour «Dialogo tra i continenti».
Todorov, nel suo ultimo libro lei prova a spiegare l’attualità dell’illuminismo. Si tratta secondo lei di una via che è ancora possibile percorrere?
«L’illuminismo ci ha dato un’eredità che è importante riprendere e ritrovare, ma dobbiamo compiere questa operazione in maniera critica e selettiva. In altre parole dobbiamo valorizzare, oggi, alcuni aspetti della tradizione illuministica, ma anche criticare, per altri versi, l’illuminismo stesso. Uno degli insegnamenti di quella cultura è infatti quello di rifiutare i dogmi. E noi ovviamente non dobbiamo correre il rischio di credere a una sorta di dogma illuministico».
Dunque che cosa dovremmo prendere e che cosa invece tralasciare?
«Vanno evitate le deviazioni di una cultura ricca come quella illuministica. L’illuminismo ha lottato principalmente per due obiettivi: l’esercizio della sovranità da parte del popolo e la libertà degli individui dalle imposizioni esterne, religiose e anche politiche. È tutto qua, ma mi sembra un insegnamento non da poco. Dobbiamo però essere in grado di evitare il rischio di una sistematizzazione esteriore e abusiva della ragione illuministica, che finirebbe per negare la complessità interiore e la diversità. Questa dittatura di una ragione astratta è figlia illegittima dell’illuminismo stesso. Che invece ha affermato il principio della libertà di coscienza e i diritti inalienabili dell’uomo. In questo senso è lo stesso illuminismo a insegnare a non essere dominati dallo scientismo. E ancora: l’illuminismo ha combattuto per l’universalità del genere umano. Ma non si possono imporre le medesime istituzioni e i medesimi valori a tutta l’umanità, come certi politici oggi sembrano voler fare o forse fingono di voler fare per altri scopi meno nobili. Questa deviazione verso la creazione di un governo mondiale è qualcosa da combattere. Quella illuministica è un’eredità complessa e questa complessità va preservata. In essa coesistono l’universalismo e l’attenzione alle diversità».
Viviamo in un mondo sempre più globale, ma in cui paradossalmente, forse per reazione a questo processo di globalizzazione, prendono piede particolarismi di ogni genere. C’è una contraddizione tra queste due spinte, oppure possono accompagnarsi in un processo virtuoso?
«La nostra epoca è caratterizzata da una nuova valorizzazione degli elementi locali, ma in un contesto di mondializzazione. Le due esigenze possono combinarsi. Mi sembra che lo testimoni il progetto di una realtà come l’Unione Europea. Nel corso dei secoli l’Europa ha conosciuto diversi tentativi di unificazione: da Carlo V a Napoleone fino, nel Novecento, a Hitler. Ma si trattava sempre di uno stato più forte che provava a sottomettere gli altri, imponendo se stesso e le proprie leggi agli altri Paesi. L’Unione Europea oggi sta invece provando a conciliare le esigenze delle regioni europee (prima ancora che degli stati europei) con una realtà politica più ampia. È la prima volta che si sta cercando di preservare l’autonomia delle nazioni all’interno di una realtà sovranazionale. Forse l’Unione Europea potrà servire da modello ad altre parti del mondo».
Eppure in molti sono scettici sulla tenuta e sull’efficacia dell’Ue. A parte le polemiche di questi giorni tra i diversi Paesi membri, sembra non esserci un movimento culturale diffuso a sostegno di questa realtà. Tanto che l’Europa unita appare spesso come un’area di libero mercato, senza che ci sia un’azione politica di alto profilo.
«Io sono un’europeista convinto, non ho difficoltà ad ammetterlo. Forse è per questo che non condivido affatto il pessimismo dell’analisi che lei riferisce. Oggi mi sembra che l’Europa abbia un respiro politico di una certa ampiezza, anche se è vero che ci sono degli spazi di miglioramento. Ma ogni esperienza umana è perfettibile, ciò vale per qualsiasi realtà».
Tornando alle basi culturali del nostro continente, quali sono le radici di questa cultura? Certo c’è l’illuminismo, ma autorità religiose come il Papa vorrebbero un esplicito riferimento alla componente cristiana. Lei cosa ne pensa?
«Penso che sia impossibile ridurre l’identità dell’Europa a un contenuto singolo. L’Europa non è semplicemente la conseguenza del mondo greco-romano, del pensiero giudaico-cristiano o della cultura illuministica, di Platone o di Aristotele, del cristianesimo, dell’amor cortese dei trovatori o dell’epica cavalleresca. L’Europa è stata la culla della tolleranza e dell’universalismo, ma anche della più violenta intolleranza e dei più biechi particolarismi. La sua storia è fatta di luci e di ombre, di cui dobbiamo essere consapevoli».
E oggi?
«La cultura europea è una cultura viva e come tutte le cose vive muta e cambia di continuo. Per questo andrebbe evitato l’irrigidimento in posizioni univoche ed escludenti».
Qual è il ruolo delle religioni in questo processo?
«Io posso parlare due o tre lingue, ma non posso seguire contemporaneamente due o tre religioni. Non posso essere insieme cattolico e protestante, cristiano e musulmano. Esiste una prerogativa della fede religiosa che è la sua esclusività. Una prerogativa che invece non è delle culture, le quali possono integrarsi tra loro. Credo che noi tendiamo ad attribuire un’eccessiva importanza al vocabolario religioso con cui si pongono delle rivendicazioni che di per sé poco hanno a che fare con la religione».
Cioè?
«Ad esempio il fondamentalismo islamico adopera un vocabolario religioso funzionale a delle rivendicazioni che religiose non sono, bensì sono politiche. Tuttavia quel lessico religioso consente di esprimere le questioni politiche in modo più forte ed efficace. Dovremmo imparare a distinguere i due piani, perché non credo che siano le religioni in sé il vero problema, quanto piuttosto l’uso strumentale che se ne fa».
Veniamo alla Francia, dove lei vive da più di quarant’anni. Dall’Italia abbiamo assistito al successo di Nicolas Sarkozy con l’impressione che i francesi abbiano voluto mettere alla presidenza del loro Paese il classico «uomo forte». È così?
«Penso che in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali si sentisse un diffuso bisogno di rinnovare la politica per rinnovare la società. C’era cioè il desiderio di cambiare non solo le persone, ma anche il modo di fare politica. Con la sua carriera quasi cinquantennale, un uomo come Chirac dava ormai l’impressione di un certo immobilismo, dell’atteggiamento di chi si accontenta delle buone intenzioni e delle belle parole, senza mai passare ai fatti. Sarkozy è apparso più giovane, diretto, franco, trasparente, deciso. È stato visto come un personaggio con delle idee che non erano solo il risultato dell’appartenenza a una certa parte politica, ma la conseguenza di convinzioni personali. Credo che proprio per questo i francesi lo abbiano votato massicciamente. Volevano non tanto un uomo forte, quanto un uomo d’azione. E lui, con il suo modo di fare, è l’incarnazione, a tratti anche un po’ eccessiva, di un tale dinamismo e di un tale attivismo: viaggia nella stessa mattinata da una capitale all’altra, alle quattro del pomeriggio incontra i magistrati, alle cinque gli operai di Tolosa, alle sette pronuncia un discorso al parlamento. Rimane però da chiedersi se tutto ciò sia sostanza o solo apparenza. A questo non so rispondere: del resto mi considero francese solo per tre quarti. E per l’altro quarto non so neanch’io cosa sono».

Repubblica 23.6.07
Intervista a José Saramago
di Leonetta Bentivoglio


L´origine de Le piccole memorie, di José Saramago, è la visione di un pesce volante. Lo confessa il romanziere portoghese, premio Nobel nel ´98, in questo diario leggero e profondo sulla propria infanzia, una minuziosa digressione autobiografica senza politica né etica né filosofia. Solo il ritratto malinconico e ridente di un bambino dal temperamento serio e solitario, che cammina scalzo, ama i film horror, subisce l´approccio di grasse prostitute davanti ai cinema di Lisbona, pecca portando il piede destro a tastare il pube appena fiorito della cugina Piedade («quelli, sì, erano tempi d´innocenza») e accoglie beato, dopo aver dormito in una stalla, le carezze di una luna ancora abbacinante per splendore. Affiorano spunti delle future grandi storie: una gita a Mafra darà lo sfondo al Memoriale del convento, le ricerche all´anagrafe per il fratello morto ispireranno Tutti i nomi. Ma è la vita che preme, non la letteratura.
E il pesce volante? Giunge dal quadro di Bosch sulle tentazioni di Sant´Antonio: in principio, spiega l´ispido moralista lusitano, «volevo intitolare il resoconto dei miei ricordi Il libro delle tentazioni. Per mostrare che la santità turba la natura, la confonde e disorienta». Poi si rese conto che quel certo pesce, che in Bosch porta il santo nell´aria e nel vento, «non si distingue molto dal nostro corpo che vola, come ha volato il mio nello spazio dei giardini tra i palazzi di Rua Carrilho Videira». Perfetta fantasia in stile «saramaghiano». Così optò per Le piccole memorie, cioè «le memorie piccole di quand´ero piccolo, semplicemente». E´ nato il suo libro più personale e intimo: «Avevo in mente il progetto da oltre vent´anni. Al contrario di quello che accade di solito, l´ingresso nell´età adulta non mi ha portato a dimenticare l´infanzia. Solo così si comprende come, nel trasporre i ricordi sulla carta, essi siano emersi con tanta freschezza, come se le decine di anni trascorsi fossero stati solo un semplice ieri».
Nella sua infanzia non c´è niente di "straordinario", ma il suo sguardo è pieno di percezioni "straordinarie". Secondo lei l´infanzia è di per sé rivelatoria e "mitica"?
«Tutto può essere "straordinario" se è "straordinaria" la nostra maniera di vedere o di sentire. I girasoli di Van Gogh non erano "straordinari" (non c´è niente di più simile a un girasole che un altro girasole), ma lo erano gli occhi e la sensibilità dell´artista. Camminare scalzo sulla sponda acquitrinosa di un fiume non ha niente di "straordinario", ma rammentare come il fango mi s´introduceva tra i diti dei piedi, proprio come mi sembra di sentire in quest´istante, è un segnale che qualsiasi piccolo avvenimento, anche il più comune e insignificante, può convertirsi in "straordinario" per tutta una vita».
Perché ha scelto "solo" i suoi primi quindici anni?
«Il mio obiettivo è sempre stato recuperare, ricostruire, ricostituire il bambino che sono stato. Essenzialmente, a mio parere, le adolescenze si somigliano tutte. Solo le infanzie sono uniche. In qualche modo il mio libro può intendersi come il pagamento di un debito. Credo che tutto ciò che sono lo devo a quel bambino. E´ stato lui il mio architetto».
Scrivendo ha provato nostalgia per l´infanzia?
«Non nel senso stretto del termine, ma, se mai una cosa del genere fosse possibile, potrei rivivere quegli anni: di nuovo bambino, con le stesse difficoltà e la stessa povertà. Può sembrare strano, ma è così».
Il sesso, le prime esperienze erotiche... Certe sue descrizioni hanno un sapore felliniano.
«Amarcord è probabilmente il film che porterei con me nell´isola deserta. Non basta dire che l´opera di Fellini mi piace. Più corretto dire che mi appassiona. Purtroppo per noi tutti, non ci sarà un altro Fellini. Quanto ai primi incontri sessuali, quello che ci spingeva di più era la curiosità e lo spirito d´imitazione. L´altro era differente, e dunque volevamo toccare, vedere, sapere in che consisteva la differenza. I bambini di quel tempo, soprattutto se crescevano in campagna, di sesso ne sapevano molto più di quanto s´immagina oggi. Non c´era un´educazione sessuale, ma sapevamo tutti molto bene a che serviva quello...»
Emerge dal libro una passione commovente e intensissima per la natura, lo stesso rapporto "metafisico" che si ritrova nei suoi romanzi.
«Sono solito dire che fra la montagna che vedo in lontananza e la pietra che ho in mano, preferisco la pietra. Per me questo significa che la natura non è un semplice paesaggio che si offre agli occhi, ma una specie di comunione con tutto il minerale, il vegetale e l´animale che mi circonda. Una comunione che passa per tutti i miei sensi, al punto che spesso ho l´impressione di trovarmi non al di fuori, ma al di dentro. Mentre io osservo la natura, sento che lei osserva me».
Perché in questo libro non parla mai di letteratura?
«Era ancora troppo presto. La letteratura mi si rivelò quando cominciai a frequentare, la sera, una biblioteca pubblica di Lisbona. Studiavo e lavoravo durante il giorno, cenavo, poi andavo a divorare tutti i libri che potevo, non scoraggiandomi mai davanti a pagine che non riuscivo a comprendere. Fu in quel periodo che mi accorsi che i giovani non devono leggere i libri che si definiscono per la loro età, ma quelli destinati all´età seguente...».
Gli eroi di queste sue memorie sono i nonni, molto più che i genitori. In particolare il suo sapiente nonno analfabeta, che le insegnò a osservare la Via Lattea.
«Oggi penso che, per me, i nonni rappresentavano la terra stessa, l´humus, gli odori primordiali (avvicino il naso alla manica della camicia di mio nonno e ne sento l´odore), la pioggia e l´aridità, il caldo e il freddo. In qualche modo sono stati loro gli intermediari tra me e il mondo».
Lei si è definito «ormonalmente comunista». Come vede, da «comunista ormonale», l´avanzata della destra in Europa?
«La destra non ha mai smesso di essere destra, ma la sinistra ha smesso di essere sinistra. La spiegazione può sembrare semplicistica, ma è l´unica che contempla tutti gli aspetti della questione. Per essere partecipanti più o meno tollerati nei giochi del potere, i partiti di sinistra sono corsi tutti verso il centro, dove, infallibilmente, si sono incontrati con una destra politica ed economica già installata che non aveva bisogno di camuffarsi da centro. Si è entrati allora nella farsa carnevalesca di denominazioni caricaturali come quelle di centro-sinistra o centro-destra. Così sta il Portogallo, l´Italia, l´Europa. Prima ci divertivamo chiamando stupida la destra. Oggi non vedo niente di più stupido della sinistra. Quanto al mio comunismo ormonale, sono comunista perché non potrei mai avere una mentalità capitalista. A mio parere essere comunista è uno stato di spirito».

domenica 24 giugno 2007

Repubblica 24.6.07
Dagli aiuti alle mamme sole ai fuochi d'artificio per il Papa, ai premi ai barboni buoni, ecco la mistica di Veltroni
La "religione" del Leader Ecumenico spariglia le carte tra laici e teocon
La diffusa iconografia lo vede con papi, buddisti, alla Moschea o in Sinagoga
di Filippo Ceccarelli


Se Tony Blair si è convertito o sta per convertirsi al cattolicesimo, Walter Veltroni non ne ha alcun bisogno - essendo già, dal punto di vista politico e confessionale, molto più di un semplice convertito o di un autorevole cattolico impegnato nella vita pubblica.
Egli è infatti il Leader Ecumenico: per eccellenza. In quanto tale, non ha bisogno di risposarsi in chiesa, o di rivelare la sua fede per radio, di andarsene in gita monacale al Monte Athos. Sulla tomba di don Milani c´era già stato nel 1998, e se è per questo, nel medesimo giro cimiteriale, pure su quella di don Pippo Dossetti. Già una dozzina di anni orsono il post-comunista Veltroni aveva anticipato tutti riassumendo le sue convinzioni religiose in una efficace formula: «Credo di non credere». E tuttavia aggiungeva di essere «assolutamente carico di interrogativi». Non molto tempo fa è ritornato sul tema rispondendo alle domande della rivista dei Padri Passionisti, L´Eco di San Gabriele: «Il gusto di questa ricerca - ha detto - non è diminuito con il passare del tempo, al contrario».
Ma davvero, nel suo caso, non è questo della personale ricerca il punto. Perché moltissimo fra cielo e terra Veltroni ha certamente trovato. Pensieri, parole, opere e ridottissime omissioni. Villaggi della solidarietà, parchi della memoria, partite del cuore, corsi pre-matrimoniali, sconti per famiglie, aiuti a mamme sole in difficoltà, individuazione di aree destinate alla costruzione di chiese in periferia, visite ad anziani, regali a bambini ammalati, premi a barboni buoni, cittadinanze conferite a profughi ed esuli, lettere personali a parroci di borgata, fuochi d´artificio per il compleanno del Papa.
E il Colosseo illuminato contro la pena di morte, le foto giganti dei sequestrati in Iraq o in Afganistan allestite sulla piazza del Campidoglio, i pranzi con i poveri della Caritas, le presenze all´inaugurazione di ristoranti per sordomuti, la dedica a Giovanni Paolo II di una stele alla Stazione Termini nei giorni di maggior attrito con la Cei sul caso Welby, l´insediamento di un ufficio comunale per la pace in Medio Oriente, «Propongo di fare di Roma - si poteva leggere qualche mese fa per bocca di Veltroni - la capitale mondiale della lotta alla fame e alla povertà».
Per ridere, l´allora segretario radicale Capezzone ha scritto su Libero che prima o poi le moltitudini si sarebbero recate in pellegrinaggio al Campidoglio per adorare le stimmate del sindaco santo. Ma nel frattempo Veltroni aveva scritto una ispirata prefazione alla raccolta dei discorsi di Giorgio La Pira, che di Firenze negli anni Cinquanta fu veramente il «Sindaco Santo».
Un approccio, comunque, così appassionato, ma ormai anche a tal punto rappresentato da scombinare, in potenza, non solo le artificiose diatribe che condannavano il Partito democratico a una specie di «cuius regio, eius religio», ma l´intero panorama politico italiano, con la sua guerra strisciante sui valori, la laicità, la famiglia, i gay, le scelte etiche o bioetiche che siano.
C´è un bella foto di Umberto Pizzi che immortala Veltroni alla presentazione del libro della principessa tradizionalista ratzingeriana Alessandra Borghese (Sete di Dio, s´intitola, ed è edito da Piemme). Dietro il tavolo, e davanti a un altare, sono tutti in preghiera, a mani giunte, mentre il sindaco, futuro leader del centrosinistra, se ne sta decorosamente imperturbabile, con l´aria di chi rispetta e comprende, ma soprattutto sta lì, anche lì, addirittura lì.
E infatti c´è un´intera e diffusa iconografia che vede Veltroni attorniato da rosse tonache all´inaugurazione del primo tempio buddista romano, o davanti alla Sinagoga a gettare la sua piccola pietra nell´«Israele day», o nella moschea di Morte Antenne, o a qualche appuntamento vagamente New Age.
Opus Dei e missionari comboniani, Sant´Egidio e protestanti: dopo tutto, l´amatissimo Martin Luther King era un pastore battista. Non conosce limiti il veltronismo per così dire universale, o spirituale. Due anni orsono l'onorevole Baccini, dell´Udc, ha accusato il sindaco di «neo-paganesimo». Ma a parte il pulpito da cui proveniva l´addebito, se è per questo ci sono anche foto che ritraggono Veltroni nel bel mezzo di danze dal sapore animista, con capre e galli votivi, in Malawi.
Fino all´apoteosi dell´ecumenismo funzionale e di buona volontà, l´anno scorso, quando per la presentazione della rivista d´interconfessionalità, appunto, Conoscersi e convivere, nell´aula Giulio Cesare, l´uomo che si appresta a dare una registrata al centrosinistra riuscì a raccogliere in un simbolico e plastico giuramento monoteista un rabbino, un imam e un cardinale di Santa Romana Chiesa.
Come tutto questo possa condizionare la vicenda politica è già più complicato dire. E tuttavia Veltroni resta l´unico politico ad aver scritto la parola «Dio» in un suo libro, Forse Dio è malato, sull´Africa, frase di Alex Zanotelli. L´unico che ha avuto il privilegio, non solo intellettuale, di vedersi commentata una frase del suo romanzo Senza Patricio da monsignor Ravasi, sulla prima pagina dell´Avvenire. L´unico a cui Famiglia cristiana abbia chiesto di scrivere un editoriale. L´unico, infine, che abbia avuto l´idea, il cuore e un po´ anche la faccia di rivolgersi a Benedetto XVI ripetendogli in dialetto bavarese ciò che Papa Wojtyla aveva detto in romanesco, «Damose da fa´!». E quindi: «Santità, Auf geht´s, pock ma´s!».
E tutto sembra di colpo invecchiato. Prodi «cattolico adulto», Berlusconi cattolico con famiglia multipla. Il ricordo della Democrazia cristiana. Il referendum sulla fecondazione artificiale, lo scontro sui Dico, il Family day, la «cosa bianca» dell´orsetto Pezzotta. Si spostano, con Veltroni, gli orizzonti di una contesa insieme antica e nuovissima. Sembra lui stesso, il cucciolo delle Botteghe Oscure, il promotore di una specie di religione secolare. Guarda un po´ gli scherzi della storia, che poi sono anche le sorprese della vita.

Repubblica 24.6.07
Una scossa alla sinistra dal sindaco d’Italia
di Eugenio Scalfari


L´ULTIMO episodio politico in ordine di tempo è stato l´affondo della sinistra radicale contro Padoa-Schioppa, contenuto in una lettera a Prodi firmata da quattro ministri: Ferrero, Mussi, Bianchi e Pecoraro Scanio.
Il segretario della Cgil l´ha commentata con queste parole: «A me pare che nel governo ci sia un problema che riguarda proprio lui (Padoa-Schioppa).
L´impressione è che abbia tutti contro, anche l´Associazione dei Comuni protesta contro di lui. Io fin dall´inizio ho avuto la sensazione che lui non volesse l´accordo con noi. La ragione non l´ho capita, ma non credo che sia solo tattica».
In realtà la sensazione che abbiamo avuto in molti fin dall´inizio è esattamente l´opposto: che fosse Epifani a non volere l´accordo sulle pensioni e mirasse – fin dall´inizio – ad un collateralismo inedito tra Cgil e Rifondazione comunista. Assolutamente inedito: la Confederazione del lavoro esiste da un secolo e non è mai stata alleata con la sinistra massimalista. Se collateralismo c´è stato – e c´è stato – la sponda politica si è costituita con i riformisti del Partito socialista e poi con i riformisti del Pci. Il connubio di queste ultime settimane rappresenta dunque un´anomalia nella storia del maggior sindacato italiano e si può spiegare soltanto con il tentativo di Epifani di riassorbire il sinistrismo radicale della Fiom. Con la conseguenza di scaricare sull´intero mondo del lavoro un conflitto interno alla sua organizzazione e di coinvolgervi la stessa sopravvivenza del governo nazionale.
E´ augurabile che la tempesta sia superata nella prossima riunione.
Probabilmente la soluzione «tecnica» sarà quella di sostituire lo «scalone» con un solo scalino e poi con le «quote». Il linguaggio è cifrato ma significa alzare gradualmente l´età pensionabile adottando una cifra che sia la somma tra l´età e il numero delle annualità contributive versate. Se la quota prescelta fosse per esempio 96 e se le annualità contributive versate fossero 35, si andrebbe in pensione a 61 anni ma anche a 56 anni se i contributi versati fossero 40 invece di 35. Questo tipo di approdo ha comunque un costo che il Tesoro stima in 1.2 miliardi da aggiungere a quelli già previsti fin dall´inizio del negoziato con le parti sociali. E questi sono i soldi aggiuntivi che Prodi sta chiedendo a Padoa-Schioppa. Il ministro del Tesoro probabilmente li troverà, almeno per i primi due esercizi, 2008-2009. Oltre quella data il problema traslocherà dalle spalle di Prodi a quelle di Veltroni poiché tutto fa pensare che in quel momento saremo in piena campagna elettorale.
Accetterà la Cgil questa soluzione «tecnica»? Oppure si limiterà a riaffermare che lo «scalone» previsto dalla legge Maroni deve essere abolito, punto e basta, facendosi risucchiare dalla sinistra radicale? Per certi aspetti Epifani ricorda Montezemolo. Il segretario della Cgil vuole riassorbire l´estremismo della Fiom ma rischia d´esser lui riassorbito dal movimentismo dei metallurgici. Simmetricamente Montezemolo vorrebbe riassorbire l´estremismo delle piccole imprese – lo spirito di Vicenza – ma finora è lo spirito di Vicenza che ha riassorbito Montezemolo.
Quanto alla sinistra radicale, essa sta giocando sul terreno dei temi sindacali una partita eminentemente politica: la candidatura di Veltroni alla leadership del Partito democratico ha spiazzato molte posizioni, a destra, al centro, a sinistra. Ha spiazzato Berlusconi, Casini, Rutelli, Fassino e anche tutta l´ala radicale dell´Unione.
Un partito riformista proiettato verso l´obiettivo del 35 per cento dal consenso elettorale, con un bacino potenziale che potrebbe arrivare addirittura al 40 preoccupa molto l´area che va da Mussi a Rifondazione comunista. Di qui la necessità di battere un colpo ed acquistare una visibilità notevolmente offuscata, come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative.
Il tema delle pensioni e delle risorse da destinare al potere d´acquisto dei redditi meno abbienti rappresenta il terreno ideale per un tentativo di riconquista del cosiddetto movimento. Ecco la non recondita ragione per la quale lo scontro tra il ministro del Tesoro e sinistra radicale e sindacale ci conduce ad esaminare la scesa in campo di Walter Veltroni e gli effetti che fin d´ora ne derivano.
* * *
Una volta tanto cominciamo dagli effetti anziché dalle cause. Sono sotto gli occhi di tutti: la sua candidatura ha rincuorato una parte notevole dei «disincantati» del centrosinistra, quella massa di elettori dell´Ulivo che nelle recenti amministrative hanno preferito disertare le urne per mandare un segnale senza con questo passare all´antipolitica o addirittura dall´altra parte dello schieramento politico.
La scossa è stata forte, il segnale è arrivato. Si poteva temere che l´annuncio della candidatura di Veltroni non fosse sufficiente a scuotere l´apatia dei «disincantati». Invece l´atmosfera politica è cambiata di colpo.
Si direbbe che i «disincantati» non aspettassero altro. Gli ultimi sondaggi registrano un salto di dieci punti nelle intenzioni di voto in favore del nascituro Partito democratico, dal 25 al 35 per cento con l´Unione che ha di nuovo superato lo schieramento di centrodestra.
Riemerge con gran forza il problema se, nelle nuove condizioni, sia ancora ripresentabile la candidatura di Berlusconi. La nuvola di tempesta tende ora a spostarsi verso Arcore e questa è un´altra novità.
Gli scettici ad oltranza concentrano le loro critiche sull´eccesso di unanimismo che attornia il sindaco di Roma, propostosi come sindaco d´Italia.
Secondo loro le primarie che si terranno il 14 ottobre per eleggere il leader del Partito democratico e nello stesso tempo i delegati all´Assemblea costituente che dovrà dare forma e struttura al nuovo partito, si trasformeranno in un plebiscito. Sempre secondo loro il plebiscito non serve a costruire una leadership. In teoria hanno ragione ma in pratica hanno torto. Non considerano che un plebiscito non è neppure pensabile se una leadership non esiste già. Il plebiscito non è che la ratifica popolare d´una leadership già esistente, che è appunto il caso di Veltroni. Ancora una volta D´Alema l´ha capito per primo ed è lui che ha fatto la prima mossa per disincagliare il Partito democratico dalle secche in cui si era arenato.
Probabilmente altre candidature ci saranno alle primarie del 14 ottobre, ma serviranno soltanto a posizionare alcune correnti all´interno della Costituente.
Operazione rischiosa, con la testa rivolta all´indietro verso ricordi identitari e ideologie che il nuovo partito dovrebbe invece superare. Del resto il tandem Veltroni-Franceschini è già una risposta al pericolo di perpetuare la distinzione tra Ds e Margherita. E´ un tandem messo in campo proprio per superare quella dicotomia originaria, non certo per perpetuarla. Un tandem operativo e non ideologico.
Qualcuno ha scritto che con Veltroni si passerà dalla politica degli «aut-aut» a quella degli «et-et», cioè dall´ideologia al pragmatismo delle cose da fare. Mi sembra che questa formulazione sia appropriata al tandem Veltroni-Franceschini. Ed è quella di cui il paese ha bisogno.
Dico tuttavia che questa strategia degli «et-et» non è affatto lontana da quella che sempre è stata auspicata e praticata da Prodi. Eppure Prodi è avvolto da una nube di ostilità mentre la popolarità di Veltroni si trova al culmine dei consensi. Come mai? Capacità di comunicazione a parte, come mai? Ecco una bella domanda cui rispondere.
* * *
Secondo me la risposta è molto semplice. Prodi, uomo senza partito, è stato il candidato d´una coalizione di partiti ormai arrivati al capolinea, indipendentemente dalla loro storia, dalla qualità morale e intellettuale dei loro dirigenti, dal loro radicamento sul territorio. Nessuno di quei partiti aveva più un orizzonte davanti a sé, nessuno poteva illudersi di creare un orizzonte nuovo e perseguirlo da solo.
Da solo poteva soltanto immaginare che portare avanti lotte di potere, complicate ipotesi di nuovi schieramenti, scomposizione e ricomposizione di sigle e correnti o infine – per quanto riguarda i piccoli e piccolissimi – il ricatto di mandare in crisi il governo data la scarsissima maggioranza al Senato. Quindi ricerca perenne di visibilità, perenne litigiosità all´interno della maggioranza e del governo, discredito sempre più diffuso nella pubblica opinione. Di tutto ciò Prodi ha pagato il conto, ma non lui soltanto; l´ha pagato l´intera coalizione in quanto tale e quindi la governabilità del paese.
Questa classe di governo ha comunque prodotto, nonostante le difficilissime condizioni esistenti e in larga misura auto-create, alcuni risultati positivi che emergeranno se e quando il polverone che staziona da tempo sull´operato del governo si dissiperà.Continuo a pensare che la Finanziaria del 2007 sia stata importante per aver rimesso in piedi la finanza pubblica, avere incentivato la produttività delle imprese con lo sgravio dell´Irap, avere avviato una politica di redistribuzione che ora dovrebbe passare da un livello simbolico ad un livello effettivo. Infine questa classe di governo «moritura» (come i «morituri» di Palazzo Carignano, il vecchio Parlamento piemontese che proclamò la nascita dello Stato italiano) ha immaginato e perseguito la creazione del Partito democratico affrontando il giudizio di una platea di elettori nuovi, attivi, decisi a superare e anzi a sotterrare le vecchie nomenclature. Ne va dato merito a entrambi i gruppi dirigenti dei due partiti promotori e in modo particolare a Fassino e a Rutelli. Resta una domanda: riguarda il paese, la sua fibra morale, la sua passività e reattività. Finora le prove non sono state esaltanti. Potranno migliorare?
* * *
Si è sempre detto che in democrazia si possono cambiare e alternare i gruppi dirigenti, ma non si può chiedere al popolo di dimettersi. Ovviamente è così. Ma che cos´è il popolo se non la sua classe dirigente nel senso più ampio del termine: politici, amministratori, imprenditori, intellettuali, ricercatori, professionisti, scuola, Università? Si dice anche: ogni popolo ha la classe dirigente che si merita, ma questo è sbagliato. Questo modo di dire va capovolto: ogni classe dirigente ha il popolo che si merita. Se il popolo si comporta male rispetto alla responsabilità del proprio presente e del proprio futuro, dipende dal fatto che la classe dirigente non fornisce l´esempio dovuto. Nella storia è sempre stato così e penso proprio che sempre così sarà.
La classe dirigente italiana, salvo brevi intervalli e poche luminose figure, ha avuto scadente qualità. Il trasformismo del piccolo cabotaggio è stato pratica diffusa e così la corruttela politica, la cupidigia, l´esercizio del potere usato prevalentemente per mantenere il potere, la mancanza di carattere, il servilismo e il ribellismo a corrente alternata. L´impunità.
Questi difetti sono presenti in tutte le classi dirigenti, non si può infatti immaginarne una composta di angeli o di filosofi stoici. Platone la vagheggiò.
Marc´Aurelio altrettanto. Ma si sa come finirono quelle utopie.
Il guaio accade quando quei difetti fisiologici diventano patologia. In Italia questa discesa di livello è avvenuta più spesso che altrove ed ora il compito che incombe soprattutto ai giovani è di ricondurre la qualità della classe dirigente e i suoi difetti nell´ambito della fisiologia, di modo che possano anche rifulgere le qualità che certamente essa possiede.
* * *
I difetti e le patologie dei politici le conosciamo ampiamente. Non si fa che discuterne da tempo. Non abbastanza, secondo me, quelle di altri settori della classe dirigente. Penso per esempio alla questione delle tasse che da anni infiamma l´Italia. So bene di toccare un nervo scoperto, ma che altro sarebbe la professione che faccio se non quella di toccare i nervi più sensibili per capire la natura di ciò che avviene? Le tasse. Sono troppo alte. Tutti lo sanno e lo dicono. Le spese sono troppo alte, tutti lo sanno e lo dicono. L´evasione fiscale è troppo alta, tutti lo sanno e lo dicono. Padoa Schioppa e Visco (i due nomi più impopolari d´Italia) l´hanno quantificata sulla scorta dei dati Istat: 100 miliardi di imposte evase, più di 300 miliardi di imponibile che sfugge al fisco. Tutti sono d´accordo di combatterla. Da qualche parte l´evasione starà.
Ebbene, l´evasione sta dovunque l´imposta non sia trattenuta alla fonte. Non dico con questo che i lavoratori dipendenti siano dei santi. Dico che il reddito da lavoro dipendente è il solo che non sfugge e non può sfuggire.
I lavoratori dipendenti sono 20 milioni di persone. I pensionati sono 16 milioni. Il lavoro autonomo in tutte le sue forme occupa 4 milioni di persone. Anche i lavoratori dipendenti e i pensionati spesso fanno doppio lavoro e il loro secondo lavoro assume forme autonome o addirittura sommerse. Queste sono le quantità ed è ovvio che l´evasione sta interamente nei redditi che non hanno un sostituto d´imposta. Dove si deve cercare allora l´evasione? Sulla luna?
Negli scorsi giorni non ho trovato un solo giornale che aprisse la prima pagina sulle dichiarazioni dei redditi autonomi pubblicate dall´Istat. Salvo due volte «Repubblica» e una volta «La Stampa». Grandi titoli invece alle proteste (e i fischi al governo) dei commercianti, degli artigiani, dei professionisti. Le tabelle dei ridicoli redditi dichiarati nelle pagine interne, i fischi in prima pagina e spesso in apertura di pagina.
Poiché faccio questo mestiere auspico che anche i giornalisti, che fanno parte anch´essi della classe dirigente, correggano alcuni dei loro evidenti errori e non soltanto gli errori degli altri. Sparare la notizia dell´uomo che morde il cane è sacrosanto ma quali sono l´uomo e il cane della metafora?
Bastonare sempre e comunque il governo non è più una notizia. Bastonare la politica e gli uomini politici non è più da tempo una notizia. Bastonare il cane che affonda è semplicemente sadismo (metaforico).
Perciò io continuo a difendere Prodi, Padoa Schioppa e Visco. E Bersani. Poiché fischiarli è ormai come un cane che morde l´uomo, io mi metto nell´angolo opposto.
Del resto i buoni giornalisti hanno sempre fatto così.

l’Unità 24.6.07
Mussi a Prodi: rispetta il programma
La candidatura di Veltroni: «Una buona notizia»
di Simone Collini


«È IMPRESSIONANTE che si definiscano estremisti quattro ministri che chiedono al proprio governo di rispettare il programma». Fabio Mussi giudica «a dir poco sorprendenti» le reazioni alla lettera che insieme ai ministri Ferrero, Pecoraro Scanio e Bianchi ha inviato venerdì al presidente del Consiglio. «Qualche commentatore ci ha definito irriducibili, termine utilizzato per le Br», scuote la testa il ministro per l’Università e la Ricerca. «E questo perché chiediamo di conoscere il Dpef prima di votarlo? Perché richiamiamo l’attenzione su punti essenziali di una piattaforma costruita non nel covo dei soviet ma nella Fabbrica del programma di Prodi?».
La lettera inviata al premier ha suscitato diverse reazioni critiche. Se l’aspettava, ministro Mussi?
«E perché avrei dovuto? Abbiamo richiamato il governo alla coerenza con il suo programma. A cominciare dall’abolizione dello scalone e dal superamento della legge trenta. La lettera ha contenuti chiari. Parte dall’ennesimo intoppo che c’è stato nella trattativa sulle pensioni tra governo e parti sociali. Una trattativa che ha prodotto risultati, ma che ora sta andando avanti con cifre che ballano e con il metodo delle docce scozzesi. Servono cifre chiare e la determinazione del governo a raggiungere l’accordo».
C’è però chi vi ha definito “irriducibili”.
«Sì, termine usato per le Br. E il fatto che siano giornali diciamo democratici a farlo è sorprendente. Se abbiamo sentito l’esigenza di scrivere questa lettera è perché siamo preoccupati che in una situazione politica difficile come quella attuale la trattativa con le parti sociali possa andare in fumo. E questo sarebbe un guaio grandissimo per il governo, che è di fronte all’esigenza di un rilancio».
Nella lettera si parla anche di Dpef, e il portavoce del governo Sircana ha richiamato al “rispetto delle prerogative di ciascun ministro”.
«Bene. Ma a parte che la Costituzione prevede il principio di collegialità nel governo, cioè che siamo tutti responsabili di ogni provvedimento dell’esecutivo, è proprio per quello che dice Sircana che voglio sapere cosa prevede il Dpef su ricerca e università. Siccome ho una responsabilità, devo essere messo in grado di esercitarla. E quindi devo sapere qual è il documento fondamentale su cui il governo orienterà le sue politiche economiche. Siccome siamo a cinque giorni dal Consiglio dei ministri che si occuperà del Dpef, vorremmo vederlo prima per poterlo valutare, discuterlo e poi approvarlo. Non si può fare il bis dell’anno scorso, quando il testo ci venne dato a poche ore dall’inizio del Cdm».
Il ministro Turco vi obietta che simili discussioni si devono affrontare appunto nel Consiglio dei ministri, non con lettere pubbliche.
«Ma qualcuno crede che queste questioni non siano state sollevate nei precedenti Cdm? Crede che non abbiamo già discusso del livello di informazione con cui a volte passiamo alle decisioni? La questione è stata sollevata, più volte direttamente col presidente del Consiglio. Questa volta abbiamo compiuto un atto politico per vedere se la situazione migliora»
Così però si dà un colpo all’immagine del governo, si rischia di indebolirlo.
«Non capisco perché. Noi vogliamo rafforzarlo. Penso che non ci siano alternative a questo governo. Che sia il punto di equilibrio politico più avanzato. Ma bisogna farlo funzionare. Dobbiamo chiamare a raccolta le forze, coinvolgere, lavorare sulle idee. C’è un problema di rilancio, lo vedono tutti. Le amministrative sono state non un campanello ma un campanone d’allarme. Un certo malumore nei nostri confronti può essere connesso al fatto di governare, però forse ora ha superato la misura. C’era chi diceva “molti nemici molto onore”. Ma “tutti nemici” non si può, scontentare tutti non si può».
Epifani ha detto all’Unità che sente aria da 1919, che vede gli industriali come novelli agrari di allora, che guarda con preoccupazione alla sollecitazione degli istinti più bassi.
«È un allarme forte quello di Epifani. È una persona riflessiva e attenta a ciò che dice. Non ha sparato a caso. Il suo è un allarme che coglie un punto. E che condivido. L’ultima uscita di Montezemolo è inquietante. Non può essergli scappata. E se gli è scappata è freudiano. La sua è stata una doppia battuta. La prima, tremenda e intollerabile, è che i sindacati rappresentano i fannulloni. Un insulto ai lavoratori italiani, una cosa che il presidente di Confindustria non può né dire né pensare. L’altra battuta è che rappresenta più lui i lavoratori dei sindacati, quando è uno degli elementi della vita democratica la capacità dei grandi sindacati confederali di rappresentare il lavoro. Anche questa battuta ha un sapore politico. È l’idea di un blocco proprietario che attrae i consensi popolari. Oggi c’è una sommossa dei ricchi e il disincanto dei poveri. E Montezemolo suona la carica».
Come giudica la candidatura di Veltroni a segretario del Pd?
«Una buona notizia. Il Pd stava andando a infrangersi fragorosamente. Con Veltroni c’è la possibilità di un esito più solido. Dopodiché, non è che cambia il mio giudizio su carattere e natura dell’operazione Pd. Il dissenso resta».
E allora perché una buona notizia?
«Un Pd che galleggia al 20% e una sinistra frammentata sarebbe un disastro. Ho concluso il mio intervento al congresso dei Ds dicendo buona fortuna, speriamo che tutti e due i progetti, quello del Pd e quello dell’unificazione della sinistra, abbiano successo, perché in questo modo è ragionevole immaginare le coalizioni del futuro in un quadro bipolare e non trasformistico. Continuo a pensarla così, e penso che Veltroni sia un interlocutore migliore di altri».

l’Unità 24.6.07
L’apprezzamento per Veltroni dalla platea di Sd
Ma Salvi dice: Veltroni o no il nuovo partito ha comunque un asse centrista


SINISTRA DEMOCRATICA rimane un movimento, ma visto che «contano le idee, contano i valori, ma conta anche la forza per affermarli», come dice Fabio Mussi, si doterà di organismi dirigenti a tutti i livelli per «pesare» ancora di più di quanto pesi oggi con i suoi 21 deputati, 12 senatori e 5 europarlamentari. Ieri si è riunito a Roma il Comitato promotore, di cui fanno parte i delegati della seconda e terza mozione che hanno abbandonato i Ds dopo il congresso di Firenze più una trentina di personalità: da Massimo Salvadori a Luciano Gallino, da Lucio Villari a Maurizio Viroli, da Michele Prospero a Giacomo Marramao, da Pietro Greco a Marcello Cini. È stato presentato il simbolo (che non è piaciuto a tutti ma che Mussi ha difeso anche perché «non va bruciato quello che verrà presentato alle elezioni»), è stato eletto Mussi coordinatore nazionale e Valdo Spini presidente del Comitato (circa 300 membri) e soprattutto si è deciso che ad ottobre si terrà il congresso fondativo.
L’obiettivo rimane quello di lavorare a unificare le forze di sinistra. Ma se il leader dello Sdi Enrico Boselli propone a chi si richiama al Pse di dar vita a breve alla costituente socialista e se il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano lancia un appello affinché entro luglio si metta in campo un coordinamento delle forze della sinistra radicale, gli esponenti di Sinistra democratica invitano i futuri eventuali compagni di strada a «lavorare sui contenuti»: «Il tempo non deve essere infinito - dice Mussi ai suoi - ma dobbiamo evitare precipitazioni». Anche perché il percorso è da fare passo dopo passo. E Gavino Angius pur concordando sul fatto che sia «sbagliato ricostruire il Psi» però marca un’apertura nei confronti dello Sdi e dice di fare «attenzione a non appiattirci» sulle posizioni di Prc e Pdci.
Nelle cinque ore di dibattito che si è svolto al Piccolo Eliseo rimane invece sullo sfondo la candidatura di Veltroni a segretario del Partito democratico. A sentire gli interventi, nel gruppo dirigente di Sd non c’è quella preoccupazione di erosione di consensi, di travaso di militanti verso il Pd su cui era stato lanciato l’allarme nei giorni scorsi (Franco Grillini ha parlato di pressioni su Sd). La candidatura di Veltroni, è la posizione unanime, non scioglie nessuno dei nodi sollevati nei mesi scorsi, a cominciare da quello della collocazione internazionale e del profilo identitario del nuovo soggetto. E nei colloqui tra le poltrone del teatro romano i giudizi non cambiano. «Noi abbiamo criticato alla radice il progetto stesso del Pd - dice Carlo Leoni - che abbia una guida più popolare e innovativa è un bene per tutti, ma non smonta le ragioni della nostra critica e l’esigenza di unificare tutte le forze di sinistra». Il vicepresidente della Camera, amico di vecchia data di Veltroni, conferma «l’amicizia e la stima» per il sindaco di Roma, così come «il dissenso politico rispetto al progetto del Pd». Anche perché, se pure per Giovanni Berlinguer la scelta di Veltroni è «la soluzione migliore per il paese», per Cesare Salvi «Veltroni o non Veltroni il Pd ha un asse centrista, mentre all’Italia serve una forza politica di sinistra».

Repubblica 24.6.07
Per Sinistra democratica il leader in pectore è un interlocutore "più interessante di altri". "Ma continuiamo sulla nostra strada"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Gli ho detto: "Walter, era l´ora!"». Fabio Mussi, adesso che è l´ora di Walter Veltroni alla guida del Pd, non può che dirsi contento perché «ci sono le basi per un rapporto migliore, è un interlocutore più interessante di altri», praticamente ideale anche se ciascuno farà il proprio gioco: il sindaco di Roma sarà il segretario del Partito democratico, il «compagno» Mussi - che ha lasciato i Ds per non entrare nel Pd - a capo della Sinistra democratica. Veltroni in campo non ci preoccupa - dice Mussi alla fine del comitato politico del movimento che da ieri ha uno statuto, un simbolo, l´ambizione di unire la sinistra e presentarsi alle amministrative del 2008 avendo fatto nel prossimo autunno il primo congresso - «e poi è sempre meglio che le cose migliorino».
L´ex leader del Correntone ribalta l´allarme che sembra essere scattato a sinistra in vista dell´impegno di Veltroni nel Pd: l´uomo cioè capace di coinvolgere e riconquistare anche i "transfughi" ds. «Tra me e Walter c´è una lunga amicizia. A noi di Sd interessa che il Partito democratico non fallisca e al Pd interessa il successo di un´aggregazione a sinistra. Una reciproca alleanza è il solo progetto non trasformistico per governare il paese». Del resto, ragiona Mussi, resta la distanza sul programma del Pd, sui suoi valori, sulla collocazione internazionale fuori dal Pse. Stoccata a Rutelli a proposito di Bayrou: «Quello che, a sentire Rutelli, era l´astro nascente francese, ha preso solo 5 deputati». «Come Mastella», gli fa eco Cesare Salvi, altro leader di Sd. «Sì, ma senza le percentuali di Benevento», è l´affondo di Mussi.
I "transfughi" Ds vanno avanti, «senza sottovalutare la forza di Walter ma il progetto del Pd resta quello che è». Rincara Gavino Angius: «Tanto meglio Veltroni farà, tanto peggio sarà per il governo». Arriva a Sd ancora un´offerta a «ripensarci», questa volta da Arturo Parisi: «Con Mussi c´è una prospettiva comune, ho sempre espresso il mio rammarico per averlo perso come interlocutore nel Pd». «Non siamo in una "porta girevole"», replica Carlo Leoni. Concetto sul quale Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera, torna nel suo discorso richiamando alle battaglie sui contenuti, ricordando la legge per i diritti delle donne lavoratrici che Sd è riuscita a portare alla discussione dell´aula. Giulia Rodano ammette che «i compagni» il 14 ottobre potrebbero andare alle primarie per il Pd, a meno che la sinistra non crei altre mobilitazioni.
Sulle primarie per il Pd potrebbe registrarsi la candidatura anche di Enrico Letta. Il sottosegretario di Prodi ha fatto un tour in Veneto ieri, un giro di consultazioni che ha tutta l´aria di un sondaggio per valutare se candidarsi in alternativa a Veltroni, avendo come programma di «superare» il malessere del Nord. «Io candidato? vedremo...», risponde cauto. «Walter dovrebbe riaprire il percorso che ha portato al Pd», afferma Franco Grillini di Sd. Dal canto suo, Veltroni con Mussi ha sempre insistito («Senza di voi è un Pd più povero»), ma i "trasfughi" perseguono l´unità della sinistra. Percorso accidentato. «Non dobbiamo appiattirci sul Prc», è l´opinione di Angius, più sensibile all´offerta dello Sdi per la costituente socialista. Mussi rifiuta anche questa forzatura.

il manifesto 24.6.07
«Noi decisivi», la scelta di Sinistra democratica
Il movimento presenta il simbolo. Angius: riequilibrare guardando allo Sdi. Mussi: loro stanno con Padoa Schioppa. Ma anche il Prc sbaglia. Giordano: coordiniamoci
di A. Fab.


Sinistra democratica ha da ieri un suo simbolo - l'arcobaleno in campo biancazzurro, le parole «Per il Socialismo Europeo» -, un comitato promotore, un direttivo e la presidenza con sei incarichi di lavoro. Più il coordinatore politico, naturalmente Fabio Mussi. Insomma si organizza. Ma discute, ancora, sul rapporto privilegiato da avere con i socialisti di Boselli o con i compagni della «Cosa rossa»: Rifondazione, Pdci e Verdi. Gavino Angius è per i socialisti e il suo intervento alla prima riunione del coordinamento, ieri mattina, meno di due mesi dopo la nascita del movimento il 5 luglio scorso, riapre la discussione nel gruppo dirigente. Proprio mentre Franco Giordano accelera lanciando la proposta di far nascere dal cantiere delle sinistre un coordinamento nazionale con dentro partiti e associazioni «entro metà luglio». E per converso Enrico Boselli scottato dalla mancata adesione al suo appello per la costituente socialista attacca la lettera dei quattro ministri di sinistra, tra i quali Mussi, sul Dpef: «Propongono soluzioni sbagliate».
Secondo Angius il problema di Sinistra democratica è che fino a questo momento si è «sbilanciata» nel rapporto con la sinistra radicale. Per cui «occorre un riequilibrio». Pena «la rinuncia alla capacità del nostro movimento di parlare a tutta la sinistra». Mussi può rispondere agevolmente che è Boselli a tifare per Padoa Schioppa. Epperò riconosce che «lo schema riformisti-radicali è sbagliato quando lo propone Fassino com'è sbagliato quando lo propone Bertinotti». «Merli con i merli e passeri con i passeri», metafora cui Bertinotti ricorre spesso, è per Mussi «un'idea passatista che andava bene fino alla terza internazionale». Eppure Mussi sembra indicare nel presidente della camera l'interlocutore privilegiato in Rifondazione, partito nel quale, dice «è in corso una discussione difficile dopo il doppio fallimento del 9 giugno, il fallimento di piazza del Popolo ma anche del corteo, perché senza una piattaforma politica e un progetto il movimento pacifista resta a quelli con il passamontagna e il bastone». Infatti aggiunge che durante l'assemblea fondativa di Sinistra europea «abbiamo sentito tanti discorsi» ma quello che più gli è piaciuto è stato quello di Bertinotti «quando ha parlato di socialismo del XXI secolo e di mettersi tutti in discussione. Bene, è un primo passo».
Sinistra democratica si immagina come l'ago della bilancia. «Noi siamo decisivi per un'idea di sinistra non minoritaria», dice chiaramente Mussi. E dunque via al rafforzamento del movimento anche per rispondere alla inevitabile offensiva del partito democratico targato Veltroni. L'avvento del sindaco di Roma è una preoccupante novità per gli ex diessini. «Una buona notizia», dice Mussi, ma anche «un pericolo», aggiunge Claudio Fava. Che spiega: «Veltroni ci mette in mora, non rispetto a chi ha già fatto la sua scelta ma a tutto ciò che sta fuori da noi», magari ancora nei Ds, e fino a ieri orientato a raggiungere Sinistra democratica. «Dobbiamo rendere chiare le nostre intenzioni», dice ancora Fava. E Pasqualina Napolitano avverte: «Lo stato di grazia di cui stiamo godendo non durerà lungo». Mussi spiega: «Abbiamo già prodotto due miracoli, Prc e Pdci hanno ripreso a parlarsi e i Verdi si sono ancora ancorati nel campo politico della sinistra». Ma non basta. Non bastava prima e basta ancora meno con Veltroni dall'altra parte. «Sinistra democratica - conclude Carlo Leoni - non può limitarsi ad essere il vigile urbano dell'unità a sinistra. Come i Ds lo sono stati del partito democratico».

l’Unità 24.6.07
Un coordinamento delle sinistre a luglio
La proposta di Giordano, il sì del Pdci


«Il cantiere delle sinistre parta subito»
Mussi: pensiamo ai contenuti, inutile l’accelerazione

Dar vita, entro la metà di luglio, a un coordinamento nazionale che comprenda sia le forze politiche sia le principali forze sociali interessate al processo unitario a sinistra del Pd. Lo propone oggi il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, oggi su Liberazione. Al «cantiere delle sinistre» il leader Prc ricorda il carattere «irreversibile» e «necessario» di questo processo, e invita a «promuovere, nel corso dell’estate, una campagna politica di massa, capace di coinvolgere persone, organizzazioni e territori attorno ai contenuti che qualificano oggi l’iniziativa unitaria e l’identità della sinistra». «In politica, i tempi contano - dice Giordano - non possiamo restare fermi, in attesa di eventi annunciati che potrebbero modificare profondamente la scena politica, e rischiare di rinviare tutto all’autunno. La proposta del coordinamento è una tappa ulteriore del percorso che abbiamo avviato il 31 maggio tra i segretari delle forze di sinistra dell’Unione. Un passaggio politico e un segnale necessari».
Pensiamo ai contenuti, replica Mussi: inutile precipitardi. Invece il leader Pdci, Diliberto, è d’accordo: «Siamo pronti da... ieri. E dunque non posso che esprimere la mia totale approvazione e il mio più sincero impegno a lavorare perchè ciò accada. È la nostra linea da tempo. Dobbiamo far valere la nostra forza - mi verrebbe da dire con Bertinotti, la nostra massa critica - che fra Camera e Senato è di 150 parlamentari».

l’Unità 24.6.07
Facciamo una nuova sinistra
di Achille Occhetto


Apriamo una costituente delle idee , diamo vita a delle primarie sui contenuti, apriamo una fase di ascolto della società. Ma sapendo che è fuorviante la contrapposizione tra sinistra di governo e sinistra radicale

Da tempo avvertiamo il bisogno di una sinistra nuova e unita, costatando l’esistenza di una comunanza intorno ad alcuni filoni ideali fondamentali. E il bisogno è diventato sicuramente più urgente da quando è stato messo in campo il progetto della formazione di un partito democratico su basi moderate, che lascia un vuoto enorme a sinistra. Io non sono mai stato contrario a processi di aggregazione. Sono sempre stato favorevole ad una sintesi alta tra i diversi riformismi di cui è ricca la tradizione politica italiana, nella consapevolezza che occorra andare oltre gli errori del passato, e che i vecchi motivi di divisione sono ormai superati, non interessano più nessuno, soprattutto non alle nuove generazioni.
Ma come farlo? Certamente non nel modo con il quale si è proposta la formazione del Pd. Non dobbiamo prendere le mosse dal contenitore, ma dai contenuti, dobbiamo partire da un confronto culturale e programmatico aperto, avere il coraggio di cambiare pelle e di uscire da vecchie problematiche identitarie.
Non si tratta di rifondare né il Pci né il Psi. Il compito ben più drammatico che ci sta di fronte è quello di rifondare la sinistra, mantenendo dentro di noi le nostre passioni, la nostra storia e le nostre radici. E quando parlo di sinistra non parlo di sinistra radicale ma di una sinistra vera, moderna e plurale, capace di reinventare il senso di un’attuale ispirazione socialista e democratica.
I socialisti e i comunisti, all’inizio del ’900, si sono divisi sulle tecnica della presa del potere. Ma oggi concordiamo tutti sul valore della non violenza. Allora che senso ha attardarci sulle vecchie discriminanti che forniscono alla destra lo spunto per rinverdire le vecchie invettive anti - comuniste? Nell’89 dovevamo uscire dalla crisi del comunismo da sinistra per muovere verso un socialismo di sinistra. Molta acqua è passata sotto i ponti. Il compito che ora ci attende è quello di affrontare le nuove formidabili contraddizioni del millennio, per impedire che la sinistra in quanto tale sparisca dal panorama politico italiano.
Una nuova sinistra plurale, laica, moderna e unitaria deve fondarsi sull’individuazione dei fondamenti ideali di un’identità alternativa all’attuale modo di essere della politica e all’attuale modello di sviluppo, per opporsi al degrado della politica e impedire il sorgere di un’antipolitica qualunquista e moderata. Non c’era bisogno delle intercettazioni telefoniche per capire che la politica italiana è stata gettata in un pantano e per vedere il distacco spaventoso tra cittadini e classe politica.
Il rischio che corriamo è che riemerga il vecchio adagio qualunquista secondo cui saremmo tutti uguali. Nel passato noi potevamo rispondere, con Enrico Berlinguer, che eravamo il partito dalle mani pulite. Ma oggi non siamo più credibili se non mettiamo mano alla riforma della politica, soprattutto se non diamo per primi il buon esempio.
Non si tratta di questioni giudiziarie: già nel mio libro Potere e antipotere avevo sottolineato che se i partiti, invece di stare al di sopra del mercato per dettare le regole valide per tutti, fanno corpo con questa o quella cordata, per di più in combutta con la destra di un Berlusconi, si apre la strada a una mostruosa forma di economia neo-feudale, permettendo cosi ai neoliberisti di «buttar via il bambino con l’acqua sporca», di attaccare ogni forma di rapporto tra pubblico e privato, di fare sparire le ragioni sociali del primato del pubblico. E allora riprendiamo con maggiore chiarezza e convinzione nelle mani il tema della riforma della politica e della stessa questione morale.
Ma accanto alla riforma della politica occorre la riforma della società. Chiediamoci: ha ancora un senso la critica al capitalismo? Io rispondo - con Touraine - di sì. Certo, in modo nuovo, diverso dal passato. Tuttavia non possiamo pensare che il solo compito della sinistra sia quello della redistribuzione (peraltro assai scarsa) all’interno dell’attuale modello di sviluppo. Occorre cambiare modello, cambiare modo di produrre e di consumare. Perché solo cosi si potranno fronteggiare le grandi sfide del terzo millennio, come la fame nel mondo, i pericoli di autodistruzione del pianeta; solo cosi l’ecologismo non si riduce ad un’esercitazione per anime belle.
E allora reinventiamo il socialismo del nuovo millennio, incominciando da alcune cose chiare: la centralità del lavoro; il cambiamento del modello di sviluppo; un pacifismo coerente attraverso la ripresa della lotta per il disarmo generale, nella direzione della messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa; il no netto allo scudo stellare; la centralità della questione ecologica; la riforma del potere e il cambiamento dei tempi della politica dal punto di vista femminile. Approfondiamo tutte queste questioni, ma diciamo subito che il movimento reale che si batte per tutto questo è il socialismo moderno.
Apriamo pertanto una costituente delle idee, diamo vita a delle primarie sui contenuti, apriamo una fase di ascolto della società.
La sinistra moderna deve dire di no alla fuorviante contrapposizione tra sinistra di governo e sinistra radicale. Per alcuni benpensanti la sinistra è di governo solo se governa a favore delle compatibilità dei più forti, contro i deboli e i lavoratori. Noi, al contrario, dobbiamo volere governare sulla base della nostra compatibilità, quelle del mondo del lavoro, della ricerca, dell’innovazione e dello sviluppo. La nuova sinistra non deve contrapporsi attraverso un estremismo privo di sbocchi, ma con una nuova idea di potere, di governo e di sviluppo dell’economia.
La sinistra è di governo soltanto se non porta al governo una casta separata ma il proprio popolo e sta al Governo solo se sta stare nel paese. Ma i voti ci dicono che non stiamo più nel paese e con il paese, che il distacco tra politici e cittadini colpisce tutti. Non abbiamo tempo da perdere, dobbiamo dare un segnale, indicare un nuovo simbolo, presentare con umiltà e coraggio una vera novità. Con la formazione del Pd si è aperta davanti al progetto dell’unità della sinistra una vera e propria autostrada; sarebbe ridicolo volere percorrere questa autostrada in bicicletta. Per questo sta dinnanzi a noi un imperativo: piantare nella diversità il seme dell’unità. Anche solo questa volontà rappresenterebbe un grande segnale di speranza per la politica italiana e soprattutto per le nuove generazioni.

Corriere della Sera 24.6.07
Ferrero: nel governo il Pd pesa troppo
Io ascolto la gente, loro Confindustria

di Mario Sensini


ROMA — «La lettera a Prodi è solo un modo per segnalare in maniera molto netta un problema. Poi, scusi, ho visto che nelle scorse settimane il vicepremier, Francesco Rutelli, non è che ha posto l'esigenza, ma ha dato addirittura per scontato un intervento sull'Ici che non mi risulta fosse concordato. Nell'Unione non ci sono solo il Partito democratico e le sue dimensioni interne ». Se c'è qualcosa che non va giù a Paolo Ferrero è che lo chiamino «irriducibile». «Il disagio sociale che sta crescendo in Italia richiede risposte: dirlo non è estremismo, ma puro buon senso. Promettendo di dare queste risposte noi abbiamo vinto le ultime elezioni» dice il ministro di Rifondazione comunista.
Non c'è una minaccia di crisi. «Il vero problema — precisa Ferrero — non è tra la sinistra radicale e il Partito democratico.
Il nostro grado di responsabilità meriterebbe elogi. La crisi è nel rapporto tra il governo e il Paese, come dimostrano le ultime elezioni. Noi individuiamo una strada per rinsaldare questo rapporto, che è quella delineata dal programma elettorale. Chiediamo che sia rispettato, mica la luna. Vogliamo trovare una quadratura unitaria attraverso una discussione vera».
Certo ci sono, evidenti, anche problemi di rapporto interno alla maggioranza.
Così, a Giuliano Amato secondo il quale in Italia quattro ministri che protestano, «tutto sommato sono pochi», Ferrero risponde sarcastico. «Amato solleva unicamente il problema della sottorappresentazione al governo delle forze della sinistra. E di una sovrarappresentazione pazzesca del Partito democratico rispetto al suo peso. Noi di Rifondazione abbiamo un ministro e la metà dei voti della Margherita. Non è che loro, però, hanno solo due ministri, ne hanno molti, molti di più. Puntualizzato questo, noi troviamo giusto che per abbattere i costi della politica, si riduca anche il numero dei ministri».
«La verità è che su temi come quello delle pensioni si rischia uno slittamento progressivo. In campagna elettorale, quando si devono prendere i voti, si fanno i comizi, si parla con la gente, e si dicono certe cose. Poi man mano che le elezioni si allontanano si perde questo contatto, si va alle assemblee della Confindustria e si leggono i bollettini della Banca d'Italia... Rappresentano interessi diversi. Noi stiamo semplicemente richiamando il governo alla sua ragione sociale».
Quella lettera scritta con Fabio Mussi, Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi, tutto deve fare meno che scandalo. «Abbiamo solo segnalato problemi reali. Il primo mi pare che Prodi lo abbia anche riconosciuto, dando una risposta molto positiva alla richiesta di maggior collegialità. Ora bisogna tradurlo in pratica, ma il presidente ha preso atto che c'è questa necessità. Quanto alle pensioni e agli interventi per attenuare il disagio sociale ereditato dopo cinque anni di governo Berlusconi, attendiamo ancora risposte nel merito» aggiunge Ferrero.
«Di sicuro serve una politica economica che restando nei parametri di Maastricht non pretenda una riduzione del debito più rapida di quanto ci si chiede e che si concentri sulla domanda sociale. È così ragionevole, la nostra proposta, che non mette neanche in discussione i parametri. Non so se sono io che frequento gente sbagliata, ma quando parlo con i lavoratori di pensioni, mi dicono tutti le stesse cose. Quando parlo coi giovani della precarietà del lavoro, le stesse cose. Alle assemblee sulla casa, le stesse cose ». «Puro buon senso» dice il ministro di Rifondazione, prima di assestare l'ultimo colpo. A Tommaso Padoa-Schioppa, ai suoi conti, e chi dice come Rutelli che con la spesa pubblica «non si scherza». «Appunto. Quelli dell'Economia sono conti sbagliati, del tutto virtuali. Non tengono conto dell'aumento nel 2007 dei contributi sul lavoro dipendente, lo 0,3% in più che porta un miliardo l'anno. Poi sono fatti come se tutti dovessero andare in pensione il giorno dopo aver maturato il diritto, e non è così. In Italia l'età media effettiva di pensione è già superiore a 60 anni... La fuga c'è quando i lavoratori, come oggi, sono spaventati dall'idea di interventi continui».

l’Unità 24.6.07
I dolori di Cofferati. A Bologna è scontro con l’altra sinistra
di Andrea Bonzi


TENSIONI NELL’UNIONE La corda si tira, si stressa, ma non si rompe. La coalizione dell’Unione che governa Bologna resta unita. Almeno per ora. Ma l’ultima polemica scatenatasi sotto le Due Torri rischia di mettere seriamente alla prova l’unità del Centrosinistra che, nel 2004, portò alla vittoria Sergio Cofferati, e della stessa Rifondazione comunista, con l’ala movimentista sempre più decisa ad andarsene sbattendo la porta. Uno scenario di rottura minacciato da ormai 2 anni ma che non è mai apparso così concreto.
Ecco i fatti. Giovedì scorso, dalla manifestazione antifascista organizzata dai Movimenti in risposta a un mini-corteo di Forza Nuova contro la realizzazione della moschea a Bologna, partono slogan e insulti contro il sindaco. Offese gravi, come «Cofferati pezzo di m...». Viene anche rotta la vetrina di una banca. In testa al serpentone (almeno un migliaio di persone) camminano i vertici locali del Prc e dei Verdi. Il giorno successivo, l’assessore Virginio Merola, tra gli esponenti Ds più vicini a Cofferati, va giù pari: «Non ho nessuna intenzione di restare in questa compagnia. Sarà un problema della sinistra radicale spiegare come si fa a stare in una maggioranza, bombardandola costantemente». «L’insoddisfazione» dei cittadini per queste «vecchie manfrine del partito di lotta e di governo» è «profonda», insiste il diessino. Merola ha in mente il recente sondaggio del Corriere di Bologna che parla di consensi in calo (al 39%) per il sindaco. Poche ore dopo si tiene il primo incontro tra Cofferati ed Enzo Raisi, parlamentare di An ed ex assessore della passata giunta di centrodestra, che gli presenta una serie di proposte contro il “degrado” della zona universitaria, uno dei problemi irrisolti della città. Un primo passo verso le «larghe intese» con il centrodestra in materia di sicurezza auspicate da Cofferati e dai Ds.
La coincidenza tra il “flirt” con i finiani («La maggioranza? Non c’entra niente, su...», assicura Cofferati) e la strigliata al Prc non passa inosservati. Tiziano Loreti, numero uno bolognese del Prc, presenta al corteo, nega che i suoi abbiano partecipato ai cori anti-Cofferati («Condanno quelle parole. Ma nessuno di noi l’ha insultato»). Loreti rivendica, però, il senso della manifestazione («L’antifascismo non è anche un vostro valore?») e ribadisce il «no» a sedersi a un tavolo con An.
Giovanni Russo Spena, presidente dei senatori del Prc getta benzina sul fuoco: «I risultati dell’amministrazione Cofferati non ci sembrano soddisfacenti. E la sua candidatura non è scontata». Ci prova il segretario dei Ds, Andrea De Maria, che si è sempre adoperato per l’unità della coalizione, a riportare la calma: «Bisogna restare uniti. Se il Prc deciderà di correre da sola alle elezioni 2009, farà un grosso errore».
Il resto è storia di ieri. Valerio Monteventi, consigliere movimentista del Prc, prende la palla al balzo: «È tempo di costruire un’alternativa. Contiamo fino a dieci, anche lentamente, e poi decidiamo. Non ha senso continuare in questo modo perché rischiamo di rimanere travolti dalla nave che affonda». Insomma, «se continuiamo con questa manfrina diventiamo ridicoli», chiude Monteventi.
Ma il tempo non sembra essere ancora venuto: «L’Altra Sinistra (Verdi, Prc e Cantiere, ndr) è dentro la maggioranza. Ma - avverte il suo segretario Loreti - se questo abbraccio mortale con An dovesse proseguire si romperebbe definitivamente un legame. Con il popolo dell’Unione, An non c’entra. E noi non siamo disponibili a una maggioranza a geometria variabile».

i “radicali”...
Repubblica 24.6.07
Il ministro si schiera sulla linea del rigore: il governo non dimentichi la crescita e il rientro del deficit
"Non ci sono soltanto i comunisti" la Bonino difende Padoa-Schioppa
La sinistra radicale? Non dimentichi che siamo una coalizione e poi i veri radicali siamo solo io e Pannella
di Aldo Fontanarosa


Sul tesoretto bisogna aspettare settembre: non abbiamo ancora tutti i dati e non ci sarebbe tempo per convertire un decreto

ROMA - «Siamo un governo di coalizione, e non un monocolore comunista come qualcuno pensa. Gli strappi non sono possibili. Spetta semmai a Romano Prodi trovare una sintesi tra le posizioni di alcuni e le posizioni di altri, che sono molto diverse».
Emma Bonino, ministro delle Politiche Europee: lei non ha preso bene - sembra di capire - la lettera dei colleghi Bianchi, Ferrero, Mussi e Pecoraro Scanio su pensioni e politica economica.
«Non mi piace il metodo, intanto. C´è una sede dove rappresentare tutte le posizioni della coalizione, ed è il consiglio dei ministri. E lì che tutti possono dire e anche litigare, certo. E lì, aggiungo io, che deve prendere forma una posizione collegiale, di sintesi. Peccato che le cose non funzionino sempre così».
Anziani, giovani, famiglie sono in difficoltà. E´ normale che un governo di sinistra pensi a loro, non trova?.
«Concordo. Tant´è vero che il 6 aprile abbiamo chiuso il contratto degli statali con una forte spesa. E´ ormai acquisito un aumento importante per le pensioni basse. Spenderemo 1,3 miliardi. E sono in campo azioni per i giovani per altri 600 milioni».
Basterà?
«Dico che tutto questo potrà essere ripetuto a patto che il governo conservi 3 direttrici di marcia: il rientro dal deficit, come previsto in febbraio; e la crescita dell´economia, la difesa della Legge Biagi che andrà arricchita ora con il capitolo sugli ammortizzatori sociali».
Se anziani e famiglie avranno più soldi, spenderanno di più e traineranno la crescita.
«Siamo una società complessa, che non è fatta solo di lavoratori. Ci sono centinaia di migliaia di imprenditori onesti che non accettano un centesimo in più di tasse. Sono gli stessi che ci hanno assicurato una crescita, accettabile, dell´1,9%. Possiamo fare di più».
Lei come spenderebbe il "tesoretto"?
«Quando lo spenderei, mi chiedo. Io dico che dobbiamo aspettare settembre e la stesura della Finanziaria. Oggi non disponiamo di tutti gli elementi. Non sappiamo, ad esempio, quanto corra la spesa né conosciamo l´impatto dell´ennesima riforma pensionistica. Faccio notare infine che non si può decidere l´impiego dell´extragettito con un decreto di fine estate, che poi non riesci a convertire».
Il Sole 24 Ore, giornale degli industriali, invita Padoa-Schioppa a difendere la linea del rigore anche a costo di dimettersi.
«Dobbiamo stare attenti all´uso delle parole. Rigore può apparire un termine ostile. Qui nessuno pensa che non si debba spendere. Il problema è la qualità della spesa. Noi dobbiamo investire nella ricerca, nelle università, nelle infrastrutture. E per spendere bene serve una visione d´insieme. Per il tesoretto aspetterei settembre».
E´ sicura, ministro, che Prodi riuscirà a conciliare la sua visione con quella della sinistra radicale?
«E´ un premier esperto, paziente, legittimato ad agire. Confidiamo in lui. Siamo certi che un ex presidente della Commissione europea difenderà la credibilità internazionale del Paese. E poi, mi scusi: i colleghi Bianchi o Ferrero sono comunisti e felici di esserlo. I radicali siamo noi, io e Pannella»

Corriere della Sera 24.6.07
Il miracolo cinese e i dubbi dell'America
di Sergio Romano


Ho assistito con interesse al suo intervento sulla Cina in occasione di una conferenza organizzata di recente dalla Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia. Credo anch'io, come lei, che la Cina sia una delle grandi incognite del futuro delle relazioni internazionali, anche se ritengo che l'India reciterà una parte più importante del Grande drago cinese, se non altro per la stabilità e la gradualità della sua crescita economica.
Fondamentali saranno nel futuro prossimo le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina perché dai cambiamenti nei rapporti tra queste due potenze potrebbero dipendere i riallineamenti economicopolitici di molti altri Paesi.
I progetti economici della Cina per il futuro potrebbero determinare un costante irrigidimento delle relazioni con gli Stati Uniti, che si troverebbero a dover fronteggiare un'espansione cinese incontrollata in Paesi in cui l'influenza politicoeconomica statunitense non è mai stata in discussione.
Il progressivo allargamento delle relazioni tra Cina e Paesi africani e sudamericani potrebbe portare Washington ad assumere posizioni sempre più dure verso il Paese asiatico nei consessi internazionali, come già capitato con le denunce statunitensi contro la Cina al Wto.
Simone Comi
simonecomi@hotmail.com


Caro Comi, ho dovuto accorciare considerevolmente le sue considerazioni sui rapporti tra Cina e Stati Uniti, ma spero di avere conservato il senso della sua analisi.
Vi è effettivamente, nelle relazioni fra i due Paesi, un curioso paradosso. America e Cina scambiano beni, ogni anno, per la somma complessiva di trecento miliardi di dollari, ma il deficit commerciale della prima è ammontato, nel 2006, a 230 miliardi. Questo squilibrio ha provocato reazioni critiche che si sono espresse al Congresso degli Stati Uniti attraverso una serie di progetti legislativi. Vi è un disegno di legge che vorrebbe imporre una tariffa del 27,5% su tutti i prodotti importati dalla Repubblica popolare. Altri parlamentari sostengono che la Cina favorisce le proprie esportazioni mantenendo artificialmente basso il valore dello yuan e che una tale politica monetaria autorizza l'imposizione di tariffe punitive. Qualcuno si spinge sino ad affermare che la manipolazione del valore del denaro è in realtà un sussidio occulto e andrebbe trattato come tale.
È interessante osservare che questo «partito anticinese» è composto in buona parte da Democratici, ma rispecchia anche i sentimenti di quei neoconservatori che vedono nella Cina una minaccia alla potenza americana e sostengono da tempo la necessità di trattarla con maggiore durezza. L'amministrazione Bush, dal canto suo, dà prova di pragmatismo e cerca di raffreddare gli animi per alcune buone ragioni. In primo luogo i dazi punitivi sulle importazioni cinesi colpirebbero anche quei consumatori americani che hanno considerevolmente approfittato dei prodotti a buon mercato, giunti in grande abbondanza nei negozi degli Stati Uniti in questi ultimi anni. In secondo luogo il denaro che la Cina ha ricavato dal suo interscambio con l'America è stato investito per molto tempo nelle cartelle del Tesoro americano e ha permesso agli Stati Uniti di accumulare impunemente (per ora) un debito colossale. La Cina, quindi, non è soltanto un oggetto misterioso, un «mostro» per metà totalitario e per metà liberista. È anche un oggetto delicato di cui è difficile comprendere il funzionamento e anticipare l'evoluzione. Che cosa accadrebbe il giorno in cui l'economia cinese, messa in difficoltà dai maggiori importatori internazionali, entrasse, come il Giappone degli anni Ottanta, in una fase recessiva? Quali sarebbero le ripercussioni della crisi sulla situazione sociale del Paese, sulla stabilità del regime, sulla sua politica estera?
Di fronte a questi preoccupanti interrogativi esistono alcuni fatti di cui è necessario tener conto. La Cina offre un grande mercato alle imprese occidentali, dà un contributo considerevole all'economia dell'America Latina e sta creando in Africa le condizioni per una sorta di miracolo economico. Non è vero, d'altro canto, che le autorità cinesi siano indifferenti alle preoccupazioni delle maggiori potenze industriali. È stato osservato che il valore dello yuan è aumentato dell'8% dal 2005 e che i salari cinesi hanno cominciato a crescere. Quando la Cina ci chiede di essere pazienti, vale probabilmente la pena di darle retta.

Corriere della Sera 24.6.07
Scienza. Basta con le sette invarianti; un saggio rivoluziona le teorie sulla comprensione
Intelligenza, contesto la legge di Gardner
«Capire significa trovare nessi fra cose lontane e ricordarseli»
di Edoardo Boncinelli


Quando si parla dell'intelligenza e della sua misura, raramente lo si fa con intelligenza e con misura. Non è un tema, questo, al quale si possa rimanere indifferenti. Ognuno vanta direttamente o indirettamente la propria intelligenza e dà per scontato di averne da vendere, ma in cuor suo ha paura che le cose non stiano proprio in questi termini. E tende perciò a intorbidare le acque. La cosa non resta, purtroppo, circoscritta al singolo individuo, ma interessa anche il discorso pubblico, che dovrebbe essere immune da tali miserie. Ma non lo è.
Il risultato di tutto ciò è che a proposito di un argomento così rilevante, e «chiacchierato », si sa molto poco e quel poco è oggetto di accese dispute. Non si può quindi non salutare con enorme interesse e favore un libro recente che parla di questo tema in maniera spassionata ed equilibrata, e che cerca di fare il punto sulle ultimissime acquisizioni scientifiche in materia. Sto parlando di L'intelligenza
di Cesare Cornoldi, una vera autorità nel campo (IlMulino, pp.240, 18.50).
Come si conviene a ogni esposizione che si proponga di trattare un tema in modo esauriente, il libro considera tanto il passato che il presente del problema; tumultuoso e controverso il primo, più rilassato e inevitabilmente proiettato verso un futuro di studi e di ricerche il secondo. Si inizia così con le diverse definizioni del termine intelligenza, numerosissime e suddivisibili in due grandi categorie: le definizioni generali — che cercano di mettere a fuoco il profilo della dote comune a tutti gli esseri umani — e quelle differenziali — che al contrario mettono l'accento sulla diversità tra gli individui.
Dopo un cenno ai test di intelligenza — massimo campo di battaglia fra le opposte fazioni — si passa a un capitolo fondamentale sulle principali teorie dell'intelligenza: teorie unitarie, che presuppongono l'esistenza di un solo tipo di intelligenza, o teorie multiple, che sostengono l'esistenza di tipi diversi di intelligenza. Questi tipi vanno dai tre di Sternberg — intelligenza astratta, pratica o creativa - ai sette di Gardner — intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, intrapersonale e interpersonale. Da parte mia, non ho mai capito perché queste sette doti devono essere considerate come altrettante forme di intelligenza e non semplicemente come qualità o, appunto, doti. In fondo, così facendo le si appiattisce e le si banalizza invece di esaltarle.
Quello che è certo è che la teoria di Gardner delle sette (o anche più) forme di intelligenza è divenuta straordinariamente popolare, e costituisce oggi quasi un Vangelo mediatico. A queste già numerose forme di intelligenza qualcuno ha creduto di dover aggiungere un'intelligenza emotiva e una sociale, oltre che una creativa. Molto opportunamente il nostro autore fa notare come le diverse teorie sulle intelligenze multiple hanno quasi tutte in comune l'inclusione di quattro forme fondamentali di intelligenza: quella visuospaziale, quella verbale, quella numerica e quella pratica.
Dopo aver fatto notare che lo studio dei ritardi mentali, delle intelligenze comuni e dei veri e propri geni conducono a punti di vista un po' discordanti sulla natura dell'intelligenza, Cornoldi passa a considerare le basi biologiche dell'intelligenza stessa e gli effetti che su di essa hanno l'educazione e l'esperienza. Questi capitoli, fondamentali per mettere un po' d'ordine nel passato della questione e per sfatare molte dicerie, si concludono con un sacrosanto richiamo ai genitori e agli educatori in genere a non eccedere nei tentativi di stimolazione intellettuale dei giovani e giovanissimi. La iperstimolazione può accelerare i tempi dell'acquisizione delle attività intellettuali, ma il suo effetto complessivo sul livello finale di intelligenza di un individuo non è mai stato dimostrato, né nell'uomo, né negli animali di laboratorio.
Gli ultimi due capitoli trattano delle visioni più accreditate sullo sviluppo dell'intelligenza, ispirate al punto di vista cognitivo, argomento nel quale Cornoldi può dare il meglio di sé. Non è il caso di entrare qui in troppi dettagli, ma è opportuno accennare almeno al ruolo che queste ricerche attribuiscono alla cosiddetta memoria di lavoro, quella forma di memoria a breve termine che, oltre a conservare per qualche secondo le informazioni via via acquisite, opera anche in qualche modo su di esse. Apprendiamo così che «la teoria del controllo della memoria di lavoro » appare «la più soddisfacente perché rende ragione delle differenze che si possono trovare fra uomini e animali», fra bambini e adulti e fra uomini di diversa età.
Per me l'intelligenza è primariamente la capacità di trovare nessi fra cose che a prima vista sembrano non presentarne. Se questa visione ha un senso, è chiaro che riuscire a tenere nella propria memoria di lavoro diversi oggetti mentali contemporaneamente non può che essere utile e inoltre più oggetti si riesce a tenere a mente nello stesso tempo e meglio è.
Occorrerà quindi in futuro comprendere più a fondo come funziona la memoria di lavoro e quali siano le componenti più efficaci che concorrono al suo controllo. Questo appare come un programma di ricerca dei più interessanti e promettenti, a patto ovviamente di rinunciare ad assurde e controproducenti dispute ideologiche che, anche se ingaggiate con le migliori intenzioni, non possono che ritardare la comprensione del fenomeno; in verità di qualsiasi fenomeno. Le persone intelligenti apprezzeranno certamente la lettura di questo libro.

Corriere della Sera 24.6.07
Gli dei sono morti. Ma a volte tornano
Dalla religione alla democrazia, siamo condannati al conflitto delle Verità
di Emanuele Severino


L'unica assolutezza non è il dio ma la scelta di un dio

La nostra epoca si trova nell'«impossibilità di conciliare e risolvere l'antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita » e nella «necessità di decidere per l'una o per l'altra». Questa affermazione è di Max Weber, ma esprime il punto di vista oggi dominante (esprime cioè la coscienza che la nostra epoca ha per lo più di se stessa). Parla delle «posizioni ultime in generale rispetto alla vita». Ad esempio: cristianesimo, ateismo, tradizione filosofico-metafisica, capitalismo, comunismo, democrazia, stato totalitario, individualismo, islam. Ognuna di queste «posizioni ultime » vuole realizzare uno scopo, che anche quando si propone di «dialogare » con gli altri scopi, non intende esser loro sottomesso, cioè si presenta come incondizionato, sciolto (solutus) da tutti i vincoli della sottomissione, «as-soluto», appunto. Come un «dio». Tra queste «posizioni ultime» — tra questi «dèi» — esiste dunque un antagonismo insuperabile: per cui ci si trova nella «necessità di decidere per l'una o per l'altra». E Weber aggiunge: «Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la scienza».
In quest'ultima affermazione, «scienza» ha ancora il senso di «sapere incontrovertibile». Si deve «decidere per l'una o per l'altra» di tali «posizioni ultime» proprio perché non esiste un sapere che mostri incontrovertibilmente quale di esse si debba scegliere. La parola «destino», contrapposta a «scienza» non deve infatti trarre in inganno. «De-stino», di derivazione latina, indica soprattutto lo «stare» delle cose, cioè la condizione del loro non esser «contro verse » e del loro esser garantite. Il latino vertere indica l'opposto dello stare. Il «de-stino» è cioè in sintonia con l'«in-contro-vertibile». Le parole tedesche Geschick e Schicksal, che noi traduciamo con «destino», indicano invece proprio l'opposto del «destino», inteso come lo «stare» delle cose nel loro esser garantite: indicano piuttosto la «sorte», il «caso», la «ventura », l'accadimento del mondo, privo di garanzia, protezione, stabilità. Per questo Weber può sensatamente dire che sugli dèi e sulle loro lotte domina il «destino» (Geschick) e non la «scienza». E il «destino» (Geschick) si esprime nella «necessità di decidere» per l'uno o per l'altro di questi dèi. Anche quando è motivato, il de-cidere è infatti tale perché, da ultimo, esso accade perché accade, ossia re-cide ogni legame, e sciolto (solutus) da ogni motivazione che pretenda condurre inevitabilmente adesso. Il decidere è libero perché as-soluto. L'assolutezza degli dèi — così pensa il nostro tempo — è stata travolta e sostituita dall'assolutezza della decisione che sceglie un dio piuttosto di un altro, cioè crede (vuole) che l'esistenza competa a un certo dio, e non ad altri.
D'altra parte Weber, come la maggior parte della cultura umanistico- scientifica, si rivolge solo alla superficie del processo che conduce all'inconciliabilità dei molti dèi antagonisti e assoluti. Tale superficie è ben visibile. Ad esempio, quel dio che è lo stato totalitario è soppiantato da quell'altro dio che è la democrazia. La quale però, pur dichiarandosi soltanto procedurale, cioè neutrale rispetto alla «verità del sapere incontrovertibile» continua a concepire come una verità assoluta, come un dio, la dignità-inviolabilità- libertà dell'individuo. Analogamente, l'economia, il diritto, l'arte, la coscienza religiosa e morale delle masse si sono allontanati da ogni modello assoluto; la scienza moderna ha rinunciato ad essere un sapere incontrovertibile; e soprattutto la filosofia ha mostrato l'impossibilità di tale sapere e di ogni dio immutabile ed eterno che imponendosi sugli altri sia capace di risolvere l'antagonismo tra le «posizioni ultime rispetto alla vita».
Si, tutto questo è visibile. È visibile che oggi l'unico assoluto è la negazione di ogni assoluto, ossia che l'unica assolutezza compete non a un dio ma alla scelta di un dio. Sì, tutto questo è — se si vuol usare questa parola — un «fatto». Il «fatto» della «morte di Dio». Tuttavia se i «fatti» ci sono, sarebbero potuti non esserci e potrebbero tornare a non esserci più. Dio e gli dèi potrebbero cioè ritornare. Ma, allora, sarebbe tutta qui la radicalità con la quale il nostro tempo avrebbe voltato le spalle alle diverse forme dell'assoluto? Ed esse, allora, non hanno forse il diritto, soprattutto quelle religiose, di ricandidarsi come guide dell'uomo? La morte degli dèi è essenzialmente più radicale di quanto se ne va raccontando. Ma quanti riescono a vederla? Weber è un grande cattivo maestro di tutti coloro, anche grandi, ai quali non appare altro che la superficie del processo che conduce alla distruzione degli assoluti. E ai quali non appare quindi nemmeno che l'assolutezza della de-cisione che incorona gli dèi è l'assolutezza della re-cisione in cui consiste ogni di-venire del mondo. Ciò da cui si di-viene non è forse un re-cidersi da esso? Ma, allora, il problema supremo che a questo punto si fa innanzi non è forse l'assolutezza del divenire, la fede indiscussa nella sua incontrovertibile esistenza?

il manifesto 24.6.07
Le verità nascoste della Cia
Domani l'agenzia toglierà il segreto su attentati, «omicidi mirati», violazione dei diritti civili, ma continua a coprire quelli di oggi. E fa passare per verità le telefonate di Kissinger
di Alessandro Portelli


In The Jew of Malta, del drammaturgo elisabettiano Christopher Marlowe, un personaggio ammette di avere commesso atti indebiti - ma «è stato in un altro paese, e comunque la ragazza è morta». È adesso ufficiale che dal 1950 al 1970 la Cia, e il governo degli Stati Uniti hanno commesso in altri paesi (e anche a casa propria) atti indebiti e criminali - attentati e omicidi, spionaggio interno, infiltrazioni politiche, violazioni dei diritti civili, esperimenti su droghe condotti su civili o loro insaputa. Il capo della Cia, Michael V. Hayden, ha annunciato infatti che a partire da lunedì l'agenzia toglierà il segreto su centinaia di documenti classificati, relative ad azioni occulte (i cosiddetti «gioielli di famiglia») condotte nell'arco di almeno un quarto di secolo. Non sono belle cose, ha detto Hayden, ma «è la storia della Cia». «It's history» nel lessico politico americano, è come dire caso chiuso. È stato in altri paesi, e comunque tanto tempo fa. La Cia di oggi è tutt'altra cosa.
Come per prepararsi ad assorbire il colpo, il National Security Archive dell'università di Georgetown pubblica altri documenti, fra cui i verbali delle discussioni fra l'immarcescibile segretario di stato Henry Kissinger (paradossale premio Nobel per la pace) e l'allora presidente Ford. È appena finito lo scandalo Watergate con le dimissioni del presidente Nixon, e la stampa sta cominciando a tirare fuori quelli che il capo della Cia, Colby, chiamava gli «scheletri negli armadi» della sicurezza nazionale e della politica estera. Un articolo di Seymour Hersh sul New York Times a proposito delle infiltrazioni della Cia nei gruppi pacifisti era, come disse Kissinger, «solo la punta dell'iceberg» (sarà un caso, ma Hersh, premio Pulitzer per aver rivelato la strage di My Lai in Vietnam, non scrive più sul New York Times). «Scorrerebbe il sangue - dice Kissinger - se si venisse a sapere di certe operazioni. Per esempio, Robert Kennedy (a quel tempo ministro della giustizia) gestì personalmente le operazioni relative all'assassinio di Fidel Castro».
Fin qui le notizie. Resta da chiedersi: come mai tutto questo? Una lettura ottimistica: la democrazia americana (persino in un'amministrazione ossessionata dal segreto come quella di Bush e Cheney) tira fuori gli scheletri dagli armadi, magari trent'anni dopo e quando i cadaveri sono freddi. Una lettura sospettosa: si tirano fuori i segreti di Eisenhower, Kennedy e Nixon per dare un'immagine di trasparenza mentre si continuano a coprire i segreti di Cheney e Bush. Come ha fatto notare Thomas S. Blanton, direttore del National Security Archive, «intercorrono sconcertanti paralleli fra gli eventi contemporanei e le storie dei gioielli di famiglia, le intercettazioni illegali e i rapimenti». Altro che Cia cambiata.
La relazione fra segreti antichi rivelati e segreti attuali occultati è sottolineata proprio da Hayden: se non si rendono noti i documenti ufficiali, ha detto, lo spazio del segreto viene riempito da illazioni, ipotesi, fantasie. Per esempio, sostiene, spesso il numero dei voli segreti Cia in Europa è confuso con il numero delle extraodinary renditions, che in realtà sono «solo un centinaio». Ma mentre toglie il segreto sui rapimenti di 40 anni fa, si guarda bene dal rendere noti i documenti sui rapimenti che continuano oggi. Anzi, insiste: da questi rapimenti abbiamo tratto materiale per non meno di 8000 rapporti di sicurezza. Che restano, ovviamente, segreti.
Anche la notizia più eclatante, il tentato l'assassinio di Castro gestito da Robert Kennedy, fa trapelare indiscrezioni su un tentato assassinio degli anni '60 e copre quelli di oggi. Certo, su una «rivelazione» di Kissinger non c'è mai da mettere la mano sul fuoco (ed è comunque un modo per infangare un'icona liberal). Ma la possibilità dell'assassinio di capi di stato estero è sempre stata nell'ambito delle politiche estere degli Stati Uniti. Un rapporto del senato nel 1975 confermava almeno cinque tentativi di omicidio di capi di stato estero negli anni '70, a partire da Cuba e dal Vietnam. Non ci sono ancora riusciti con Fidel Castro, ma gli andò alla grande con Lumumba.
Paradossalmente, gli Stati Uniti sono forse l'unico paese al mondo in cui si è sentito il bisogno di emanare una direttiva presidenziale (Executive Order 1233) per proibire agli agenti e funzionari dello stato di uccidere capi di stato esteri o di appaltarne l'uccisione ad altri. Guarda caso, questa direttiva presidenziale è stata emanata da Ford poco dopo quel colloquio con Kissinger, e poco prima del rapporto del senato. Come mi hanno insegnato a scuola, se c'è una norma che proibisce di fare qualcosa, vuol dire che questa cosa ogni tanto si fa, e spesso viene in mente: infatti, la direttiva 1233 ha durata limitata, per cui deve essere formalmente rinnovata anno per anno.
Basta cercare «foreign head of state assassination» su Google per trovarsi in pochi minuti sommersi di informazioni: ponderosi saggi nei bollettini della marina militare sulla legalità di ammazzare i presidenti della Libia, dell'Iraq e della Serbia, gli articoli di giornale sul predicatore Pat Robertson che propone di assassinare Chávez in Venezuela, una sofferta discussione nel New England International and Comparative Law Annual che si chiede se il bombardamento mirato per uccidere Gheddafi nel 1986 o il bombardamento sulla villa di Milosevic durante la guerra dle Kosovo siano stati una violazione della direttiva presidenziale: «L'assassinio di leader stranieri per conseguire finalità di politica estera è sempre stata una questione spinosa per gli Stati Uniti. La questione fa parte di un problema più ampio: se cioè esistano dei limiti al livello di forza che gli Stati Uniti possono praticare per conseguire i propri fini di politica estera».
La discussione è condotta con quella che può apparire ammirevole oggettività accademica, o raggelante freddezza omicida. L'ampio apparato di note cita articoli intitolati L'assassinio e la legge del conflitto armato del Tenente Colonnello Patricia Zengel; oppure, Assassinio, omicidio legittimo e il boia di Baghdad, firmato Chris Anderson. La ricerca dei precedenti risale al codice di Hammurabi. La risposta della rivista è problematica in tutti e tre i casi: ammette la possibile opportunità di certe azioni (meno quella sulla Libia) ma le ritiene illegali non per motivi etici o principi generali, ma solo per discrepanze tecnico-legali con le norme interne americane. In compenso, e di passaggio, sostiene che erano illegali le azioni dei partigiani antinazisti nella seconda guerra mondiale.
È ben vero che, come scrive la rivista giuridica, «Saddam Hussein godeva di ben poca simpatia in ambito internazionale» (e George W. Bush piagnucolava che «Saddam ha cercato di uccidere il mio papà», senza dirci ne quando né come). Ma non è mai questo il punto: la discussione su questi assassini mirati non verte mai sulle colpe dei bersagli, ma solo sul fatto che la loro uccisione sia necessaria «per conseguire le proprie finalità di politica estera degli Stati Uniti». Perciò la persona da assassinare o da far assassinare può chiamarsi Milosevic, ma può chiamarsi anche Allende. D'altronde, nel 1973, l'Executive Order 1233 non era ancora in vigore, quindi non c'è problema. E poi, era un altro paese, e ormai Allende è morto.

Liberazione 24.6.07
Il segretario del Prc avanza una proposta alle forze politiche e alle forze sociali interessate al processo unitario: «promoviamo quest'estate una campagna politica di massa sui contenuti che qualificano oggi l'iniziativa e l'identità possibile della sinistra».
Giordano alla Sinistra: «Diamo vita entro luglio ad un coordinamento nazionale»
di Rina Gagliardi


Incontro Franco Giordano, a Montecitorio, proprio nel giorno in cui un fantasioso articolo della Stampa (un giornale che, in altri tempi, era un modello di serietà, perfino un po' troppo paludata) ci informa, nientemeno, del fatto che "Bertinotti è in minoranza nel Prc" e che dunque l'attuale segretario di Rifondazione, considerato il più "bertinottiano" del gruppo dirigente, sarebbe oggi in fiero contrasto proprio con Fausto Bertinotti. Siamo davvero all'ennesima uccisione del padre? «Beh, questa sì che sarebbe una notizia» commenta Giordano con una risata quasi rumorosa. Ci scherziamo un po' sopra, naturalmente - cos'altro si può fare, se non prenderla con ironia? Tra i tanti problemi che questa fase storica ci consegna, c'è anche questo vero e proprio dominio invasivo del sistema dell'informazione, le cui "verità", bugie, fantasie, speculazioni rischiano di valere molto più dei fatti reali - e delle persone in carne ed ossa. E dunque? «E dunque» dice Giordano «dobbiamo cercare anche di non farci condizionare più di tanto dalle rappresentazioni mediatiche: di fronte a noi sono squadernati problemi di tale complessità politica, culturale, sociale, che viene da dubitare della nostra capacità di affrontarli, della nostra adeguatezza. Anche per questo, credo, quell'antico motto, buttare il cuore oltre l'ostacolo , ci può tornare oggi assolutamente prezioso. Come facciamo se no, se non con un surplus di coraggio, di generosità, di volontà politica, a far fronte a questioni cogenti e immediate come le scelte economico-sociali del governo Prodi - le pensioni, l'abbattimento dello scalone, l'avvio di una politica di risarcimento sociale - e ad avviare sul serio processi essenziali come l'unità a sinistra? Come facciamo ad occuparci nello stesso tempo di questioni enormi come la catastrofe ambientale, la necessità di ricostruire una cultura politica della sinistra, capace di egemonia, la lotta per la pace, e contemporaneamente non mollare di un millimetro l'iniziativa quotidiana?» Bene, i temi di questa intervista saranno, giocoforza, molti. Ed entriamo subito in medias res, senza diplomatismi o reticenze.
Con la candidatura di Walter Veltroni a capo del Partito Democratico - ormai è questione di ore - la nascita della nuova forza politica che raccoglierà gli eredi del Pci-Dc e della Dc-Margherita subisce una forte accelerazione. Un solo "principe", s'intende, non risolve da solo i problemi della politica italiana e dello schieramento democratico. Tuttavia non credi che noi, noi Prc, noi sinistra alternativa, rischiamo di rimanere "spiazzati" proprio rispetto ai tempi dei processi politici? Non credi, insomma, che limitarsi ad attendere da qui all'autunno non sia una buona scelta?
In effetti, in politica i tempi contano, e come. E noi, sinistra alternativa, non possiamo permetterci il lusso di una tattica "attendista": da qui all'autunno ci sono quattro o cinque mesi, che in questa fase costituiscono un tempo lungo - non dico infinito, ma troppo lungo. Né possiamo sprecare il risultato - ottimo - conseguito con la riunione del 31 maggio, nella quale le forze che costituiscono oggi la sinistra dell'Unione hanno varato un patto di unità d'azione, rigorosamente legato all'attuazione del programma sulla base del quale l'Unione ha vinto le elezioni: se ne vedono gli effetti nella lettera che i quattro ministri della sinistra hanno inviato a Prodi e che spero preluda ad una ben diversa collegialità nelle scelte economiche e sociali del governo. E' vero, tuttavia, che serve qualcosa di più, e serve subito. E' vero che, se consideriamo il processo unitario a sinistra necessario e irreversibile, dobbiamo scandirne fin da ora alcune tappe concrete. La mia proposta, che rivolgo al "cantiere delle sinistre", è quella di dar vita, entro la metà di luglio, a un coordinamento nazionale di tutte le forze politiche e delle principali associazioni interessate al processo. A che cosa potrebbe e dovrebbe servire una tale struttura? A promuovere una grande campagna politica di massa, capace di coinvolgere militanti, territori, organizzazioni, associazioni proprio sul "che fare" - ma anche su ciò che siamo, vogliamo e possiamo diventare. A lanciare, insomma, nel paese il progetto dell'unità a sinistra, sottraendolo al pericolo (mortale) che esso si riduca o alla sommatoria "per stato di necessità" o a un fatto verticistico e puramente politico.
A questo proposito, proprio su questi problemi su Liberazione è in corso un dibattito che mi pare assai importante. C'è stato un titolo ("Oltre Rifondazione?") che, nonostante il suo esplicito carattere dubitativo o interrogativo, ha suscitato perplessità e proteste - qualcuno, addirittura, lancia l'accusa che si stia pensando a sciogliere il nostro Partito o a rifare (in sedicesimo, dico io) la Bolognina. Qualcuno, all'opposto, sostiene che il Prc, o una sua parte rilevante, tende a "frenare" il processo avviato.Vorrei da te una parola chiara.
Posso essere sincero?
Ovviamente sincerissimo.
Allora, devo dire che questa discussione - e il titolo che l'ha promossa - mi è parsa in buona misura fuorviante. Cioè indotta da un vizio di natura politicistica, che tende non solo a semplificare problemi che tutto sono fuorchè semplici ma a ridurli, appunto, ad una dimensione in toto politica, e perfino un po' autoreferenziale. Come se le alternative che ci sono poste fossero soltanto due: la liquidazione e l'arroccamento identitario. La fine conclamata di un'esperienza che, chissà perchè, dovrebbe automaticamente accelerare il processo unitario, oppure una sorta di rinnovata dichiarazione di autosufficienza (che per altro non ci è mai appartenuta) o di eternità di Rifondazione comunista. Io credo che queste due strade siano ambedue sbagliate, sia in ragione di principio che di fatto. E credo fermamente che dobbiamo imboccare, anche in questo caso, una nostra "Terza Via": la stessa che ci ha portato a costruire le due bellissime giornate dell'Assemblea della Sinistra Europea dello scorso weekend. Anche qui, per continuare ad essere sincero, temo che Liberazione, buttando tutto in politica, come si usa dire, abbia rimosso questo evento, la ricchezza di quella platea, le esperienze che l'hanno segnata - la comunità politica che ad essa è sottesa, e lo straordinario work in progress che l'ha costruita. Non è una lamentela, credimi, sullo spazio che il giornale ha dedicato all'assemblea. E' una differenza, o se vuoi un dissenso, sul "come" prima che sul "che cosa". E forse anche sul ruolo di Rifondazione comunista.
Parliamo allora, per un momento, del Prc. Questo è un momento difficile, per tutti noi: la partecipazione al governo Prodi, le cui scelte (e non scelte) mettono in sofferenza una parte ampia del nostro popolo (e non solo il nostro), i non buoni risultati elettorali nelle ultime amministrative, una crisi della politica che colpisce tutti ma soprattutto chi, come noi, è impegnato nella sfida straordinaria della trasformazione sociale, sono tutti elementi che configurano un percorso “in salita”, come si dice nel gergo sportivo. Se in questo panorama entra il tema della “sindrome di scioglimento”, o della paura di non farcela, se vi si intreccia una campagna mediatica che inventa od esalta le divisioni interne, se ci si mettono intellettuali che credevamo amici a dire che si è spezzato per sempre ogni rapporto positivo tra noi e i movimenti, si capisce che è proprio questo partito quello che rischia di pagare i prezzi maggiori... anche rispetto al processo unitario a sinistra.
Devo dire che trovo del tutto errate e soprattutto del tutto ingenerose le critiche al presunto “conservatorismo” del gruppo dirigente del nostro Partito. L’hai detto tu: viviamo una fase difficile, e in una fase difficile si fanno anche degli errori, come è successo il 9 giugno (e però abbiamo subito detto: “Mai più le due piazze.” Non so quanti altri gruppi dirigenti hanno il coraggio, in tempi come questi, di riconoscere un errore e di correggerlo). Non credo, tuttavia, che abbiamo sbagliato le scelte essenziali, la linea politica, il progetto strategico: che non è lo stare al governo e nemmeno lo stare all’opposizione, che non è incentrato, insomma, sulla collocazione politica (sempre un mezzo e mai un fine), ma è la costruzione di un’alternativa di società. La necessità, se posso dirlo così, di sconfiggere il liberismo (che è poi l’ideologia, prima che la pratica, di questa fase del capitalismo), le politiche di guerra, la sistematica compressione dei diritti sociali e civili, avendo un’idea di società futura nella quale libertà – liberazione – ed eguaglianza diventino i principi regolatori di tutta la vita sociale. Queste idee ci hanno consentito di essere un partito capace di fare dell’innovazione la sua autentica stella polare, e di costruire un patrimonio politico-culturale che per natura e definizione non può mai ridursi ad un “forziere” da custodire: è per natura e definizione sottoposto alla verifica quotidiana, messo a disposizione della sinistra, tutta, consegnato in permanenza al confronto. Come avremmo potuto, se no, avviare un’operazione impegnativa come quella della Sinistra Europea? O una pratica come quella di essere parte integrante, e paritaria, dei movimenti, alla quale non intendiamo rinunciare, in nessun caso, anche se e quando stiamo al governo? (Tra parentesi: tutti coloro che, da destra o da sinistra, ci intimano oggi di scegliere risolutamente, o la piazza o il governo, tutti coloro che ri-scoprono l’incompatibilità tra responsabilità ministeriali e partecipazione diretta al conflitto sociale, sono a mio parere interni ad uno schema di americanizzazione. Ad una società, come gli Stati Uniti d’America, in cui la separazione tra sfera dei movimenti e sfera delle istituzioni è totale – e i primi, per quanto forti siano, non incidono mai nella politica). Per tutte queste ragioni, affermo che, al contrario di quanto alcuni compagni pensano, il Prc è il motore autentico del processo unitario a sinistra: necessario e irreversibile, come non mi stanco di ripetere. Da accelerare risolutamente, come ha detto Bertinotti all’assemblea della Sinistra Europea, se vogliamo evitare l’esito di una sinistra separata in un soggetto grande e neotecnocratico, e una sinistra alternativa dispersa e frammentata. Ma chi pensa che la modalità giusta per arrivare, al più presto, a questo risultato sia lo scioglimento di Rifondazione sbaglia due volte...
Due volte?
Sì. Sbaglia sul piano del metodo perchè rimuove il problema forse più importante che abbiamo di fronte: una sinistra unita non può che essere il frutto di un vero diffuso e consapevole processo di partecipazione. I gruppi dirigenti devono mettersi a disposizione piena di questo processo, stimolarlo, orientarlo, condurlo. Ma non possono né predeterminarne l’approdo né deciderne a priori le modalità: che spettano ai soggetti reali, ai protagonisti in carne ed ossa, a chi in questi anni ha animato i movimenti, i conflitti, le esperienze, le pratiche innovative. Senza questo protagonismo, l’unità a sinistra, semplicemente, non ci sarebbe. Non ci sarà. Ci sarebbe, all’opposto, il concreto pericolo di una diaspora, comunque della dispersione di un patrimonio fatto di donne, uomini e militanti spesso straordinari. E sbaglia sul terreno dei contenuti. Perchè rimuove il tema che io chiamo, per la sinistra, di una “crisi di egemonia irrisolta” rispetto alle soggettività di riferimento – questo, certo, è un tema che ci porta lontano, ad una riflessione ineludibile sulle contraddizioni principali (classe, genere, ambiente), sui “modelli” comunitari solidali o contrappositivi, sul nesso virtuoso da tenere sempre insieme tra massa critica, innovazione, partecipazione, come si è visto in alcune esperienze positive, il No Tav o le elezioni a Taranto. Insomma, per costruire una soggettività capace davvero di misurarsi con il Partito Democratico, o comunque di competere con esso, non servono proprio “atti d’imperio”, o neogiacobinismi di ritorno.
E dunque?
Dunque, torno alla mia proposta iniziale, che è stata mossa, precisamente, dal bisogno di superare un’alternativa perdente: tra lo stare fermi e il mettersi a correre scompostamente, tra l’arroccarsi e lo sciogliersi, tra l’inerzia conservativa e la scorciatoia politicista, la via giusta è quella, ancora, della rifondazione. La rifondazione della sinistra e della politica. La costruzione di una nuova cultura politica all’altezza dei tempi e del bisogno di egemonia. Saremo capaci di camminare insieme, con la nostra gente, anche nell’accelerazione necessaria? Questa è la sfida vera, in cui il Prc è pronto, come sempre, a gettare il cuore oltre l'ostacolo.