Il Piddì verso Montezemolo
Allarme rosso per la sinistra
Il discorso di Veltroni pone il partito fra i moderati
di Ritanna Armeni
Non ci aspettavamo che Veltroni facesse un discorso di sinistra, che collocasse quindi il nascente Pd, anche elettoralmente oltre che culturalmente, nella tradizione e nello spazio politico della sinistra. E, tuttavia siamo rimasti sorpresi perché il discorso del candidato leader sul futuro partito democratico è stato talmente netto da provocare anche in chi si aspettava più o meno quei contenuti una reazione istintiva e immediata: sì in questo paese ora è davvero urgente far nascere una forte sinistra perché se questo non avviene in tempi brevi, le conseguenze potrebbero essere molto serie. Nei prossimi anni (e non nei prossimi venti, ma nei prossimi due) potremmo assistere non solo al suo indebolimento, ma alla sua emarginazione nella società e alla sua irrilevanza nel quadro politico.
Questa affermazione non vuole essere né allarmistica, né vittimistica. Essa muove dalla constatazione che il discorso del futuro leader del partito democratico e del presumibile nuovo candidato premier colloca il Pd in modo organico tutto all'interno dell'area moderata attribuendo nei fatti ai temi classici della cultura politica della sinistra o un significato negativo o un senso al più evocativo.
Walter Veltroni questa volta non si è limitato a raccontare i suoi sogni per un mondo migliore, ma ha cercato di dare una risposta ai problemi e questa risposta è stata moderata, americana, corretta, come è prassi anche del liberalismo, da un atteggiamento di solidarietà e compassione, un richiamo alla dirittura morale e al senso di responsabilità della politica. Stefano Bocconetti nell'articolo di ieri ne ha fatto un'analisi puntuale e obiettiva. Ma la controprova di quello che Bocconetti sosteneva ieri e che questo articolo sostiene oggi sta nelle reazioni e nei commenti al discorso di Veltroni dell'area moderata e borghese del paese. Le reazioni positive del presidente della Confindustria che si è profuso in elogi per una relazione che «è entrata nel merito dei problemi sollevati dalla Confidustria» fanno il paio con il giudizio del Corriere della sera.
Ieri, nell'editoriale del vicedirettore Dario Di Vico, ha elogiato gli attacchi che il futuro capo del partito democratico ha fatto alla sinistra «che non fa costruire la Tav, che difende solo gli occupati e lascia al loro destino i giovani, che preferisce lottare contro la ricchezza piuttosto che contro la povertà, che gode quanto più la pressione fiscale è alta e si ritrae quando occorre tutelare la sicurezza dei cittadini».
Di Vico naturalmente fa una caricatura della sinistra a suo uso e consumo, che si potrebbe commentare con molta ironia, qualche numero e qualche consiglio di buone letture, ma non è questo l'importante. Il punto è un altro. Se è vero che questa è l'idea della sinistra che suscita Walter Veltroni all'editorialista, se a partire da questo giudizio si arriva ad un approdo moderato, benedetto dai maggiori rappresentanti del padronato, e dal "partito" che si riconosce nel Corriere della sera, quali scenari si aprono nella politica italiana? Quale futuro si può prevedere per il governo Prodi? Quali conseguenze possono esserci nell'Unione, cioè nella coalizione che sostiene il governo? Domande alle quali non è possibile dare una risposta oggi, ma che sono di strettissima attualità e rispetto alle quali non si può far finta di niente.
I tempi, infatti, ancora una volta sono strettissimi ed esigono risposte rapide. Se è vero, come molti osservatori sostengono, che con il discorso di Veltroni è cominciato il conto alla rovescia per il governo Prodi; se è vero che il progetto politico del probabile futuro premier costituisce una virata a destra rispetto al programma dell'Unione, che cosa avverrà di quella complessa e delicata alleanza fra sinistra moderata e sinistra radicale che finora ha sostenuto il governo? So bene che molti ne auspicano la conclusione e vedono nella emarginazione della sinistra radicale e di quelli che vengono definiti i suoi "ricatti" finalmente la quadratura del cerchio nella complessa vicenda della governabilità italiana. Finalmente potrebbero farsi una riforma elettorale presidenziale, una controriforma delle pensioni, una riduzione compassionevole e moderata della precarietà, un taglio come si deve alla spesa sociale. Finalmente si potrebbe assestare un bel colpo a questi sindacati che si ostinano a difendere i lavoratori e i pensionati. E continuare a dire tante belle parole sull'ecologia e senza paura di smentirsi altrettante belle parole sulla Tav e sulle grandi opere di acciaio e cemento. Si potrebbe dare un sostegno ai Dico, ma senza esagerare con la laicità e alla famiglia, che rimane importantissima, sperando che la Chiesa di Ratzinger non infierisca, altrimenti sono guai.
Ma davvero tutto questo potrebbe farsi? Ne sono proprio sicuri quelli che ieri hanno applaudito Walter Veltroni? Alcuni dubbi potrebbero esserci. Un dubbio si chiama sinistra, quella sinistra ancora divisa, ma che anche in questi ultimi giorni, è riuscita a procedere unita, a spostare significativamente sulle pensioni la posizione del governo e a sostenere la lotta del sindacato. Se riesce a fare un passo avanti, se riesce abbandonando pregiudizi e rendite di posizione a ricostruire la sua esistenza nel nuovo quadro politico che si sta delineando non solo salverà gli interessi dei lavoratori e delle classi meno abbienti, ma salverà sé stessa. Il discorso di Walter Veltroni, il suo spostamento nell'area moderata, ha avuto il merito di renderlo ancora più chiaro.
Liberazione 29.6.07
Il presidente della Camera: con la discesa in campo del sindaco di Roma «nasce la quarta via», la guardiamo con «interesse ed esternità»
Il segretario del Prc Giordano: «Lavoriamo ad una soggettività unitaria. Entro due settimane ci si riunisca tutti» e lancia l'idea di liste comuni nel 2008
Bertinotti: «C'è un asse Veltroni-Royal. Serve una sinistra unitaria e plurale»
di Angela Mauro
Con Veltroni in campo, è «ancora più forte il problema della costruzione di una sinistra di alternativa, plurale e unitaria». All'indomani dell'outing del sindaco di Roma al Lingotto di Torino, Fausto Bertinotti ribatte su quelle che, a suo avviso, sono le urgenze delle forze che stanno a sinistra del Partito Democratico. Il presidente della Camera ragiona sugli scenari politici in rapida evoluzione, dopo l'avvio del percorso di Ds e Margherita verso il Pd, la scissione di Sinistra Democratica dalla Quercia, il cammino intrapreso da Rifondazione nella Sinistra Europea, l'esperienza del governo Prodi e, ora, la "corsa" (in netto vantaggio) di Walter Veltroni verso la guida del Partito Democratico e, presumibilmente, anche verso quella di un futuro esecutivo di centrosinistra. In particolare, l'ultimo dei fattori elencati introduce una novità nello scenario non solo italiano, ma della intera «Europa latina», dice Bertinotti. Walter come Ségolène, è la riflessione del presidente della Camera, il quale vede, nella coppia, gli eredi di un altro duetto molto omogeneo: Blair e Schroeder. «La Terza Via, quella cultura liberal sociale che vede il suo esaurimento nel mondo anglosassone, rinasce qui, lungo un'asse franco-italiano e diventa Quarta Via», afferma Bertinotti. Lo stampo è lo stesso: la Quarta Via non cambia i contenuti della Terza, ma si manifesta con un «involucro modificato». Sia Royal che Veltroni, infatti, continua il presidente della Camera, operano su una «modifica dei partiti dai quali provengono». In Francia, la socialista Ségolène ha tenuto in buon conto le possibili alleanze con il centro di Bayrou; in Italia, Veltroni è il candidato forte per la leadership di un nuovo soggetto, il Pd, nato dalla fusione di Ds e Dl e dunque dalla conclusione delle opzioni politiche che separatamente rappresentavano. La Quarta Via, inoltre, è caratterizzata da un elemento di «forte personalizzazione della politica» e presenta connotati diversi in fatto di «linguaggio, generazione dei leader, uso della loro immagine sui media».
Di fronte a tutto questo, insiste Bertinotti, la sinistra di alternativa, che è «esterna» alla cultura di Ségolène e di Veltroni, ha la necessità di costruire un «profilo unitario e plurale». Come guardare ai due nuovi fenomeni del panorama politico? «Con interesse ed esternità», risponde il presidente della Camera, per dire che «insieme si può stare, ma la sinistra di alternativa è un'altra cosa rispetto a loro».
Focus sull'Italia. La possibilità di alleanze elettorali e di governo con Veltroni va verificata. Bertinotti rimane dell'idea (già formulata a metà giugno in occasione della nascita della Die Linke tedesca) che «non sta scritto da nessuna parte che la sinistra debba stare al governo, ma se ci sta, se ci sono le condizioni per cui possa starci, è meglio».
Per Bertinotti, il punto nevralgico è accettare «la sfida per l'egemonia». Sia chiaro: con Blair-Schroeder o con Veltroni-Royal, «i due filoni principali della cultura politica restano gli stessi. Da una parte, la sinistra riformista, dall'altra quella di alternativa». Tertium non datur. Il quadro, è il ragionamento, non offre spazi per terze opzioni, come quella rappresentata da una eventuale Costituente socialista, cui tengono in diversi, anche all'interno di quelle forze che si collocano a sinistra del Partito Democratico (Angius per esempio non fa mistero della propria collocazione in Sd, nel socialismo europeo, ma nè con Bertinotti, nè con Veltroni).
Il "tifone Walter" ispira riflessioni a sinistra. Il segretario del Prc Franco Giordano lancia la sua proposta a Sd, Pdci e Verdi: «Liste unitarie alle prossime amministrative». Giordano cita gli esempi di Taranto, Gorizia, L'Aquila nella tornata elettorale di alcune settimane fa. «Quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità - dice - noi non temiamo rivali, neanche quando abbiamo contro il Pd». Per riuscire, però, è necessario «far lievitare un processo reale, di popolo, far maturare le condizioni nei territori». Nel contempo, «dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno o le faccia diventare un freno», continua il segretario di Rc. E lancia l'altra proposta: «Entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati interessati, associazionismo di base, movimenti, per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista».
E' d'accordo Paolo Cento dei Verdi. A maggior ragione nell'era Veltroni, spiega, «dobbiamo produrre un fatto politico nuovo a sinistra e accelerare sulla costruzione di un polo arcobaleno, antiliberista e pacifista». La proposta d'azione del sottosegretario allo Sviluppo Economico parte dal «coordinamento nazionale, pensato da Giordano», per farne un laboratorio che approdi a una «costituente federalista delle sinistre». Ma attenzione: «Veltroni sarà leader del Pd e molto probabilmente anche premier. Sarebbe sbagliato contrapporsi, con lui bisogna dialogare perchè il prossimo governo si regga su due gambe: il Pd e il polo di sinistra».
Competizione e interlocuzione, dunque. Perchè a sinistra, anche dentro Rifondazione, un'altra esperienza di governo viene fortemente auspicata e non ci si scoraggia di fronte all'approccio spiccatamente di destra di alcuni passaggi del discorso di Veltroni (sicurezza, immigrazione). Si confida nel confronto e nell'approdo ad un programma condiviso. E' ottimista Carlo Leoni, ex diessino e veltroniano, ora in Sd: «Veltroni è persona di dialogo, non di rottura. La sinistra che dobbiamo costruire sarà alleata del Pd». Certo, per essere riconosciuti come interlocutori bisogna «costruire la sinistra in Italia». Partendo dal basso, perchè al vertice «le cose si stanno muovendo». Spiega Leoni: «Possiamo fare tutti i coordinamenti nazionali che vogliamo, ma è importante agire sul territorio, nei posti di lavoro, dare avvio a un percorso partecipato e aperto». Con di fronte un Partito Democratico guidato da Veltroni «non basta "gufare" per il loro insuccesso...».
Innegabile però che con la discesa in campo del sindaco di Roma, gli ex diessini di Sd, alle prime esperienze fuori dall'ombra della Quercia, siano al centro della curiosità mediatica e non solo. Colpisce l'appello di Giuseppe Caldarola, uscito dai Ds in contrasto con la modalità di costruzione del Pd e non confluito nell'area di Mussi, che si dice pronto («Ci sto pensando, ma Walter mi piace») a tornare alla casa madre. «All'apertura di Veltroni (che a Torino ha esplicitamente teso la mano agli ex colleghi di partito, ndr.) voglio rispondere con un'apertura e proporla anche agli amici con i quali in questi mesi ho condotto una battaglia - spiega -. Tra questi Gavino Angius, ma non solo. Anche i socialisti». Ma Leoni non ha dubbi: «Angius ha chiarito che sta nel socialismo europeo e il Pd non sta lì. Ho molta stima di Walter, ma noi abbiamo lasciato i Ds perchè contrari al Pd a prescindere da chi l'avrebbe guidato. Caldarola è libero di scegliere ciò che meglio crede, noi abbiamo già scelto». E, se non bastasse, c'è Cesare Salvi: «Sinistra e Veltroni, anzi sinistra o Veltroni: sono cose incompatibili». Quanto a future alleanze di governo: «L'accordo con Prodi è stato catastrofico perchè il governo va male», dice Salvi. Con un altro leader, «non può che andare meglio di così». E segna una distanza netta da Veltroni anche Pino Sgobio dei Comunisti Italiani: «Walter rafforzerà il Partito Democratico e il versante moderato della coalizione di centrosinistra. Noi però siamo sempre più convinti che oggigiorno non serva più la politica delle mezze misure e delle riforme morbide, ma quella delle scelte nette, chiare e decisive: il lavoro e le pensioni, ad esempio, sono per eccellenza il metro su cui il centrosinistra dovrà misurarsi».
Ma ce n'è anche un altro di campo su cui misurarsi: la legge elettorale. Veltroni è stato chiaro a Torino, lodando il modello francese. E ieri la presentazione di un disegno di legge dell'Ulivo (a firma di Anna Finocchiaro) ispirato al doppio turno d'oltralpe ha scatenato la sinistra di alternativa. «Tutto si complica nel confronto sulla riforma della legge elettorale», dice Massimo Villone, senatore di Sd. La presentazione del provvedimento all'indomani dell'appello di Veltroni «fa entrare nel confronto parlamentare la dialettica interna al Pd e questo non può produrre effetti positivi». Anche Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato, condanna «l'insistenza dell'Ulivo sul doppio turno alla francese, già bocciato dalla maggioranza delle forze politiche» e rincara sulla «campagna di An a favore del referendum». Si tratta di «segnali pessimi, di ostruzionismo mascherato per agevolare il referendum. Insistiamo sul confronto parlamentare: noi siamo per il modello tedesco».
Liberazione 29.6.07
L'orazione del Lingotto risponde all'"uomo di mezzo"
Un'Italia di mezzo che non lascerà niente al futuro
di Antonella Marrone
Lunghissimo da leggere il discorso di Veltroni. Ma è una fatica che vale la pena fare per entrare nel cuore del nuovo Partito Democratico. Un'orazione, quella del Lingotto, che non lascia dubbi, che risponde in maniera quasi ossessiva alle domande del folliniano uomo di mezzo. Enunciati con cui non si può non essere d'accordo: ammortizzatori sociali per i giovani, lotta all'evasione fiscale, uguaglianza di opportunità (il figlio dell'operaio come il figlio dell'imprenditore). Enunciati, però. Perché Veltroni non può non sapere, ad esempio, che il figlio dell'operaio e quello dell'imprenditore partiranno sempre impari in una società basata sul potere economico e sulla separazione dei generi. Quella meritocrazia che, tornata alla ribalta come panacea contro le ingiustizie sociali, fa ridere. Si fa un bel parlare di operai e precari, di donne e di quote rosa. Finché si resta così, a rimorchio della finanza, e degli imprenditori, non saranno certo il pddì e il suo nuovo leader a far cambiare le cose. Si avrà qualche tesoretto in più, più pizzardoni o ghisa in giro, ma il rischio non è quello di trasferire ai giovani, come ha detto Veltroni in uno dei passaggi più contraddittori ed inquietanti, i disastri dei conflitti degli anni Settanta, ma di trasferire niente di più di quello che ha già trasferito la terza via, ossia un modello di «riforma del capitalismo» che ha prodotto quello che è sotto gli occhi di tutti, e nessun valore. Né umano né politico. Neanche la laicità di uno Stato sovrano. Per questo non ha senso parlare di solidarietà, di patto fra generazioni. La solidarietà è un valore caro ad altre epoche, ad altre lotte. A periodi in cui il conflitto nonviolento, non si rifiutava. Per questo se da una parte non ci ha stupito la visita a Barbiana, dall'altro fa sorridere l'omaggio ad un uomo, un religioso come Don Milani che, sulla solidarietà sociale aveva fondato il proprio lavoro pedagogico, e non certo sulla falsa "meritrocrazia".
Ogni frase, ogni punto, ogni punto e virgola, del discorso di Torino, hanno un significato. E anche un po' del suo contrario. Questo spiega il gradimento al 72% (sondaggio Ipr di Repubblica.it organo ufficiale, del nascente partito) del discorso.
Difficile insomma non condividere l'ansia per il proprio paese, il desiderio di giustizia sociale, la spinta verso l'Europa. Anche lo spinoso tema della sicurezza mette d'accordo un vasto arco parlamentare e popolare: chi darebbe del razzista al padre che si preoccupa per la figlia in un quartiere che non riconosce più? Partiamo proprio da questo punto, il quarto, ma sappiamo di poterlo dire, non il meno importante (in americano, last but non least). Un quadro che fa riferimento sostanzialmente alla criminalità "straniera", il bisogno di inclusione (parola usata solamente due volte nel discorso e una per i giovani precari) si affianca al bisogno di mettere al sicuro la cittadinanza dai migranti. Come? Più gente in strada, dice, nel senso di forze dell'ordine, ipotizzando un decisivo salto di qualità nella tutela della sicurezza delle persone e delle imprese. Perché "sentire" la presenza fisica della divisa tranquillizza il cittadino e scoraggia il delinquente. Sarà per questo che qualche burlone sul Web lo ha chiamato il discorso di Silvio Veltroni, perché viene subito in mente lo strombazzato poliziotto di quartiere?
Andiamo avanti. Molto ambiente, è stato notato da tutti. Con qualche conoscenza del problema in termini climatici, antropologici e botanici, forse, ma con decise incertezze per quanto riguarda il discorso "economico" legato al tema e senza dubbio un vuoto sul quello che è stato l'ambientalismo nel nostro paese negli ultimi dieci anni, almeno. «Quello a cui pensiamo è un ambientalismo del si». Peccato che l'Italia più ambientalista sia piena di no. E come farà il piddì a far passare la sua politica senza entrare in conflitto (termine aborrito dal neo incoronato leader) con le tante realtà locali che prima di veder sventrare, rovinare, deturpare la propria terra da futuribili tecnologie vogliono poter dire la loro, contare, partecipare? In effetti la parola partecipazione non compare mai nel discorsone. Vaga menzione al verbo partecipare viene fatta solo quando si parla delle liste per il 14 ottobre. Partecipazione poca, dunque. Ma si tratta di una democrazia decisionista, che sa ascoltare, valutare, eppoi decidere il meglio per tutti.
Una democrazia che, a leggere il testo è stata sì buona dal dopogerra fino agli anni Sessanta, ma poi è degenerata fino a portare il paese nella palude in cui si trova oggi. Significativo ed inquietante questo passaggio: «C'è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent'anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni '70 e dell'irresponsabilità degli anni '80. Anche questo, rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai nostri figli». E più lo leggi e più ci resti male. Perché in tutto il sermone quello che poi non si salva è la storia passata. La storia passata che nessuno vuole vincolante, nessuno vuole che sia la lapide del futuro. Ma insomma una cosa buona, quella democrazia - che non sarà smagliante e moderna come quella del piddì - avrà pur fatto. Se non altro ha garantito che vicino all'odierna "Italia di mezzo", ci sia ancora un Italia a sinistra.
Liberazione 29.6.07
Al Parlamento francese Verdi-Pcf uniti in un sol gruppo
Si chiamerà "Gruppo della sinistra democratica e repubblicana" e riunirà all'Assemblea nazionale Verdi e Partito comunista francese (oltre a due eletti dei territori d'Oltremare). Un gruppo tecnico, con presidenza a rotazione, che non preannuncia una fusione delle forze politiche, ma anche una risposta alle difficoltà delle presidenziali e allo stradominio Ump-Ps alle legislative che lasciano ai comunisti meno dei 20 seggi necessari per un proprio gruppo parlamentare. I vantaggi sono tecnici (risorse, tempi di parola, ecc.). Ma anche politici. Il desiderio del partito socialista di inglobare ambientalisti e sinistra è fallito. Solo il Prg ha raggiunto il gruppo Ps. E i dissidenti di sinistra dei socialisti non hanno accettato l'idea di un gruppo più ampio di sinistra. Dentro al Pcf diverse le reazioni, per Patrick Braouezec, si tratta di «un matrimonio d'interesse che potrebbe essere la premessa a una forza d'alternativa della sinistra»; per André Gérin è invece, «una malessa», necessaria, ma indigesta.
il manifesto 29.6.07
Franco Giordano: a luglio un'assemblea aperta per lanciare la sfida al Pd moderato di Veltroni
«Sinistra unita alle urne del 2008»
Per il segretario di Rifondazione «per essere efficaci nel governo e ricostruire la sinistra bisogna procedere in modo partecipato senza negare le identità di nessuno. Il partito non si scioglie». Congresso a febbraio
di Matteo Bartocci
Accelerare l'unità a sinistra per andare insieme alle elezioni amministrative dell'anno prossimo ed essere subito più efficaci nell'azione di governo. In una pausa dopo giorni al cardiopalma di trattativa su welfare e pensioni, Franco Giordano rilancia l'esigenza di un percorso unitario e «sfida» il candidato Veltroni a misurarsi con il resto della coalizione.
Per il segretario di Rifondazione «sciogliere» il partito è un'idea del tutto «infondata»: serve invece uno scatto dal basso e di massa per arrivare a un soggetto unitario con chiunque, «partito, sindacato, associazione o movimento, si dica disponibile». Una lunga marcia che passerà, alla fine di gennaio, anche per il primo congresso di Rifondazione senza Bertinotti dal '94. «Attorno allo scalone, alla legge 30 e alla precarietà - esordisce Giordano - si è aperta una partita simbolica che dirà molto dell'identità politica e sociale di questo governo. Nessuno infatti ha ancora dimostrato che c'è un problema di compatibilità economica. Perché con l'aumento dei contributi i lavoratori dipendenti l'abbattimento dello scalone se lo sono pagato da soli. E con gli aumenti contributivi dei co.co.co si possono avviare tutele ancora più significative per i giovani. La partita quindi è compiutamente politica ma parla della vita reale di migliaia di lavoratori.
Ma la trattativa si è arenata proprio sullo scoglio più grande, lo «scalone« Maroni.
Bisogna discutere e cancellarlo subito come da programma. Lo dico nella maniera più semplice, voglio poter tornare a Mirafiori e dire in due parole: quello che abbiamo promesso abbiamo fatto. Per tutto quest'anno abbiamo sempre dovuto contrastare l'iniziativa dei poteri forti che in più modi hanno condizionato l'azione del governo. Alle aziende non sono bastati nemmeno i 10 miliardi di euro che riceveranno tra cuneo fiscale e fondi ordinari, gli imprenditori dimenticano che sono loro i veri assistiti di questo paese.
Sulla precarietà però alcuni attribuiscono proprio a Veltroni di aver speso al Lingotto parole importanti.
Beh, allora Walter potrà darci una mano a superare la legge 30. Perché altrimenti, come dire, c'è troppa distanza tra la sfera eterea dei princìpi e l'esigibilità concreta dei diritti sociali. Una distanza in cui maturano quel disincanto e disillusione che purtroppo rappresentano l'Italia di oggi. Dal suo discorso mi aspettavo posizioni diverse, la fredda ragione mi fa dire che il Pd è un partito moderato e Veltroni lo interpreta al meglio. Su alcuni punti è perfino preoccupantemente moderato.
Per esempio?
Al di là delle proclamazioni un po' algide è stridente il contrasto tra le dichiarazioni sull'ambiente e sul clima e il sì alla Tav, al carbone o ai rigassificatori. Anche sul tema della sicurezza mi pare aver scelto di assecondare la fobia ideologica delle destre che costruiscono sistematicamente il nemico per sfuggire il conflitto sociale. Vorrei dire a Walter: attenzione, così si alimenta un'identità territoriale ostile e si porta acqua al mulino di politiche securitarie.
E sul patto tra generazioni?
Così come l'ha presentato mi sembra una trita contrapposizione tra diritti degli anziani e dei dipendenti con quelli dei giovani. E' un classico del pensiero liberal-conservatore pensare di distribuire poche risorse tra lavoratori e precari, tra giovani e anziani, senza aggredire le cause della loro disuguaglianza. Bisogna redistribuire i profitti e orientare i consumi verso nuovi stili di vita, in breve, avviare a critica le forme attuali del capitalismo che producono quelle disparità e aggrediscono la natura. E' come se Walter guardasse alla «sua» Africa dimenticando l'aggressione a quel continente dell'Occidente capitalistico.
Sarà lui a candidarsi a palazzo Chigi dopo Prodi?
Intanto è il più autorevole candidato a guidare il Pd. Ma se in futuro ci saranno le condizioni per un accordo, per poter essere leader dell'Unione ci sono due passaggi inderogabili: da un lato le primarie, perché non sta scritto da nessuna parte che il candidato del Pd è anche il candidato dell'Unione, dall'altro un confronto sul programma, perché su alcuni temi le differenze ci sono e restano.
La «discesa in campo» di Veltroni non costringe anche la sinistra ad accelerare il suo travagliato percorso unitario?
A prescindere dal Pd dobbiamo comunque accelerare il processo di unità a sinistra. Dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno e non le faccia diventare un freno. Io propongo che entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati, associazioni e movimenti interessati per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista e laica. L'attivazione e la vera partecipazione delle persone è il solo modo per alimentare le speranze e l'entusiasmo di tanti e dare più efficacia all'azione nel governo. Dobbiamo farlo subito, perché se a ottobre il Pd sceglierà il suo leader noi, che abbiamo un'altra idea di partecipazione, dobbiamo rispondere con i contenuti e investire sul programma.
E' un percorso che significa sciogliere Rifondazione?
Chiunque entra in questo processo con l'idea dello scioglimento ha un'idea infondata e rischia di mettere le braghe al mondo. Non si sciolgono le identità. Se l'obiettivo è portare tutti a costruire questa nuova soggettività saranno il processo e i suoi protagonisti reali a deciderne le forme concrete. Non mi interessano precipitazioni politicistiche né voglio dare a nessuno l'alibi di chiamarsi fuori. Rifondazione, si sappia, investirà tutta se stessa e la sua innovazione politica per mettersi a disposizione di questa sinistra unitaria. Come si è visto alla nascita della Sinistra europea che è e sarà decisiva in questo percorso.
Questa accelerazione rende necessario avvicinare anche la data del congresso?
Al comitato politico nazionale di metà luglio proporrò un congresso ordinario da tenere subito, all'inizio dell'anno. Sarà un passaggio molto importante, come richiede la fase politica.
A gennaio del 2008 le amministrative saranno dietro l'angolo. La nuova sinistra si presenterà sotto un unico simbolo già alle elezioni?
E' la mia ambizione. Ma per poter essere efficaci dobbiamo far lievitare un processo reale, di popolo, e far maturare le condizioni nei territori. Perché quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità, come è successo a Taranto, a Gorizia o all'Aquila, noi non temiamo rivali. Neanche quando abbiamo contro il Pd.
il manifesto 29.6.07
Montezemolo assume Veltroni
di Alessandro Braga
Il «vento nuovo percepito dai cittadini», come lo ha definito lo stesso Walter Veltroni il giorno dopo il suo discorso al Lingotto di Torino, è stato sicuramente percepito e apprezzato dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Che ieri si è infatti affrettato a incensare il segretario «in pectore» del partito democratico.
«Dopo la nostra assemblea - ha detto Montezemolo - poche personalità politiche erano entrate nel merito delle questioni da noi sollevate. Una di queste è stato Veltroni». Adesso la speranza è che «si possa aprire una nuova stagione con una classe politica moderna e vicina ai problemi veri del paese». E possibilmente anche delle industrie.
Del resto nel suoi cento minuti di discorso torinese Veltroni non ha lesinato parole come «rischio», «concorrenza», «merito», «innovazione». Parole dolci per Montezemolo, che ha chiosato infatti la discesa in campo del sindaco capitolino con un «molto bene».
Eppure poco più di un mese fa Montezemolo aveva attaccato duramente il governo e una classe politica «che teme il cambiamento», e non osa «fare scelte coraggiose». Esternazioni che il premier Romano Prodi aveva liquidato con un semplice «si commentano da sole». Un Montezemolo che vira di centottanta gradi insomma rispetto alle sue posizioni di qualche tempo fa nei confronti del centrosinistra e si schiera tra gli estimatori di Veltroni. Che ringrazia per le parole di stima di una persona a cui è «molto affezionato» e che «ammira tantissimo». E poi si affretta a «riabbracciare» Prodi specificando che la sua candidatura non indebolirà l'esecutivo, anzi «piuttosto il contrario», dato che «il paese ha in questo momento un grande bisogno di stabilità» e si augura che «questo governo possa andare avanti tanto quanto deve». Senza specificare «quanto deve» (...).
il manifesto 29.6.07
Reportage dagli Opg L'Ospedale psichiatrico giudiziario in Sicilia. La follia nell'obiettivo
La processione del dolore
Costruito nel 1925, l'opg di Barcelloba Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, è stato il primo manicomio giudiziario del regno d'Italia. Ancora oggi è attivo, ma pur essendo ben organizzato è ormai una struttura al limite della capienza. E delle sue possibilità
di Dario Stefano Dell'Aquila
Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Sono circa le 18 quando, come ogni anno, la statua di San Francesco giunge, sulle note scomposte della banda, al limite dell'ingresso dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. La folla di colpo si arresta, ai limiti del piccolo campo d'erba, all'interno del quale una parte dei circa duecento internati attendono. A spalle, barcollante, la statua è portata nel piccolo spazio verde, tra gli internati che gridano «Viva san Francesco». La banda riprende a suonare, partono i fuochi di artificio. Padre Peppe Insana, battagliero, da sempre impegnato dalla parte degli internati, guida le operazioni, mentre la coda del corteo scruta attenta, senza mai varcare il limite del campo.
Nel frastuono che segue, mentre un internato coperto di una vecchissima e consunta giacca di velluto continua il suo pellegrinaggio per le sigarette, un altro si avvicina e racconta. Racconta di un diverbio con un compagno di cella e degli agenti che lo immobilizzano e gli dicono «Adesso ti portiamo in seconda.» «Non l'ha deciso il medico, capisci, l'hanno deciso loro, capisci?» Sorrido, sorride, una sigaretta e se ne va via. Rientriamo nel plesso principale assieme alla fiumana di internati, che a passo incerto, con abiti lisi, ritorna in cortile.
La seconda sezione
L'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona è composto da sei blocchi. Hanno in comune un cortile interno, stile liberty, dove gli internati effettuano la socialità. E' il primo Manicomio Giudiziario del regno di Italia, costruito nel 1925 e inaugurato dal ministro Alfredo Rocco in persona. E' la sola struttura ad essere nata e pensata come manicomio giudiziario.
Oggi un lungo muro di cemento la circonda, nascondendo il disegno originario. Il direttore, Nunziante Rosania, non è presente al momento della nostra visita. Ci accompagna lo psichiatra Antonio Levita, che snocciola i dati e racconta gli sforzi degli operatori. Su 187 internati, per almeno 77 vi è stata la proroga della misura di sicurezza. Circa un internato su tre è qui da più di cinque anni. Una quarantina sono qui da più di dieci anni. Quasi la metà è dentro per reati contro il patrimonio. Gli psichiatri a contratto sono sei, 1 educatore, una sessantina gli infermieri.
La seconda sezione è quella dei letti di coercizione. Quelli di Barcellona sono i primi a essere entrati in funzione nel '900. Un stanza molto grande e spoglia, ne raccoglie tre, uno di fianco all'altro. Un buco al centro per i bisogni e uno in terra, corrispondente, dove le feci vengono raccolte e lavate via. Gli unici dati disponibili ci dicono che vi sono stati 84 episodi di coercizione e che in questa struttura almeno 32 internati sono stati legati al letto di contenzione. La vicedirettrice, Carmen Salpietro, che ci ha raggiunti, spiega che è usata raramente e per poco tempo. Francesco Caruso, che ci accompagna, sfoglia il registro della sezione. Compaiono nomi con accanto l'annotazione della coercizione, ma è difficile individuare il momento della liberazione. Uno di questi nomi, Filippo L.M., si prolunga per pagine. Oltre dieci giorni di coercizione. Lo incontriamo mentre giriamo nei reparti, quasi tutti a custodia attenuata. Le condizioni dei reparti sono decenti, in alcuni casi buone in altri molto meno. Le celle arrivano anche a nove persone, di grandi dimensioni, un solo bagno. Fa eccezione la sezione nuovi giunti, celle singole, spoglie, prive di suppellettili
Filippo ha solo 21 anni, problemi di tossicodipendenza e di forti conflitti familiari. Non ha commesso reati di sangue, è figlio di una famiglia multiproblematica. Sfuggito ai servizi sociali, Filippo ha conosciuto il manicomio nel modo peggiore possibile. E' stato a letto di contenzione subito dopo il suo ingresso. Certe regole è meglio impararle da subito. Finita la fase di sospetto scherza con noi, ci segue nel nostro giro, chiede immediatamente le sigarette.
Arrivano le ragazze
Le storie che incrociamo sono ormai le stesse di questo girone infernale. Povertà, disagio e proroghe che hanno il sapore dell'infinito. Massimo, un ragazzone di circa 25 anni, si aggira come un bambino, con i pantaloni che gli cascano e un sorriso inebetito. Non riesce a tenere in mano la sigaretta che gli offriamo, ma ci segue con la stessa curiosità di un cucciolo. Dalle celle reazioni diverse, qualcuno si alza, qualcuno riconosce la delegazione («compagni, compagni..» grida un internato appena ci vede), qualcuno non alza nemmeno lo sguardo. In una cella di isolamento un internato, a torso nudo, sporge la testa, infilandola abilmente tra le sbarre. «Quando potrò uscire?». Promesse veloci e poi si fugge via. I.M. sembrava avercela fatta. Lui è uscito, è riuscito anche a sposarsi e ad avere un figlio, la cui foto campeggia al capo del letto. Poi una nuova crisi ed è rientrato, con una famiglia in più che questa volta l'aspetta.
Ora l'Opg è destinato a nuovi arrivi. Si stanno effettuando i lavori in un nuovo reparto per accogliere le circa 80 donne attualmente internate nell'Opg di Castiglione delle Stiviere, le cui sorti appaiono incerte. C'è perplessità per le capacità di una struttura che per quanto ben organizzata sembra essere ai limiti della capienza e che ha sofferto dei tagli alla sanità penitenziaria. Un trasferimento di circa 70 donne, effettuato in questi termini sembra più una deportazione che una scelta terapeutica.
Si uccide per non tornare in opg
Ma non tutti desiderano la chiusura di questi luoghi. E' una realtà sociale difficile quella di Barcellona, con povertà, disoccupazione e infiltrazioni criminali. Nella città dove fu ucciso il giornalista Beppe Alfano, dove alcune settimane fa il sindaco Candeloro Nania ha fatto il pieno di voti, regalando ad Alleanza nazionale la maggioranza in consiglio comunale, anche il manicomio è occasione di posti di lavoro.
Quando in passato si ventilò l'ipotesi di chiusura, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria chiese a gran voce che la struttura non fosse chiusa per evitare che gli oltre 140 nuclei familiari degli agenti di polizia «perfettamente inseriti nella realtà sociale, abitative e lavorativa della città» fossero trasferiti.
Nemmeno Giuseppe Contini, 48 anni, di Oristano, voleva essere trasferito. Si è impiccato alle sbarre della cella del carcere di Buoncammino (Cagliari) che lo ospitava da pochi giorni. Aveva trascorso gli ultimi cinque anni della sua vita in Opg a Barcellona. Era stato trasferito a Buoncammino per seguire le udienze del suo processo. Sabato, 9 giugno, ha deciso che non voleva essere riportato indietro e si è ucciso (ne ha dato notizia solo il quotidiano locale l'Unione Sarda).
Non a tutti è concesso di essere perfettamente inseriti.
il manifesto 29.6.07
Anversa degli Abruzzi
«Fuori di me», e oltre il muro Un viaggio nel disagio psichico
Cronache dalla malattia mentale di un fotografo e uno psichiatra
di Eleonora Martini
«Le cose normali come giocare, mangiare, ridere e piangere avevano un altro sapore, un altro senso. Solo io e l'altro me, sempre insieme e sempre due. La mia ombra e la mia anima; la mia coscienza e il mio istinto. Un solo interesse: capire, dove però forse non vi era nulla da capire. Una domanda, sempre la stessa: che ci sto a fare?». La mano si regge la fronte come a fermare i pensieri, sul viso un'espressione di sconcerto, nulla di più. L'immagine dell'uomo in maglietta gialla e azzurra, come tutte le altre di questo bellissimo viaggio nel disagio psichico compiuto dal fotografo Stefano Schirato, è sfocata, dai contorni poco nitidi. Il suo è uno sguardo obliquo, sghembo, sulla realtà, che non è mai completamente tersa, luminosa. Un punto di vista empatico con quello degli ospiti della struttura riabilitativa psichiatrica Il Castello che sorge nel piccolo centro di Anversa degli Abruzzi, dove Schirato ha trascorso molto tempo superando l'istintiva ritrosia e «resistendo alla naturale prima reazione di fuga nel riconoscere, come tutti, una parte di noi stessi nella malattia della mente». Ne è nato «Fuori di me - Out of my mind», un volume pubblicato per i tipi di Silvana Editoriale con prefazione di Ivano Fossati (p.144, 28 euro) che ci racconta i giovani utenti della comunità attraverso gli scatti del fotografo e la voce narrante dello psichiatra Michele Beatrice, «con due percorsi che si intrecciano senza accordo, né comune intenzione o comune vissuto». E che infine ci regalano la storia di «un paziente immaginario ma molto reale». Un viaggio dentro una comunità di relazioni che si libera dalle mura della struttura residenziale e si allarga a tutto il paese di Anversa che «ha accolto e condiviso la vita con i suoi ospiti, creando il contesto ideale per una rinascita sociale».
E mentre il fotografo fissava forse sulla pellicola «oltre che momenti di persone "diverse", momenti personali, interpretando proprie emozioni attraverso l'immagine di una persona malata», lo psichiatra si è fatto interprete, ha tradotto in parole gli attimi fissati dall'obiettivo, raccontando non la storia clinica dei pazienti, i loro traumi, le violenze subite, ma «il percorso emotivo, umano, sentimentale attraverso la psicosi o - meno gentilmente - attraverso quella che tutti definiscono follia».
«Fissarli negli occhi o vederli di spalle non fa differenza. Basta un particolare taglio di luce o un colore, anche solo avvertire la loro presenza, per sapere di essere stati nella loro stessa condizione innumerevoli volte - "così unici e così soli" - senza accorgercene», scrive Ivano Fossati. «Che enorme debito hanno gli artisti di tutti i tempi - ricorda il cantautore - verso quell'insondabile squilibrio che l'umanità ha bollato e prudentemente archiviato prima come follia, poi più ipocritamente come disagio mentale».
Schirato, che aveva già pubblicato nel 2003 per gli stessi editori «Né in terra né in mare», altro pregevole lavoro sul mondo dei marittimi imprigionati per anni sulle navi sequestrate nei porti e che vivono in una sorta di limbo del diritto, ritorna a guardare il mondo con gli occhi dei «fantasmi», esseri in carne ed ossa nascosti alla nostra percezione, dimenticati. «Vi ricordate quando al mio cospetto, malato e disastrato, cambiavate marciapiedi per non incrociarmi mentre urlavo, senza voce, la mia sofferenza? Non potete ricordarvi di me, ero solo uno dei tanti che ogni giorno sfiorate e che ogni giorno non vedete». «Io non sono nato in quel pozzo, ci sono finito. E in parte mi ci hanno spinto», interpreta, la voce narrante, lo sguardo dell'uomo in stivali da pescatore. Persone come tante, figli di «bella famiglia», di donne e uomini «buoni, onesti, timorati di Dio». E «più Dio era buono, più cattivo dunque ero io che non capivo e mi comportavo male. Mi dissero che così facevo piangere Gesù e io mi sentivo un verme sporco». Persone che a volte hanno saputo risalire il pozzo e uscirne. Non è stato facile ma oggi hanno una marcia in più perché conoscono quel buio profondo e non ne hanno paura. «Oggi vedo i sani benpensanti, modelli di vita per conoscenti e figli, consumatori e produttori di qualcosa, tutti intorno a un telefono per non sentirsi soli... Non mi sento diverso ma, scusatemi, nemmeno uguale».
il manifesto 29.6.07
Tra Darwin e Chomsky
Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano
In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l'ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale
di Telmo Pievani
Ogni evoluzione vitale nel linguaggio è anche una evoluzione del sentimento
Thomas Stearns Eliot
Nei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l'impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell'idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l'organizzazione dell'occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».
Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un'ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...
Due ipotesi per un rompicapo
Il problema è che l'evoluzionista non può rinunciare né all'uno né all'altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l'occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all'inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura. Darwin, per risolvere il rompicapo, nella sesta edizione dell'Origine delle specie del 1872 è costretto ad avanzare due ipotesi ad hoc: o meglio, due predizioni rischiose, e come tali eventualmente falsificabili dai suoi avversari (il che rende giustizia delle antiche pregiudiziali di alcuni epistemologi contro lo statuto di scientificità, vedi falsificabilità, della teoria dell'evoluzione).
La prima ipotesi è la seguente: se la teoria è corretta, nota Darwin, dovremmo trovare nel caso dell'occhio e degli altri «organi di estrema complessità e perfezione» una gradazione di passaggi in cui la funzione originaria viene progressivamente implementata. Ma non è tutto, aggiunge il naturalista inglese. È anche possibile (seconda ipotesi) che la selezione naturale favorisca un organo per una o più funzioni iniziali, oppure che una funzione sia assolta da più organi. In virtù di questa ridondanza, la selezione potrà successivamente «convertire» o «cooptare» una struttura per svolgere una funzione anche completamente diversa. Ne deriva l'intuizione, oggi di grande attualità, che la selezione non agisca soltanto come un ingegnere che ottimizza i suoi modelli, ma più spesso come un artigiano che rimaneggia il materiale a disposizione al variare delle circostanze. La perfezione, conclude Darwin, è sempre relativa a un contesto di pressioni selettive contingenti e non sempre l'utilità attuale di un organo o comportamento corrisponde alla sua origine storica.
Un secolo e mezzo dopo sappiamo che le due predizioni erano azzeccate. La mole schiacciante di prove morfologiche e genetiche a favore dei due processi allora ipotizzati è tale da rendere del tutto anacronistico il richiamo al «problema del 5% di un'ala» - oggi ribattezzato «problema della complessità irriducibile» - da parte dei sostenitori della dottrina teologica del «Disegno Intelligente». Eppure, l'argomento della presunta impermeabilità alla spiegazione evoluzionistica di alcune strutture particolarmente complesse non ha affascinato soltanto i creazionisti.
Ce lo ricorda, nel suo ottimo volume Perché non siamo speciali, il filosofo del linguaggio Francesco Ferretti: nel 1988, è niente meno che il linguista Noam Chomsky a farvi ricorso. In Language and Problems of Knowledge, nella convinzione che il linguaggio non abbia nessi di continuità con il resto del mondo animale, giunge alla conclusione che «nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è facile nemmeno immaginare uno sviluppo della selezione che abbia dato loro origine. Un'ala rudimentale, per esempio, non è 'utile' per il movimento, anzi è più un impedimento. Perché mai dunque deve svilupparsi quest'organo negli stati primitivi dell'evoluzione?». È una versione dell'argomento della «complessità irriducibile» del linguaggio, da cui Chomsky trarrà la profezia - non ancora abbandonata da tutti i suoi colleghi - secondo cui «la teoria dell'evoluzione ha poco da dire su questioni di tale natura».
Il linguaggio, troppo complesso per essere spiegato in termini evoluzionistici, è dunque il candidato ideale per rappresentare quella soglia qualitativa radicale che distingue l'umano dal non umano. Il libro di Ferretti illustra efficacemente il paradosso in cui si sono infilate le scienze cognitive negli ormai venti anni che ci separano dalla profezia antievoluzionista di Chomsky, la cui impostazione prevede fin dall'inizio che il linguaggio sia un'abilità specializzata e ampiamente pre-programmata, un «istinto» per dirla con Steven Pinker. L'argomento della povertà dello stimolo ha percorso una lunga strada, illuminando per differenza la ricchezza della mente umana fin dalla nascita. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi di etologia cognitiva, quanto le menti umane e di molti altri animali siano equipaggiate con articolati repertori di competenze innate e con sofisticati sistemi di selezione dei dati pertinenti. Queste «dotazioni» vengono solitamente descritte come innate, adattative e specie-specifiche: tre caratteristiche tipiche di ciò che è frutto di una storia naturale. Ma non si era detto che l'evoluzione era incompetente al riguardo?
Il paradosso antievoluzionista
Se il modello standard delle scienze sociali entra in crisi, nota Ferretti, portandosi dietro il suo relativismo linguistico, anche la tradizione chomskiana deve fare i conti con il paradosso del suo peccato originale antievoluzionista. Se ne esce, sostiene l'autore coniando uno slogan efficace, «darwinizzando Chomsky», cioè rinunciando all'idea dell'assoluta eccezionalità umana: abbiamo bisogno di una teoria del linguaggio e della mente che unisca gli elementi di continuità naturale della nostra specie e gli elementi di indiscussa specificità. L'ipotesi che Ferretti esplora al riguardo si basa su due movimenti teorici fondamentali. Il primo è quello di ricollegare la competenza linguistica all'intelligenza generale - intesa come un adattamento biologico della nostra specie condiviso con il resto del mondo naturale - a partire dal riconoscimento dello «sforzo cognitivo» che l'acquisizione del linguaggio richiede. In particolare, Ferretti recupera il ruolo dell'intelligenza generale nella capacità linguistica definendo la prima come un equilibrio adattativo fra due macrosistemi di elaborazione distinti: l'intelligenza ecologica e l'intelligenza sociale. Nel far ciò valorizza due direzioni di ricerca oggi molto feconde in ambito neuroscientifico e aderisce all'idea, alquanto plausibile, che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie - come di altre - di ancorarsi al mondo fisico (linguaggio spaziale) e al contempo al mondo sociale (pragmatica del linguaggio).
Il secondo movimento, che dovrebbe dar conto della specificità umana ed è ispirato ai lavori di Dan Sperber, consiste nell'effetto di ritorno che il linguaggio, una volta acquisito, avrebbe avuto sull'intelligenza umana, innescando la comparsa di facoltà inedite come l'autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l'intelligenza umana, in un processo di coevoluzione. Il problema di compatibilità fra questa definizione di intelligenza (con tutta la sua flessibilità, la creatività, l'improvvisazione) e la teoria modulare della mente attualmente dominante - dove i moduli sono intesi come sistemi di elaborazione automatici e dominio specifici - viene provvisoriamente aggirato considerando l'intelligenza generale come la capacità di stabilire un equilibrio adattativo tra sistemi di elaborazione in cooperazione o competizione fra loro.
Qui si nota allora un'altra torsione del ragionamento di Ferretti, che apre lo sguardo su un orizzonte teorico oggi alquanto movimentato e interessante. Nella comunità degli studiosi della mente che hanno accettato di considerare la «continuità nella specificità» dell'evoluzione umana stanno emergendo in questi anni due sensibilità differenti, che in qualche modo, sorprendentemente, attingono proprio alle due ipotesi ad hoc con le quali Darwin aveva risposto in anticipo alla profezia pessimistica di Chomsky.
Autori come Steven Pinker, Paul Bloom e Daniel Dennett sembrano prediligere la prima risposta darwiniana, centrata sull'azione ottimizzante e permeante della selezione naturale. I loro modelli evoluzionistici, per quanto diversi, si basano su categorie funzionaliste forti: specializzazione e divisione in tratti adattativi discreti. L'adattazionismo duro dell'«ingegneria inversa» di Dennett, e di gran parte della psicologia evoluzionista contemporanea, compendia perfettamente questo approccio alla spiegazione dell'architettura evoluta della mente umana: il metodo consiste nell'immaginare i problemi adattativi che i nostri antenati paleolitici avrebbero incontrato nel loro ambiente ancestrale e nel dedurre gli adattamenti psicologici che si sarebbero evoluti per risolverli. L'architetto celeste dell'intelligent design viene sostituito dal «progettista della natura: la selezione naturale», scrive Pinker. Qui Chomsky viene non soltanto «darwinizzato», ma «ultradarwinizzato».
La reazione a questo programma di ricerca assume talvolta toni esacerbati. Jerry Fodor, nel criticare l'adattazionismo dell'«ingegneria inversa», clamorosamente si spinge fino a dubitare che l'adattamento stesso sia il meccanismo attraverso cui avviene l'evoluzione, cadendo così nuovamente in un'opzione antievoluzionista. Altri, come i filosofi della biologia David Buller e John Dupré, pur evitando questi eccessi, non mancano di far notare le debolezze teoriche ed empiriche delle narrazioni selezioniste spesso infalsificabili della psicologia evoluzionista, prediligendo un darwinismo «esteso» che fa invece tesoro della seconda ipotesi proposta da Darwin, quella relativa alla sub-ottimalità dei tratti adattativi, ai vincoli strutturali e agli effetti di ridondanza che rendono le strategie evolutive più diversificate.
Verso la soluzione di un mistero
Si viene così organizzando una sensibilità darwiniana alternativa. Non è un caso che proprio Chomsky abbia co-firmato nel 2002 un celebre articolo con Marc Hauser e Tecumseh Fitch in cui l'evoluzione del linguaggio viene spiegata come una cooptazione di funzioni adattative precedenti, se non addirittura come uno «spandrel», cioè un pennacchio architettonico: la metafora che Stephen J. Gould aveva utilizzato per rappresentare i caratteri degli organismi che si sviluppano senza alcuna funzione adattativa originaria - in quanto effetti di struttura o dismissioni - e che poi vengono ingaggiati opportunisticamente dalla selezione naturale. Il nuovo quadro evoluzionistico in cui è immerso il programma minimalista dell'ultimo Chomsky si fonda sull'idea, cara a Gould, di una selezione naturale che agisce come un bricoleur in un contesto di vincoli strutturali interni, come spiega bene il giovane biolinguista di Harvard Cedric Boeckx nel suo Linguistic Minimalism del 2006.
L'ipotesi funzionalista e l'ipotesi strutturalista, avanzate congiuntamente da Darwin nel 1872 per rispondere al problema della complessità adattativa, sembrano dunque rincorrersi ancora l'un l'altra. Dal loro riverbero nascerà probabilmente una «psicologia evoluzionista di seconda generazione» che, emancipandosi dalle rigidità teoriche della prima, saprà forse avvicinarsi di un altro passo ancora al mistero delle origini delle nostre più elusive facoltà.
Per andare alle fonti: Titoli per un sentiero di lettura
Il libro di Francesco Ferretti è titolato «Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana» (Laterza, 2007). La profezia di Noam Chomsky è in «Linguaggio e problemi della conoscenza» (Il Mulino, 1991). L'esistenza di grammatiche di complessità intermedia è argomentata da Steven Pinker in «L'istinto del linguaggio» (Mondadori, 1997) e in «Come funziona la mente» (Mondadori, 2000). Il metodo dell'ingegneria inversa è esposto da Daniel Dennett in «L'idea pericolosa di Darwin» (Bollati Boringhieri, 1997). Una raccolta italiana recente sulla psicologia evoluzionista è M. Adenzato, C. Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica» (Bollati Boringhieri, 2007). Due buoni esempi di argomentazione critica sulla psicologia evoluzionistica: John Dupré, «Human Nature and the Limits of Science» (Oxford University Press, 2001); David J. Buller, «Adapting Minds» (The MIT Press, 2005). Gli articoli di Hauser, Chomsky e Fitch sull'evoluzione della facoltà del linguaggio: «The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?», in «Science», 298, pp. 1569-79; «The Evolution of Language Faculty: Clarifications and Implications», in Cognition, 97, pp. 179-210. Spunti brillanti per una darwinizzazione soft del minimalismo chomskiano si ritrovano in Cedric Boeckx, «Linguistic Minimalism» (Oxford University Press, 2006). Il darwinismo esteso è ampiamente descritto e argomentato da Stephen J. Gould in «La struttura della teoria dell'evoluzione» (Codice edizioni, 2003).
Repubblica 29.6.07
Violenta e appassionante la grande orchestra popolare
Questa sera nella cavea dell'Auditorium l'ensemble diretto da Ambrogio Sparagna
di Felice Liperi
Una grande orchestra popolare, potente come un´incontenibile performance sonora, violenta e appassionante insieme, apre questa sera come ormai tradizione l´estate musicale di "Luglio Suona Bene" nella Cavea dell´Auditorium Parco della Musica. In programma La Notte della Taranta il concerto/evento che prende ispirazione dallo spettacolo che ogni anno ad agosto nel paese di Melpignano celebra la passione del Salento per la «pizzica», il ritmo popolare che scandiva l´antico rituale di cura dal morso immaginario della tarantola. Sul palco l´Orchestra Popolare La Notte della Taranta, nella formazione che nell´edizione 2006 chiuse trionfalmente il festival salentino.
Trenta musicisti diretti dal maestro concertatore Ambrogio Sparagna, musicista ed etnomusicologo allievo del grande studioso Diego Carpitella, eseguiranno un repertorio di brani della tradizione popolare salentina con tamburelli, organetti, fiati, percussioni voci soliste e coro. Sarà questo l´ultimo concerto in cui Ambrogio Sparagna dirigerà l´ensemble perché com´è noto il musicista si dedica alla direzione dell´Orchestra Popolare Italiana fondata recentemente presso l´Auditorium. Il concerto di questa sera è una vera e propria celebrazione de La Notte della Taranta il più grande festival musicale dedicato al recupero della pizzica salentina - la musica che scandiva l´antico rituale di cura dal morso del pericoloso ragno velenoso - e alla sua fusione con altri linguaggi musicali, dalla world music al rock, dal jazz al pop.
Nato nel ‘98 su iniziativa dell´Unione dei Comuni della Grecia Salentina e dell´Istituto Diego Carpitella, ed oggi sostenuto dalla Regione Puglia e dalla Provincia di Lecce, il festival ha ospitato artisti come Stewart Copeland, Joe Zawinul, Raiz, Teresa De Sio, Daniele Sepe, i Radiodervish, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Giovanni Lindo Ferretti e Piero Pelù.
Auditorium Parco della Musica, Cavea, ore 21, biglietto unico 20 euro, tel. 0680241281 Biglietteria 199109783.