La parabola del "buonismo"
di Filippo Ceccarelli
Massimo, l'Africa
La politica dei piccoli gesti il buonismo controverso di W.
Su una scena pubblica di cattiverie e volgarità viene esaltata ma non piace a tutti la tolleranza con gli avversari
Impegno nei confronti dei deboli, targhe stradali, incontri di pacificazione. Il modello Roma di Veltroni
Politica, sentimenti e degenerazioni sentimentali, ormai. Potere e benevolenza, conflitto e premura, strategia e morbidezza. Nella giornata in cui il centrosinistra ritrova finalmente un leader, dopo mesi e mesi di vane zuffe varrà la pena di chiedersi come è possibile che Walter Veltroni, preteso buonista per eccellenza, e comunque accreditato fondatore del buonismo, sia riuscito nella straordinaria impresa di fare fuori tutti gli altri senza nemmeno sporcarsi le mani.
«Oddio – ha esclamato Sabrina Ferilli – ancora con questa storia del buonismo!». E tuttavia per una volta converrà accantonare il pur legittimo fastidio dell´attrice, che oltretutto con Veltroni ha un bel debito di riconoscenza, avendola egli difesa, freschissimo sindaco, dagli strali del priore della chiesa di Santa Sabina, sopra il Circo Massimo, allorché la Ferillona volle spogliarsi davanti a 500 mila tifosi che festeggiavano il terzo scudetto della Roma.
E già questo singolare patrocinio, se si vuole, sposta parecchio in là l´orizzonte del buonismo. Categoria politica ormai abbastanza antica, come si intuisce da uno strillo di copertina dell´Espresso, «Buonismo, malattia infantile del centrosinistra», comparsa sotto il faccione del futuro leader del Partito democratico nel febbraio del 1995. Non solo, ma già una decina di anni orsono la parola è entrata nel Lessico Universale della Treccani come: «Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari».
Così autorevolmente certificata, si può aggiungere che tale definizione si adatta abbastanza bene al suo indiscusso fondatore. Il quale una volta, a Rieti, appena sceso dall´automobile fu accolto da alcuni giovani militanti di Alleanza nazionale con una pioggia di mutande, si spera - ma non è sicuro - pulite. Un paio di queste mutande lo centrarono in pieno volto. Chi ha assistito alla scena giura che il sorriso di Veltroni fu mite, aperto, indulgente e perfino divertito. Più o meno la stessa grace under pressure, grazia sotto pressione con cui si rivolse a un operatore di Striscia la notizia che aveva preso a tallonarlo da giorni: «Senta - gli disse il sindaco - a questo punto credo proprio che io e lei dovremo sposarci».
L´agiografia veltroniana, d´altra parte, si configura come un genere giornalistico particolarmente contagioso che arriva a lambire addirittura Il Secolo d´Italia (letto, s´immagina, dai lanciatori di slip). Ma il personaggio è obiettivamente garbato. Di più, è una persona decisamente piacevole. Ma la politica, come diceva De Mita, è la politica; e quindi vive anche - e mai come oggi - di seduzioni e rappresentazioni che travalicano la sfera privata dei suoi protagonisti. Per cui Veltroni, che pure teorizza «la forza dei piccoli gesti», certamente ne compie a iosa: e perciò rinuncia alla scorta, cede il palco riservato dell´Opera agli studenti del Conservatorio, converte i regali di compleanno nell´acquisto di un videoproiettore per i minori incarcerati. Un giorno, non lontano dalla moschea, ha visto un ragazzo che abbandonava per terra una bottiglia di birra: e allora il sindaco ha fatto fermare la macchina, è sceso, ha avvicinato il giovane facendogli raccogliere la bottiglia per deporla in un cestino.
E comunque: non è il tratto personale in discussione. Molto più interessante, semmai, è indagare sul trionfo del preteso buonismo veltroniano su una scena pubblica sempre più connotata da cattiverie, maleducazioni e volgarità.
Da questo punto di vista il «modello Roma», dove un asilo nido è stato ribattezzato «Coccole & Co», dice molto più di quello che gli analisti sociali freddamente classificano come «politiche simboliche». Un vero e proprio «pozzo di San Patricio», parafrasando il titolo del più buonista dei romanzi veltroniani: lapidi e targhe mirate; intitolazione di vie e parchi in segno di riconciliazione; ricerca di «eroi» e sensibilità al dolore dei personaggi della cronaca (premiazioni, case trovate, funerali pagati); permessi retribuiti ai dipendenti comunali che facciano volontariato; impegno personale del sindaco nei confronti di vecchi, bambini, disabili, esuli. Poi sì, certo, si esagera pure - e ai romani, che i loro problemi continuano sempre ad averceli, non è che siano tanto disposti ad esultare all´unisono con il loro sindaco per l´insperato ritrovamento del cane «Fiocco». Ma pazienza.
Lo stesso Veltroni è intervenuto più volte sul suo stesso buonismo. L´ha fatto, c´è anche da dire, con appuntita sottigliezza lasciando com´è ovvia da parte Peter Pan e San Francesco, due fra i suoi più gettonati ispiratori, ma La Rochefoucauld («Gli sciocchi non hanno la stoffa per essere buoni») e addirittura Machiavelli che scrive: «Però che a un popolo licenzioso e tumultuoso gli può da un uomo buono esser parlato, e facilmente può esser ridotto nella via buona».
Si tratta in effetti di un´antica risorsa del comando, nella sua accezione tenue, mite, soffice, e però spesso anche mascherata, alla Forlani, per intendersi, non a caso fiabescamente soprannominato «Il Coniglio Mannaro». Eppure, nel corso del tempo, Veltroni non ha mai troppo apprezzato di essere definito come buonista: «Visto che ho la temperatura bassa - ha spiegato una volta - mi rodo il fegato e domino la rabbia. Ma non vorrei che la gentilezza fosse scambiata per qualche cos´altro». E già: «Dal buono al fesso - ha integrato la moglie Flavia, pure consultata sull´argomento - ci vuole un attimo». C´è da dire che quest´attimo venne bruciato da Berlusconi nell´ormai remoto 1995: «Veltroni è un coglione» gli scappò detto in un piano-bar di Cernobbio. Poi rettificò, i giornalisti avevano sentito male. La rettifica che lo aspetta nei prossimi mesi rischia comunque di essere per lui più complicata.
Più scabroso è la dinamica interrelazionale, se così si può dire, con l´antagonista storico di Veltroni, e cioè D´Alema. Perché il buonismo nasce anche in chiaroscuro, in controluce, in controtendenza e in alternativa a un supposto - e anche in quel caso abbastanza documentabile - «cattivismo» dell´attuale ministro degli Esteri. Ha detto Walter diversi anni fa: «Massimo ha una forma di comunicazione molto dura, molto severa, un po´ sprezzante nei confronti degli altri, e questo non aiuta». Decisamente no, a giudicare da come sta per finire il torneo per la guida del Partito democratico. Anche se poi, ed è sempre Veltroni a parlare, «scavando, probabilmente si scoprirebbe che io non sono poi così buono». Probabilmente. Per quanto intima, la politica resta sempre un po´ ambigua.
Repubblica 27.6.07
L'evoluzione e l´incerto futuro dell'uomo
di Luca e Franceso Cavalli-Sforza
Il segreto della vita
Se all´origine non c´è un intervento divino
Il principio è l´autoriproduzione
Nell´ipotesi plausibile che ci siamo formati da soli, non si sa cosa potremo diventare
Un tempo si pensava che da sempre tutto avesse avuto la stessa forma
Darwin notò che le stesse specie in luoghi diversi mutavano aspetto
C´è stato un tempo, nemmeno molto lontano, in cui era convinzione generale che tutto ciò che abbiamo intorno fosse esistito in forme fisse e immutabili da sempre: che le piante, gli animali, gli stessi esseri umani avessero avuto l´aspetto con cui li conosciamo fin dal momento della loro comparsa sulla Terra, per intervento divino. C´era stato anche chi, nell´antichità, come Lucrezio, aveva affermato che molte varietà di esseri viventi ormai scomparse dovevano avere abitato il mondo in tempi assai lontani, ma erano affermazioni guardate con sospetto. Come potevamo sapere?
Dopotutto, le testimonianze delle civiltà del passato parlavano di uomini in tutto simili a noi e di animali ben noti. Il testo più antico che si conoscesse allora, la Bibbia, diceva che sette giorni erano stati sufficienti a dare forma al mondo e a tutto ciò che lo abita, compreso l´uomo.
Per secoli e per millenni, gli esseri umani avevano continuato a costruire sulle rovine dei loro predecessori. In Europa, i borghi medievali erano sorti sulle rovine delle città romane, e le città moderne sui resti dei centri medievali. Poi giunse la rivoluzione industriale e si cominciò a scavare, per costruire ferrovie e strade, fabbriche e palazzi. Vennero così ritrovamenti imprevisti. Quando furono portate alla luce le prime ossa di dinosauri, chiaramente diverse da quelle di ogni animale conosciuto, si disse che non potevano appartenere ad animali esistiti un tempo e in seguito scomparsi, perché era impensabile che Dio avesse creato una specie vivente per poi scoprire di essersi sbagliato e portarla all´estinzione.
Sempre ragionando in questo modo, quando furono ritrovate, nel 1856, le prime ossa di uomini di Neandertal, che sono molto più spesse e robuste delle nostre, furono attribuite a grandi scimmie o a patologie dell´apparato scheletrico umano.
Ma le scoperte proseguirono, e col tempo divenne impossibile negare che il pianeta era stato abitato, in un lontano passato, da una miriade di piante e di animali parecchio diversi da quelli che abbiamo intorno oggi, e anche da uomini di aspetto profondamente diverso dal nostro. Nel frattempo, i geologi si erano resi conto, seguendo altre vie, che la Terra doveva essere immensamente più antica dei seimila anni computabili in base alla Sacra Scrittura.
Si trovarono altri testi, ben più vecchi della Bibbia. Nel ‘700 si cominciò a stimare, per il pianeta, un´età di quasi centomila anni, o maggiore ancora. Oggi parliamo di circa 4,5 miliardi di anni.
Fra il 1831 e il 1836, un giovane naturalista inglese, Charles Darwin, traversava il mondo su un brigantino della marina britannica diretto a effettuare rilievi cartografici dell´America meridionale. Nel corso del viaggio ebbe modo di osservare una molteplicità di piante e di animali: ne raccolse campioni, li analizzò e si rese conto che le stesse specie, vivendo in luoghi separati e lontani l´uno dall´altro, avevano assunto caratteri differenti, che variavano a seconda di ciò di cui si nutrivano e dell´ambiente in cui abitavano. Ne derivò l´idea che le specie viventi cambino nel corso del tempo, sviluppando caratteristiche diverse, e che sopravvivano gli individui e le popolazioni che meglio riescono a procurarsi il necessario nutrimento e a riprodursi, risultando così meglio adattate all´ambiente in cui vivono. All´opposto, gli individui e le popolazioni che hanno maggiori difficoltà a crescere e a riprodursi tenderanno a scomparire, nel volgere delle generazioni. E l´ambiente, quindi, a compiere una selezione fra le diverse specie e fra le varie popolazioni e individui di una stessa specie. Poiché l´ambiente cambia di continuo, anche le caratteristiche dei viventi cambiano, nel corso del tempo.
Darwin chiamò questo processo selezione naturale. Non era ancora chiaro come nascessero questi cambiamenti, ma si sapeva che gli agricoltori e gli allevatori di bestiame selezionavano e incrociavano fra loro le varietà più promettenti di piante e di animali, per migliorarne la produttività e altre caratteristiche, operando un processo di selezione artificiale per molti aspetti simile a quello che in natura avviene spontaneamente. In Inghilterra, i due secoli precedenti a Darwin avevano visto grandi progressi in agronomia e zootecnia.
Un altro naturalista inglese, Alfred Russell Wallace, che pure aveva lavorato a lungo in America meridionale, giungeva negli stessi anni a conclusioni analoghe a quelle di Darwin, benché, molto più giovane di lui, non le avesse sviluppate con ampiezza paragonabile. I tempi erano ormai maturi per introdurre l´idea che le specie non sono immutabili, e quando Darwin pubblicò, nel 1859, il risultato dei suoi studi, con il titolo Sull´origine delle specie per selezione naturale, l´opera andò esaurita in un giorno.
Era nata la scienza dell´evoluzione. Suscitò controversie così vivaci da non essersi ancora spente oggi.
In cosa consiste l´evoluzione? Oggi la definiamo come il cambiamento continuo ed inevitabile delle specie nel corso del tempo. E bene chiarire subito che "evoluzione" non significa necessariamente né "miglioramento" né "progresso": si sono osservati parecchi casi di regressione pura e semplice, nel corso della storia, e deviazioni che hanno dato origine a rami nuovi, in seguito scomparsi, anche in popolazioni della linea umana.
Evoluzione significa prima di tutto differenziazione progressiva. Gli esseri viventi cambiano nel corso del tempo: compaiono forme nuove che possono coesistere a lungo accanto alle più antiche e che a loro volta vanno incontro a nuovi cambiamenti.
Basti pensare alla straordinaria varietà delle piante da fiore o degli uccelli, o dei dinosauri riportati alla luce negli ultimi duecento anni. L´evoluzione comporta quindi trasformazione e un aumento della varietà disponibile, a cui si accompagna spesso, ma non sempre, un aumento di complessità. Valga ad esempio l´estrema raffinatezza raggiunta da organi quali l´occhio o l´orecchio, nell´arco di centinaia di milioni di anni, o lo sviluppo del cervello umano, che ci rende capaci di pensieri e attività sconosciute ai tempi in cui i nostri antenati non avevano ancora imparato a usare il fuoco, o a rompere con pietre le ossa di animali per succhiarne il midollo. All´opposto, molti parassiti si specializzano assai, semplificando o perdendo le parti inutili e perfezionando quelle che permettono loro di attaccarsi ai loro ospiti e di penetrarvi. Una volta entrati, li costringono a moltiplicare i parassiti, a proprio danno, e a spargerne i figli all´esterno.
Evoluzione significa, infine, sviluppo di capacità di interazione con l´ambiente. È questo, in definitiva, a decidere del successo di una specie o della sua scomparsa. I grandi uccelli senz´ali che abitavano la Nuova Guinea nella preistoria sono stati portati all´estinzione quando nel loro ambiente sono sbarcati uomini armati di lance di legno con la punta indurita al fuoco.
Alla stessa stregua, intere popolazioni umane sono scomparse quando nel loro ambiente sono penetrati bacilli, come i virus dell´influenza o del morbillo, contro cui non erano in grado di difendersi.
Cosa rende possibile l´evoluzione? La risposta semplicissima è: la vita stessa. Qual è la caratteristica principale della vita?
Non è il movimento: le piante sono vive ma non si muovono. Non è la complessità: un´auto è complessa e si muove, ma non è viva. Non è nemmeno la capacità di nascere, crescere e morire: anche una roccia "nasce", per esempio in un´eruzione vulcanica; un cristallo può crescere; e ogni cosa prima o poi ha fine. La caratteristica esclusiva della vita è l´autoriproduzione: la vita riproduce se stessa, se trova condizioni adeguate, e può assumere una enorme varietà di forme, come testimonia il mondo che abbiamo intorno. Anche un cristallo può formare copie di se stesso, in condizioni opportune, ma tutte avranno struttura identica al genitore. Un batterio ha struttura identica al genitore, ma nel corso delle generazioni può cambiare, e pur mostrando una complessità che nel cristallo non esiste continua a riprodursi quasi identico a se stesso, e simultaneamente ad evolvere.
Lo studio della vita ha fatto passi da gigante dai tempi di Darwin, e le ragioni e i modi del cambiamento oggi sono ampiamente noti. Ne parleremo nei prossimi articoli, perché si tratta degli eventi che rappresentano il motore stesso dell´evoluzione. Non sappiamo ancora come la vita abbia avuto origine, né se sia sorta sulla Terra o sia venuta dallo spazio su di un meteorite. Se è sorta sulla Terra, deve esserci voluto parecchio tempo perché potesse comparire, perché la nascita della vita deve essere un evento estremamente raro. Questo non significa che sia apparsa solo qui: vuole solo dire che c´è stato un luogo e un momento in cui una stringa di molecole è riuscita ad agganciare alcuni atomi, alcuni pezzi da costruzione, nell´ambiente circostante, e ad organizzarli intorno a sé in modo da formare una copia esatta, una sorta di carta carbone, di se stessa.
C´è una riflessione che potrà disturbare chi non accetta che la vita possa avere davvero avuto origine da sola, ma vuole che sia sorta per un intervento esterno, extraterrestre, e che non abbia trovato da sé la sua strada, ma si sia sviluppata seguendo un piano preordinato, magari addirittura in vista di un finale già scritto. È una semplice considerazione: se davvero la vita «ha fatto tutto da sola», cosa che non è dimostrata e forse non è nemmeno dimostrabile, ma è perfettamente compatibile con ciò che sappiamo, allora non si sa dove stiamo andando, non si sa cosa potremo diventare, nessun piano guida la storia della vita, e ciò che sarà dell´umanità e del pianeta su cui si è imposta come specie dominante dipende in larga misura dalle scelte che faremo. Portiamo con noi nella vita, insomma, piena responsabilità per ciò che siamo e per ciò che diventeremo.
Questa incertezza disturba il senso di sicurezza di molti, e li spinge a cercare una figura paterna che insegni e diriga, e dicendo loro dove andare li sottragga a questa responsabilità. Ha fondamento questa aspirazione ad essere guidati? Nessuno può dimostrarlo, anche se molte menti eccelse ci hanno provato.
Ciascuno deve scegliere a cosa prestare fede al riguardo, ma negare che vi sia evoluzione significa rinunciare alla nostra capacità di ragionamento, e a tutto quanto sappiamo.
(1 - continua)
Corriere della Sera 27.6.07
La Cgil e la grande paura di farsi scavalcare dal Prc
di Enrico Marro
«Non scopriamo il fianco sinistro» La Cgil in gara con Rifondazione
Epifani si prepara a una «firma provvisoria». Poi vuole il referendum
ROMA — All'ottimismo di Romano Prodi e di Tommaso Padoa-Schioppa si è contrapposto per tutto il giorno il pessimismo della Cgil e di Rifondazione comunista. E non è stato solo per bilanciare i messaggi del presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia, ma anche per segnalarsi l'un l'altro — il sindacato di Guglielmo Epifani e il partito di Franco Giordano — che, nel campo di battaglia delle pensioni e del lavoro, nessuno avrebbe lasciato scoperto il fronte sinistro. Giordano e il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, hanno cominciato dalla mattina presto a frenare rispetto a ipotesi di accordo, a ribadire che lo «scalone Maroni» non poteva semplicemente essere ammorbidito come spiegava il governo, ma che andava «abolito, come prevede il programma ». A quel punto la Cgil ha cominciato a non sentirsi più garantita rispetto agli impegni presi dalla Rifondazione solo qualche settimana fa. E a dire il vero anche la Cisl e la Uil sono diventate sospettose, anche se a loro un eventuale scavalcamento a sinistra da parte dei massimalisti creerebbe molti meno problemi.
Ma andiamo con ordine.
Un paio di settimane fa i vertici di Cgil, Cisl e Uil hanno incontrato i capigruppo delle sinistre radicali (Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica) ottenendo da tutti la garanzia che un eventuale accordo dei sindacati col governo non sarebbe stato rimesso in discussione in Parlamento e nelle piazze. Come dire: «Quello che va bene a voi andrà bene anche a noi e non vi creeremo problemi». Poi però sono successe due cose che hanno un po' cambiato il quadro.
Prima il flop della manifestazione delle sinistre radicali a piazza del Popolo contro la visita del presidente americano Bush a Roma e secondo la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Entrambe le cose hanno rafforzato, soprattutto in Rifondazione, le posizioni più intransigenti, quelle che vogliono «recuperare il rapporto con i movimenti», «l'insediamento sociale» del partito e la sua connotazione di lotta. Posizioni che hanno fatto leva anche sul preoccupante calo di consensi registrato da Rifondazione alle elezioni amministrative. Insomma, dalle parti di Giordano è suonato più di un campanello d'allarme sul fatto che la permanenza al governo è rischiosa. Questo non significa assolutamente che Rifondazione pensi di uscire, ma che appunto vuole essere ancora di più «partito di lotta e di governo».
Queste cose in Cgil le sanno benissimo, non fosse altro perché hanno in casa un pezzo di Rifondazione. Anzi, allargando lo sguardo a tutte le sinistre radicali, almeno metà del gruppo dirigente di Corso Italia fa riferimento a formazioni che stanno alla sinistra dei Ds e domani del Partito democratico. Mezza segreteria guarda alla Sinistra democratica di Mussi e Salvi. E lì guardano anche i vertici di categorie importanti come la Funzione pubblica, la Scuola, l'Agro Industria. Per non parlare della Fiom, i metalmeccanici, che hanno in segreteria Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra estrema di Rifondazione.
Ecco perché l'insistenza di Giordano e Ferrero per «l'abolizione» dello scalone non è passata inosservata a piani alti della Cgil. Ed è montato il sospetto che le garanzie offerte qualche settimana fa non fossero più tanto sicure. Meglio premunirsi. L'altro ieri Epifani ha tastato il polso dell'organizzazione consultando la «delegazione alla trattativa» che, tanto per dare l'idea, è composta da tutti i segretari di categoria e tutti i segretari regionali. Non solo. Per oggi alle 15 è convocato il direttivo, cioè il parlamentino della Cgil, che siederà praticamente in seduta permanente per valutare l'accordo. Epifani, insomma, vuole garantirsi il più possibile all'interno. E comunque, in uno degli ultimi incontri a Palazzo Chigi, ha annunciato al governo che la Cgil rispetto a un'eventuale intesa metterà per il momento una sigla provvisoria, in attesa del referendum dei lavoratori. Solo dopo il loro sì, Epifani firmerà l'intesa. Ed è proprio il referendum la soluzione che, come nel '95, dovrebbe consentire alla Cgil di confermare l'accordo (a maggioranza) e evitare che il no dei metalmeccanici (ci fu già sulla riforma Dini) e di altri pezzi della confederazione metta in discussione gli equilibri interni. Lo stesso referendum al quale potrebbero appellarsi Giordano per contenere i dissensi nel partito. Ma ieri sera Epifani ha chiesto anche un'ultima garanzia. Direttamente a Prodi: che l'accordo venga blindato con un decreto o con un disegno di legge sul quale porre la questione di fiducia. E impedire quindi ogni rilancio di Rifondazione.
l'Unità 27.6.07
Meneghello, un’altra lingua un’altra Resistenza
di Stefano Guerriero
È MORTO IERI, a 85 anni, lo scrittore vicentino, autore negli anni 60 di Libera nos a malo e I piccoli maestri. Lo scavo nel dialetto, la «leggerezza» calviniana e la condizione di outsider caratterizzano la sua opera e la sua testimonianza sul biennio 43-45
Delle qualità che Calvino proponeva per il millennio che ormai stiamo vivendo, Luigi Meneghello aveva indubbiamente in modo cospicuo la leggerezza. Una leggerezza acuta e divertita che tuttavia non presuppone disimpegno o distacco dalla realtà: tutt’altro.
Questa leggerezza in anticipo sui tempi è uno dei due motivi per cui si è tardato forse fino alla metà degli anni Ottanta a riconoscere il suo valore, nonostante avesse esordito con due libri innovativi di grande portata: Libera nos a malo (Feltrinelli 1963), romanzo, o non romanzo che sia, linguistico e sociologico sulla propria infanzia e sul mutamento della società contadina e del suo dialetto, e I piccoli maestri (Feltrinelli 1964), la più celebre narrazione resistenziale, anch’essa a sfondo autobiografico. L’altro motivo della tardiva scoperta è la sua qualità di outsider: Meneghello ha insegnato letteratura italiana in Inghilterra all’Università di Reading dal 1947 e questo faceva di lui forse un provinciale, un marginale agli occhi dell’establishment letterario italiano. Ma la distanza certo non gli ha nuociuto: la sua scrittura muove da una lontananza nello spazio e nel tempo; è animata da un ripensamento (degli anni della guerra e del Ventennio fascista) che non diventa malinconica letteratura del ricordo ma lucida volontà di comprendere e anche di denunciare i propri e altrui errori, sia pure evocati con affetto. Sta di fatto che nel ’63 a parte i recensori d’ufficio pochi leggono Libera nos a malo, che pure era al passo con il clima neoavanguardistico, per il suo essere tutto giocato sullo «sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose»; per il suo scavo nel dialetto che come le lingue specifiche degli occhi e di altri sensi, «è sempre incavicchiato alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare». Anche I piccoli maestri, singolarmente scritto nell’anno di morte di Fenoglio, l’altro grande cantore non ideologico della Resistenza, si afferma a fatica, con una prima riedizione, drasticamente riveduta dall’autore, nel ’76 e via via altre edizioni tra cui una scolastica nell’88.
I piccoli maestri inizia genialmente con l’atto di viltà più grave per un combattente: l’abbandono dell’arma, un parabellum lasciato in una crepa nella roccia durante un rastrellamento. E perché non ci siano dubbi l’autore mette subito in chiaro che a quei tempi di armi ne perdevano di continuo che in realtà «non eravamo mica buoni, a fare la guerra». È un libro tutto scritto in chiave antieroica, tutto contro la vulgata resistenziale e insieme tutto a favore delle ragioni della Resistenza, nonostante gli errori materiali e ideali che pure Meneghello vi riconosce. Un libro anticonformista. Si svolge tra l’Altipiano di Asiago e il Veneto, dove ha operato la singolare brigata del piccolo maestro Toni Giuriolo negli anni della guerra civile (guerra civile è un termine che ritorna di continuo nella narrazione: Meneghello non ha paura delle parole). Nelle vicende di questa pattuglia di «deviazionisti crociani di sinistra», come li definisce ironicamente l’autore, c’è la paura e il fascino della morte violenta, l’eccitazione dei rastrellamenti, ma anche le azioni fallite, il tragico spararsi addosso per errore: fatti dopo i quali «uno si sentiva soldato, frate, fibra dell’universo, e mona». Il piglio antiretorico è sistematico e coinvolge tutti i miti giovanili, compresi i miti culturali. All’eroismo viene preferito l’empirismo: «l’eroismo è più bello, ma ha un difetto, che non è veramente una forma della vita. L’empirismo è una serie di sbagli, e più sbagli e più senti che stai crescendo, che vivi». Un empirismo che è una differenza sostanziale con l’eroismo mortuario delle milizie di Salò. Contemporaneamente c’è la sincera e difficile rievocazione dell’entusiasmo giovanile, della fascinazione dell’avventura che si concretizza ad esempio nell’adorazione delle armi, odiate perché poche, brutte e vecchie, ma comunque sacre.
La compresenza dello sguardo del giovane di allora e dell’uomo maturo degli anni sessanta, entrambi rivolti sull’oggetto Resistenza, senza che l’uno falsifichi l’altro, è l’elemento più mirabile dei Piccoli maestri. Tutto è tenuto insieme con un’abilissima ironia, insieme lucida e affettuosa. La stessa ironia che caratterizza tutti i libri di Meneghello, da Fiori italiani (Rizzoli 1976) sull’educazione in tempo di fascismo e oltre, a Bau-sète (Rizzoli 1988), gustosa rievocazione del dopoguerra e della sua attività per il Partito d’Azione, il partito perfetto «per cui non votarono neanche le nostre fidanzate», fino alle ricerche linguistiche di Jura (Garzanti 1987) e oltre.
Meneghello è ormai consacrato come un classico, un fatto testimoniato dai volumi Rizzoli delle Opere e dal fiorire di edizioni, che certo come sempre in questi casi aumenterà ancora. È auspicabile che questo fiorire favorisca una ricezione ampia e completa dell’autore. Attualmente si ha l’impressione che sia un po’ la primizia sulla quale il critico-linguista sperimenta le proprie ricette. Certo i linguisti, da Giulio Lepschy a Cesare Segre a Maria Corti, hanno il merito indiscusso di aver difeso questo autore quando pochi lo conoscevano veramente. La sperimentazione linguistica, il lavoro di ricerca sulla lingua e sul dialetto, le contaminazioni con l’inglese sono dati imprescindibili per la comprensione del valore formale della sua scrittura.
Tuttavia è vero che in Meneghello c’è un fondo di passione e di volontà di comprendere che lo rendono anche un testimone eccezionale e sostanzialmente inedito dei decenni più difficili della storia italiana e della Liberazione. Insieme a Fenoglio, al Calvino del Sentiero dei nidi di ragno e, perché no, a Tiro al piccione di Giose Rimanelli, Meneghello può essere la via di accesso privilegiata alla comprensione di che cosa è stata veramente la Resistenza e la guerra civile. Sono argomenti che meritano attenzione al di fuori della cerchia degli specialisti.
il Riformista 26.6.07
Nigeria, il dramma dei bimbi-cavia
di Paolo Soldini
È il 1996. In Nigeria si diffonde un'epidemia di meningite che provoca, in poche settimane, 15mila morti, soprattutto bambini. II governo di Abuja chiede aiuto all'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e alle industrie farmaceutiche internazionali. Una risponde: la Pflzer, l'azienda americana famosa per il Viagra. Un team di medici inviati da New York si mette al lavoro in uno degli ospedali da campo in cui vengono accolti i piccoli malati. Hanno un farmaco nuovo, si chiama Trovan, appena prodotto dai laboratori della Pfizer. Nell'ospedale c'è anche un'équipe di Medici senza frontiere (Msf), ma né a loro né ai genitori dei bambini né a chiunque altro viene chiesto se sia il caso o no di testare il farmaco su 200 piccoli malati. I medici del team americano avrebbero anche nascosto ai familiari il fatto che nello stesso ospedale i bambini potevano essere curati con gli antibiotici di cui gli operatori di Msf erano abbondantemente fomiti.
Insomma: duecento cavie umane, trattate come cavie e basta in nome del profitto. Duecento bambini usati come oggetti senza valore per scoprire che la medicina non funziona e, soprattutto, che ha effetti collaterali micidiali. Dei 200 piccoli malati, infatti, I11 muoiono, molti restano paralizzati, molti perdono la vista, altri l'udito. Tutti, senza eccezioni, soffrono conseguenze gravi.
Oggi sulla vicenda, che ricorda in modo impressionante la trama dell'ultimo romanzo di John Le Carré The Constant Gardercer (e del film che ne è stato tratto), ad Abuja comincia un processo che potrebbe fare storia. II governo nigeriano, dopo aver a lungo esitato di fronte alle richieste disperate dei genitori delle piccole vittime, si decide a chiedere alla Pfizer un risarcimento di 7 miliardi di dollari. L'entità della richiesta è motivata anche da un "effetto collaterale" che nessuno avrebbe mai potuto prevedere: nel nord del Paese, dominato dai clan musulmani, dopo lo scoppio dello scandalo si è diffusa la fobia delle medicine fornite "dagli occidentali", i quali, secondo i fanatici islamici, starebbero operando una vera e propria sterilizzazione di massa per cancellare dal Paese tutti i seguaci di Allah. Molti ambulatori sono stati distrutti e nella regione viene boicottata violentemente la distribuzione di ogni vaccino che venga dall'estero. La conseguenza è che, secondo l'Oms, la poliomielite e altre malattie infettive starebbero infuriando di nuovo in zone da cui erano state sradicate.
La Pfizer si difende sostenendo che non si può affermare con certezza che la trovafexocina, il principio attivo del Trovan, sia stato l'effettiva causa delle morti e delle gravissime menomazioni. Ma a smentirli c'è, oltre al modo clandestino con cui il farmaco veniva somministrato, un preciso warming lanciato nel '99 dalla Food and drug amministration (Fda). Secondo l'ente federale statunitense, l'uso del Trovan, che non è mai stato approvato per il trattamento della meningite, è "legato a tossicità epatica e mortalità". L'elenco delle controindicazioni pubblicato dal British Medical Journal (Bmj) d'altra parte riempie pagine e pagine: ci sono scritti tutti i motivi per cui quella medicina non avrebbe mai dovuto essere somministrata a 200 poveri innocenti.