venerdì 29 giugno 2007

Liberazione 29.6.07
Il Piddì verso Montezemolo
Allarme rosso per la sinistra
Il discorso di Veltroni pone il partito fra i moderati
di Ritanna Armeni


Non ci aspettavamo che Veltroni facesse un discorso di sinistra, che collocasse quindi il nascente Pd, anche elettoralmente oltre che culturalmente, nella tradizione e nello spazio politico della sinistra. E, tuttavia siamo rimasti sorpresi perché il discorso del candidato leader sul futuro partito democratico è stato talmente netto da provocare anche in chi si aspettava più o meno quei contenuti una reazione istintiva e immediata: sì in questo paese ora è davvero urgente far nascere una forte sinistra perché se questo non avviene in tempi brevi, le conseguenze potrebbero essere molto serie. Nei prossimi anni (e non nei prossimi venti, ma nei prossimi due) potremmo assistere non solo al suo indebolimento, ma alla sua emarginazione nella società e alla sua irrilevanza nel quadro politico.
Questa affermazione non vuole essere né allarmistica, né vittimistica. Essa muove dalla constatazione che il discorso del futuro leader del partito democratico e del presumibile nuovo candidato premier colloca il Pd in modo organico tutto all'interno dell'area moderata attribuendo nei fatti ai temi classici della cultura politica della sinistra o un significato negativo o un senso al più evocativo.
Walter Veltroni questa volta non si è limitato a raccontare i suoi sogni per un mondo migliore, ma ha cercato di dare una risposta ai problemi e questa risposta è stata moderata, americana, corretta, come è prassi anche del liberalismo, da un atteggiamento di solidarietà e compassione, un richiamo alla dirittura morale e al senso di responsabilità della politica. Stefano Bocconetti nell'articolo di ieri ne ha fatto un'analisi puntuale e obiettiva. Ma la controprova di quello che Bocconetti sosteneva ieri e che questo articolo sostiene oggi sta nelle reazioni e nei commenti al discorso di Veltroni dell'area moderata e borghese del paese. Le reazioni positive del presidente della Confindustria che si è profuso in elogi per una relazione che «è entrata nel merito dei problemi sollevati dalla Confidustria» fanno il paio con il giudizio del Corriere della sera.
Ieri, nell'editoriale del vicedirettore Dario Di Vico, ha elogiato gli attacchi che il futuro capo del partito democratico ha fatto alla sinistra «che non fa costruire la Tav, che difende solo gli occupati e lascia al loro destino i giovani, che preferisce lottare contro la ricchezza piuttosto che contro la povertà, che gode quanto più la pressione fiscale è alta e si ritrae quando occorre tutelare la sicurezza dei cittadini».
Di Vico naturalmente fa una caricatura della sinistra a suo uso e consumo, che si potrebbe commentare con molta ironia, qualche numero e qualche consiglio di buone letture, ma non è questo l'importante. Il punto è un altro. Se è vero che questa è l'idea della sinistra che suscita Walter Veltroni all'editorialista, se a partire da questo giudizio si arriva ad un approdo moderato, benedetto dai maggiori rappresentanti del padronato, e dal "partito" che si riconosce nel Corriere della sera, quali scenari si aprono nella politica italiana? Quale futuro si può prevedere per il governo Prodi? Quali conseguenze possono esserci nell'Unione, cioè nella coalizione che sostiene il governo? Domande alle quali non è possibile dare una risposta oggi, ma che sono di strettissima attualità e rispetto alle quali non si può far finta di niente.
I tempi, infatti, ancora una volta sono strettissimi ed esigono risposte rapide. Se è vero, come molti osservatori sostengono, che con il discorso di Veltroni è cominciato il conto alla rovescia per il governo Prodi; se è vero che il progetto politico del probabile futuro premier costituisce una virata a destra rispetto al programma dell'Unione, che cosa avverrà di quella complessa e delicata alleanza fra sinistra moderata e sinistra radicale che finora ha sostenuto il governo? So bene che molti ne auspicano la conclusione e vedono nella emarginazione della sinistra radicale e di quelli che vengono definiti i suoi "ricatti" finalmente la quadratura del cerchio nella complessa vicenda della governabilità italiana. Finalmente potrebbero farsi una riforma elettorale presidenziale, una controriforma delle pensioni, una riduzione compassionevole e moderata della precarietà, un taglio come si deve alla spesa sociale. Finalmente si potrebbe assestare un bel colpo a questi sindacati che si ostinano a difendere i lavoratori e i pensionati. E continuare a dire tante belle parole sull'ecologia e senza paura di smentirsi altrettante belle parole sulla Tav e sulle grandi opere di acciaio e cemento. Si potrebbe dare un sostegno ai Dico, ma senza esagerare con la laicità e alla famiglia, che rimane importantissima, sperando che la Chiesa di Ratzinger non infierisca, altrimenti sono guai.
Ma davvero tutto questo potrebbe farsi? Ne sono proprio sicuri quelli che ieri hanno applaudito Walter Veltroni? Alcuni dubbi potrebbero esserci. Un dubbio si chiama sinistra, quella sinistra ancora divisa, ma che anche in questi ultimi giorni, è riuscita a procedere unita, a spostare significativamente sulle pensioni la posizione del governo e a sostenere la lotta del sindacato. Se riesce a fare un passo avanti, se riesce abbandonando pregiudizi e rendite di posizione a ricostruire la sua esistenza nel nuovo quadro politico che si sta delineando non solo salverà gli interessi dei lavoratori e delle classi meno abbienti, ma salverà sé stessa. Il discorso di Walter Veltroni, il suo spostamento nell'area moderata, ha avuto il merito di renderlo ancora più chiaro.

Liberazione 29.6.07
Il presidente della Camera: con la discesa in campo del sindaco di Roma «nasce la quarta via», la guardiamo con «interesse ed esternità»
Il segretario del Prc Giordano: «Lavoriamo ad una soggettività unitaria. Entro due settimane ci si riunisca tutti» e lancia l'idea di liste comuni nel 2008
Bertinotti: «C'è un asse Veltroni-Royal. Serve una sinistra unitaria e plurale»
di Angela Mauro


Con Veltroni in campo, è «ancora più forte il problema della costruzione di una sinistra di alternativa, plurale e unitaria». All'indomani dell'outing del sindaco di Roma al Lingotto di Torino, Fausto Bertinotti ribatte su quelle che, a suo avviso, sono le urgenze delle forze che stanno a sinistra del Partito Democratico. Il presidente della Camera ragiona sugli scenari politici in rapida evoluzione, dopo l'avvio del percorso di Ds e Margherita verso il Pd, la scissione di Sinistra Democratica dalla Quercia, il cammino intrapreso da Rifondazione nella Sinistra Europea, l'esperienza del governo Prodi e, ora, la "corsa" (in netto vantaggio) di Walter Veltroni verso la guida del Partito Democratico e, presumibilmente, anche verso quella di un futuro esecutivo di centrosinistra. In particolare, l'ultimo dei fattori elencati introduce una novità nello scenario non solo italiano, ma della intera «Europa latina», dice Bertinotti. Walter come Ségolène, è la riflessione del presidente della Camera, il quale vede, nella coppia, gli eredi di un altro duetto molto omogeneo: Blair e Schroeder. «La Terza Via, quella cultura liberal sociale che vede il suo esaurimento nel mondo anglosassone, rinasce qui, lungo un'asse franco-italiano e diventa Quarta Via», afferma Bertinotti. Lo stampo è lo stesso: la Quarta Via non cambia i contenuti della Terza, ma si manifesta con un «involucro modificato». Sia Royal che Veltroni, infatti, continua il presidente della Camera, operano su una «modifica dei partiti dai quali provengono». In Francia, la socialista Ségolène ha tenuto in buon conto le possibili alleanze con il centro di Bayrou; in Italia, Veltroni è il candidato forte per la leadership di un nuovo soggetto, il Pd, nato dalla fusione di Ds e Dl e dunque dalla conclusione delle opzioni politiche che separatamente rappresentavano. La Quarta Via, inoltre, è caratterizzata da un elemento di «forte personalizzazione della politica» e presenta connotati diversi in fatto di «linguaggio, generazione dei leader, uso della loro immagine sui media».
Di fronte a tutto questo, insiste Bertinotti, la sinistra di alternativa, che è «esterna» alla cultura di Ségolène e di Veltroni, ha la necessità di costruire un «profilo unitario e plurale». Come guardare ai due nuovi fenomeni del panorama politico? «Con interesse ed esternità», risponde il presidente della Camera, per dire che «insieme si può stare, ma la sinistra di alternativa è un'altra cosa rispetto a loro».
Focus sull'Italia. La possibilità di alleanze elettorali e di governo con Veltroni va verificata. Bertinotti rimane dell'idea (già formulata a metà giugno in occasione della nascita della Die Linke tedesca) che «non sta scritto da nessuna parte che la sinistra debba stare al governo, ma se ci sta, se ci sono le condizioni per cui possa starci, è meglio».
Per Bertinotti, il punto nevralgico è accettare «la sfida per l'egemonia». Sia chiaro: con Blair-Schroeder o con Veltroni-Royal, «i due filoni principali della cultura politica restano gli stessi. Da una parte, la sinistra riformista, dall'altra quella di alternativa». Tertium non datur. Il quadro, è il ragionamento, non offre spazi per terze opzioni, come quella rappresentata da una eventuale Costituente socialista, cui tengono in diversi, anche all'interno di quelle forze che si collocano a sinistra del Partito Democratico (Angius per esempio non fa mistero della propria collocazione in Sd, nel socialismo europeo, ma nè con Bertinotti, nè con Veltroni).
Il "tifone Walter" ispira riflessioni a sinistra. Il segretario del Prc Franco Giordano lancia la sua proposta a Sd, Pdci e Verdi: «Liste unitarie alle prossime amministrative». Giordano cita gli esempi di Taranto, Gorizia, L'Aquila nella tornata elettorale di alcune settimane fa. «Quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità - dice - noi non temiamo rivali, neanche quando abbiamo contro il Pd». Per riuscire, però, è necessario «far lievitare un processo reale, di popolo, far maturare le condizioni nei territori». Nel contempo, «dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno o le faccia diventare un freno», continua il segretario di Rc. E lancia l'altra proposta: «Entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati interessati, associazionismo di base, movimenti, per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista».
E' d'accordo Paolo Cento dei Verdi. A maggior ragione nell'era Veltroni, spiega, «dobbiamo produrre un fatto politico nuovo a sinistra e accelerare sulla costruzione di un polo arcobaleno, antiliberista e pacifista». La proposta d'azione del sottosegretario allo Sviluppo Economico parte dal «coordinamento nazionale, pensato da Giordano», per farne un laboratorio che approdi a una «costituente federalista delle sinistre». Ma attenzione: «Veltroni sarà leader del Pd e molto probabilmente anche premier. Sarebbe sbagliato contrapporsi, con lui bisogna dialogare perchè il prossimo governo si regga su due gambe: il Pd e il polo di sinistra».
Competizione e interlocuzione, dunque. Perchè a sinistra, anche dentro Rifondazione, un'altra esperienza di governo viene fortemente auspicata e non ci si scoraggia di fronte all'approccio spiccatamente di destra di alcuni passaggi del discorso di Veltroni (sicurezza, immigrazione). Si confida nel confronto e nell'approdo ad un programma condiviso. E' ottimista Carlo Leoni, ex diessino e veltroniano, ora in Sd: «Veltroni è persona di dialogo, non di rottura. La sinistra che dobbiamo costruire sarà alleata del Pd». Certo, per essere riconosciuti come interlocutori bisogna «costruire la sinistra in Italia». Partendo dal basso, perchè al vertice «le cose si stanno muovendo». Spiega Leoni: «Possiamo fare tutti i coordinamenti nazionali che vogliamo, ma è importante agire sul territorio, nei posti di lavoro, dare avvio a un percorso partecipato e aperto». Con di fronte un Partito Democratico guidato da Veltroni «non basta "gufare" per il loro insuccesso...».
Innegabile però che con la discesa in campo del sindaco di Roma, gli ex diessini di Sd, alle prime esperienze fuori dall'ombra della Quercia, siano al centro della curiosità mediatica e non solo. Colpisce l'appello di Giuseppe Caldarola, uscito dai Ds in contrasto con la modalità di costruzione del Pd e non confluito nell'area di Mussi, che si dice pronto («Ci sto pensando, ma Walter mi piace») a tornare alla casa madre. «All'apertura di Veltroni (che a Torino ha esplicitamente teso la mano agli ex colleghi di partito, ndr.) voglio rispondere con un'apertura e proporla anche agli amici con i quali in questi mesi ho condotto una battaglia - spiega -. Tra questi Gavino Angius, ma non solo. Anche i socialisti». Ma Leoni non ha dubbi: «Angius ha chiarito che sta nel socialismo europeo e il Pd non sta lì. Ho molta stima di Walter, ma noi abbiamo lasciato i Ds perchè contrari al Pd a prescindere da chi l'avrebbe guidato. Caldarola è libero di scegliere ciò che meglio crede, noi abbiamo già scelto». E, se non bastasse, c'è Cesare Salvi: «Sinistra e Veltroni, anzi sinistra o Veltroni: sono cose incompatibili». Quanto a future alleanze di governo: «L'accordo con Prodi è stato catastrofico perchè il governo va male», dice Salvi. Con un altro leader, «non può che andare meglio di così». E segna una distanza netta da Veltroni anche Pino Sgobio dei Comunisti Italiani: «Walter rafforzerà il Partito Democratico e il versante moderato della coalizione di centrosinistra. Noi però siamo sempre più convinti che oggigiorno non serva più la politica delle mezze misure e delle riforme morbide, ma quella delle scelte nette, chiare e decisive: il lavoro e le pensioni, ad esempio, sono per eccellenza il metro su cui il centrosinistra dovrà misurarsi».
Ma ce n'è anche un altro di campo su cui misurarsi: la legge elettorale. Veltroni è stato chiaro a Torino, lodando il modello francese. E ieri la presentazione di un disegno di legge dell'Ulivo (a firma di Anna Finocchiaro) ispirato al doppio turno d'oltralpe ha scatenato la sinistra di alternativa. «Tutto si complica nel confronto sulla riforma della legge elettorale», dice Massimo Villone, senatore di Sd. La presentazione del provvedimento all'indomani dell'appello di Veltroni «fa entrare nel confronto parlamentare la dialettica interna al Pd e questo non può produrre effetti positivi». Anche Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato, condanna «l'insistenza dell'Ulivo sul doppio turno alla francese, già bocciato dalla maggioranza delle forze politiche» e rincara sulla «campagna di An a favore del referendum». Si tratta di «segnali pessimi, di ostruzionismo mascherato per agevolare il referendum. Insistiamo sul confronto parlamentare: noi siamo per il modello tedesco».

Liberazione 29.6.07
L'orazione del Lingotto risponde all'"uomo di mezzo"
Un'Italia di mezzo che non lascerà niente al futuro
di Antonella Marrone


Lunghissimo da leggere il discorso di Veltroni. Ma è una fatica che vale la pena fare per entrare nel cuore del nuovo Partito Democratico. Un'orazione, quella del Lingotto, che non lascia dubbi, che risponde in maniera quasi ossessiva alle domande del folliniano uomo di mezzo. Enunciati con cui non si può non essere d'accordo: ammortizzatori sociali per i giovani, lotta all'evasione fiscale, uguaglianza di opportunità (il figlio dell'operaio come il figlio dell'imprenditore). Enunciati, però. Perché Veltroni non può non sapere, ad esempio, che il figlio dell'operaio e quello dell'imprenditore partiranno sempre impari in una società basata sul potere economico e sulla separazione dei generi. Quella meritocrazia che, tornata alla ribalta come panacea contro le ingiustizie sociali, fa ridere. Si fa un bel parlare di operai e precari, di donne e di quote rosa. Finché si resta così, a rimorchio della finanza, e degli imprenditori, non saranno certo il pddì e il suo nuovo leader a far cambiare le cose. Si avrà qualche tesoretto in più, più pizzardoni o ghisa in giro, ma il rischio non è quello di trasferire ai giovani, come ha detto Veltroni in uno dei passaggi più contraddittori ed inquietanti, i disastri dei conflitti degli anni Settanta, ma di trasferire niente di più di quello che ha già trasferito la terza via, ossia un modello di «riforma del capitalismo» che ha prodotto quello che è sotto gli occhi di tutti, e nessun valore. Né umano né politico. Neanche la laicità di uno Stato sovrano. Per questo non ha senso parlare di solidarietà, di patto fra generazioni. La solidarietà è un valore caro ad altre epoche, ad altre lotte. A periodi in cui il conflitto nonviolento, non si rifiutava. Per questo se da una parte non ci ha stupito la visita a Barbiana, dall'altro fa sorridere l'omaggio ad un uomo, un religioso come Don Milani che, sulla solidarietà sociale aveva fondato il proprio lavoro pedagogico, e non certo sulla falsa "meritrocrazia".
Ogni frase, ogni punto, ogni punto e virgola, del discorso di Torino, hanno un significato. E anche un po' del suo contrario. Questo spiega il gradimento al 72% (sondaggio Ipr di Repubblica.it organo ufficiale, del nascente partito) del discorso.
Difficile insomma non condividere l'ansia per il proprio paese, il desiderio di giustizia sociale, la spinta verso l'Europa. Anche lo spinoso tema della sicurezza mette d'accordo un vasto arco parlamentare e popolare: chi darebbe del razzista al padre che si preoccupa per la figlia in un quartiere che non riconosce più? Partiamo proprio da questo punto, il quarto, ma sappiamo di poterlo dire, non il meno importante (in americano, last but non least). Un quadro che fa riferimento sostanzialmente alla criminalità "straniera", il bisogno di inclusione (parola usata solamente due volte nel discorso e una per i giovani precari) si affianca al bisogno di mettere al sicuro la cittadinanza dai migranti. Come? Più gente in strada, dice, nel senso di forze dell'ordine, ipotizzando un decisivo salto di qualità nella tutela della sicurezza delle persone e delle imprese. Perché "sentire" la presenza fisica della divisa tranquillizza il cittadino e scoraggia il delinquente. Sarà per questo che qualche burlone sul Web lo ha chiamato il discorso di Silvio Veltroni, perché viene subito in mente lo strombazzato poliziotto di quartiere?
Andiamo avanti. Molto ambiente, è stato notato da tutti. Con qualche conoscenza del problema in termini climatici, antropologici e botanici, forse, ma con decise incertezze per quanto riguarda il discorso "economico" legato al tema e senza dubbio un vuoto sul quello che è stato l'ambientalismo nel nostro paese negli ultimi dieci anni, almeno. «Quello a cui pensiamo è un ambientalismo del si». Peccato che l'Italia più ambientalista sia piena di no. E come farà il piddì a far passare la sua politica senza entrare in conflitto (termine aborrito dal neo incoronato leader) con le tante realtà locali che prima di veder sventrare, rovinare, deturpare la propria terra da futuribili tecnologie vogliono poter dire la loro, contare, partecipare? In effetti la parola partecipazione non compare mai nel discorsone. Vaga menzione al verbo partecipare viene fatta solo quando si parla delle liste per il 14 ottobre. Partecipazione poca, dunque. Ma si tratta di una democrazia decisionista, che sa ascoltare, valutare, eppoi decidere il meglio per tutti.
Una democrazia che, a leggere il testo è stata sì buona dal dopogerra fino agli anni Sessanta, ma poi è degenerata fino a portare il paese nella palude in cui si trova oggi. Significativo ed inquietante questo passaggio: «C'è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent'anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni '70 e dell'irresponsabilità degli anni '80. Anche questo, rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai nostri figli». E più lo leggi e più ci resti male. Perché in tutto il sermone quello che poi non si salva è la storia passata. La storia passata che nessuno vuole vincolante, nessuno vuole che sia la lapide del futuro. Ma insomma una cosa buona, quella democrazia - che non sarà smagliante e moderna come quella del piddì - avrà pur fatto. Se non altro ha garantito che vicino all'odierna "Italia di mezzo", ci sia ancora un Italia a sinistra.

Liberazione 29.6.07
Al Parlamento francese Verdi-Pcf uniti in un sol gruppo


Si chiamerà "Gruppo della sinistra democratica e repubblicana" e riunirà all'Assemblea nazionale Verdi e Partito comunista francese (oltre a due eletti dei territori d'Oltremare). Un gruppo tecnico, con presidenza a rotazione, che non preannuncia una fusione delle forze politiche, ma anche una risposta alle difficoltà delle presidenziali e allo stradominio Ump-Ps alle legislative che lasciano ai comunisti meno dei 20 seggi necessari per un proprio gruppo parlamentare. I vantaggi sono tecnici (risorse, tempi di parola, ecc.). Ma anche politici. Il desiderio del partito socialista di inglobare ambientalisti e sinistra è fallito. Solo il Prg ha raggiunto il gruppo Ps. E i dissidenti di sinistra dei socialisti non hanno accettato l'idea di un gruppo più ampio di sinistra. Dentro al Pcf diverse le reazioni, per Patrick Braouezec, si tratta di «un matrimonio d'interesse che potrebbe essere la premessa a una forza d'alternativa della sinistra»; per André Gérin è invece, «una malessa», necessaria, ma indigesta.

il manifesto 29.6.07
Franco Giordano: a luglio un'assemblea aperta per lanciare la sfida al Pd moderato di Veltroni
«Sinistra unita alle urne del 2008»
Per il segretario di Rifondazione «per essere efficaci nel governo e ricostruire la sinistra bisogna procedere in modo partecipato senza negare le identità di nessuno. Il partito non si scioglie». Congresso a febbraio
di Matteo Bartocci


Accelerare l'unità a sinistra per andare insieme alle elezioni amministrative dell'anno prossimo ed essere subito più efficaci nell'azione di governo. In una pausa dopo giorni al cardiopalma di trattativa su welfare e pensioni, Franco Giordano rilancia l'esigenza di un percorso unitario e «sfida» il candidato Veltroni a misurarsi con il resto della coalizione.
Per il segretario di Rifondazione «sciogliere» il partito è un'idea del tutto «infondata»: serve invece uno scatto dal basso e di massa per arrivare a un soggetto unitario con chiunque, «partito, sindacato, associazione o movimento, si dica disponibile». Una lunga marcia che passerà, alla fine di gennaio, anche per il primo congresso di Rifondazione senza Bertinotti dal '94. «Attorno allo scalone, alla legge 30 e alla precarietà - esordisce Giordano - si è aperta una partita simbolica che dirà molto dell'identità politica e sociale di questo governo. Nessuno infatti ha ancora dimostrato che c'è un problema di compatibilità economica. Perché con l'aumento dei contributi i lavoratori dipendenti l'abbattimento dello scalone se lo sono pagato da soli. E con gli aumenti contributivi dei co.co.co si possono avviare tutele ancora più significative per i giovani. La partita quindi è compiutamente politica ma parla della vita reale di migliaia di lavoratori.
Ma la trattativa si è arenata proprio sullo scoglio più grande, lo «scalone« Maroni.
Bisogna discutere e cancellarlo subito come da programma. Lo dico nella maniera più semplice, voglio poter tornare a Mirafiori e dire in due parole: quello che abbiamo promesso abbiamo fatto. Per tutto quest'anno abbiamo sempre dovuto contrastare l'iniziativa dei poteri forti che in più modi hanno condizionato l'azione del governo. Alle aziende non sono bastati nemmeno i 10 miliardi di euro che riceveranno tra cuneo fiscale e fondi ordinari, gli imprenditori dimenticano che sono loro i veri assistiti di questo paese.
Sulla precarietà però alcuni attribuiscono proprio a Veltroni di aver speso al Lingotto parole importanti.
Beh, allora Walter potrà darci una mano a superare la legge 30. Perché altrimenti, come dire, c'è troppa distanza tra la sfera eterea dei princìpi e l'esigibilità concreta dei diritti sociali. Una distanza in cui maturano quel disincanto e disillusione che purtroppo rappresentano l'Italia di oggi. Dal suo discorso mi aspettavo posizioni diverse, la fredda ragione mi fa dire che il Pd è un partito moderato e Veltroni lo interpreta al meglio. Su alcuni punti è perfino preoccupantemente moderato.
Per esempio?
Al di là delle proclamazioni un po' algide è stridente il contrasto tra le dichiarazioni sull'ambiente e sul clima e il sì alla Tav, al carbone o ai rigassificatori. Anche sul tema della sicurezza mi pare aver scelto di assecondare la fobia ideologica delle destre che costruiscono sistematicamente il nemico per sfuggire il conflitto sociale. Vorrei dire a Walter: attenzione, così si alimenta un'identità territoriale ostile e si porta acqua al mulino di politiche securitarie.
E sul patto tra generazioni?
Così come l'ha presentato mi sembra una trita contrapposizione tra diritti degli anziani e dei dipendenti con quelli dei giovani. E' un classico del pensiero liberal-conservatore pensare di distribuire poche risorse tra lavoratori e precari, tra giovani e anziani, senza aggredire le cause della loro disuguaglianza. Bisogna redistribuire i profitti e orientare i consumi verso nuovi stili di vita, in breve, avviare a critica le forme attuali del capitalismo che producono quelle disparità e aggrediscono la natura. E' come se Walter guardasse alla «sua» Africa dimenticando l'aggressione a quel continente dell'Occidente capitalistico.
Sarà lui a candidarsi a palazzo Chigi dopo Prodi?
Intanto è il più autorevole candidato a guidare il Pd. Ma se in futuro ci saranno le condizioni per un accordo, per poter essere leader dell'Unione ci sono due passaggi inderogabili: da un lato le primarie, perché non sta scritto da nessuna parte che il candidato del Pd è anche il candidato dell'Unione, dall'altro un confronto sul programma, perché su alcuni temi le differenze ci sono e restano.
La «discesa in campo» di Veltroni non costringe anche la sinistra ad accelerare il suo travagliato percorso unitario?
A prescindere dal Pd dobbiamo comunque accelerare il processo di unità a sinistra. Dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno e non le faccia diventare un freno. Io propongo che entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati, associazioni e movimenti interessati per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista e laica. L'attivazione e la vera partecipazione delle persone è il solo modo per alimentare le speranze e l'entusiasmo di tanti e dare più efficacia all'azione nel governo. Dobbiamo farlo subito, perché se a ottobre il Pd sceglierà il suo leader noi, che abbiamo un'altra idea di partecipazione, dobbiamo rispondere con i contenuti e investire sul programma.
E' un percorso che significa sciogliere Rifondazione?
Chiunque entra in questo processo con l'idea dello scioglimento ha un'idea infondata e rischia di mettere le braghe al mondo. Non si sciolgono le identità. Se l'obiettivo è portare tutti a costruire questa nuova soggettività saranno il processo e i suoi protagonisti reali a deciderne le forme concrete. Non mi interessano precipitazioni politicistiche né voglio dare a nessuno l'alibi di chiamarsi fuori. Rifondazione, si sappia, investirà tutta se stessa e la sua innovazione politica per mettersi a disposizione di questa sinistra unitaria. Come si è visto alla nascita della Sinistra europea che è e sarà decisiva in questo percorso.
Questa accelerazione rende necessario avvicinare anche la data del congresso?
Al comitato politico nazionale di metà luglio proporrò un congresso ordinario da tenere subito, all'inizio dell'anno. Sarà un passaggio molto importante, come richiede la fase politica.
A gennaio del 2008 le amministrative saranno dietro l'angolo. La nuova sinistra si presenterà sotto un unico simbolo già alle elezioni?
E' la mia ambizione. Ma per poter essere efficaci dobbiamo far lievitare un processo reale, di popolo, e far maturare le condizioni nei territori. Perché quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità, come è successo a Taranto, a Gorizia o all'Aquila, noi non temiamo rivali. Neanche quando abbiamo contro il Pd.

il manifesto 29.6.07
Montezemolo assume Veltroni
di Alessandro Braga


Il «vento nuovo percepito dai cittadini», come lo ha definito lo stesso Walter Veltroni il giorno dopo il suo discorso al Lingotto di Torino, è stato sicuramente percepito e apprezzato dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Che ieri si è infatti affrettato a incensare il segretario «in pectore» del partito democratico.
«Dopo la nostra assemblea - ha detto Montezemolo - poche personalità politiche erano entrate nel merito delle questioni da noi sollevate. Una di queste è stato Veltroni». Adesso la speranza è che «si possa aprire una nuova stagione con una classe politica moderna e vicina ai problemi veri del paese». E possibilmente anche delle industrie.
Del resto nel suoi cento minuti di discorso torinese Veltroni non ha lesinato parole come «rischio», «concorrenza», «merito», «innovazione». Parole dolci per Montezemolo, che ha chiosato infatti la discesa in campo del sindaco capitolino con un «molto bene».
Eppure poco più di un mese fa Montezemolo aveva attaccato duramente il governo e una classe politica «che teme il cambiamento», e non osa «fare scelte coraggiose». Esternazioni che il premier Romano Prodi aveva liquidato con un semplice «si commentano da sole». Un Montezemolo che vira di centottanta gradi insomma rispetto alle sue posizioni di qualche tempo fa nei confronti del centrosinistra e si schiera tra gli estimatori di Veltroni. Che ringrazia per le parole di stima di una persona a cui è «molto affezionato» e che «ammira tantissimo». E poi si affretta a «riabbracciare» Prodi specificando che la sua candidatura non indebolirà l'esecutivo, anzi «piuttosto il contrario», dato che «il paese ha in questo momento un grande bisogno di stabilità» e si augura che «questo governo possa andare avanti tanto quanto deve». Senza specificare «quanto deve» (...).

il manifesto 29.6.07
Reportage dagli Opg L'Ospedale psichiatrico giudiziario in Sicilia. La follia nell'obiettivo
La processione del dolore
Costruito nel 1925, l'opg di Barcelloba Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, è stato il primo manicomio giudiziario del regno d'Italia. Ancora oggi è attivo, ma pur essendo ben organizzato è ormai una struttura al limite della capienza. E delle sue possibilità
di Dario Stefano Dell'Aquila


Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Sono circa le 18 quando, come ogni anno, la statua di San Francesco giunge, sulle note scomposte della banda, al limite dell'ingresso dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. La folla di colpo si arresta, ai limiti del piccolo campo d'erba, all'interno del quale una parte dei circa duecento internati attendono. A spalle, barcollante, la statua è portata nel piccolo spazio verde, tra gli internati che gridano «Viva san Francesco». La banda riprende a suonare, partono i fuochi di artificio. Padre Peppe Insana, battagliero, da sempre impegnato dalla parte degli internati, guida le operazioni, mentre la coda del corteo scruta attenta, senza mai varcare il limite del campo.
Nel frastuono che segue, mentre un internato coperto di una vecchissima e consunta giacca di velluto continua il suo pellegrinaggio per le sigarette, un altro si avvicina e racconta. Racconta di un diverbio con un compagno di cella e degli agenti che lo immobilizzano e gli dicono «Adesso ti portiamo in seconda.» «Non l'ha deciso il medico, capisci, l'hanno deciso loro, capisci?» Sorrido, sorride, una sigaretta e se ne va via. Rientriamo nel plesso principale assieme alla fiumana di internati, che a passo incerto, con abiti lisi, ritorna in cortile.
La seconda sezione
L'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona è composto da sei blocchi. Hanno in comune un cortile interno, stile liberty, dove gli internati effettuano la socialità. E' il primo Manicomio Giudiziario del regno di Italia, costruito nel 1925 e inaugurato dal ministro Alfredo Rocco in persona. E' la sola struttura ad essere nata e pensata come manicomio giudiziario.
Oggi un lungo muro di cemento la circonda, nascondendo il disegno originario. Il direttore, Nunziante Rosania, non è presente al momento della nostra visita. Ci accompagna lo psichiatra Antonio Levita, che snocciola i dati e racconta gli sforzi degli operatori. Su 187 internati, per almeno 77 vi è stata la proroga della misura di sicurezza. Circa un internato su tre è qui da più di cinque anni. Una quarantina sono qui da più di dieci anni. Quasi la metà è dentro per reati contro il patrimonio. Gli psichiatri a contratto sono sei, 1 educatore, una sessantina gli infermieri.
La seconda sezione è quella dei letti di coercizione. Quelli di Barcellona sono i primi a essere entrati in funzione nel '900. Un stanza molto grande e spoglia, ne raccoglie tre, uno di fianco all'altro. Un buco al centro per i bisogni e uno in terra, corrispondente, dove le feci vengono raccolte e lavate via. Gli unici dati disponibili ci dicono che vi sono stati 84 episodi di coercizione e che in questa struttura almeno 32 internati sono stati legati al letto di contenzione. La vicedirettrice, Carmen Salpietro, che ci ha raggiunti, spiega che è usata raramente e per poco tempo. Francesco Caruso, che ci accompagna, sfoglia il registro della sezione. Compaiono nomi con accanto l'annotazione della coercizione, ma è difficile individuare il momento della liberazione. Uno di questi nomi, Filippo L.M., si prolunga per pagine. Oltre dieci giorni di coercizione. Lo incontriamo mentre giriamo nei reparti, quasi tutti a custodia attenuata. Le condizioni dei reparti sono decenti, in alcuni casi buone in altri molto meno. Le celle arrivano anche a nove persone, di grandi dimensioni, un solo bagno. Fa eccezione la sezione nuovi giunti, celle singole, spoglie, prive di suppellettili
Filippo ha solo 21 anni, problemi di tossicodipendenza e di forti conflitti familiari. Non ha commesso reati di sangue, è figlio di una famiglia multiproblematica. Sfuggito ai servizi sociali, Filippo ha conosciuto il manicomio nel modo peggiore possibile. E' stato a letto di contenzione subito dopo il suo ingresso. Certe regole è meglio impararle da subito. Finita la fase di sospetto scherza con noi, ci segue nel nostro giro, chiede immediatamente le sigarette.
Arrivano le ragazze
Le storie che incrociamo sono ormai le stesse di questo girone infernale. Povertà, disagio e proroghe che hanno il sapore dell'infinito. Massimo, un ragazzone di circa 25 anni, si aggira come un bambino, con i pantaloni che gli cascano e un sorriso inebetito. Non riesce a tenere in mano la sigaretta che gli offriamo, ma ci segue con la stessa curiosità di un cucciolo. Dalle celle reazioni diverse, qualcuno si alza, qualcuno riconosce la delegazione («compagni, compagni..» grida un internato appena ci vede), qualcuno non alza nemmeno lo sguardo. In una cella di isolamento un internato, a torso nudo, sporge la testa, infilandola abilmente tra le sbarre. «Quando potrò uscire?». Promesse veloci e poi si fugge via. I.M. sembrava avercela fatta. Lui è uscito, è riuscito anche a sposarsi e ad avere un figlio, la cui foto campeggia al capo del letto. Poi una nuova crisi ed è rientrato, con una famiglia in più che questa volta l'aspetta.
Ora l'Opg è destinato a nuovi arrivi. Si stanno effettuando i lavori in un nuovo reparto per accogliere le circa 80 donne attualmente internate nell'Opg di Castiglione delle Stiviere, le cui sorti appaiono incerte. C'è perplessità per le capacità di una struttura che per quanto ben organizzata sembra essere ai limiti della capienza e che ha sofferto dei tagli alla sanità penitenziaria. Un trasferimento di circa 70 donne, effettuato in questi termini sembra più una deportazione che una scelta terapeutica.
Si uccide per non tornare in opg
Ma non tutti desiderano la chiusura di questi luoghi. E' una realtà sociale difficile quella di Barcellona, con povertà, disoccupazione e infiltrazioni criminali. Nella città dove fu ucciso il giornalista Beppe Alfano, dove alcune settimane fa il sindaco Candeloro Nania ha fatto il pieno di voti, regalando ad Alleanza nazionale la maggioranza in consiglio comunale, anche il manicomio è occasione di posti di lavoro.
Quando in passato si ventilò l'ipotesi di chiusura, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria chiese a gran voce che la struttura non fosse chiusa per evitare che gli oltre 140 nuclei familiari degli agenti di polizia «perfettamente inseriti nella realtà sociale, abitative e lavorativa della città» fossero trasferiti.
Nemmeno Giuseppe Contini, 48 anni, di Oristano, voleva essere trasferito. Si è impiccato alle sbarre della cella del carcere di Buoncammino (Cagliari) che lo ospitava da pochi giorni. Aveva trascorso gli ultimi cinque anni della sua vita in Opg a Barcellona. Era stato trasferito a Buoncammino per seguire le udienze del suo processo. Sabato, 9 giugno, ha deciso che non voleva essere riportato indietro e si è ucciso (ne ha dato notizia solo il quotidiano locale l'Unione Sarda).
Non a tutti è concesso di essere perfettamente inseriti.

il manifesto 29.6.07
Anversa degli Abruzzi
«Fuori di me», e oltre il muro Un viaggio nel disagio psichico
Cronache dalla malattia mentale di un fotografo e uno psichiatra
di Eleonora Martini


«Le cose normali come giocare, mangiare, ridere e piangere avevano un altro sapore, un altro senso. Solo io e l'altro me, sempre insieme e sempre due. La mia ombra e la mia anima; la mia coscienza e il mio istinto. Un solo interesse: capire, dove però forse non vi era nulla da capire. Una domanda, sempre la stessa: che ci sto a fare?». La mano si regge la fronte come a fermare i pensieri, sul viso un'espressione di sconcerto, nulla di più. L'immagine dell'uomo in maglietta gialla e azzurra, come tutte le altre di questo bellissimo viaggio nel disagio psichico compiuto dal fotografo Stefano Schirato, è sfocata, dai contorni poco nitidi. Il suo è uno sguardo obliquo, sghembo, sulla realtà, che non è mai completamente tersa, luminosa. Un punto di vista empatico con quello degli ospiti della struttura riabilitativa psichiatrica Il Castello che sorge nel piccolo centro di Anversa degli Abruzzi, dove Schirato ha trascorso molto tempo superando l'istintiva ritrosia e «resistendo alla naturale prima reazione di fuga nel riconoscere, come tutti, una parte di noi stessi nella malattia della mente». Ne è nato «Fuori di me - Out of my mind», un volume pubblicato per i tipi di Silvana Editoriale con prefazione di Ivano Fossati (p.144, 28 euro) che ci racconta i giovani utenti della comunità attraverso gli scatti del fotografo e la voce narrante dello psichiatra Michele Beatrice, «con due percorsi che si intrecciano senza accordo, né comune intenzione o comune vissuto». E che infine ci regalano la storia di «un paziente immaginario ma molto reale». Un viaggio dentro una comunità di relazioni che si libera dalle mura della struttura residenziale e si allarga a tutto il paese di Anversa che «ha accolto e condiviso la vita con i suoi ospiti, creando il contesto ideale per una rinascita sociale».
E mentre il fotografo fissava forse sulla pellicola «oltre che momenti di persone "diverse", momenti personali, interpretando proprie emozioni attraverso l'immagine di una persona malata», lo psichiatra si è fatto interprete, ha tradotto in parole gli attimi fissati dall'obiettivo, raccontando non la storia clinica dei pazienti, i loro traumi, le violenze subite, ma «il percorso emotivo, umano, sentimentale attraverso la psicosi o - meno gentilmente - attraverso quella che tutti definiscono follia».
«Fissarli negli occhi o vederli di spalle non fa differenza. Basta un particolare taglio di luce o un colore, anche solo avvertire la loro presenza, per sapere di essere stati nella loro stessa condizione innumerevoli volte - "così unici e così soli" - senza accorgercene», scrive Ivano Fossati. «Che enorme debito hanno gli artisti di tutti i tempi - ricorda il cantautore - verso quell'insondabile squilibrio che l'umanità ha bollato e prudentemente archiviato prima come follia, poi più ipocritamente come disagio mentale».
Schirato, che aveva già pubblicato nel 2003 per gli stessi editori «Né in terra né in mare», altro pregevole lavoro sul mondo dei marittimi imprigionati per anni sulle navi sequestrate nei porti e che vivono in una sorta di limbo del diritto, ritorna a guardare il mondo con gli occhi dei «fantasmi», esseri in carne ed ossa nascosti alla nostra percezione, dimenticati. «Vi ricordate quando al mio cospetto, malato e disastrato, cambiavate marciapiedi per non incrociarmi mentre urlavo, senza voce, la mia sofferenza? Non potete ricordarvi di me, ero solo uno dei tanti che ogni giorno sfiorate e che ogni giorno non vedete». «Io non sono nato in quel pozzo, ci sono finito. E in parte mi ci hanno spinto», interpreta, la voce narrante, lo sguardo dell'uomo in stivali da pescatore. Persone come tante, figli di «bella famiglia», di donne e uomini «buoni, onesti, timorati di Dio». E «più Dio era buono, più cattivo dunque ero io che non capivo e mi comportavo male. Mi dissero che così facevo piangere Gesù e io mi sentivo un verme sporco». Persone che a volte hanno saputo risalire il pozzo e uscirne. Non è stato facile ma oggi hanno una marcia in più perché conoscono quel buio profondo e non ne hanno paura. «Oggi vedo i sani benpensanti, modelli di vita per conoscenti e figli, consumatori e produttori di qualcosa, tutti intorno a un telefono per non sentirsi soli... Non mi sento diverso ma, scusatemi, nemmeno uguale».

il manifesto 29.6.07
Tra Darwin e Chomsky
Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano
In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l'ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale
di Telmo Pievani

Ogni evoluzione vitale nel linguaggio è anche una evoluzione del sentimento
Thomas Stearns Eliot

Nei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l'impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell'idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l'organizzazione dell'occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».
Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un'ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...
Due ipotesi per un rompicapo
Il problema è che l'evoluzionista non può rinunciare né all'uno né all'altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l'occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all'inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura. Darwin, per risolvere il rompicapo, nella sesta edizione dell'Origine delle specie del 1872 è costretto ad avanzare due ipotesi ad hoc: o meglio, due predizioni rischiose, e come tali eventualmente falsificabili dai suoi avversari (il che rende giustizia delle antiche pregiudiziali di alcuni epistemologi contro lo statuto di scientificità, vedi falsificabilità, della teoria dell'evoluzione).
La prima ipotesi è la seguente: se la teoria è corretta, nota Darwin, dovremmo trovare nel caso dell'occhio e degli altri «organi di estrema complessità e perfezione» una gradazione di passaggi in cui la funzione originaria viene progressivamente implementata. Ma non è tutto, aggiunge il naturalista inglese. È anche possibile (seconda ipotesi) che la selezione naturale favorisca un organo per una o più funzioni iniziali, oppure che una funzione sia assolta da più organi. In virtù di questa ridondanza, la selezione potrà successivamente «convertire» o «cooptare» una struttura per svolgere una funzione anche completamente diversa. Ne deriva l'intuizione, oggi di grande attualità, che la selezione non agisca soltanto come un ingegnere che ottimizza i suoi modelli, ma più spesso come un artigiano che rimaneggia il materiale a disposizione al variare delle circostanze. La perfezione, conclude Darwin, è sempre relativa a un contesto di pressioni selettive contingenti e non sempre l'utilità attuale di un organo o comportamento corrisponde alla sua origine storica.
Un secolo e mezzo dopo sappiamo che le due predizioni erano azzeccate. La mole schiacciante di prove morfologiche e genetiche a favore dei due processi allora ipotizzati è tale da rendere del tutto anacronistico il richiamo al «problema del 5% di un'ala» - oggi ribattezzato «problema della complessità irriducibile» - da parte dei sostenitori della dottrina teologica del «Disegno Intelligente». Eppure, l'argomento della presunta impermeabilità alla spiegazione evoluzionistica di alcune strutture particolarmente complesse non ha affascinato soltanto i creazionisti.
Ce lo ricorda, nel suo ottimo volume Perché non siamo speciali, il filosofo del linguaggio Francesco Ferretti: nel 1988, è niente meno che il linguista Noam Chomsky a farvi ricorso. In Language and Problems of Knowledge, nella convinzione che il linguaggio non abbia nessi di continuità con il resto del mondo animale, giunge alla conclusione che «nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è facile nemmeno immaginare uno sviluppo della selezione che abbia dato loro origine. Un'ala rudimentale, per esempio, non è 'utile' per il movimento, anzi è più un impedimento. Perché mai dunque deve svilupparsi quest'organo negli stati primitivi dell'evoluzione?». È una versione dell'argomento della «complessità irriducibile» del linguaggio, da cui Chomsky trarrà la profezia - non ancora abbandonata da tutti i suoi colleghi - secondo cui «la teoria dell'evoluzione ha poco da dire su questioni di tale natura».
Il linguaggio, troppo complesso per essere spiegato in termini evoluzionistici, è dunque il candidato ideale per rappresentare quella soglia qualitativa radicale che distingue l'umano dal non umano. Il libro di Ferretti illustra efficacemente il paradosso in cui si sono infilate le scienze cognitive negli ormai venti anni che ci separano dalla profezia antievoluzionista di Chomsky, la cui impostazione prevede fin dall'inizio che il linguaggio sia un'abilità specializzata e ampiamente pre-programmata, un «istinto» per dirla con Steven Pinker. L'argomento della povertà dello stimolo ha percorso una lunga strada, illuminando per differenza la ricchezza della mente umana fin dalla nascita. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi di etologia cognitiva, quanto le menti umane e di molti altri animali siano equipaggiate con articolati repertori di competenze innate e con sofisticati sistemi di selezione dei dati pertinenti. Queste «dotazioni» vengono solitamente descritte come innate, adattative e specie-specifiche: tre caratteristiche tipiche di ciò che è frutto di una storia naturale. Ma non si era detto che l'evoluzione era incompetente al riguardo?
Il paradosso antievoluzionista
Se il modello standard delle scienze sociali entra in crisi, nota Ferretti, portandosi dietro il suo relativismo linguistico, anche la tradizione chomskiana deve fare i conti con il paradosso del suo peccato originale antievoluzionista. Se ne esce, sostiene l'autore coniando uno slogan efficace, «darwinizzando Chomsky», cioè rinunciando all'idea dell'assoluta eccezionalità umana: abbiamo bisogno di una teoria del linguaggio e della mente che unisca gli elementi di continuità naturale della nostra specie e gli elementi di indiscussa specificità. L'ipotesi che Ferretti esplora al riguardo si basa su due movimenti teorici fondamentali. Il primo è quello di ricollegare la competenza linguistica all'intelligenza generale - intesa come un adattamento biologico della nostra specie condiviso con il resto del mondo naturale - a partire dal riconoscimento dello «sforzo cognitivo» che l'acquisizione del linguaggio richiede. In particolare, Ferretti recupera il ruolo dell'intelligenza generale nella capacità linguistica definendo la prima come un equilibrio adattativo fra due macrosistemi di elaborazione distinti: l'intelligenza ecologica e l'intelligenza sociale. Nel far ciò valorizza due direzioni di ricerca oggi molto feconde in ambito neuroscientifico e aderisce all'idea, alquanto plausibile, che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie - come di altre - di ancorarsi al mondo fisico (linguaggio spaziale) e al contempo al mondo sociale (pragmatica del linguaggio).
Il secondo movimento, che dovrebbe dar conto della specificità umana ed è ispirato ai lavori di Dan Sperber, consiste nell'effetto di ritorno che il linguaggio, una volta acquisito, avrebbe avuto sull'intelligenza umana, innescando la comparsa di facoltà inedite come l'autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l'intelligenza umana, in un processo di coevoluzione. Il problema di compatibilità fra questa definizione di intelligenza (con tutta la sua flessibilità, la creatività, l'improvvisazione) e la teoria modulare della mente attualmente dominante - dove i moduli sono intesi come sistemi di elaborazione automatici e dominio specifici - viene provvisoriamente aggirato considerando l'intelligenza generale come la capacità di stabilire un equilibrio adattativo tra sistemi di elaborazione in cooperazione o competizione fra loro.
Qui si nota allora un'altra torsione del ragionamento di Ferretti, che apre lo sguardo su un orizzonte teorico oggi alquanto movimentato e interessante. Nella comunità degli studiosi della mente che hanno accettato di considerare la «continuità nella specificità» dell'evoluzione umana stanno emergendo in questi anni due sensibilità differenti, che in qualche modo, sorprendentemente, attingono proprio alle due ipotesi ad hoc con le quali Darwin aveva risposto in anticipo alla profezia pessimistica di Chomsky.
Autori come Steven Pinker, Paul Bloom e Daniel Dennett sembrano prediligere la prima risposta darwiniana, centrata sull'azione ottimizzante e permeante della selezione naturale. I loro modelli evoluzionistici, per quanto diversi, si basano su categorie funzionaliste forti: specializzazione e divisione in tratti adattativi discreti. L'adattazionismo duro dell'«ingegneria inversa» di Dennett, e di gran parte della psicologia evoluzionista contemporanea, compendia perfettamente questo approccio alla spiegazione dell'architettura evoluta della mente umana: il metodo consiste nell'immaginare i problemi adattativi che i nostri antenati paleolitici avrebbero incontrato nel loro ambiente ancestrale e nel dedurre gli adattamenti psicologici che si sarebbero evoluti per risolverli. L'architetto celeste dell'intelligent design viene sostituito dal «progettista della natura: la selezione naturale», scrive Pinker. Qui Chomsky viene non soltanto «darwinizzato», ma «ultradarwinizzato».
La reazione a questo programma di ricerca assume talvolta toni esacerbati. Jerry Fodor, nel criticare l'adattazionismo dell'«ingegneria inversa», clamorosamente si spinge fino a dubitare che l'adattamento stesso sia il meccanismo attraverso cui avviene l'evoluzione, cadendo così nuovamente in un'opzione antievoluzionista. Altri, come i filosofi della biologia David Buller e John Dupré, pur evitando questi eccessi, non mancano di far notare le debolezze teoriche ed empiriche delle narrazioni selezioniste spesso infalsificabili della psicologia evoluzionista, prediligendo un darwinismo «esteso» che fa invece tesoro della seconda ipotesi proposta da Darwin, quella relativa alla sub-ottimalità dei tratti adattativi, ai vincoli strutturali e agli effetti di ridondanza che rendono le strategie evolutive più diversificate.
Verso la soluzione di un mistero
Si viene così organizzando una sensibilità darwiniana alternativa. Non è un caso che proprio Chomsky abbia co-firmato nel 2002 un celebre articolo con Marc Hauser e Tecumseh Fitch in cui l'evoluzione del linguaggio viene spiegata come una cooptazione di funzioni adattative precedenti, se non addirittura come uno «spandrel», cioè un pennacchio architettonico: la metafora che Stephen J. Gould aveva utilizzato per rappresentare i caratteri degli organismi che si sviluppano senza alcuna funzione adattativa originaria - in quanto effetti di struttura o dismissioni - e che poi vengono ingaggiati opportunisticamente dalla selezione naturale. Il nuovo quadro evoluzionistico in cui è immerso il programma minimalista dell'ultimo Chomsky si fonda sull'idea, cara a Gould, di una selezione naturale che agisce come un bricoleur in un contesto di vincoli strutturali interni, come spiega bene il giovane biolinguista di Harvard Cedric Boeckx nel suo Linguistic Minimalism del 2006.
L'ipotesi funzionalista e l'ipotesi strutturalista, avanzate congiuntamente da Darwin nel 1872 per rispondere al problema della complessità adattativa, sembrano dunque rincorrersi ancora l'un l'altra. Dal loro riverbero nascerà probabilmente una «psicologia evoluzionista di seconda generazione» che, emancipandosi dalle rigidità teoriche della prima, saprà forse avvicinarsi di un altro passo ancora al mistero delle origini delle nostre più elusive facoltà.

Per andare alle fonti: Titoli per un sentiero di lettura
Il libro di Francesco Ferretti è titolato «Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana» (Laterza, 2007). La profezia di Noam Chomsky è in «Linguaggio e problemi della conoscenza» (Il Mulino, 1991). L'esistenza di grammatiche di complessità intermedia è argomentata da Steven Pinker in «L'istinto del linguaggio» (Mondadori, 1997) e in «Come funziona la mente» (Mondadori, 2000). Il metodo dell'ingegneria inversa è esposto da Daniel Dennett in «L'idea pericolosa di Darwin» (Bollati Boringhieri, 1997). Una raccolta italiana recente sulla psicologia evoluzionista è M. Adenzato, C. Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica» (Bollati Boringhieri, 2007). Due buoni esempi di argomentazione critica sulla psicologia evoluzionistica: John Dupré, «Human Nature and the Limits of Science» (Oxford University Press, 2001); David J. Buller, «Adapting Minds» (The MIT Press, 2005). Gli articoli di Hauser, Chomsky e Fitch sull'evoluzione della facoltà del linguaggio: «The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?», in «Science», 298, pp. 1569-79; «The Evolution of Language Faculty: Clarifications and Implications», in Cognition, 97, pp. 179-210. Spunti brillanti per una darwinizzazione soft del minimalismo chomskiano si ritrovano in Cedric Boeckx, «Linguistic Minimalism» (Oxford University Press, 2006). Il darwinismo esteso è ampiamente descritto e argomentato da Stephen J. Gould in «La struttura della teoria dell'evoluzione» (Codice edizioni, 2003).




Repubblica 29.6.07
Violenta e appassionante la grande orchestra popolare
Questa sera nella cavea dell'Auditorium l'ensemble diretto da Ambrogio Sparagna
di Felice Liperi


Una grande orchestra popolare, potente come un´incontenibile performance sonora, violenta e appassionante insieme, apre questa sera come ormai tradizione l´estate musicale di "Luglio Suona Bene" nella Cavea dell´Auditorium Parco della Musica. In programma La Notte della Taranta il concerto/evento che prende ispirazione dallo spettacolo che ogni anno ad agosto nel paese di Melpignano celebra la passione del Salento per la «pizzica», il ritmo popolare che scandiva l´antico rituale di cura dal morso immaginario della tarantola. Sul palco l´Orchestra Popolare La Notte della Taranta, nella formazione che nell´edizione 2006 chiuse trionfalmente il festival salentino.
Trenta musicisti diretti dal maestro concertatore Ambrogio Sparagna, musicista ed etnomusicologo allievo del grande studioso Diego Carpitella, eseguiranno un repertorio di brani della tradizione popolare salentina con tamburelli, organetti, fiati, percussioni voci soliste e coro. Sarà questo l´ultimo concerto in cui Ambrogio Sparagna dirigerà l´ensemble perché com´è noto il musicista si dedica alla direzione dell´Orchestra Popolare Italiana fondata recentemente presso l´Auditorium. Il concerto di questa sera è una vera e propria celebrazione de La Notte della Taranta il più grande festival musicale dedicato al recupero della pizzica salentina - la musica che scandiva l´antico rituale di cura dal morso del pericoloso ragno velenoso - e alla sua fusione con altri linguaggi musicali, dalla world music al rock, dal jazz al pop.
Nato nel ‘98 su iniziativa dell´Unione dei Comuni della Grecia Salentina e dell´Istituto Diego Carpitella, ed oggi sostenuto dalla Regione Puglia e dalla Provincia di Lecce, il festival ha ospitato artisti come Stewart Copeland, Joe Zawinul, Raiz, Teresa De Sio, Daniele Sepe, i Radiodervish, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Giovanni Lindo Ferretti e Piero Pelù.
Auditorium Parco della Musica, Cavea, ore 21, biglietto unico 20 euro, tel. 0680241281 Biglietteria 199109783.

giovedì 28 giugno 2007

Repubblica 28.6.07
Cosa faceva Freud alle donne
Lo psicoanalista e il sesso femminile
di Nadia Fusini


In un libro di Lisa Appignanesi e John Forrester le prime amiche e pazienti, i numerosi triangoli amorosi e professionali
La figlia Anna, i rapporti con Lou Salomé, Marie Bonaparte, la Deutsch

Vi avverto: è rozzo il piacere che si ricava dalla lettura di questo libro Sigmund Freud e le sue donne (La tartaruga Ed., pagg.524, euro17,50), scritto in modo competente, ma piatto, da Lisa Appignanesi e John Forrester, quest´ ultimo accademico, professore di Storia e Filosofia a Cambridge, e la prima scrittrice e conduttrice di programma televisivi e artista a quanto pare a tutto campo. Né brilla la traduzione di Ester Dornetti; mancanza di lustro che non le si può addebitare (alla traduzione, intendo), in assenza di luce originale. Il libro è stato scritto nel 1992, anno in cui per i tipi di Laterza uscì in Italia un altro studio sullo stesso tema, dal titolo Psicoanalisi al femminile, a cura di Silvia Vegetti Finzi; un libro scintillante per passione, dove comparivano per lo più le stesse protagoniste, ma non come «donne di Freud». Nel libro italiano c´erano Anna Freud e Sabine Spielrein e Marie Bonaparte e Lou Andreas-Salomé e Helen Deutsch e Karen Horney e c´era pure Melanie Klein, e si arrivava fino a Francoise Dolto e Luce Irigaray - perché il criterio non era che da Freud le donne che si erano dedicate alle psicoanalisi fossero state "toccate" con mano. Mentre qui, nel libro inglese, intendo, si privilegia un´idea di conoscenza che piacerebbe all´incredulo Tommaso.
Scherzi a parte, le donne di cui parlano Appignanesi e Forrester sono le prime amiche e pazienti del dottor Freud, compresa la figlia devota, e tra le pazienti e le discepole quelle che si trasformarono poi in colleghe. Non c´è invece Melanie Klein, e giustamente: lei stessa non vorrebbe certo rientrare sotto il cappello «le donne di Freud» - la sua indipendenza ne soffrirebbe.
Nella prefazione alla ristampa inglese del 2005, che accompagna l´attuale versione italiana, si sottolinea come il libro sia stato scritto «nel secolo di Freud», un secolo ormai superato; ma entrambi gli autori si dichiarano certi che le "donne di Freud" non smetteranno di intrigare chi nel nuovo millennio ancora abbia memoria di quell´avventura straordinaria che è stata (è ancora?) la psicoanalisi. Condivido con loro tale certezza. E malgrado il mio appunto iniziale, consiglio di leggere il libro.
Ma vi prego, non lasciate che a soddisfarsi sia semplicemente il gusto del pettegolezzo. So bene come l´orecchio si delizi accostandosi a quella specie di confessionale che è il lettino psicoanalitico. La psicoanalisi, dopo tutto, che altro è, se non un modo differente di usare il letto?
Certo, a leggere una dietro l´altra le vite delle donne che a vario titolo hanno contribuito all´invenzione della psicoanalisi, fa impressione osservare quali legami ambigui si stringessero tra maestro e discepole e pazienti e allieve. Più che legami, nodi. Il solo modo di legarsi, forse.
Non è soltanto con Jung e Sabine Spielrein che Freud crea un triangolo. Si ripete tra lui, l´allievo Ernst Jones e la moglie di lui Loe, l´ebrea ricca e intelligente e invalida. E tra Tausk e Lou Salomé e di nuovo tra Tausk - Helene Deutsch e sempre Freud.
Per non parlare dei nodi che la figlia Anna, Anna-la-Santa, Anna-Cordelia, tesse non solo con il padre; ma con Dorothy Tiffany Burlington, ricchissima ereditiera americana, la quale viene in Europa per curarsi lei e i figli e diventa la compagna di Anna, la quale prende in cura i figli di lei, che si ritrovano la medesima donna nelle funzioni di terapista, insegnante, madre e compagna della madre. I risultati sono che Bob continua a soffrire di depressione e ne muore a cinquantatré anni e Mabbie si suicida a cinquantasette anni. Non male, potreste dirmi.
Colpisce, inoltre, quanto breve fosse l´apprendistato: Helene Deutsch è in analisi da appena tre mesi, quando Freud le manda un paziente, Tausk. Il quale, sarà un caso, si suiciderà.
Ruth Mack Brunswick avrà anche avuto doti naturali, ma aveva appena iniziato il tirocinio quando Freud le mandò un paziente illustre - l´uomo dei lupi. Con grande invidia e nessuna gratitudine da parte di Melanie Klein, che sarebbe stata più adatta. Anche così Freud esercitava il suo potere.
La cura durava - beati loro! - pochi mesi. Tre mesi di terapia con il dottor Jung e Sabine Spielrein guarisce. Marie Bonaparte va una prima volta per sei mesi, poi uno o due mesi l´anno, finché Freud muore. E da pazienti si diventa amici in un momento. E il padre fa l´analisi alla figlia, la madre al figlio, le mogli convincono i mariti, e i mariti le mogli a farsi analisti. E ci si prestano soldi e favori senza pregiudizi. Come in una saga disordinata e incoerente e immorale.
Pure, non fermatevi a gustare soltanto queste emozioni; ancora più forte è l´emozione di incontrare una per una le "donne di Freud", le quali sono un insieme di creature tutte davvero molto interessanti. E il vero modo di incontrarle è nel pensiero, nel modo libero in cui, con Freud e dopo Freud, continueranno a lavorare in una stanza, dietro a un letto.
Perché, se all´inizio del libro il lettore si chiede: ma che gli fa alle donne Freud? - andando avanti viene piuttosto da domandarsi: ma che ne fanno loro di Freud? e della psicoanalisi? Ne sono le vestali? O la trasformano?
Per rispondere a questa domanda si può tornare all´altro libro che citavo, quello di Laterza. Rimanendo invece a questo, non mancheremo di notare come affiori in tutte loro una lingua dell´origine della psicoanalisi, una specie di intonazione primitiva, che in Freud, grande, sommo scrittore, non avevamo colto. Le sue allieve non gli sono pari: neppure chi tra di loro vanta un pedigree letterario di eccellenza, come Lou Andreas-Salomé, la quale giunge a scuola da Freud dopo Nietzsche. Freud la accoglie a braccia aperte, con un fervore e un riconoscimento che crescono in proporzione alla quantità e qualità degli uomini che Lou ha già sedotto. La quale Lou, come la Lulù di Wedekind, sarebbe pronta a dire: «se degli uomini si sono uccisi per me, questo non diminuisce affatto il mio valore». E Freud senz´altro risponderebbe «semmai lo aumenta», assecondando così una certa idea del "femminile", che non solo in Wedekind risuona.
E´ un Freud domestico, questo, preso tra le sue donne, ripeto. Alle quali chiede di impegnarsi nella domanda da lui stesso inevasa «Was will das Weib?» E loro provano a rispondere.
Helene Deutsch si impegna a comprendere il continente oscuro della femminilità con l´arma dell´"invidia del pene" - considerato come un dato puro e semplice, fino ad apparire come l´apologa reazionaria di un masochismo femminile, diagnosticato da Freud e in quanto tale inattacabile. Joan Riviere, invece, si accanisce a definire la natura essenziale della femminilità come un bene che si fonderebbe sulla fase orale del succhiare - capezzolo, latte, pene, seme, bambino. Quanto a Marie Bonaparte, in tutto e per tutto principessa (del pisello) e fanatica di Freud, si fa spostare il (la in questo libro) clitoride più vicino alla vagina, impegnata com´è in una lotta impari contro la propria frigidità.
Evidentemente, i colloqui con il maestro non la distraggono da più drastici interventi. E ascolta non tanto le interpretazioni dell´amica Ruth Mack Brunswick, quanto i consigli che le offre sulle tecniche di masturbazione.
Combattono contro malattie e nevrosi che hanno a che fare con questioni sessuali piuttosto semplici, diciamo così: questioni di clitoride e vagina e pene, come e dove collocarli rispetto al piacere. (E´ di là da venire una differente attenzione della psicoanalisi, che ci mette piuttosto uomini e donne in rapporto con la nostra finitudine. E con altri fantasmi che hanno nome Morte, Desiderio, Legge.) Se non alla donna, si piegano all´ascolto dei bambini. Prima le donne e i bambini - non è così? Non bisogna difendere i più deboli? le donne, che patiscono di più le ipocrite leggi della morale vittoriana, i bambini che soffrono di più in famiglia? Se la psicoanalisi degli inizi vuole parlare del sesso, è per sfondare il muro del silenzio che lo circonda: sotto l´effetto di illusioni emancipatorie, illuministiche, crede di poterci liberare dalla repressione.
E´ sotto gli occhi di tutti che non è stato così. Oggi le differenze chiedono diritti, non libertà. E l´istanza del potere e della padronanza diffondono in tutti il miraggio della soddisfazione a vantaggio del piacere conformista. Direbbe Freud: infinite sono le astuzie, incredibilmente convoluti i meandri dell´economia del piacere.
Io aggiungerei: nella spirale del piacere e del potere non c´è più chi si strugga per il primo. Anzi, sempre più gente li confonde. E visto che sono stata severa con questo libro, chiuderò con un´osservazione a suo favore: meditare sulla vita di eroine che si sono battute a ragione o a torto per liberare la verità del sesso fa bene alla salute mentale. Specie per chi non ha altri altari a cui pregare.
In più, queste donne manifestano un modo di relazione all´altro esemplare per attenzione, amicizia, ascolto. Sì, tutte le donne di Freud, avendo intrapreso la strada della psicoanalisi come professione e missione, nel pensiero e nell´atto testimoniano che si potrebbe arrivare a pensare al mondo come a una casa. E al pensiero medesimo come a una terapia contro lo sradicamento e la perdita di mondo. Che sia questo essere donne? Freudiane, o meno?

Repubblica 28.6.07
Oggi un convegno a Roma
I socialisti liberali in Europa


ROMA - "Socialismo liberale oggi in Italia ed in Europa" è il tema del convegno che si tiene oggi a Roma dalle 10 nella Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati. Ad aprire i lavori sarà la relazione dello storico Massimo L. Salvadori dedicata a "Il socialismo liberale da Rosselli a Bobbio". Nel corso della giornata, sono previsti ancora gli interventi di Alessandro Roncaglia su "Il socialismo liberale in Paolo Sylos Labini" e di Pietro Rossi. Partecipano, tra gli altri, Giorgio Ruffolo, Giulietto Chiesa e Achille Occhetto.

Repubblica 28.6.07
Il maschilismo dei romani
di Eva Cantarella


Anticipiamo parte del contributo di Eva Cantarella sulla condizione femminile nell´antica Roma pubblicato su National Geographic in edicola da oggi

Nei lunghi secoli della storia di Roma, la condizione femminile cambiò profondamente. Nel periodo più antico della loro città, infatti, i romani riservarono alle donne un ruolo ben preciso: mogli e madri, riservate, sottomesse ai loro uomini (padre prima, marito poi), caste prima del matrimonio, rigorosamente fedeli se sposate; e soprattutto, sempre, silenziose. Come dimostra la storia di un´antica divinità dal nome molto significativo, Tacita Muta. Prima di assumere questo nome, leggiamo nei Fasti di Ovidio, Tacita era una ninfa di nome Lara (dal verbo greco laleo, parlare), che, purtroppo per lei, un giorno ebbe la pessima idea di svelare alla sorella Giuturna l´amore che Giove nutriva per lei, rendendo vani i tentativi di seduzione del dio. Per punirla, Giove le strappò la lingua, e partire da quel giorno Lara divenne Tacita, e fu onorata come dea del silenzio. Una storia dal valore pedagogico molto chiaro, quella di Lara-Tacita: se aveva fatto cattivo uso della parola non era stato per leggerezza individuale, era stato perché era una donna. Inevitabilmente, per una caratteristica e un difetto tipicamente femminili. Tacere, dunque, per evitare di parlare a sproposito, era un dovere fondamentale delle donne, al quale molti altri si affiancavano: non contrastare i desideri degli uomini, non immischiarsi nei loro affari, non mettere mai in discussione il loro comportamento, e ovviamente, lo abbiamo detto, mantenersi "pudiche", la parola che a Roma indicava le donne che rispettavano la regola della castità se nubili e della fedeltà se sposate.
Cosa accadeva alle donne che non rispettavano questi doveri? Per quanto riguardava la pudicizia delle donne sposate, la risposta viene da una legge, attribuita a Romolo, che stabilisce i poteri del "tribunale domestico". Il marito giudicava con i parenti in questi casi: se la moglie aveva commesso adulterio o se aveva bevuto vino. In ambedue i casi Romolo concesse di punirla con la morte. Non solo l´adultera poteva essere messa a morte, dunque, ma anche la donna che beveva vino. Inutile dire che i tentativi di comprendere le ragioni di quest´ultima regola sono stati molti (...). Ma la spiegazione più convincente della regola è quella che ne davano i romani stessi: bevendo, le donne potevano perdere il controllo, commettere adulterio, e più in generale comportarsi in modo disdicevole: «La donna che beve vino», scrive Valerio Massimo, «chiude le porta alla virtù, e la apre ai vizi». Comunque la si interpreti, la regola è evidente e indiscutibile espressione del desiderio di controllare la popolazione femminile, imponendo una riservatezza che, accanto alle altre virtù femminili, prevedeva anche il dovere primario del silenzio. Per i Romani, la parola era virtù e privilegio maschile.

Corriere della Sera 28.6.07
Tom Holland pone il conflitto greco-persiano all'origine di quello attuale. Un'analisi che fa discutere
Perché ci odiano
Il mito millenario e la «domanda di Erodoto»: da dove viene lo scontro di civiltà con l'Oriente
di Luciano Canfora


«Perché ci odiano?», la storia stessa è nata con questa domanda giacché fu nel conflitto fra Oriente e Occidente che il primo storico del mondo, nel lontano V secolo a.C., scoprì il tema dell'opera di tutta la sua vita. Si chiamava Erodoto.

La differenza tra Oriente e Occidente — scrive Tom Holland ad un certo punto della prefazione al suo Fuoco Persiano (Il Saggiatore, pagine 448, e 22) — è il «presupposto più duraturo della storia ». Che il pensiero di Holland sia attizzato dalla attuale, fittizia, contrapposizione tra Bush e Ahmadinejad è dimostrato dal fatto che la domanda attribuita all'attonito Bush dopo l'11 settembre 2001, «Perché ci odiano?», viene da Holland attribuita direttamente ad Erodoto: la brillantezza sfiora la disinvoltura. Infatti Erodoto non si esprimeva così, si poneva invece la domanda intorno all'origine del conflitto greco-persiano e inoltre prometteva un racconto che desse conto della grandezza sia degli uni che degli altri, tanto da essere definito — sei secoli dopo — «filobarbaro» da Plutarco in uno scritto che è soprattutto una esercitazione scolastica. Naturalmente il conflitto greco-persiano si presta a tali diagnosi sommarie ed inoltre è materia che, nonostante il moltissimo che se n'è scritto (penso alla fondamentale Bataille de Salamine edita a Parigi dal greco Rados nel 1915), continua ad appassionare e a suscitare nuove ricostruzioni talvolta molto ben fatte, come ad esempio La forza e l'astuzia di Barry Strauss (Laterza 2004).
Holland ha il pregio di saper narrare, e quindi — trovandosi necessariamente debitore delle fonti antiche — sa amabilmente rielaborarle e vivacizzarle. Anche facendo intervenire la fantasia: come quando immagina «il calpestio dei piedi dei soldati che ripiegano» (p. 286) o la non attestata «corsa» di Ipparco attraverso una piazza di Atene nel giorno dell'attentato (p. 142). Lui stesso ci scherza su, quando autoironicamente descrive il ruolo delle sue note a piè di pagina, preannunziate — scrive — da «un numero nel testo aleggiante come una mosca su un mucchio di letame» (p. 22).
Ciò che però merita, soprattutto, attenzione non è tanto la brillantezza della ricostruzione quanto la sua ferrea unilinearità ancorata all'antagonismo Oriente/Occidente visto appunto come «presupposto duraturo della storia» e incarnato, per così dire, dallo scontro armato tra Greci e Persiani nei primi decenni del V secolo a.C. Lo schema è tenuto fermo da Holland fin nel «commiato » del volume culminante nella vittoria di Alessandro sui Persiani. Molte incrinature si potrebbero in verità infliggere a questo schema. Per esempio, richiamarsi al giudizio di Tucidide secondo cui le guerre persiane ebbero assai minore importanza rispetto al conflitto di potenza tra gli stessi Greci, la cosiddetta «guerra del Peloponneso ». Oppure ricordare che per gran tempo la storia delle città greche aveva avuto nel re di Persia e nei suoi satrapi i principali registi: ben prima di Beloch, lo pensava già Demostene, ma di sicuro, ancor prima, Ippia e lo stesso Temistocle. E scendendo nel tempo si potrebbe osservare che, a lungo, il grande antagonista dell'impero romano (cioè dell'«Occidente» per eccellenza) furono i Germani a Nord ben più che i Parti ad Est; e che comunque l'impero romano cosiddetto «d'Oriente» o «bizantino», pur essendo innegabilmente e legittimamente l'erede di Roma (la «Seconda Roma»), fu via via trattato dagli Occidentali come un nemico se non addirittura come la quintessenza dell'Oriente. Insomma aveva ragione Gibbon quando scriveva (ma Holland se ne libera senza discuterlo) che «la differenza tra Est e Ovest è arbitraria e si sposta intorno al globo».
In un libro giovanile, pieno di intelligenza, Santo Mazzarino parlò, per l'età arcaica, di «due Orienti»: quello del mondo microasiatico sfociante nella Ionia e quello assiro- babilonese (poi persiano) che «feconda la grecità» ( Tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, p. 24). E in un celebre saggio di molti anni più tardi ( Persian Empire and Greek Freedom, 1979) Momigliano osservò, tra l'altro, che «conosciamo circa 300 nomi di Greci che operarono al servizio dei Persiani nei circa due secoli prima di Alessandro»: medici, artigiani, mercenari etc. Per non parlare dei moltissimi che si schierarono con Serse già nel 480-479, o della opzione filopersiana dello stesso oracolo di Delfi.
Eppure non si trattava solo di propaganda. Cosa c'era dunque di «incompatibile» tra Greci e Persiani, nonostante tutti gli intrecci, i compromessi, le temporanee dipendenze? Momigliano rispondeva all'ineludibile quesito additando la scelta, greca, di porre «le leggi» al di sopra del «potere» dispotico; il quale può essere illuminato ma anche non esserlo. Focilide proclamava la superiorità di una «città ordinata» persino rispetto alla splendida Ninive.
Ma è il corto circuito tra l'antico e l'odierno conflitto che non funziona. L'«Oriente» contro cui oggi reputiamo (o meglio alcuni reputano) di essere in guerra non è che una creazione retorica. È Oriente la Russia alle prese coi Ceceni? O l'India alle prese con il rissoso vicino pakistano?

Muro contro muro, da 2500 anni
Perché ci odiano? Nei giorni e nelle settimane che seguirono l'11 settembre, il presidente Bush non era l'unico a porsi quella domanda assillante. Sui giornali innumerevoli esperti tentavano di spiegare il rancore dei musulmani per l'Occidente, facendo risalire le sue origini alle bizzarrie della più recente politica estera americana oppure, risalendo ancora più indietro, alla spartizione del Medio Oriente operata dalle potenze coloniali europee o addirittura — seguendo l'analisi di Bin Laden a ritroso, fino al suo punto di partenza — alle crociate stesse. Nell'idea che la prima grande crisi del XXI secolo potesse essere emersa da un vortice di odi antichi e confusi c'era un'evidente ironia: la globalizzazione avrebbe dovuto sancire la fine della storia e invece sembrava destare dal loro riposo ancestrale un gran numero di fantasmi sgraditi. Per decenni l'Oriente a cui l'Occidente si è contrapposto era comunista; oggi, come da sempre prima della rivoluzione russa, è islamico. La guerra in Iraq; la crescita in tutta Europa di sentimenti di intolleranza verso gli immigrati, soprattutto se musulmani; la questione dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea; tutto questo, combinato con gli attacchi dell'11 settembre, ha alimentato un'angosciosa consapevolezza della spaccatura che divide l'Occidente cristiano dall'Oriente islamico. Che le civiltà siano condannate a nuovi scontri, come hanno variamente sostenuto i terroristi di al-Qaeda e gli studiosi di Harvard, rimane tuttora una tesi controversa. Ma è indiscutibile che le diverse culture, almeno in Europa e nel mondo musulmano, attualmente sono obbligate a esaminare con attenzione le fondamenta stesse delle loro identità. «La differenza fra Est e Ovest», pensava Edward Gibbon, «è arbitraria e si sposta intorno al globo». Tuttavia, il fatto che esista... l'Oriente è l'Oriente, l'Occidente è l'Occidente — è senza dubbio il presupposto più duraturo della storia. Molto più antico delle crociate, dell'Islam o del cristianesimo, la sua ascendenza risale quasi a 2500 anni fa.

Il Giornale 28.6.07
E la sinistra radicale si smarca: serve una forza vicina alla gente


Si affievolisce lungo la strada, la novella veltroniana. Dal salottino buono democratico ai rudi cantieri della sinistra, la voce si perde nel vuoto.
Tanti auguri, sei nu bravo guaglione, amici come prima. O «ex », come nel caso di Cesare Salvi. Soddisfatto del discorso di Walter: «Veltroni ha rafforzato il nostro convincimento, non soltanto di non entrare nel Partito democratico, ma anche di dare vita a una grande forza della sinistra in Italia». Un discorso «ideologicamente vecchio» lo bolla il capogruppo della Sinistra democratica al Senato. E non tanto perché siano cambiate anche alcuni punti di riferimento (De Gasperi), quanto perché Veltroni pare richiamarsi al «blairismo proprio mentre Blair esce di scena». Il ragionamento di Salvi condensa la sensazione agro-dolce connessa alle relazioni tra il nuovo candidato leader del Pd e la Sinistra alternativa. «La capacità della politica è di dare risposta ai problemi contemporanei, e non è con queste generiche forme che si dà risposta: si conferma che il Pd non sarà nel socialismo europeo, c’è una proposta di riforma istituzionale in senso presidenzialista anch’essa vecchia, mentre oggi la crisi della politica è crisi di partecipazione e consenso dei cittadini, non crisi di decisionismo».
Insomma, «noi siamo un’altra cosa». È sulla facile differenziazione dal veltronismo anche ogni commento che arriva da Rifondazione, nonostante (forse proprio per) la benevolente accondiscendenza dichiarata da Bertinotti nei confronti del giovane Walter, così incline a occuparsi degli ultimi della terra. Già, ma in che modo? Con belle frasi e scarso ancoraggio alla scomoda realtà. «A questo Paese serve una forza politica che stia sulla dimensione dei bisogni delle persone», per dirla con il capogruppo dei deputati prc, Gennaro Migliore. «È un leader autorevole e significativo - si sforza Franco Giordano -, di un partito che ha il profilo di una forza moderata». Le differenze «ci sono e rimangono», constata Giordano. E invita Veltroni, casomai volesse conquistarsi la leadership dell’Unione, nelle secche di un «confronto con le culture e i programmi delle sinistre all’interno di un grande percorso di partecipazione democratica».
Non spaventa l’alleato Walter. «Se ci spaventassero gli alleati saremmo davvero in cattive acque», scherza Migliore. Ma se il Pd «è per una società interclassista», Prc vuole lavorare a «dare una rappresentanza ai giovani precari, ai lavoratori, ai pensionati». Stesse note suona il capogruppo dei deputati pdci, Pino Sgobio, che rimprovera a Veltroni «l’errore di presentare le pensioni come uno scontro tra generazioni» e l’aver dimenticato che «la priorità è il lavoro di qualità». Auguri arrivano dal capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli, che con gusto vagamente ironico manifesta soddisfazione per l’inserimento dell’«ambiente e del clima nelle previsioni programmatiche del Pd». Peccato però che «sino ad oggi il Pd ha proposto carbone, il ritorno al nucleare, un maggiore consumo del suolo e della aree agricole». Pronti a confrontarsi nei fatti con Veltroni, conferma Pecoraro Scanio, a patto che sappia «far valere nel Pd ciò che sino ad oggi non si è verificato, perché un Rubbia o un Gore che dicono no al carbone sono lontani mille miglia dall’attuale gruppo dirigente del Pd».
Mille miglia è la lontananza, per ora, dal cantiere socialista. Il segretario Enrico Boselli apprezza che Veltroni «abbia cercato di dare un’anima a un partito che non ce l’ha». Nonostante l’appello veltroniano, i socialisti ritengono che «un conto sia il leader, un altro il partito che sta nascendo, con forti componenti integraliste e clericali». Bravo il primattore, scadente commedia e casting: «Buona recita su uno spartito scontato», constata da spettatore Lanfranco Turci. Oppure, come piace immaginare a Roberto Villetti, Veltroni è piuttosto «acqua gettata sul terreno arido di Quercia e Margherita». Acqua fresca per vegetali assetati. Ma pur sempre, irrimediabilmente, vegetali.

Liberazione 28.6.07
L'americano di Roma che vuole cambiare l'Italia
di Stefano Bocconetti


, Torino. Stati Uniti. Se i simboli hanno un senso, Walter Veltroni, nel discorso in cui ha accettato di fare il leader del piddì, in un'ora e mezza ha fatto un lunghissimo percorso. Lineare, diretto come forse non gli era riuscito neanche all'ultimo congresso dei diesse. Un'ora e mezza di parole, slogan, ragionamenti e immagini colorate che portano la sua nuova formazione esattamente al di là dell'Oceano. Stavolta senza possibilità di equivoci. Perché alla fine, quando la sala - ben selezionata nonostante gli annunci che la volevano aperta "solo" al popolo dei democratici - era già pronta agli applausi finali, il sindaco di Roma ha detto chiaro e tondo che il suo modello, modello sociale, sono gli States. Userà queste parole: da noi, in Italia, il fatto che «il figlio di un operaio debba continuare a fare l'operaio» mentre «il figlio del dottore avrà tutte le porte aperte» dipende da una nuova categoria della sociologia. Inventata per l'occasione: "l'ereditarismo". Altra cosa è invece l'America. Dove - dice - tutti hanno le chances per provare a salire. Sù, in alto. Magari molti cadono, ma qui siamo pur sempre in Europa e allora, a differenza di quanto avviene in America, si può pensare che invece di finire in una roulotte possa intervenire ciò che resta del welfare. Ma sono dettagli. L'unica cosa che conta è che lì, negli States, «ci si può provare». A disegnarsi un futuro se non migliore, almeno più ricco. Economicamente.
America, allora, quest'America. Sarà la cifra, l'identità del nuovo partito. Veltroni comincia a disegnarla proprio qui, a Torino. Puntuale, puntualissimo il sindaco si presenta nella ex-sala delle presse, ridisegnata da Renzo Piano, alle cinque del pomeriggio. Non è vero come avevano sostenuto gli uomini del suo staff che non ci sarebbero state sedie a disposizione degli invitati. A loro, ai big erano riservate le prime sei fila. Così c'è qualche malumore, soprattutto fra chi aveva creduto a quello che aveva letto sui giornali. E magari sognava di occupare un posto e lasciare in piedi i dirigenti della Fiat o l'amministratore delegato di BancaIntesa. Un po' di tensione ma bastano le parole di Veltroni, quando dice che comunque dopo il discorso andrà a salutare di persona anche chi ha dovuto seguire la manifestazione nel maxischermo allestito in un'altra sala, per riportare la calma.
E si comincia. Metà sala gialla - si chiama così ora questo pezzo della vecchia fabbrica - è piena soprattutto di giornalisti e amici di Veltroni, il pubblico è piuttosto avanti con gli anni. Ma che discorso sarà quello del neocandidato (un eufemismo perché in mancanza di rivali è già neosegretario) del piddì? Difficile da sintetizzare, difficile definirlo con un solo aggettivo. C'è molta America, s'è detto. Ed esattamente come nelle parole di alcuni dei leader democratici di oltre Oceano i "capitoli" del suo discorso contengono parole care alla sinistra.
Dentro, però, dentro quei paragrafi ci sono idee, progetti, proposte politiche moderate. C'è una filosofia che tutto si può definire meno che di sinistra.
Così è sulla precarietà. Veltroni dice che la lotta alla precarietà deve diventare l'essenza del nuovo partito democratico. Precarietà che non rende solo difficile il lavoro ma "invade" tutte le sfere della vita. Arriva anche nei rapporti personali. Sembra l'inizio di una sfida a sinistra, verso una sinistra che di questi temi ha fatto una bandiera. Ma non sarà così. Perché subito dopo Veltroni spiega che le imprese hanno il diritto ad assumere pagando meno un dipendente al primo impiego. Semmai deve essere poi lo Stato a non lasciare "soli quei giovani". Come fare? Con un nuovo patto fra generazioni. Slogan altisonante ma che si traduce in un semplice invito alla moderazione rivolto al sindacato. Che deve smetterla di difendere solo gli occupati stabili e i pensionati, deve smetterla di concentrarsi solo sull'abolizione dello scalone. Ma deve pensare a come spostare risorse dal sistema pensionistico, dal welfare al sostegno dei giovani.
E visto che si parla di risorse, qui Veltroni piazza uno dei suoi affondi. Di quelli che faranno più discutere. Sostenendo che è ora di mettere da parte una vecchia idea della sinistra che chiede più tasse per spendere di più. In Stato sociale. Ovviamente lui accetta l'idea che una riduzione potrà avvenire solo quando sarà colpita completamente l'evasione. "Pagare meno, pagare tutti", dice. Ma aggiunge: non è detto che solo quando si realizzi la seconda condizione, si debba realizzare anche la prima. Insomma, bisogna trovare i sistemi per cui la riduzione delle tasse o la semplificazione del sistema fiscale possa partire da subito. Soprattutto per le piccole e medie imprese che sono il "cuore di questo paese". C'è anche un applauso a questo passaggio. Piccolo ma significativo.
Titoli dei capitoli di sinistra, si diceva. Come sulla questione ambientale. Qui Veltroni fa sfoggio di aver letto le risoluzioni dei social forum. E dice che l'ambientalismo non può essere un argomento che si aggiunge agli altri. Deve essere il cuore, "il perno" di qualsiasi politica. Anche qui: sembra che parta una sfida diretta ai movimenti, alle comunità che su questo tema hanno elaborato e costruito vertenze. Ma è l'esatto contrario. Perché da quel presupposto Veltroni parte proprio per colpire i "movimenti". E dice che l'ambientalismo moderno oggi si traduce col sì all'Alta Velocità, il sì ai rigassificatori.
Stesso schema, sulla scuola, l'istruzione. Chiede soldi, spese, risorse da destinare alla ricerca. Salvo poi aggiungere che vorrebbe un sistema più legato alla formazione professionale. Alle esigenze delle imprese.
Dove invece quel modello - parole care alla sinistra, contenuti di destra -quel modello, si diceva salta è sulla questione immigrazione. Che Veltroni tiene unita al tema della sicurezza. E qui ci sono solo i luoghi comuni che si leggono ogni giorno sui quotidiani. Certo, il sindaco che va in Africa ad inaugurare scuole non può esagerare. E infatti invoca inclusione, tolleranza. Come quella che invocavano i nostri nonni quando arrivavano da migranti in America (sempre lì si finisce). Però poi, sillabando le parole, chiede "più polizia nelle strade, nei quartieri". Chiede, urla, "la giusta punizione per chi attenta al diritto alla sicurezza dei nostri concittadini". Qualcuno lo applaude anche a questo passaggio.
Questi, questi quattro punto programmatici, sono la piattaforma del suo piddì. Per il resto è il Veltroni di sempre. Quello che usa le parole giuste al momento giusto. E così dopo un'ora abbondante di dettagli sulle singole proposte, ecco i voli pindarici. Di un partito che non deve essere la semplice sommatoria delle tradizioni socialista e cattolica sociale ma deve - naturalmente - essere "una casa aperta". Alla società civile. Un posto dove la gente, le persone si rivolgano per risolvere i propri problemi. Il Veltroni di sempre. Che cita De Gasperi, Olof Palme e Vittorio Foa. Più la lettera di una ragazza di quindici anni, che non c'è più, stroncata da un male incurabile. Pacato, equilibrato. Al punto che dice di sì alle preoccupazioni espresse da Pezzotta al family day ma dice anche di sì - e lo dice molto chiaramente - all'approvazione della legge sui Dico. "Perché la cosa più grave sarebbe imporre uno strano bipolarismo: da una parte l'integralismo dall'altro un anacronistico laicismo". La scelta giusta - anche qui: naturalmente - è al centro esatto delle due tesi.
L'unico argomento dove il sindaco concede poco alla mediazione è sulla legge elettorale. Suo vecchio pallino. La vuole bipolare, perché i guai dell'Italia sono in un eccesso di frantumazione, bipolarissima. Con qualche riconoscimento al diritto alla rappresentanza ma soprattutto con una legge capace di dare gli strumenti al governo per governare.
Veltroni di sempre, si diceva. Con in più, ed è forse uno degli elementi di novità di ieri, col fatto che stavolta Veltroni sembra ben cosciente del suo ruolo. Dice che da quando è "intervenuta questa novità", cioè la sua candidatura, il piddì è schizzato nei sondaggi, l'Unione torna in testa. Piddì e Unione: li cita in quest'ordine. Nel primo caso la sua leadership è certificata dall'entusiasmo del Lingotto. Nel secondo caso, la sua direzione sarà tutta da conquistare. Ma nessuno ci fa caso, qui a Torino. Finisce così. Come annunciato, con le musiche di Edward Elgar, il musicista tedesco che piaceva a Stanley Kubrick. Ma non sarà l'unico elemento della colonna sonora. C'è spazio anche per i Procol Harum, un po' di anni '60, figurine Panini e tv in bianco e nero servono sempre. E per i Counting Crows. Folk rock americano. Semplice, a tratti banale. L'America di largo consumo, insomma.

Liberazione 28.6.07
Suore e leader, sindaci e manager: la doppia platea abbraccia Walter
Politici e dirigenti locali sono in Sala Gialla, il popolo nello spazio attiguo con maxischermo
Dei membri dell'Unione presenti solo Fassino e il probabile futuro vice-segretario Franceschini
di Angela Mauro


È seduta in prima fila già dalle quattro del pomeriggio, quando fuori dal Lingotto la "gente normale" fa la fila, mentre politici e giornalisti entrano dall'ingresso riservato. Impossibile non notarla: un capo coperto da un velo, alle kermesse di politica, fa scena, di sicuro. Non è islamica, tanto meno una sposa, ma una religiosa e nemmeno di poco conto. Lei è suor Giuliana Galli, coordinatrice del volontariato al Cottolengo, esempio in carne e ossa della "sintesi" veltroniana tra l'integralismo religioso e il laicismo esasperato. Spiega di essere stata invitata dal sindaco Sergio Chiamparino e non nasconde tutta la sua curiosità per questo ‘nuovo' leader venuto da Roma. "Non è curiosità, è empatia", corregge. "Sono qui per ascoltare, voglio sapere cosa vuol fare della ‘polis' italiana che è fatta di giovani, di anziani, di deboli…". Sì, ma Veltroni le piace? "Mi piace, sento in lui una serie di interessi… come dire? Umani. L'ho visto in azione negli slums di Nairobi e non ci sto a trattare da perdente chi accetta di muoversi in ambienti non suoi. E poi l'ho visto a Narni, al festival del cinema: un politico che si occupa di cinema!". Ma era ministro per i Beni Culturali, le si fa notare: sorella, anche Rutelli lo è adesso… Suor Giuliana non si lascia ingannare, nemmeno sul Partito Democratico che liquida con quattro speranze, anzi virtù: "Prudenza, giustizia, forza, temperanza". E via, torna alle prime file che nel frattempo si sono riempite di politici e personaggi noti. Oltre al sindaco di Torino, Chiamparino, c'è Marta Vincenzi, neo eletta a Genova, c'è il presidente della provincia di Milano Filippo Penati, c'è Gibelli ma manca Cofferati, e poi è presente il presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo Enrico Salza, il parlamentare dell'Ulivo Franco De Benedetti, e due big (solo loro) del Partito Democratico: Piero Fassino (che ha già avuto modo di parlottare con Walter alla partenza dalla capitale in aeroporto a Fiumicino) e Dario Franceschini (indicato come il futuro vice di Veltroni alla guida del Pd). E poi una marea di giornalisti, cameramen e fotografi, quelli locali e quelli arrivati dalla capitale con il sindaco Walter: si aspettavano un ambiente senza posti riservati, popolare, senza inviti ai vip di riguardo. Invece no: le poltronissime sono prenotate e transennate, le poltrone non lo sono, ma sono poche (in totale la Sala Gialla del Lingotto fa circa 600 posti) e accolgono solo una piccola parte della gente arrivata per assistere all'incoronazione del candidato "principe" nella competizione per la leadership del Pd e forse anche di un futuro governo di centrosinistra. Come nel teatro elisabettiano, il vero popolo, i "groundlings" di Torino, stanno in piedi, con una differenza però rispetto ai tempi di Shakespeare: non sono vicini al palcoscenico, ma in un immenso spazio attiguo, che riempiono solo in piccola parte, davanti ad un maxischermo.
In Sala Gialla, l'atmosfera (pur conviviale, di quelle da feste tra amici, ambiente alla fine dei conti composto da quadri locali) è volutamente teatrale. Luci soffuse che si abbassano quando il leader prende la parola alle 17 in punto (come da programma, impeccabile, spacca il minuto). Musica di sottofondo all'inizio (tra cover dei Beatles e qualcosa di più moderno) che va in crescendo man mano che si avvicinano le 17. Luci verdi sul palco quando Walter comincia. Verdi come la moquette e come i prati delle campagne italiane immortalati nei cinque maxischermi fino ad un secondo prima della frase d'esordio: "Fare un'Italia nuova". A quel punto, sul maxischermo centrale, via alle immagini che da Torino, una dopo l'altra, mostrano una "sintesi" dei paesaggi, dei monumenti, dei volti italiani "secondo Veltroni": un gruppo di amici tutto sorriso e benessere, l'imbarazzante primo piano di due fidanzatini di un ‘paese normale', lo sguardo complice di una coppia di anziani, fino al fermo-immagine sugli occhi blu di un bambino. Il leader, riprodotto sugli schermi laterali, parla a braccio per un'ora e mezza, mai un'occhiata al leggìo, due mini-microfoni sistemati sulla giacca, uno sguardo a sinistra, uno a destra, uno al centro, per incrociare gli occhi e l'attenzione di tutti (proprio tutti: sul palco c'è anche chi pensa a ‘tradurre' il discorso per i non udenti). Nessuna sbavatura, nessun tono da comizio. E il dubbio emerge: avrà un gobbo davanti a sé come si usa a teatro e in tv? Ci si fa strada per guardare: no, in linea d'aria c'è Fassino.
La platea lo ascolta in un silenzio che si interrompe solo per brevi applausi: evidentemente di rito quando il leader nomina e ringrazia Prodi e Rutelli, più calorosi per Fassino (accolto con entusiasmo anche all'arrivo nella sua Torino), spontanei e sentiti quando il tema diventa la sicurezza, il referendum sulla legge elettorale, la riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, il "basta con la politica dei veleni", ma anche il "sì alla Tav". E' prevalentemente ascolto, però. La vera acclamazione avviene nella sala attigua perché il vero popolo sta lì e Walter lo sa. Tant'è vero che, alla fine del discorso, sulle note di una versione aggiornata della ormai 40enne "A whiter shade of pale", non si esime dall'affrontare il breve ma faticoso tragitto (spaventosa ressa di giornalisti e bodyguard) per andare a salutarli. E' qui che c'è il calore. I ‘groundlings' urlano: "Walter, Walter!". Lui riesce a trovare un podio improvvisato e diventa tribuno solo per loro: "Il Partito Democratico, una forza, una necessità…". Sono ‘groundlings' anche i giovani del gruppo ‘Italia 2.0', rete chiamata così perché "come avvenuto per il web, vogliamo una nuova versione dell'Italia", spiega uno di loro, Andrea Appiano, giovane sindaco della vicina Bruino. Si erano sistemati fuori dalla Sala Gialla con un banchetto: volantini e relativo cd rom sistemati sul collo di bottigliette di acqua minerale, richiamo ad un noto brano dei Police. E infatti: "Vogliamo consegnare il nostro ‘message in a bottle' a Walter: non vogliamo subire il Partito Democratico", dice ancora Andrea, sicuro di incrociare la sensibilità politica (e quella musicale) del sindaco-leader. Chissà se ci sono riusciti, magari ci ha pensato lui ad intercettarli.

Liberazione 28.6.07
L'Evento, l'ultimo colpo grosso firmato Walterino
Ecco a voi Lui, la "risorsa". Biografia di un buonista d'acciaio
di Maria R. Calderoni


Non è certo La Madonna Apparsa Ai Pastorelli, ma il colpo grosso gli è riuscito ancora una volta: fare di se stesso un Evento, arte in cui - tutti glielo riconoscono - è maestro. Perchè, se la sua discesa in campo era, se non annunciata, però sussurrata e chiacchierata da tempo nel gossip giornalistico, nessuno si aspettava che avvenisse così fragorosamente, se due-tre pagine sul Corriere della Sera vi sembran poche. Dicono che a Bruxelles, dove era in trasferta, Prodi sia sobbalzato (e anche un po' impallidito), sorbole, mica se l'aspettava, così in fretta, così grosso. Walter Veltroni.
Walterino, come era chiamato a tempi della Fgci romana. Ancora una volta, come nel '96, "avallato" in pubblico da D'Alema: ecco a voi Veltroni la "risorsa". Una «brava persona» che «non ha mai vestito da comunista», ma che, da amante del cinema qual è - ha commentato a caldo Marcello Dell'Utri, «conosce bene gli effetti speciali». Ecco a voi Veltroni la "magia". A guardar bene il clamore mediatico intorno a lui lievita come panna ben frullata, la celebre galassia Veltroni. Le pagine sono piene più che delle sue gesta, dei suoi amici, sostenitori, laudatori e fan, tutti pazzi per lui. Da Sabrina Ferilli a Woody Allen, da Scola a Fuksass, da Piovani a Lando Buzzanca, e ancora ancora. Una claque formidabile, per Carlo De Benedetti, tessera Pd numero 1, «un leader vero»; per Fausto Bertinotti «un nome fortemente innovativo». E anche lo chiamano astro, icona, salvatore, spiazzante, forte, anche «circondato da un alone di popolarità e di attesa». Tutto un osanna scoppiato all'improvviso, ma con raffinata regia occulta, al momento giusto, proprio mentre il già celebrato "fattore c" sembra avere definitivamente abbandonato «il povero Prodi». Walterino. OrzoBimbo, per Cossiga. Cortese Rospetto, per la Rossanda ai tempi del dopo Dini. Anche Buonista dai denti d'acciaio, come qualcuno lo ha definito ad Orvieto, in un convegno della Sinistra alternativa.
Classe 1955, famiglia borghese intellettuale, Walter Veltroni ha raccontato in uno dei suoi libri che da ragazzo sognava di fare il regista, di dedicarsi al cinema. Ma poi sulla sua strada ha incontrato il Pci e lì è rimasto. Per un bel po', diciamo per oltre vent'anni, fino alla Svolta; comunque abbastanza per farci un bel pezzo della sua gran carriera. Giovanissimo è nella segreteria della Fgci romana, giovanissimo è eletto consigliere comunale, a 32 anni è responsabile nazionale della Stampa e Propaganda. Nel "Partito più Partito che c'è" trova anche la donna della sua vita: Flavia, generone comunista, con la quale è sposato da oltre vent'anni e ha avuto due figlie. Convinto adepto di Occhetto e assertore entusiasta della Svolta, nel Pds percorre un altro bel pezzo del suo cursus, costruendo con implacabile lucidità e accortezza la costruzione del proprio personaggio, l'immagine di sè. Riuscendoci alla grande.
Sarà un memorabile direttore dell'organo del Partito, l'Unità (per via delle figurine Panini, i film e i libri venduti col giornale), poi vicepresidente del Consiglio, poi segretario del partito, poi avrà lo scranno di sindaco. Sempre utilizzando il famoso "metodo veltroniano", quello che descrive bene Andrea Romano ("Compagni di scuola" Mondadori). Veltroni,«un politico new age, capace di elaborare il comunismo in un battito di ciglia, senza abiure e sofferenza, facendosi placidamente trasportare dalla corrente di un senso comune dove si può dre tutto e il contrario di tutto». Per esempio «affermare serenamente di non essere mai stati comunisti, secondo la sua celebre battuta, in quanto si militava in un Pci privo di comunismo». Sempre sulla stessa linea, ecco la ingegnosa invenzione di Berlinguer-Kennedy, vale a dire di «un leader insieme comunista e anticomunista. Capo di un partito comunista - scrive Walterino in un' intervista del 1978 - dove poteva benissimo sentirsi a casa chi comunista non era» (come lui, appunto). Del resto - è sempre la stessa intervista - «nella mia formazione, l'Urss era nemica e gli Stati Uniti erano la cultura di riferimento». E' Veltroni fin da piccolo. E' appena approdato in un ruolo di direzione nella Fgci romana, ma già spicca nell'esercizio di quella manipolazione delle immagini che diventerà il suo asso vincente. «Come nel 1973, quando - racconta sempre Andrea Romano - si cimenta forse per la prima volta da un palco di partito con il tema delle politiche radiotelevisive, mescolando acrobaticamente Lenin e Lewis Carroll, le Pantere Nere e Alice».
Veltroni per sempre. Mai senza successo. In un articolo del luglio 1994, Francesco Merlo descrive quello che secondo lui è «il topos della sua vita: sono gli altri ch giocano, ma alla fine è lui, Walter, che ha segnato tutti i gol». Grande inventore di metafore, grande cacciatore di consenso via comunicazione, con D'Alema e Fassino ha già l'imprinting degli "splendidi quarantenni" che, dopo il crollo del Muro si troveranno in mano tutto il potere del Partito (e il segretario di transizione, l'intellettuale gentiluomo Alessandro Natta, verrà sbrigativamente e rudemente messo fuori, da quel fortissimo cast di giovani, Occhetto in testa. Quando a 32 anni, Walterino viene nominato alla guida della commissione Stampa e Propaganda di Botteghe Oscure, è già un personaggio pubblico estremamente popolare: dentro, ma sopratutto fuori dal partito. Mica per niente due anni dopo, allorché, per la prima volta il comitato centrale decide di votare direzione e segreteria a scrutinio segreto, sorpresa: Walterino ottiene un incredibile successo: 249 voti su 269 per la direzione e 256 per la segreteria. «I trentenni del 1986 avevano sconfitto i trentenni del 1956». E, «tra i maggiorenti della nuova leva, Petruccioli, Fassino, Livia Turco, D'Alema, Mussi», Veltroni ha il suo posto, straordinariamente a suo agio in quell'era di «parole al quadrato» che si apre nel partito, tramortito dall'angoscia e dal trauma dell'89. Tanto a suo agio, che riesce ad attraversare la tempesta in un soffio, senza uno strappo. E' solo uno "attrezzato" come lui, che può uscire «con la leggerezza di un ballerino dalla serie di tre sconfitte successive collezionate dai Democratici di sinistra durante la sua segreteria: le elezioni politiche del 1999, le regionali del 2000 e le politiche del 2001». Chiunque ne sarebbe stato schiantato, non lui.
Veltroni dei miracoli. Veltroni la risorsa.

Liberazione 28.6.07
Intervista al responsabile Giustizia Prc che ha guidato la commissione di riforma del codice penale:
«La lunghezza dei processi? Dipende esclusivamente da una macchina che non funziona»
Pisapia: «Abolire l'ergastolo non significa aiutare i boss»
D.V.


«Non è ammissibile attendere non meno di otto mesi solo per passare gli atti dall'aula di primo grado a quella dell'appello». Reduce dal titanico lavoro di riforma del codice penale - abolizione dell'ergastolo, introduzione di nuovi sistemi diretti ad assicurare la certezza e l'effettività delle sanzioni, ampia depenalizzazione, forti limitazioni alla discrezionalità dei giudici, riduzione dei tempi dei giudizi - Giuliano Pisapia interviene sulla lunghezza dei processi che si celebrano nelle aule di giustizia italiane. Un'idea chiara la sua: la mancanza della «ragionevole durata del processo» pone una questione di rispetto dei diritti costituzionali e da armi a chi brandisce e invoca meno garanzie per l'imputato.

Troppo garantismo allunga i processi nelle aule di giustizia?
L'indagine presentata dall'Eurispes è chiarissima. La lunghezza dai processi non deriva da cavilli che non esistono, nè dal sacrosanto rispetto delle garanzie, ma solo ed esclusivamente da una macchina che non funziona e su cui si dovrebbe incentrare l'interesse del governo. Basti considerare che bisogna attendere almeno otto mesi per far passare gli atti dell'aula processo di primo grado all'aula del processo di appello. Inammissibile in uno stato di diritto. Senza contare che tutto questo alimenta i pretesti usati in modo strumentale per attaccare le garanzie degli imputati.

La riforma del codice penale potrebbe aiutare a snellire?
Io credo che depenalizzare alcuni reati oppure affidarsi ad altri istituti quali la "messa in prova", che permette di verificare senza passare per i tre gradi di giudizio ma attraverso strumenti che possono accertare la non reiterazione del reato, siano strumenti utili. Senza contare che nella gran parte dei casi passano i tre gradi di giustizia e si arriva ad una sentenza assolutoria, oppure, nel migliore dei casi, ad una pena che in ogni caso non viene scontata perchè ritenuta inutile. Un altro strumento potrebbe essere dato dal principio dell'irrilevanza del fatto, ovvero quando il comportamento è occasionale e permette di adottare una formula che in altri ordinamenti ha funzionato. Ovviamente se poi il soggetto dovesse reiterare il reato, in quel caso la punizione sarebbe tradizionale. Poi bisogna puntare alla pena equa, una pena che può "soddisfare" anche l'imputato che in questo modo evita di impugnare la condanna per puntare alla prescrizione, cosa che accade nella gran parte delle impugnazioni. Insomma, possiamo immaginare tre punti fondamentali: rilevanza del fatto, messa in prova per i reati non gravi, pene non severe ma eque e non per forza di cosa detentive.

Nella sua riforma del codice penale si parla d abolizione dell'istituto dell'ergastolo. Nel mondo dell'antimafia c'è una certa diffusa preoccupazione...
Purtroppo in un progetto di codice composto da 68 articoli, si è preso un singolo comma di un articolo. Non si è tenuto conto del resto insomma. Vorrei specificare che quel comma è supportato per esempio dalla confisca dei beni mafiosi che se approvata sarebbe ci porrebbe all'avanguardia rispetto a tutti gli stati moderni. Vorrei inoltre ricordare che l'ergastolo esiste da sempre e la mafia non è stata debellata. Tutti concordano sul fatto che si deve incidere sul problema di beni della criminalità organizzata. Se ci soffermiamo su mezzo articolo non si capisce l'impostazione generale e la filosofia dell'intero progetto di riforma. Detto questo è evidente che la mia è un proposta tecnico-giuridica su cui dovrà esprimersi il Parlamento. A questo punto mi auguro che questo non divenga il pretesto per affossare tutta l'ipotesi di riforma. Vorrei infine sottolineare che l'altro giorno, a Siracusa, si sono riuniti molti professori, molti giuristi che hanno trovato utili gli strumenti offerti dal nuovo codice per la lotta alla mafia.

il manifesto 28.6.07
L'America fatta in casa
di Gabriele Polo


La «casa per l'Italia nuova» ieri proposta da Walter Veltroni trova i suoi natali in un «casa vuota»: il Lingotto di Torino, già luogo del conflitto di classe e dell'identità operaia, ora centro commercial-culturale che diffonde pillole di sapere in forma di mercato. La scelta del luogo non è stata casuale: non tanto il ritorno nella sede del congresso diessino dell'I care veltroniano, ma soprattutto il contrappasso tra due mondi, dal '900 delle grandi contrapposizioni che nutrivano la politica e cambiavano - nel bene o nel male - il mondo, al nuovo secolo dell'amministrazione più o meno saggia, più o meno onesta, dell'esistente; dal protagonsimo delle aggregazioni di massa al governo di leadership sempre più personalizzate.
Il tono è stato in sintonia con il luogo: non poteva ispirare sogni, semmai il pragmatismo di un sindaco che si è già fatto premier, incoronato dal collasso della rappresentanza che trasforma la democrazia in urgente decisionismo. Tono un po' inedito per chi banalizza il sindaco di Roma nell'etichetta «buonista», del tutto coerente con l'esperienza amministrativa di un politico capace di contrattare con i potenti e tenere a bada gli scontenti. Cercando di non scontrarsi con alcuno, se non - chiaramente - con i peggiori pantani del berlusconismo, indicando quattro priorità - ambiente, sicurezza, patto tra generazioni, più il superamento della «politica dei veleni» - profondamente percepite dal senso comune e perciò popolari, ma sufficientemente aperte da poter tenere assieme, ad esempio, le merci da far viaggiare velocemente su Tav con la necessità di cambiare i consumi energetici; o abbastanza generiche da cancellare i conflitti del lavoro per invitare a un nuovo patto tra generazioni come soluzione alla devastante precarietà odierna.
Walter Veltroni è sicuramente l'uomo giusto per un'operazione del genere, per affrontare alcune emergenze (sociali e politiche) senza trasformarle in conflitto generalizzato e affidando il tutto alle capacità di mediazione del leader. La traduzione italiana del modello americano (quello kennedyano, non certo quello bushista), potrà avere un futuro se saprà sfuggire dai tanti agguati che gli apparati e le brurocrazie dei partiti gli tenderanno. Se l'attuale governo - da cui Veltroni non può prescindere - non devasterà con la sua litigiosità il futuro di un partito ideato solo per essere di governo. In quel caso sarà un elemento di chiarificazione del quadro politico e diventerà centrale (in senso proprio) per ogni tipo di mediazione, istituzionale e sociale. E potrà reggere ecumenicamente almeno fino a quando, alla sua sinistra, i nuovi conflitti di classe sapranno darsi una prospettiva generale, anche in versione di sponda politica. Cosa che stenta a vedere la luce. Ma questa non è certo responsabilità di Walter Veltroni.

Corriere della Sera 19.5.07
E Bertinotti cancella il comunismo dalla sua rivista
Secondo Fausto Bertinotti «bisogna avere il coraggio di rischiare».
E lui rischia, toglie dal proprio vocabolario il termine «comunismo», gli dice addio
di Francesco Verderami


La svolta nelle bozze della sua rivista, «Alternative per il socialismo»: Bertinotti abbandona la parola «comunismo» e la sostituisce con «socialismo», «il possibile approdo» della sinistra alternativa

Bertinotti si accomiata dalla parola «comunismo», l'abbandona, non la cita più, e la sostituisce con «socialismo», definito «il possibile approdo» della sinistra alternativa. Per ora la svolta sta nelle bozze della sua rivista,
Alternative per il socialismo, ma è chiaro che l'orizzonte è più ambizioso, che prima o poi a parlare non sarà più il «direttore» Bertinotti, ma il leader storico di Rifondazione. Solo che per arrivare al «possibile approdo» non vuole usare scorciatoie, «è necessaria un'operazione culturale che stia distante dalla quotidianità politica», ha spiegato il presidente della Camera alla sua redazione: «Altrimenti già lo vedo lo scontro tra apparati, la diatriba sugli organismi dirigenti... No, il progetto farebbe la fine del Partito democratico».
Se Bertinotti ha deciso di fare il primo «strappo» attraverso le pagine del suo bimestrale, è perché vuole preparare il gruppo dirigente al distacco da una simbologia che costringe l'area radicale in un recinto angusto.
Solo così potrà sfidare il futuro Pd, «ambire anche a superarlo nei consensi». Mentre progetta l'«Epinay» della sinistra alternativa, racconta di quando «poco più che ventenne fui chiamato a scrivere un pezzo sull'unità sindacale per la rivista di Lelio Basso, Problemi del socialismo». Non a caso il nome del nuovo periodico — che uscirà il primo giugno da Editori Riuniti — incrocia da una parte l'esperienza di Alternative,
foglio culturale del Prc, e dall'altra richiama lo storico giornale di uno dei fondatori del Psiup.
Parla del futuro usando insegnamenti del passato: «Noi siamo per il socialismo di sinistra, non saremo mai socialisti di sinistra». Ragiona sulla «crisi contemporanea della politica italiana» e la misura accostandola alla Francia, «perché la sera in cui ha vinto Nicolas Sarkozy, vedendo le immagini di place de la Concorde in tv, mi è venuta la pelle d'oca»: «Avete notato il suo gesto, la mano tesa a quella parte del Paese che non l'aveva votato e che era stata quindi sconfitta? Lì c'era il senso dello Stato». E certo nessuno a sinistra potrà dubitare di Bertinotti, «però ci sarà un motivo se Max Gallo è rimasto affascinato da Sarkozy».
Insomma, in Francia c'è stata una rivoluzione, a destra. Lui vorrebbe farne una in Italia, a sinistra. Comincia con carta e penna, scrive dell'Europa sfruttandola come metafora. È vero, il presidente della Camera si sofferma sul «vuoto politico» nel Vecchio Continente, ma la sovrapposizione con i problemi nazionali è evidente. Accenna ai «conflitti di sistema», e scorge i limiti della rivolta nel 2005 delle banlieues francesi, «perché questo genere di proteste blocca la capacità degli oppressi di organizzarsi». Poi però, quando nella critica al capitalismo attacca «le classi dirigenti e gli economisti» che «badano solo alla crescita del Pil», si scorge un riferimento alla polemica italiana sul tesoretto, che sta dilaniando il centrosinistra.
Come non bastasse, sostenendo che «la sfida radicale su lavoro e diritti sociali riguarda direttamente la politica e non solo il sindacato», Bertinotti avvisa che «per entrambi è in causa la loro stessa esistenza». Ed ecco che il caso italiano prende il sopravvento, sta nel passaggio in cui il «direttore» descrive l'avvento di «tentazioni neopopuliste», i processi di «spettacolarizzazione e personalizzazione» che «marginalizzano i partiti o li riducono a mero ruolo di supporto», mentre «avanza la centralità dei governi». Aveva promesso che sarebbe stato «per nulla ortodosso», e infatti non scarica solo sulla destra la responsabilità dell'antipolitica: «Anche a sinistra si manifesta una crescente propensione a mutarsi in antipolitica». Bertinotti non la demonizza però, dice che «vista la profondità della crisi, la rinascita della politica non potrà fare a meno di una certa dose di antipolitica».
Ma a fronte di una «mutazione» della sinistra socialdemocratica, l'unica risposta dell'area radicale «per colmare il vuoto» sarà dare «un'adeguata organizzazione ai movimenti»: «Come sinistra alternativa in questi anni abbiamo investito nel movimento. Un'opzione che per un po' ha consentito di ridurre il vuoto della politica e forse anche il gap tra la società e la politica. Ora però l'andamento si è fatto più carsico», anche se «i movimenti non si sono esauriti». Ma questo «magma non può costituirsi in alternativa se non incontra la politica e un'adeguata organizzazione». Serve pertanto «un punto di partenza», che Bertinotti vede nel richiamo alla «questione del socialismo».
Ecco lo «strappo». E sarà pure il «direttore» a scrivere, ma sembra già di sentire il discorso che verrà del leader storico del Prc. Bertinotti per ora si limita a fare i complimenti alla sua redazione: «Siamo riusciti a non citare mai Romano Prodi e Silvio Berlusconi». Se per questo, non è stato mai citato nemmeno il termine «comunismo». «Bene così, dobbiamo guardare avanti».