mercoledì 27 giugno 2007

Repubblica 27.6.07
La parabola del "buonismo"
di Filippo Ceccarelli


Massimo, l'Africa
La politica dei piccoli gesti il buonismo controverso di W.
Su una scena pubblica di cattiverie e volgarità viene esaltata ma non piace a tutti la tolleranza con gli avversari
Impegno nei confronti dei deboli, targhe stradali, incontri di pacificazione. Il modello Roma di Veltroni

Politica, sentimenti e degenerazioni sentimentali, ormai. Potere e benevolenza, conflitto e premura, strategia e morbidezza. Nella giornata in cui il centrosinistra ritrova finalmente un leader, dopo mesi e mesi di vane zuffe varrà la pena di chiedersi come è possibile che Walter Veltroni, preteso buonista per eccellenza, e comunque accreditato fondatore del buonismo, sia riuscito nella straordinaria impresa di fare fuori tutti gli altri senza nemmeno sporcarsi le mani.
«Oddio – ha esclamato Sabrina Ferilli – ancora con questa storia del buonismo!». E tuttavia per una volta converrà accantonare il pur legittimo fastidio dell´attrice, che oltretutto con Veltroni ha un bel debito di riconoscenza, avendola egli difesa, freschissimo sindaco, dagli strali del priore della chiesa di Santa Sabina, sopra il Circo Massimo, allorché la Ferillona volle spogliarsi davanti a 500 mila tifosi che festeggiavano il terzo scudetto della Roma.
E già questo singolare patrocinio, se si vuole, sposta parecchio in là l´orizzonte del buonismo. Categoria politica ormai abbastanza antica, come si intuisce da uno strillo di copertina dell´Espresso, «Buonismo, malattia infantile del centrosinistra», comparsa sotto il faccione del futuro leader del Partito democratico nel febbraio del 1995. Non solo, ma già una decina di anni orsono la parola è entrata nel Lessico Universale della Treccani come: «Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari».
Così autorevolmente certificata, si può aggiungere che tale definizione si adatta abbastanza bene al suo indiscusso fondatore. Il quale una volta, a Rieti, appena sceso dall´automobile fu accolto da alcuni giovani militanti di Alleanza nazionale con una pioggia di mutande, si spera - ma non è sicuro - pulite. Un paio di queste mutande lo centrarono in pieno volto. Chi ha assistito alla scena giura che il sorriso di Veltroni fu mite, aperto, indulgente e perfino divertito. Più o meno la stessa grace under pressure, grazia sotto pressione con cui si rivolse a un operatore di Striscia la notizia che aveva preso a tallonarlo da giorni: «Senta - gli disse il sindaco - a questo punto credo proprio che io e lei dovremo sposarci».
L´agiografia veltroniana, d´altra parte, si configura come un genere giornalistico particolarmente contagioso che arriva a lambire addirittura Il Secolo d´Italia (letto, s´immagina, dai lanciatori di slip). Ma il personaggio è obiettivamente garbato. Di più, è una persona decisamente piacevole. Ma la politica, come diceva De Mita, è la politica; e quindi vive anche - e mai come oggi - di seduzioni e rappresentazioni che travalicano la sfera privata dei suoi protagonisti. Per cui Veltroni, che pure teorizza «la forza dei piccoli gesti», certamente ne compie a iosa: e perciò rinuncia alla scorta, cede il palco riservato dell´Opera agli studenti del Conservatorio, converte i regali di compleanno nell´acquisto di un videoproiettore per i minori incarcerati. Un giorno, non lontano dalla moschea, ha visto un ragazzo che abbandonava per terra una bottiglia di birra: e allora il sindaco ha fatto fermare la macchina, è sceso, ha avvicinato il giovane facendogli raccogliere la bottiglia per deporla in un cestino.
E comunque: non è il tratto personale in discussione. Molto più interessante, semmai, è indagare sul trionfo del preteso buonismo veltroniano su una scena pubblica sempre più connotata da cattiverie, maleducazioni e volgarità.
Da questo punto di vista il «modello Roma», dove un asilo nido è stato ribattezzato «Coccole & Co», dice molto più di quello che gli analisti sociali freddamente classificano come «politiche simboliche». Un vero e proprio «pozzo di San Patricio», parafrasando il titolo del più buonista dei romanzi veltroniani: lapidi e targhe mirate; intitolazione di vie e parchi in segno di riconciliazione; ricerca di «eroi» e sensibilità al dolore dei personaggi della cronaca (premiazioni, case trovate, funerali pagati); permessi retribuiti ai dipendenti comunali che facciano volontariato; impegno personale del sindaco nei confronti di vecchi, bambini, disabili, esuli. Poi sì, certo, si esagera pure - e ai romani, che i loro problemi continuano sempre ad averceli, non è che siano tanto disposti ad esultare all´unisono con il loro sindaco per l´insperato ritrovamento del cane «Fiocco». Ma pazienza.
Lo stesso Veltroni è intervenuto più volte sul suo stesso buonismo. L´ha fatto, c´è anche da dire, con appuntita sottigliezza lasciando com´è ovvia da parte Peter Pan e San Francesco, due fra i suoi più gettonati ispiratori, ma La Rochefoucauld («Gli sciocchi non hanno la stoffa per essere buoni») e addirittura Machiavelli che scrive: «Però che a un popolo licenzioso e tumultuoso gli può da un uomo buono esser parlato, e facilmente può esser ridotto nella via buona».
Si tratta in effetti di un´antica risorsa del comando, nella sua accezione tenue, mite, soffice, e però spesso anche mascherata, alla Forlani, per intendersi, non a caso fiabescamente soprannominato «Il Coniglio Mannaro». Eppure, nel corso del tempo, Veltroni non ha mai troppo apprezzato di essere definito come buonista: «Visto che ho la temperatura bassa - ha spiegato una volta - mi rodo il fegato e domino la rabbia. Ma non vorrei che la gentilezza fosse scambiata per qualche cos´altro». E già: «Dal buono al fesso - ha integrato la moglie Flavia, pure consultata sull´argomento - ci vuole un attimo». C´è da dire che quest´attimo venne bruciato da Berlusconi nell´ormai remoto 1995: «Veltroni è un coglione» gli scappò detto in un piano-bar di Cernobbio. Poi rettificò, i giornalisti avevano sentito male. La rettifica che lo aspetta nei prossimi mesi rischia comunque di essere per lui più complicata.
Più scabroso è la dinamica interrelazionale, se così si può dire, con l´antagonista storico di Veltroni, e cioè D´Alema. Perché il buonismo nasce anche in chiaroscuro, in controluce, in controtendenza e in alternativa a un supposto - e anche in quel caso abbastanza documentabile - «cattivismo» dell´attuale ministro degli Esteri. Ha detto Walter diversi anni fa: «Massimo ha una forma di comunicazione molto dura, molto severa, un po´ sprezzante nei confronti degli altri, e questo non aiuta». Decisamente no, a giudicare da come sta per finire il torneo per la guida del Partito democratico. Anche se poi, ed è sempre Veltroni a parlare, «scavando, probabilmente si scoprirebbe che io non sono poi così buono». Probabilmente. Per quanto intima, la politica resta sempre un po´ ambigua.

Repubblica 27.6.07
L'evoluzione e l´incerto futuro dell'uomo
di Luca e Franceso Cavalli-Sforza


Il segreto della vita
Se all´origine non c´è un intervento divino
Il principio è l´autoriproduzione

Nell´ipotesi plausibile che ci siamo formati da soli, non si sa cosa potremo diventare
Un tempo si pensava che da sempre tutto avesse avuto la stessa forma
Darwin notò che le stesse specie in luoghi diversi mutavano aspetto

C´è stato un tempo, nemmeno molto lontano, in cui era convinzione generale che tutto ciò che abbiamo intorno fosse esistito in forme fisse e immutabili da sempre: che le piante, gli animali, gli stessi esseri umani avessero avuto l´aspetto con cui li conosciamo fin dal momento della loro comparsa sulla Terra, per intervento divino. C´era stato anche chi, nell´antichità, come Lucrezio, aveva affermato che molte varietà di esseri viventi ormai scomparse dovevano avere abitato il mondo in tempi assai lontani, ma erano affermazioni guardate con sospetto. Come potevamo sapere?
Dopotutto, le testimonianze delle civiltà del passato parlavano di uomini in tutto simili a noi e di animali ben noti. Il testo più antico che si conoscesse allora, la Bibbia, diceva che sette giorni erano stati sufficienti a dare forma al mondo e a tutto ciò che lo abita, compreso l´uomo.
Per secoli e per millenni, gli esseri umani avevano continuato a costruire sulle rovine dei loro predecessori. In Europa, i borghi medievali erano sorti sulle rovine delle città romane, e le città moderne sui resti dei centri medievali. Poi giunse la rivoluzione industriale e si cominciò a scavare, per costruire ferrovie e strade, fabbriche e palazzi. Vennero così ritrovamenti imprevisti. Quando furono portate alla luce le prime ossa di dinosauri, chiaramente diverse da quelle di ogni animale conosciuto, si disse che non potevano appartenere ad animali esistiti un tempo e in seguito scomparsi, perché era impensabile che Dio avesse creato una specie vivente per poi scoprire di essersi sbagliato e portarla all´estinzione.
Sempre ragionando in questo modo, quando furono ritrovate, nel 1856, le prime ossa di uomini di Neandertal, che sono molto più spesse e robuste delle nostre, furono attribuite a grandi scimmie o a patologie dell´apparato scheletrico umano.
Ma le scoperte proseguirono, e col tempo divenne impossibile negare che il pianeta era stato abitato, in un lontano passato, da una miriade di piante e di animali parecchio diversi da quelli che abbiamo intorno oggi, e anche da uomini di aspetto profondamente diverso dal nostro. Nel frattempo, i geologi si erano resi conto, seguendo altre vie, che la Terra doveva essere immensamente più antica dei seimila anni computabili in base alla Sacra Scrittura.
Si trovarono altri testi, ben più vecchi della Bibbia. Nel ‘700 si cominciò a stimare, per il pianeta, un´età di quasi centomila anni, o maggiore ancora. Oggi parliamo di circa 4,5 miliardi di anni.
Fra il 1831 e il 1836, un giovane naturalista inglese, Charles Darwin, traversava il mondo su un brigantino della marina britannica diretto a effettuare rilievi cartografici dell´America meridionale. Nel corso del viaggio ebbe modo di osservare una molteplicità di piante e di animali: ne raccolse campioni, li analizzò e si rese conto che le stesse specie, vivendo in luoghi separati e lontani l´uno dall´altro, avevano assunto caratteri differenti, che variavano a seconda di ciò di cui si nutrivano e dell´ambiente in cui abitavano. Ne derivò l´idea che le specie viventi cambino nel corso del tempo, sviluppando caratteristiche diverse, e che sopravvivano gli individui e le popolazioni che meglio riescono a procurarsi il necessario nutrimento e a riprodursi, risultando così meglio adattate all´ambiente in cui vivono. All´opposto, gli individui e le popolazioni che hanno maggiori difficoltà a crescere e a riprodursi tenderanno a scomparire, nel volgere delle generazioni. E l´ambiente, quindi, a compiere una selezione fra le diverse specie e fra le varie popolazioni e individui di una stessa specie. Poiché l´ambiente cambia di continuo, anche le caratteristiche dei viventi cambiano, nel corso del tempo.
Darwin chiamò questo processo selezione naturale. Non era ancora chiaro come nascessero questi cambiamenti, ma si sapeva che gli agricoltori e gli allevatori di bestiame selezionavano e incrociavano fra loro le varietà più promettenti di piante e di animali, per migliorarne la produttività e altre caratteristiche, operando un processo di selezione artificiale per molti aspetti simile a quello che in natura avviene spontaneamente. In Inghilterra, i due secoli precedenti a Darwin avevano visto grandi progressi in agronomia e zootecnia.
Un altro naturalista inglese, Alfred Russell Wallace, che pure aveva lavorato a lungo in America meridionale, giungeva negli stessi anni a conclusioni analoghe a quelle di Darwin, benché, molto più giovane di lui, non le avesse sviluppate con ampiezza paragonabile. I tempi erano ormai maturi per introdurre l´idea che le specie non sono immutabili, e quando Darwin pubblicò, nel 1859, il risultato dei suoi studi, con il titolo Sull´origine delle specie per selezione naturale, l´opera andò esaurita in un giorno.
Era nata la scienza dell´evoluzione. Suscitò controversie così vivaci da non essersi ancora spente oggi.
In cosa consiste l´evoluzione? Oggi la definiamo come il cambiamento continuo ed inevitabile delle specie nel corso del tempo. E bene chiarire subito che "evoluzione" non significa necessariamente né "miglioramento" né "progresso": si sono osservati parecchi casi di regressione pura e semplice, nel corso della storia, e deviazioni che hanno dato origine a rami nuovi, in seguito scomparsi, anche in popolazioni della linea umana.
Evoluzione significa prima di tutto differenziazione progressiva. Gli esseri viventi cambiano nel corso del tempo: compaiono forme nuove che possono coesistere a lungo accanto alle più antiche e che a loro volta vanno incontro a nuovi cambiamenti.
Basti pensare alla straordinaria varietà delle piante da fiore o degli uccelli, o dei dinosauri riportati alla luce negli ultimi duecento anni. L´evoluzione comporta quindi trasformazione e un aumento della varietà disponibile, a cui si accompagna spesso, ma non sempre, un aumento di complessità. Valga ad esempio l´estrema raffinatezza raggiunta da organi quali l´occhio o l´orecchio, nell´arco di centinaia di milioni di anni, o lo sviluppo del cervello umano, che ci rende capaci di pensieri e attività sconosciute ai tempi in cui i nostri antenati non avevano ancora imparato a usare il fuoco, o a rompere con pietre le ossa di animali per succhiarne il midollo. All´opposto, molti parassiti si specializzano assai, semplificando o perdendo le parti inutili e perfezionando quelle che permettono loro di attaccarsi ai loro ospiti e di penetrarvi. Una volta entrati, li costringono a moltiplicare i parassiti, a proprio danno, e a spargerne i figli all´esterno.
Evoluzione significa, infine, sviluppo di capacità di interazione con l´ambiente. È questo, in definitiva, a decidere del successo di una specie o della sua scomparsa. I grandi uccelli senz´ali che abitavano la Nuova Guinea nella preistoria sono stati portati all´estinzione quando nel loro ambiente sono sbarcati uomini armati di lance di legno con la punta indurita al fuoco.
Alla stessa stregua, intere popolazioni umane sono scomparse quando nel loro ambiente sono penetrati bacilli, come i virus dell´influenza o del morbillo, contro cui non erano in grado di difendersi.
Cosa rende possibile l´evoluzione? La risposta semplicissima è: la vita stessa. Qual è la caratteristica principale della vita?
Non è il movimento: le piante sono vive ma non si muovono. Non è la complessità: un´auto è complessa e si muove, ma non è viva. Non è nemmeno la capacità di nascere, crescere e morire: anche una roccia "nasce", per esempio in un´eruzione vulcanica; un cristallo può crescere; e ogni cosa prima o poi ha fine. La caratteristica esclusiva della vita è l´autoriproduzione: la vita riproduce se stessa, se trova condizioni adeguate, e può assumere una enorme varietà di forme, come testimonia il mondo che abbiamo intorno. Anche un cristallo può formare copie di se stesso, in condizioni opportune, ma tutte avranno struttura identica al genitore. Un batterio ha struttura identica al genitore, ma nel corso delle generazioni può cambiare, e pur mostrando una complessità che nel cristallo non esiste continua a riprodursi quasi identico a se stesso, e simultaneamente ad evolvere.
Lo studio della vita ha fatto passi da gigante dai tempi di Darwin, e le ragioni e i modi del cambiamento oggi sono ampiamente noti. Ne parleremo nei prossimi articoli, perché si tratta degli eventi che rappresentano il motore stesso dell´evoluzione. Non sappiamo ancora come la vita abbia avuto origine, né se sia sorta sulla Terra o sia venuta dallo spazio su di un meteorite. Se è sorta sulla Terra, deve esserci voluto parecchio tempo perché potesse comparire, perché la nascita della vita deve essere un evento estremamente raro. Questo non significa che sia apparsa solo qui: vuole solo dire che c´è stato un luogo e un momento in cui una stringa di molecole è riuscita ad agganciare alcuni atomi, alcuni pezzi da costruzione, nell´ambiente circostante, e ad organizzarli intorno a sé in modo da formare una copia esatta, una sorta di carta carbone, di se stessa.
C´è una riflessione che potrà disturbare chi non accetta che la vita possa avere davvero avuto origine da sola, ma vuole che sia sorta per un intervento esterno, extraterrestre, e che non abbia trovato da sé la sua strada, ma si sia sviluppata seguendo un piano preordinato, magari addirittura in vista di un finale già scritto. È una semplice considerazione: se davvero la vita «ha fatto tutto da sola», cosa che non è dimostrata e forse non è nemmeno dimostrabile, ma è perfettamente compatibile con ciò che sappiamo, allora non si sa dove stiamo andando, non si sa cosa potremo diventare, nessun piano guida la storia della vita, e ciò che sarà dell´umanità e del pianeta su cui si è imposta come specie dominante dipende in larga misura dalle scelte che faremo. Portiamo con noi nella vita, insomma, piena responsabilità per ciò che siamo e per ciò che diventeremo.
Questa incertezza disturba il senso di sicurezza di molti, e li spinge a cercare una figura paterna che insegni e diriga, e dicendo loro dove andare li sottragga a questa responsabilità. Ha fondamento questa aspirazione ad essere guidati? Nessuno può dimostrarlo, anche se molte menti eccelse ci hanno provato.
Ciascuno deve scegliere a cosa prestare fede al riguardo, ma negare che vi sia evoluzione significa rinunciare alla nostra capacità di ragionamento, e a tutto quanto sappiamo.
(1 - continua)

Corriere della Sera 27.6.07
La Cgil e la grande paura di farsi scavalcare dal Prc
di Enrico Marro


«Non scopriamo il fianco sinistro» La Cgil in gara con Rifondazione
Epifani si prepara a una «firma provvisoria». Poi vuole il referendum

ROMA — All'ottimismo di Romano Prodi e di Tommaso Padoa-Schioppa si è contrapposto per tutto il giorno il pessimismo della Cgil e di Rifondazione comunista. E non è stato solo per bilanciare i messaggi del presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia, ma anche per segnalarsi l'un l'altro — il sindacato di Guglielmo Epifani e il partito di Franco Giordano — che, nel campo di battaglia delle pensioni e del lavoro, nessuno avrebbe lasciato scoperto il fronte sinistro. Giordano e il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, hanno cominciato dalla mattina presto a frenare rispetto a ipotesi di accordo, a ribadire che lo «scalone Maroni» non poteva semplicemente essere ammorbidito come spiegava il governo, ma che andava «abolito, come prevede il programma ». A quel punto la Cgil ha cominciato a non sentirsi più garantita rispetto agli impegni presi dalla Rifondazione solo qualche settimana fa. E a dire il vero anche la Cisl e la Uil sono diventate sospettose, anche se a loro un eventuale scavalcamento a sinistra da parte dei massimalisti creerebbe molti meno problemi.
Ma andiamo con ordine.
Un paio di settimane fa i vertici di Cgil, Cisl e Uil hanno incontrato i capigruppo delle sinistre radicali (Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica) ottenendo da tutti la garanzia che un eventuale accordo dei sindacati col governo non sarebbe stato rimesso in discussione in Parlamento e nelle piazze. Come dire: «Quello che va bene a voi andrà bene anche a noi e non vi creeremo problemi». Poi però sono successe due cose che hanno un po' cambiato il quadro.
Prima il flop della manifestazione delle sinistre radicali a piazza del Popolo contro la visita del presidente americano Bush a Roma e secondo la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Entrambe le cose hanno rafforzato, soprattutto in Rifondazione, le posizioni più intransigenti, quelle che vogliono «recuperare il rapporto con i movimenti», «l'insediamento sociale» del partito e la sua connotazione di lotta. Posizioni che hanno fatto leva anche sul preoccupante calo di consensi registrato da Rifondazione alle elezioni amministrative. Insomma, dalle parti di Giordano è suonato più di un campanello d'allarme sul fatto che la permanenza al governo è rischiosa. Questo non significa assolutamente che Rifondazione pensi di uscire, ma che appunto vuole essere ancora di più «partito di lotta e di governo».
Queste cose in Cgil le sanno benissimo, non fosse altro perché hanno in casa un pezzo di Rifondazione. Anzi, allargando lo sguardo a tutte le sinistre radicali, almeno metà del gruppo dirigente di Corso Italia fa riferimento a formazioni che stanno alla sinistra dei Ds e domani del Partito democratico. Mezza segreteria guarda alla Sinistra democratica di Mussi e Salvi. E lì guardano anche i vertici di categorie importanti come la Funzione pubblica, la Scuola, l'Agro Industria. Per non parlare della Fiom, i metalmeccanici, che hanno in segreteria Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra estrema di Rifondazione.
Ecco perché l'insistenza di Giordano e Ferrero per «l'abolizione» dello scalone non è passata inosservata a piani alti della Cgil. Ed è montato il sospetto che le garanzie offerte qualche settimana fa non fossero più tanto sicure. Meglio premunirsi. L'altro ieri Epifani ha tastato il polso dell'organizzazione consultando la «delegazione alla trattativa» che, tanto per dare l'idea, è composta da tutti i segretari di categoria e tutti i segretari regionali. Non solo. Per oggi alle 15 è convocato il direttivo, cioè il parlamentino della Cgil, che siederà praticamente in seduta permanente per valutare l'accordo. Epifani, insomma, vuole garantirsi il più possibile all'interno. E comunque, in uno degli ultimi incontri a Palazzo Chigi, ha annunciato al governo che la Cgil rispetto a un'eventuale intesa metterà per il momento una sigla provvisoria, in attesa del referendum dei lavoratori. Solo dopo il loro sì, Epifani firmerà l'intesa. Ed è proprio il referendum la soluzione che, come nel '95, dovrebbe consentire alla Cgil di confermare l'accordo (a maggioranza) e evitare che il no dei metalmeccanici (ci fu già sulla riforma Dini) e di altri pezzi della confederazione metta in discussione gli equilibri interni. Lo stesso referendum al quale potrebbero appellarsi Giordano per contenere i dissensi nel partito. Ma ieri sera Epifani ha chiesto anche un'ultima garanzia. Direttamente a Prodi: che l'accordo venga blindato con un decreto o con un disegno di legge sul quale porre la questione di fiducia. E impedire quindi ogni rilancio di Rifondazione.

l'Unità 27.6.07
Meneghello, un’altra lingua un’altra Resistenza
di Stefano Guerriero


È MORTO IERI, a 85 anni, lo scrittore vicentino, autore negli anni 60 di Libera nos a malo e I piccoli maestri. Lo scavo nel dialetto, la «leggerezza» calviniana e la condizione di outsider caratterizzano la sua opera e la sua testimonianza sul biennio 43-45

Delle qualità che Calvino proponeva per il millennio che ormai stiamo vivendo, Luigi Meneghello aveva indubbiamente in modo cospicuo la leggerezza. Una leggerezza acuta e divertita che tuttavia non presuppone disimpegno o distacco dalla realtà: tutt’altro.
Questa leggerezza in anticipo sui tempi è uno dei due motivi per cui si è tardato forse fino alla metà degli anni Ottanta a riconoscere il suo valore, nonostante avesse esordito con due libri innovativi di grande portata: Libera nos a malo (Feltrinelli 1963), romanzo, o non romanzo che sia, linguistico e sociologico sulla propria infanzia e sul mutamento della società contadina e del suo dialetto, e I piccoli maestri (Feltrinelli 1964), la più celebre narrazione resistenziale, anch’essa a sfondo autobiografico. L’altro motivo della tardiva scoperta è la sua qualità di outsider: Meneghello ha insegnato letteratura italiana in Inghilterra all’Università di Reading dal 1947 e questo faceva di lui forse un provinciale, un marginale agli occhi dell’establishment letterario italiano. Ma la distanza certo non gli ha nuociuto: la sua scrittura muove da una lontananza nello spazio e nel tempo; è animata da un ripensamento (degli anni della guerra e del Ventennio fascista) che non diventa malinconica letteratura del ricordo ma lucida volontà di comprendere e anche di denunciare i propri e altrui errori, sia pure evocati con affetto. Sta di fatto che nel ’63 a parte i recensori d’ufficio pochi leggono Libera nos a malo, che pure era al passo con il clima neoavanguardistico, per il suo essere tutto giocato sullo «sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose»; per il suo scavo nel dialetto che come le lingue specifiche degli occhi e di altri sensi, «è sempre incavicchiato alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare». Anche I piccoli maestri, singolarmente scritto nell’anno di morte di Fenoglio, l’altro grande cantore non ideologico della Resistenza, si afferma a fatica, con una prima riedizione, drasticamente riveduta dall’autore, nel ’76 e via via altre edizioni tra cui una scolastica nell’88.
I piccoli maestri inizia genialmente con l’atto di viltà più grave per un combattente: l’abbandono dell’arma, un parabellum lasciato in una crepa nella roccia durante un rastrellamento. E perché non ci siano dubbi l’autore mette subito in chiaro che a quei tempi di armi ne perdevano di continuo che in realtà «non eravamo mica buoni, a fare la guerra». È un libro tutto scritto in chiave antieroica, tutto contro la vulgata resistenziale e insieme tutto a favore delle ragioni della Resistenza, nonostante gli errori materiali e ideali che pure Meneghello vi riconosce. Un libro anticonformista. Si svolge tra l’Altipiano di Asiago e il Veneto, dove ha operato la singolare brigata del piccolo maestro Toni Giuriolo negli anni della guerra civile (guerra civile è un termine che ritorna di continuo nella narrazione: Meneghello non ha paura delle parole). Nelle vicende di questa pattuglia di «deviazionisti crociani di sinistra», come li definisce ironicamente l’autore, c’è la paura e il fascino della morte violenta, l’eccitazione dei rastrellamenti, ma anche le azioni fallite, il tragico spararsi addosso per errore: fatti dopo i quali «uno si sentiva soldato, frate, fibra dell’universo, e mona». Il piglio antiretorico è sistematico e coinvolge tutti i miti giovanili, compresi i miti culturali. All’eroismo viene preferito l’empirismo: «l’eroismo è più bello, ma ha un difetto, che non è veramente una forma della vita. L’empirismo è una serie di sbagli, e più sbagli e più senti che stai crescendo, che vivi». Un empirismo che è una differenza sostanziale con l’eroismo mortuario delle milizie di Salò. Contemporaneamente c’è la sincera e difficile rievocazione dell’entusiasmo giovanile, della fascinazione dell’avventura che si concretizza ad esempio nell’adorazione delle armi, odiate perché poche, brutte e vecchie, ma comunque sacre.
La compresenza dello sguardo del giovane di allora e dell’uomo maturo degli anni sessanta, entrambi rivolti sull’oggetto Resistenza, senza che l’uno falsifichi l’altro, è l’elemento più mirabile dei Piccoli maestri. Tutto è tenuto insieme con un’abilissima ironia, insieme lucida e affettuosa. La stessa ironia che caratterizza tutti i libri di Meneghello, da Fiori italiani (Rizzoli 1976) sull’educazione in tempo di fascismo e oltre, a Bau-sète (Rizzoli 1988), gustosa rievocazione del dopoguerra e della sua attività per il Partito d’Azione, il partito perfetto «per cui non votarono neanche le nostre fidanzate», fino alle ricerche linguistiche di Jura (Garzanti 1987) e oltre.
Meneghello è ormai consacrato come un classico, un fatto testimoniato dai volumi Rizzoli delle Opere e dal fiorire di edizioni, che certo come sempre in questi casi aumenterà ancora. È auspicabile che questo fiorire favorisca una ricezione ampia e completa dell’autore. Attualmente si ha l’impressione che sia un po’ la primizia sulla quale il critico-linguista sperimenta le proprie ricette. Certo i linguisti, da Giulio Lepschy a Cesare Segre a Maria Corti, hanno il merito indiscusso di aver difeso questo autore quando pochi lo conoscevano veramente. La sperimentazione linguistica, il lavoro di ricerca sulla lingua e sul dialetto, le contaminazioni con l’inglese sono dati imprescindibili per la comprensione del valore formale della sua scrittura.
Tuttavia è vero che in Meneghello c’è un fondo di passione e di volontà di comprendere che lo rendono anche un testimone eccezionale e sostanzialmente inedito dei decenni più difficili della storia italiana e della Liberazione. Insieme a Fenoglio, al Calvino del Sentiero dei nidi di ragno e, perché no, a Tiro al piccione di Giose Rimanelli, Meneghello può essere la via di accesso privilegiata alla comprensione di che cosa è stata veramente la Resistenza e la guerra civile. Sono argomenti che meritano attenzione al di fuori della cerchia degli specialisti.

il Riformista 26.6.07
Nigeria, il dramma dei bimbi-cavia
di Paolo Soldini


È il 1996. In Nigeria si diffonde un'epidemia di meningite che provoca, in poche settimane, 15mila morti, soprattutto bambini. II governo di Abuja chiede aiuto all'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e alle industrie farmaceutiche internazionali. Una risponde: la Pflzer, l'azienda americana famosa per il Viagra. Un team di medici inviati da New York si mette al lavoro in uno degli ospedali da campo in cui vengono accolti i piccoli malati. Hanno un farmaco nuovo, si chiama Trovan, appena prodotto dai laboratori della Pfizer. Nell'ospedale c'è anche un'équipe di Medici senza frontiere (Msf), ma né a loro né ai genitori dei bambini né a chiunque altro viene chiesto se sia il caso o no di testare il farmaco su 200 piccoli malati. I medici del team americano avrebbero anche nascosto ai familiari il fatto che nello stesso ospedale i bambini potevano essere curati con gli antibiotici di cui gli operatori di Msf erano abbondantemente fomiti.

Insomma: duecento cavie umane, trattate come cavie e basta in nome del profitto. Duecento bambini usati come oggetti senza valore per scoprire che la medicina non funziona e, soprattutto, che ha effetti collaterali micidiali. Dei 200 piccoli malati, infatti, I11 muoiono, molti restano paralizzati, molti perdono la vista, altri l'udito. Tutti, senza eccezioni, soffrono conseguenze gravi.

Oggi sulla vicenda, che ricorda in modo impressionante la trama dell'ultimo romanzo di John Le Carré The Constant Gardercer (e del film che ne è stato tratto), ad Abuja comincia un processo che potrebbe fare storia. II governo nigeriano, dopo aver a lungo esitato di fronte alle richieste disperate dei genitori delle piccole vittime, si decide a chiedere alla Pfizer un risarcimento di 7 miliardi di dollari. L'entità della richiesta è motivata anche da un "effetto collaterale" che nessuno avrebbe mai potuto prevedere: nel nord del Paese, dominato dai clan musulmani, dopo lo scoppio dello scandalo si è diffusa la fobia delle medicine fornite "dagli occidentali", i quali, secondo i fanatici islamici, starebbero operando una vera e propria sterilizzazione di massa per cancellare dal Paese tutti i seguaci di Allah. Molti ambulatori sono stati distrutti e nella regione viene boicottata violentemente la distribuzione di ogni vaccino che venga dall'estero. La conseguenza è che, secondo l'Oms, la poliomielite e altre malattie infettive starebbero infuriando di nuovo in zone da cui erano state sradicate.

La Pfizer si difende sostenendo che non si può affermare con certezza che la trovafexocina, il principio attivo del Trovan, sia stato l'effettiva causa delle morti e delle gravissime menomazioni. Ma a smentirli c'è, oltre al modo clandestino con cui il farmaco veniva somministrato, un preciso warming lanciato nel '99 dalla Food and drug amministration (Fda). Secondo l'ente federale statunitense, l'uso del Trovan, che non è mai stato approvato per il trattamento della meningite, è "legato a tossicità epatica e mortalità". L'elenco delle controindicazioni pubblicato dal British Medical Journal (Bmj) d'altra parte riempie pagine e pagine: ci sono scritti tutti i motivi per cui quella medicina non avrebbe mai dovuto essere somministrata a 200 poveri innocenti.

martedì 26 giugno 2007

Altre immagini di Piazza della Minerva, a Roma
Domenica pomeriggio 24 giugno 2007























































In libreria potete trovare:


alcune tra le principali riviste che hanno pubblicato articoli sul Palazzetto Bianco:
D’architettura n.32(aprile 2007)
L’Arca n.218 (ottobre 2006)
Metamorfosi n. 60 (maggio/giugno) 2006

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I volumi delle Nuove Edizioni Romane citati durante il dibattito:

Il Coraggio delle Immagini.
Progetti realizzati da un gruppo di architetti italiani su idee e disegni di Massimo Fagioli (1986-1995)
L’Architettura e la morte dell’arte.
atti del convegno “ L’Architettura e la morte dell’arte. Un secolo di crisi” svoltosi il 26 e 27 Gennaio 1996al teatro Eliseo di Roma

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Immagine della linea
Atti del convegno tenutosi al Palazzo dei Congressi di Firenze il 26 Ottobre 1996
in occasione dell’apertura della mostra di architettura ‘Il Coraggio delle Immagini’

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‘Comporre l’architettura’
di Franco Purini
(Laterza 2006)

Comporre architetture significa gestire un sistema complesso di variabili funzionali, simboliche, rappresentative e produttive. Dato il suo carattere composito, non è possibile parlare di regole per la composizione. Si potrebbe parlare piuttosto di scelte, ma è meglio parlare di idee-strumento a metà tra il concettuale e l'operativo, tra teoria e pratica. Questo libro affronta tutte le questioni legate all'essercizio compositivo: dai vincoli funzionali di un edificio alle intenzioni formali di chi progetta, dalle richieste della committenza al rispetto degli ordinamenti legislativi.

















(foto di Lorenzo Fagioli)




Libreria Amore e Psiche
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Repubblica 26.5.07
Il segretario Giordano: vogliamo scelte condivise o siamo pronti a tirarci indietro Ma Rifondazione punta i piedi "Va abolito, niente compromessi" di Elena Polidori Il disagio Tutti devono capire che la sofferenza sociale è profonda, non si può ignorare le risorse I soldi ci sono, basta rinegoziare l´aggiustamento italiano con la Ue


ROMA - «Noi non vogliamo solo ammorbire lo scalone: vogliamo abolirlo per intero, così come è scritto nel programma dell´Unione», annuncia subito Franco Giordano, segretario di Rifondazione. Perciò, «o ci sono scelte condivise, o queste misure non le votiamo».
Dunque non basta il compromesso appena raggiunto?
«Lo dico apertamente: no. E non mi si venga a parlare di intransigenza. Non siamo noi quelli che deragliano dal programma».
Chi deraglia, allora?
«Chi ci propone mediazioni al ribasso»
L´aumento delle pensioni minime invece va bene?
«Si, anche se sarebbe stato meglio se la misura riguardava più persone. Però quella è una platea che si può sempre allargare».
Scusi, ma non sarà sempre meglio ammorbidirlo, questo scalone? Ora, in fondo, è uno scalino...
«Non bastano semplici ritocchi per salvarci la faccia. Io ho girato per le fabbriche e ho visto la sofferenza sociale».
Appunto.
«Appunto per questo dico che non basta un ritocco. Serve un accordo, certo: è indispensabile. E va trovato d´intesa col sindacato. Ma occorre guardare anche alla qualità di questo accordo».
Si parla di 58 anni...
«L´intesa va letta bene. Ma ripeto: se non ci sono le condizioni, perché lo scalone resta comunque lì, non si vota».
Lei sa che la sua abolizione completa costa...
«Se davvero Padoa-Schioppa rinegozia in sede Ue l´aggiustamento italiano, i soldi ci sono, anche perché il governo aveva sottostimato la crescita. Poi c´è tutto il resto, pure fonte di risorse».
Che resto?
«Per esempio, la tassazione delle rendite finanziarie al 20%: l´idea è finita nel dimenticatoio, ma non bisogna rinunciarci. Va intensificata la lotta all´evasione fiscale. Né va dimenticato che i lavoratori questo benedetto scalone se lo sono già pagati da soli con l´aumento dei contributi, come dimostrano i risultati dell´Inps».
Non pensa che far parte di una coalizione voglia anche dire rinunciare? Voi, a cosa rinunciate?
«Basta con questa storia. In quest´ultimo anno abbiamo rinunciato a tanto per perseguire il risanamento. E allora, di cosa ci si accusa? E soprattutto: dove sta questa politica economica di sinistra? Abbiamo condiviso praticamente tutto».
Beh, proprio tutto no...
«Tutto. Ma adesso che finalmente si redistribuisce, non possiamo non reclamare un colpo d´ala: c´è un malessere diffuso, non si può far finta di niente».
L´opposizione accusa il governo di aver ceduto ad un vostro «ricatto».
«Non hanno alcun titolo per parlare. Loro che hanno favorito in ogni modo l´evasione, hanno colpito i lavoratori e hanno anche agito furbescamente facendo ricadere la riforma delle pensioni sulle spalle del governo futuro».
Come si esce da questo vicolo, allora?
«Per esempio, fissando incentivi per rendere facoltativo l´aumento dell´età pensionabile. Ma anche facendo uscire subito, senza limitazioni né "finestre" quelli che hanno versato 40 anni di contributi. E´ un elemento di giustizia sociale».

Repubblica 26.5.07
Verso l'apertura della procedura. Gli enti ecclesiastici rischiano di dover restituire fino a un miliardo Sconti Ici alla Chiesa, l'Ue indaga anche sulle tasse dimezzate La conferma di Bruxelles. Nel mirino la riduzione di Ires e Irap di Alberto D'Argenio


La task force europea irritata dalla mancanza di risposte da parte del governo italiano

BRUXELLES - Pur senza scoprire troppo le carte, la Commissione europea ammette di avere messo nel mirino le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa. Lo conferma la persona più titolata a farlo, ovvero il portavoce della commissaria Ue alla Concorrenza Neelie Kroes: «Sulla base di alcuni reclami abbiamo chiesto informazioni sui vantaggi fiscali che l´Italia riserva alla Chiesa, in particolare sul fronte dell´Ici». Omettendo di riferire, come naturale in un caso tanto delicato, che stufi dei silenzi del governo, i servizi di Bruxelles sono ormai orientati ad andare fino in fondo, aprendo una pericolosa procedura d´infrazione.
Gli ultimi indizi messi nero su bianco dalla Commissione, come scritto ieri su Repubblica da Curzio Maltese, risalgono al 25 gennaio 2007, quando un capo unità della task force "Aiuti di Stato" ha chiesto al dipartimento per le Politiche fiscali del ministero dell´Economia una serie di informazioni sugli sgravi Ici. Chiarimenti che da Roma non sono mai arrivati.
La storia è nota: nel 2004 la Cassazione ha chiesto di mettere fine ai benifici concessi alla Chiesa, pronuncia annullata dal governo Berlusconi alla vigilia della campagna elettorale inserendo nella Finanziaria 2006 un´esenzione dall´imposta quantificabile in 300-400 milioni di euro, cifra che secondo alcuni esperti potrebbe anche lievitare al miliardo. Un privilegio prontamente censurato da Bruxelles per violazione delle norme sugli aiuti di Stato, con un intervento che ha spinto il nuovo governo a dirsi pronto a cancellare la norma nel primo pacchetto di liberalizzazioni del ministro Bersani. Con la seguente formulazione: l´esenzione sarà applicata alle attività «che non abbiano esclusivamente natura commerciale». Tradotto: l´Ici la pagano solo gli immobili destinati unicamente al lucro, ovvero pochi, mentre a non pagarle saranno quelli destinati ad attività commerciali che al loro interno ospitano un luogo di culto o un´attività non commerciale. Per farsi un´idea: non pagano l´Ici alberghi, cliniche, scuole e cinema con chiesa annessa, così come gli oratori dotati di un centro sportivo.
Ma non è tutto, come segnala il fiscalista Carlo Pontesilli, che insieme all´avvocato Alessandro Nucara ha scritto l´esposto che ha messo in moto Bruxelles: per le attività legate all´istruzione e alla sanità gli enti ecclesiastici pagano solo il 50% di Ires e Irap. Il che comporta che le numerose cliniche e scuole private legate al mondo cattolico pagano le tasse a metà, con un risparmio che anche in questo caso potrebbe aggirarsi intorno al miliardo di euro e in possibile violazione delle norme Ue sulla concorrenza.
Un sospetto fatto proprio nella richiesta di informazioni Ue di gennaio alla quale, spiegano fonti della Commissione, presto seguirà l´atto formale di messa d´accusa, specialmente sull´Ici, con l´apertura di una procedura d´infrazione. A meno che il governo non inoltri, e in fretta, delle spiegazioni più che convincenti, o non modichi le leggi. Azioni quantomai necessarie, visto che un´eventuale condanna Ue nel migliore dei casi porterebbe alla soppressione dei vantaggi fiscali, se non alla loro restituzione.

Repubblica 26.5.07
Si può scegliere come morire? Il dibattito sulla legge ferma al Senato di Stefano Rodotà
Le nuove frontiere della medicina hanno dato luogo a dilemmi etici inediti I diritti già riconosciuti dalla Costituzione e quelli che invece vanno regolati


Sembrava, ancora poco tempo fa, che una legge sul testamento biologico fosse, non dirò a portata di mano, ma vicina, una innovazione di cui si riconosceva la necessità e che poteva essere realizzata senza difficoltà eccessive. Si presentava, anzi, come un terreno sul quale rendere concreto e fruttuoso il dialogo troppe volte invocato tra laici e cattolici. E invece sono venute crescendo le difficoltà, contorte manovre politiche sostituiscono al Senato una discussione limpida e divengono sempre più imperiose le richieste di abbandonare del tutto questa via.
Questa accelerazione è venuta dopo il Family Day. Forti del successo in piazza San Giovanni, i promotori di quella manifestazione hanno proclamato la morte dei disegni di legge sulle unioni di fatto, i Dico, ed hanno indicato nell´abbandono delle iniziative legislative sul testamento biologico il prossimo obiettivo, pronti ad una nuova mobilitazione popolare. Che dire dopo il Gay Pride? Contrapporre piazza a piazza, come pure è legittimo, o provare di nuovo, pazientemente, a mostrare come una buona legge sul testamento biologico rappresenti uno sviluppo coerente di una riflessione sul morire condivisa dalle persone più diverse e che siamo di fronte all´obbligo di risolvere un problema dei cittadini, non della politica?
Torniamo alla pulizia concettuale, cerchiamo di liberare la discussione dalle confusioni interessate che continuano ad inquinarla. Il testamento biologico si presenta come un svolgimento del diritto al rifiuto di cure, e affronta e risolve questioni diverse da quelle che riguardano l´accanimento terapeutico e, soprattutto, l´eutanasia attiva. E´ del tutto ideologico, ed empiricamente infondato, l´argomento che rifiuta il testamento biologico considerandolo come l´anticipazione di un inevitabile passaggio al riconoscimento pieno dell´eutanasia. L´osservazione della realtà ci dice il contrario. Molti paesi hanno da tempo riconosciuto il testamento biologico e questo non ha prodotto alcuno "scivolamento" verso leggi sulla eutanasia attiva. E´ sbagliato, inoltre, sovrapporre le questioni del testamento biologico e quelle dell´accanimento terapeutico. L´inammissibilità di quest´ultimo è ormai da tempo riconosciuta, trova una formulazione chiara nell´articolo 14 del codice di deontologia medica, dove si afferma che «il medico deve astenersi dall´ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per l´assistito e/o un miglioramento della qualità della vita». Nello stesso codice, poi, si sottolineano i doveri del medico per quanto riguarda il consenso del paziente, il suo diritto di rifiutare le cure, la necessità di «tenere conto delle eventuali manifestazioni di volontà precedentemente espresse» (art. 34).
La linea indicata dall´insieme di queste e di altre norme, e dalle molte sentenze che le hanno applicate, è ormai chiara. Il consenso informato è il fondamento dell´autodeterminazione e lo strumento che rende legittimo il rifiuto di cure. Le direttive anticipate si inseriscono coerentemente in questo quadro e si presentano come lo strumento che consente di far operare l´autodeterminazione in maniera prospettica, permettendo alla persona di indicare le proprie determinazioni per situazioni eventuali di incapacità nella fase terminale della vita.
Invece di seguire questa strada limpida, si sta dando la falsa impressione di un legislatore prigioniero delle difficoltà del costruire un istituto giuridico del tutto nuovo e dell´insuperabile barriera del rapporto tra laici e cattolici. Le cose, a ben guardare, stanno nel modo opposto. Partendo dall´esame dei materiali giuridici già disponibili, si può ragionevolmente concludere, e qualche decisione giudiziaria lo ha fatto, che in presenza di una chiara volontà della persona già oggi, dunque anche prima e indipendentemente dall´approvazione di una legge, i trattamenti medici dovrebbero essere interrotti, consentendo una morte dignitosa. Peraltro, anche la figura del "fiduciario", al quale affidare il rispetto della volontà del paziente una volta che questo sia divenuto incapace, è già nel codice civile, dove si prevede che la persona interessata possa designare un amministratore di sostegno «in previsione della propria eventuale futura incapacità» (art. 408), che è formula già comprensiva di una parte almeno dei contenuti del testamento biologico.
Inoltre, nell´ultimo numero di Aggiornamenti sociali, la rivista diretta da padre Bartolomeo Sorge, si trova una interessante "rilettura" del caso Welby che non soltanto porta a concludere per la legittimità del rifiuto del trattamento in questa specifica vicenda, ma più in generale dà forte rilievo alla «competenza della coscienza individuale nelle decisioni relative ai casi-limite». E´ una indicazione da cogliere, per uscire dalle strettoie che ci angustiano, e che mostra come sia possibile, quando si abbia spirito aperto, riuscire a trovare punti di consenso anche muovendo da posizioni almeno nelle apparenze lontane. E sono pagine da consigliare a quel magistrato romano che, con una lettura della Costituzione a dir poco sommaria, ha respinto la richiesta di archiviare la richiesta di procedere contro l´anestesista che intervenne accogliendo la richiesta di Piergiorgio Welby.
La logica costituzionale è ben diversa. Infatti, nell´articolo 32, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell´individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possano essere previsti soltanto dalla legge, aggiungendo però che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E´, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato.
Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita l´antica promessa del re ai suoi cavalieri: "non metteremo la mano su di te". Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale "in nessun caso" si può mancare di rispetto: il sovrano democratico, l´Assemblea costituente, rinnova la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.
Questo è il quadro che il Parlamento deve tenere presente. Discutendo di testamento biologico (ma sarebbe più corretto parlare di "direttive anticipate"), non si sta attribuendo ai cittadini un diritto nuovo, che questi non hanno. E allora bisogna limitarsi a disciplinare con il massimo di sobrietà e di rispetto le condizioni del suo esercizio. In questo momento, al contrario, si sta cercando di sfruttare una situazione politica e parlamentare sempre più ambigua per arrivare ad una legge che esproprierebbe le persone di prerogative che già loro appartengono. La proclamata volontà di rispettare la persona rischia così di convertirsi in una sua strumentalizzazione. Per imporre un punto di vista, le persone sarebbero chiuse nella gabbia della sofferenza, condannate alla perdita della loro stessa umanità. Anche i legislatori, quali che siano le loro convinzioni, dovrebbero forse ricordare che «il sabato è stato fatto per l´uomo e non l´uomo per il sabato».

Repubblica 26.5.07
Una battaglia di civiltà nell'interesse dei malati Nessuno ha il diritto di decidere per noi Paura. Lo sviluppo tecnologico della medicina ha portato una nuova paura: essere tenuti in vita artificialmente
di Umberto Veronesi

Nessuno deve scegliere per noi. Oggi sembra che questo valga per tutte, o quasi, le circostanze della vita, ma non per la sua fine, che, fra tutte, è la più personale e quella che ci tocca più da vicino.
Sul tema della morte, la nostra o degli altri, si preferisce scivolare nel silenzio invece di scendere nell´agorà. Meglio soffocare sul nascere un dibattito aperto non facile: così sta succedendo per il testamento biologico. Perché non solo l´argomento non è facile, ma è scomodo e fa male. Fa male ai medici scalfire la fiducia nella loro capacità di curare e di decidere, e ai politici impegnarsi in un argomento impopolare, che sbilancia il già incerto sistema di scambio degli appoggi fra partiti.
E´ probabile quindi che la legge sul testamento biologico non si farà mai. Ma, per rispondere a tutte le migliaia di italiani che mi hanno scritto – da quando due anni fa la mia Fondazione ha iniziato la campagna a favore del testamento biologico – nessuno può impedirci di negoziare in pace con la nostra morte, come ha chiesto di recente Adriano Sofri attraverso le pagine di questo giornale. «Uno Stato laico non può obbligare un malato a vivere contro la sua volontà, attaccato a una macchina; per chi non l´accetta è un´imposizione che si avvicina alla tortura». Sono le parole, anch´esse molto coraggiose, di Vito Mancuso, teologo del San Raffaele. Se non ci obbliga la Chiesa, tanto più non possono obbligarci i medici. Di fronte a un documento di volontà anticipate di un libero cittadino, i medici non possono rifiutarsi di tenerne conto.
Il testamento biologico è la logica estensione del consenso informato, che è obbligatorio in Italia e sancisce il diritto per ogni paziente di conoscere la verità sulla propria malattia e di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte: questo deve valere anche nel caso in cui la capacità di esprimere la propria decisione fosse persa. Forse i medici che hanno dichiarato delle forti perplessità sul testamento biologico sono fortunati, e non si sono trovati spesso nella situazione drammatica di tenere un paziente nel limbo della "non-vita" e di non sapere che fare, sentendosi inchiodati al bivio fra la missione terapeutica, che ci impone di trattare il malato finché ci sono strumenti per farlo, e il rispetto per la sua dignità di persona.
Eppure sappiamo che la medicina tecnologica, insieme agli enormi progressi, ha portato con sé una nuova paura, che è quella di essere mantenuti artificialmente in vita, di pensare a un corpo-involucro che sopravvive alla mente. Inutile scacciarne l´immagine per poi ritrovarla come fantasma: meglio affrontarla e decidere "quando la luce è accesa", come dice Luca Goldoni. Perciò il testamento biologico, che essenzialmente di questo dispone, rafforza l´alleanza terapeutica decretando la fine della medicina paternalistica e tecnocratica e aprendo la via del ritorno a una medicina più umana, nella quale anche le paure e il senso di impotenza del malato e del medico hanno un peso, accanto alla loro volontà.
Fra queste paure c´è anche quella legata alla stessa evoluzione della medicina: se io decido oggi, che succederà, se proprio nel momento in cui mi staccano la spina di un trattamento artificiale, la scienza scopre una nuova cura? Deve essere chiaro che il testamento biologico non esprime una decisione vincolante che incatena la professionalità medica (non voglio quella cura), ma piuttosto un "valore" soggettivo del malato (non voglio la vita artificiale); al medico rimane la decisione di merito circa i trattamenti e la valutazione se la situazione reale del paziente, alla luce dei nuovi progressi, corrisponda a quella prevista.
E poi quale medico e quale fiduciario (perché il testamento biologico prevede la nomina di una persona di fiducia che partecipi all´attuazione delle volontà) non applicherebbe comunque una terapia se ci fosse una minima speranza di ripresa di vita? La realtà è che in molti casi dobbiamo accettare il "non c´è più niente da fare". La scienza ha dei limiti nel qui e adesso. Alcune lesioni cerebrali che portano allo stato vegetativo permanente sono irreversibili. A meno che non crediamo nei miracoli o non accarezziamo l´idea di farci tutti mantenere artificialmente in vita, aspettando che qualcuno tra i "vivi di cervello" trovi una cura per gli altri. Sembra più un incubo o un film di fanta-terrore che un´ipotesi. Per ora non conosciamo neppure la realtà: tanto per cominciare non sappiamo esattamente cosa succede oggi negli ospedali. Ci sono casi che vengono alla ribalta, come quello di Eluana Englaro, e tanti altri (quanti? decine? centinaia?) che rimangono silenti. Come vengono gestiti, ufficialmente non sempre si sa. Non voglio insinuare con questo che in Italia ci troviamo nel Far West dei trattamenti di fine vita, ma far capire che dobbiamo affrontare il problema.
La mia battaglia per il testamento biologico non nasce per porre fine a un qualche oscuro fenomeno clandestino: è una lotta per i diritti dei malati. Credo che il testamento biologico sia un atto di civiltà. Per questo neppure la politica ci impedirà di negoziare la nostra morte. Se anche il Parlamento non riesce a trovare un accordo sulla legge, in base alla nostra stessa Costituzione (articolo 32), che sancisce il diritto all´autodeterminazione, il testamento biologico può essere considerato valido già oggi nel nostro ordinamento.
Certo una legge sarebbe opportuna. Ma piuttosto di una legge complicata, che introduce vincoli, procedure e burocrazia per il cittadino e per il medico, è meglio nessuna legge. In Germania il testamento biologico si è diffuso in assenza di un normativa: dopo che, nel 2003 la Corte Suprema tedesca ha affermato il carattere vincolante delle disposizioni anticipate nelle problematiche di fine vita sono ben 7 milioni i cittadini tedeschi che vi hanno fatto ricorso. Non sottovalutino mai medici e politici il livello di coscienza della gente e la forza della loro libera iniziativa, soprattutto nelle questioni che toccano le loro anime, come la morte e la sua negazione.

Repubblica 26.5.07
L'autonomia della persona e il ruolo del medico Ma c'è chi vuole l'eutanasia Chiarezza. Le persone sanno bene cosa vogliono: essere accompagnati a morire in un modo dignitoso
di Michele Aramini

Da alcuni mesi la Commissione sanità del Senato discute le numerose proposte di legge sul testamento biologico. Dopo il forte ottimismo iniziale di alcuni, i lavori hanno registrato uno stallo che ha impedito finora di licenziare un testo unificato da inviare all´aula. La ragione di questo rallentamento va cercata nel tentativo di alcune forze politiche di introdurre, per mezzo del testamento biologico, forme più o meno esplicite di eutanasia.
È noto che è proprio l´intenzione di usare il testamento biologico come cavallo di troia per l´eutanasia che sta determinando un grave inquinamento del dibattito sullo strumento giuridico delle direttive anticipate che, in linea teorica, potrebbe avere una qualche utilità.
Infatti, secondo la Convenzione sulla Bioetica di Oviedo il senso delle direttive anticipate dovrebbe essere quello di continuare un dialogo tra medico e persona malata, anche quando quest´ultima non fosse più in grado di esprimersi. Un particolare della Convenzione di Oviedo va messo in chiaro rilievo: essa afferma esplicitamente all´articolo 9, che le volontà del malato debbono essere prese in considerazione, ma che esse non hanno un valore vincolante per i medici.
Questo è il punto essenziale che viene ignorato dai sostenitori dell´eutanasia, i quali premono per inserire nel testamento biologico la possibilità per il paziente di dare indicazioni esplicitamente eutanasiche, a cui i medici sarebbero vincolati.
Il cambiamento di strategia dei sostenitori dell´eutanasia è evidente, ed è dovuto al fatto che l´opinione pubblica ha chiaramente percepito l´inconsistenza dei motivi che spingono a chiedere l´eutanasia: il primo motivo è quello del dolore insopportabile e il secondo quello di avere un nuovo diritto per allargare il campo della libertà personale, fino al punto di poter decidere quando morire.
Ora sul primo punto la medicina palliativa, vera rivoluzione della nostra epoca (è scandaloso che non sia ancora sufficientemente applicata) ha mostrato che si può trattare adeguatamente il dolore delle persone che soffrono, senza bisogno di uccidere nessuno. Sul secondo punto, l´esperienza olandese ha mostrato, con una chiarezza che non ammette repliche, che la libertà delle persone, lungi dall´essere stata incrementata, è stata consegnata nelle mani dei medici che sono sempre più i veri decisori. Sono essi infatti che accettano di somministrare l´eutanasia a pazienti che la richiedono o la negano se ritengono che la vita del paziente non sia ancora arrivata al punto di essere "vita senza valore". Sono ancora i medici che somministrano l´eutanasia anche senza richiesta, quando pensano che il paziente abbia superato il limite della "vita senza valore". Quindi si è passati dalla padella di una medicina molto invadente, dalla quale ci si voleva liberare con il presunto diritto all´eutanasia, alla brace di una consegna ancora più forte alla decisione dei medici.
In realtà le persone comuni non sanno fare molte distinzioni tecniche, ma sanno bene che cosa vogliono: non vogliono soffrire inutilmente, vogliono essere accompagnati alla morte in modo degno di una persona umana, quindi con le cure antidolore, le cure palliative nel loro complesso, comprendenti anche l´attenzione dei servizi sociali alla propria famiglia.
Per questi motivi, ritenendo fallita la campagna per convincere la popolazione dei "benefici" dell´eutanasia, i suoi sostenitori stanno cercando di introdurre il progetto eutanasico attraverso il più soffice motto "nessuno deve decidere per me", con l´invito a dettare indicazioni precise ai medici su ciò che dovrebbero fare o non fare di fronte a specifiche situazioni di malattia terminale.
Per essere un poco concreti, oltre a indicazioni quali il divieto di rianimare, di sospendere il sostegno del respiratore, si vorrebbe introdurre la possibilità di rifiutare anche l´alimentazione e l´idratazione del malato, al fine di farlo morire o di chiedere la somministrazione di analgesici in dosi mortali.
Diventa chiaro perciò il motivo per cui parliamo di strategia del cavallo di Troia a proposito del testamento biologico.
Il tema delle direttive anticipate richiede ancora almeno due sottolineature: l´autonomia del paziente, tanto sbandierata viene ampiamente contraddetta dalla maggior parte dei progetti di legge; il modello di medicina che questi progetti di legge assumono è da contestare.
Per quanto concerne il primo punto è veramente curiosa è l´insistenza con la quale si chiede che il testamento biologico sia redatto con l´ausilio di un medico. Il motivo è chiaro: il cittadino non è ritenuto capace di dare disposizioni da solo, perché non conosce la medicina e le situazioni a riguardo delle quali dovrebbe dare indicazioni. Ma ci si può chiedere se il medico si limiterà alle spiegazioni o suggerirà anche le soluzioni che lui riterrà più opportune. Mi pare che si ripeta il modello olandese e che sia fortemente a rischio l´autonomia effettiva dei pazienti.
Per il secondo punto, quasi tutti i progetti di legge prevedono che le disposizioni del paziente siano vincolanti per i medici. Il medico curante potrebbe discostarsene solo in casi limitati e sulla base di motivazioni precise. In tal modo si riduce il medico a esecutore, svilendo l´alleanza terapeutica tra medico e paziente, bene preziosissimo che non deve essere in nessun modo intaccato.
Infine appare perfino autoritaria la previsione di alcuni progetti di legge sull´obbligo di fare testamento biologico. E appare un po´ grottesca l´insistenza con cui i medici dovrebbero periodicamente interpellare i propri assistiti per invitarli a prendere posizione.
Anche qui è ovvia la domanda su dove sia finita l´autonomia personale.

Repubblica 26.5.07
Dostoevskij. Il terribile segreto
di Orhan Pamuk


La sua profondità scaturisce dall'invidia, la rabbia, l'orgoglio di non essere europeo
Nella narrazione di Proust l'intensità è data dalla bellezza delle metafore dalla loro visibilità
In Thomas Mann la caratteristica che rende memorabili i personaggi è sempre visiva e pittorica
Tolstoj è un vero maestro nel cogliere in una situazione, in un attimo, i dettagli più significativi

Amo la bellezza della loro prosa e il vigore delle loro descrizioni. Secondo me, Tolstoj, Proust e Mann sono i più grandi scrittori della storia del romanzo perché, oltre a realizzare maestosi, ricchi e precisi affreschi, suscitano nel lettore un sentimento di bellezza. Quando li leggo, avverto sempre che una buona parte della gioia che provo è visiva. I piaceri suscitati dall´intreccio narrativo delle loro storie sono tutt´uno con quello di immaginare una scena. Tolstoj è un vero maestro nel cogliere, in una situazione, in un attimo, i dettagli più significativi. Nella maggior parte dei casi questo elemento stimola il nostro piacere visivo, la nostra forza di ricordare attraverso la visione. Vediamo in Tolstoj il dramma di un uomo, oppure un aspetto ordinario della sua storia, insieme agli oggetti, alle stanze e all´ambiente in cui vivono i personaggi del romanzo. E Thomas Mann, che riconosceva in Tolstoj un maestro, ha felicemente dato forma alla sua letteratura grazie all´abilità nel narrare e descrivere. In Mann, la caratteristica che contraddistingue i personaggi, rendendoli memorabili, è sempre visiva e pittorica. Nella narrazione di Proust, ciò che suscita un senso di profondità nel lettore è la bellezza delle metafore, e la loro visibilità. Per me, leggere i romanzi di questi tre grandi romanzieri è come ammirare le opere realizzate agli albori dell´impressionismo. Quando leggo Tolstoj, Mann e Proust ho davanti agli occhi tinte e fantasie ben definite, come se m´incantassi a fissare i particolari di un grande affresco. Il senso di profondità che provo mentre li leggo è strettamente connesso alla bellezza di questi disegni.
Naturalmente ci sono scrittori che raggiungono risultati simili in altri modi. Oggi vi parlerò di uno di loro – Dostoevskij –, senza dubbio il più grande scrittore di tutti i tempi per la profondità ottenuta attraverso la sua capacità di toccare i punti più bui e inesplorati dell´animo umano: il suo posto è accanto a Tolstoj, Proust e Mann… Tuttavia Dostoevskij non raggiunge questo senso di profondità realizzando quadri affascinanti oppure considerando in termini pittorici l´ambiente in cui vivono i suoi personaggi. Perdipiù, quando leggiamo Dostoevskij, non abbiamo davanti agli occhi né colori né quadri… Al contrario, i disegni che abbiamo in testa si riducono a poche tracce essenziali, e i colori si limitano a un semplice bianco e nero. Come se il mondo avesse smarrito i suoi toni e le sue sfumature. Ma il senso di profondità e il piacere che proviamo ci assicurano che stiamo leggendo uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi…
Come raggiungeva questa profondità che non aveva alcun aspetto visivo? Il tema di oggi è proprio questo… Qual è il segreto di Dostoevskij? Per dare una risposta a queste domande, cercherò di osservare da vicino le Memorie del sottosuolo, ovvero l´opera in cui l´autore ha trovato la sua vera voce, e prenderò in esame alcune sue caratteristiche. Penso che la profondità raggiunta da Dostoevskij nei suoi romanzi dipenda sia dal bisogno di credere in un assoluto, sia dal desiderio di smitizzare, di abbattere questa dimensione. Ritengo che il segreto del mondo letterario dostoevskiano risieda nella profonda fede nutrita dai suoi personaggi verso questo assoluto, nell´anelare a un obiettivo così alto anche se in contrasto con la vita che conducono, perché essi si fanno istintivamente catturare dai sogni e dai pensieri che, inesorabilmente, rendono irraggiungibile il traguardo…
Naturalmente, questo "assoluto" era, negli anni della sua giovinezza, l´occidentalismo… Allora Dostoevskij era un fervente occidentalista, e credeva che la salvezza della Russia passasse attraverso l´introduzione nel suo paese dei valori e dei pensieri dell´Occidente. Per questi ideali, a quei tempi fece parte di un piccolo gruppo politico; venne arrestato e allontanato. Rientrato in età adulta nella Russia europea, Dostoevskij abbandonò progressivamente il suo ideale di occidentalismo, per credere infine in qualcosa di completamente diverso, il panslavismo. A essere importanti non sono i pensieri politici degli scrittori, bensì i loro comportamenti ispirati da tali pensieri. Ciò che cogliamo in Dostoevskij è la profondità dei suoi romanzi, che scaturisce dal suo rapporto di amore e odio verso l´Occidente. Ora esaminerò le questioni relative alla scrittura e al mondo delle Memorie del sottosuolo.
Conosciamo tutti il piacere provocato dall´umiliazione. Un attimo; forse è meglio che mi corregga: abbiamo tutti avuto nella vita momenti in cui abbiamo scoperto di provare piacere e sollievo dall´umiliare noi stessi. Quando ci ripetiamo con rabbia, per crederci davvero, di essere meschini, di non valere niente, sappiamo che ci stiamo liberando di tutto quel peso etico di essere come gli altri, della soffocante preoccupazione di rispettare le regole e le leggi, dell´obbligo di sforzarci di somigliare alle altre persone. Sia ricevere umiliazioni sia umiliare noi stessi, agendo prima degli altri, ci porta comunque al medesimo punto: qui diventiamo facilmente noi stessi, e siamo felici, circondati dal nostro odore, dalla nostra sporcizia, dalle nostre abitudini; qui abbandoniamo l´idea di migliorarci e di alimentare pensieri ottimistici nei riguardi degli altri uomini; qui stiamo così a nostro agio da essere quasi riconoscenti alla nostra ira e al nostro egoismo, perché sono loro che ci hanno portati a questo punto di libertà e solitudine, e li ricordiamo spesso.
Ogni volta che leggo le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, penso che l´opera mi voglia dire proprio questo. All´inizio, tuttavia, più che il piacere e la logica dell´essere umiliati, mi aveva entusiasmato la rabbia del protagonista, il suo linguaggio sferzante, sarcastico e divertente, la sua solitudine in una grande città come Pietroburgo. Consideravo l´Uomo del sottosuolo simile a Raskòl´nikov – il protagonista di Delitto e castigo –, che non prova più il senso di colpa. Aveva un linguaggio e una razionalità molto divertenti grazie al suo cinismo. Quando avevo diciott´anni, le Memorie del sottosuolo mi avevano toccato perché esprimevano apertamente molte cose che vivevo, che sentivo a Istanbul, e che sapevo senza rendermene conto.
Molte caratteristiche personali di questo individuo che si estraniava dalla vita mi erano parse subito e facilmente simili alle mie, perché prima di tutto diceva che "è sconveniente vivere più di quarant´anni" (Dostoevskij aveva quarantatré anni quando esprimeva questo pensiero attraverso il suo protagonista), e poi si considerava isolato dal suo paese perché era avvelenato dai libri occidentali, pensava che l´eccesso di consapevolezza fosse una malattia, anzi, che ogni forma di consapevolezza fosse una malattia, si accorgeva di alleviare i suoi dolori attribuendosi delle colpe, trovava abbastanza stupido il proprio volto e faceva dei giochi solitari, come ad esempio provare a "sopportare lo sguardo di qualcuno"… Queste caratteristiche, che consideravo simili alle mie, mi legavano a quel personaggio, e accettavo la sua "stranezza ed estraneità" senza pormi domande. Forse a diciott´anni avevo intuito quella realtà profonda a cui alludevano il libro e il suo protagonista in un modo particolare; ma siccome non mi piaceva, anzi mi spaventava, l´avevo rimossa senza approfondirla.
Oggi, dopo averlo riletto molte volte, posso ormai dire con maggior tranquillità qual è per me il vero argomento di questo libro, e cosa gli dà energia: l´invidia, la rabbia e l´orgoglio di non essere europei. A diciott´anni, avevo confuso la rabbia dell´Uomo del sottosuolo, nonostante le molte caratteristiche in cui mi riconoscevo, con la sua emarginazione personale. Siccome mi piaceva considerarmi il più occidentalizzato possibile, come fanno tutti i turchi occidentalizzati, pensavo che fosse una stranezza filosofica ciò che spingeva l´Uomo del sottosuolo, da me assai amato, a stare lì, e non certo un problema psicologico con l´Europa. Il pensiero europeo da Nietzsche a Sartre, oppure l´esistenzialismo che si diffuse in Turchia alla fine degli anni Sessanta, mi spiegavano la stranezza dell´Uomo del sottosuolo attraverso concetti che mi parevano molto "europei", e mi allontanavano da ciò che il libro mi suggeriva.
Per far capire meglio i segreti delle Memorie del sottosuolo a coloro che vivono come me ai margini dell´Europa, combattendo con il pensiero europeo, è necessario riandare agli anni in cui Dostoevskij scrisse questo strano romanzo.
Nel 1863, Dostoevskij aveva intrapreso il suo secondo viaggio in Europa, che si concluse con un triste fallimento. Aveva in testa di fuggire dalla malattia di sua moglie, dall´insuccesso della rivista "Vremja" (Il tempo) che dirigeva, e da Pietroburgo. Inoltre, progettava di incontrare in segreto a Parigi la sua amante Apollinarija Suslova, vent´anni più giovane di lui. (In un altro viaggio si incontrano nella stessa città, e lui nasconde la Suslova da Turgenev.) Ma con una indecisione tipicamente dostoevskiana, invece di recarsi dall´amante, va prima a giocare d´azzardo a Wiesbaden e qui perde un sacco di soldi. Questa disavventura segna in modo decisivo il suo rapporto con la giovane e crudele donna. La Suslova si trova un altro amante mentre aspetta Dostoevskij, e glielo confessa quando si incontrano a Parigi. Lacrime, minacce, implorazioni, umiliazioni, odio, continui dolori e miseria… Dostoevskij vive tutto ciò che vivono i protagonisti maschili delle sue opere, come Il giocatore e L´idiota: questi protagonisti si umiliano e si perdono completamente di fronte alla donna forte e fiera, trasformando la loro sofferenza in una sorta di orgoglio.
Quando ritorna in Russia lasciando la sua amante con un sentimento di sconfitta, viene a sapere che la moglie, malata di tubercolosi, sta morendo. Il fratello Michail sta cercando di acquistare i diritti di una nuova rivista, "Epocha" (Epoca). Alla fine ci riesce, ma hanno pochi soldi, e il numero di gennaio esce solo a marzo; inoltre ci sono pochi abbonati, e l´impaginazione della rivista è orrenda. Quando le Memorie del sottosuolo vengono pubblicate in tali condizioni di disagio e difficoltà finanziarie, in Russia non compare nemmeno un articolo al riguardo.
Un altro punto da tenere in considerazione è il fatto che le Memorie del sottosuolo inizialmente erano state progettate da Dostoevskij come articoli di opinione. La sua prima idea era quella di scrivere una critica al romanzo di Cernyševskij Che fare?, pubblicato un anno prima. Questo libro, molto amato dai giovani occidentalisti e modernisti, non era soltanto un romanzo, ma anche un testo istruttivo sull´ottimismo positivista e illuminista. Fu tradotto pure in turco, alla metà degli anni Settanta, e pubblicato a Istanbul con una premessa che attaccava Dostoevskij (definito reazionario, torbido e piccolo-borghese); venne accolto con la stessa fantasia infantile, deterministica e utopica anche dai giovani comunisti turchi ammiratori dell´Unione Sovietica. Dentro il cuore riesco a sentire ciò che in questo libro irritò Dostoevskij.
È una sorta di ribellione al modo di utilizzare il pensiero europeo nel proprio paese, e di renderlo assoluto, più che un esempio di aperta ostilità nei confronti dell´Occidente e dei suoi valori. Dostoevskij se la prendeva, più che con il razionalismo, l´opportunismo o l´utopismo, con il facile entusiasmo indotto da queste idee nelle persone. Non sopportava gli intellettuali russi che credevano di possedere tutti i segreti del mondo, oltre a quelli del loro paese, pervasi dal loro autocompiacimento. Per questo motivo, all´inizio la lotta di Dostoevskij non era contro la semplice e infantile "dialettica deterministica" che i giovani russi imparavano leggendo Cernyševskij, bensì contro il modo di interpretare questo pensiero, e contro il sentimento di successo e felicità che esso suscitava dentro di loro. Penso anche che criticasse spesso i russi occidentalisti usando come pretesto il loro distacco dal popolo. Perché Dostoevskij credesse a un pensiero, era necessario che fosse, più che razionale, "senza successo", e più che convincente, fosse vittima di un´ingiustizia. Dietro all´ira e all´odio che Dostoevskij iniziò a provare negli anni Sessanta del XIX secolo nei confronti dei liberali occidentalisti e dei modernisti che diffondevano in Russia le idee utopistiche di Fourier, c´era il fatto che queste persone si considerassero, e vedessero i loro pensieri, di "successo": condannava il loro grande interesse per l´affermazione personale, e il fatto che fossero disposti a tutto pur di raggiungerla. (...)
Dostoevskij sapeva che in Russia si poteva andare avanti con l´occidentalismo, ma d´altra parte nutriva sentimenti di rabbia nei confronti degli intellettuali occidentalisti, materialisti e superbi; ecco, questa tensione fra la sua consapevolezza e la sua ira ha contribuito alla stranezza, singolarità e autenticità delle Memorie del sottosuolo. Come ci ricordano tutti gli studiosi di Dostoevskij, questo è il primo libro in cui lo scrittore trova la sua vera voce; è un´introduzione ai suoi futuri grandi romanzi, di cui il primo è Delitto e castigo. È molto interessante osservare ciò che fa Dostoevskij a questo punto della sua vita, preso com´è fra le sue convinzioni e la sua ira.
Dostoevskij non ha mai scritto quella critica al romanzo di Cernyševskij che aveva promesso a suo fratello per la rivista "Epocha". Questo si può spiegare con l´impossibilità di scagliarsi contro una logica che riteneva giusta. Poteva criticare quel libro solo servendosi dei suoi personaggi: gli autori come Dostoevskij, che traggono forza dall´immaginazione più che dalla razionale connessione di idee, amano esprimere i propri pensieri attraverso romanzi o racconti. La prima parte delle Memorie del sottosuolo è una sorta di saggio: viene pubblicata separata dal romanzo.
Il monologo rabbioso di un uomo di Pietroburgo intorno ai quarant´anni, che lascia il suo lavoro da impiegato perché riceve una piccola eredità e rinuncia così alla vita sociale abbandonandosi a una solitudine e a una condizione di spirito che chiama "sottosuolo", costituisce questa prima parte del libro. Il protagonista condanna l´atteggiamento che Cernyševskij nel suo romanzo definisce "egoismo razionale". (...) L´Uomo del sottosuolo si oppone anche alla razionalità scientifica – due per due fa quattro –, che è l´arma più potente del pensiero occidentale.
A questo punto la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta non alla logica legittima (perché prima di tutto più matura) contro Cernyševskij dell´Uomo del sottosuolo, ma al fatto che Dostoevskij abbia creato un protagonista convincente che ha questi pensieri e li difende. Infatti, le scoperte che Dostoevskij fa mentre crea questo protagonista risaltano con evidenza nei suoi romanzi successivi, e costituiscono la sua vera identità di romanziere: comportarsi contro il proprio interesse, ricavare piacere dalla sofferenza, cominciare di punto in bianco a difendere con passione il contrario di ciò che ci si aspetterebbe da lui (cioè razionalità europea e opportunismo). Essendo stato successivamente molto imitato, forse oggi è difficile osservare questa sua autenticità. Ma per dimostrare che l´uomo non è una creatura che si comporta sempre secondo il proprio interesse, prendiamo ad esempio una piccola esperienza dell´Uomo del sottosuolo.
Il protagonista, una notte, mentre passa davanti a una squallida taverna vede gente che fa a pugni intorno al tavolo da biliardo. Assiste a una scena in cui uno viene gettato fuori dalla finestra. È invaso da un sentimento di gelosia: desidera anche lui essere umiliato come quell´uomo ed essere buttato fuori dalla finestra. Entra nel locale, però non viene picchiato come desidera, bensì umiliato in un altro modo. Un ufficiale lo spinge da una parte perché intralcia il passaggio; ma lo fa senza prenderlo minimamente in considerazione. E lui ci rimane male di fronte a un atteggiamento che non si aspettava.
In questa breve scena vedo tutti gli elementi caratteristici dei suoi romanzi successivi. Dal momento che Dostoevskij, proprio come Shakespeare, è un grande scrittore che ha cambiato e arricchito l´idea che l´umanità aveva di se stessa, leggiamo nelle Memorie del sottosuolo i primi accenni alla nuova visione dell´uomo, e riusciamo quasi a vedere come si è sviluppata questa grande scoperta. L´insuccesso e l´infelicità avevano allontanato Dostoevskij dal mondo spirituale dei vincenti, di coloro che stanno "dalla parte della ragione" e dei superbi; lui aveva cominciato a nutrire sentimenti di rabbia nei confronti degli intellettuali che disprezzavano il popolo russo e quelli come lui, ed era rimasto schiacciato fra il desiderio di lottare contro l´occidentalismo e il fatto di aver avuto un´istruzione occidentale, e di usare un´arte occidentale (l´arte del romanzo). Le Memorie del sottosuolo nascono dal desiderio di scrivere una storia che attraversi questi stati d´animo, e di creare un protagonista e un universo che abbraccino in modo convincente tutte queste contraddizioni.
Dostoevskij, una volta iniziato il libro, aveva scritto al fratello editore: "Non so nemmeno io quello che ne verrà fuori. Forse una cosa orrenda". Le grandi scoperte della storia letteraria, proprio come lo stile di scrittura personale, spesso non si realizzano attraverso progettazioni e calcoli. Le scoperte sorprendenti e liberatorie sorgono, come osserviamo nelle Memorie del sottosuolo, dall´estremo sforzo immaginativo fatto dagli scrittori creativi per venir fuori da situazioni contraddittorie e paradossali.
All´inizio anche i creatori possono non rendersi completamente conto delle conseguenze che avranno le loro opere. Ma se oggi nella nostra visione dell´uomo c´è il fatto di amare e accettare il nostro odore, la nostra sporcizia, le nostre sconfitte e le nostre sofferenze, e scorgiamo una logica nel provare piacere dall´umiliazione, il punto di partenza si trova nelle Memorie del sottosuolo. Comunque è confortante ricordare che molte novità della letteratura moderna sono nate dallo struggente dissidio fra l´attrazione per il pensiero europeo e l´ira nei suoi confronti, fra l´essere europei e l´opporsi all´Europa, fra il razionalismo e il ribellarsi sentimentalmente a esso da parte di Dostoevskij.
I romanzieri hanno realizzato le opere più belle dell´arte del romanzo non quando credevano in un assoluto, bensì quando lo cercavano pur in un rapporto di conflittualità.

(Traduzione di Semsa Gezgin,
cura editoriale di Walter Bergero)



Corriere della Sera 26.5.07
La sinistra radicale esulta: ora niente trappole sull'età Russo Spena: recuperato il filo con l'elettorato. Damiano: hanno scoperto il nostro pacchetto
di Enrico Marro


ROMA — A sentire la solare Manuela Palermi, con Tommaso Padoa-Schioppa non poteva andare meglio: ha dato il via libera alla «svolta sociale» e ha perfino annunciato che «il risanamento è stato fatto e non c'è quindi bisogno di una nuova Finanziaria per questo, ma solo per fare investimenti e interventi sociali».
Poi certo la capogruppo al Senato del Pdci, con un bel sorriso, aggiunge: «Ora incrocio le dita perché voglio comunque vedere i provvedimenti». Scaramanzia a parte, però, i capigruppo della sinistra radicale, appena finito il vertice di maggioranza col presidente del Consiglio Romano Prodi e col ministro dell'Economia, corrono a cantare vittoria. I microfoni e le telecamere sono tutti per loro.
Ci sono almeno due risultati positivi, spiega Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rifondazione al Senato: «Primo, se il governo resiste come io mi auguro, si apre una prospettiva di un paio di Finanziarie dedicate alla redistribuzione. Finanziarie sociali e ambientali. Secondo, si può recuperare la connessione sentimentale col popolo della sinistra». Tradotto, si parla di 250 euro come «regalo » di Natale per almeno 2 milioni di anziani poveri e poi di aumenti strutturali dal 2008, oltre che dei contributi figurativi per i precari e dell'aumento dell'indennità di disoccupazione. Pensionati e precari: «I due soggetti sociali di riferimento », come li chiama Palermi.
Insomma un quadro non proprio scontato alla luce dello scontro di qualche giorno fa tra i sindacati e lo stesso Padoa- Schioppa, con il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, a dire che «non si può fare la riforma delle pensioni con la calcolatrice» e quello della Cisl, Raffaele Bonanni, a dare del «provocatore» al ministro, mentre i metalmeccanici della Fiom incoraggiavano scioperi più o meno spontanei in numerose fabbriche del Nord. Senza contare che, prima del vertice di ieri, Francesco Rutelli aveva consegnato a Prodi un documento con le richieste della Margherita per il Dpef all'insegna dello slogan «prima la famiglia, poi lo scalone».
Ma anche le sinistre radicali (Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica) hanno fatto altrettanto, presentandosi al vertice con un documento comune, ovviamente con posizioni opposte a quelle della Margherita. «Per noi — sintetizza Russo Spena — lo scalone non va ammorbidito come ha detto Damiano (il ministro del Lavoro, ndr.), ma abolito». Figuriamoci se si può prendere in considerazione l'aumento dell'età pensionabile per le donne, adombrato dalla Margherita e proposto con forza dal ministro delle Politiche comunitarie, Emma Bonino, e dall'ex presidente del Consiglio, Lamberto Dini. «Quelli come Dini — sentenzia la capogruppo del Pdci — sono forti quando il governo è in difficoltà. Invece dopo la svolta riavremo parecchio consenso e quindi non mi preoccupo. Quanto alla Bonino, è l'unico ministro a chiedere questa cosa. Mentre per noi è stata utilissima la lettera dei quattro ministri », Bianchi, Ferrero, Mussi e Pecoraro Scanio, che qualche giorno fa hanno appunto chiesto a Prodi la svolta sociale.
Il nodo dello scalone comunque non è stato sciolto nel vertice. Tutti hanno preferito rinviare la questione alla trattativa in corso tra governo e sindacati e così si è evitato lo scontro. Non solo. A sentire certi commenti ci sarebbe una certa dose di propaganda nella soddisfazione dei massimalisti. Al ministero del Lavoro, per esempio, notano con sarcasmo come la sinistra estrema abbia «finalmente scoperto il pacchetto Damiano». Eppure quel pacchetto sta lì da mesi: pensioni basse, precari, ammortizzatori. E al ministero dell'Economia si conferma che per questi interventi ci sono sempre i soliti 2,5 miliardi e che se si mette mano allo scalone bisognerà trovare le compensazioni nello stesso sistema previdenziale. Insomma, non ci sarebbero novità.
Anche se la novità potrebbe spuntare in extremis. Damiano, che per tutta la vita ha fatto il sindacalista, ama ricordare che alla fine, per chiudere gli accordi, i governi hanno spesso messo un ultimo regalino sul tavolo. In questo caso, magari attingendo a un extragettito ancora maggiore del previsto. «Finora la sinistra radicale ha avuto voce in capitolo — dice Nicola Rossi, uno dei quattro riformisti che ieri hanno scritto sul Corriere l'appello al governo a non cedere — e quindi possiamo aspettarci di tutto». Ma alla fine per vedere se il governo avrà contenuto o no l'offensiva da sinistra c'è un modo, suggerisce Rossi: «Verificare se resta vero che non ci sarà una manovra di aggiustamento dei conti per il 2008. Perché se invece dovessimo scoprire che dobbiamo fare una manovra per finanziare la spesa corrente, compresa quella pensionistica, allora si aprirebbe un serio problema di credibilità per il ministro dell'Economia».

Corriere della Sera 26.6.07
Elie Wiesel: le religioni e l'ombra del Male «Cristiani, ebrei, musulmani: ormai nel nome di tutti i credo i fanatici guadagnano terreno»
di Elie Wiesel


Il diritto al dubbio si basa sul dialogo contro ogni forma di assolutismo

Elie Wiesel (foto C.J. Walker / Corbis) è nato il 30 settembre 1928 a Sighet, in Romania: Premio Nobel per la Pace nel 1986, è oggi presidente della «Elie Wiesel Foundation for Humanity»

Cercare di descrivere l'Assoluto significa sminuirlo o tradirlo. Come l'amore, si può essere pro o contro, ma non parlarne dall'esterno. Il linguaggio dell'amore può essere ingannevole proprio come quello dell'Assoluto (...). In linea di principio, l'Assoluto offre visioni ai mistici e terrorizza i pensatori, che raramente sanno come affrontarlo: come si fa a parlare dell'Assoluto in termini assoluti? Per il credente, Dio è assoluto. Malgrado il suo comportamento apparentemente paradossale, che sembra essere al tempo stesso misericordioso e giusto, inflessibile e caritatevole? Sì, malgrado questo, malgrado tutto. Dio si può permettere di essere assoluto nella sua essenza e relativo nei suoi atteggiamenti. Di conseguenza, per dirla con Kafka, è possibile parlare con Dio ma non di Dio. Il rabbino Eliézer Hakalir, un grande poeta liturgico dell'antichità, dice da qualche parte: Hou yedatif, heyitif — Se conoscessi Dio, sarei Dio. In altre parole: la conoscenza, in questo caso, non significa solo possesso ma anche identificazione. Ambizione forse troppo grande? (...). Nel romanzo La peste, Camus solleva una domanda interessante: si può essere santi senza Dio? Possiamo forse spostare il suo interrogativo nella direzione che ci interessa in questo momento: la ricerca dell'Assoluto è concepibile senza Dio?
(...)Un tentativo del genere è stato fatto nel secolo scorso, segnato e ferito da due ideologie, due movimenti totalitari: il nazismo da una parte, il comunismo dall'altra, entrambi guidati da personaggi che l'avidità di potere assoluto aveva privato della capacità di raziocinio, Hitler e Stalin. Avendo conquistato la totalità del potere decisionale, essendo arrivati a invadere tutti gli ambiti della vita pubblica e privata dei loro rispettivi Paesi, l'obiettivo dei due dittatori era quello di cambiare non solo il mondo ma anche la condizione umana in sé. Per entrambi, qualsiasi decisione doveva essere, e in effetti lo era, definitiva, irrevocabile.
Sottoposto alla medesima autorità, l'Assoluto diventava allo stesso tempo fine e mezzo, governando senza pietà a Berlino e a Mosca e non solo, in ogni Stato, provincia, città, villaggio. Il minimo gesto di opposizione o malcontento, la più semplice esitazione volevano dire il carcere, la tortura, la morte. Era forse, il loro, un Assoluto privo di Dio? Era un Assoluto concepito e messo in pratica da uomini che pensavano di essere Dio e che, dunque, tutto fosse loro permesso.
Ciascuno, a suo modo, poteva contare sul sostegno entusiastico di milioni di sudditi appartenenti a tutte le sfere del Paese. Come ci spieghiamo questo, oggi? Con il loro attaccamento a un ideale? A un ideale qualsiasi, necessario se non indispensabile per il singolo, anche se quell'ideale — per la sua natura violenta e criminale, totalmente violenta, sanguinosa e criminale — è destinato a provocare una catastrofe giudicata irreparabile dai milioni di persone che ne furono vittime? Perché non ammetterlo? All'epoca, l'umanità si è dimostrata capace di raggiungere il male assoluto, mentre il bene assoluto restava inafferrabile. Erano i giorni e le lunghe notti in cui l'impossibile diventava possibile, l'impensabile diventava la norma.
Fu fondato un universo parallelo al nostro, una creazione simile, o forse opposta, alla nostra, con le sue classi sociali, i suoi principi e i suoi mendicanti, profeti e schiavi, invenzioni e costumi, filosofia e linguaggio.
In quei Paesi venivano violate, corrotte, le leggi stesse della natura: il cieco potere del più giovane e umile soldato delle SS era più grande di quello delle centinaia e centinaia di poeti e scienziati che aveva di fronte. A costoro era proibito guardarlo negli occhi: non si guarda negli occhi Dio, o la Morte, impunemente. Vestito con la sua uniforme nera, il soldato era la personificazione di un indiscusso diritto di vita o di morte. E l'uccisore di innocenti e dei figli di innocenti non si sentiva nemmeno colpevole.
Oh sì, in quei tempi bui abbiamo imparato che c'erano migliaia di modi per morire, ma pochissimi per vivere mantenendo la fede nell'Assoluto. Oh sì, l'Assoluto stesso aveva perso il suo significato umano e la sua vocazione divina. Perché, quando l'Assoluto si trasformava in potere assoluto, diventava la negazione della libertà e il nemico di chi, la libertà, voleva difenderla. Era inevitabile. L'Assoluto finisce per chiudersi a chiave dall'interno. Non può respirare, accanto a chi mette in dubbio la sua legge. Soffoca i sogni e diventa efferato, dunque pericoloso.
Questo valeva allora. E adesso? Stiamo forse assistendo a un ritorno della inesorabile ricerca dell'Assoluto? Sì, in tutte le religioni di oggi in cui gli estremisti guadagnano terreno in numero e forza. Lo so: dentro di voi, il pensiero va all'Islam, ma l'Islam non è il solo a sedurre fanatici. Il cattolicesimo ha i suoi, così come il protestantesimo e l'ebraismo. Fu un giovane fanatico ebreo ad assassinare il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin.
Per quanto riguarda l'Islam, lungi da me l'intenzione di condannare un'intera religione — non ho mai creduto nelle colpe collettive — ma mi sento in dovere di denunciare la nuova ondata di nemici dell'umanità, i terroristi kamikaze, che rappresentano una minaccia per la civiltà (...). Sostengono di agire in nome della loro religione e si considerano martiri. Ma tanto la tradizione giudaica quanto quella cristiana ci insegnano che un vero martire non è qualcuno che uccide per Dio, ma qualcuno che muore per Dio. Chiunque pretenda di commettere omicidi in nome di Dio lo trasforma nel complice di un omicidio. L'Inquisizione non ha certo dato lustro alla Chiesa. Ricordate le parole rivolte da Giordano Bruno ai propri giudici in Campo de' Fiori a Roma: forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla (...).
La ricerca dell'Assoluto può essere proficua anche se rimane vana? A questa domanda io risponderei di sì: sì, a patto che rimanga vana. L'Assoluto è plausibile come sfida, nel senso platonico del termine. È quando raggiunge il proprio obiettivo che la ricerca si trasforma in una minaccia (...). Io credo nella validità e nella forza delle domande, mentre diffido di coloro che sostengono di aver trovato le risposte. Sono fanatici. Rifiutando il fanatismo in tutte le sue forme, chiedo che mi venga riconosciuto un piccolo diritto, già celebrato da Erasmo e Montaigne: il diritto del dubbio. E un altro, che lo precede di secoli e secoli, plasmato e illustrato dai grandi maestri del Talmud
di Gerusalemme e di Babilonia: il diritto di entrare in dialogo. È solo quando fallisce il linguaggio che emerge la violenza. E allora ce ne vergogniamo, e proviamo rimorso.
Come si combatte l'Assoluto? Il suo opposto non è né il nichilismo né un altro assoluto. È il prepotente bisogno dell'uomo di restare umano persino in circostanze disumane. E il riconoscere nell'«altro» non un essere inferiore o un nemico, ma un proprio simile e un alleato. Solo una persona come me può gettarmi nella disperazione; e solo una persona come me può trasformare la mia disperazione in speranza.
(Traduzione di Carlo Prosperi © Elie Wiesel, per gentile concessione di Luigi Bernabò Associates)


Liberazione 26.6.07
La candidatura di Veltroni spinge la sinistra ad unirsi. Presto
di Andrea Colombo


Ci sono almeno tre ragioni per cui la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Pd e di fatto alla premiership nelle prossime elezioni dovrebbe indurre i partiti della sinistra ad accelerare la marcia verso la formazione di un soggetto unitario.
La prima, forse quella meno importante, è veicolata da un calcolo certamente "di bottega" ma non per questo irrilevante. Una porzione piuttosto ampia della base elettorale dell'Unione è palesemente smarrita e indecisa. Oscilla tra l'eterno fascino esercitato a sinistra dall'unità come valore in sé, sempre e comunque positiva, e la cocente delusione rappresentata dalla gestazione del partito unitario. Non ha deciso cosa farà, e la scelta sarà orientata in buona misura dalla suggestione innovativa che le diverse forze sapranno esercitare sul mercato politico. Veltroni, da questo punto di vista, può senza dubbio esercitare quel fascino e quell'attrattiva di cui sinora il Pd è stato a dir poco carente. Per competere, l'ala sinistra della coalizione deve mettere in campo un elemento di speranza e innovazione capace di altrettanto impatto e magari meno superficiale. Non si vede quale potrebbe essere se non un vero nuovo soggetto della sinistra.
La seconda ragione riguarda la natura del Pd. Forse Veltroni non riuscirà a fornirlo di una vera e progettuale identità politica, è probabile in compenso che lo doti almeno di una fisionomia riconoscibile ed è quasi certo che il suo arrivo metterà fine alla guerra per bande che lo stava strangolando nella culla, con ricadute devastanti sulla tenuta del governo. Ma la presenza di un partito di centrosinistra, magari dall'identità ancora fragile ma non più inesistente, obbliga l'ala sinistra della coalizione a mettere in campo una massa d'urto capace di controbilanciarne il peso e condizionare le scelte di un'eventuale alleanza senza doversi accontentare delle briciole. In concreto senza farsi rinchiudere nel recinto del "diritto di tribuna", quello in cui tutti, probabilmente anche Veltroni, la rinchiuderebbero più che volentieri se appena potessero. E' ovvio che una quantità di partiti minori, a volte uniti e a volte divisi, non potrebbe in alcun modo dare corpo efficacemente a questa massa d'urto.
La terza considerazione riguarda le possibilità di vittoria alle prossime elezioni. Mettere in campo la candidatura del sindaco di Roma, un tipo popolare assai, è stata certamente una mossa azzeccata, ma di qui a illudesi che basti a recuperare uno svantaggio elettorale di proporzioni oggi inaudite ce ne passa. Anche perché una parte tutt'altro che esigua dell'elettorato di sinistra chiede sì innovazione e discontinuità, ma non è disposta ad affidarsi a un singolo leader, fosse pure il più popolare del mondo. Per vincere le elezioni bisogna mettere in campo, insieme a una candidatura dotata di appeal, una novità politica più strutturata e progettuale, meno televisiva e personalistica. Da questo punto di vista, nessun Veltroni può supplire ai limiti del Pd. La responsabilità di mettere in campo quella forza nuova e innovatrice pesa tutta sulle spalle dell'ala sinistra della coalizione.
Ci sarebbe infine, una quarta considerazione necessaria, e riguarda proprio lui, super Walter. Gli osanna di questi giorni sono stati a conti fatti un po' imbarazzanti. Il sindaco di Roma ha davvero di fronte a sé diverse strade, come gli ha ricordato oggi con tutta la brutalità del caso Galli della Loggia dalle colonne del "Corriere della Sera". Dovrà scegliere tra diverse opzioni politiche, e arriverà il momento in cui il richiamo a Luther King o a don Dilani non basterà più. A quel punto sulle scelte di Veltroni, che è un politico assai più freddo e lucido di quanto non voglia apparire, sarà determinante il conto dei rapporti di forza nel centrosinistra. La presenza di un soggetto di sinistra sarà decisiva anche per determinare chi sarà davvero Walter Veltroni nella sua prossima e imminente incarnazione.